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TOLEMAICO E COPERNICANO[1]
di GALILEO GALILEI
Serenissimo Gran Duca,
la differenza che è tra gli uomini e gli
altri animali, per grandissima che ella sia, chi dicesse poter darsi poco
dissimile tra gli stessi uomini, forse non parlerebbe fuor di ragione. Qual
proporzione ha da uno a mille? e pure è proverbio vulgato, che un solo
uomo vaglia per mille, dove mille non vagliano per un solo. Tal differenza
depende dalle abilità diverse degl'intelletti, il che io riduco
all'essere o non esser filosofo: poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli,
chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comune esser del volgo, in
piú e men degno grado, come che sia vario tal nutrimento. Chi mira piú alto, si
differenzia piú altamente; e 'l volgersi al gran libro della natura, che
è 'l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli
occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d'Artefice
onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno
è piú spedito e piú degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce
l'opera e l'artifizio. La costituzione dell'universo, tra i naturali
apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se
quella, come universal contenente, in grandezza tutt'altri avanza, come regola
e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà. Però,
se a niuno toccò mai in eccesso differenziarsi nell'intelletto sopra gli
altri uomini, Tolomeo e 'l Copernico furon quelli che sí altamente lessero
s'affisarono e filosofarono nella mondana costituzione. Intorno all'opere de i
quali rigirandosi principalmente questi miei Dialoghi, non pareva doversi quei
dedicare ad altri che a Vostra Altezza; perché posandosi la lor dottrina su
questi due, ch'io stimo i maggiori ingegni che in simili speculazioni ci abbian
lasciate loro opere, per non far discapito di maggioranza, conveniva
appoggiarli al favore di Quello appo di me il maggiore, onde possan ricevere e
gloria e patrocinio. E se quei due hanno dato tanto lume al mio intendere, che
questa mia opera può dirsi loro in gran parte, ben potrà anche
dirsi di Vostr'Altezza, per la cui liberal magnificenza non solo mi s'è
dato ozio e quiete da potere scrivere, ma per mezo di suo efficace aiuto, non
mai stancatosi in onorarmi, s'è in ultimo data in luce. Accettila dunque
l'Altezza Vostra con la sua solita benignità; e se ci troverrà
cosa alcuna onde gli amatori del vero possan trar frutto di maggior cognizione
e di giovamento, riconoscala come propria di sé medesima, avvezza tanto a
giovare, che però nel suo felice dominio non ha niuno che
dell'universali angustie, che son nel mondo, ne senta alcuna che lo disturbi.
Con che pregandole prosperità, per crescer sempre in questa sua pia e
magnanima usanza, le fo umilissima reverenza.
Dell'Altezza Vostra Serenissima
Umilissimo e devotissimo servo e vassallo
GALILEO GALILEI
AL DISCRETO
LETTORE
Si promulgò a gli anni passati in Roma un
salutifero editto, che, per ovviare a' pericolosi scandoli dell'età
presente, imponeva opportuno silenzio all'opinione Pittagorica della
mobilità della Terra. Non mancò chi temerariamente asserí, quel
decreto essere stato parto non di giudizioso esame, ma di passione troppo poco
informata, e si udirono querele che consultori totalmente inesperti delle
osservazioni astronomiche non dovevano con proibizione repentina tarpar l'ale a
gl'intelletti speculativi. Non poté tacer il mio zelo in udir la
temerità di sí fatti lamenti. Giudicai, come pienamente instrutto di
quella prudentissima determinazione, comparir publicamente nel teatro del
mondo, come testimonio di sincera verità. Mi trovai allora presente in
Roma; ebbi non solo udienze, ma ancora applausi de i piú eminenti prelati di
quella Corte; né senza qualche mia antecedente informazione seguì poi la
publicazione di quel decreto. Per tanto è mio consiglio nella presente fatica
mostrare alle nazioni forestiere, che di questa materia se ne sa tanto in
Italia, e particolarmente in Roma, quanto possa mai averne imaginato la
diligenza oltramontana; e raccogliendo insieme tutte le speculazioni proprie
intorno al sistema Copernicano, far sapere che precedette la notizia di tutte
alla censura romana, e che escono da questo clima non solo i dogmi per la
salute dell'anima, ma ancora gl'ingegnosi trovati per delizie degl'ingegni.
A questo fine ho presa nel discorso la parte
Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica, cercando per ogni strada
artifiziosa di rappresentarla superiore, non a quella della fermezza della
Terra assolutamente, ma secondo che si difende da alcuni che, di professione
Peripatetici, ne ritengono solo il nome, contenti, senza passeggio, di adorar
l'ombre, non filosofando con l'avvertenza propria, ma con solo la memoria di
quattro principii mal intesi.
Tre capi principali si tratteranno. Prima
cercherò di mostrare, tutte l'esperienze fattibili nella Terra essere
mezi insufficienti a concluder la sua mobilità, ma indifferentemente
potersi adattare cosí alla Terra mobile, come anco quiescente; e spero che in
questo caso si paleseranno molte osservazioni ignote all'antichità.
Secondariamente si esamineranno li fenomeni celesti, rinforzando l'ipotesi
copernicana come se assolutamente dovesse rimaner vittoriosa, aggiungendo nuove
speculazioni, le quali però servano per facilità d'astronomia,
non per necessità di natura. Nel terzo luogo proporrò una fantasia
ingegnosa. Mi trovavo aver detto, molti anni sono, che l'ignoto problema del
flusso del mare potrebbe ricever qualche luce, ammesso il moto terrestre.
Questo mio detto, volando per le bocche degli uomini, aveva trovato padri
caritativi che se l'adottavano per prole di proprio ingegno. Ora, perché non
possa mai comparire alcuno straniero che, fortificandosi con l'armi nostre, ci
rinfacci la poca avvertenza in uno accidente cosí principale, ho giudicato
palesare quelle probabilità che lo renderebbero persuasibile, dato che la
Terra si movesse. Spero che da queste considerazioni il mondo conoscerà,
che se altre nazioni hanno navigato piú, noi non abbiamo speculato meno, e che
il rimettersi ad asserir la fermezza della Terra, e prender il contrario
solamente per capriccio matematico, non nasce da non aver contezza di
quant'altri ci abbia pensato, ma, quando altro non fusse, da quelle ragioni che
la pietà, la religione, il conoscimento della divina onnipotenza, e la
coscienza della debolezza dell'ingegno umano, ci somministrano.
Ho poi pensato tornare molto a proposito lo
spiegare questi concetti in forma di dialogo, che, per non esser ristretto alla
rigorosa osservanza delle leggi matematiche, porge campo ancora a digressioni,
tal ora non meno curiose del principale argomento.
Mi trovai, molt'anni sono, piú volte nella
maravigliosa città di Venezia in conversazione col signor Giovan
Francesco Sagredo, illustrissimo di nascita, acutissimo d'ingegno.Venne
là di Firenze il signor Filippo Salviati, nel quale il minore splendore
era la chiarezza del sangue e la magnificenza delle ricchezze; sublime
intelletto, che di niuna delizia piú avidamente si nutriva, che di specolazioni
esquisite. Con questi due mi trovai spesso a discorrer di queste materie, con
l'intervento di un filosofo peripatetico, al quale pareva che niuna cosa
ostasse maggiormente per l'intelligenza del vero, che la fama acquistata
nell'interpretazioni Aristoteliche.
Ora, poiché morte acerbissima ha, nel piú bel
sereno de gli anni loro, privato di quei due gran lumi Venezia e Firenze, ho
risoluto prolungar, per quanto vagliono le mie debili forze, la vita alla fama
loro sopra queste mie carte, introducendoli per interlocutori della presente
controversia. Né mancherà il suo luogo al buon Peripatetico, al quale,
pel soverchio affetto verso i comenti di Simplicio, è parso decente,
senza esprimerne il nome, lasciarli quello del reverito scrittore. Gradiscano
quelle due grand'anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento
del mio non mai morto amore, e con la memoria della loro eloquenza mi aiutino a
spiegare alla posterità le promesse speculazioni.
Erano casualmente occorsi (come interviene) varii
discorsi alla spezzata tra questi signori, i quali avevano piú tosto ne i loro
ingegni accesa, che consolata, la sete dell'imparare: però fecero saggia
risoluzione di trovarsi alcune giornate insieme, nelle quali, bandito ogni
altro negozio, si attendesse a vagheggiare con piú ordinate speculazioni le
maraviglie di Dio nel cielo e nella terra. Fatta la radunanza nel palazzo dell'illustrissimo
Sagredo, dopo i debiti, ma però brevi, complimenti, il signor Salviati
in questa maniera incominciò.
INTERLOCUTORI:
Salviati, Sagredo e Simplicio
SALV. Fu la conclusione e l'appuntamento di ieri,
che noi dovessimo in questo giorno discorrere, quanto piú distintamente e
particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni naturali e loro
efficacia, che per l'una parte e per l'altra sin qui sono state prodotte da i
fautori della posizione Aristotelica e Tolemaica e da i seguaci del sistema
Copernicano. E perché, collocando il Copernico la Terra tra i corpi mobili del
cielo, viene a farla essa ancora un globo simile a un pianeta, sarà bene
che il principio delle nostre considerazioni sia l'andare esaminando quale e
quanta sia la forza e l'energia de i progressi peripatetici nel dimostrare come
tale assunto sia del tutto impossibile; attesoché sia necessario introdurre in
natura sustanze diverse tra di loro, cioè la celeste e la elementare,
quella impassibile ed immortale, questa alterabile e caduca. Il quale argomento
tratta egli ne i libri del Cielo, insinuandolo prima con discorsi dependenti da
alcuni assunti generali, e confermandolo poi con esperienze e con dimostrazioni
particolari. Io, seguendo l'istesso ordine, proporrò, e poi liberamente
dirò il mio parere; esponendomi alla censura di voi, ed in particolare
del signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della dottrina
Aristotelica.
È il primo passo del progresso peripatetico
quello dove Aristotile prova la integrità e perfezione del mondo
coll'additarci com'ei non è una semplice linea né una superficie pura,
ma un corpo adornato di lunghezza, di larghezza e di profondità; e
perché le dimensioni non son piú che queste tre, avendole egli, le ha tutte, ed
avendo il tutto, è perfetto. Che poi, venendo dalla semplice lunghezza
costituita quella magnitudine che si chiama linea, aggiunta la larghezza si
costituisca la superficie, e sopragiunta l'altezza o profondità ne
risulti il corpo, e che doppo queste tre dimensioni non si dia passaggio ad
altra, sí che in queste tre sole si termini l'integrità e per cosí dire
la totalità, averei ben desiderato che da Aristotile mi fusse stato
dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò esequire assai
chiaro e speditamente.
SIMP. Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°,
3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non avete, primieramente, che
oltre alle tre dimensioni non ve n'è altra, perché il tre è ogni
cosa, e 'l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli
confermato con l'autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che
tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il
numero del tutto? E dove lasciate voi l'altra ragione, cioè che, quasi
per legge naturale, cotal numero si usa ne' sacrifizii degli Dei? e che,
dettante pur cosí la natura, alle cose che son tre, e non a meno, attribuiscono
il titolo di tutte? perché di due si dice amendue, e non si dice tutte;
ma di tre, sí bene. E tutta questa dottrina l'avete nel testo 2°. Nel 3° poi, ad
pleniorem scientiam, si legge che l'ogni cosa, il tutto, e 'l perfetto,
formalmente son l'istesso; e che però solo il corpo tra le grandezze
è perfetto, perché esso solo è determinato da 3, che è il
tutto, ed essendo divisibile in tre modi, è divisibile per tutti i
versi: ma dell'altre, chi è divisibile in un modo, e chi in dua, perché
secondo il numero che gli è toccato, cosí hanno la divisione e la
continuità; e cosí quella è continua per un verso, questa per
due, ma quello, cioè il corpo, per tutti. Di piú nel testo 4°, doppo
alcune altre dottrine, non prov'egli l'istesso con un'altra dimostrazione,
cioè che non si facendo trapasso se non secondo qualche mancamento (e
cosí dalla linea si passa alla superficie, perché la linea è manchevole
di larghezza), ed essendo impossibile che il perfetto manchi, essendo egli per
tutte le bande, però non si può passare dal corpo ad altra
magnitudine? Or da tutti questi luoghi non vi par egli a sufficienza provato,
com'oltre alle tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità, non si
dà transito ad altra, e che però il corpo, che le ha tutte,
è perfetto?
SALV. Io, per dire il vero, in tutti questi
discorsi non mi son sentito strignere a concedere altro se non che quello che
ha principio, mezo e fine, possa e deva dirsi perfetto: ma che poi, perché
principio, mezo e fine son 3, il numero 3 sia numero perfetto, ed abbia ad aver
facultà di conferir perfezione a chi l'averà, non sento io cosa
che mi muova a concederlo; e non intendo e non credo che, verbigrazia, per le
gambe il numero 3 sia piú perfetto che 'l 4 o il 2; né so che 'l numero 4 sia
d'imperfezione a gli elementi, e che piú perfetto fusse ch'e' fusser 3. Meglio
dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con
dimostrazione necessaria, ché cosí convien fare nelle scienze dimostrative.
SIMP. Par che voi pigliate per ischerzo queste
ragioni: e pure è tutta dottrina de i Pittagorici, i quali tanto
attribuivano a i numeri; e voi, che sete matematico, e, credo anco, in molte
opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.
SALV. Che i Pittagorici avessero in somma stima la
scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l'intelletto umano e lo
stimasse partecipe di divinità solo per l'intender egli la natura de'
numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano dal farne l'istesso giudizio; ma
che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione
la scienza de' numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e per le
carte del volgo, non credo io in veruna maniera; anzi perché so che essi,
acciò le cose mirabili non fussero esposte alle contumelie e al
dispregio della plebe, dannavano come sacrilegio il publicar le piú recondite
proprietà de' numeri e delle quantità incommensurabili ed
irrazionali da loro investigate, e predicavano che quello che le avesse
manifestate era tormentato nell'altro mondo, penso che tal uno di loro per dar
pasto alla plebe e liberarsi dalle sue domande, gli dicesse, i misterii loro
numerali esser quelle leggerezze che poi si sparsero tra il vulgo; e questo con
astuzia ed accorgimento simile a quello del sagace giovane che, per torsi
dattorno l'importunità non so se della madre o della curiosa moglie, che
l'assediava acciò le conferisse i segreti del senato, compose quella
favola onde essa con molte altre donne rimasero dipoi, con gran risa del
medesimo senato, schernite.
SIMP. Io non voglio esser nel numero de' troppo
curiosi de' misterii de' Pittagorici; ma stando nel proposito nostro, replico
che le ragioni prodotte da Aristotile per provare, le dimensioni non esser, né
poter esser, piú di tre, mi paiono concludenti; e credo che quando ci fusse
stata dimostrazione piú necessaria, Aristotile non l'avrebbe lasciata in
dietro.
SAGR. Aggiugnetevi almanco, se l'avesse saputa, o
se la gli fusse sovvenuta. Ma voi, signor Salviati, mi farete ben gran piacere
di arrecarmene qualche evidente ragione, se alcuna ne avete cosí chiara, che
possa esser compresa da me.
SALV. Anzi, e da voi e dal signor Simplicio ancora;
e non pur compresa, ma di già anche saputa, se ben forse non avvertita.
E per piú facile intelligenza piglieremo carta e penna, che già veggio
qui per simili occorrenze apparecchiate, e ne faremo un poco di figura. E prima
noteremo questi due
punti A, B, e tirate dall'uno all'altro le linee
curve A C B, A D B e la retta A B, vi domando qual di esse nella mente vostra
è quella che determina la distanza tra i termini A, B, e perché.
SAGR. Io direi la retta, e non le curve; sí perché
la retta è la piú breve; sí perché l'è una, sola e determinata,
dove le altre sono infinite, ineguali e piú lunghe, e la determinazione mi pare
che si deva prendere da quel che è uno e certo.
SALV. Noi dunque aviamo la linea retta per
determinatrice della lunghezza tra due termini: aggiunghiamo adesso un'altra
linea retta e parallela alla A B, la quale sia C D, sí che tra esse resti
frapposta una superficie, della quale io vorrei che voi mi assegnaste la
larghezza. Però partendovi dal termine A, ditemi dove e come voi volete
andare a terminare nella linea C D per assegnarmi la larghezza tra esse linee
compresa; dico se voi la determinerete secondo la quantità della curva A
E, o pur della retta A F, o pure…
SIMP. Secondo la retta A F, e non secondo la curva,
essendosi già escluse le curve da simil uso.
SAGR. Ma io non mi servirei né dell'una né
dell'altra, vedendo la retta A F andare obliquamente; ma vorrei tirare una
linea che fusse a squadra sopra la C D, perché questa mi par che sarebbe la
brevissima, ed unica delle infinite maggiori, e tra di loro ineguali, che dal
termine A si possono produrre ad altri ed altri punti della linea opposta C D.
SALV. Parmi la vostra elezione, e la ragione che
n'adducete, perfettissima: talché sin qui noi abbiamo, che la prima dimensione
si determina con una linea retta; la seconda, cioè la larghezza, con
un'altra linea pur retta, e non solamente retta, ma, di piú, ad angoli retti
sopra l'altra che determinò la lunghezza; e cosí abbiamo definite le due
dimensioni della superficie, cioè la lunghezza e la larghezza. Ma quando
voi aveste a determinare un'altezza, come, per esempio, quanto sia alto questo
palco dal pavimento che noi abbiamo sotto i piedi; essendo che da qualsivoglia
punto del palco si possono tirare infinite linee, e curve e rette, e tutte di
diverse lunghezze, ad infiniti punti del sottoposto pavimento, di quale di
cotali linee vi servireste voi?
SAGR. Io attaccherei un filo al palco, e con un
piombino, che pendesse da quello, lo lascerei liberamente distendere sino che
arrivasse prossimo al pavimento; e la lunghezza di tal filo, essendo la retta e
brevissima di quante linee si potessero dal medesimo punto tirare al pavimento,
direi che fusse la vera altezza di questa stanza.
SALV. Benissimo. E quando dal punto notato nel
pavimento da questo filo pendente (posto il pavimento a livello, e non
inclinato) voi faceste partire due altre linee rette, una per la lunghezza e
l'altra per la larghezza della superficie di esso pavimento, che angoli
conterrebber elleno con esso filo?
SAGR. Conterrebbero sicuramente angoli retti,
cadendo esso filo a piombo ed essendo il pavimento ben piano e ben livellato.
SALV. Adunque se voi stabilirete alcun
punto per capo e termine delle misure, e da esso farete partire una retta linea
come determinatrice della prima misura, cioè della lunghezza,
bisognerà per necessità che quella che dee definir la larghezza
si parta ad angolo retto sopra la prima, e che quella che ha da notar
l'altezza, che è la terza dimensione, partendo dal medesimo punto formi,
pur con le altre due, angoli non obliqui, ma retti: e cosí dalle tre
perpendicolari avrete, come da tre linee une e certe e brevissime, determinate
le tre dimensioni, A B lunghezza, A C larghezza, A D altezza.
E perché chiara cosa è, che al medesimo
punto non può concorrere altra linea che con quelle faccia angoli retti,
e le dimensioni dalle sole linee rette che tra di loro fanno angoli retti deono
esser determinate, adunque le dimensioni non sono piú che 3; e chi ha le 3 le
ha tutte, e chi le ha tutte è divisibile per tutti i versi, e chi
è tale è perfetto, etc.
SIMP. E chi lo dice che non si possan tirare altre
linee? e perché non poss'io far venir di sotto un'altra linea sino al punto A,
che sia a squadra con l'altre?
SALV. Voi non potete sicuramente ad un istesso
punto far concorrere altro che tre linee rette sole, che fra di loro
costituiscano angoli retti.
SAGR. Sí, perché quella che vuol dire il signor
Simplicio par a me che sarebbe l'istessa D A prolungata in giú: ed in questo
modo si potrebbe tirarne altre due, ma sarebbero le medesime prime tre, non
differenti in altro, che dove ora si toccano solamente, all'ora si
segherebbero, ma non apporterebbero nuove dimensioni.
SIMP. Io non dirò che questa vostra ragione
non possa esser concludente, ma dirò bene con Aristotile che nelle cose
naturali non si deve sempre ricercare una necessità di dimostrazion
matematica.
SAGR. Sí, forse, dove la non si può avere;
ma se qui ella ci è, perché non la volete voi usare? Ma sarà bene
non ispender piú parole in questo particolare, perché io credo che il signor
Salviati ad Aristotile ed a voi senza altre dimostrazioni avrebbe conceduto, il
mondo esser corpo, ed esser perfetto e perfettissimo, come opera massima di
Dio.
SALV. Cosí è veramente. Però lasciata
la general contemplazione del tutto, venghiamo alla considerazione delle parti,
le quali Aristotile nella prima divisione fa due, e tra di loro diversissime ed
in certo modo contrarie; dico, la celeste e la elementare: quella,
ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, etc.; e questa,
esposta ad una continua alterazione, mutazione, etc. La qual differenza cava
egli, come da suo principio originario, dalla diversità de i moti
locali: e camina con tal progresso.
Uscendo, per cosí dire, del mondo sensibile e
ritirandosi al mondo ideale, comincia architettonicamente a considerare, che
essendo la natura principio di moto, conviene che i corpi naturali siano mobili
di moto locale. Dichiara poi, i movimenti locali esser di tre generi,
cioè circolare, retto, e misto del retto e del circolare; e li duoi
primi chiama semplici, perché di tutte le linee la circolare e la retta sole
son semplici. E di qui, ristringendosi alquanto, di nuovo definisce, de i
movimenti semplici uno esser il circolare, cioè quello che si fa intorno
al mezo, ed il retto all'insú ed all'ingiú, cioè all'insú quello che si
parte dal mezo, all'ingiú quello che va verso il mezo: e di qui inferisce come
necessariamente conviene che tutti i movimenti semplici si ristringano a queste
tre spezie, cioè al mezo, dal mezo, ed intorno al mezo; il che risponde,
dice egli, con certa bella proporzione a quel che si è detto di sopra
del corpo, che esso ancora è perfezionato in tre cose, e cosí il suo
moto. Stabiliti questi movimenti, segue dicendo che, essendo, de i corpi
naturali, altri semplici ed altri composti di quelli (e chiama corpi semplici
quelli che hanno da natura principio di moto, come il fuoco e la terra),
conviene che i movimenti semplici sieno de i corpi semplici, ed i misti de'
composti, in modo però che i composti seguano il moto della parte
predominante nella composizione.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, fermatevi
alquanto, perché io mi sento in questo progresso pullular da tante bande tanti
dubbi, che mi sarà forza o dirgli, s'io vorrò sentir con
attenzione le cose che voi soggiugnerete, o rimuover l'attenzione dalle cose da
dirsi, se vorrò conservare la memoria de' dubbi.
SALV. Io molto volentieri mi fermerò, perché
corro ancor io simil fortuna, e sto di punto in punto per perdermi, mentre mi
conviene veleggiar tra scogli ed onde cosí rotte, che mi fanno, come si dice,
perder la bussola: però, prima che far maggior cumulo, proponete le
vostre difficultà.
SAGR. Voi, insieme con Aristotile, da principio mi
separaste alquanto dal mondo sensibile per additarmi l'architettura con la
quale egli doveva esser fabbricato, e con mio gusto mi cominciaste a dire che
il corpo naturale è per natura mobile, essendo che si è diffinito
altrove, la natura esser principio di moto. Qui mi nacque un poco di dubbio; e
fu, per qual cagione Aristotile non disse che de' corpi naturali alcuni sono
mobili per natura ed altri immobili, avvengaché nella definizione vien detto,
la natura esser principio di moto e di quiete; che se i corpi naturali hanno
tutti principio di movimento, o non occorreva metter la quiete nella
definizione della natura, o non occorreva indur tal definizione in questo
luogo. Quanto poi al dichiararmi, quali egli intenda esser i movimenti semplici
e come ei gli determina da gli spazi, chiamando semplici quelli che si fanno
per linee semplici, che tali sono la circolare e la retta solamente, lo ricevo
quietamente, né mi curo di sottilizargli l'instanza della elica intorno al
cilindro, che, per esser in ogni sua parte simile a se stessa, par che si
potesse annoverar tra le linee semplici. Ma mi risento bene alquanto nel
sentirlo ristrignere (mentre par che con altre parole voglia replicar le
medesime definizioni) a chiamare quello, movimento intorno al mezo, e questo, sursum
et deorsum, cioè in su e in giú; li quali termini non si usano fuori
del mondo fabbricato, ma lo suppongono non pur fabbricato, ma di già
abitato da noi. Che se il moto retto è semplice per la semplicità
della linea retta, e se il moto semplice è naturale, sia pur egli fatto
per qualsivoglia verso, dico in su, in giú, innanzi, in dietro, a destra ed a
sinistra, e se altra differenza si può immaginare, purché sia retto,
dovrà convenire a qualche corpo naturale semplice; o se no, la
supposizione d'Aristotile è manchevole. Vedesi in oltre che Aristotile
accenna, un solo esser al mondo il moto circolare, ed in conseguenza un solo
centro, al quale solo si riferiscano i movimenti retti in su e in giú; tutti
indizi che egli ha mira di cambiarci le carte in mano, e di volere accomodar l'architettura
alla fabbrica, e non costruire la fabbrica conforme a i precetti
dell'architettura: ché se io dirò che nell'università della
natura ci posson essere mille movimenti circolari, ed in conseguenza mille
centri, vi saranno ancora mille moti in su e in giú. In oltre ei pone, come
è detto, moti semplici e moto misto, chiamando semplici il circolare ed
il retto, e misto il composto di questi; de i corpi naturali chiama altri
semplici (cioè quelli che hanno principio naturale al moto semplice), ed
altri composti; ed i moti semplici gli attribuisce a' corpi semplici, ed a'
composti il composto: ma per moto composto e' non intende piú il misto di retto
e circolare, che può essere al mondo, ma introduce un moto misto tanto
impossibile, quanto è impossibile a mescolare movimenti opposti fatti
nella medesima linea retta, sí che da essi ne nasca un moto che sia parte in su
e parte in giú; e per moderare una tanta sconvenevolezza e
impossibilità, si riduce a dire che tali corpi misti si muovono secondo la
parte semplice predominante; che finalmente necessita altrui a dire che anco il
moto fatto per la medesima linea retta è alle volte semplice e tal ora
anche composto, sí che la semplicità del moto non si attende piú dalla
semplicità della linea solamente.
SIMP. Oh non vi par ella differenza bastevole se il
movimento semplice ed assoluto sarà piú veloce assai di quello che vien
dal predominio? e quanto vien piú velocemente all'ingiú un pezzo di terra pura,
che un pezzuol di legno?
SAGR. Bene, signor Simplicio; ma se la
semplicità si ha da mutar per questo, oltre che ci saranno centomila
moti misti, voi non mi saprete determinare il semplice; anzi, di piú, se la
maggiore e minor velocità possono alterar la semplicità del moto,
nessun corpo semplice si moverà mai di moto semplice, avvengaché in
tutti i moti retti naturali la velocità si va sempre agumentando, ed in
conseguenza sempre mutando la semplicità, la quale, per esser
semplicità, conviene che sia immutabile; e, quel che piú importa, voi graverete
Aristotile d'una nuova nota, come quello che nella definizione del moto
composto non ha fatto menzione di tardità né di velocità, la
quale ora voi ponete per articolo necessario ed essenziale. Aggiugnesi che né
anco potrete da cotal regola trar frutto veruno; imperocché ci saranno de'
misti, e non pochi, de' quali altri si moveranno piú lentamente, ed altri piú
velocemente, del semplice, come, per esempio, il piombo e 'l legno in
comparazione della terra: e però tra questi movimenti quale chiamerete
voi il semplice, e quale il composto?
SIMP. Chiamerassi semplice quello che vien fatto
dal corpo semplice, e misto quel del corpo composto.
SAGR. Benissimo veramente. E che dite voi, signor
Simplicio? poco fa volevi che il moto semplice e il composto m'insegnassero
quali siano i corpi semplici e quali i misti; ed ora volete che da i corpi
semplici e da i misti io venga in cognizione di qual sia il moto semplice e
quale il composto: regola eccellente per non saper mai conoscer né i moti né i
corpi. Oltre che già venite a dichiararvi come non vi basta piú la
maggior velocità, ma ricercate una terza condizione per definire il
movimento semplice, per il quale Aristotile si contentò d'una sola,
cioè della semplicità dello spazio; ma ora, secondo voi, il moto
semplice sarà quello che vien fatto sopra una linea semplice, con certa
determinata velocità, da un corpo mobile semplice. Or sia come a voi
piace, e torniamo ad Aristotile, il qual mi definí, il moto misto esser quello
che si compone del retto e del circolare; ma non mi trovò poi corpo
alcuno che fusse naturalmente mobile di tal moto.
SALV. Torno dunque ad Aristotile, il quale, avendo
molto bene e metodicamente cominciato il suo discorso, ma avendo piú la mira di
andare a terminare e colpire in uno scopo, prima nella mente sua stabilitosi,
che dove dirittamente il progresso lo conduceva, interrompendo il filo ci esce
traversalmente a portar come cosa nota e manifesta, che quanto a i moti retti
in su e in giú, questi naturalmente convengono al fuoco ed alla terra, e che
però è necessario che oltre a questi corpi, che sono appresso di
noi, ne sia un altro in natura al quale convenga il movimento circolare, il
quale sia ancora tanto piú eccellente, quanto il moto circolare è piú
perfetto del moto retto: quanto poi quello sia piú perfetto di questo, lo
determina dalla perfezion della linea circolare sopra la retta, chiamando
quella perfetta, ed imperfetta questa; imperfetta, perché se è infinita,
manca di fine e di termine; se è finita, fuori di lei ci è alcuna
cosa dove ella si può prolungare. Questa è la prima pietra, base
e fondamento di tutta la fabbrica del mondo Aristotelico, sopra la quale si
appoggiano tutte l'altre proprietà di non grave né leggiero,
d'ingenerabile, incorruttibile ed esente da ogni mutazione, fuori della locale,
etc.: e tutte queste passioni afferma egli esser proprie del corpo semplice e
mobile di moto circolare; e le condizioni contrarie, di gravità,
leggerezza, corruttibilità, etc., le assegna a' corpi mobili
naturalmente di movimenti retti. Là onde qualunque volta nello stabilito
sin qui si scuopra mancamento, si potrà ragionevolmente dubitar di tutto
il resto, che sopra gli vien costrutto. Io non nego che questo, che sin qui
Aristotile ha introdotto con discorso generale, dependente da principii universali
e primi, non venga poi nel progresso riconfermato con ragioni particolari e con
esperienze, le quali tutte è necessario che vengano distintamente
considerate e ponderate; ma già che nel detto sin qui si rappresentano
molte, e non picciole, difficultà (e pur converrebbe che i primi
principii e fondamenti fussero sicuri fermi e stabili, acciocché piú
risolutamente si potesse sopra di quelli fabbricare), non sarà forse se
non ben fatto, prima che si accresca il cumulo de i dubbi, vedere se per
avventura (sí come io stimo) incamminandoci per altra strada ci indrizzassimo a
piú diritto e sicuro cammino, e con precetti d'architettura meglio considerati
potessimo stabilire i primi fondamenti. Però, sospendendo per ora il
progresso d'Aristotile, il quale a suo tempo ripiglieremo e partitamente
esamineremo, dico che, delle cose da esso dette sin qui, convengo seco ed
ammetto che il mondo sia corpo dotato di tutte le dimensioni, e però
perfettissimo; ed aggiungo, che come tale ei sia necessariamente ordinatissimo,
cioè di parti con sommo e perfettissimo ordine tra di loro disposte: il
quale assunto non credo che sia per esser negato né da voi né da altri.
SIMP. E chi volete voi che lo neghi? La prima cosa,
egli è d'Aristotile stesso; e poi, la sua denominazione non par che sia
presa d'altronde, che dall'ordine che egli perfettamente contiene.
SALV. Stabilito dunque cotal principio, si
può immediatamente concludere che, se i corpi integrali del mondo devono
esser di lor natura mobili, è impossibile che i movimenti loro siano
retti, o altri che circolari: e la ragione è assai facile e manifesta.
Imperocché quello che si muove di moto retto, muta luogo; e continuando di
muoversi, si va piú e piú sempre allontanando dal termine ond'ei si partí e da
tutti i luoghi per i quali successivamente ei va passando; e se tal moto
naturalmente se gli conviene, adunque egli da principio non era nel luogo suo
naturale, e però non erano le parti del mondo con ordine perfetto
disposte: ma noi supponghiamo, quelle esser perfettamente ordinate: adunque,
come tali, è impossibile che abbiano da natura di mutar luogo, ed in
conseguenza di muoversi di moto retto. In oltre, essendo il moto retto di sua
natura infinito, perché infinita e indeterminata è la linea retta,
è impossibile che mobile alcuno abbia da natura principio di muoversi
per linea retta, cioè verso dove è impossibile di arrivare, non
vi essendo termine prefinito; e la natura, come ben dice Aristotile medesmo,
non intraprende a fare quello che non può esser fatto, né intraprende a
muovere dove è impossibile a pervenire. E se pur alcuno dicesse, che se
bene la linea retta, ed in conseguenza il moto per essa, è produttibile
in infinito, cioè interminato, tuttavia però la natura, per cosí
dire, arbitrariamente gli ha assegnati alcuni termini, e dato naturali instinti
a' suoi corpi naturali di muoversi a quelli, io risponderò che
ciò per avventura si potrebbe favoleggiare che fusse avvenuto del primo
caos, dove confusamente ed inordinatamente andavano indistinte materie vagando,
per le quali ordinare la natura molto acconciamente si fusse servita de i
movimenti retti, i quali, sí come movendo i corpi ben costituiti gli
disordinano, cosí sono acconci a ben ordinare i pravamente disposti; ma dopo
l'ottima distribuzione e collocazione è impossibile che in loro resti
naturale inclinazione di piú muoversi di moto retto, dal quale ora solo ne
seguirebbe il rimuoversi dal proprio e natural luogo, cioè il
disordinarsi. Possiamo dunque dire, il moto retto servire a condur le materie
per fabbricar l'opera, ma fabbricata ch'ell'è, o restare immobile, o, se
mobile, muoversi solo circolarmente; se però noi non volessimo dir con
Platone, che anco i corpi mondani, dopo l'essere stati fabbricati e del tutto
stabiliti, furon per alcun tempo dal suo Fattore mossi di moto retto, ma che
dopo l'esser pervenuti in certi e determinati luoghi, furon rivolti a uno a uno
in giro, passando dal moto retto al circolare, dove poi si son mantenuti e
tuttavia si conservano: pensiero altissimo e degno ben di Platone, intorno al quale
mi sovviene aver sentito discorrere il nostro comune amico Accademico Linceo; e
se ben mi ricorda, il discorso fu tale. Ogni corpo costituito per qualsivoglia
causa in istato di quiete, ma che per sua natura sia mobile, posto in
libertà si moverà, tutta volta però ch'egli abbia da
natura inclinazione a qualche luogo particolare; ché quando e' fusse
indifferente a tutti, resterebbe nella sua quiete, non avendo maggior ragione
di muoversi a questo che a quello. Dall'aver questa inclinazione ne nasce necessariamente
che egli nel suo moto si anderà continuamente accelerando; e cominciando
con moto tardissimo, non acquisterà grado alcuno di velocità, che
prima e' non sia passato per tutti i gradi di velocità minori, o
vogliamo dire di tardità maggiori: perché, partendosi dallo stato della
quiete (che è il grado di infinita tardità di moto), non ci
è ragione nissuna per la quale e' debba entrare in un tal determinato
grado di velocità, prima che entrare in un minore, ed in un altro ancor
minore prima che in quello; anzi par molto ben ragionevole passar prima per i
gradi piú vicini a quello donde ei si parte, e da quelli a i piú remoti; ma il
grado di dove il mobile piglia a muoversi è quello della somma
tardità, cioè della quiete. Ora, questa accelerazion di moto non
si farà se non quando il mobile nel muoversi acquista; né altro è
l'acquisto suo se non l'avvicinarsi al luogo desiderato, cioè dove
l'inclinazion naturale lo tira; e là si condurrà egli per la piú
breve, cioè per linea retta. Possiamo dunque ragionevolmente dire che la
natura, per conferire in un mobile, prima costituito in quiete, una determinata
velocità, si serva del farlo muover, per alcun tempo e per qualche
spazio, di moto retto. Stante questo discorso, figuriamoci aver Iddio creato il
corpo, verbigrazia, di Giove, al quale abbia determinato di voler conferire una
tal velocità, la quale egli poi debba conservar perpetuamente uniforme:
potremo con Platone dire che gli desse di muoversi da principio di moto retto
ed accelerato, e che poi, giunto a quel tal grado di velocità,
convertisse il suo moto retto in circolare, del quale poi la velocità
naturalmente convien esser uniforme.
SAGR. Io sento con gran gusto questo discorso, e
maggiore credo che sarà doppo che mi abbiate rimossa una
difficultà: la quale è, che io non resto ben capace come di
necessità convenga che un mobile, partendosi dalla quiete ed entrando in
un moto al quale egli abbia inclinazion naturale, passi per tutti i gradi di
tardità precedenti, che sono tra qualsivoglia segnato grado di
velocità e lo stato di quiete, li quali gradi sono infiniti; sí che non
abbia potuto la natura contribuire al corpo di Giove, subito creato, il suo
moto circolare, con tale e tanta velocità.
SALV. Io non ho detto, né ardirei di dire, che alla
natura e a Dio fusse impossibile il conferir quella velocità, che voi
dite, immediatamente; ma dirò bene che de facto la natura non lo
fa; talché il farlo verrebbe ad esser operazione fuora del corso naturale e
però miracolosa [Muovasi con qual si voglia velocità qual si sia
poderosissimo mobile, ed incontri qual si voglia corpo costituito in quiete,
ben che debolissimo e di minima resistenza; quel mobile, incontrandolo,
già mai non gli conferirà immediatamente la sua velocità:
segno evidente di che ne è il sentirsi il suono della percossa, il quale
non si sentirebbe, o per dir meglio non sarebbe, se il corpo che stava in
quiete ricevesse, nell'arrivo del mobile, la medesima velocità di
quello.] .
SAGR. Adunque voi credete che un sasso, partendosi
dalla quiete, ed entrando nel suo moto naturale verso il centro della Terra,
passi per tutti i gradi di tardità inferiori a qualsivoglia grado di
velocità?
SALV. Credolo, anzi ne son sicuro, e sicuro con
tanta certezza, che posso renderne sicuro voi ancora.
SAGR. Quando in tutto il ragionamento d'oggi io non
guadagnassi altro che una tal cognizione, me lo reputerei per un gran capitale.
SALV. Per quanto mi par di comprendere dal vostro
ragionare, gran parte della vostra difficultà consiste in quel dover
passare in un tempo, ed anco brevissimo, per quelli infiniti gradi di
tardità precedenti a qual si sia velocità acquistata dal mobile
in quel tal tempo: e però, prima che venire ad altro, cercherò di
rimovervi questo scrupolo; che doverà esser agevol cosa, mentre io vi
replico che il mobile passa per i detti gradi, ma il passaggio è fatto
senza dimorare in veruno, talché, non ricercando il passaggio piú di un solo
instante di tempo, e contenendo qualsivoglia piccol tempo infiniti instanti,
non ce ne mancheranno per assegnare il suo a ciascheduno de gl'infiniti gradi
di tardità, e sia il tempo quanto si voglia breve.
SAGR. Sin qui resto capace: tuttavia mi par gran
cosa che quella palla d'artiglieria (che tal mi figuro esser il mobile
cadente), che pur si vede scendere con tanto precipizio che in manco di dieci
battute di polso passerà piú di dugento braccia di altezza, si sia nel
suo moto trovata congiunta con sí picciol grado di velocità, che, se
avesse continuato di muoversi con quello senza piú accelerarsi, non l'averebbe
passata in tutto un giorno.
SALV. Dite pure in tutto un anno, né in dieci, né
in mille, sí come io m'ingegnerò di persuadervi, ed anco forse senza
vostra contradizione ad alcune assai semplici interrogazioni ch'io vi
farò. Però ditemi se voi avete difficultà nessuna in
concedere che quella palla, nello scendere, vadia sempre aquistando maggior
impeto e velocità.
SAGR. Sono di questo sicurissimo.
SALV. E se io dirò che l'impeto aquistato in
qualsivoglia luogo del suo moto sia tanto che basterebbe a ricondurla a quell'altezza
donde si partí, me lo concedereste?
SAGR. Concedere'lo senza contradizione, tuttavolta
che la potesse applicar, senz'esser impedita, tutto il suo impeto in quella
sola operazione, di ricondur se medesima, o altro eguale a sé, a quella medesima
altezza: come sarebbe se la Terra fusse perforata per il centro, e che, lontano
da esso cento o mille braccia, si lasciasse cader la palla; credo sicuramente
che ella passerebbe oltre al centro, salendo altrettanto quanto scese: e cosí
mi mostra l'esperienza accadere d'un peso pendente da una corda, che rimosso
dal perpendicolo, che è il suo stato di quiete, e lasciato poi in
libertà, cala verso detto perpendicolo e lo trapassa per altrettanto
spazio, o solamente tanto meno quanto il contrasto dell'aria e della corda o di
altri accidenti l'impediscono. Mostrami l'istesso l'acqua, che scendendo per un
sifone, rimonta altrettanto quanto fu la sua scesa.
SALV. Voi perfettamente discorrete. E perch'io so
che non avete dubbio in conceder che l'acquisto dell'impeto sia mediante
l'allontanamento dal termine donde il mobile si parte, e l'avvicinamento al
centro dove tende il suo moto, arete voi difficultà nel concedere che
due mobili eguali, ancorché scendenti per diverse linee, senza veruno
impedimento, facciano acquisto d'impeti eguali, tuttavolta che l'avvicinamento
al centro sia eguale?
SAGR. Non intendo bene il quesito.
SALV. Mi dichiarerò meglio col segnarne un
poco di figura. Però noterò questa linea A B parallela
all'orizonte, e sopra il punto B drizzerò la perpendicolare B C, e poi
congiugnerò questa inclinata C A. Intendendo ora la linea C A esser un
piano inclinato, esquisitamente pulito e duro, sopra il quale scenda una palla
perfettamente rotonda e di materia durissima, ed una simile scenderne liberamente
per la perpendicolare C B, domando se voi concedereste che l'impeto della
scendente per il piano C A, giunta che la fusse al termine A, potesse essere
eguale all'impeto acquistato dall'altra nel punto B, doppo la scesa per la
perpendicolare C B.
SAGR. Io credo risolutamente di sí,
perché in effetto amendue si sono avvicinate al centro egualmente, e, per
quello che pur ora ho conceduto, gl'impeti loro sarebbero egualmente bastanti a
ricondur loro stesse alla medesima altezza.
SALV. Ditemi ora quello che voi credete che facesse
quella medesima palla posata sul piano orizontale A B.
SAGR. Starebbe ferma, non avendo esso piano veruna
inclinazione.
SALV. Ma sul piano inclinato C A scenderebbe, ma
con moto piú lento che per la perpendicolare C B.
SAGR. Sono stato per risponder risolutamente di sí,
parendomi pur necessario che il moto per la perpendicolare C B debba esser piú
veloce che per l'inclinata C A: tuttavia, se questo è, come potrà
il cadente per l'inclinata, giunto al punto A, aver tanto impeto, cioè
tal grado di velocità, quale e quanto il cadente per la perpendicolare
avrà nel punto B? Queste due proposizioni par che si contradicano.
SALV. Adunque molto piú vi parrà falso se io
dirò che assolutamente le velocità de' cadenti per la
perpendicolare e per l'inclinata siano eguali. E pur questa è
proposizione verissima; sí come vera è questa ancora che dice che il
cadente si muove piú velocemente per la perpendicolare che per la inclinata.
SAGR. Queste al mio orecchio suonano proposizioni
contradittorie; ed al vostro, signor Simplicio?
SIMP. Ed a me par l'istesso.
SALV. Credo che voi mi burliate, fingendo di non
capire quel che voi intendete meglio di me. Però ditemi, signor
Simplicio: quando voi v'immaginate un mobile esser piú veloce d'un altro, che
concetto vi figurate voi nella mente?
SIMP. Figuromi, l'uno passar nell'istesso tempo
maggiore spazio dell'altro, o vero passare spazio eguale, ma in minor tempo.
SALV. Benissimo: e per mobili egualmente veloci,
che concetto vi figurate?
SIMP. Figuromi che passino spazi eguali in tempi
eguali.
SALV. E non altro concetto che questo?
SIMP. Questo mi par che sia la propria definizione
de' moti eguali.
SAGR. Aggiunghiamoci pure quest'altra di piú:
cioè chiamarsi ancora le velocità esser eguali, quando gli spazi
passati hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali son passati, e
sarà definizione piú universale.
SALV. Cosí è, perché comprende gli spazi
eguali passati in tempi eguali, e gl'ineguali ancora, passati in tempi
ineguali, ma proporzionali a essi spazi. Ripigliate ora la medesima figura, ed
applicandovi il concetto che vi figurate del moto piú veloce, ditemi perché vi
pare che la velocità del cadente per C B sia maggiore della
velocità dello scendente per la C A.
SIMP. Parmi, perché nel tempo che 'l cadente
passerà tutta la C B, lo scendente passerà nella C A una parte
minor della C B.
SALV. Cosí sta; e cosí si verifica, il mobile
muoversi piú velocemente per la perpendicolare che per l'inclinata. Considerate
ora se in questa medesima figura si potesse in qualche modo verificare l'altro
concetto, e trovare che i mobili fussero egualmente veloci in amendue le linee
C A, C B.
SIMP. Io non ci so veder cosa tale, anzi pur mi par
contradizione al già detto.
SALV. E voi che dite, signor Sagredo? Io non vorrei
già insegnarvi quel che voi medesimi sapete, e quello di che pur ora mi
avete arrecato la definizione.
SAGR. La definizione che io ho addotta è
stata, che i mobili si possan chiamare egualmente veloci quando gli spazi
passati da loro hanno la medesima proporzione che i tempi ne' quali gli
passano: però a voler che la definizione avesse luogo nel presente caso,
bisognerebbe che il tempo della scesa per C A al tempo della caduta per C B
avesse la medesima proporzione che la stessa linea C A alla C B; ma ciò
non so io intender che possa essere, tuttavolta che il moto per la C B sia piú
veloce che per la C A.
SALV. E pur è forza che voi l'intendiate.
Ditemi un poco: questi moti non si vann'eglino continuamente accelerando?
SAGR. Vannosi accelerando, ma piú nella
perpendicolare che nell'inclinata.
SALV. Ma questa accelerazione nella perpendicolare
è ella però tale, in comparazione di quella dell'inclinata, che
prese due parti eguali in qualsivoglia luogo di esse linee, perpendicolare e
inclinata, il moto nella parte della perpendicolare sia sempre piú veloce che
nella parte dell'inclinata?
SAGR. Signor no, anzi potrò io pigliare uno
spazio nell'inclinata, nel quale la velocità sia maggiore assai che in
altrettanto spazio preso nella perpendicolare; e questo sarà, se lo
spazio nella perpendicolare sarà preso vicino al termine C, e
nell'inclinata molto lontano.
SALV. Vedete dunque che la proposizione che dice
«Il moto per la perpendicolare è piú veloce che per l'inclinata» non si
verifica universalmente se non de i moti che cominciano dal primo termine,
cioè dalla quiete; senza la qual condizione la proposizione sarebbe
tanto difettosa, che anco la sua contradittoria potrebbe esser vera,
cioè che il moto nell'inclinata è piú veloce che nella
perpendicolare, perché è vero che nell'inclinata possiamo pigliare uno
spazio passato dal mobile in manco tempo che altrettanto spazio passato nella
perpendicolare. Ora, perché il moto nell'inclinata è in alcuni luoghi piú
veloce ed in altri meno che nella perpendicolare, adunque in alcuni luoghi
dell'inclinata il tempo del moto del mobile al tempo del moto del mobile per
alcuni luoghi della perpendicolare avrà maggior proporzione che lo
spazio passato allo spazio passato, ed in altri luoghi la proporzione del tempo
al tempo sarà minore di quella dello spazio allo spazio. Come, per
esempio, partendosi due mobili dalla quiete, cioè dal punto C, uno per
la perpendicolare C B e l'altro per l'inclinata C A, nel tempo che nella
perpendicolare il mobile avrà passata tutta la C B, l'altro avrà
passata la C T, minore; e però il tempo per C T al tempo per C B (che
gli è eguale) arà maggior proporzione che la linea T C alla C B,
essendo che la medesima alla minore ha maggior proporzione che alla maggiore: e
per l'opposito, quando nella C A, prolungata quanto bisognasse, si prendesse
una parte eguale alla C B, ma passata in tempo piú breve, il tempo
nell'inclinata al tempo nella perpendicolare arebbe proporzione minore che lo
spazio allo spazio. Se dunque nell'inclinata e nella perpendicolare possiamo
intendere spazi e velocità tali che le proporzioni tra essi spazi siano
e minori e maggiori delle proporzioni de' tempi, possiamo ben ragionevolmente
concedere che vi sieno anco spazi per i quali i tempi de i movimenti ritengano
la medesima proporzione che gli spazi.
SAGR. Già mi sent'io levato lo
scrupolo maggiore, e comprendo esser non solo possibile, ma dirò
necessario, quello che mi pareva un contradittorio: ma non però intendo
per ancora che uno di questi casi possibili o necessari sia questo del quale
abbiamo bisogno di presente, sí che vero sia che il tempo della scesa per C A
al tempo della caduta per C B abbia la medesima proporzione che la linea C A alla
C B, onde e' si possa senza contradizione dire che le velocità per la
inclinata C A e per la perpendicolare C B sieno eguali.
SALV. Contentatevi per ora ch'io
v'abbia rimossa l'incredulità; ma la scienza aspettatela un'altra volta,
cioè quando vedrete le cose dimostrate dal nostro Accademico intorno a i
moti locali: dove troverete dimostrato, che nel tempo che 'l mobile cade per
tutta la C B, l'altro scende per la C A sino al punto T, nel quale cade la
perpendicolare tiratavi dal punto B; e per trovare dove il medesimo cadente per
la perpendicolare si troverebbe quando l'altro arriva al punto A, tirate da
esso A la perpendicolare sopra la C A, prolungando essa e la C B sino al
concorso, e quello sarà il punto cercato. Intanto vedete come è
vero che il moto per la C B è piú veloce che per l'inclinata C A
(ponendo il termine C per principio de' moti de' quali facciamo comparazione);
perché la linea C B è maggiore della C T, e l'altra da C sino al
concorso della perpendicolare tirata da A sopra la C A è maggiore della
C A, e però il moto per essa è piú veloce che per la C A. Ma
quando noi paragoniamo il moto fatto per tutta la C A, non con tutto 'l moto
fatto nel medesimo tempo per la perpendicolare prolungata, ma col fatto in
parte del tempo per la sola parte C B, non repugna che il mobile per C A,
continuando di scendere oltre al T, possa in tal tempo arrivare in A, che qual
proporzione si trova tra le linee C A, C B, tale sia tra essi tempi. Ora,
ripigliando il nostro primo proposito, che era di mostrare come il mobile
grave, partendosi dalla quiete, passa, scendendo, per tutti i gradi di
tardità precedenti a qualsivoglia grado di velocità che egli
acquisti, ripigliando la medesima figura, ricordiamoci che eramo convenuti che il
cadente per la perpendicolare C B ed il descendente per l'inclinata C A, ne i
termini B, A si trovassero avere acquistati eguali gradi di velocità.
Ora, seguitando piú avanti, non credo che voi abbiate difficultà veruna
in concedere che sopra un altro piano meno elevato di A C, qual sarebbe,
verbigrazia, D A, il moto del descendente sarebbe ancora piú tardo che nel
piano CA:
talché non è da dubitar punto che si possano notar piani
tanto poco elevati sopra l'orizonte A B, che 'l mobile, cioè la medesima
palla, in qualsivoglia lunghissimo tempo si condurrebbe al termine A,
già che per condurvisi per il piano B A non basta tempo infinito, ed il
moto si fa sempre piú lento quanto la declività è minore. Bisogna
dunque necessariamente confessare, potersi sopra il termine B pigliare un punto
tanto ad esso B vicino, che tirando da esso al punto A un piano, la palla non
lo passasse né anco in un anno. Bisogna ora che voi sappiate, che l'impeto,
cioè il grado di velocità, che la palla si trova avere acquistato
quando arriva al punto A è tale, che quando ella continuasse di muoversi
con questo medesimo grado uniformemente, cioè senza accelerarsi o
ritardarsi, in altrettanto tempo in quanto è venuta per il piano inclinato
passerebbe uno spazio lungo il doppio del piano inclinato; cioè (per
esempio) se la palla avesse passato il piano D A in un'ora, continuando di
muoversi uniformemente con quel grado di velocità che ella si trova
avere nel giugnere al termine A, passerebbe in un'ora uno spazio doppio della
lunghezza D A: e perché (come dicevamo) i gradi di velocità acquistati
ne i punti B, A da i mobili che si partono da qualsivoglia punto preso nella
perpendicolare C B, e che scendono l'uno per il piano inclinato e l'altro per
essa perpendicolare, son sempre eguali, adunque il cadente per la
perpendicolare può partirsi da un termine tanto vicino al B, che 'l
grado di velocità acquistato in B non fusse bastante (conservandosi
sempre l'istesso) a condurre il mobile per uno spazio doppio della lunghezza
del piano inclinato in un anno né in dieci né in cento. Possiamo dunque
concludere che se è vero che, secondo il corso ordinario di natura, un
mobile, rimossi tutti gl'impedimenti esterni ed accidentarii, si muova sopra
piani inclinati con maggiore e maggior tardità secondo che
l'inclinazione sarà minore, sí che finalmente la tardità si
conduca a essere infinita, che è quando si finisce l'inclinazione e
s'arriva al piano orizontale; e se è vero parimente che al grado di
velocità acquistato in qualche punto del piano inclinato sia eguale quel
grado di velocità che si trova avere il cadente per la perpendicolare
nel punto segato da una parallela all'orizonte che passa per quel punto del
piano inclinato; bisogna di necessità confessare che il cadente, partendosi
dalla quiete, passa per tutti gl'infiniti gradi di tardità, e che, in
conseguenza, per acquistar un determinato grado di velocità bisogna
ch'e' si muova prima per linea retta, descendendo per breve o lungo spazio,
secondo che la velocità da acquistarsi dovrà essere minore o
maggiore, e secondo che 'l piano sul quale si scende sarà poco o molto
inclinato: talché può darsi un piano con sí poca inclinazione, che, per
acquistarvi quel tal grado di velocità, bisognasse prima muoversi per
lunghissimo spazio ed in lunghissimo tempo; sí che nel piano orizontale qual si
sia velocità non s'acquisterà naturalmente mai, avvenga che il
mobile già mai non vi si muoverà. Ma il moto per la linea
orizontale, che non è declive né elevata, è moto circolare
intorno al centro: adunque il moto circolare non s'acquisterà mai
naturalmente senza il moto retto precedente, ma bene, acquistato che e' si sia,
si continuerà egli perpetuamente con velocità uniforme. Io potrei
dichiararvi, ed anco dimostrarvi, con altri discorsi queste medesime
verità; ma non voglio interromper con sí gran digressioni il principal
nostro ragionamento, e piú tosto ci ritornerò con altra occasione, e
massime che ora si è venuto in questo proposito non per servirsene per
una dimostrazion necessaria, ma per adornare un concetto platonico: al quale
voglio aggiugnere un'altra particolare osservazione, pur del nostro Accademico,
che ha del mirabile. Figuriamoci, tra i decreti del divino Architetto essere
stato pensiero di crear nel mondo questi globi, che noi veggiamo continuamente
muoversi in giro, ed avere stabilito il centro delle lor conversioni ed in esso
collocato il Sole immobile, ed aver poi fabbricati tutti i detti globi nel
medesimo luogo, e di lí datali inclinazione di muoversi, discendendo verso il
centro, sin che acquistassero quei gradi di velocità che pareva alla
medesima Mente divina, li quali acquistati, fussero volti in giro, ciascheduno
nel suo cerchio, mantenendo la già concepita velocità: si cerca
in quale altezza e lontananza dal Sole era il luogo dove primamente furono essi
globi creati, e se può esser che la creazion di tutti fusse stata
nell'istesso luogo. Per far questa investigazione bisogna pigliare da i piú
periti astronomi le grandezze de i cerchi ne i quali i pianeti si rivolgono, e
parimente i tempi delle loro revoluzioni: dalle quali due cognizioni si
raccoglie quanto, verbigrazia, il moto di Giove è piú veloce del moto di
Saturno; e trovato (come in effetto è) che Giove si muove piú
velocemente, conviene che, sendosi partiti dalla medesima altezza, Giove sia
sceso piú che Saturno, sí come pure sappiamo essere veramente, essendo l'orbe
suo inferiore a quel di Saturno. Ma venendo piú avanti, dalla proporzione che
hanno le due velocità di Giove e di Saturno, e dalla distanza che è
tra gli orbi loro e dalla proporzione dell'accelerazion del moto naturale, si
può ritrovare in quanta altezza e lontananza dal centro delle lor
revoluzioni fusse il luogo donde e' si partirono. Ritrovato e stabilito questo,
si cerca se Marte scendendo di là sino al suo orbe […] si trova che la
grandezza dell'orbe e la velocità del moto convengono con quello che dal
calcolo ci vien dato; ed il simile si fa della Terra, di Venere e di Mercurio,
de i quali le grandezze de i cerchi e le velocità de i moti s'accostano
tanto prossimamente a quel che ne danno i computi, che è cosa
maravigliosa.
SAGR. Ho con estremo gusto sentito questo pensiero,
e se non ch'io credo che il far quei calcoli precisamente sarebbe impresa lunga
e laboriosa, e forse troppo difficile da esser compresa da me, io ve ne vorrei
fare instanza.
SALV. L'operazione è veramente lunga e
difficile, ed anco non m'assicurerei di ritrovarla cosí prontamente;
però la riserberemo ad un'altra volta
[SIMP. Di grazia, sia conceduto alla mia poca pratica nelle
scienze matematiche dir liberamente come i vostri discorsi, fondati sopra
proporzioni maggiori o minori e sopra altri termini da me non intesi quanto
bisognerebbe, non mi hanno rimosso il dubbio, o, per meglio dire,
l'incredulità, dell'esser necessario che quella gravissima palla di
piombo di 100 libre di peso, lasciata cadere da alto, partendosi dalla quiete
passi per ogni altissimo grado di tardità, mentre si vede in quattro
battute di polso aver passato piú di 100 braccia di spazio: effetto che mi rende
totalmente incredibile, quella in alcuno momento essersi trovata in stato tale
di tardità, che continuandosi di muover con quella, non avesse né anco
in mille anni passato lo spazio di mezo dito. E pure se questo è, vorrei
esserne fatto capace.
SAGR. Il signor Salviati, come di profonda dottrina, stima bene
spesso che quei termini che a se medesimo sono notissimi e familiari, debbano
parimente esser tali per gli altri ancora, e però tal volta gli esce di
mente che parlando con noi altri convien aiutar la nostra incapacità con
discorsi manco reconditi: e però io, che non mi elevo tanto, con sua
licenza tenterò di rimuover almeno in parte il signor Simplicio dalla
sua incredulità con mezo sensato. E stando pure sul caso della palla
d'artiglieria, ditemi in grazia, signor Simplicio: non concederete voi che nel
far passaggio da uno stato a un altro sia naturalmente piú facile e pronto il
passare ad uno piú propinquo che ad altro piú remoto?
SIMP. Questo lo intendo e lo concedo: e non ho dubbio che,
verbigrazia, un ferro infocato, nel raffreddarsi, prima passerà da i 10
gradi di caldo a i 9, che da i
SAGR. Benissimo. Ditemi appresso: quella palla d'artiglieria,
cacciata in su a perpendicolo dalla violenza del fuoco, non si va ella
continuamente ritardando nel suo moto sin che finalmente si conduce al termine
altissimo, che è quello della quiete? e nel diminuirsi la
velocità, o volete dire nel crescersi la tardità, non è
egli ragionevole che si faccia piú presto trapasso da i 10 gradi a gli 11, che
da i
SIMP. Cosí è ragionevole.
SAGR. Ma qual grado di tardità è cosí lontano da
qualsisia moto, che piú lontano non ne sia lo stato della quiete, ch'è
di tardità infinita? per lo che non è da metter dubio che la
detta palla, prima che si conduca al termine della quiete, trapassi per tutti i
gradi di tardità maggiori e maggiori, e per conseguenza per quello ancora
che in 1000 anni non trapasserebbe lo spazio di un dito. Ed essendo questo, sí
come è, verissimo, non dovrà, signor Simplicio, parervi
improbabile che, nel ritornare in giú, la medesima palla partendosi dalla
quiete recuperi la velocità del moto col ripassare per quei medesimi gradi
di tardità per i quali ella passò nell'andare in su, ma debba,
lasciando gli altri gradi di tardità maggiori e piú vicini allo stato di
quiete, passar di salto ad uno piú remoto.
SIMP. Io resto per questo discorso piú
capace assai che per quelle sottigliezze matematiche; e però
potrà il signor Salviati ripigliare e continuare il suo ragionamento.]
SALV. Ritorneremo dunque al nostro primo proposito,
ripigliando là di dove digredimmo, che, se ben mi ricorda, eramo sul
determinare come il moto per linea retta non può esser di uso alcuno
nelle parti del mondo bene ordinate; e seguitavamo di dire che non cosí avviene
de i movimenti circolari, de i quali quello che è fatto dal mobile in se
stesso, già lo ritien sempre nel medesimo luogo, e quello che conduce il
mobile per la circonferenza d'un cerchio intorno al suo centro stabile e fisso,
non mette in disordine né sé né i circonvicini. Imperocché tal moto,
primieramente, è finito e terminato, anzi non pur finito e terminato, ma
non è punto alcuno nella circonferenza, che non sia primo ed ultimo
termine della circolazione; e continuandosi nella circonferenza assegnatagli,
lascia tutto il resto, dentro e fuori di quella, libero per i bisogni d'altri,
senz'impedirgli o disordinargli già mai. Questo, essendo un movimento
che fa che il mobile sempre si parte e sempre arriva al termine, può,
primieramente, esso solo essere uniforme: imperocché l'accelerazione del moto
si fa nel mobile quando e' va verso il termine dove egli ha inclinazione, ed il
ritardamento accade per la repugnanza ch'egli ha di partirsi ed allontanarsi
dal medesimo termine; e perché nel moto circolare il mobile sempre si parte da
termine naturale, e sempre si muove verso il medesimo, adunque in lui la
repugnanza e l'inclinazione son sempre di eguali forze; dalla quale
egualità ne risulta una non ritardata né accelerata velocità,
cioè l'uniformità del moto. Da questa uniformità e
dall'esser terminato ne può seguire la continuazion perpetua, col
reiterar sempre le circolazioni, la quale in una linea interminata ed in un
moto continuamente ritardato o accelerato non si può naturalmente
ritrovare: e dico naturalmente, perché il moto retto che si ritarda,
è il violento, che non può esser perpetuo, e l'accelerato arriva
necessariamente al termine, se vi è; e se non vi è, non vi
può né anco esser moto, perché la natura non muove dove è
impossibile ad arrivare. Concludo per tanto, il solo movimento circolare poter
naturalmente convenire a i corpi naturali integranti l'universo e costituiti
nell'ottima disposizione; ed il retto, al piú che si possa dire, essere
assegnato dalla natura a i suoi corpi e parti di essi, qualunque volta si
ritrovassero fuori de' luoghi loro, costituite in prava disposizione, e
però bisognose di ridursi per la piú breve allo stato naturale. Di qui
mi par che assai ragionevolmente si possa concludere, che per mantenimento
dell'ordine perfetto tra le parti del mondo bisogni dire che le mobili sieno
mobili solo circolarmente, e se alcune ve ne sono che circolarmente non si
muovano, queste di necessità sieno immobili, non essendo altro, salvo
che la quiete e 'l moto circolare, atto alla conservazione dell'ordine. Ed io
non poco mi maraviglio che Aristotile, il quale pure stimò che 'l globo
terrestre fusse collocato nel centro del mondo e che quivi immobilmente si
rimanesse, non dicesse che de' corpi naturali altri erano mobili per natura ed
altri immobili, e massime avendo già definito, la natura esser principio
di moto e di quiete.
SIMP. Aristotile, come quello che non si prometteva
del suo ingegno, ancorché perspicacissimo, piú di quello che si conviene,
stimò, nel suo filosofare, che le sensate esperienze si dovessero
anteporre a qualsivoglia discorso fabbricato da ingegno umano, e disse che
quelli che avessero negato il senso, meritavano di esser gastigati col levargli
quel tal senso: ora, chi è quello cosí cieco che non vegga, le parti
della terra e dell'acqua muoversi, come gravi, naturalmente all'ingiú,
cioè verso il centro dell'universo, assegnato dall'istessa natura per fine
e termine del moto retto deorsum; e non vegga parimente, muoversi il
fuoco e l'aria all'insú rettamente verso il concavo dell'orbe lunare, come a
termine naturale del moto sursum? e vedendosi tanto manifestamente
questo, ed essendo noi sicuri che eadem est ratio totius et partium,
come non si deve egli dire, esser proposizion vera e manifesta che il movimento
naturale della terra è il retto ad medium, e del fuoco il retto a
medio?
SALV. In virtú di questo vostro discorso, al piú al
piú che voi poteste pretendere che vi fusse conceduto è che, sí come le
parti della terra rimosse dal suo tutto, cioè dal luogo dove esse
naturalmente dimorano, cioè, finalmente, ridotte in prava e disordinata
disposizione, tornano al luogo loro spontaneamente, e però naturalmente,
con movimento retto, cosí (conceduto che eadem sit ratio totius et partium)
si potrebbe inferire che rimosso per violenza il globo terrestre dal luogo
assegnatogli dalla natura, egli vi ritornerebbe per linea retta. Questo, come
ho detto, è quanto al piú vi si potesse concedere, fattavi ancora ogni
sorte d'agevolezza: ma chi volesse riveder con rigore queste partite, prima vi
negherebbe che le parti della terra nel ritornare al suo tutto si movessero per
linea retta, e non per circolare o altra mista; e voi sicuramente avereste che
fare assai a dimostrare il contrario, come apertamente intenderete nelle
risposte alle ragioni ed esperienze particolari addotte da Tolomeo e da
Aristotile. Secondariamente, se altri vi dicesse che le parti della terra si
muovono non per andar al centro del mondo, ma per andare a riunirsi col suo
tutto, e che per ciò hanno naturale inclinazione verso il centro del
globo terrestre, per la quale inclinazione conspirano a formarlo e conservarlo,
qual altro tutto e qual altro centro trovereste voi al mondo, al quale l'intero
globo terreno, essendone rimosso, cercasse di ritornare, onde la ragion del
tutto fusse simile a quella delle parti? Aggiugnete che né Aristotile né voi
proverete già mai che la Terra de facto sia nel centro
dell'universo; ma, se si può assegnare centro alcuno all'universo,
troveremo in quello esser piú presto collocato il Sole, come nel progresso
intenderete.
Ora, sí come dal cospirare concordemente tutte le
parti della terra a formare il suo tutto ne segue che esse da tutte le parti
con eguale inclinazione vi concorrano, e, per unirsi al piú che sia possibile
insieme, sfericamente vi si adattano; perché non doviamo noi credere che la
Luna, il Sole e gli altri corpi mondani siano essi ancora di figura rotonda non
per altro che per un concorde instinto e concorso naturale di tutte le loro
parti componenti? delle quali se tal ora alcuna per qualche violenza fusse dal
suo tutto separata, non è egli ragionevole il credere che spontaneamente
e per naturale instinto ella vi ritornerebbe? ed in questo modo concludere che
'l moto retto competa egualmente a tutti i corpi mondani?
SIMP. E' non è dubbio alcuno che come voi
volete negare non solamente i principii nelle scienze, ma esperienze manifeste
ed i sensi stessi, voi non potrete già mai esser convinto o rimosso da
veruna oppinione concetta; e io piú tosto mi quieterò perché contra
negantes principia non est disputandum, che persuaso in virtú delle vostre
ragioni. E stando su le cose da voi pur ora pronunziate (già che mettete
in dubbio insino nel moto de i gravi se sia retto o no), come potete voi mai
ragionevolmente negare che le parti della terra, cioè che le materie
gravissime, descendano verso il centro con moto retto, se, lasciate da una
altissima torre, le cui parete sono dirittissime e fabbricate a piombo, esse
gli vengono, per cosí dire, lambendo, e percotendo in terra in quel medesimo
punto a capello dove verrebbe a terminare il piombo che pendesse da uno spago
legato in alto ivi per l'appunto onde si lasciò cadere il sasso? non
è questo argomento piú che evidente, cotal moto esser retto e verso il
centro? Nel secondo luogo, voi revocate in dubbio se le parti della terra si
muovano per andar, come afferma Aristotile, al centro del mondo, quasi che egli
non l'abbia concludentemente dimostrato per i movimenti contrari, mentre in
cotal guisa argomenta: il movimento de i gravi è contrario a quello de i
leggieri; ma il moto de i leggieri si vede esser dirittamente all'insú,
cioè verso la circonferenza del mondo; adunque il moto de i gravi
è rettamente verso il centro del mondo, ed accade per accidens
che e' sia verso il centro della Terra, poiché questo si abbatte ad essere
unito con quello. Il cercar poi quello che facesse una parte del globo lunare o
del Sole, quando fusse separata dal suo tutto, è vanità, perché
si cerca quello che seguirebbe in conseguenza d'un impossibile, atteso che,
come pur dimostra Aristotile, i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili,
infrangibili, sí che non si può dare il caso; e quando pure e' si desse,
e che la parte separata ritornasse al suo tutto, ella non vi tornerebbe come
grave o leggiera, ché pur il medesimo Aristotile prova che i corpi celesti non
sono né gravi né leggieri.
SALV. Quanto ragionevolmente io dubiti, se i gravi
si muovano per linea retta e perpendicolare, lo sentirete, come pur ora ho
detto, quando esaminerò questo argomento particolare. Circa il secondo
punto, io mi meraviglio che voi abbiate bisogno che 'l paralogismo d'Aristotile
vi sia scoperto, essendo per se stesso tanto manifesto, e che voi non vi
accorgiate che Aristotile suppone quello che è in quistione. Però
notate…
SIMP. Di grazia, signor Salviati parlate con piú
rispetto d'Aristotile. Ed a chi potrete voi persuader già mai che quello
che è stato il primo, unico ed ammirabile esplicator della forma
silogistica, della dimostrazione, de gli elenchi, de i modi di conoscere i
sofismi, i paralogismi, ed in somma di tutta la logica, equivocasse poi sí
gravemente in suppor per noto quello che è in quistione? Signori, bisogna
prima intenderlo perfettamente, e poi provarsi a volerlo impugnare.
SALV. Signor Simplicio, noi siamo qui tra noi
discorrendo familiarmente per investigar qualche verità; io non
arò mai per male che voi mi palesiate i miei errori, e quando io non
avrò conseguita la mente d'Aristotile, riprendetemi pur liberamente, che
io ve ne arò buon grado. Concedetemi in tanto che io esponga le mie
difficultà, e ch'io risponda ancora alcuna cosa a le vostre ultime
parole, dicendovi che la logica, come benissimo sapete, è l'organo col
quale si filosofa; ma, sí come può esser che un artefice sia eccellente
in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli sonare, cosí può esser un
gran logico, ma poco esperto nel sapersi servir della logica; sí come ci son
molti che sanno per lo senno a mente tutta la poetica, e son poi infelici nel
compor quattro versi solamente; altri posseggono tutti i precetti del Vinci, e
non saprebber poi dipignere uno sgabello. Il sonar l'organo non s'impara da
quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa sonare; la poesia s'impara dalla
continua lettura de' poeti; il dipignere s'apprende col continuo disegnare e
dipignere; il dimostrare, dalla lettura dei libri pieni di dimostrazioni, che
sono i matematici soli, e non i logici. Ora, tornando al proposito, dico che
quello che vede Aristotile del moto de i corpi leggieri, è il partirsi
il fuoco da qualunque luogo della superficie del globo terrestre e dirittamente
discostarsene, salendo in alto; e questo è veramente muoversi verso una
circonferenza maggiore di quella della Terra, anzi il medesimo Aristotile lo fa
muovere al concavo della Luna: ma che tal circonferenza sia poi quella del
mondo, o concentrica a quella, sí che il muoversi verso questa sia un muoversi
anco verso quella del mondo, ciò non si può affermare se prima
non si suppone che 'l centro della Terra, dal quale noi vediamo discostarsi i
leggieri ascendenti, sia il medesimo che 'l centro del mondo, che è
quanto dire che 'l globo terrestre sia costituito nel centro del mondo; che
è poi quello di che noi dubitiamo e che Aristotile intende di provare. E
questo direte che non sia un manifesto paralogismo?
SAGR. Questo argomento d'Aristotile mi era parso,
anco per un altro rispetto, manchevole e non concludente, quando bene se gli
concedesse che quella circonferenza alla quale si muove rettamente il fuoco,
fusse quella che racchiude il mondo. Imperocché, preso dentro a un cerchio non
solamente il centro, ma qualsivoglia altro punto, ogni mobile che partendosi da
quello camminerà per linea retta, e verso qualsivoglia parte, senz'alcun
dubbio andrà verso la circonferenza, e continuando il moto vi
arriverà ancora, sí che verissimo sarà il dire che egli verso la
circonferenza si muova; ma non sarà già vero che quello che per
le medesime linee si movesse con movimento contrario, vadia verso il centro, se
non quando il punto preso fusse l'istesso centro, o che 'l moto fusse fatto per
quella sola linea che, prodotta dal punto assegnato, passa per lo centro.
Talché il dire: «Il fuoco, movendosi rettamente, va verso la circonferenza del
mondo; adunque le parti della terra, le quali per le medesime linee si muovono
di moto contrario, vanno verso 'l centro del mondo», non conclude altrimenti,
se non supposto prima che le linee del fuoco, prolungate, passino per il centro
del mondo: e perché di esse noi sappiamo certo che le passano per il centro del
globo terrestre (essendo a perpendicolo sopra la sua superficie, e non
inclinate), adunque, per concludere, bisogna supporre che il centro della Terra
sia l'istesso che il centro del mondo, o almeno che le parti del fuoco e della
terra non ascendano e descendano se non per una linea sola che passi per il
centro del mondo; il che è poi falso e repugna all'esperienza, la qual
ci mostra che le parti del fuoco non per una linea sola, ma per le infinite
prodotte dal centro della Terra verso tutte le parti del mondo, ascendono
sempre per linee perpendicolari alla superficie del globo terrestre.
SALV. Voi, signor Sagredo, molto ingegnosamente
conducete Aristotile al medesimo inconveniente, mostrando l'equivoco manifesto;
ma aggiugnete un'altra sconvenevolezza. Noi veggiamo la Terra essere sferica, e
però siamo sicuri che ella ha il suo centro; a quello veggiamo che si
muovono tutte le sue parti, ché cosí è necessario dire mentre i movimenti
loro son tutti perpendicolari alla superficie terrestre; intendiamo come,
movendosi al centro della Terra, si muovono al suo tutto ed alla sua madre
universale; e siamo poi tanto buoni, che ci vogliam lasciar persuadere che
l'instinto loro naturale non è di andar verso il centro della Terra, ma
verso quel dell'universo, il quale non sappiamo dove sia, né se sia, e che
quando pur sia, non è altro ch'un punto imaginario ed un niente senza
veruna facultà. All'ultimo detto poi del signor Simplicio, che il
contendere se le parti del Sole o della Luna o di altro corpo celeste, separate
dal suo tutto, ritornassero naturalmente a quello, sia una vanità, per
essere il caso impossibile, essendo manifesto, per dimostrazioni di Aristotile,
che i corpi celesti sono impassibili, impenetrabili, impartibili, etc.,
rispondo, niuna delle condizioni per le quali Aristotile fa differire i corpi
celesti da gli elementari avere altra sussistenza che quella ch'ei deduce dalla
diversità de i moti naturali di quelli e di questi; in modo che, negato
che il moto circolare sia solo de i corpi celesti, ed affermato ch'ei convenga
a tutti i corpi naturali mobili, bisogna per necessaria conseguenza dire che
gli attributi di generabile o ingenerabile, alterabile o inalterabile, partibile
o impartibile, etc., egualmente e comunemente convengano a tutti i corpi
mondani, cioè tanto a i celesti quanto a gli elementari, o che malamente
e con errore abbia Aristotile dedotti dal moto circolare quelli che ha
assegnati a i corpi celesti.
SIMP. Questo modo di filosofare tende alla
sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in
conquasso il cielo e la Terra e tutto l'universo. Ma io credo che i fondamenti
de i Peripatetici sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si
possano construire nuove scienze.
SALV. Non vi pigliate già
pensiero del cielo né della Terra, né temiate la lor sovversione, come né anco
della filosofia; perché, quanto al cielo, in vano è che voi temiate di
quello che voi medesimo reputate inalterabile e impassibile; quanto alla Terra,
noi cerchiamo di nobilitarla e perfezionarla, mentre proccuriamo di farla
simile a i corpi celesti e in certo modo metterla quasi in cielo, di dove i
vostri filosofi l'hanno bandita. La filosofia medesima non può se non
ricever benefizio dalle nostre dispute, perché se i nostri pensieri saranno
veri, nuovi acquisti si saranno fatti, se falsi, col ributtargli, maggiormente
verranno confermate le prime dottrine. Pigliatevi piú tosto pensiero di alcuni
filosofi, e vedete di aiutargli e sostenergli, ché quanto alla scienza stessa,
ella non può se non avanzarsi. E ritornando al nostro proposito,
producete liberamente quello che vi sovviene per mantenimento della somma
differenza che Aristotile pone tra i corpi celesti e la parte elementare, nel
far quelli ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc., e questa
corruttibile, alterabile, etc. [Per quelli che si perturbano per aver a mutar
tutta la Filosofia si mostri come non è cosí, e che resta la medesima
dottrina dell'anima, delle generazioni, delle meteore, degli animali.]
SIMP. Io non veggo per ancora che Aristotile sia
bisognoso di soccorso, restando egli in piede, saldo e forte, anzi non essendo
per ancora pure stato assalito, non che abbattuto, da voi. E qual sarà
il vostro schermo in questo primo assalto? Scrive Aristotile: Quello che si
genera, si fa da un contrario in qualche subietto, e parimente si corrompe in
qualche subietto da un contrario in un contrario, sí che (notate bene) la
corruzzione e generazione non è se non ne i contrari; ma de i contrari i
movimenti son contrari; se dunque al corpo celeste non si può assegnar
contrario, imperocché al moto circolare niun altro movimento è
contrario, adunque benissimo ha fatto la natura a fare esente da i contrari
quello che doveva essere ingenerabile ed incorruttibile. Stabilito questo primo
fondamento, speditamente si cava in conseguenza ch'ei sia inaugumentabile,
inalterabile, impassibile, e finalmente eterno ed abitazione proporzionata a
gli Dei immortali, conforme alla opinione ancora di tutti gli uomini che de gli
Dei hanno concetto. Conferma poi l'istesso ancor per il senso; avvenga che in
tutto il tempo passato, secondo le tradizioni e memorie, nissuna cosa si vede
essersi trasmutata, né secondo tutto l'ultimo cielo né secondo alcuna sua
propria parte. Che poi al moto circolare niuno altro sia contrario, lo prova
Aristotile in molte maniere; ma senza replicarle tutte, assai apertamente resta
dimostrato, mentre che i moti semplici non sono altri che tre, al mezo, dal
mezo e intorno al mezo, de i quali i dua retti sursum et deorsum sono
manifestamente contrari, e perché un solo ha un solo per contrario, adunque non
resta altro movimento che possa esser contrario al circolare. Eccovi il
discorso di Aristotile argutissimo e concludentissimo, per il quale si prova
l'incorruttibilità del cielo.
SALV. Questo non è niente di piú che il puro
progresso d'Aristotile, già da me accennato, nel quale, tuttavolta che
io vi neghi che il moto, che voi attribuite a i corpi celesti, non convenga
ancora alla Terra, la sua illazione resta nulla. Dicovi per tanto che quel moto
circolare, che voi assegnate a i corpi celesti, conviene ancora alla Terra: dal
che, posto che il resto del vostro discorso sia concludente, seguirà una
di queste tre cose, come poco fa si è detto ed or vi replico,
cioè, o che la Terra sia essa ancora ingenerabile e incorruttibile, come
i corpi celesti, o che i corpi celesti sieno, come gli elementari, generabili,
alterabili, etc., o che questa differenza di moti non abbia che far con la
generazione e corruzione. Il discorso di Aristotile e vostro contiene molte
proposizioni da non esser di leggiero ammesse, e per poterlo meglio esaminare,
sarà bene ridurlo piú al netto ed al distinto, che sia possibile: e scusimi
il signor Sagredo se forse con qualche tedio sente replicar piú volte le
medesime cose, e faccia conto di sentir ripigliar gli argomenti ne i publici
circoli de i disputanti. Voi dite: «La generazione e corruzione non si fa se
non dove sono i contrari; i contrari non sono se non tra i corpi semplici
naturali, mobili di movimenti contrari; movimenti contrari sono solamente
quelli che si fanno per linee rette tra termini contrari, e questi sono
solamente dua cioè dal mezo ed al mezo, e tali movimenti non sono di
altri corpi naturali che della terra, del fuoco e degli altri due elementi;
adunque la generazione e corruzione non è se non tra gli elementi. E
perché il terzo movimento semplice, cioè il circolare intorno al mezo,
non ha contrario (perché contrari sono gli altri dua, e un solo ha un solo per
contrario), però quel corpo naturale al quale tal moto compete, manca di
contrario; e non avendo contrario, resta ingenerabile e incorruttibile etc.,
perché dove non è contrarietà, non è generazione né corruzione
etc.: ma tal moto compete solamente a i corpi celesti: adunque soli questi sono
ingenerabili, incorruttibili, etc.». E prima, a me si rappresenta assai piú
agevol cosa il potersi assicurare se la Terra, corpo vastissimo e per
vicinità a noi trattabilissimo, si muova di un movimento massimo, qual
sarebbe per ora il rivolgersi in se stessa in ventiquattro ore, che non
è l'intendere ed assicurarsi se la generazione e corruzione si facciano
da i contrari, anzi pure se la corruzione e la generazione ed i contrari sieno
in natura: e se voi, signor Simplicio, mi sapeste assegnare qual sia il modo di
operare della natura nel generare in brevissimo tempo centomila moscioni da un
poco di fumo di mosto, mostrandomi quali sieno quivi i contrari, qual cosa si corrompa
e come, io vi reputerei ancora piú di quello ch'io fo, perché io nessuna di
queste cose comprendo. In oltre arei molto caro d'intendere come e perché
questi contrari corruttivi sieno cosí benigni verso le cornacchie e cosí fieri
verso i colombi, cosí tolleranti verso i cervi ed impazienti contro a i
cavalli, che a quelli concedano piú anni di vita cioè
d'incorruttibilità, che settimane a questi. I peschi, gli ulivi, hanno
pur radice ne i medesimi terreni, sono esposti a i medesimi freddi, a i
medesimi caldi, alle medesime pioggie e venti, ed in somma alle medesime
contrarietà; e pur quelli vengono destrutti in breve tempo, e questi
vivono molte centinaia d'anni. Di piú, io non son mai restato ben capace di
questa trasmutazione sustanziale (restando sempre dentro a i puri termini
naturali), per la quale una materia venga talmente trasformata, che si deva per
necessità dire, quella essersi del tutto destrutta, sí che nulla del suo
primo essere vi rimanga e ch'un altro corpo, diversissimo da quella, se ne sia
prodotto; ed il rappresentarmisi un corpo sotto un aspetto e di lí a poco sotto
un altro differente assai, non ho per impossibile che possa seguire per una
semplice trasposizione di parti, senza corrompere o generar nulla di nuovo,
perché di simili metamorfosi ne vediamo noi tutto il giorno. Sí che torno a
replicarvi che come voi mi vorrete persuader che la Terra non si possa muover
circolarmente per via di corruttibilità e generabilità, averete
che fare assai piú di me, che con argomenti ben piú difficili, ma non men
concludenti, vi proverò il contrario.
SAGR. Signor Salviati, perdonatemi se io interrompo
il vostro ragionamento, il quale, sí come mi diletta assai, perché io ancora mi
trovo involto nelle medesime difficultà, cosí dubito che sia impossibile
il poterne venire a capo senza deporre in tutto e per tutto la nostra principal
materia; però, quando si potesse tirare avanti il primo discorso,
giudicherei che fusse bene rimettere ad un altro separato ed intero
ragionamento questa quistione della generazione e corruzione, sí come anco,
quando ciò piaccia a voi ed al signor Simplicio, si potrà fare di
altre quistioni particolari, che il corso de' ragionamenti ci porgesse avanti,
delle quali io terrò memoria a parte, per proporle un altro giorno e
minutamente esaminarle. Or, quanto alla presente, già che voi dite che,
negato ad Aristotile che il moto circolare non sia della Terra, come degli
altri corpi celesti, ne seguirà che quello che accade della Terra, circa
l'esser generabile, alterabile, etc., sia ancora del cielo, lasciamo star se la
generazione e corruzione sieno o non sieno in natura, e torniamo a veder
d'investigare quel che faccia il globo terrestre.
SIMP. Io non posso accomodar l'orecchie a sentir
mettere in dubbio se la generazione e corruzione sieno in natura, essendo una
cosa che noi continuamente aviamo innanzi a gli occhi, e della quale Aristotile
ha scritto due libri interi. Ma quando si abbiano a negare i principii nelle
scienze e mettere in dubbio le cose manifestissime, chi non sa che si
potrà provare quel che altri vuole e sostener qualsivoglia paradosso? E
se voi non vedete tutto il giorno generarsi e corrompersi erbe, piante, animali,
che altra cosa vedete voi? come non vedete perpetuamente giostrarsi in contro
le contrarietà, e la terra mutarsi in acqua, l'acqua convertirsi in
aria, l'aria in fuoco, e di nuovo l'aria condensarsi in nuvole, in pioggie,
grandini e tempeste?
SAGR. Anzi veggiamo pur tutte queste cose, e
però vogliamo concedervi il discorso d'Aristotile, quanto a questa parte
della generazione e corruzione fatta da i contrari; ma se io vi
concluderò, in virtú delle medesime proposizioni concedute ad
Aristotile, che i corpi celesti sieno essi ancora, non meno che gli elementari,
generabili e corruttibili, che cosa direte voi?
SIMP. Dirò che voi abbiate fatto quello che
è impossibile a farsi.
SAGR. Ditemi un poco, signor Simplicio: non sono
queste affezioni contrarie tra di loro?
SIMP. Quali?
SAGR. Eccovele: alterabile, inalterabile,
passibile, impassibile, generabile, ingenerabile, corruttibile, incorruttibile?
SIMP. Sono contrarissime
SAGR. Come questo sia, e sia vero ancora che i
corpi celesti sieno ingenerabili e incorruttibili, io vi provo che di
necessità bisogna che i corpi celesti sien generabili e corruttibili.
SIMP. Questo non potrà esser altro che un
soffisma.
SAGR. Sentite l'argomento, e poi nominatelo e
solvetelo. I corpi celesti, perché sono ingenerabili ed incorruttibili, hanno
in natura de i contrari, che sono i corpi generabili e corruttibili; ma dove
è contrarietà, quivi è generazione e corruzione; adunque i
corpi celesti son generabili e corruttibili.
SIMP. Non vi diss'io che non poteva esser altro
ch'un soffisma? Questo è un di quelli argomenti cornuti, che si chiamano
soriti: come quello del Candiotto, che diceva che tutti i Candiotti erano
bugiardi, però, essendo egli Candiotto, veniva a dir la bugia, mentre
diceva che i Candiotti erano bugiardi; bisogna adunque che i Candiotti fussero
veridici, ed in conseguenza esso, come Candiotto, veniva ad esser veridico, e
però, nel dir che i Candiotti erano bugiardi, diceva il vero, e
comprendendo sé, come Candiotto, bisognava che e' fusse bugiardo. E cosí in
questa sorte di soffismi si durerebbe in eterno a rigirarsi, senza concluder
mai niente.
SAGR. Voi sin qui l'avete nominato: resta ora che
lo sciogliate, mostrando la fallacia.
SIMP. Quanto al solverlo e mostrar la sua fallacia,
non vedete voi, prima, la contradizion manifesta? i corpi celesti sono
ingenerabili e incorruttibili; adunque i corpi celesti son generabili e
corruttibili? E poi, la contrarietà non è tra i corpi celesti, ma
è tra gli elementi, li quali hanno la contrarietà de i moti sursum
et deorsum e della leggerezza e gravità; ma i cieli, che si muovono
circolarmente, al qual moto niun altro è contrario, mancano di
contrarietà, e però sono incorruttibili etc.
SAGR. Piano, signor Simplicio. Questa
contrarietà, per la quale voi dite alcuni corpi semplici esser corruttibili,
risied'ella nell'istesso corpo che si corrompe, o pure ha relazione ad un
altro? dico se l'umidità, per esempio, per la quale si corrompe una
parte di terra, risiede nell'istessa terra o pure in un altro corpo, qual
sarebbe l'aria o l'acqua. Io credo pur che voi direte che, sí come i movimenti
in su e in giú, e la gravità e la leggerezza, che voi fate i primi
contrari, non posson essere nel medesimo suggetto, cosí né anco l'umido e 'l
secco, il caldo e 'l freddo: bisogna dunque che voi diciate, che quando il
corpo si corrompe, ciò avvenga per la qualità che si trova in un
altro, contraria alla sua propria. Però, per far che 'l corpo celeste
sia corruttibile, basta che in natura ci sieno corpi che abbiano
contrarietà al corpo celeste; e tali sono gli elementi, se è vero
che la corruttibilità sia contraria all'incorruttibilità.
SIMP. Non basta questo, Signor mio. Gli elementi si
alterano e si corrompono perché si toccano e si mescolano tra di loro, e cosí
possono esercitare le lor contrarietà; ma i corpi celesti sono separati
da gli elementi, da i quali non son né anco tocchi, se ben essi toccano gli
elementi. Bisogna, se voi volete provar la generazione e corruzione ne i corpi
celesti, che voi mostriate che tra loro riseggano le contrarietà.
SAGR. Ecco ch'io ve le trovo tra di loro. Il primo
fonte dal quale voi cavate le contrarietà de gli elementi, è la
contrarietà de' moti loro in su e in giú; adunque è forza che
contrari sieno parimente tra di loro quei principii da i quali dependono tali
movimenti; e perché quello è mobile in su per la leggerezza, e questo in
giú per la gravità, è necessario che leggerezza e gravità
sieno tra di loro contrarie; né meno si deve credere che sien contrari quegli
altri principii che son cagioni che questo sia grave, e leggiero quello. Ma,
per voi medesimi, la leggerezza e la gravità vengono in conseguenza
della rarità e densità; adunque contrarie saranno la
densità e la rarità: le quali condizioni tanto amplamente si
ritrovano ne i corpi celesti, che voi stimate le stelle non esser altro che
parti piú dense del lor cielo; e quando ciò sia, bisogna che la
densità delle stelle superi quasi d'infinito intervallo quella del resto
del cielo; il che è manifesto dall'essere il cielo sommamente trasparente,
e le stelle sommamente opache, e dal non si trovare lassú altre qualità
che 'l piú e 'l meno denso o raro, che della maggiore e minor trasparenza
possano esser principii. Essendo dunque tali contrarietà tra i corpi
celesti, è necessario che essi ancora sien generabili e corruttibili, in
quel medesimo modo che son tali i corpi elementari, o vero che non la
contrarietà sia causa della corruttibilità, etc.
SIMP. Non è necessario né l'un né l'altro:
perché la densità e rarità ne i corpi celesti non son contrarie
tra loro, come ne i corpi elementari; imperocché non dependono dalle prime
qualità, caldo e freddo, che sono contrarie, ma dalla molta o poca
materia in proporzione alla quantità; ora il molto e 'l poco dicono
solamente una opposizione relativa, che è la minor che sia, e non ha che
fare con la generazione e corruzione.
SAGR. Talché a voler che il denso e 'l raro, che
tra gli elementi deve esser cagione di gravità e leggerezza, le quali
possan esser cause di moti contrari sursum et deorsum, da i quali
dependano poi le contrarietà per la generazione e corruzione, […], non
basta che sieno di quei densi e rari che sotto la medesima quantità, o
vogliam dir mole, contengono molta o poca materia, ma è necessario che
e' siano densi e rari mercè delle prime qualità, freddo e caldo;
altramente, non si farebbe niente. Ma, se questo è, Aristotile ci ha
ingannati, perché doveva dircelo da principio, e lasciare scritto che son
generabili e corruttibili quei corpi semplici che son mobili di movimenti
semplici in su e in giú, dependenti da leggerezza e gravità, causate da
rarità e densità, fatta da molta e poca materia, mercé del caldo
e del freddo, e non si fermare sul semplice moto sursum et deorsum;
perché io vi assicuro che quanto al fare i corpi gravi e leggieri, onde e' sien
poi mobili di movimenti contrari, qualsivoglia densità e rarità
basta, venga ella per caldo e freddo o per quel che piú vi piace, perché il
caldo e 'l freddo non hanno che far niente in questa operazione, e voi vedrete
che un ferro infocato, che pur si può chiamar caldo, pesa il medesimo e
si muove nel medesimo modo che freddo. Ma lasciato ancor questo, che sapete voi
che il denso e 'l raro celeste non dependano dal freddo e dal caldo?
SIMP. Sollo, perché tali qualità non sono
tra i corpi celesti, li quali non son caldi né freddi.
SALV. Io veggo che noi torniamo di nuovo a
ingolfarci in un pelago infinito da non ne uscir mai, perché questo è un
navigar senza bussola, senza stelle, senza remi, senza timone, onde convien per
necessità o passare di scoglio in scoglio o dare in secco o navigar
sempre per perduti. Però, se conforme al vostro consiglio noi vogliamo
tendere avanti nella nostra principal materia, bisogna che, lasciata per ora
questa general considerazione, se il moto retto sia necessario in natura e convenga
ad alcuni corpi, venghiamo alle dimostrazioni, osservazioni ed esperienze
particolari, proponendo prima tutte quelle che da Aristotile da Tolomeo e da
altri sono state sin qui addotte per prova della stabilità della Terra,
cercando secondariamente di solverle, e portando in ultimo quelle per le quali
altri possa restar persuaso che la Terra sia, non men che la Luna o altro
pianeta, da connumerarsi tra i corpi naturali mobili circolarmente.
SAGR. Io tanto piú volentieri mi atterrò a
questo, quanto io resto assai piú sodisfatto del vostro discorso architettonico
e generale che di quello d'Aristotile, perché il vostro senza intoppo veruno mi
quieta, e l'altro ad ogni passo mi attraversa qualche inciampo; e non so come
il signor Simplicio non sia restato subito persuaso dalla ragione arrecata da
voi per prova che il moto per linea retta non può aver luogo in natura,
tuttavoltaché si supponga che le parti dell'universo sieno disposte in ottima
costituzione e perfettamente ordinate.
SALV. Fermate, di grazia, signor Sagredo, ché pur
ora mi sovviene il modo di poter dar sodisfazione anco al signor Simplicio,
tuttavolta però che e' non voglia restar talmente legato ad ogni detto
d'Aristotile, che egli abbia per sacrilegio il discostarsene da alcuno. E' non è
dubbio che per mantener l'ottima disposizione e l'ordine perfetto delle parti
dell'universo, quanto alla local situazione, non ci è altro che il
movimento circolare e la quiete; ma quanto al moto per linea retta, non veggo,
che possa servire ad altro che al ridurre nella sua natural costituzione
qualche particella di alcuno de' corpi integrali che per qualche accidente
fusse stata rimossa e separata dal suo tutto, come di sopra dicemmo.
Consideriamo ora tutto il globo terrestre e veggiamo quel che può esser
di lui, tuttavoltaché ed esso e gli altri corpi mondani si devano conservare
nell'ottima e natural disposizione. Egli è necessario dire, o che egli
resti e si conservi perpetuamente immobile nel luogo suo, o che, restando pur
sempre nell'istesso luogo, si rivolga in se stesso, o che vadia intorno ad un
centro, movendosi per la circonferenza di un cerchio: de i quali accidenti, ed
Aristotile e Tolomeo e tutti i lor seguaci dicon pure che egli ha osservato
sempre, ed è per mantenere in eterno, il primo, cioè una perpetua
quiete nel medesimo luogo. Or, perché dunque in buon'ora non si dev'egli dire
che sua naturale affezione è il restare immobile, piú tosto che far suo
naturale il moto all'ingiú, del qual moto egli già mai non si è
mosso ned è per muoversi? E quanto al movimento per linea retta, lascisi
che la natura se ne serva per ridur al suo tutto le particelle della terra,
dell'acqua, dell'aria, e del fuoco, e di ogni altro corpo integrale mondano,
quando alcuna di loro, per qualche caso, se ne trovasse separata, e però
in luogo disordinato trasposta; se pure anco per far questa restituzione non si
trovasse che qualche moto circolare fusse piú accomodato. Parmi che questa
primaria posizione risponda molto meglio, dico anco in via d'Aristotile
medesimo, a tutte le altre conseguenze, che l'attribuire come intrinseco e
natural principio de gli elementi i movimenti retti. Il che è manifesto:
perché s'io domanderò al Peripatetico, se, tenendo egli che i corpi
celesti sieno incorruttibili ed eterni, ei crede che 'l globo terrestre non sia
tale, ma corruttibile e mortale, sí che egli abbia a venir tempo che,
continuando suo essere e sue operazioni il Sole e la Luna e le altre stelle, la
Terra non si ritrovi piú al mondo, ma sia con tutto il resto de gli elementi
destrutta e andata in niente, son sicuro che egli risponderà di no;
adunque la corruzione e generazione è nelle parti, e non nel tutto, e
nelle parti ben minime e superficiali, le quali son come insensibili in
comparazion di tutta la mole: e perché Aristotile argumenta la generazione e
corruzione dalla contrarietà de' movimenti retti, lascinsi tali
movimenti alle parti, che sole si alterano e corrompono, ed all'intero globo e
sfera de gli elementi attribuiscasi o il moto circolare o una perpetua
consistenza nel proprio luogo, affezioni che sole sono atte alla perpetuazione
ed al mantenimento dell'ordine perfetto. Questo che si dice della terra,
può dirsi con simil ragion del fuoco e della maggior parte dell'aria; a
i quali elementi si son ridotti i Peripatetici ad assegnare per loro intrinseco
e natural moto uno del quale mai non si sono mossi né sono per muoversi, e
chiamar fuor della natura loro quel movimento del quale si muovono, si son
mossi, e son per muoversi perpetuamente. Questo dico, perché assegnano all'aria
ed al fuoco il moto all'insú, del quale già mai si è mosso alcuno
de i detti elementi, ma solo qualche lor particella, e questa non per altro che
per ridursi alla perfetta costituzione, mentre si trovava fuori del luogo suo
naturale; ed all'incontro chiamano a lor preternaturale il moto circolare, del
quale incessabilmente si muovono, scordatisi in certo modo di quello che piú
volte ha detto Aristotile, che nessun violento può durar lungo tempo.
SIMP. A tutte queste cose abbiamo noi le risposte
accomodatissime, le quali per ora lascerò da parte per venire alle
ragioni piú particolari ed esperienze sensate, le quali finalmente devono
anteporsi, come ben dice Aristotile, a quanto possa esserci somministrato
dall'umano discorso.
SAGR. Servanci dunque le cose dette sin qui per
averci messo in considerazione qual de' due generali discorsi abbia piú del
probabile: dico quello di Aristotile, per persuaderci, la natura de i corpi
sullunari esser generabile e corruttibile, etc., e però diversissima
dall'essenza de i corpi celesti, per esser loro impassibili, ingenerabili,
incorruttibili, etc., tirato dalla diversità de i movimenti semplici; o
pur questo del signor Salviati, che, supponendo le parti integrali del mondo
essere disposte in ottima costituzione, esclude per necessaria conseguenza da i
corpi semplici naturali i movimenti retti, come di niuno uso in natura, e stima
la Terra esser essa ancora uno de i corpi celesti, adornato di tutte le
prerogative che a quelli convengono: il qual discorso sin qui a me consuona assai
piú che quell'altro. Sia dunque contento il signor Simplicio produr tutte le
particolari ragioni, esperienze ed osservazioni, tanto naturali quanto
astronomiche, per le quali altri possa restar persuaso, la Terra esser diversa
da i corpi celesti, immobile, collocata nel centro del mondo, e se altro vi
è che l'escluda dall'esser essa ancora mobile come un pianeta, come
Giove o la Luna, etc.: ed il signor Salviati per sua cortesia si
contenterà di rispondere a parte a parte.
SIMP. Eccovi, per la prima, due potentissime
dimostrazioni per prova che la Terra è differentissima da i corpi
celesti. Prima, i corpi che sono generabili, corruttibili, alterabili, etc.,
son diversissimi da quelli che sono ingenerabili incorruttibili, inalterabili,
etc.: la Terra è generabile, corruttibile, alterabile, etc., e i corpi
celesti ingenerabili, incorruttibili, inalterabili, etc.: adunque la Terra
è diversissima da i corpi celesti.
SAGR Per il primo argomento, voi riconducete in
tavola quello che ci è stato tutt'oggi ed a pena si è levato pur
ora.
SIMP. Piano, Signore; sentite il resto, e vedrete
quanto e' sia differente da quello. Nell'altro si provò la minore a
priori, ed ora ve la voglio provare a posteriori; guardate se questo
è essere il medesimo. Provo dunque la minore, essendo la maggiore
manifestissima. La sensata esperienza ci mostra come in Terra si fanno continue
generazioni, corruzioni, alterazioni, etc., delle quali né per senso nostro, né
per tradizioni o memorie de' nostri antichi, se n'è veduta veruna in
cielo; adunque il cielo è inalterabile etc., e la Terra alterabile etc.,
e però diversa dal cielo. Il secondo argomento cavo io da un principale
ed essenziale accidente; ed è questo. Quel corpo che è per sua
natura oscuro e privo di luce, è diverso da i corpi luminosi e
risplendenti: la Terra è tenebrosa e senza luce; ed i corpi celesti
splendidi e pieni di luce: adunque etc. Rispondasi a questi, per non far troppo
cumulo, e poi ne addurrò altri.
SALV. Quanto al primo, la forza del quale voi
cavate dall'esperienza, desidero che voi piú distintamente mi produciate le
alterazioni che voi vedete farsi nella Terra e non in cielo, per le quali voi
chiamate la Terra alterabile ed il cielo no.
SIMP. Veggo in Terra continuamente generarsi e
corrompersi erbe, piante, animali, suscitarsi venti, pioggie, tempeste,
procelle, ed in somma esser questo aspetto della Terra in una perpetua
metamorfosi; niuna delle quali mutazioni si scorge ne' corpi celesti, la
costituzione e figurazione de' quali è puntualissimamente conforme a
quelle di tutte le memorie, senza esservisi generato cosa alcuna di nuovo, né
corrotto delle antiche.
SALV. Ma, come voi vi abbiate a quietare su queste
visibili, o, per dir meglio, vedute, esperienze, è forza che voi
reputiate la China e l'America esser corpi celesti, perché sicuramente in essi
non avete vedute mai queste alterazioni che voi vedete qui in Italia, e che
però, quanto alla vostra apprensione, e' sieno inalterabili.
SIMP. Ancorché io non abbia vedute queste
alterazioni sensatamente in quei luoghi, ce ne son però le relazioni
sicure: oltre che, cum eadem sit ratio totius et partium, essendo quei
paesi parti della Terra come i nostri, è forza che e' sieno alterabili
come questi.
SALV. E perché non l'avete voi, senza ridurvi a
dover credere all'altrui relazioni, osservate e viste da per voi con i vostri
occhi propri?
SIMP. Perché quei paesi, oltre al non esser esposti
a gli occhi nostri, son tanto remoti che la vista nostra non potrebbe arrivare
a comprenderci simili mutazioni.
SALV. Or vedete come da per voi medesimo avete
casualmente scoperta la fallacia del vostro argomento. Imperocché se voi dite
che le alterazioni, che si veggono in Terra appresso di noi, non le potreste,
per la troppa distanza, scorger fatte in America, molto meno le potreste vedere
nella Luna, tante centinaia di volte piú lontana: e se voi credete le
alterazioni messicane a gli avvisi venuti di là, quai rapporti vi son
venuti dalla Luna a significarvi che in lei non vi è alterazione?
Adunque dal non veder voi le alterazioni in cielo, dove, quando vi fussero, non
potreste vederle per la troppa distanza, e dal non ne aver relazione, mentre
che aver non si possa, non potete arguir che elle non vi sieno, come dal
vederle e intenderle in Terra bene arguite che le ci sono.
SIMP. Io vi troverò delle mutazioni seguite
in Terra cosí grandi, che se di tali se ne facessero nella Luna, benissimo
potrebbero esser osservate di qua giú. Noi aviamo, per antichissime memorie,
che già, allo stretto di Gibilterra, Abile e Calpe erano continuati
insieme, con altre minori montagne le quali tenevano l'Oceano rispinto; ma
essendosi, qual se ne fusse la causa, separati i detti monti, ed aperto l'adito
all'acque marine, queste scorsero talmente in dentro, che ne formarono tutto il
mare Mediterraneo: del quale se noi considereremo la grandezza, e la
diversità dell'aspetto che devon fare tra di loro la superficie
dell'acqua e quella della terra, vedute di lontano, non ha dubbio che una tale
mutazione poteva benissimo esser compresa da chi fusse stato nella Luna, sí
come da noi abitatori della Terra simili alterazioni dovrebbero scorgersi nella
Luna: ma non ci è memoria che mai si sia veduta cosa tale: adunque non
ci resta attacco da poter dire che alcuno de i corpi celesti sia alterabile
etc.
SALV. Che mutazioni cosí vaste sieno seguite nella
Luna, io non ardirei di dirlo; ma non sono anco sicuro che non ve ne possano
esser seguite: e perché una simil mutazione non potrebbe rappresentarci altro
che qualche variazione tra le parti piú chiare e le piú oscure di essa Luna, io
non so che ci sieno stati in Terra selinografi curiosi, che per lunghissima
serie di anni ci abbiano tenuti provvisti di selinografie cosí esatte, che ci
possano render sicuri, nissuna tal mutazione esser già mai seguita nella
faccia della Luna; della figurazione della quale non trovo piú minuta
descrizione, che il dire alcuno che la rappresenta un volto umano, altri che
l'è simile a un ceffo di leone, ed altri che l'è Caino con un
fascio di pruni in spalla. Adunque il dire «Il cielo è inalterabile,
perché nella Luna o in altro corpo celeste non si veggono le alterazioni che si
scorgono in Terra» non ha forza di concluder cosa alcuna.
SAGR. Ed a me resta non so che altro scrupolo in
questo primo argomento del signor Simplicio, il quale desidero che mi sia
levato. Però io gli domando se la Terra avanti l'innondazione
mediterranea era generabile e corruttibile, o pur cominciò allora ad
esser tale.
SIMP. Era senza dubbio generabile e corruttibile
ancora avanti; ma quella fu una mutazione tanto vasta, che anche nella Luna si
sarebbe potuta osservare
SAGR. Oh, se la Terra fu, pure avanti tale
alluvione, generabile e corruttibile, perché non può esser tale la Luna
parimente senza una simile mutazione? perché è necessario nella Luna
quello che non importava nulla nella Terra?
SALV. Argutissima instanza. Ma io vo dubitando che
il signor Simplicio alteri un poco l'intelligenza de i testi d'Aristotile e de
gli altri Peripatetici, li quali dicano di tenere il cielo inalterabile, perché
in esso non si è veduto generare né corromper mai alcuna stella, che
forse è del cielo parte minore che una città della Terra, e pur
innumerabili di queste si son destrutte in modo che né anco i vestigii ci son
rimasti.
SAGR. Io certo stimava altramente, e credeva che il
signor Simplicio dissimulasse questa esposizione di testo per non gravare il
Maestro ed i suoi condiscepoli di una nota assai piú deforme dell'altra. E qual
vanità è il dire: «La parte celeste è inalterabile, perché
in essa non si generano e corrompono stelle»? ci è forse alcuno che
abbia veduto corrompersi un globo terrestre e rigenerarsene un altro? e non
è egli ricevuto da tutti i filosofi, che pochissime stelle sieno in
cielo minori della Terra, ma bene assaissime molto e molto maggiori? Il
corrompersi dunque una stella in cielo non è minor cosa che destruggersi
tutto il globo terrestre: però, quando per poter con verità
introdur nell'universo la generazione e corruzione sia necessario che si
corrompano e rigenerino corpi cosí vasti come una stella, toglietelo pur via
del tutto, perché vi assicuro che mai non si vedrà corrompere il globo
terrestre o altro corpo integrale del mondo, sí che, essendocisi veduto per
molti secoli decorsi, ei si dissolva in maniera, che di sé non lasci vestigio
alcuno.
SALV. Ma per dar soprabbondante soddisfazione al
signor Simplicio e torlo, se è possibile, di errore, dico che noi aviamo
nel nostro secolo accidenti ed osservazioni nuove e tali, ch'io non dubito
punto che se Aristotile fusse all'età nostra, muterebbe oppinione. Il
che manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperocché
mentre egli scrive di stimare i cieli inalterabili etc., perché nissuna cosa
nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle vecchie, viene
implicitamente a lasciarsi intendere che quando egli avesse veduto uno di tali
accidenti, averebbe stimato il contrario ed anteposto, come conviene, la
sensata esperienza al natural discorso, perché quando e' non avesse voluto fare
stima de' sensi, non avrebbe, almeno dal non si vedere sensatamente mutazione
alcuna, argumentata l'immutabilità.
SIMP. Aristotile fece il principal suo fondamento
sul discorso a priori, mostrando la necessità
dell'inalterabilità del cielo per i suoi principii naturali, manifesti e
chiari; e la medesima stabilí doppo a posteriori, per il senso e per le
tradizioni de gli antichi.
SALV. Cotesto, che voi dite, è il metodo col
quale egli ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e' sia quello
col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch'e' proccurasse
prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi
quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi
da poterla dimostrare, perché cosí si fa per lo piú nelle scienze dimostrative:
e questo avviene perché, quando la conclusione è vera, servendosi del
metodo resolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già
dimostrata, o si arriva a qualche principio per sé noto; ma se la conclusione
sia falsa, si può procedere in infinito senza incontrar mai
verità alcuna conosciuta, se già altri non incontrasse alcun
impossibile o assurdo manifesto. E non abbiate dubbio che Pitagora gran tempo
avanti che e' ritrovasse la dimostrazione per la quale fece l'ecatumbe, si era
assicurato che 'l quadrato del lato opposto all'angolo retto nel triangolo
rettangolo era eguale a i quadrati de gli altri due lati; e la certezza della
conclusione aiuta non poco al ritrovamento della dimostrazione, intendendo
sempre nelle scienze demostrative. Ma fusse il progresso di Aristotile in
qualsivoglia modo, sí che il discorso a priori precedesse il senso a
posteriori, o per l'opposito, assai è che il medesimo Aristotile
antepone (come piú volte s'è detto) l'esperienze sensate a tutti i
discorsi; oltre che, quanto a i discorsi a priori, già si
è esaminato quanta sia la forza loro. Or, tornando alla materia, dico
che le cose scoperte ne i cieli a i tempi nostri sono e sono state tali, che
posson dare intera soddisfazione a tutti i filosofi: imperocché e ne i corpi
particolari e nell'universale espansione del cielo si son visti e si veggono
tuttavia accidenti simili a quelli che tra di noi chiamiamo generazioni e
corruzioni, essendo che da astronomi eccellenti sono state osservate molte
comete generate e disfatte in parti piú alte dell'orbe lunare, oltre alle due
stelle nuove dell'anno 1572 e del 1604, senza veruna contradizione altissime
sopra tutti i pianeti; ed in faccia dell'istesso Sole si veggono, mercé del
telescopio, produrre e dissolvere materie dense ed oscure in sembianza molto
simili alle nugole intorno alla Terra, e molte di queste sono cosí vaste, che
superano di gran lunga non solo il sino Mediterraneo, ma tutta l'Affrica e
l'Asia ancora. Ora, quando Aristotile vedesse queste cose, che credete voi,
signor Simplicio, ch'e' dicesse e facesse?.
SIMP. Io non so quello che si facesse né dicesse
Aristotile, che era padrone delle scienze, ma so bene in parte quello che fanno
e dicono, e che conviene che facciano e dicano i suoi seguaci, per non rimaner
senza guida senza scorta e senza capo nella filosofia. Quanto alle comete, non
son eglino restati convinti quei moderni astronomi, che le volevano far
celesti, dall'Antiticone, e convinti con le loro medesime armi, dico per
via di paralassi e di calcoli rigirati in cento modi, concludendo finalmente a
favor d'Aristotile che tutte sono elementari? e spiantato questo, che era
quanto fondamento avevano i seguaci delle novità, che altro piú resta
loro per sostenersi in piedi?
SALV. Con flemma, signor Simplicio. Cotesto moderno
autore che cosa dice egli delle stelle nuove del 72 e del 604 e delle macchie
solari? perché quanto alle comete, io, quant'a me, poca difficultà farei
nel porle generate sotto o sopra la Luna, né ho mai fatto gran fondamento sopra
la loquacità di Ticone, né sento repugnanza alcuna nel poter credere che
la materia loro sia elementare, e che le possano sublimarsi quanto piace loro,
senza trovare ostacoli nell'impenetrabilità del cielo peripatetico, il
quale io stimo piú tenue piú cedente e piú sottile assai della nostra aria; e
quanto a i calcoli delle paralassi, prima il dubbio se le comete sian soggette
a tale accidente, e poi l'incostanza delle osservazioni sopra le quali son
fatti i computi, mi rendono egualmente sospette queste opinioni e quelle, e
massime che mi pare che l'Antiticone talvolta accomodi a suo modo, o
metta per fallaci, quelle osservazioni che repugnano al suo disegno.
SIMP. Quanto alle stelle nuove, l'Antiticone
se ne sbriga benissimo in quattro parole, dicendo che tali moderne stelle nuove
non son parti certe de i corpi celesti, e che bisogna che gli avversari, se
voglion provare lassú esser alterazione e generazione, dimostrino mutazioni
fatte nelle stelle descritte già tanto tempo, delle quali nissuno dubita
che sieno cose celesti, il che non possono far mai in veruna maniera. Circa poi
alle materie che alcuni dicono generarsi e dissolversi in faccia del Sole, ei
non ne fa menzione alcuna; ond'io argomento ch'e' l'abbia per una favola, o per
illusioni del cannocchiale, o al piú per affezioncelle fatte per aria, ed in
somma per ogni altra cosa che per materie celesti.
SALV. Ma voi, signor Simplicio, che cosa vi sete
immaginato di rispondere all'opposizione di queste macchie importune, venute a
intorbidare il cielo, e piú la peripatetica filosofia? egli è forza che,
come intrepido difensor di quella, vi abbiate trovato ripiego e soluzione,
della quale non dovete defraudarci.
SIMP. Io ho intese diverse opinioni, intorno a
questo particolare. «Chi dice che le sono stelle, che ne' loro proprii orbi, a
guisa di Venere e di Mercurio, si volgono intorno al Sole, e nel passargli
sotto si mostrano a noi oscure, e per esser moltissime, spesso accade che parte
di loro si aggreghino insieme e che poi si separino; altri le credono esser
impressioni per aria; altri, illusioni de' cristalli; ed altri, altre cose. Ma
io inclino assai a credere, anzi tengo per fermo, che le sieno un aggregato di
molti e vari corpi opachi, quasi casualmente concorrenti tra di loro: e
però veggiamo spesso che in una macchia si posson numerare dieci e piú
di tali corpicelli minuti, che sono di figure irregolari e ci si rappresentano
come fiocchi di neve o di lana o di mosche volanti; variano sito tra di loro,
ed or si disgregano ed ora si congregano, e massimamente sotto il Sole, intorno
al quale, come intorno a suo centro, si vanno movendo. Ma non però
è di necessità dire che le si generino e si corrompano, ma che
alcune volte si occultano doppo il corpo del Sole, ed altre volte, benché
allontanate da quello, non si veggono per la vicinanza della smisurata luce del
Sole: imperocché nell'orbe eccentrico del Sole vi è costituita una quasi
cipolla composta di molte grossezze, una dentro all'altra, ciascheduna delle
quali, essendo tempestata di alcune piccole macchie, si muove; e benché il
movimento loro da principio sia parso inconstante ed irregolare, nulla dimeno
si dice essersi ultimamente osservato che dentro a tempi determinati ritornano
le medesime macchie per l'appunto». Questo pare a me il piú accomodato ripiego
che sin qui si sia ritrovato per render ragione di cotale apparenza, ed insieme
mantenere la incorruttibilità ed ingenerabilità del cielo; e
quando questo non bastasse, non mancheranno ingegni piú elevati che ne
troveranno de gli altri migliori.
SALV. Se questo di che si disputa fusse qualche
punto di legge o di altri studi umani, ne i quali non è né verità
né falsità, si potrebbe confidare assai nella sottigliezza dell'ingegno
e nella prontezza del dire e nella maggior pratica ne gli scrittori, e sperare
che quello che eccedesse in queste cose, fusse per far apparire e giudicar la
ragion sua superiore; ma nelle scienze naturali, le conclusioni delle quali son
vere e necessarie né vi ha che far nulla l'arbitrio umano, bisogna guardarsi di
non si porre alla difesa del falso, perché mille Demosteni e mille Aristoteli
resterebbero a piede contro ad ogni mediocre ingegno che abbia auto ventura di
apprendersi al vero. Però, signor Simplicio, toglietevi pur giú dal pensiero
e dalla speranza che voi avete, che possano esser uomini tanto piú dotti,
eruditi e versati ne i libri, che non siamo noi altri, che al dispetto della
natura sieno per far divenir vero quello che è falso. E già che
tra tutte le opinioni che sono state prodotte sin qui intorno all'essenza di
queste macchie solari, questa esplicata pur ora da voi vi par la vera, resta
(se questo è) che l'altre tutte sien false; ed io, per liberarvi ancora
da questa, che pure è falsissima chimera, lasciando mill'altre
improbabilità che vi sono, due sole esperienze vi arreco in contrario.
L'una è, che molte di tali macchie si veggono nascere nel mezo del disco
solare, e molte parimente dissolversi e svanire pur lontane dalla circonferenza
del Sole; argumento necessario che le si generano e si dissolvono: ché se senza
generarsi e corrompersi comparissero quivi per solo movimento locale, tutte si
vedrebbero entrare e uscire per la estrema circonferenza. L'altra osservazione
a quelli che non son costituiti nell'infimo grado d'ignoranza di prospettiva,
dalla mutazione dell'apparenti figure, e dall'apparente mutazion di
velocità di moto, si conclude necessariamente che le macchie son
contigue al corpo solare, e che, toccando la sua superficie, con essa o sopra
di essa si muovono, e che in cerchi da quello remoti in verun modo non si
raggirano. Concludelo il moto, che verso la circonferenza del disco solare
apparisce tardissimo, e verso il mezo piú veloce; concludonlo le figure delle
macchie, le quali verso la circonferenza appariscono strettissime in
comparazione di quello che si mostrano nelle parti di mezo, e questo perché
nelle parti di mezo si veggono in maestà e quali elle veramente sono, e
verso la circonferenza, mediante lo sfuggimento della superficie globosa, si
mostrano in iscorcio: e l'una e l'altra diminuzione, di figura e di moto, a chi
diligentemente l'ha sapute osservare e calculare, risponde precisamente a
quello che apparir deve quando le macchie sien contigue al Sole, e discorda
inescusabilmente dal muoversi in cerchi remoti, benché per piccoli intervalli,
dal corpo solare; come diffusamente è stato dimostrato dall'amico nostro
nelle Lettere delle Macchie Solari al signor Marco Velseri. Raccogliesi
dalla medesima mutazion di figura che nissuna di esse è stella o altro
corpo di figura sferica; imperocché tra tutte le figure sola la sfera non si
vede mai in iscorcio, né può rappresentarsi mai se non perfettamente
rotonda; e cosí quando alcuna delle macchie particolari fusse un corpo rotondo,
quali si stimano esser tutte le stelle, della medesima rotondità si
mostrerebbe tanto nel mezo del disco solare quanto verso l'estremità;
dove che lo scorciare tanto e mostrarsi cosí sottili verso tale
estremità, ed all'incontro spaziose e larghe verso il mezo, ci rende
sicuri quelle esser falde di poca profondità o grossezza rispetto alla
lunghezza e larghezza loro. Che poi si sia osservato ultimamente che le macchie
doppo suoi determinati periodi ritornino le medesime per l'appunto, non lo
crediate, signor Simplicio, e chi ve l'ha detto vi vuole ingannare; e che
ciò sia, guardate che ei vi ha taciuto quelle che si generano e quelle
che si dissolvono nella faccia del Sole, lontano dalla circonferenza; né vi ha
anco detto parola di quello scorciare, che è argomento necessario dell'esser
contigue al Sole. Quello che ci è del ritorno delle medesime macchie,
non è altro che quel che pur si legge nelle sopraddette Lettere,
cioè che alcune di esse può esser talvolta che siano di cosí
lunga durata, che non si disfacciano per una sola conversione intorno al Sole,
la quale si spedisce in meno di un mese.
SIMP. Io, per dire il vero, non ho fatto né sí
lunghe né sí diligenti osservazioni, che mi possano bastare a esser ben padrone
del quod est di questa materia; ma voglio in ogni modo farle, e poi
provarmi io ancora se mi sucedesse concordare quel che ci porge l'esperienza
con quel che ci dimostra Aristotile, perché chiara cosa è che due veri
non si posson contrariare.
SALV. Tuttavolta che voi vogliate accordar quel che
vi mostrerà il senso con le piú salde dottrine d'Aristotile, non ci
averete una fatica al mondo. E che ciò sia vero, Aristotile non dic'egli
che delle cose del cielo, mediante la gran lontananza, non se ne può
molto resolutamente trattare?
SIMP. Dicelo apertamente.
SALV. Il medesimo non afferm'egli che quello che
l'esperienza e il senso ci dimostra, si deve anteporre ad ogni discorso,
ancorché ne paresse assai ben fondato? e questo non lo dic'egli resolutamente e
senza punto titubare?
SIMP. Dicelo.
SALV. Adunque di queste due proposizioni, che sono
ambedue dottrina d'Aristotile, questa seconda, che dice che bisogna anteporre
il senso al discorso, è dottrina molto piú ferma e risoluta che l'altra,
che stima il cielo inalterabile; e però piú aristotelicamente filosoferete
dicendo: «Il cielo è alterabile, perché cosí mi mostra il senso», che se
direte: «Il cielo è inalterabile, perché cosí persuade il discorso ad
Aristotile». Aggiugnete che noi possiamo molto meglio di Aristotile discorrer
delle cose del cielo, perché, confessando egli cotal cognizione esser a lui
difficile per la lontananza da i sensi, viene a concedere che quello a chi i
sensi meglio lo potessero rappresentare, con sicureza maggiore potrebbe intorno
ad esso filosofare: ora noi, mercé del telescopio, ce lo siam fatto vicino
trenta e quaranta volte piú che vicino non era ad Aristotile, sí che possiamo
scorgere in esso cento cose che egli non potette vedere, e tra le altre queste
macchie nel Sole, che assolutamente ad esso furono invisibili: adunque del
cielo e del Sole piú sicuramente possiamo noi trattare che Aristotile.
SAGR. Io sono nel cuore al signor Simplicio, e
veggo che e' si sente muovere assai dalla forza di queste pur troppo
concludenti ragioni; ma, dall'altra banda, il vedere la grande autorità
che si è acquistata Aristotile appresso l'universale, il considerare il
numero de gli interpreti famosi che si sono affaticati per esplicare i suoi
sensi, il vedere altre scienze, tanto utili e necessarie al publico, fondar
gran parte della stima e reputazion loro sopra il credito d'Aristotile, lo
confonde e spaventa assai; e me lo par sentir dire: «E a chi si ha da ricorrere
per definire le nostre controversie, levato che fusse di seggio Aristotile?
qual altro autore si ha da seguitare nelle scuole, nelle accademie, nelli
studi? qual filosofo ha scritto tutte le parti della natural filosofia, e tanto
ordinatamente, senza lasciar indietro pur una particolar conclusione? adunque
si deve desolar quella fabbrica, sotto la quale si ricuoprono tanti viatori? si
deve destrugger quell'asilo, quel Pritaneo, dove tanto agiatamente si
ricoverano tanti studiosi, dove, senza esporsi all'ingiurie dell'aria, col solo
rivoltar poche carte, si acquistano tutte le cognizioni della natura? si ha da
spiantar quel propugnacolo, dove contro ad ogni nimico assalto in sicurezza si
dimora?» Io gli compatisco, non meno che a quel signore che, con gran tempo,
con spesa immensa, con l'opera di cento e cento artefici, fabbricò
nobilissimo palazzo, e poi lo vegga, per esser stato mal fondato, minacciar
rovina, e che, per non vedere con tanto cordoglio disfatte le mura di tante
vaghe pitture adornate, cadute le colonne sostegni delle superbe logge, caduti
i palchi dorati, rovinati gli stipiti, i frontespizi e le cornici marmoree con
tanta spesa condotte, cerchi con catene, puntelli, contrafforti, barbacani e
sorgozzoni di riparare alla rovina.
SALV. Eh non tema già il signor Simplicio di
simil cadute; io con sua assai minore spesa torrei ad assicurarlo del danno.
Non ci è pericolo che una moltitudine sí grande di filosofi accorti e
sagaci si lasci sopraffare da uno o dua, che faccino un poco di strepito; anzi
non pure col voltargli contro le punte delle lor penne, ma col solo silenzio,
gli metteranno in disprezzo e derisione appresso l'universale. Vanissimo
è il pensiero di chi credesse introdur nuova filosofia col reprovar
questo o quello autore: bisogna prima imparare a rifar i cervelli degli uomini,
e rendergli atti a distinguere il vero dal falso, cosa che solo Dio la
può fare. Ma d'un ragionamento in un altro dove siamo noi trascorsi? io
non saprei ritornare in su la traccia, senza la scorta della vostra memoria.
SIMP. Me ne ricordo io benissimo. Eramo intorno
alle risposte dell'Antiticone all'obbiezioni contro
all'immutabilità del cielo, tra le quali voi inseriste questa delle
macchie solari, non toccata da lui; e credo che voi voleste considerar la sua
risposta all'instanza delle stelle nuove.
SALV. Or mi sovviene il restante; e seguitando la
materia, parmi che nella risposta dell'Antiticone sieno alcune cose
degne di riprensione. E prima, se le due stelle nuove, le quali e' non
può far di manco di non por nelle parti altissime del cielo, e che
furono di lunga durata e finalmente svanirono, non gli danno fastidio nel
mantener l'inalterabilità del cielo, per non esser loro parti certe di
quello né mutazioni fatte nelle stelle antiche, a che proposito mettersi con
tanta ansietà ed affanno contro le comete, per bandirle in ogni maniera
dalle regioni celesti? non bastav'egli il poter dir di loro quel medesimo che
delle stelle nuove? cioè che per non esser parti certe del cielo né
mutazioni fatte in alcuna delle sue stelle, nessun progiudizio portano né al
cielo né alla dottrina d'Aristotile? Secondariamente, io non resto ben capace
dell'interno dell'animo suo, mentre che e' confessa che le alterazioni che si
facessero nelle stelle sarebber destruttrici delle prerogative del cielo,
cioè dell'incorruttibilità etc., e questo, perché le stelle son
cose celesti, come per il concorde consenso di tutti è manifesto; ed
all'incontro, niente lo perturba, quando le medesime alterazioni si facessero
fuori delle stelle, nel resto della celeste espansione. Stim'egli forse che il
cielo non sia cosa celeste? io per me credeva che le stelle si chiamassero cose
celesti mediante l'esser nel cielo o l'esser fatte della materia del cielo, e
che però il cielo fusse piú celeste di loro, in quella guisa che non si
può dire alcuna cosa esser piú terrestre o piú ignea della terra o del
fuoco stesso. Il non aver poi fatto menzione delle macchie solari, delle quali
è stato dimostrato concludentemente prodursi e dissolversi ed esser
prossime al corpo solare e con esso o intorno ad esso raggirarsi, mi dà
grand'indizio che possa esser che questo autore scriva piú tosto a compiacenza
di altri che a soddisfazion propria; e questo dico, perché, dimostrandosi egli
intelligente delle matematiche, è impossibile ch'ei non resti persuaso
dalle dimostrazioni, che tali materie sono necessariamente contigue al corpo
solare, e sono generazioni e corruzioni tanto grandi, che nissuna cosí grande
se ne fa mai in Terra: e se tali e tante e sí frequenti se ne fanno
nell'istesso globo del Sole, che ragionevolmente può stimarsi delle piú
nobili parti del cielo, qual ragione resterà potente a dissuaderci che altre
ne possano accadere ne gli altri globi?
SAGR. Io non posso senza grande ammirazione, e
dirò gran repugnanza al mio intelletto, sentir attribuir per gran
nobiltà e perfezione a i corpi naturali ed integranti dell'universo
questo esser impassibile, immutabile, inalterabile etc., ed all'incontro stimar
grande imperfezione l'esser alterabile, generabile, mutabile, etc.: io per me
reputo la Terra nobilissima ed ammirabile per le tante e sí diverse
alterazioni, mutazioni, generazioni, etc., che in lei incessabilmente si fanno;
e quando, senza esser suggetta ad alcuna mutazione, ella fusse tutta una vasta
solitudine d'arena o una massa di diaspro, o che al tempo del diluvio
diacciandosi l'acque che la coprivano fusse restata un globo immenso di
cristallo, dove mai non nascesse né si alterasse o si mutasse cosa veruna, io
la stimerei un corpaccio inutile al mondo, pieno di ozio e, per dirla in breve,
superfluo e come se non fusse in natura, e quella stessa differenza ci farei
che è tra l'animal vivo e il morto; ed il medesimo dico della Luna, di
Giove e di tutti gli altri globi mondani. Ma quanto piú m'interno in considerar
la vanità de i discorsi popolari, tanto piú gli trovo leggieri e stolti.
E qual maggior sciocchezza si può immaginar di quella che chiama cose
preziose le gemme, l'argento e l'oro, e vilissime la terra e il fango? e come
non sovviene a questi tali, che quando fusse tanta scarsità della terra
quanta è delle gioie o de i metalli piú pregiati, non sarebbe principe
alcuno che volentieri non ispendesse una soma di diamanti e di rubini e quattro
carrate di oro per aver solamente tanta terra quanta bastasse per piantare in
un picciol vaso un gelsomino o seminarvi un arancino della Cina, per vederlo
nascere, crescere e produrre sí belle frondi, fiori cosí odorosi e sí gentil
frutti? È, dunque, la penuria e l'abbondanza quella che mette in prezzo
ed avvilisce le cose appresso il volgo, il quale dirà poi quello essere
un bellissimo diamante, perché assimiglia l'acqua pura, e poi non lo cambierebbe
con dieci botti d'acqua. Questi che esaltano tanto l'incorruttibilità,
l'inalterabilità, etc., credo che si riduchino a dir queste cose per il
desiderio grande di campare assai e per il terrore che hanno della morte; e non
considerano che quando gli uomini fussero immortali, a loro non toccava a
venire al mondo. Questi meriterebbero d'incontrarsi in un capo di Medusa, che
gli trasmutasse in istatue di diaspro o di diamante, per diventar piú perfetti
che non sono.
SALV. E forse anco una tal metamorfosi non sarebbe se
non con qualche lor vantaggio; ché meglio credo io che sia il non discorrere,
che discorrere a rovescio.
SIMP. E' non è dubbio alcuno che la Terra
è molto piú perfetta essendo, come ella è, alterabile, mutabile,
etc., che se la fusse una massa di pietra, quando ben anco fusse un intero
diamante, durissimo ed impassibile. Ma quanto queste condizioni arrecano di
nobiltà alla Terra, altrettanto renderebbero i corpi celesti piú
imperfetti, ne i quali esse sarebbero superflue, essendo che i corpi celesti,
cioè il Sole, la Luna e l'altre stelle, che non sono ordinati ad altro
uso che al servizio della Terra, non hanno bisogno d'altro per conseguire il
lor fine, che del moto e del lume.
SAGR. Adunque la natura ha prodotti ed indrizzati
tanti vastissimi, perfettissimi e nobilissimi corpi celesti, impassibili,
immortali, divini, non ad altro uso che al servizio della Terra, passibile,
caduca e mortale? al servizio di quello che voi chiamate la feccia del mondo,
la sentina di tutte le immondizie? e a che proposito far i corpi celesti
immortali etc., per servire a uno caduco etc.? Tolto via questo uso di servire
alla Terra, l'innumerabile schiera di tutti i corpi celesti resta del tutto
inutile e superflua, già che non hanno, né possono avere, alcuna
scambievole operazione fra di loro, poiché tutti sono inalterabili, immutabili,
impassibili: ché se, verbigrazia, la Luna è impassibile, che volete che
il Sole o altra stella operi in lei? sarà senz'alcun dubbio operazione
minore assai che quella di chi con la vista o col pensiero volesse liquefare
una gran massa d'oro. In oltre, a me pare che mentre che i corpi celesti
concorrano alle generazioni ed alterazioni della Terra, sia forza che essi
ancora sieno alterabili; altramente non so intendere che l'applicazione della Luna
o del Sole alla Terra per far le generazioni fusse altro che mettere a canto
alla sposa una statua di marmo, e da tal congiugnimento stare attendendo prole.
SIMP. La corruttibilità, l'alterazione, la
mutazione etc. non son nell'intero globo terrestre, il quale quanto alla sua
integrità è non meno eterno che il Sole o la Luna, ma è
generabile e corruttibile quanto alle sue parti esterne; ma è ben vero
che in esse la generazione e corruzione son perpetue, e come tali ricercano l'operazioni
celesti eterne; e però è necessario che i corpi celesti sieno
eterni.
SAGR. Tutto cammina bene; ma se all'eternità
dell'intero globo terrestre non è punto progiudiziale la
corruttibilità delle parti superficiali, anzi questo esser generabile,
corruttibile, alterabile etc. gli arreca grand'ornamento e perfezione, perché
non potete e dovete voi ammetter alterazioni, generazioni etc. parimente nelle
parti esterne de i globi celesti, aggiugnendo loro ornamento, senza diminuirgli
perfezione o levargli l'azioni, anzi accrescendogliele, col far che non solo
sopra la Terra, ma che scambievolmente fra di loro tutti operino, e la Terra
ancora verso di loro?
SIMP. Questo non può essere, perché le
generazioni, mutazioni etc. che si facesser, verbigrazia, nella Luna, sarebber
inutili e vane, et natura nihil frustra facit.
SAGR. E perché sarebbero elleno inutili e vane?
SIMP. Perché noi chiaramente veggiamo e tocchiamo
con mano, che tutte le generazioni, mutazioni, etc., che si fanno in Terra,
tutte, o mediatamente o immediatamente, sono indrizzate all'uso, al comodo ed
al benefizio dell'uomo; per comodo de gli uomini nascono i cavalli, per
nutrimento de' cavalli produce la Terra il fieno, e le nugole l'adacquano; per
comodo e nutrimento de gli uomini nascono le erbe, le biade, i frutti, le
fiere, gli uccelli, i pesci; ed in somma, se noi anderemo diligentemente
esaminando e risolvendo tutte queste cose, troveremo, il fine al quale tutte
sono indrizzate esser il bisogno, l'utile, il comodo e il diletto de gli
uomini. Or di quale uso potrebber esser mai al genere umano le generazioni che
si facessero nella Luna o in altro pianeta? se già voi non voleste dire
che nella Luna ancora fussero uomini, che godesser de' suoi frutti; pensiero, o
favoloso, o empio.
SAGR. Che nella Luna o in altro pianeta si generino
o erbe o piante o animali simili a i nostri, o vi si facciano pioggie, venti,
tuoni, come intorno alla Terra, io non lo so e non lo credo, e molto meno che
ella sia abitata da uomini: ma non intendo già come tuttavolta che non
vi si generino cose simili alle nostre, si deva di necessità concludere
che niuna alterazione vi si faccia, né vi possano essere altre cose che si
mutino, si generino e si dissolvano, non solamente diverse dalle nostre, ma
lontanissime dalla nostra immaginazione, ed in somma del tutto a noi
inescogitabili. E sí come io son sicuro che a uno nato e nutrito in una selva
immensa, tra fiere ed uccelli, e che non avesse cognizione alcuna dell'elemento
dell'acqua, mai non gli potrebbe cadere nell'immaginazione essere in natura un
altro mondo diverso dalla Terra, pieno di animali li quali senza gambe e senza
ale velocemente camminano, e non sopra la superficie solamente, come le fiere
sopra la terra, ma per entro tutta la profondità, e non solamente
camminano, ma dovunque piace loro immobilmente si fermano, cosa che non posson
fare gli uccelli per aria, e che quivi di piú abitano ancora uomini, e vi
fabbricano palazzi e città, ed hanno tanta comodità nel
viaggiare, che senza niuna fatica vanno con tutta la famiglia e con la casa e con
le città intere in lontanissimi paesi; sí come, dico, io son sicuro che
un tale, ancorché di perspicacissima immaginazione, non si potrebbe già
mai figurare i pesci, l'oceano, le navi, le flotte e le armate di mare; cosí e
molto piú, può accadere che nella Luna, per tanto intervallo remota da
noi e di materia per avventura molto diversa dalla Terra, sieno sustanze e si
facciano operazioni non solamente lontane, ma del tutto fuori, d'ogni nostra
immaginazione, come quelle che non abbiano similitudine alcuna con le nostre, e
perciò del tutto inescogitabili, avvengaché quello che noi ci
immaginiamo bisogna che sia o una delle cose già vedute, o un composto
di cose o di parti delle cose altra volta vedute; ché tali sono le sfingi, le
sirene, le chimere, i centauri, etc.
SALV. Io son molte volte andato fantasticando sopra
queste cose, e finalmente mi pare di poter ritrovar bene alcune delle cose che
non sieno né possan esser nella Luna, ma non già veruna di quelle che io
creda che vi sieno e possano essere, se non con una larghissima
generalità, cioè cose che l'adornino, operando e movendo e
vivendo e, forse con modo diversissimo dal nostro, veggendo ed ammirando la
grandezza e bellezza del mondo e del suo Facitore e Rettore, e con encomii
continui cantando la Sua gloria, ed in somma (che è quello che io
intendo) facendo quello tanto frequentemente da gli scrittor sacri affermato,
cioè una perpetua occupazione di tutte le creature in laudare Iddio.
SAGR. Queste sono delle cose che,
generalissimamente parlando, vi possono essere; ma io sentirei volentieri
ricordar di quelle che ella crede che non vi sieno né possano essere, le quali
è forza che piú particolarmente si possano nominare.
SALV. Avvertite, signor Sagredo, che questa
sarà la terza volta che noi cosí di passo in passo, non ce n'accorgendo,
ci saremo deviati dal nostro principale instituto, e che tardi verremo a capo
de' nostri ragionamenti, facendo digressioni; però se vogliamo differir
questo discorso tra gli altri che siam convenuti rimettere ad una particolar
sessione, sarà forse ben fatto.
SAGR. Di grazia, già che siamo nella Luna,
spediamoci dalle cose che appartengono a lei, per non avere a fare un'altra
volta un sí lungo cammino.
SALV. Sia come vi piace. E per cominciar dalle cose
piú generali, io credo che il globo lunare sia differente assai dal terrestre,
ancorché in alcune cose si veggano delle conformità: dirò le
conformità, e poi le diversità. Conforme è sicuramente la
Luna alla Terra nella figura, la quale indubitabilmente è sferica, come
di necessità si conclude dal vedersi il suo disco perfettamente
circolare, e dalla maniera del ricevere il lume del Sole, dal quale, se la
superficie sua fusse piana, verrebbe tutta nell'istesso tempo vestita, e
parimente poi tutta, pur in un istesso momento, spogliata di luce, e non prima
le parti che riguardano verso il Sole e successivamente le seguenti, sí che
giunta all'opposizione, e non prima, resta tutto l'apparente disco illustrato;
di che, all'incontro, accaderebbe tutto l'opposito, quando la sua visibil
superficie fusse concava, cioè la illuminazione comincierebbe dalle
parti avverse al Sole. Secondariamente, ella è, come la Terra, per se
stessa oscura ed opaca, per la quale opacità è atta a ricevere ed
a ripercuotere il lume del Sole, il che, quando ella non fusse tale, far non
potrebbe. Terzo, io tengo la sua materia densissima e solidissima non meno
della Terra; di che mi è argomento assai chiaro l'esser la sua
superficie per la maggior parte ineguale, per le molte eminenze e cavità
che vi si scorgono mercé del telescopio: delle quali eminenze ve ne son molte
in tutto e per tutto simili alle nostre piú aspre e scoscese montagne, e vi se
ne scorgono alcune tirate e continuazioni lunghe di centinaia di miglia; altre
sono in gruppi piú raccolti, e sonvi ancora molti scogli staccati e solitari,
ripidi assai e dirupati; ma quello di che vi è maggior frequenza, sono
alcuni argini (userò questo nome, per non me ne sovvenir altro che piú
gli rappresenti) assai rilevati, li quali racchiudono e circondano pianure di
diverse grandezze, e formano varie figure, ma la maggior parte circolari, molte
delle quali hanno nel mezo un monte rilevato assai, ed alcune poche son ripiene
di materia alquanto oscura, cioè simile a quella delle gran macchie che
si veggon con l'occhio libero, e queste sono delle maggiori piazze; il numero
poi delle minori e minori è grandissimo, e pur quasi tutte circolari.
Quarto, sí come la superficie del nostro globo è distinta in due massime
parti, cioè nella terrestre e nell'acquatica, cosí nel disco lunare
veggiamo una distinzion magna di alcuni gran campi piú risplendenti e di altri
meno; all'aspetto de i quali credo che sarebbe quello della Terra assai
simigliante, a chi dalla Luna o da altra simile lontananza la potesse vedere
illustrata dal Sole, ed apparirebbe la superficie del mare piú oscura, e piú
chiara quella della terra. Quinto, sí come noi dalla Terra veggiamo la Luna or
tutta luminosa, or meza, or piú, or meno, talor falcata, e talvolta ci resta
del tutto invisibile, cioè quando è sotto i raggi solari, sí che
la parte che riguarda la Terra resta tenebrosa; cosí appunto si vedrebbe dalla
Luna, coll'istesso periodo a capello e sotto le medesime mutazioni di figure,
l'illuminazione fatta dal Sole sopra la faccia della Terra. Sesto…
SAGR. Piano un poco, signor Salviati. Che
l'illuminazione della Terra, quanto alle diverse figure, si rappresentasse, a
chi fusse nella Luna, simile in tutto a quello che noi scorgiamo nella Luna,
l'intendo io benissimo; ma non resto già capace, come ella si mostrasse
fatta coll'istesso periodo, avvenga che quello che fa l'illuminazion del Sole
nella superficie lunare in un mese, lo fa nella terrestre in ventiquattr'ore.
SALV. È vero che l'effetto del Sole, circa
l'illuminar questi due corpi e ricercar col suo splendore tutta la lor
superficie, si spedisce nella Terra in un giorno naturale, e nella Luna in un
mese; ma non da questo solo depende la variazione delle figure, sotto le quali
dalla Luna si vedrebbero le parti illuminate della terrestre superficie, ma da
i diversi aspetti che la Luna va mutando col Sole: sì che quando,
verbigrazia, la Luna seguitasse puntualmente il moto del Sole, e stesse per
caso sempre linearmente tra esso e la Terra in quell'aspetto che noi diciamo di
congiunzione, vedendo ella sempre il medesimo emisferio della Terra che
vedrebbe il Sole, lo vedrebbe perpetuamente tutto lucido; come, per l'opposito,
quando ella restasse sempre all'opposizione del Sole, non vedrebbe mai la
Terra, della quale sarebbe continuamente volta verso la Luna la parte
tenebrosa, e perciò invisibile; ma quando la Luna è alla
quadratura del Sole, dell'emisfero terrestre esposto alla vista della Luna
quella metà che è verso il Sole è luminosa, e l'altra
verso l'opposto del Sole è oscura, e però la parte della Terra
illuminata si rappresenterebbe alla Luna sotto figura di mezo cerchio.
SAGR. Resto capacissimo del tutto; ed intendo
già benissimo che partendosi la Luna dall'opposizione del Sole, di dove
ella non vedeva niente dell'illuminato della terrestre superficie, e venendo di
giorno in giorno verso il Sole, incomincia a poco a poco a scoprir qualche
particella della faccia della Terra illuminata, e questa vede ella in figura di
sottil falce, per esser la Terra rotonda; ed acquistando pur la Luna col suo
movimento di dí in dí maggior vicinità al Sole, viene scoprendo piú e
piú sempre dell'emisfero terrestre illuminato, sí che alla quadratura ne
scuopre la metà giusto, sí come noi di lei veggiamo altrettanto;
continuando poi di venir verso la congiunzione, scuopre successivamente parte
maggiore della superficie illuminata, e finalmente nella congiunzione vede
l'intero emisferio tutto luminoso. Ed in somma comprendo benissimo che quello
che accade a gli abitatori della Terra, nel veder le varietà della Luna,
accaderebbe a chi fusse nella Luna nel veder la Terra, ma con ordine contrario:
cioè che quando la Luna è a noi piena ed all'opposizion del Sole,
a loro la Terra sarebbe alla congiunzion col Sole e del tutto oscura ed
invisibile; all'incontro, quello stato che a noi è congiunzion della
Luna col Sole, e però Luna silente e non veduta, là sarebbe
opposizion della Terra al Sole, e per cosí dire Terra piena, cioè tutta
luminosa; e finalmente quanta parte a noi, di tempo in tempo, si mostra della
superficie lunare illuminata, tanto dalla Luna si vedrebbe esser nell'istesso
tempo la parte della Terra oscura, e quanto a noi resta della Luna privo di
lume, tanto alla Luna è l'illuminato della Terra; sí che solo nelle
quadrature questi veggono mezo cerchio della Luna luminoso, e quelli
altrettanto della Terra. In una cosa mi par che differiscano queste scambievoli
operazioni: ed è che, dato e non concesso che nella Luna fusse chi di
là potesse rimirar la Terra, vedrebbe ogni giorno tutta la superficie
terrestre, mediante il moto di essa Luna intorno alla Terra in ventiquattro o
venticinque ore; ma noi non veggiamo mai altro che la metà della Luna,
poiché ella non si rivolge in se stessa, come bisognerebbe per potercisi tutta
mostrare.
SALV. Purché questo non accaggia per il contrario,
cioè che il rigirarsi ella in se stessa sia cagione che noi non veggiamo
mai l'altra metà; ché cosí sarebbe necessario che fusse, quando ella
avesse l'epiciclo. Ma dove lasciate voi un'altra differenza, in contraccambio
di questa avvertita da voi?
SAGR. E qual è? ché altra per ora non mi
vien in mente.
SALV. È che, se la Terra (come bene avete
notato) non vede altro che la metà della Luna, dove che dalla Luna vien
vista tutta la Terra, all'incontro tutta la Terra vede la Luna, ma della Luna
solo la metà vede la Terra; perché gli abitatori, per cosí dire,
dell'emisfero superiore della Luna, che a noi è invisibile, son privi
della vista della Terra, e questi son forse gli antictoni. Ma qui mi sovvien
ora d'un particolare accidente, nuovamente osservato dal nostro Accademico
nella Luna, per il quale si raccolgono due conseguenze necessarie: l'una
è, che noi veggiamo qualche cosa di piú della metà della Luna, e
l'altra è, che il moto della Luna ha giustamente relazione al centro della
Terra: e l'accidente e l'osservazione è tale. Quando la Luna abbia una
corrispondenza e natural simpatia con la Terra, verso la quale con una tal sua
determinata parte ella riguardi, è necessario che la linea retta che
congiugne i lor centri passi sempre per l'istesso punto della superficie della
Luna, tal che quello che dal centro della Terra la rimirasse, vedrebbe sempre
l'istesso disco della Luna, puntualmente terminato da una medesima
circonferenza: ma di uno costituito sopra la superficie terrestre, il raggio
che dall'occhio suo andasse sino al centro del globo lunare non passerebbe per
l'istesso punto della superficie di quella per il quale passa la linea tirata
dal centro della Terra a quel della Luna, se non quando ella gli fusse
verticale; ma posta la Luna in oriente o in occidente, il punto dell'incidenza
del raggio visuale resta superiore a quel della linea che congiugne i centri, e
però si scuopre qualche parte dell'emisferio lunare verso la
circonferenza di sopra, e si nasconde altrettanto dalla parte di sotto; si scuopre,
dico, e si nasconde rispetto all'emisfero che si vedrebbe dal vero centro della
Terra: e perché la parte della circonferenza della Luna che è superiore
nel nascere, è inferiore nel tramontare, però assai notabile dovrà
farsi la differenza dell'aspetto di esse parti superiore e inferiore,
scoprendosi ora, ed ora ascondendosi, delle macchie o altre cose notabili di
esse parti. Una simil variazione dovrebbe scorgersi ancora verso
l'estremità boreale ed australe del medesimo disco, secondo che la Luna si
trova in questo o in quel ventre del suo dragone; perché, quando ella è
settentrionale, alcuna delle sue parti verso settentrione ci si nasconde, e si
scuopre delle australi, e per l'opposito. Ora, che queste conseguenze si
verifichino in fatto, il telescopio ce ne rende certi. Imperocché sono nella
Luna due macchie particolari, una delle quali, quando la Luna è nel
meridiano, guarda verso maestro, e l'altra gli è quasi diametralmente
opposta, e la prima è visibile anco senza il telescopio, ma non
già l'altra: è la maestrale una macchietta ovata, divisa
dall'altre grandissime; l'opposta è minore, e parimente separata dalle
grandissime, e situata in campo assai chiaro: in amendue queste si osservano
molto manifestamente le variazioni già dette, e veggonsi contrariamente
l'una dall'altra, ora vicine al limbo del disco lunare, ed ora allontanate, con
differenza tale, che l'intervallo tra la maestrale e la circonferenza del disco
è piú che il doppio maggiore una volta che l'altra; e quanto all'altra macchia
(perché l'è piú vicina alla circonferenza), tal mutazione importa piú
che il triplo da una volta all'altra. Di qui è manifesto, la Luna, come
allettata da virtú magnetica, constantemente riguardare con una sua faccia il
globo terrestre, né da quello divertir mai.
SAGR. E quando si ha a por termine alle nuove
osservazioni e scoprimenti di questo ammirabile strumento?
SALV. Se i progressi di questa son per andar
secondo quelli di altre invenzioni grandi, è da sperare che col
progresso del tempo si sia per arrivar a veder cose a noi per ora
inimmaginabili. Ma tornando al nostro primo discorso, dico, per la sesta
congruenza tra la Luna e la Terra, che, sí come la Luna gran parte del tempo
supplisce al mancamento del lume del Sole e ci rende, con la reflessione del
suo, le notti assai chiare, cosí la Terra ad essa in ricompensa rende, quando
ella n'è piú bisognosa, col refletterle i raggi solari, una molto
gagliarda illuminazione, e tanto, per mio parere, maggior di quella che a noi
vien da lei, quanto la superficie della Terra è piú grande di quella
della Luna.
SAGR. Non piú, non piú, signor Salviati; lasciatemi
il gusto di mostrarvi come a questo primo cenno ho penetrato la causa di un
accidente al quale mille volte ho pensato, né mai l'ho potuto penetrare. Voi
volete dire che certa luce abbagliata che si vede nella Luna, massimamente
quando l'è falcata, viene dal reflesso del lume del Sole nella
superficie della terra e del mare: e piú si vede tal lume chiaro, quanto la
falce è piú sottile, perché allora maggiore è la parte luminosa
della Terra che dalla Luna è veduta, conforme a quello che poco fa si
concluse, cioè che sempre tanta è la parte luminosa della Terra
che si mostra alla Luna, quanta l'oscura della Luna che guarda verso la Terra;
onde quando la Luna è sottilmente falcata, ed in conseguenza grande
è la sua parte tenebrosa, grande è la parte illuminata della
Terra, veduta dalla Luna, e tanto piú potente la reflession del lume.
SALV. Questo è puntualmente quello ch'io
voleva dire. In somma, gran dolcezza è il parlar con persone giudiziose
e di buona apprensiva, e massime quando altri va passeggiando e discorrendo tra
i veri. Io mi son piú volte incontrato in cervelli tanto duri, che, per mille
volte che io abbia loro replicato questo che voi avete subito per voi medesimo
penetrato, mai non è stato possibile che e' l'apprendano.
SIMP. Se voi volete dire di non averlo potuto
persuadere loro sí che e' l'intendino, io molto me ne maraviglio, e son sicuro
che non l'intendendo dalla vostra esplicazione, non l'intenderanno forse per
quella di altri, parendomi la vostra espressiva molto chiara; ma se voi
intendete di non gli aver persuasi sí che e' lo credano, di questo non mi
maraviglio punto, perché io stesso confesso di esser un di quelli che intendono
i vostri discorsi, ma non vi si quietano, anzi mi restano, in questa e in parte
dell'altre sei congruenze, molte difficultà, le quali promoverò
quando avrete finito di raccontarle tutte.
SALV. Il desiderio che ho di ritrovar qualche
verità, nel quale acquisto assai mi possono aiutare le obbiezioni di
uomini intelligenti, qual sete voi, mi farà esser brevissimo nello
spedirmi da quel che ci resta. Sia dunque la settima congruenza il rispondersi
reciprocamente non meno alle offese che a i favori: onde la Luna, che bene spesso
nel colmo della sua illuminazione, per l'interposizion della Terra tra sé e il
Sole, vien privata di luce ed ecclissata, cosí essa ancora, per suo riscatto,
si interpone tra la Terra e il Sole, e con l'ombra sua oscura la Terra; e se
ben la vendetta non è pari all'offesa, perché bene spesso la Luna
rimane, ed anco per assai lungo tempo, immersa totalmente nell'ombra della
Terra, ma non già mai tutta la Terra, né per lungo spazio di tempo,
resta oscurata dalla Luna, tuttavia, avendosi riguardo alla picciolezza del
corpo di questa in comparazion della grandezza di quello, non si può dir
se non che il valore, in un certo modo, dell'animo sia grandissimo. Questo
è quanto alle congruenze. Seguirebbe ora il discorrer circa le disparità;
ma perché il signor Simplicio ci vuol favorire de i dubbi contro di quelle,
sarà bene sentirgli e ponderargli, prima che passare avanti.
SAGR. Sí, perché è credibile che il signor
Simplicio non sia per aver repugnanze intorno alle disparità e
differenze tra la Terra e la Luna, già che egli stima le lor sustanze
diversissime.
SIMP. Delle congruenze recitate da voi nel far
parallelo tra la Terra e la Luna, non sento di poter ammetter senza repugnanza
se non la prima e due altre. Ammetto la prima, cioè la figura sferica,
se bene anco in questa vi è non so che, stimando io quella della Luna
esser pulitissima e tersa come uno specchio, dove che questa della Terra
tocchiamo con mano esser scabrosissima ed aspra, ma questa, attenente
all'inegualità della superficie, va considerata in un'altra delle
congruenze arrecate da voi; però mi riserbo a dirne quanto mi occorre
nella considerazione di quella. Che la Luna sia poi, come voi dite nella
seconda congruenza, opaca ed oscura per se stessa, come la Terra, io non
ammetto se non il primo attributo della opacità, del che mi assicurano
gli eclissi solari; ché quando la Luna fusse trasparente, l'aria nella totale
oscurazione del Sole non resterebbe cosí tenebrosa come ella resta, ma per la
trasparenza del corpo lunare trapasserebbe una luce refratta, come veggiamo
farsi per le piú dense nugole. Ma quanto all'oscurità, io non credo che
la Luna sia del tutto priva di luce, come la Terra, anzi quella chiarezza che
si scorge nel resto del suo disco, oltre alle sottili corna illustrate dal Sole,
reputo che sia suo proprio e natural lume, e non un reflesso della Terra, la
quale io stimo impotente, per la sua somma asprezza ed oscurità, a
reflettere i raggi del Sole. Nel terzo parallelo convengo con voi in una parte,
e nell'altra dissento; convengo nel giudicar il corpo della Luna solidissimo e
duro, come la Terra, anzi piú assai, perché se da Aristotile noi caviamo che il
cielo sia di durezza impenetrabile, e le stelle parti piú dense del cielo,
è ben necessario che le siano saldissime ed impenetrabilissime.
SAGR. Che bella materia sarebbe quella del cielo
per fabbricar palazzi, chi ne potesse avere, cosí dura e tanto trasparente!
SALV. Anzi pessima, perché sendo, per la somma
trasparenza, del tutto invisibile, non si potrebbe, senza gran pericolo di urtar
negli stipiti e spezzarsi il capo, camminar per le stanze.
SAGR. Cotesto pericolo non si correrebbe egli, se
è vero, come dicono alcuni Peripatetici, che la sia intangibile; e se la
non si può toccare, molto meno si potrebbe urtare.
SALV. Di niuno sollevamento sarebbe cotesto;
conciosiaché, se ben la materia celeste non può esser toccata, perché
manca delle tangibili qualità, può ben ella toccare i corpi
elementari; e per offenderci, tanto è che ella urti in noi, ed ancor peggio,
che se noi urtassimo in lei. Ma lasciamo star questi palazzi o per dir meglio
castelli in aria, e non impediamo il signor Simplicio.
SIMP. La quistione che voi avete cosí
incidentemente promossa, è delle difficili che si trattino in filosofia,
ed io ci ho intorno di bellissimi pensieri di un gran cattedrante di Padova; ma
non è tempo di entrarvi adesso. Però, tornando al nostro
proposito, replico che stimo la Luna solidissima piú della Terra, ma non
l'argomento già, come fate voi, dalla asprezza e scabrosità della
sua superficie, anzi dal contrario, cioè dall'essere atta a ricevere
(come veggiamo tra noi nelle gemme piú dure) un pulimento e lustro superiore a
qual si sia specchio piú terso; ché tale è necessario che sia la sua
superficie, per poterci fare sí viva reflessione de' raggi del Sole. Quelle
apparenze poi che voi dite, di monti, di scogli, di argini, di valli, etc., son
tutte illusioni; ed io mi sono ritrovato a sentire in publiche dispute sostener
gagliardamente, contro a questi introduttori di novità, che tali apparenze
non da altro provengono che da parti inegualmente opache e perspicue, delle
quali interiormente ed esteriormente è composta la Luna, come spesso
veggiamo accadere nel cristallo, nell'ambra ed in molte pietre preziose
perfettamente lustrate, dove, per la opacità di alcune parti e per la
trasparenza di altre, appariscono in quelle varie concavità e
prominenze. Nella quarta congruenza concedo che la superficie del globo
terrestre, veduto di lontano, farebbe due diverse apparenze, cioè una
piú chiara e l'altra piú oscura, ma stimo che tali diversità
accaderebbono al contrario di quel che dite voi; cioè credo che la
superficie dell'acqua apparirebbe lucida, perché è liscia e trasparente,
e quella della terra resterebbe oscura per la sua opacità e
scabrosità, male accomodata a riverberare il lume del Sole. Circa il
quinto riscontro, lo ammetto tutto, e resto capace che quando la Terra
risplendesse come la Luna si mostrerebbe, a chi di lassú la rimirasse, sotto
figure conformi a quelle che noi veggiamo nella Luna; comprendo anco come il
periodo della sua illuminazione e variazione di figure sarebbe di un mese,
benché il Sole la ricerchi tutta in ventiquattr'ore; e finalmente non ho
difficultà nell'ammettere che la metà sola della Luna vede tutta
la Terra, e che tutta la Terra vede solo la metà della Luna. Nel sesto,
reputo falsissimo che la Luna possa ricever lume dalla Terra, che è
oscurissima, opaca ed inettissima a reflettere il lume del Sole, come ben lo
reflette la Luna a noi; e, come ho detto, stimo che quel lume che si vede nel
resto della faccia della Luna, oltre alle corna splendidissime per
l'illuminazion del Sole, sia proprio e naturale della Luna, e gran cosa ci
vorrebbe a farmi credere altrimenti. Il settimo, de gli eclissi scambievoli, si
può anco ammettere, se ben propriamente si costuma chiamare eclisse del
Sole questo che voi volete chiamare eclisse della Terra. E questo è
quanto per ora mi occorre dirvi in contradizione alle sette congruenze; alle
quali instanze se vi piacerà di replicare alcuna cosa,
l'ascolterò volentieri.
SALV. Se io ho bene appreso quanto avete risposto,
parmi che tra voi e noi restino ancora controverse alcune condizioni, le quali
io faceva comuni alla Luna ed alla Terra; e son queste. Voi stimate la Luna
tersa e liscia com'uno specchio, e, come tale, atta a refletterci il lume del
Sole, ed all'incontro la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile
reflessione. Concedete la Luna solida e dura, e ciò argumentate
dall'esser ella pulita e tersa, e non dall'esser montuosa; e dell'apparir
montuosa ne assegnate per causa l'essere di parti piú o meno opache e
perspicue. E finalmente stimate, quella luce secondaria esser propria della
Luna, e non per reflession della Terra; se ben par che al mare, per esser di
superficie pulita, voi non neghiate qualche riflessione. Quanto al torvi di
errore, che la reflession della Luna non si faccia come da uno specchio, ci ho
poca speranza, mentre veggo che quello che in tal proposito si legge nel Saggiatore
e nelle Lettere Solari del nostro amico comune non ha profittato nulla
nel vostro concetto, se però voi avete attentamente letto quanto vi
è scritto in tal materia.
SIMP. Io l'ho trascorso cosí, superficialmente,
conforme al poco tempo che mi vien lasciato ozioso da studi piú sodi:
però, se col replicare alcune di quelle ragioni o coll'addurne altre voi
pensate risolvermi le difficultà, le ascolterò piú attentamente.
SALV. Io dirò quello che mi viene in mente
al presente e potrebb'essere che fusse una mistione di concetti miei propri e
di quelli che già lessi ne i detti libri, da i quali mi sovvien bene
ch'io restai interamente persuaso, ancorché le conclusioni nel primo aspetto mi
paresser gran paradossi. Noi cerchiamo, signor Simplicio, se per fare una
reflession di lume simile a quello che ci vien dalla Luna, sia necessario che
la superficie da cui vien la reflessione sia cosí tersa e liscia come di uno
specchio, o pur sia piú accomodata una superficie non tersa e non liscia, ma
aspra e mal pulita. Ora, quando a noi venisser due reflessioni, una piú lucida
e l'altra meno, da due superficie opposteci, io vi domando, qual delle due
superficie voi credete che si rappresentasse a gli occhi nostri piú chiara e
qual piú oscura.
SIMP. Credo senza dubbio che quella che piú
vivamente mi reflettesse il lume, mi si mostrerebbe in aspetto piú chiara, e
l'altra piú oscura.
SALV. Pigliate ora in cortesia quello specchio che
è attaccato a quel muro, ed usciamo qua nella corte. Venite, signor
Sagredo. Attaccate lo specchio là a quel muro, dove batte il sole; discostiamoci
e ritiriamoci qua all'ombra. Ecco là due superficie percosse dal sole,
cioè il muro e lo specchio. Ditemi ora qual vi si rappresenta piú
chiara: quella del muro o quella dello specchio? voi non rispondete?
SAGR. Io lascio rispondere al signor Simplicio, che
ha la difficultà; ché io, quanto a me, da questo poco principio di
esperienza son persuaso che bisogni per necessità che la Luna sia di
superficie molto mal pulita.
SALV. Dite, signor Simplicio: se voi aveste a
ritrar quel muro, con quello specchio attaccatovi, dove adoprereste voi colori
piú oscuri, nel dipignere il muro o pur nel dipigner lo specchio?
SIMP. Assai piú scuri nel dipigner lo specchio.
SALV. Or se dalla superficie che si rappresenta piú
chiara vien la reflession del lume piú potente, piú vivamente ci
refletterà i raggi del Sole il muro che lo specchio.
SIMP. Benissimo, signor mio; avete voi migliori
esperienze di queste? Voi ci avete posti in luogo dove non batte il reverbero
dello specchio; ma venite meco un poco piú in qua: no, venite pure.
SAGR. Cercate voi forse il luogo della reflessione
che fa lo specchio?
SIMP. Signor sí.
SAGR. Oh vedetela là nel muro opposto,
grande giusto quanto lo specchio, e chiara poco meno che se vi battesse il Sole
direttamente.
SIMP. Venite dunque qua, e guardate di lì la
superficie dello specchio, e sappiatemi dire se l'è piú scura di quella
del muro.
SAGR. Guardatela pur voi, ché io per ancora non
voglio acceccare; e so benissimo, senza guardarla, che la si mostra vivace e
chiara quanto il Sole istesso, o poco meno
SIMP. Che dite voi dunque che la reflession di uno
specchio sia men potente di quella di un muro? io veggo che in questo muro
opposto, dove arriva il reflesso dell'altra parete illuminata insieme con quel
dello specchio, questo dello specchio è assai piú chiaro; e veggio
parimente che di qui lo specchio medesimo mi apparisce piú chiaro assai che il
muro.
SALV. Voi con la vostra accortezza mi avete
prevenuto, perché di questa medesima osservazione avevo bisogno per dichiarar
quel che resta. Voi vedete dunque la differenza che cade tra le due
reflessioni, fatte dalle due superficie del muro e dello specchio, percosse
nell'istesso modo per l'appunto da i raggi solari; e vedete come la reflession
che vien dal muro si diffonde verso tutte le parti opposteli, ma quella dello
specchio va verso una parte sola, non punto maggiore dello specchio medesimo;
vedete parimente come la superficie del muro, riguardata da qualsivoglia luogo,
si mostra chiara sempre egualmente a se stessa, e per tutto assai piú chiara
che quella dello specchio, eccettuatone quel piccolo luogo solamente dove batte
il reflesso dello specchio, ché di lí apparisce lo specchio molto piú chiaro
del muro. Da queste cosí sensate e palpabili esperienze mi par che molto
speditamente si possa venire in cognizione, se la reflessione che ci vien dalla
Luna venga come da uno specchio, o pur come da un muro, cioè se da una
superficie liscia o pure aspra.
SAGR. Se io fussi nella Luna stessa, non credo che
io potessi con mano toccar piú chiaramente l'asprezza della sua superficie di
quel ch'io me la scorga ora con l'apprensione del discorso. La Luna, veduta in
qualsivoglia positura, rispetto al Sole e a noi, ci mostra la sua superficie
tocca dal Sole sempre egualmente chiara; effetto che risponde a capello a quel
del muro, che, riguardato da qualsivoglia luogo, apparisce egualmente chiaro, e
discorda dallo specchio, che da un luogo solo si mostra luminoso e da tutti gli
altri oscuro. In oltre, la luce che mi vien dalla reflession del muro è
tollerabile e debile, in comparazion di quella dello specchio gagliardissima ed
offensiva alla vista poco meno della primaria e diretta del Sole: e cosí con
suavità riguardiamo la faccia della Luna; che quando ella fusse come uno
specchio, mostrandocisi anco, per la vicinità, grande quanto l'istesso
Sole, sarebbe il suo fulgore assolutamente intollerabile, e ci parrebbe di
riguardare quasi un altro Sole.
SALV. Non attribuite di grazia, signor Sagredo,
alla mia dimostrazione piú di quello che le si perviene. Io voglio muovervi
contro un'instanza, che non so quanto sia di agevole scioglimento. Voi portate
per gran diversità tra la Luna e lo specchio, che ella rimandi la
reflessione verso tutte le parti egualmente, come fa il muro, dove che lo
specchio la manda in un luogo solo determinato; e di qui concludete, la Luna
esser simile al muro, e non allo specchio. Ma io vi dico che quello specchio
manda la reflessione in un luogo solo, perché la sua superficie è piana,
e dovendo i raggi reflessi partirsi ad angoli eguali a quelli de' raggi
incidenti, è forza che da una superficie piana si partano unitamente
verso il medesimo luogo; ma essendo che la superficie della Luna è non
piana, ma sferica, ed i raggi incidenti sopra una tal superficie trovano da
reflettersi ad angoli eguali a quelli dell'incidenza verso tutte le parti,
mediante la infinità delle inclinazioni che compongono la superficie
sferica, adunque la Luna può mandar la reflessione per tutto, e non
è necessitata a mandarla in un luogo solo, come quello specchio che
è piano.
SIMP. Questa è appunto una delle obbiezioni
che io volevo fargli contro.
SAGR. Se questa è una, è forza che
voi ne abbiate delle altre; però ditele, ché quanto a questa prima mi
par che ella sia per riuscire piú contro di voi che in favore.
SIMP. Voi avete pronunziato come cosa manifesta,
che la reflession fatta da quel muro sia cosí chiara ed illuminante come quella
che ci vien dalla Luna, ed io la stimo come nulla in comparazion di quella:
imperocché «in questo negozio dell'illuminazione bisogna aver riguardo e
distinguere la sfera di attività; e chi dubita che i corpi celesti
abbiano maggiore sfera di attività che questi nostri elementari, caduchi
e mortali? e quel muro, finalmente, che è egli altro che un poco di
terra, oscura ed inetta all'illuminare?»
SAGR. E qui ancora credo che voi vi inganniate di
assai. Ma vengo alla prima instanza mossa dal signor Salviati: e considero che
per far che un oggetto ci apparisca luminoso, non basta che sopra esso caschino
i raggi del corpo illuminante, ma ci bisogna che i raggi reflessi vengano
all'occhio nostro; come apertamente si vede nell'esempio di quello specchio,
sopra il quale non ha dubbio che vengono i raggi luminosi del Sole, con tutto
ciò ei non ci si mostra chiaro ed illustrato se non quando noi mettiamo
l'occhio in quel luogo particulare dove va la reflessione. Consideriamo adesso
quel che accaderebbe quando lo specchio fusse di superficie sferica: ché
senz'altro noi troveremo che della reflessione che si fa da tutta la superficie
illuminata, piccolissima parte è quella che perviene all'occhio di un
particolar riguardante, per esser una minimissima particella di tutta la
superficie sferica quella l'inclinazion della quale ripercuote il raggio al
luogo particolare dell'occhio; onde minima convien che sia la parte della
superficie sferica che all'occhio si mostra splendente, rappresentandosi tutto
il rimanente oscuro. Quando dunque la Luna fusse tersa come uno specchio,
piccolissima parte si mostrerebbe a gli occhi di un particulare illustrata dal
Sole, ancorché tutto un emisferio fusse esposto a' raggi solari, ed il resto
rimarrebbe all'occhio del riguardante come non illuminato e perciò
invisibile, e finalmente invisibile ancora del tutto la Luna, avvenga che quella
particella onde venisse la riflessione, per la sua piccolezza e gran lontananza
si perderebbe; e sí come all'occhio ella resterebbe invisibile, cosí la sua
illuminazione resterebbe nulla, ché bene è impossibile che un corpo
luminoso togliesse via le nostre tenebre col suo splendore e che noi non lo
vedessimo.
SALV. Fermate in grazia, signor Sagredo, perché io
veggo alcuni movimenti nel viso e nella persona del signor Simplicio, che mi
sono indizi ch'ei non resti o ben capace o soddisfatto di questo che voi con
somma evidenza ed assoluta verità avete detto; e pur ora mi è
sovvenuto di potergli con altra esperienza rimuovere ogni scrupolo. Io ho
veduto in una camera di sopra un grande specchio sferico: facciamolo portar
qua, e mentre che si conduce, torni il signor Simplicio a considerare quanta
è grande la chiarezza che vien nella parete qui sotto la loggia dal
reflesso dello specchio piano.
SIMP. Io veggo che l'è chiara poco meno che
se vi percotesse direttamente il Sole.
SALV. Cosí è veramente. Or ditemi: se,
levando via quel piccolo specchio piano, metteremo nell'istesso luogo quel
grande sferico, qual effetto credete voi che sia per far la sua reflessione
nella medesima parete?
SIMP Credo che gli arrecherà lume molto
maggiore e molto più amplo.
SALV. Ma se l'illuminazione sarà nulla, o
cosí piccola che appena ve ne accorgiate, che direte allora?
SIMP. Quando avrò visto l'effetto,
penserò alla risposta.
SALV. Ecco lo specchio, il quale voglio che sia
posto accanto all'altro. Ma prima andiamo là vicino al reflesso di quel
piano, e rimirate attentamente la sua chiarezza: vedete come è chiaro
qui dove e' batte, e come distintamente si veggono tutte queste minuzie del
muro.
SIMP. Ho visto e osservato benissimo: fate metter
l'altro specchio a canto al primo.
SALV. Eccolo là. Vi fu messo subito che
cominciaste a guardare le minuzie, e non ve ne sete accorto, sí grande è
stato l'accrescimento del lume nel resto della parete. Or tolgasi via lo
specchio piano. Eccovi levata via ogni reflessione, ancorché vi sia rimasto il
grande specchio convesso. Rimuovasi questo ancora, e poi vi si riponga quanto
vi piace: voi non vedrete mutazione alcuna di luce in tutto il muro. Eccovi
dunque mostrato al senso come la reflessione del Sole fatta in ispecchio
sferico convesso non illumina sensibilmente i luoghi circonvicini. Ora che
risponderete voi a questa esperienza?
SIMP. Io ho paura che qui non entri qualche giuoco
di mano. Io veggo pure, nel riguardar quello specchio, uscire un grande
splendore, che quasi mi toglie la vista, e, quel che piú importa, ve lo veggo
sempre da qualsivoglia luogo ch'io lo rimiri, e veggolo andar mutando sito
sopra la superficie dello specchio, secondo ch'io mi pongo a rimirarlo in
questo o in quel luogo: argomento necessario, che il lume si reflette vivo
assai verso tutte le bande, ed in conseguenza cosí potente sopra tutta quella
parete come sopra il mio occhio.
SALV. Or vedete quanto bisogni andar cauto e
riservato nel prestare assenso a quello che il solo discorso ci rappresenta.
Non ha dubbio che questo che voi dite ha assai dell'apparente; tuttavia potete
vedere come la sensata esperienza mostra in contrario.
SIMP. Come dunque cammina questo negozio?
SALV. Io vi dirò quel che ne sento, che non
so quanto vi sia per appagare. E prima, quello splendore cosí vivo che voi
vedete sopra lo specchio, e che vi par che ne occupi assai buona parte, non
è cosí grande a gran pezzo, anzi è piccolo assai assai; ma la sua
vivezza cagiona nell'occhio vostro, mediante la reflessione fatta nell'umido de
gli orli delle palpebre, la quale si distende sopra la pupilla, una
irradiazione avventizia, simile a quel capillizio che ci par di vedere intorno
alla fiammella di una candela posta alquanto lontana, o vogliate assimigliarla
allo splendore avventizio di una stella; che se voi paragonerete il piccolo
corpicello, verbigrazia, della Canicola, veduto di giorno col telescopio,
quando si vede senza irradiazione, col medesimo veduto di notte coll'occhio
libero, voi fuor di ogni dubbio comprenderete che l'irraggiato si mostra piú di
mille volte maggiore del nudo e real corpicello: ed un simile o maggior
ricrescimento fa l'immagine del Sole che voi vedete in quello specchio; dico
maggiore, per esser ella piú viva della stella, come è manifesto dal
potersi rimirar la stella con assai minor offesa alla vista, che questa
reflession dello specchio. Il reverbero dunque, che si ha da participare sopra
tutta questa parete, viene da piccola parte di quello specchio; e quello che
pur ora veniva da tutto lo specchio piano, si participava e ristrigneva a
piccolissima parte della medesima parete: qual meraviglia è dunque che
la reflessione prima illumini molto vivamente, e che quest'altra resti quasi
impercettibile?
SIMP. Io mi trovo piú inviluppato che mai, e mi
sopraggiugne l'altra difficultà, come possa essere che quel muro,
essendo di materia cosí oscura e di superficie cosí mal pulita, abbia a
ripercuoter lume piú potente e vivace
che uno specchio ben terso e pulito.
SALV. Piú vivace no, ma ben piú universale, ché,
quanto alla vivezza, voi vedete che la reflessione di quello specchietto piano,
dove ella ferisce là sotto la loggia, illumina gagliardamente, ed il
restante della parete, che riceve la reflession del muro, dove è
attaccato lo specchio, non è a gran segno illuminato come la piccola
parte dove arriva il reflesso dello specchio. E se voi desiderate intender
l'intero di questo negozio, considerate come l'esser la superficie di quel muro
aspra, è l'istesso che l'esser composta di innumerabili superficie
piccolissime, disposte secondo innumerabili diversità di inclinazioni,
tra le quali di necessità accade che ne sieno molte disposte a mandare i
raggi, reflessi da loro, in un tal luogo, molte altre in altro; ed in somma non
è luogo alcuno al quale non arrivino moltissimi raggi reflessi da
moltissime superficiette sparse per tutta l'intera superficie del corpo
scabroso, sopra il quale cascano i raggi luminosi: dal che segue di
necessità che sopra qualsivoglia parte di qualunque superficie opposta a
quella che riceve i raggi primarii incidenti, pervengano raggi reflessi, ed in
conseguenza l'illuminazione. Seguene ancora, che il medesimo corpo sul quale
vengono i raggi illuminanti, rimirato da qualsivoglia luogo, si mostri tutto
illuminato e chiaro: e però la Luna, per esser di superficie aspra e non
tersa, rimanda la luce del Sole verso tutte le bande, ed a tutti i riguardanti
si mostra egualmente lucida. Che se la superficie sua, essendo sferica, fusse
ancora liscia come uno specchio, resterebbe del tutto invisibile, atteso che
quella piccolissima parte dalla quale potesse venir reflessa l'immagine del
Sole, all'occhio di un particolare, per la gran lontananza, resterebbe
invisibile, come già abbiam detto.
SIMP. Resto assai ben capace del vostro discorso;
tuttavia mi par di poter risolverlo con pochissima fatica, e mantener benissimo
che la Luna sia rotonda e pulitissima e che refletta il lume del Sole a noi al
modo di uno specchio: né perciò l'immagine del Sole si deve veder nel
suo mezo; avvengaché «non per le spezie dell'istesso Sole possa vedersi in sí
gran distanza la piccola figura del Sole, ma sia compresa da noi per il lume
prodotto dal Sole l'illuminazione di tutto il corpo lunare. Una tal cosa
possiamo noi vedere in una piastra dorata e ben brunita, che, percossa da un
corpo luminoso, si mostra, a chi la guarda da lontano, tutta risplendente; e
solo da vicino si scorge nel mezo di essa la piccola immagine del corpo
luminoso».
SALV. Confessando ingenuamente la mia
incapacità, dico che non intendo di questo vostro discorso altro che di
quella piastra dorata; e se voi mi concedete il parlar liberamente, ho grande
opinione che voi ancora non l'intendiate, ma abbiate imparate a mente quelle
parole scritte da qualcuno per desiderio di contraddire e mostrarsi piú
intelligente dell'avversario, mostrarsi, però, a quelli che, per apparir
eglino ancora intelligenti, applaudono a quello che e' non intendono, e maggior
concetto si formano delle persone secondo che da loro son manco intese; e pur
che lo scrittore stesso non sia (come molti ce ne sono) di quelli che scrivono
quel che non intendono, e che però non s'intende quel che essi scrivono.
Però, lasciando il resto, vi rispondo quanto alla piastra dorata, che
quando ella sia piana e non molto grande, potrà apparir da lontano tutta
risplendente, mentre sia ferita da un lume gagliardo, ma però si
vedrà tale quando l'occhio sia in una linea determinata, cioè in
quella de i raggi reflessi; e vedrassi piú fiammeggiante che se fusse,
verbigrazia, d'argento, mediante l'esser colorata ed atta, per la somma
densità del metallo, a ricevere brunimento perfettissimo: e quando la
sua superficie, essendo benissimo lustrata, non fusse poi esattamente piana, ma
avesse varie inclinazioni, allora anco da piú luoghi si vedrebbe il suo
splendore, cioè da tanti a quanti pervenissero le varie reflessioni
fatte dalle diverse superficie; che però si lavorano i diamanti a molte
facce, acciò il lor dilettevol fulgore si scorga da molti luoghi: ma
quando la piastra fusse molto grande, non però da lontano, ancorché ella
fusse tutta piana, si vedrebbe tutta risplendente. E per meglio dichiararmi,
intendasi una piastra dorata piana e grandissima esposta al Sole: mostrerassi a
un occhio lontano l'immagine del Sole occupare una parte di tal piastra
solamente, cioè quella donde viene la reflessione de i raggi solari
incidenti; ma è vero che per la vivacità del lume tal immagine
apparirà inghirlandata di molti raggi, e però sembrerà
occupare maggior parte assai della piastra che veramente ella non
occuperà. E che ciò sia vero, notato il luogo particolare della
piastra donde viene la reflessione, e figurato parimente quanto grande mi si
rappresenta lo spazio risplendente, cuoprasi di esso spazio la maggior parte,
lasciando solamente scoperto intorno al mezo: non però si diminuirà
punto la grandezza dell'apparente splendore a quello che di lontano lo rimira,
anzi si vedrà egli largamente sparso sopra il panno o altro con che si
ricoperse. Se dunque alcuno col vedere una piccola piastra dorata da lontano
tutta risplendente, si sarà immaginato che l'istesso dovesse accadere
anco di piastre grandi quanto la Luna, si è ingannato non meno che se
credesse, la Luna non esser maggiore di un fondo di tino. Quando poi la piastra
fusse di superficie sferica, vedrebbesi in una sola sua particella il reflesso
gagliardo, ma ben, mediante la vivezza, si mostrerebbe inghirlandato di molti
raggi assai vibranti: il resto della palla si vedrebbe come colorato, e questo
anco solamente quando e' non fusse in sommo grado pulito; ché quando e' fusse
brunito perfettamente, apparirebbe oscuro. Esempio di questo aviamo
giornalmente avanti gli occhi ne i vasi d'argento, li quali, mentre sono
solamente bolliti nel bianchimento, son tutti candidi come la neve, né punto
rendono l'immagini; ma se in alcuna parte si bruniscono, in quella subito
diventano oscuri, e di lí rendono l'immagini come specchi: e quel divenire
oscuro non procede da altro che dall'essersi spianata una finissima grana che
faceva la superficie dell'argento scabrosa, e però tale che rifletteva
il lume verso tutte le parti, per lo che da tutti i luoghi si mostrava
egualmente illuminata; quando poi, col brunirla, si spianano esquisitamente
quelle minime inegualità, sí che la reflessione de i raggi incidenti si
drizza tutta in luogo determinato, allora da quel tal luogo si mostra la parte
brunita assai piú chiara e lucida del restante, che è solamente
bianchito, ma da tutti gli altri luoghi si vede molto oscura. È noto che
la diversità delle vedute, nel rimirar superficie brunite, cagiona
differenze tali di apparenze, che per imitare e rappresentare in pittura,
verbigrazia, una corazza brunita, bisogna accoppiare neri schietti e bianchi,
l'uno a canto all'altro, in parti di essa arme dove il lume cade egualmente.
SAGR. Adunque, quando questi Signori filosofi si
contentassero di conceder che la Luna, Venere e gli altri pianeti fussero di
superficie non cosí lustra e tersa come uno specchio, ma un capello manco,
cioè quale è una piastra di argento bianchita solamente, ma non
brunita, questo basterebbe a poterla far visibile ed accomodata a ripercuoterci
il lume del Sole?
SALV. Basterebbe in parte; ma non renderebbe un
lume cosí potente, come fa essendo montuosa ed in somma piena di eminenze e
cavità grandi Ma questi Signori filosofi non la concederanno mai pulita
meno di uno specchio, ma bene assai piú, se piú si può immaginare,
perché stimando eglino che a' corpi perfettissimi si convengano figure
perfettissime, bisogna che la sfericità di quei globi celesti sia
assolutissima; oltre che, quando e' mi concedessero qualche inegualità,
ancorché minima, io me ne prenderei senza scrupolo alcuno altra assai maggiore,
perché consistendo tal perfezione in indivisibili, tanto la guasta un capello
quanto una montagna.
SAGR. Qui mi nascono due dubbi: l'uno è
l'intendere, perché la maggior inegualità di superficie abbia a far piú
potente reflession di lume; l'altro è, perché questi Signori
Peripatetici voglian questa esatta figura.
SALV. Al primo risponderò io, ed al signor
Simplicio lascerò la cura di rispondere al secondo. Devesi dunque
avvertire che le medesime superficie vengono dal medesimo lume piú e meno
illuminate, secondoché i raggi illuminanti vi cascano sopra piú o meno
obliquamente, sí che la massima illuminazione è dove i raggi son
perpendicolari. Ed ecco ch'io ve lo mostro al senso. Io piego questo foglio
tanto che una parte faccia angolo sopra l'altra; ed esponendole alla reflession
del lume di quel muro opposto, vedete come questa faccia, che riceve i raggi
obliquamente, è manco chiara di quest'altra, dove la reflessione viene
ad angoli retti; e notate come secondo che io gli vo ricevendo piú e piú
obliquamente, l'illuminazione si fa piú debole.
SAGR. Veggo l'effetto, ma non comprendo la causa.
SALV. Se voi ci pensaste un centesimo d'ora, la
trovereste; ma per non consumare il tempo, eccovene un poco di dimostrazione in
questa figura.
SAGR. La sola vista della figura mi ha chiarito il
tutto, però seguite.
SIMP. Dite in grazia il resto a me, che non sono di
sí veloce apprensiva.
SALV. Fate conto che tutte le linee parallele che
voi vedete partirsi da i termini A, B, sieno i raggi che sopra la linea C D
vengono ad angoli retti: inclinate ora la medesima C D, sí che penda come D O:
non vedete voi che buona parte di quei raggi che ferivano la C D, passano senza
toccar la D O?
Adunque se la D O è illuminata da manco raggi, è ben
ragionevole che il lume ricevuto da lei sia piú debole. Torniamo ora alla Luna,
la quale, essendo di figura sferica, quando la sua superficie fusse pulita
quanto questa carta, le parti del suo emisferio illuminato dal Sole che sono
verso l'estremità, riceverebbero minor lume assaissimo che le parti di
mezo, cadendo sopra quelle i raggi obliquissimi, e sopra queste ad angoli
retti; per lo che nel plenilunio, quando noi veggiamo quasi tutto l'emisferio
illuminato, le parti verso il mezo ci si dovrebbero mostrare piú risplendenti,
che l'altre verso la circonferenza: il che non si vede. Figuratevi ora la
faccia della Luna piena di montagne ben alte: non vedete voi come le piagge e i
dorsi loro, elevandosi sopra la convessità della perfetta superficie
sferica, vengono esposti alla vista del Sole, ed accomodati a ricevere i raggi,
assai meno obliquamente, e perciò a mostrarsi illuminati quanto il
resto?
SAGR. Tutto bene: ma se vi sono tali montagne,
è vero che il Sole le ferirà assai piú direttamente che non
farebbe l'inclinazione di una superficie pulita, ma è anco vero che tra
esse montagne resterebbero tutte le valli oscure, mediante l'ombre grandissime
che in quel tempo verrebber da i monti; dove che le parti di mezo, benché piene
di valli e monti, mediante l'avere il Sole elevato, rimarrebbero senz'ombre, e
però piú lucide assai che le parti estreme, sparse non men di ombre che
di lume: e pur tuttavia non si vede tal differenza.
SIMP. Una simil difficultà mi si andava
avvolgendo per la fantasia.
SALV. Quanto è piú pronto il signor
Simplicio a penetrar le difficultà che favoriscono le opinioni
d'Aristotile, che le soluzioni! Ma io ho qualche sospetto che a bello studio e'
voglia anco talvolta tacerle; e nel presente particulare, avendo da per sé
potuto veder l'obbiezione, che pure è assai ingegnosa, non posso credere
che e' non abbia ancora avvertita la risposta, ond'io voglio tentar di
cavargliela (come si dice) di bocca. Però ditemi, signor Simplicio:
credete voi che possa essere ombra dove feriscono i raggi del Sole?
SIMP. Credo, anzi son sicuro, che no, perché
essendo egli il massimo luminare, che scaccia con i suoi raggi le tenebre,
è impossibile che dove egli arriva resti tenebroso; e poi aviamo la
definizione che tenebræ sunt privatio luminis.
SALV. Adunque il Sole, rimirando la Terra o la Luna
o altro corpo opaco, non vede mai alcuna delle sue parti ombrose, non avendo altri
occhi da vedere che i suoi raggi apportatori del lume; ed in conseguenza uno
che fusse nel Sole, non vedrebbe mai niente di adombrato, imperocché i raggi
suoi visivi andrebbero sempre in compagnia de i solari illuminanti.
SIMP. Questo è verissimo, senza
contradizione alcuna.
SALV. Ma quando la Luna è all'opposizion del
Sole, qual differenza è tra il viaggio che fanno i raggi della vostra
vista, e quello che fanno i raggi del Sole?
SIMP. Ora ho inteso; voi volete dire che caminando
i raggi della vista e quelli del Sole per le medesime linee, noi non possiamo
scoprir alcuna delle valli ombrose della Luna. Di grazia, toglietevi giú di
questa opinione, ch'io sia simulatore o dissimulatore; e vi giuro da gentiluomo
che non avevo penetrata cotal risposta, né forse l'avrei ritrovata senza
l'aiuto vostro o senza lungo pensarvi.
SAGR. La soluzione che fra tutti due avete addotta
circa quest'ultima difficultà, ha veramente soddisfatto a me ancora; ma
nel medesimo tempo questa considerazione del camminare i raggi della vista con
quelli del Sole, mi ha destato un altro scrupolo circa l'altra parte: ma non so
se io lo saprò spiegare, perché, essendomi nato di presente, non l'ho
per ancora ordinato a modo mio; ma vedremo fra tutti di ridurlo a chiarezza. E'
non è dubbio alcuno che le parti verso la circonferenza dell'emisferio
pulito, ma non brunito, che sia illuminato dal Sole, ricevendo i raggi
obliquamente, ne ricevono assai meno che le parti di mezo, le quali
direttamente gli ricevono; e può essere che una striscia larga,
verbigrazia, venti gradi, che sia verso l'estremità dell'emisferio, non
riceva piú raggi che un'altra verso le parti di mezo, larga non piú di quattro
gradi; onde quella veramente sarà assai piú oscura di questa, e tale
apparirà a chiunque le rimirasse amendue in faccia o vogliam dire in
maestà. Ma quando l'occhio del riguardante fusse costituito in luogo
tale che la larghezza de i venti gradi della striscia oscura se gli
rappresentasse non piú lunga d'una di quattro gradi posta sul mezo dell'emisferio,
io non ho per impossibile che se gli potesse mostrare egualmente chiara e
luminosa come l'altra, perché finalmente dentro a due angoli eguali,
cioè di quattro gradi l'uno, vengono all'occhio le reflessioni di due
eguali moltitudini di raggi, di quelli, cioè, che si reflettono dalla
striscia di mezo, larga gradi quattro, e de i reflessi dall'altra di venti
gradi, ma veduta in iscorcio sotto la quantità di gradi quattro: ed un
sito tale otterrà l'occhio, quando e' sia collocato tra 'l detto
emisfero e 'l corpo che l'illumina, perché allora la vista e i raggi vanno per
le medesime linee. Par dunque che non sia impossibile che la Luna possa esser
di superficie assai bene eguale, e che non dimeno nel plenilunio si mostri non
men luminosa nell'estremità che nelle parti di mezo.
SALV. La dubitazione è ingegnosa e degna
d'esser considerata: e comeché ella vi è nata pur ora improvisamente, io
parimente risponderò quello che improvisamente mi cade in mente, e forse
potrebb'essere che col pensarvi piú mi sovvenisse miglior risposta. Ma prima
che io produca altro in mezo, sarà bene che noi ci assicuriamo con
l'esperienza se la vostra opposizione risponde cosí in fatto, come par che
concluda in apparenza. E però, ripigliando la medesima carta, inclinandone,
col piegarla, una piccola parte sopra il rimanente, proviamo se esponendola al
lume, sí che sopra la minor parte caschino i raggi del lume direttamente, e
sopra l'altra obliquamente, questa che riceve i raggi diretti si mostri piú
chiara; ed ecco già l'esperienza manifesta, che l'è notabilmente
piú luminosa. Ora, quando la vostra opposizione sia concludente,
bisognerà che, abbassando noi l'occhio tanto che, rimirando l'altra
maggior parte, meno illuminata, in iscorcio, ella ci apparisca non piú larga dell'altra
piú illuminata, e che in conseguenza non sia veduta sotto maggior angolo che
quella, bisognerà, dico, che il suo lume si accresca sí, che ci sembri
cosí lucida come l'altra. Ecco che io la guardo, e la veggo sí obliquamente che
la mi apparisce piú stretta dell'altra; ma con tutto ciò la sua
oscurità non mi si rischiara punto. Guardate ora se l'istesso accade a
voi.
SAGR. Ho visto, né, perché io abbassi l'occhio,
veggo punto illuminarsi o rischiararsi davvantaggio la detta superficie; anzi
mi par piú tosto che ella si imbrunisca.
SALV. Siamo dunque sin ora sicuri dell'inefficacia
dell'opposizione. Quanto poi alla soluzione, credo che, per esser la superficie
di questa carta poco meno che tersa, pochi sieno i raggi che si reflettano
verso gl'incidenti, in comparazione della moltitudine che si reflette verso le
parti opposte, e che di quei pochi se ne perdano sempre piú quanto piú si
accostano i raggi visivi a essi raggi luminosi incidenti; e perché non i raggi
incidenti, ma quelli che si reffettono all'occhio, fanno apparir l'oggetto
luminoso, però nell'abbassar l'occhio, piú è quello che si perde
che quello che si acquista, come anco voi stesso dite apparirvi nel vedere il
foglio più oscuro.
SAGR. Io dell'esperienza e della ragione mi appago.
Resta ora che 'l signor Simplicio risponda all'altro mio quesito, dichiarandomi
quali cose muovano i Peripatetici a voler questa rotondità ne i corpi
celesti tanto esatta.
SIMP. L'essere i corpi celesti ingenerabili,
incorruttibili, inalterabili, impassibili, immortali, etc., fa che e' sieno
assolutamente perfetti; e l'essere assolutamente perfetti si tira in
conseguenza che in loro sia ogni genere di perfezione, e però che la
figura ancora sia perfetta, cioè sferica, e assolutamente e
perfettamente sferica, e non aspera ed irregolare.
SALV. E questa incorruttibilità da che la
cavate voi?
SIMP. Dal mancar di contrari immediatamente, e
mediatamente dal moto semplice circolare.
SALV. Talché, per quanto io raccolgo dal vostro
discorso, nel costituir l'essenza de i corpi celesti incorruttibile,
inalterabile etc., non v'entra come causa o requisito necessario, la
rotondità; che quando questa cagionasse l'inalterabilità, noi
potremo ad arbitrio nostro far incorruttibile il legno, la cera, ed altre
materie elementari, col ridurle in figura sferica.
SIMP. E non è egli manifesto che una palla
di legno meglio e piú lungo tempo si conserverà che una guglia o altra
forma angolare, fatta di altrettanto del medesimo legno?
SALV. Cotesto è verissimo, ma non
però di corruttibile diverrà ella incorruttibile; anzi
resterà pur corruttibile, ma ben di piú lunga durata. Però
è da notarsi che il corruttibile è capace di piú e di meno tale,
potendo noi dire: «Questo è men corruttibile di quello», come, per
esempio, il diaspro è men corruttibile della pietra serena; ma
l'incorruttibile non riceve il piú e 'l meno, sí che si possa dire: «Questo
è piú incorruttibile di quell'altro», se amendue sono incorruttibili ed
eterni. La diversità dunque di figura non può operare se non
nelle materie che son capaci del piú o del meno durare; ma nelle eterne, che
non posson essere se non egualmente eterne, cessa l'operazione della figura. E
per tanto, già che la materia celeste non per la figura è
incorruttibile, ma per altro, non occorre esser cosí ansioso di questa perfetta
sfericità, perché, quando la materia sarà incorruttibile, abbia
pur che figura si voglia, ella sarà sempre tale.
SAGR. Ma io vo considerando qualche cosa di piú, e
dico che, conceduto che la figura sferica avesse facultà di conferire
l'incorruttibilità, tutti i corpi, di qualsivoglia figura, sarebbero
eterni e incorruttibili. Imperocché essendo il corpo rotondo incorruttibile, la
corruttibilità verrebbe a consistere in quelle parti che alterano la
perfetta rotondità: come, per esempio, in un dado vi è dentro una
palla perfettamente rotonda, e come tale incorruttibile; resta dunque che
corruttibili sieno quelli angoli che ricuoprono ed ascondono la
rotondità; al piú dunque che potesse accadere, sarebbe che tali angoli e
(per cosí dire) escrescenze si corrompessero. Ma se piú internamente andremo
considerando, in quelle parti ancora verso gli angoli vi son dentro altre
minori palle della medesima materia, e però esse ancora, per esser
rotonde, incorruttibili; e cosí ne' residui che circondano queste otto minori
sferette, vi se ne possono intendere altre; talché finalmente, risolvendo tutto
il dado in palle innumerabili, bisognerà confessarlo incorruttibile. E
questo medesimo discorso ed una simile resoluzione si può far di tutte
le altre figure.
SALV. Il progresso cammina benissimo: sí che
quando, verbigrazia, un cristallo sferico avesse dalla figura l'esser
incorruttibile, cioè la facultà di resistere a tutte le
alterazioni interne ed esterne, non si vede che l'aggiugnerli altro cristallo e
ridurlo, verbigrazia, in cubo l'avesse ad alterar dentro, né anco di fuori, sí
che ne divenisse meno atto a resistere al nuovo ambiente, fatto dell'istessa
materia, che non era all'altro di materia diversa, e massime se è vero
che la corruzione si faccia da i contrari, come dice Aristotile; e di qual cosa
si può circondare quella palla di cristallo, che gli sia manco contraria
del cristallo medesimo? Ma noi non ci accorgiamo del fuggir dell'ore, e tardi
verremo a capo de' nostri ragionamenti, se sopra ogni particulare si hanno da
fare sí lunghi discorsi; oltre che la memoria si confonde talmente nella
multiplicità delle cose, che difficilmente posso ricordarmi delle
proposizioni che ordinatamente aveva proposte il signor Simplicio da
considerarsi.
SIMP. Io me ne ricordo benissimo; e circa questo
particulare della montuosità della Luna, resta ancora in piede la causa
che io addussi di tale apparenza, potendosi benissimo salvare con dir ch'ella
sia un'illusione procedente dall'esser le parti della Luna inegualmente opache
e perspicue.
SAGR. Poco fa, quando il signor Simplicio
attribuiva le apparenti inegualità della Luna, conforme all'opinione di
certo Peripatetico amico suo, alle parti di essa Luna diversamente opache e
perspicue, conforme a che simili illusioni si veggono in cristalli e gemme di
piú sorti, mi sovvenne una materia molto piú accomodata per rappresentar cotali
effetti, e tale che credo certo che quel filosofo la pagherebbe qualsivoglia
prezo; e queste sono le madreperle, le quali si lavorano in varie figure, e
benché ridotte ad una estrema liscezza, sembrano all'occhio tanto variamente in
diverse parti cave e colme, che appena al tatto stesso si può dar fede della
loro egualità.
SALV. Bellissimo è veramente questo
pensiero; e quel che non è stato fatto sin ora, potrebbe esser fatto
un'altra volta, e se sono state prodotte altre gemme e cristalli, che non han
che fare con l'illusioni delle madreperle, saran ben prodotte queste ancora.
Intanto, per non tagliar l'occasione ad alcuno, tacerò la risposta che
ci andrebbe, e solo procurerò per ora di sodisfare alle obbiezioni
portate dal signor Simplicio. Dico per tanto che questa vostra è una ragion
troppo generale, e come voi non l'applicate a tutte le apparenze ad una ad una
che si veggono nella Luna, e per le quali io ed altri si son mossi a tenerla
montuosa, non credo che voi siate per trovare chi si soddisfaccia di tal
dottrina; né credo che voi stesso né l'autor medesimo trovi in essa maggior
quiete, che in qualsivoglia altra cosa remota dal proposito. Delle molte e
molte apparenze varie che si scorgono di sera in sera in un corso lunare, voi
pur una sola non ne potrete imitare col fabbricare una palla a vostro arbitrio
di parti piú e meno opache e perspicue e che sia di superficie pulita; dove
che, all'incontro, di qualsivoglia materia solida e non trasparente si
fabbricheranno palle le quali, solo con eminenze e cavità e col ricevere
variamente l'illuminazione, rappresenteranno l'istesse viste e mutazioni a
capello, che d'ora in ora si scorgono nella Luna. In esse vedrete i dorsi
dell'eminenze esposte al lume del Sole chiari assai, e doppo di loro le
proiezioni dell'ombre oscurissime; vedrete le maggiori e minori, secondo che
esse eminenze si troveranno piú o meno distanti dal confine che distingue la
parte della Luna illuminata dalla tenebrosa; vedrete l'istesso termine e
confine, non egualmente disteso, qual sarebbe se la palla fusse pulita, ma
anfrattuoso e merlato; vedrete, oltre al detto termine, nella parte tenebrosa,
molte sommità illuminate e staccate dal resto già luminoso;
vedrete l'ombre sopradette, secondoché l'illuminazione si va alzando, andarsi
elleno diminuendo, sinché del tutto svaniscono, né piú vedersene alcuna quando
tutto l'emisferio sia illuminato; all'incontro poi, nel passare il lume verso
l'altro emisfero lunare, riconoscerete l'istesse eminenze osservate prima, e
vedrete le proiezioni dell'ombre loro farsi al contrario ed andar crescendo: delle
quali cose torno a replicarvi che voi pur una non potrete rappresentarmi col
vostro opaco e perspicuo.
SAGR. Anzi pur se ne imiterà una,
cioè quella del plenilunio, quando, per esser il tutto illuminato, non
si scorge piú né ombre né altro che dalle eminenze e cavità riceva
alcuna variazione. Ma di grazia, signor Salviati, non perdete piú tempo in
questo particolare, perché uno che avesse avuto pazienza di far l'osservazioni
di una o due lunazioni e non restasse capace di questa sensatissima verità,
si potrebbe ben sentenziare per privo del tutto di giudizio; e con simili, a
che consumar tempo e parole indarno?
SIMP. Io veramente non ho fatte tali osservazioni,
perché non ho avuta questa curiosità, né meno strumento atto a poterle
fare; ma voglio per ogni modo farle: e intanto possiamo lasciar questa
questione in pendente e passare a quel punto che segue, producendo i motivi per
i quali voi stimate che la Terra possa reflettere il lume del Sole non men
gagliardamente che la Luna, perché a me par ella tanto oscura ed opaca, che un
tale effetto mi si rappresenta del tutto impossibile.
SALV. La causa per la quale voi reputate la Terra
inetta all'illuminazione non è altramente cotesta, signor Simplicio. E
non sarebbe bella cosa che io penetrassi i vostri discorsi meglio che voi
medesimo?
SIMP. Se io mi discorra bene o male, potrebb'esser
che voi meglio di me lo conosceste; ma, o bene o mal ch'io mi discorra, che voi
possiate meglio di me penetrar il mio discorso, questo non crederò io
mai.
SALV. Anzi vel farò io creder pur ora.
Ditemi un poco: quando la Luna è presso che piena, sí che ella si
può veder di giorno ed anco a meza notte, quando vi par ella piú
splendente, il giorno o la notte?
SIMP. La notte, senza comparazione, e parmi che la
Luna imiti quella colonna di nugole e di fuoco che fu scorta a i figliuoli di
Isdraele, che alla presenza del Sole si mostrava come una nugoletta, ma la
notte poi era splendidissima. Cosí ho io osservato alcune volte di giorno tra
certe nugolette la Luna non altramente che una di esse biancheggiante; ma la
notte poi si mostra splendentissima.
SALV. Talché quando voi non vi foste mai abbattuto
a veder la Luna se non di giorno, voi non l'avreste giudicata piú splendida di
una di quelle nugolette.
SIMP. Cosí credo fermamente.
SALV. Ditemi ora: credete voi che la Luna sia
realmente piú lucente la notte che 'l giorno, o pur che per qualche accidente
ella si mostri tale?
SIMP. Credo che realmente ella risplenda in se
stessa tanto di giorno quanto di notte, ma che 'l suo lume si mostri maggiore
di notte perché noi la vediamo nel campo oscuro del cielo; ed il giorno, per
esser tutto l'ambiente assai chiaro, sí che ella di poco lo avanza di luce, ci
si rappresenta assai men lucida.
SALV. Or ditemi; avete voi veduto mai in su la meza
notte il globo terrestre illuminato dal Sole?
SIMP. Questa mi pare una domanda da non farsi se
non per burla, o vero a qualche persona conosciuta per insensata affatto.
SALV. No, no, io v'ho per uomo sensatissimo, e fo
la domanda sul saldo: e però rispondete pure, e poi se vi parrà
che io parli a sproposito, mi contento d'esser io l'insensato; ché bene
è piú sciocco quello che interroga scioccamente, che quello a chi si fa
interrogazione.
SIMP. Se dunque voi non mi avete per semplice
affatto, fate conto ch'io v'abbia risposto, e detto che è impossibile
che uno che sia in Terra, come siamo noi, vegga di notte quella parte della
Terra dove è giorno, cioè che è percossa dal Sole.
SALV. Adunque non vi è toccato mai a veder
la Terra illuminata se non di giorno; ma la Luna la vedete anco nella piú
profonda notte risplendere in cielo: e questa, signor Simplicio, è la
cagione che vi fa credere che la Terra non risplenda come la Luna; che se voi
poteste veder la Terra illuminata mentreché voi fuste in luogo tenebroso come la
nostra notte, la vedreste splendida piú che la Luna. Ora, se voi volete che la
comparazione proceda bene, bisogna far parallelo del lume della Terra con quel
della Luna veduta di giorno, e non con la Luna notturna, poiché non ci tocca a
veder la Terra illuminata se non di giorno. Non sta cosí?
SIMP. Cosí è dovere.
SALV. E perché voi medesimo avete già
confessato d'aver veduta la Luna di giorno tra nugolette biancheggianti e
similissima, quanto all'aspetto, ad una di esse, già primamente venite a
confessare che quelle nugolette, che pur son materie elementari, son atte a
ricever l'illuminazione quanto la Luna, ed ancor piú, se voi vi ridurrete in
fantasia d'aver vedute talvolta alcune nugole grandissime, e candidissime come
la neve; e non si può dubitare che se una tale si potesse conservar cosí
luminosa nella piú profonda notte, ella illuminerebbe i luoghi circonvicini piú
che cento Lune. Quando dunque noi fussimo sicuri che la Terra si illuminasse
dal Sole al pari di una di quelle nugolette, non resterebbe dubbio che ella
fusse non meno risplendente della Luna. Ma di questo cessa ogni dubbio, mentre
noi veggiamo le medesime nugole, nell'assenza del Sole, restar la notte cosí
oscure come la Terra; e, quel che è piú, non è alcuno di noi al
quale non sia accaduto di veder piú volte alcune tali nugole basse e lontane, e
stare in dubbio se le fussero nugole o montagne: segno evidente, le montagne
non esser men luminose di quelle nugole.
SAGR. Ma che piú altri discorsi? Eccovi là
su la Luna, che è piú di meza; eccovi là quel muro alto, dove
batte il Sole; ritiratevi in qua, sí che la Luna si vegga accanto al muro;
guardate ora: che vi par piú chiaro? non vedete voi che se vantaggio vi
è, l'ha il muro? Il Sole percuote in quella parete; di lí si reverbera
nelle pareti della sala; da quelle si reflette in quella camera, sí che in essa
arriva con la terza riflessione: e ad ogni modo son sicuro che vi è piú
lume, che se direttamente vi arrivasse il lume della Luna.
SIMP. Oh questo non credo io, perché quel della
Luna, e massime quando ell'è piena, è un grande illuminare.
SAGR. Par grande per l'oscurità de i luoghi
circonvicini ombrosi, ma assolutamente non è molto, ed è minore
che quel del crepuscolo di mez'ora doppo il tramontar del Sole; il che è
manifesto, perché non prima che allora vedrete cominciare a distinguersi in
Terra le ombre de i corpi illuminati dalla Luna. Se poi quella terza
reflessione in quella camera illumini piú che la prima della Luna, si
potrà conoscere andando là, col legger quivi un libro, e provar
poi stasera al lume della Luna se si legge piú agevolmente o meno, che credo
senz'altro che si leggerà meno.
SALV. Ora, signor Simplicio (se però voi
sete stato appagato), potete comprender come voi medesimo sapevi veramente che
la Terra risplendeva non meno che la Luna, e che il ricordarvi solamente alcune
cose sapute da per voi, e non insegnate da me, ve n'ha reso certo: perché io
non vi ho insegnato che la Luna si mostra piú risplendente la notte che 'l
giorno, ma già lo sapevi da per voi, come anco sapevi che tanto si
mostra chiara una nugoletta quanto la Luna; sapevi parimente che l'illuminazion
della Terra non si vede di notte, ed in somma sapevi il tutto, senza saper di
saperlo. Di qui non doverà di ragione esservi difficile il conceder che
la reflessione della Terra possa illuminar la parte tenebrosa della Luna, con
luce non minor di quella con la quale la Luna illustra le tenebre della notte,
anzi tanto piú, quanto che la Terra è quaranta volte maggior della Luna.
SIMP. Veramente io credeva che quel lume secondario
fosse proprio della Luna.
SALV. E questo ancora sapete da per voi, e non
v'accorgete di saperlo. Ditemi: non avete voi per voi stesso saputo che la Luna
si mostra piú luminosa assai la notte che il giorno, rispetto
all'oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a
sapere in genere, che ogni corpo lucido si mostra piú chiaro quanto l'ambiente
è piú oscuro?
SIMP. Questo so io benissimo.
SALV. Quando la Luna è falcata e vi mostra
assai chiaro quel lume secondario, non è ella sempre vicina al Sole, ed
in conseguenza nel lume del crepusculo?
SIMP. Èvvi; e molte volte ho desiderato che
l'aria si facesse piú fosca per poter veder quel tal lume piú chiaro, ma
l'è tramontata avanti notte oscura.
SALV. Voi dunque sapete benissimo che nella
profonda notte quel lume apparirebbe piú?
SIMP. Signor sí, ed ancor piú se si potesse tor via
il gran lume delle corna tocche dal Sole, la presenza del quale offusca assai
l'altro minore.
SALV. Oh non accad'egli talvolta di poter vedere
dentro ad oscurissima notte tutto il disco della Luna, senza punto essere
illuminato dal Sole?
SIMP. Io non so che questo avvenga mai, se non ne
gli eclissi totali della Luna.
SALV. Adunque allora dovrebbe questa sua luce
mostrarsi vivissima, essendo in un campo oscurissimo e non offuscata dalla
chiarezza delle corna luminose: ma voi in quello stato come l'avete veduta
lucida?
SIMP. Holla veduta talvolta del color del rame ed
un poco albicante; ma altre volte è rimasta tanto oscura, che l'ho del
tutto persa di vista.
SALV. Come dunque può esser sua propria
quella luce, che voi cosí chiara vedete nell'albor del crepuscolo, non ostante
l'impedimento dello splendor grande e contiguo delle corna, e che poi nella piú
oscura notte, rimossa ogni altra luce, non apparisce punto?
SIMP. Intendo esserci stato chi ha creduto cotal
lume venirle participato dall'altre stelle, ed in particolare da Venere, sua
vicina.
SALV. E cotesta parimente è una
vanità, perché nel tempo della sua totale oscurazione dovrebbe pur
mostrarsi piú lucida che mai, ché non si può dire che l'ombra della
Terra gli asconda la vista di Venere né dell'altre stelle; ma ben ne riman ella
del tutto priva allora, perché l'emisferio terrestre che in quel tempo riguarda
verso la Luna, è quello dove è notte, cioè un'intera
privazion del lume del Sole. E se voi diligentemente andrete osservando,
vedrete sensatamente che, sí come la Luna, quando è sottilmente falcata,
pochissimo illumina la Terra, e secondoché in lei vien crescendo la parte
illuminata dal Sole, cresce parimente lo splendore a noi, che da quella vienci
reflesso; cosí la Luna, mentre è sottilmente falcata e che, per esser
tra 'l Sole e la Terra, scuopre grandissima parte dell'emisferio terreno
illuminato, si mostra assai chiara, e discostandosi dal Sole e venendo verso la
quadratura, si vede tal lume andar languendo, ed oltre la quadratura si vede
assai debile, perché sempre va perdendo della vista della parte luminosa della
Terra: e pur dovrebbe accadere il contrario quando tal lume fusse suo o
comunicatole dalle stelle, perché allora la possiamo vedere nella profonda
notte e nell'ambiente molto tenebroso.
SIMP. Fermate, di grazia, che pur ora mi sovviene
aver letto in un libretto moderno di conclusioni, pieno di molte novità,
«che questo lume secondario non è cagionato dalle stelle né è
proprio della Luna e men di tutti comunicatogli dalla Terra, ma che deriva
dalla medesima illuminazion del Sole, la quale, per esser la sustanza del globo
lunare alquanto trasparente, penetra per tutto il suo corpo, ma piú vivamente
illumina la superficie dell'emisfero esposto a i raggi del Sole, e la
profondità, imbevendo e, per cosí dire, inzuppandosi di tal luce a guisa
di una nugola o di un cristallo, la trasmette e si rende visibilmente lucida. E
questo (se ben mi ricorda) prova egli con l'autorità, con l'esperienza e
con la ragione, adducendo Cleomede, Vitellione, Macrobio e qualch'altro autor
moderno, e soggiugnendo, vedersi per esperienza ch'ella si mostra molto lucida
ne i giorni prossimi alla congiunzione, cioè quando è falcata, e
massimamente risplende intorno al suo limbo; e di piú scrive che negli eclissi
solari, quando ella è sotto il disco del Sole, si vede tralucere, e
massime intorno all'estremo cerchio. Quanto poi alle ragioni, parmi ch'e' dica
che non potendo ciò derivare né dalla Terra né dalle stelle né da se
stessa, resta necessariamente ch'e' venga dal Sole; oltreché, fatta questa
supposizione, benissimo si rendono accomodate ragioni di tutti i particulari
che accascano. Imperocché del mostrarsi tal luce secondaria piú vivace intorno
all'estremo limbo, ne è cagione la brevità dello spazio da esser
penetrato da i raggi del Sole, essendoché delle linee che traversano un
cerchio, la massima è quella che passa per il centro, e delle altre le
piú lontane da questa son sempre minori delle piú vicine. Dal medesimo
principio dice egli derivare che tal lume poco diminuisce. E finalmente, per
questa via si assegna la causa onde avvenga che quel cerchio piú lucido intorno
all'estremo margine della Luna si scorga nell'eclisse solare in quella parte
che sta sotto il disco del Sole, ma non in quella che è fuor del disco;
provenendo ciò, perché i raggi del Sole trapassano a dirittura al nostro
occhio per le parti della Luna sottoposte, ma per le parti che son fuori,
cascano fuori dell'occhio».
SALV. Se questo filosofo fusse stato il primo
autore di tale opinione, io non mi maraviglierei che e' vi fusse talmente
affezionato, che e' l'avesse ricevuta per vera; ma ricevendola da altri, non
saprei addur ragione bastante per iscusarlo dal non aver comprese le sue
fallacie, e massime doppo l'aver egli sentita la vera causa di tale effetto, ed
aver potuto con mille esperienze e manifesti riscontri assicurarsi, ciò
dal reflesso della Terra, e non da altro, procedere; e quanto questa cognizione
fa desiderar qualche cosa nell'accorgimento di questo autore e di tutti gli
altri che non le prestano l'assenso, tanto il non l'avere intesa e non esser
loro sovvenuta mi rende scusabili quei piú antichi, i quali son ben sicuro che
se adesso l'intendessero, senza una minima repugnanza l'ammetterebbero. E se io
vi devo schiettamente dire il mio concetto, non posso creder che quest'autor
moderno internamente non la creda, ma dubito che il non potersen'egli fare il primo
autore, lo stimoli un poco a tentare di supprimerla o smaccarla almanco
appresso a i semplici, il numero de i quali sappiamo esser grandissimo; e molti
sono che godono assai piú dell'applauso numeroso del popolo, che dell'assenso
de i pochi non vulgari.
SAGR. Fermate un poco, signor Salviati, ché mi par
di vedere che voi non andiate drittamente al vero punto nel vostro parlare;
perché questi, che tendono le pareti al comune, si sanno anco fare autori
dell'invenzioni di altri, purché non sieno tanto antiche e fatte pubbliche per
le cattedre e per le piazze, che sieno piú che notorie a tutti.
SALV. Oh io son piú cattivo di voi. Che dite voi di
pubbliche o di notorie? non è egli l'istesso l'esser l'opinioni e
l'invenzioni nuove a gli uomini, che l'esser gli uomini nuovi a loro? se voi vi
contentaste della stima de' principianti nelle scienze, che vengon su di tempo
in tempo, potreste farvi anco inventore sin dell'alfabeto, e cosí rendervi ad
essi ammirando; e se ben poi col progresso del tempo si scoprisse la vostra
sagacità, ciò poco pregiudica al vostro fine, perché altri
sottentrano a mantenere il numero de i fautori. Ma torniamo a mostrare al
signor Simplicio la inefficacia de i discorsi del suo moderno autore, ne i
quali ci sono falsità e cose non concludenti ed inopinabili. E prima,
è falso che questa luce secondaria sia piú chiara intorno all'estremo
margine che nelle parti di mezo, sí che si formi quasi un anello o cerchio piú
risplendente del resto del campo. Ben è vero che guardando la Luna posta
nel crepuscolo, si mostra, nel primo apparire, un tal cerchio, ma con inganno
che nasce dalla diversità de i confini con i quali termina il disco
lunare, sparso di questa luce secondaria: imperocché dalla parte verso il Sole
confina con le corna lucidissime della Luna, e dall'altra ha per termine
confinante il campo oscuro del crepuscolo, la relazion del quale ci fa parere
piú chiaro l'albore del disco lunare, il quale nella parte opposta viene
offuscato dallo splendor maggiore delle corna. Che se l'autor moderno avesse
provato a farsi ostacolo tra l'occhio e lo splendor primario col tetto di
qualche casa o con altro tramezzo, sí che visibile restasse solamente la piazza
della Luna fuori delle corna, l'avrebbe veduta tutta egualmente luminosa.
SIMP. Mi par pur ricordare che egli scriva
d'essersi servito di un simile artifizio per nascondersi la falce lucida.
SALV. Oh come questo è, la sua, che io
stimava inavvertenza, diventa bugia; la quale pizzica anco di temerità,
poiché ciascheduno ne può far frequentemente la riprova. Che poi
nell'eclisse del Sole si vegga il disco della Luna in altro modo che per
privazione, io ne dubito assai, e massime quando l'eclisse non sia totale, come
necessariamente bisogna che siano state le osservate dall'autore; ma quando anco
e' si scorgesse come lucido, questo non contraria, anzi favorisce l'opinion
nostra, avvengaché allora si oppone alla Luna tutto l'emisferio terrestre
illuminato dal Sole, ché se bene l'ombra della Luna ne oscura una parte, questa
è pochissima in comparazione di quella che rimane illuminata. Quello che
aggiugne di piú, che in questo caso la parte del margine che soggiace al Sole
si mostri assai lucida, ma non cosí quella che resta fuori, e ciò
derivare dal venirci direttamente per quella parte i raggi solari all'occhio,
ma non per questa, è bene una di quelle favole che manifestano le altre
finzioni di colui che le racconta; perché, se per farci visibile di luce
secondaria il disco lunare bisogna che i raggi del Sole vengano direttamente al
nostro occhio, non vede il poverino che noi mai non vedremmo tal luce
secondaria se non nell'eclisse del Sole? E se l'esser una parte della Luna
remota dal disco solare solamente manco assai di mezo grado può deviare
i raggi del Sole, sí che non arrivino al nostro occhio, che sarà quando
ella se ne trovi lontana venti e trenta, quale ella ne è nella sua prima
apparizione? e come verranno i raggi del Sole, che hanno a trapassar per il
corpo della Luna, a trovar l'occhio nostro? Quest'uomo si va di mano in mano
figurando le cose quali bisognerebbe ch'elle fussero per servire al suo
proposito, e non va accomodando i suoi propositi di mano in mano alle cose
quali elle sono. Ecco: per far che lo splendor del Sole possa penetrar la
sustanza della Luna, ei la fa in parte diafana, quale è, verbigrazia, la
trasparenza di una nugola o di un cristallo; ma non so poi quello ch'ei si
giudicasse, circa una tal trasparenza, quando i raggi solari avessero a
penetrare una profondità di nugola di piú di dua mila miglia. Ma ammettasi
che egli arditamente rispondesse, ciò potere esser benissimo ne i corpi
celesti, che sono altre faccende che questi nostri elementari, impuri e
fecciosi, e convinchiamo l'error suo con mezi che non ammettono risposta, o per
dir meglio, sutterfugii. Quando ei voglia mantenere che la sustanza della Luna
sia diafana, bisogna ch'ei dica che ella è tale mentreché i raggi del
Sole abbiano a penetrar tutta la sua profondità, cioè ne abbiano
a penetrar piú di dua mila miglia, ma che opponendosigliene solo un miglio ed
anco meno, non la penetreranno piú che e' si penetrino una delle nostre
montagne.
SAGR. Voi mi fate sovvenire di uno che mi voleva
vendere un segreto di poter parlare, per via di certa simpatia di aghi
calamitati, a uno che fusse stato lontano due o tre mila miglia; e dicendogli
io che volentieri l'avrei comprato, ma che volevo vederne l'esperienza, e che
mi bastava farla stando io in una delle mie camere ed egli in un'altra, mi
rispose che in sí piccola distanza non si poteva veder ben l'operazione: onde
io lo licenziai, con dire che non mi sentivo per allora di andare nel Cairo o
in Moscovia per veder tale esperienza; ma se pure voleva andare esso, che io
arei fatto l'altra parte, restando in Venezia. Ma sentiamo come va la
conseguenza dell'autore, e come bisogni ch'egli ammetta, la materia della Luna
esser permeabilissima da i raggi solari nella profondità di dua mila
miglia, ma opacissima piú di una montagna delle nostre nella grossezza di un
miglio solo.
SALV. L'istesse montagne appunto della Luna ce ne
fanno testimonianza, le quali, ferite da una parte dal Sole, gettano
dall'opposta ombre negrissime, terminate e taglienti piú assai dell'ombre delle
nostre; che quando elle fussero diafane, mai non avremmo potuto conoscere
asprezza veruna nella superficie della Luna, né veder quelle cuspidi luminose
staccate dal termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa; anzi né
meno vedremmo noi questo medesimo termine cosí distinto, se fusse vero che 'l
lume del Sole penetrasse la profondità della Luna; anzi, per il detto
medesimo dell'autore, bisognerebbe vedere il passaggio e confine tra la parte
vista e la non vista dal Sole assai confuso e misto di luce e tenebre, ché bene
è necessario che quella materia che dà il transito a i raggi
solari nella profondità di dua mila miglia, sia tanto trasparente che
pochissimo gli contrasti nella centesima o minor parte di tal grossezza:
tuttavia il termine che separa la parte illuminata dalla oscura è
tagliente e cosí distinto quanto è distinto il bianco dal nero, e
massime dove il taglio passa sopra la parte della Luna naturalmente piú chiara
e piú aspra; ma dove sega le macchie antiche, le quali sono pianure, per andare
elle sfericamente inclinandosi, sí che ricevono i raggi del Sole obliquissimi,
quivi il termine non è cosí tagliente, mediante la illuminazione piú
languida. Quello finalmente ch'ei dice del non si diminuire ed abbacinare la
luce secondaria secondo che la Luna va crescendo, ma conservarsi continuamente
della medesima efficacia, è falsissimo; anzi, poco si vede nella
quadratura, quando, per l'opposito, ella dovrebbe vedersi piú viva, potendosi
vedere fuor del crepuscolo, nella notte piú profonda. Concludiamo per tanto,
esser la reflession della Terra potentissima nella Luna; e, quello di che
dovrete far maggiore stima, cavatene un'altra congruenza bellissima:
cioè, che se è vero che i pianeti operino sopra la Terra col moto
e col lume, forse la Terra non meno sarà potente a operar reciprocamente
in loro col medesimo lume e per avventura col moto ancora; e quando anco ella
non si movesse, pur gli può restare la medesima operazione, perché
già, come si è veduto, l'azione del lume è la medesima
appunto, cioè del lume del Sole reflesso, e 'l moto non fa altro che la
variazione de gli aspetti, la quale segue nel modo medesimo facendo muover la
Terra e star fermo il Sole, che se si faccia per l'opposito.
SIMP. Non si troverà alcuno de i filosofi
che abbia detto che questi corpi inferiori operino ne i celesti, ed Aristotile
dice chiaro il contrario.
SALV. Aristotile e gli altri che non han saputo che
la Terra e la Luna si illuminino scambievolmente, son degni di scusa; ma
sarebber ben degni di riprensione se, mentre vogliono che noi concediamo e
crediamo a loro che la Luna operi in Terra col lume, e' volessin poi a noi, che
gli aviamo insegnato che la Terra illumina la Luna, negare l'azione della Terra
nella Luna.
SIMP. In somma io sento in me un'estrema repugnanza
nel potere ammettere questa società che voi vorreste persuadermi tra la
Terra e la Luna, ponendola, come si dice, in ischiera con le stelle; ché,
quando altro non ci fusse, la gran separazione e lontananza tra essa e i corpi
celesti mi par che necessariamente concluda una grandissima dissimilitudine tra
di loro.
SALV. Vedete, signor Simplicio, quanto può
un inveterato affetto ed una radicata opinione; poiché è tanto
gagliarda, che vi fa parer favorevoli quelle cose medesime che voi stesso
producete contro di voi. Che se la separazione e lontananza sono accidenti
validi per persuadervi una gran diversità di nature, convien che per
l'opposito la vicinanza e contiguità importino similitudine: ma quanto
è piú vicina la Luna alla Terra che a qualsivoglia altro de i globi
celesti? Confessate dunque, per la vostra medesima concessione (ed averete anco
altri filosofi per compagni), grandissima affinità esser tra la Terra e
la Luna. Or seguitiamo avanti, e proponete se altro ci resta da considerare
circa le difficultà che voi moveste contro le congruenze tra questi due
corpi.
SIMP. Ci resterebbe non so che in proposito della
solidità della Luna, la quale io argumentava dall'esser ella sommamente
pulita e liscia, e voi dall'esser montuosa. Un'altra difficultà mi
nasceva per il credere io che la reflession del mare dovesse esser, per
l'egualità della sua superficie, piú gagliarda che quella della Terra,
la cui superficie è tanto scabrosa ed opaca.
SALV. Quanto al primo dubbio, dico che, sí come
nelle parti della Terra, che tutte per la lor gravità conspirano ad
approssimarsi quanto piú possono al centro, alcune tuttavia ne rimangono piú
remote che l'altre, cioè le montagne piú delle pianure, e questo per la
lor solidità e durezza (ché se fusser di materia fluida si
spianerebbero), cosí il veder noi alcune parti della Luna restare elevate sopra
la sfericità delle parti piú basse arguisce la loro durezza, perché
è credibile che la materia della Luna si figuri in forma sferica per la
concorde conspirazione di tutte le sue parti al medesimo centro. Circa l'altro
dubbio, parmi che per le cose che aviamo considerate accader negli specchi,
possiamo intender benissimo che la reflession del lume che vien dal mare sia
inferiore assai a quella che vien dalla terra, intendendo però della
reflessione universale; perché quanto alla particolare che la superficie
dell'acqua quieta manda in un luogo determinato, non ha dubbio che chi si
constituirà in tal luogo, vedrà nell'acqua un reflesso
potentissimo, ma da tutti gli altri luoghi si vedrà la superficie
dell'acqua piú oscura di quella della terra. E per mostrarlo al senso, andiamo
qua in sala e versiamo un poco di acqua sul pavimento: ditemi ora, non si
mostr'egli questo mattone bagnato piú oscuro assai degli altri asciutti? Certo
sí, e tale si mostrerà egli rimirato da qualsivoglia luogo, eccettuatone
un solo, e questo è quello dove arriva il reflesso del lume che entra
per quella finestra: tiratevi adunque indietro pian piano.
SIMP. Di qui veggo io la parte bagnata piú lucida
del resto del pavimento, e veggo che ciò avviene perché il reflesso del
lume, che entra per la finestra, viene verso di me.
SALV. Quel bagnare non ha fatto altro che riempier
quelle piccole cavità che sono nel mattone e ridur la sua superficie a
un piano esquisito, onde poi i raggi reflessi vanno uniti verso un medesimo
luogo: ma il resto del pavimento asciutto ha la sua asprezza, cioè una
innumerabil varietà di inclinazioni nelle sue minime particelle, onde le
reflessioni del lume vanno verso tutte le parti, ma piú debili che se andasser
tutte unite insieme; e però poco o niente si varia il suo aspetto per
riguardarlo da diverse bande, ma da tutti i luoghi si mostra l'istesso, ma ben
men chiaro assai che quella reflession della parte bagnata. Concludo per tanto
che la superficie del mare, veduta dalla Luna, sí come apparirebbe egualissima
(trattone le isole e gli scogli), cosí apparirebbe men chiara che quella della
terra, montuosa e ineguale. E se non fusse ch'io non vorrei parer, come si
dice, di volerne troppo, vi direi d'aver osservato nella Luna quel lume
secondario, ch'io dico venirle dalla reflession del globo terrestre, esser
notabilmente piú chiaro due o tre giorni avanti la congiunzione che doppo,
cioè quando noi la veggiamo avanti l'alba in oriente che quando si vede
la sera, doppo il tramontar del Sole, in occidente; della qual differenza ne
è causa che l'emisferio terrestre che si oppone alla Luna orientale ha
poco mare ed assaissima terra, avendo tutta l'Asia, doveché, quando ella
è in occidente, riguarda grandissimi mari, cioè tutto l'Oceano
Atlantico sino alle Americhe: argomento assai probabile del mostrarsi meno splendida
la superficie dell'acqua che quella della terra.
SIMP. [Adunque, per vostro credere, ella farebbe un
aspetto simile a quello che noi veggiamo nella Luna, delle 2 parti massime.] Ma
credete voi forse che quelle gran macchie che si veggono nella faccia della
Luna siano mari, e il resto piú chiaro terra, o cosa tale?
SALV. Questo che voi domandate è il
principio delle incongruenze ch'io stimo esser tra la Luna e la Terra, dalle
quali sarà tempo che noi ci sbrighiamo, ché pur troppo siamo dimorati in
questa Luna. Dico dunque che quando in natura non fusse altro che un modo solo
per far apparir due superficie, illustrate dal Sole, una piú chiara dell'altra,
e che questo fosse per esser una di terra e l'altra di acqua, bisognerebbe
necessariamente dire che la superficie della Luna fosse parte terrea e parte
aquea; ma perché vi sono piú modi conosciuti da noi, che posson cagionare il
medesimo effetto, ed altri per avventura ne posson essere incogniti a noi,
però io non ardirei di affermare, questo piú che quello esser nella
Luna. Già si è veduto di sopra come una piastra d'argento
bianchito, col toccarlo col brunitoio, di candido si rappresenta oscuro; la
parte umida della Terra si mostra piú oscura della arida; ne i dorsi delle
montagne, le parti silvose appariscono assai piú fosche delle nude e sterili;
ciò accade, perché tra le piante casca gran quantità di ombra, ed
i luoghi aprici son tutti illuminati dal Sole; e questa mistione di ombre opera
tanto, che voi vedete ne i velluti a opera il color della seta tagliata
mostrarsi molto piú oscuro che quel della non tagliata, mediante le ombre
disseminate tra pelo e pelo, ed il velluto piano parimente assai piú fosco che
un ermisino fatto della medesima seta; sí che quando nella Luna fossero cose
che imitassero grandissime selve, l'aspetto loro potrebbe rappresentarci le
macchie che noi veggiamo; una tal differenza farebbero s'elle fusser mari; e
finalmente non repugna che potesse esser che quelle macchie fosser realmente di
color piú oscuro del rimanente, ché in questa guisa la neve fa comparir le
montagne piú chiare. Quello che si vede manifestamente nella Luna è che
le parti piú oscure son tutte pianure, con pochi scogli e argini dentrovi, ma
pur ve ne son alcuni: il restante piú chiaro è tutto pieno di scogli,
montagne, arginetti rotondi e di altre figure; ed in particolare intorno alle
macchie sono grandissime tirate di montagne. Dell'esser le macchie superficie
piane, ce ne assicura il veder come il termine che distingue la parte
illuminata dall'oscura, nel traversar le macchie fa il taglio eguale, ma nelle
parti chiare si mostra per tutto anfrattuoso e merlato. Ma non so già se
questa egualità di superficie possa esser bastante per sé sola a far
apparir l'oscurità, e credo piú tosto di no. Reputo, oltre a questo, la
Luna differentissima dalla Terra, perché, se bene io mi immagino che quelli non
sien paesi oziosi e morti, non affermo però che vi sieno movimenti e
vita, e molto meno che vi si generino piante, animali o altre cose simili alle
nostre, ma, se pur ve n'è, fussero diversissime, e remote da ogni nostra
immaginazione: e muovomi a cosí credere, perché, primamente, stimo che la
materia del globo lunare non sia di terra e di acqua, e questo solo basta a
tòr via le generazioni e alterazioni simili alle nostre; ma, posto anco
che lassú fosse acqua e terra, ad ogni modo non vi nascerebbero piante ed
animali simili a i nostri, e questo per due ragioni principali. La prima
è, che per le nostre generazioni son tanto necessarii gli aspetti
variabili del Sole, che senza essi il tutto mancherebbe: ora le abitudini del
Sole verso la Terra son molto differenti da quelle verso la Luna Noi, quanto
all'illuminazion diurna, abbiamo nella maggior parte della Terra ogni
ventiquattr'ore parte di giorno e parte di notte, il quale effetto nella Luna
si fa in un mese; e quello abbassamento ed alzamento annuo per il quale il Sole
ci apporta le diverse stagioni e la disegualità de i giorni e delle
notti, nella Luna si finisce pur in un mese; e dove il Sole a noi si alza ed
abbassa tanto, che dalla massima alla minima altezza vi corre circa
quarantasette gradi di differenza, cioè quanta è la distanza
dall'uno all'altro tropico, nella Luna non importa altro che gradi dieci o poco
piú, ché tanto importano le massime latitudini del dragone di qua e di là dall'eclittica.
Considerisi ora qual sarebbe l'azion del Sole dentro alla zona torrida quando
e' durasse quindici giorni continui a ferirla con i suoi raggi, che senz'altro
s'intenderà che tutte le piante e le erbe e gli animali si dispergerebbero;
e se pur vi si facessero generazioni, sarebber di erbe, piante ed animali
diversissimi da i presenti. Secondariamente, io tengo per fermo che nella Luna
non siano piogge, perché quando in qualche parte vi si congregassero nugole,
come intorno alla Terra, ci verrebbero ad ascondere alcuna di quelle cose che
noi col telescopio veggiamo nella Luna, ed in somma in qualche particella ci
varierebber la vista; effetto che io per lunghe e diligenti osservazioni non ho
veduto mai, ma sempre vi ho scorto una uniforme serenità purissima.
SAGR. A questo si potrebbe rispondere, o che vi
fossero grandissime rugiade, o che vi piovesse ne i tempi della lor notte,
cioè quando il Sole non la illumina.
SALV. Se per altri riscontri noi avessimo indizii
che in essa si facesser generazioni simili alle nostre, e solo ci mancasse il
concorso delle piogge, potremmo trovarci questo o altro temperamento che
supplisse in vece di quelle, come accade nell'Egitto dell'inondazione del Nilo;
ma non incontrando accidente alcuno che concordi co i nostri, de' molti che si
ricercherebbero per produrvi gli effetti simili, non occorre affaticarsi per
introdurne un solo, e quello anco non perché se n'abbia sicura osservazione, ma
per una semplice non repugnanza. Oltre che, quando mi fosse domandato quello
che la prima apprensione ed il puro naturale discorso mi detta circa il
prodursi là cose simili o pur differenti dalle nostre, io direi sempre,
differentissime ed a noi del tutto inimmaginabili, che cosí mi pare che
ricerchi la ricchezza della natura e l'onnipotenza del Creatore e Governatore.
SAGR. Estrema temerità mi è parsa
sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di
quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all'incontro, e' non è
effetto alcuno in natura, per minimo che e' sia, all'intera cognizion del quale
possano arrivare i piú specolativi ingegni. Questa cosí vana prosunzione
d'intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere
inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a
intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è
fatto il sapere, conoscerebbe come dell'infinità dell'altre conclusioni
niuna ne intende.
SALV. Concludentissimo è il vostro discorso;
in confermazion del quale abbiamo l'esperienza di quelli che intendono o hanno
inteso qualche cosa, i quali quanto piú sono sapienti, tanto piú conoscono e
liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per
tale sentenziato da gli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper
nulla.
SIMP. Convien dunque dire, o che l'oracolo, o
l'istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e
dicendo questo di conoscersi ignorantissimo.
SALV. Non ne seguita né l'uno né l'altro, essendo
che amendue i pronunziati posson esser veri. Giudica l'oracolo sapientissimo
Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si
conosce Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che
è infinita; e perché dell'infinito tal parte n'è il molto che 'l
poco e che il niente (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto
è l'accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però ben
conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all'infinita, che gli
mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non
egualmente compartito a tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli
altri, e perciò verificarsi il responso dell'oracolo.
SAGR. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra
gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non
egualmente participata da tutti: e non è dubbio che la potenza d'un
imperadore è maggiore assai che quella d'una persona privata; ma e
questa e quella è nulla in comparazione dell'onnipotenza divina. Tra gli
uomini vi sono alcuni che intendon meglio l'agricoltura che molti altri; ma il
saper piantar un sermento di vite in una fossa, che ha da far col saperlo far
barbicare, attrarre il nutrimento, da quello scierre questa parte buona per
farne le foglie, quest'altra per formarne i viticci, quella per i grappoli,
quell'altra per l'uva, ed un'altra per i fiocini, che son poi l'opere della
sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle
innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un'infinita sapienza,
talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito.
SALV. Eccone un altro esempio. Non direm noi che 'l
sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l'ingegno del
Buonarruoti assai assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa
opera non è altro che imitare una sola attitudine e disposizion di
membra esteriore e superficiale d'un uomo immobile; e però che cosa
è in comparazione d'un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra
esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i
tanti e sí diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze
dell'anima, e finalmente dell'intendere? non possiamo noi dire, e con ragione,
la fabbrica d'una statua cedere d'infinito intervallo alla formazion d'un uomo
vivo, anzi anco alla formazion d'un vilissimo verme?
SAGR. E qual differenza crediamo che fusse tra la
colomba d'Archita ed una della natura?
SIMP. O io non sono un di quegli uomini che
intendano, o 'n questo vostro discorso è una manifesta contradizione.
Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite
all'uomo, fatto dalla natura, questo dell'intendere; e poco fa dicevi con Socrate
che 'l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco
la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.
SALV. Molto acutamente opponete; e per rispondere
all'obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che
l'intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o
vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla
moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l'intender umano è
come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille
rispetto all'infinità è come un zero; ma pigliando l'intendere intensive,
in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente,
alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende alcune cosí
perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n'abbia l'intessa
natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e
l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni
di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano
credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché
arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa
esser sicurezza maggiore.
SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed
ardito.
SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da
ogni ombra di temerità o d'ardire e che punto non detraggono di
maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua
onnipotenza il dire che Iddio non può fare che il fatto non sia fatto. Ma
dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da
voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio
dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le
dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza
divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le
infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è
sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con
passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice
intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d'alcune passioni
del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella
pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un'altra, e da questa
alla terza, e poi alla quarta, etc., l'intelletto divino con la semplice
apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la
infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente
si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per
esser infinite, forse sono una sola nell'essenza loro e nella mente divina. Il
che né anco all'intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da
profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e
chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente
dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo
velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l'esser nel
triangolo il quadrato opposto all'angolo retto eguale a gli altri due che gli
sono intorno, se non l'esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le
parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo
che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano,
ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che
l'intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l'intelletto
divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l'istesso che
dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l'intender nostro, e
quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d'infinito
intervallo superato dal divino; ma non però l'avvilisco tanto, ch'io lo
reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto
maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo
chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle
piú eccellenti.
SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo
considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia
l'acutezza dell'ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto
maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle
lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi
promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle
già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi
reputo poco meno che infelice. S'io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico
a me medesimo: «E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e
scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere
sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli
oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?» S'io guardo
quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl'intervalli musici, nello
stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile
dell'udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti
e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia
riempie chi attentamente considera l'invenzion de' concetti e la spiegatura
loro? Che diremo dell'architettura? che dell'arte navigatoria? Ma sopra tutte
le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che
s'immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a
qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo
e di tempo? parlare con quelli che son nell'Indie, parlare a quelli che non
sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual
facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta.
Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de'
nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il
signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri
freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i
discorsi cominciati, etc.
GIORNATA SECONDA
SALV. Le diversioni di ieri, che ci torsero dal
dritto filo de' nostri principali discorsi, furon tante e tali, ch'io non so se
potrò senza l'aiuto vostro rimettermi su la traccia, per poter procedere
avanti.
SAGR. Io non mi meraviglio che voi, che avete
ripiena e ingombrata la fantasia tanto delle cose dette quanto di quelle che
restan da dirsi, vi troviate in qualche confusione; ma io, che per esser
semplice ascoltatore, altro non ritengo che le cose udite, potrò per
avventura, col ricordarle sommariamente, rimettere il ragionamento su 'l suo
filo. Per quello dunque che mi è restato in mente, fu la somma de i
discorsi di ieri l'andar esaminando da i fondamenti loro, qual delle due
opinioni sia piú probabile e ragionevole: quella che tiene, la sustanza de i
corpi celesti esser ingenerabile, incorruttibile, inalterabile, impassibile, ed
in somma esente da ogni mutazione, fuor che dalla locale, e però essere
una quinta essenza diversissima da questa de i nostri corpi elementari,
generabili, corruttibili, alterabili, etc.; o pur l'altra che, levando tal
difformità di parti dal mondo, reputa la Terra goder delle medesime
perfezioni che gli altri corpi integranti dell'universo, ed esser in somma un
globo mobile e vagante non men che la Luna, Giove, Venere o altro pianeta.
Fecersi in ultimo molti paralleli particolari tra essa Terra e la Luna, e piú
con la Luna che con altro pianeta forse per aver noi di quella maggiore e piú
sensata notizia, mediante la sua minor lontananza. Ed avendo finalmente
concluso, questa seconda opinione aver piú del verisimile dell'altra, parmi che
'l progresso ne tirasse a cominciare a esaminare se la Terra si deva stimare
immobile, come da i piú è stato sin qui creduto, o pur mobile, come
alcuni antichi filosofi credettero ed altri da non molto tempo in qua stimano,
e se mobile, qual possa essere il suo movimento.
SALV. Già comprendo e riconosco il segno del
nostro cammino; ma innanzi che si cominci a procedere piú oltre, devo dirvi non
so che sopra queste ultime parole che avete detto, dell'essersi concluso la
opinione che tien la Terra dotata delle medesime condizioni de i corpi celesti
esser piú verisimile della contraria: imperocché questo non ho io concluso, sí
come non son né anco per concludere verun'altra delle proposizioni controverse;
ma solo ho auta intenzione di produrre, tanto per l'una quanto per l'altra
parte, quelle ragioni e risposte, instanze e soluzioni, che ad altri sin qui
sono sovvenute, con qualche altra ancora che a me, nel lungamente pensarvi,
è cascata in mente, lasciando poi la decisione all'altrui giudizio.
SAGR. Io mi era lasciato trasportare dal mio
proprio sentimento, e credendo che in altri dovesse esser quel che io sentiva
in me, feci universale quella conclusione che doveva far particolare; e
veramente ho errato, e massime non sapendo il concetto del signor Simplicio qui
presente.
SIMP. Io vi confesso che tutta questa notte sono
andato ruminando le cose di ieri, e veramente trovo di molte belle nuove e
gagliarde considerazioni; con tutto ciò mi sento stringer assai piú
dall'autorità di tanti grandi scrittori, ed in particolare… Voi scotete
la testa, signor Sagredo, e sogghignate, come se io dicessi qualche grande
esorbitanza.
SAGR. Io sogghigno solamente, ma crediatemi ch'io
scoppio nel voler far forza di ritener le risa maggiori, perché mi avete fatto
sovvenire di un bellissimo caso, al quale io mi trovai presente non sono molti
anni, insieme con alcuni altri nobili amici miei, i quali vi potrei ancora
nominare.
SALV. Sarà ben che voi ce lo raccontiate, acciò
forse il signor Simplicio non continuasse di creder d'avervi esso mosse le
risa.
SAGR. Son
contento. Mi trovai un giorno in casa un medico molto stimato in Venezia,
dove alcuni per loro studio, ed altri per curiosità, convenivano tal
volta a veder qualche taglio di notomia per mano di uno veramente non men dotto
che diligente e pratico notomista. Ed accadde quel giorno, che si andava
ricercando l'origine e nascimento de i nervi, sopra di che è famosa
controversia tra i medici galenisti ed i peripatetici; e mostrando il notomista
come, partendosi dal cervello e passando per la nuca, il grandissimo ceppo de i
nervi si andava poi distendendo per la spinale e diramandosi per tutto il
corpo, e che solo un filo sottilissimo come il refe arrivava al cuore, voltosi
ad un gentil uomo ch'egli conosceva per filosofo peripatetico, e per la
presenza del quale egli aveva con estraordinaria diligenza scoperto e mostrato
il tutto, gli domandò s'ei restava ben pago e sicuro, l'origine de i
nervi venir dal cervello e non dal cuore; al quale il filosofo, doppo essere
stato alquanto sopra di sé, rispose: «Voi mi avete fatto veder questa cosa
talmente aperta e sensata, che quando il testo d'Aristotile non fusse in
contrario, che apertamente dice, i nervi nascer dal cuore, bisognerebbe per
forza confessarla per vera».
SIMP. Signori, io voglio che voi sappiate che
questa disputa dell'origine de i nervi non è miga cosí smaltita e decisa
come forse alcuno si persuade.
SAGR. Né sarà mai al sicuro, come si abbiano
di simili contradittori; ma questo che voi dite non diminuisce punto la
stravaganza della risposta del Peripatetico, il quale contro a cosí sensata
esperienza non produsse altre esperienze o ragioni d'Aristotile, ma la sola
autorità ed il puro ipse dixit.
SIMP. Aristotile non si è acquistata sí
grande autorità se non per la forza delle sue dimostrazioni e della
profondità de i suoi discorsi: ma bisogna intenderlo, e non solamente
intenderlo, ma aver tanta gran pratica ne' suoi libri, che se ne sia formata
un'idea perfettissima, in modo che ogni suo detto vi sia sempre innanzi alla
mente; perché e' non ha scritto per il volgo, né si è obligato a
infilzare i suoi silogismi col metodo triviale ordinato, anzi, servendosi del
perturbato, ha messo talvolta la prova di una proposizione fra testi che par
che trattino di ogni altra cosa: e però bisogna aver tutta quella grande
idea, e saper combinar questo passo con quello, accozzar questo testo con un
altro remotissimo; ch'e' non è dubbio che chi averà questa
pratica, saprà cavar da' suoi libri le dimostrazioni di ogni scibile,
perché in essi è ogni cosa.
SAGR. Ma, signor Simplicio mio, come l'esser le
cose disseminate in qua e in là non vi dà fastidio, e che voi
crediate con l'accozzamento e con la combinazione di varie particelle trarne il
sugo, questo che voi e gli altri filosofi bravi farete con i testi
d'Aristotile, farò io con i versi di Virgilio o di Ovidio, formandone
centoni ed esplicando con quelli tutti gli affari de gli uomini e i segreti
della natura. Ma che dico io di Virgilio o di altro poeta? io ho un libretto
assai piú breve d'Aristotile e d'Ovidio, nel quale si contengono tutte le
scienze, e con pochissimo studio altri se ne può formare una
perfettissima idea: e questo è l'alfabeto; e non è dubbio che
quello che saprà ben accoppiare e ordinare questa e quella vocale con
quelle consonanti o con quell'altre, ne caverà le risposte verissime a
tutti i dubbi e ne trarrà gli insegnamenti di tutte le scienze e di
tutte le arti, in quella maniera appunto che il pittore da i semplici colori
diversi, separatamente posti sopra la tavolozza, va, con l'accozzare un poco di
questo con un poco di quello e di quell'altro, figurando uomini, piante,
fabbriche, uccelli, pesci, ed in somma imitando tutti gli oggetti visibili,
senza che su la tavolozza sieno né occhi né penne né squamme né foglie né
sassi: anzi pure è necessario che nessuna delle cose da imitarsi, o
parte alcuna di quelle, sieno attualmente tra i colori, volendo che con essi si
possano rappresentare tutte le cose; ché se vi fussero, verbigrazia, penne,
queste non servirebbero per dipignere altro che uccelli o pennacchi.
SALV. E' son vivi e sani alcuni gentil uomini che
furon presenti quando un dottor leggente in uno Studio famoso, nel sentir
circoscrivere il telescopio, da sé non ancor veduto, disse che l'invenzione era
presa da Aristotile; e fattosi portare un testo, trovò certo luogo dove
si rende la ragione onde avvenga che dal fondo d'un pozzo molto cupo si possano
di giorno veder le stelle in cielo; e disse a i circostanti: «Eccovi il pozzo,
che denota il cannone; eccovi i vapori grossi, da i quali è tolta
l'invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista nel passare
i raggi per il diafano piú denso e oscuro».
SAGR. Questo è un modo di contener tutti gli
scibili assai simile a quello col quale un marmo contiene in sé una bellissima,
anzi mille bellissime statue; ma il punto sta a saperle scoprire: o vogliam
dire che e' sia simile alle profezie di Giovacchino o a' responsi degli oracoli
de' gentili, che non s'intendono se non doppo gli eventi delle cose
profetizate.
SALV. E dove lasciate voi le predizioni de'
genetliaci, che tanto chiaramente doppo l'esito si veggono nel tema o vogliam
dire nella figura celeste?
SAGR. In questa guisa trovano gli alchimisti,
guidati dall'umor melanconico, tutti i più elevati ingegni del mondo non
aver veramente scritto mai d'altro che del modo di far l'oro, ma, per dirlo
senza palesarlo al volgo, esser andati ghiribizando chi questa e chi
quell'altra maniera di adombrarlo sotto varie coperte: e piacevolissima cosa
è il sentire i comenti loro sopra i poeti antichi, ritrovando i misteri
importantissimi che sotto le favole loro si nascondono, e quello che importino
gli amori della Luna, e 'l suo scendere in Terra per Endimione, l'ira sua
contro Atteone, e quando Giove si converte in pioggia d'oro, e quando in fiamme
ardenti, e quanti gran segreti dell'arte sieno in quel Mercurio interprete, in
quei ratti di Plutone, in quei rami d'oro.
SIMP. Io credo, e in parte so, che non mancano al
mondo de' cervelli molto stravaganti, le vanità de' quali non dovrebbero
ridondare in pregiudizio d'Aristotile, del quale mi par che voi parliate
talvolta con troppo poco rispetto; e la sola antichità, e 'l gran nome
che si è acquistato nelle menti di tanti uomini segnalati, dovrebbe
bastar a renderlo riguardevole appresso di tutti i letterati.
SALV. Il fatto non cammina cosí, signor Simplicio:
sono alcuni suoi seguaci troppo pusillanimi, che danno occasione, o, per dir
meglio, che darebbero occasione, di stimarlo meno, quando noi volessimo
applaudere alle loro leggereze. E voi, ditemi in grazia, sete cosí semplice che
non intendiate che quando Aristotile fusse stato presente a sentir il dottor
che lo voleva far autor del telescopio, si sarebbe molto piú alterato contro di
lui che contro quelli che del dottore e delle sue interpretazioni si ridevano?
Avete voi forse dubbio che quando Aristotile vedesse le novità scoperte
in cielo, e' non fusse per mutar opinione e per emendar i suoi libri e per
accostarsi alle piú sensate dottrine, discacciando da sé quei cosí poveretti di
cervello che troppo pusillanimamente s'inducono a voler sostenere ogni suo
detto, senza intendere che quando Aristotile fusse tale quale essi se lo
figurano, sarebbe un cervello indocile, una mente ostinata, un animo pieno di
barbarie, un voler tirannico, che, reputando tutti gli altri come pecore
stolide, volesse che i suoi decreti fussero anteposti a i sensi, alle
esperienze, alla natura istessa? Sono i suoi seguaci che hanno data
l'autorità ad Aristotile, e non esso che se la sia usurpata o presa; e
perché è piú facile il coprirsi sotto lo scudo d'un altro che 'l
comparire a faccia aperta, temono né si ardiscono d'allontanarsi un sol passo,
e piú tosto che mettere qualche alterazione nel cielo di Aristotile, vogliono
impertinentemente negar quelle che veggono nel cielo della natura.
SAGR. Questi tali mi fanno sovvenire di quello
scultore, che avendo ridotto un gran pezzo di marmo all'immagine non so se d'un
Ercole o di un Giove fulminante, e datogli con mirabile artifizio tanta
vivacità e fierezza che moveva spavento a chiunque lo rimirava, esso
ancora cominciò ad averne paura, se ben tutto lo spirito e la movenza
era opera delle sue mani; e 'l terrore era tale, che piú non si sarebbe ardito
di affrontarlo con le subbie e 'l mazzuolo.
SALV. Io mi son piú volte maravigliato come possa
esser che questi puntuali mantenitori d'ogni detto d'Aristotile non si
accorgano di quanto gran progiudizio e' sieno alla reputazione ed al credito di
quello, e quanto, nel volergli accrescere autorità, gliene detraggano;
perché, mentre io gli veggo ostinati in voler sostener proposizioni le quali io
tocchi con mano esser manifestamente false, ed in volermi persuadere che cosí
far convenga al vero filosofo e che cosí farebbe Aristotile medesimo, molto si
diminuisce in me l'opinione che egli abbia rettamente filosofato intorno ad
altre conclusioni a me piú recondite: ché quando io gli vedessi cedere e mutare
opinione per le verità manifeste, io crederei che in quelle dove e'
persistessero, potessero avere salde dimostrazioni, da me non intese o sentite.
SAGR. O vero, quando gli paresse di metter troppo
della lor reputazione e di quella d'Aristotile nel confessar di non aver saputa
questa o quella conclusione ritrovata da un altro, non sarebb'ei manco male il
ritrovarla tra i suoi testi con l'accozzarne diversi, conforme alla prattica
significataci dal signor Simplicio? perché se vi è ogni scibile,
è ben anco forza che vi si possa ritrovare.
SALV. Signor Sagredo, non vi fate beffe di questo
avvedimento, che mi par che lo proponghiate burlando; perché non è gran
tempo che avendo un filosofo di gran nome composto un libro dell'anima, nel
quale, in riferir l'opinione d'Aristotile circa l'esser o non essere immortale,
adduceva molti testi, non già de i citati da Alessandro, perché in
quelli diceva che Aristotile non trattava né anco di tal materia, non che
determinasse cosa veruna attenente a ciò, ma altri da sé ritrovati in
altri luoghi reconditi, che piegavano al senso pernizioso, e venendo avvisato
che egli avrebbe avute delle difficultà nel farlo licenziare, riscrisse
all'amico che non però restasse di procurarne la spedizione, perché
quando non se gli intraversasse altro ostacolo, non aveva difficultà
niuna circa il mutare la dottrina d'Aristotile, e con altre esposizioni e con
altri testi sostener l'opinion contraria, pur conforme alla mente d'Aristotile.
SAGR. O questo dottor sí, che mi può
comandare, che non si vuol lasciar infinocchiar da Aristotile, ma vuol esso
menar lui per il naso e farlo dire a suo modo! Vedete quanto importa il saper
pigliar il tempo opportuno! Ei non si deve ridurre a negoziar con Ercole mentre
è imbizarrito e su le furie, ma quando sta favoleggiando tra le meonie
ancelle. Ah viltà inaudita d'ingegni servili! farsi spontaneamente
mancipio, accettar per inviolabili decreti, obligarsi a chiamarsi persuaso e
convinto da argomenti che sono tanto efficaci e chiaramente concludenti, che
gli stessi non sanno risolversi s'e' sien pure scritti in quel proposito e se
e' servano per provar quella tal conclusione! Ma dichiamo la pazzia maggiore:
che tra lor medesimi sono ancor dubbi, se l'istesso autore abbia tenuto la
parte affermativa o la negativa. È egli questo un far loro oracolo una
statua di legno, ed a quella correr per i responsi, quella temere, quella
riverire, quella adorare?
SIMP. Ma quando si lasci Aristotile, chi ne ha da
essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore
SALV. Ci è bisogno di scorta ne i paesi
incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno
bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma
chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per
iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi
laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in
preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza
cercarne altra ragione, si debba avere per decreto inviolabile; il che è
un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri
non si applica piú a cercar d'intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual
cosa è piú vergognosa che 'l sentir nelle publiche dispute, mentre si
tratta di conclusioni dimostrabili uscir un di traverso con un testo, e bene
spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca
all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare,
deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché
non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di
filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago
infinito, del quale in tutt'oggi non si uscirebbe. Però, signor
Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di
Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri
hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. E perché
nel discorso di ieri si cavò dalle tenebre e si espose al cielo aperto
la Terra, mostrando che 'l volerla connumerare tra quelli che noi chiamiamo
corpi celesti non era proposizione talmente convinta e prostrata che non gli
restasse qualche spirito vitale, séguita che noi andiamo esaminando quello che
abbia di probabile il tenerla fissa e del tutto immobile, intendendo quanto al
suo intero globo, e quanto possa avere di verisimilitudine il farla mobile di
alcun movimento, e di quale: e perché in tal quistione io sono ambiguo, ed il
signor Simplicio risoluto, insieme con Aristotile, per la parte
dell'immobilità, egli di passo in passo andrà portando i motivi
per la loro opinione, ed io le risposte e gli argomenti per la parte contraria,
ed il signor Sagredo dirà i moti dell'animo suo ed in qual parte e' si
sentirà tirare
SAGR. Io son molto contento, con questo però
che a me ancora resti libertà di produrre quel che mi dettasse talora il
discorso semplice naturale.
SALV. Anzi di cotesto io in particolare ve ne
supplico; perché delle considerazioni piú facili e, per cosí dire, materiali,
credo che poche ne sieno state lasciate indietro da gli scrittori, talché
solamente qualcuna delle piú sottili e recondite può desiderarsi e
mancare; e per investigar queste, qual altra sottigliezza può esser piú
atta di quella dell'ingegno del signor Sagredo, acutissimo e perspicacissimo?
SAGR. Io son tutto quel che piace al signor
Salviati, ma di grazia non mettiam mano in un'altra sorte di diversioni di
cerimonie, perché ora son filosofo, e sono in scuola e non al Broio.
SALV. Sia dunque il principio della nostra
contemplazione il considerare che qualunque moto venga attribuito alla Terra,
è necessario che a noi, come abitatori di quella ed in conseguenza
partecipi del medesimo, ei resti del tutto impercettibile e come s'e' non
fusse, mentre che noi riguardiamo solamente alle cose terrestri; ma è
bene, all'incontro, altrettanto necessario che il medesimo movimento ci si
rappresenti comunissimo di tutti gli altri corpi ed oggetti visibili che,
essendo separati dalla Terra, mancano di quello. A tal che il vero metodo per
investigare se moto alcuno si può attribuire alla Terra, e, potendosi,
quale e' sia, è il considerare ed osservare se ne i corpi separati dalla
Terra si scorge apparenza alcuna di movimento, il quale egualmente competa a
tutti; perché un moto che solamente si scorgesse, verbigrazia, nella Luna, e
che non avesse che far niente con Venere o con Giove né con altre stelle, non
potrebbe in veruna maniera esser della Terra, né di altri che della Luna. Ora,
ci è un moto generalissimo e massimo sopra tutti, ed è quello per
il quale il Sole, la Luna, gli altri pianeti e le stelle fisse, ed in somma
l'universo tutto, trattane la sola Terra, ci appariscono unitamente muoversi da
oriente verso occidente dentro allo spazio di venti quattr'ore, e questo, in
quanto a questa prima apparenza, non ha repugnanza di potere esser tanto della
Terra sola, quanto di tutto il resto del mondo, trattone la Terra; imperocché
le medesime apparenze si vedrebbero tanto nell'una posizione quanto nell'altra.
Quindi è che Aristotile e Tolomeo, come quelli che avevano penetrata
questa considerazione, nel voler provare la Terra esser immobile, non
argumentano contro ad altro movimento che a questo diurno; salvo però
che Aristotile tocca un non so che contro ad un altro moto attribuitogli da un
antico, del quale parleremo a suo luogo.
SAGR. Io resto molto ben capace della
necessità con la quale conclude il vostro discorso, ma mi nasce un
dubbio, del quale non so liberarmi: e questo è, che attribuendo il
Copernico alla Terra un altro movimento oltre al diurno, il quale, per la
regola pur ora dichiarata, dovrebbe restare a noi, quanto all'apparenza,
impercettibile nella Terra, ma visibile in tutto il resto del mondo, parmi di
poter necessariamente concludere, o che egli abbia manifestamente errato
nell'assegnare alla Terra un moto del quale non apparisca in cielo la sua
general corrispondenza, o vero che, se la rispondenza vi è, altrettanto
sia stato manchevole Tolomeo a non reprovar questo, sí come reprovò
l'altro.
SALV. Molto ragionevolmente avete dubitato; e
quando verremo a trattare dell'altro movimento, vedrete di quanto intervallo
abbia il Copernico superato di accortezza e perspicacità d'ingegno Tolomeo,
mentre egli ha veduto quello che esso non vedde, dico la mirabil corrispondenza
con la quale tal movimento si reflette in tutto il resto de i corpi celesti. Ma
per ora sospendiamo questa parte e torniamo alla prima considerazione; intorno
alla quale andrò proponendo, cominciandomi dalle cose piú generali,
quelle ragioni che par che favoriscano la mobilità della Terra, per
sentir poi dal signor Simplicio le repugnanti. E prima, se noi considereremo
solamente la mole immensa della sfera stellata, in comparazione della
piccolezza del globo terrestre, contenuto da quella per tanti milioni di volte,
e piú penseremo alla velocità del moto che deve in un giorno e in una
notte fare una intera conversione, io non mi posso persuadere che trovar si
potesse alcuno che avesse per cosa piú ragionevole e credibile che la sfera
celeste fusse quella che desse la volta, ed il globo terrestre restasse fermo.
SAGR. Se per tutta l'università degli
effetti che possono aver in natura dependenza da movimenti tali, seguissero indifferentemente
tutte le medesime conseguenze a capello tanto dall'una posizione quanto
dall'altra, io, quanto alla mia prima e generale apprensione, stimerei che
colui che reputasse piú ragionevole il far muover tutto l'universo, per ritener
ferma la Terra, fusse piú irragionevole di quello che, sendo salito in cima
della vostra Cupola non per altro che per dare una vista alla città ed
al suo contado, domandasse che se gli facesse girare intorno tutto il paese,
acciò non avesse egli ad aver la fatica di volger la testa: e ben
vorrebbero esser molte e grandi le comodità che si traesser da quella
posizione e non da questa, che pareggiassero nel mio concetto e superasser
questo assurdo, sí che mi rendesser piú credibile quella che questa. Ma forse Aristotile,
Tolomeo e il signor Simplicio ci devono trovare i lor vantaggi, li quali
sarà bene che sien proposti a noi ancora, se vi sono, o mi sia
dichiarato come e' non vi sieno né possano essere.
SALV. Io sí come, per molto che ci abbia pensato,
non ho potuto trovar diversità alcuna, cosí mi par d'aver trovato che
diversità alcuna non vi possa essere; onde io stimo il piú cercarla
esser in vano. Però notate: il moto in tanto è moto, e come moto
opera, in quanto ha relazione a cose che di esso mancano; ma tra le cose che
tutte ne participano egualmente, niente opera ed è come s'e' non fusse:
e cosí le mercanzie delle quali è carica la nave, in tanto si muovono,
in quanto, lasciando Venezia, passano per Corfú, per Candia, per Cipro, e vanno
in Aleppo, li quali Venezia, Corfú, Candia etc. restano, né si muovono con la
nave; ma per le balle, casse ed altri colli, de' quali è carica e
stivata la nave, e rispetto alla nave medesima, il moto da Venezia in Soría
è come nullo, e niente altera la relazione che è tra di loro, e
questo, perché è comune a tutti ed egualmente da tutti è
participato; e quando delle robe che sono in nave una balla si sia discostata
da una cassa un sol dito, questo solo sarà stato per lei movimento
maggiore, in relazione alla cassa, che 'l viaggio di dua mila miglia fatto da
loro di conserva.
SIMP. Questa è dottrina buona, soda e tutta
peripatetica.
SALV. Io l'ho per piú antica; e dubito che
Aristotile, nel pigliarla da qualche buona scuola, non la penetrasse
interamente, e che però, avendola scritta alterata, sia stato causa di
confusione, mediante quelli che voglion sostenere ogni suo detto: e quando egli
scrisse che tutto quel che si muove, si muove sopra qualche cosa immobile,
dubito che equivocasse dal dire che tutto quel che si muove, si muove rispetto
a qualche cosa immobile, la qual proposizione non patisce difficultà
veruna, e l'altra ne ha molte.
SAGR. Di grazia, non rompiamo il filo, e seguite
avanti il discorso incominciato.
SALV. Essendo dunque manifesto che il moto il quale
sia comune a molti mobili, è ozioso e come nullo in quanto alla
relazione di essi mobili tra di loro, poiché tra di essi niente si muta, e
solamente è operativo nella relazione che hanno essi mobili con altri
che manchino di quel moto, tra i quali si muta abitudine; ed avendo noi diviso
l'universo in due parti, una delle quali è necessariamente mobile, e
l'altra immobile; per tutto quello che possa depender da cotal movimento, tanto
è far muover la Terra sola quanto tutto 'l resto del mondo, poiché
l'operazione di tal moto non è in altro che nella relazione che cade tra
i corpi celesti e la Terra, la qual sola relazione è quella che si muta.
Ora, se per conseguire il medesimo effetto ad unguem tanto fa se la sola
Terra si muova, cessando tutto il resto dell'universo, che se, restando ferma
la Terra sola, tutto l'universo si muova di un istesso moto, chi vorrà
credere che la natura (che pur, per comun consenso, non opera con l'intervento
di molte cose quel che si può fare col mezo di poche) abbia eletto di far
muovere un numero immenso di corpi vastissimi, e con una velocità
inestimabile, per conseguir quello che col movimento mediocre di un solo
intorno al suo proprio centro poteva ottenersi?
SIMP. Io non bene intendo come questo grandissimo
moto sia come nullo per il Sole, per la Luna, per gli altri pianeti e per
l'innumerabile schiera delle stelle fisse. E come direte voi esser nulla il
passare il Sole da un meridiano all'altro, alzarsi sopra questo orizonte,
abbassarsi sotto quello, arrecare ora il giorno ora la notte, simili variazioni
far la Luna e gli altri pianeti e le stelle fisse ancora?
SALV. Tutte coteste variazioni raccontate da voi
non son nulla, se non in relazion alla Terra. E che ciò sia vero,
rimovete con l'immaginazione la Terra: non resta piú al mondo né nascere né
tramontar di Sole o di Luna, né orizonti né meridiani, né giorni né notti, né
in somma per tal movimento nasce mai mutazione alcuna tra la Luna e 'l Sole o
altre qualsivoglino stelle, sian fisse o erranti; ma tutte le mutazioni hanno
relazione alla Terra; le quali tutte in somma non importano poi altro che 'l
mostrare il Sole ora alla Cina, poi alla Persia, dopo all'Egitto, alla Grecia,
alla Francia, alla Spagna, all'America etc., e far l'istesso della Luna e del
resto de i corpi celesti, la qual fattura segue puntualmente nel modo medesimo
se, senza imbrigar sí gran parte dell'universo, si faccia rigirare in se stesso
il globo terrestre. Ma raddoppiamo la difficoltà con un'altra
grandissima: la quale è, che quando si attribuisca questo gran moto al cielo,
bisogna di necessità farlo contrario a i moti particolari di tutti gli
orbi de i pianeti, de i quali ciascheduno senza controversia ha il movimento
suo proprio da occidente verso oriente, e questo assai piacevole e moderato, e
convien poi fargli rapire in contrario, cioè da oriente in occidente, da
questo rapidissimo moto diurno; dove che, facendosi muover la Terra in se
stessa, si leva la contrarietà de' moti, ed il solo movimento da
occidente in oriente si accomoda a tutte le apparenze e sodisfà a tutte
compiutamente.
SIMP. Quanto alla contrarietà de i moti,
importerebbe poco, perché Aristotile dimostra che i moti circolari non son
contrarii fra di loro, e che la loro non si può chiamar vera
contrarietà.
SALV. Lo dimostra Aristotile, o pur lo dice
solamente perché cosí compliva a certo suo disegno? Se contrarii son quelli,
come egli stesso afferma, che scambievolmente si destruggono, io non so vedere
come due mobili che s'incontrino sopra una linea circolare, si abbiano a
offender meno che incontrandosi sopra una linea retta.
SAGR. Di grazia, fermate un poco. Ditemi, signor
Simplicio, quando due cavalieri si incontrano giostrando a campo aperto, o pure
quando due squadre intere o due armate in mare si vanno ad investire e si
rompono e si sommergono, chiameresti voi cotali incontri contrarii tra di loro?
SIMP. Diciamoli contrarii.
SAGR. Come dunque ne i moti circolari non è
contrarietà? Questi, essendo fatti sopra la superficie della terra o
dell'acqua, che sono, come voi sapete, sferiche, vengono ad esser circolari.
Sapete voi, signor Simplicio, quali sono i moti circolari che non son tra loro
contrarii? son quelli di due cerchi che si toccano per di fuora, che, girandone
uno, fa naturalmente muover l'altro diversamente; ma se uno sarà dentro
all'altro, è impossibil che i moti loro fatti in diverse parti non si
contrastino l'un l'altro.
SALV. Ma contrarii o non contrarii, queste sono
altercazioni di parole; ed io so che in fatti molto piú semplice e natural cosa
è il poter salvare il tutto con un movimento solo, che l'introdurne due,
se non volete chiamarli contrarii, ditegli opposti: né io vi porgo questa
introduzione per impossibile, né pretendo di trar da essa una dimostrazione
necessaria, ma solo una maggior probabilità. Si rinterza l'inverisimile
col disordinare sproporzionatissimamente l'ordine che noi veggiamo sicuramente
esser tra quei corpi celesti la circolazion de' quali non è dubbia, ma
certissima. E l'ordine è, che secondo che un orbe è maggiore,
finisce il suo rivolgimento in tempo piú lungo, ed i minori in piú breve: e
cosí Saturno, descrivendo un cerchio maggior di tutti gli altri pianeti, lo
complisce in trent'anni; Giove si rivolge nel suo minore in anni dodici, Marte
in dua; la Luna passa il suo, tanto piú piccolo, in un sol mese; e non men
sensibilmente vediamo, delle Stelle Medicee la piú vicina a Giove far il suo
rivolgimento in brevissimo tempo, cioè in ore quarantadua in circa, la
seguente in tre giorni e mezo, la terza in giorni sette, e la piú remota in
sedici: e questo tenore assai concorde non punto verrà alterato mentre
si faccia che il movimento delle ventiquattr'ore sia del globo terrestre in se
stesso; che, quando si voglia ritener la Terra immobile, è necessario,
dopo l'esser passati dal periodo brevissimo della Luna a gli altri
conseguentemente maggiori, fino a quel di Marte in due anni, e di lí a quel
della maggiore sfera di Giove in anni dodici, e da questa all'altra maggiore di
Saturno, il cui periodo è di trent'anni, è necessario, dico,
trapassare ad un'altra sfera incomparabilmente maggiore, e farla finire
un'intera revoluzione in vintiquattr'ore. E questo poi è il minimo
disordinamento che si possa introdurre; perché se altri volesse dalla sfera di
Saturno passare alla stellata, e farla tanto piú grande di quella di Saturno,
quanto a proporzione converrebbe rispetto al suo movimento tardissimo di molte
migliaia d'anni, bisognerebbe con molto piú sproporzionato salto trapassar da
questa ad un'altra maggiore, e farla convertibile in ventiquattr'ore. Ma
dandosi la mobilità alla Terra, l'ordine de' periodi vien benissimo
osservato, e dalla sfera pigrissima di Saturno si trapassa alle stelle fisse,
del tutto immobili, e viensi a sfuggire una quarta difficoltà, la qual
bisogna necessariamente ammettere quando la sfera stellata si faccia mobile; e
questa è la disparità immensa tra i moti di esse stelle, delle
quali altre verranno a muoversi velocissimamente in cerchi vastissimi, altre
lentissimamente in cerchi piccolissimi, secondo che queste e quelle si
troveranno piú o meno vicine a i poli; che pure ha dell'inconveniente, sí
perché noi veggiamo quelle, del moto delle quali non si dubita, muoversi tutte
in cerchi massimi, sí ancora perché pare con non buona determinazione fatto il
constituir corpi, che s'abbiano a muover circolarmente, in distanze immense dal
centro, e fargli poi muovere in cerchi piccolissimi. E non pure le grandezze de
i cerchi ed in conseguenza le velocità de i moti di queste stelle
saranno diversissimi da i cerchi e moti di quell'altre, ma le medesime stelle
andranno variando suoi cerchi e sue velocità (e sarà il quinto
inconveniente), avvengaché quelle che due mil'anni fa erano nell'equinoziale,
ed in conseguenza descrivevano col moto cerchi massimi, trovandosene a i tempi
nostri lontane per molti gradi, bisogna che siano fatte piú tarde di moto e
ridottesi a muoversi in minori cerchi; e non è lontano dal poter accader
che venga tempo nel quale alcuna di loro, che per l'addietro si sia mossa
sempre, si riduca, congiugnendosi col polo, a star ferma, e poi ancora, dopo la
quiete di qualche tempo, torni a muoversi: dove che l'altre stelle, che si
muovono sicuramente, tutte descrivono, come si è detto, il cerchio
massimo dell'orbe loro, ed in quello immutabilmente si mantengono. Accresce
l'inverisimile (e sia il sesto inconveniente), a chi piú saldamente discorre,
l'essere inescogitabile qual deva esser la solidità di quella vastissima
sfera, nella cui profondità sieno cosí tenacemente saldate tante stelle,
che senza punto variar sito tra loro, concordemente vengono con sí gran
disparità di moti portate in volta: o se pure il cielo è fluido,
come assai piú ragionevolmente convien credere, sí che ogni stella per se
stessa per quello vadia vagando, qual legge regolerà i moti loro ed a
che fine, per far che, rimirati dalla Terra, appariscano come fatti da una sola
sfera? A me pare che per conseguir ciò, sia tanto piú agevole ed
accomodata maniera il costituirle immobili che 'l farle vaganti, quanto piú
facilmente si tengono a segno molte pietre murate in una piazza, che le schiere
de' fanciulli che sopra vi corrono. E finalmente, per la settima instanza, se
noi attribuiamo la conversion diurna al cielo altissimo, bisogna farla di tanta
forza e virtú, che seco porti l'innumerabil moltitudine delle stelle fisse,
corpi tutti vastissimi e maggiori assai della Terra, e di piú tutte le sfere de
i pianeti, ancorché e questi e quelle per lor natura si muovano in contrario;
ed oltre a questo è forza concedere che anco l'elemento del fuoco e la maggior
parte dell'aria siano parimente rapiti, e che il solo piccol globo della Terra
resti contumace e renitente a tanta virtú: cosa che a me pare che abbia molto
del difficile, né saprei intender come la Terra, corpo pensile e librato sopra
'l suo centro, indifferente al moto ed alla quiete, posto e circondato da un
ambiente liquido, non dovesse cedere ella ancora ed esser portata in volta. Ma
tali intoppi non troviamo noi nel far muover la Terra, corpo minimo ed
insensibile in comparazione dell'universo, e perciò inabile al fargli
violenza alcuna.
SAGR. Io mi sento raggirar per la fantasia alcuni
concetti, cosí in confuso destatimi da i discorsi fatti; che s'io voglio
potermi con attenzione applicar alle cose da dirsi, è forza ch'io vegga
se mi succedesse meglio ordinargli e trarne quel costrutto che vi è, se
però ve ne sarà alcuno: e per avventura il procedere per
interrogazioni mi aiuterà a piú agevolmente spiegarmi. Però
domando al signor Simplicio, prima, se e' crede che al medesimo corpo semplice
mobile possano naturalmente competere diversi movimenti, o pure che un solo
convenga, che sia il suo proprio e naturale.
SIMP. D'un mobile semplice un solo, e non piú,
può essere il moto che gli convenga naturalmente, e gli altri tutti per
accidente e per participazione; in quel modo che a colui che passeggia per la
nave, suo moto proprio è quello del passeggio, e per participazione
quello che lo conduce in porto, dove egli mai col passeggio non sarebbe
arrivato, se la nave col moto suo non ve l'avesse condotto.
SAGR. Ditemi, secondariamente: quel movimento che
per participazione vien comunicato a qualche mobile, mentre egli per se stesso
si muove di altro moto diverso dal participato, è egli necessario che
risegga in qualche suggetto per se stesso, o pur può esser anco in
natura senz'altro appoggio?
SIMP. Aristotile vi risponde a tutte queste
domande, e vi dice che sí come d'un mobile uno è il moto, cosí di un
moto uno è il mobile, ed in conseguenza che senza l'inerenza del suo
suggetto non può né essere né anco immaginarsi alcun movimento.
SAGR. Io vorrei che voi mi diceste, nel terzo
luogo, se voi credete che la Luna e gli altri pianeti e corpi celesti abbiano
lor movimenti proprii, e quali e' siano.
SIMP. Hannogli, e son quelli secondo i quali e'
vanno scorrendo il zodiaco: la Luna in un mese, il Sole in un anno, Marte in
dua, la sfera stellata in quelle tante migliaia; e questi sono i moti loro
proprii e naturali.
SAGR. Ma quel moto col quale io veggo le stelle
fisse, e con esse tutti i pianeti, andare unitamente da levante a ponente e
ritornare in oriente in ventiquattr'ore, in che modo gli compete?
SIMP. Hannolo per participazione.
SAGR. Questo dunque non risiede in loro; e non
risedendo in loro, né potendo esser senza qualche suggetto nel quale e'
risegga, è forza farlo proprio e naturale di qualche altra sfera.
SIMP. Per questo rispetto hanno ritrovata gli
astronomi ed i filosofi un'altra sfera altissima senza stelle, alla quale
naturalmente compete la conversion diurna, e questa hanno chiamata il primo mobile,
il quale poi rapisce seco tutte le sfere inferiori, contribuendo e participando
loro il movimento suo.
SAGR. Ma quando, senza introdurr'altre sfere
incognite e vastissime, senza altri movimenti o rapimenti participati, col
lasciare a ciascheduna sfera il suo solo e semplice movimento, senza mescolar
movimenti contrarii, ma fargli tutti per il medesimo verso, come è
necessario ch'e' sieno dependendo tutti da un sol principio, tutte le cose
caminano e rispondono con perfettissima armonia, perché rifiutar questo
partito, e dar assenso a quelle cosí strane e laboriose condizioni?
SIMP. Il punto sta in trovar questo modo cosí
semplice e spedito.
SAGR. Il modo mi par bell'e trovato. Fate che la
Terra sia il primo mobile, cioè fatela rivolgere in se stessa in ventiquattr'ore
e per il medesimo verso che tutte le altre sfere, che senza participar tal moto
a nessun altro pianeta o stelle, tutte avranno i lor orti, occasi ed in somma
tutte l'altre apparenze.
SIMP. L'importanza è il poterla muovere
senza mille inconvenienti.
SALV. Tutti gli inconvenienti si torranno via
secondo che voi gli andrete proponendo: e le cose dette sin qui sono solamente
i primi e piú generali motivi per i quali par che si renda non del tutto
improbabile che la diurna conversione sia piú tosto della Terra che di tutto 'l
resto dell'universo; li quali io non vi porto come leggi infrangibili, ma come
motivi che abbiano qualche apparenza. E perché benissimo intendo che una sola
esperienza o concludente dimostrazione che si avesse in contrario, basta a
battere in terra questi ed altri centomila argomenti probabili, però non
bisogna fermarsi qui, ma procedere avanti e sentire quel che risponde il signor
Simplicio, e quali migliori probabilità o piú ferme ragioni egli adduce
in contrario.
SIMP. Io dirò prima alcuna cosa in generale
sopra tutte queste considerazioni insieme, poi verrò a qualche
particolare. Parmi che universalmente voi vi fondiate su la maggior
semplicità e facilità di produrre i medesimi effetti, mentre
stimate che quanto al causargli tanto sia il muover la Terra sola quanto tutto
'l resto del mondo, trattone la Terra, ma quanto all'operazione voi reputate
molto piú facile quella che questa. Al che io vi rispondo che a me ancora par
l'istesso, mentre io riguardo alla forza mia, non pur finita, ma debolissima;
ma rispetto alla virtú del Motore, che è infinita, non è meno
agevole il muover l'universo, che la Terra e che una paglia. E se la virtú
è infinita, perché non se ne deve egli esercitare piú tosto una gran parte
che una minima? Per tanto parmi che il discorso in generale non sia efficace.
SALV. Se io avessi mai detto che l'universo non si
muove per mancamento di virtú del Motore, io avrei errato, e la vostra
correzzione sarebbe oportuna; e vi concedo che a una potenza infinita tanto
è facile il muover centomila, quanto uno. Ma quello che ho detto io non
ha riguardo al Motore, ma solamente a i mobili, ed in essi non solo alla loro
resistenza, la quale non è dubbio esser minore nella Terra che
nell'universo, ma a i molti altri particolari pur ora considerati. Al dir poi
che d'una virtú infinita sia meglio esercitarne una gran parte che una minima,
vi rispondo che dell'infinito una parte non è maggior dell'altra, quando
amendue sien finite; né si può dire che del numero infinito il centomila
sia parte maggiore che 'l due, se ben quello è cinquantamila volte
maggior di questo; e quando per muover l'universo ci voglia una virtú finita,
benché grandissima in comparazione di quella che basterebbe per muover la Terra
sola, non però se n'impiegherebbe maggior parte dell'infinita, né minore
sarebbe che infinita quella che resterebbe oziosa; talché l'applicar per un
effetto particolare un poco piú o un poco meno virtú non importa niente: oltre
che l'operazione di tal virtú non ha per termine e fine il solo movimento
diurno, ma sono al mondo altri movimenti assai che noi sappiamo, e molti altri
piú ve ne posson essere incogniti a noi. Avendo dunque riguardo a i mobili, e
non si dubitando che operazione piú breve e spedita è il muover la Terra
che l'universo, e di piú avendo l'occhio alle tante altre abbreviazioni ed
agevolezze che con questo solo si conseguiscono, un verissimo assioma
d'Aristotile che c'insegna che frustra fit per plura quod potest fieri per
pauciora ci rende piú probabile, il moto diurno esser della Terra sola, che
dell'universo, trattone la Terra.
SIMP. Voi nel referir l'assioma avete lasciato una
clausola che importa il tutto, e massime nel presente proposito. La particola
lasciata è un æque bene; bisogna dunque esaminare se si possa
egualmente bene sodisfare al tutto con questo e con quello assunto.
SALV. Il vedere se l'una e l'altra posizione
sodisfaccia egualmente bene, si comprenderà da gli esami particolari
dell'apparenze alle quali si ha da sodisfare, perché sin ora si è discorso,
e si discorrerà, ex hypothesi, supponendo che quanto al sodisfare
all'apparenze amendue le posizioni sieno egualmente accomodate. La particola
poi, che voi dite essere stata lasciata da me, ho piú tosto sospetto che sia
superfluamente aggiunta da voi: perché il dire «egualmente bene» è una
relazione, la quale necessariamente ricerca due termini almeno, non potendo una
cosa aver relazione a se stessa, e dirsi, verbigrazia, la quiete esser
egualmente buona come la quiete; e perché quando si dice «invano si fa con piú
mezi quello che si può fare con manco mezi», s'intende che quel che si
ha da fare deva esser la medesima cosa, e non due cose differenti, e perché la
medesima cosa non può dirsi egualmente ben fatta come se medesima,
adunque l'aggiunta della particola «egualmente bene» è superflua ed una
relazione che ha un termine solo.
SAGR. Se noi non vogliamo che ci intervenga come
ieri, ritornisi, di grazia, nella materia, ed il signor Simplicio cominci a
produr quelle difficultà che gli paiono contrarianti a questa nuova
disposizione del mondo.
SIMP. La disposizione non è nuova, anzi
antichissima, e che ciò sia vero, Aristotile la confuta, e le sue
confutazioni son queste. «Prima, se la Terra si movesse o in se stessa, stando
nel centro, o in cerchio, essendo fuor del centro, è necessario che
violentemente ella si movesse di tal moto, imperò che e' non è
suo naturale; ché s'e' fusse suo, l'avrebbe ancora ogni sua particella; ma
ognuna di loro si muove per linea retta al centro: essendo dunque violento e preternaturale,
non potrebbe essere sempiterno: ma l'ordine del mondo è sempiterno:
adunque etc. Secondariamente, tutti gli altri mobili di moto circolare par che
restino indietro e si muovano di piú di un moto, trattone però il primo
mobile: per lo che sarebbe necessario che la Terra ancora si movesse di due
moti; e quando ciò fosse, bisognerebbe di necessità che si
facessero mutazioni nelle stelle fisse: il che non si vede, anzi senza
variazione alcuna le medesime stelle nascono sempre da i medesimi luoghi, e ne
i medesimi tramontano. Terzo, il moto delle parti e del tutto è
naturalmente al centro dell'universo, e per questo ancora in esso si sta. Muove
poi la dubitazione se il moto delle parti è per andare naturalmente al
centro dell'universo, o pure al centro della Terra; e conclude, esser suo
instinto proprio di andare al centro dell'universo, e per accidente al centro
della Terra: del qual dubbio si discorse ieri a lungo. Conferma finalmente
l'istesso col quarto argomento preso dall'esperienza de' gravi, li quali,
cadendo da alto a baso, vengono a perpendicolo sopra la superficie della Terra;
e medesimamente i proietti tirati a perpendicolo in alto, a perpendicolo per le
medesime linee ritornano a basso, quanto bene fussero stati tirati in immensa
altezza: argomenti necessariamente concludenti, il moto loro esser al centro
della Terra, che senza punto muoversi gli aspetta e riceve. Accenna poi in
ultimo, esser da gli astronomi prodotte altre ragioni in confermazione
dell'istesse conclusioni, dico dell'esser la Terra nel centro dell'universo ed
immobile; ed una sola ne produce, che è il risponder tutte le apparenze,
che si veggono ne' movimenti delle stelle, alla posizione di essa Terra nel
centro, la qual rispondenza non avrebbe quando ella non vi fusse». Le altre,
prodotte da Tolomeo e da altri astronomi, le potrò arrecare ora, se cosí
vi piace, o dopo che arete detto quanto vi occorre in risposta di queste di
Aristotile.
SALV. Gli argumenti che si producono in questa
materia, son di due generi: altri hanno riguardo a gli accidenti terrestri,
senza relazione alcuna alle stelle, ed altri si cavano dalle apparenze ed
osservazioni delle cose celesti. Gli argomenti d'Aristotile son per lo piú
cavati dalle cose intorno a noi, e lascia gli altri alli astronomi; però
sarà bene, se cosí vi pare, esaminar questi presi dalle esperienze di
Terra, e poi verremo all'altro genere. E perché da Tolomeo, da Ticone e da
altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d'Aristotile, presi,
confermati e fortificati da loro, ne son prodotti de gli altri, si potranno
unir tutti insieme, per non aver poi a replicar le medesime o simili risposte
due volte. Però, signor Simplicio, o vogliate referirgli voi, o vogliate
ch'io vi levi questa briga, son per compiacervi.
SIMP. Sarà meglio che voi gli portiate, che,
per averci fatto maggiore studio, gli arete piú in pronto, ed anco in maggior
numero.
SALV. Per la piú gagliarda ragione si produce da
tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso vengono per una
linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato
irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la
conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse
cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che 'l
sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso
oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla
radice della torre. Il quale effetto confermano con un'altra esperienza,
cioè col lasciar cadere una palla di piombo dalla cima dell'albero di
una nave che stia ferma, notando il segno dove ella batte, che è vicino
al piè dell'albero; ma se dal medesimo luogo si lascerà cadere la
medesima palla quando la nave cammini, la sua percossa sarà lontana
dall'altra per tanto spazio quanto la nave sarà scorsa innanzi nel tempo
della caduta del piombo, e questo non per altro se non perché il movimento
naturale della palla posta in sua libertà è per linea retta verso
'l centro della Terra. Fortificasi tal argomento con l'esperienza d'un proietto
tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla cacciata da una
artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l'orizonte, la quale nella salita e
nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l'artiglieria e noi
insieme saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la
palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo, ma tanto lontana
verso occidente quanto la Terra fosse scorsa avanti. Aggiungono di piú la terza
e molto efficace esperienza, che è: tirandosi con una colubrina una
palla di volata verso levante, e poi un'altra con egual carica ed alla medesima
elevazione verso ponente, il tiro verso ponente riuscirebbe estremamente
maggiore dell'altro verso levante; imperocché mentre la palla va verso
occidente, e l'artiglieria, portata dalla Terra, verso oriente, la palla
verrebbe a percuotere in terra lontana dall'artiglieria tanto spazio quanto
è l'aggregato de' due viaggi, uno fatto da sé verso occidente, e l'altro
dal pezzo, portato dalla Terra, verso levante; e per l'opposito, del viaggio
fatto dalla palla tirata verso levante bisognerebbe detrarne quello che avesse
fatto l'artiglieria seguendola: posto dunque, per esempio, che 'l viaggio della
palla per se stesso fosse cinque miglia, e che la Terra in quel tal parallelo
nel tempo della volata della palla scorresse tre miglia, nel tiro di ponente la
palla cadrebbe in terra otto miglia lontana dal pezzo, cioè le sue
cinque verso ponente e le tre del pezzo verso levante; ma il tiro d'oriente non
riuscirebbe piú lungo di due miglia, ché tanto resta detratto dalle cinque del
tiro le tre del moto del pezzo verso la medesima parte: ma l'esperienza mostra
i tiri essere eguali; adunque l'artiglieria sta immobile, e per conseguenza la
Terra ancora. Ma non meno di questi, i tiri altresí verso mezo giorno o verso
tramontana confermano la stabilità della Terra: imperocché mai non si
correbbe nel segno che altri avesse tolto di mira, ma sempre sarebbero i tiri costieri
verso ponente, per lo scorrere che farebbe il bersaglio, portato dalla Terra,
verso levante, mentre la palla è per aria. E non solo i tiri per le
linee meridiane, ma né anco i fatti verso oriente o verso occidente
riuscirebber giusti, ma gli orientali riuscirebbero alti, e gli occidentali
bassi, tuttavolta che si tirasse di punto in bianco; perché sendo il viaggio
della palla in amendue i tiri fatto per la tangente, cioè per una linea
parallela all'orizonte, ed essendo che al moto diurno, quando sia della Terra,
l'orizonte si va sempre abbassando verso levante ed alzandosi da ponente (che
però ci appariscono le stelle orientali alzarsi, e le occidentali
abbassarsi), adunque il bersaglio orientale s'andrebbe abbassando sotto il
tiro, onde il tiro riuscirebbe alto, e l'alzamento del bersaglio occidentale
renderebbe basso il tiro verso occidente. Talché mai non si potrebbe verso
nissuna parte tirar giusto: e perché l'esperienza è in contrario,
è forza dire che la Terra sta immobile.
SIMP. Oh queste son ben ragioni, alle quali
è impossibile trovar risposta che vaglia.
SALV. Vi giungono forse nuove?
SIMP. Veramente sí. Ed ora veggo con quante belle
esperienze la natura ci è voluta esser cortese per aiutarci a venire in
cognizione del vero. Oh come bene una verità si accorda con l'altra, e
tutte conspirano al rendersi inespugnabili!
SAGR. Che peccato che l'artiglierie non fussero al
tempo di Aristotile! Avrebbe ben egli con esse espugnata l'ignoranza, e parlato
senza punto titubare delle cose del mondo.
SALV. Ho avuto molto caro che queste ragioni vi
sien giunte nuove, acciò che voi non restiate nell'opinione della
maggior parte de i Peripatetici, che credono che se alcuno si parte dalla
dottrina d'Aristotile, ciò avvenga da non avere intese né penetrate ben le
sue dimostrazioni. Ma voi sentirete sicuramente dell'altre novità, e
sentirete da questi seguaci del nuovo sistema produr contro a se stessi
osservazioni, esperienze e ragioni di forza assai maggiore che le prodotte da
Aristotile e Tolomeo o da altri oppugnatori delle medesime conclusioni, e cosí
verrete a certificarvi che non per ignoranza o inesperienza si sono indotti a
seguir tale opinione.
SAGR. Egli è forza che con questa occasione
io vi racconti alcuni accidenti occorsimi da poi in qua ch'io cominciai a
sentir parlare di questa opinione. Essendo assai giovanetto, che appena avevo
finito il corso della filosofia, tralasciato poi per essermi applicato ad altre
occupazioni, occorse che certo oltramontano di Rostochio, e credo che 'l suo
nome fosse Cristiano Vurstisio, seguace dell'opinione del Copernico,
capitò in queste bande, ed in una Accademia fece dua o ver tre lezzioni
in questa materia, con concorso di uditori, e credo piú per la novità
del suggetto che per altro: io però non v'intervenni, avendo fatta una
fissa impressione che tale opinione non potesse essere altro che una solenne
pazzia. Interrogati poi alcuni che vi erano stati, sentii tutti burlarsene,
eccettuatone uno che mi disse che 'l negozio non era ridicolo del tutto; e
perché questo era reputato da me per uomo intelligente assai e molto
circospetto, pentitomi di non vi essere andato, cominciai da quel tempo in qua,
secondo che m'incontravo in alcuno che tenesse l'opinione Copernicana, a
domandarlo se egli era stato sempre dell'istesso parere; né per molti ch'io
n'abbia interrogati, ho trovato pur un solo che non m'abbia detto d'essere
stato lungo tempo dell'opinion contraria, ma esser passato in questa mosso
dalla forza delle ragioni che la persuadono: esaminatigli poi ad uno ad uno, per
veder quanto bene e' possedesser le ragioni dell'altra parte, gli ho trovati
tutti averle prontissime, tal che non ho potuto veramente dire che per
ignoranza o per vanità o per far, come si dice, il bello spirito si
sieno gettati in questa opinione. All'incontro, di quanti io abbia interrogati
de i Peripatetici e Tolemaici (che per curiosità ne ho interrogati
molti), quale studio abbiano fatto nel libro del Copernico, ho trovato
pochissimi che appena l'abbiano veduto, ma di quelli ch'io creda che l'abbiano
inteso, nessuno: e de i seguaci pur della dottrina peripatetica ho cercato
d'intendere se mai alcuno di loro ha tenuto l'altra opinione, e parimente non
ne ho trovato alcuno. Là onde, considerando io come nessun è che
segua l'opinion del Copernico, che non sia stato prima della contraria e che
non sia benissimo informato delle ragioni di Aristotile e di Tolomeo, e che
all'incontro nissuno è de' seguaci di Tolomeo e d'Aristotile, che sia
stato per addietro dell'opinione del Copernico e quella abbia lasciata per
venire in quella d'Aristotile, considerando, dico, queste cose, cominciai a
credere che uno che lascia un'opinione imbevuta col latte e seguita da
infiniti, per venire in un'altra da pochissimi seguita, e negata da tutte le
scuole e che veramente sembra un paradosso grandissimo, bisognasse per
necessità che fusse mosso, per non dir forzato, da ragioni piú efficaci.
Per questo son io divenuto curiosissimo di toccar, come si dice, il fondo di
questo negozio, e reputo a mia gran ventura l'incontro di amendue voi, da i
quali io possa senza veruna fatica sentir tutto quel ch'è stato detto, e
forse che si può dire, in questa materia, sicuro di dover esser, in
virtú de' vostri ragionamenti, cavato di dubbio e posto in istato di certezza.
SIMP. Ma purché l'opinione e la speranza non vi
vadia fallita, e che in ultimo non vi troviate piú confuso che prima.
SAGR. Mi par d'esser sicuro che cotesto non possa
intervenire in veruna maniera.
SIMP. E perché no? Io son buon testimonio a me
medesimo, che quanto piú si va avanti, piú mi confondo.
SAGR. Cotesto è indizio che quelle ragioni
che sin qui vi erano parse concludenti, e vi tenevano sicuro della
verità della vostra opinione, cominciano a mutare aspetto nella vostra
mente ed a lasciarvi pian piano, se non passare, almeno inclinare verso la
contraria. Ma io, che sono, e sono stato sin ora, indifferente, confido
grandemente d'avermi a ridurre in quiete e in sicurezza; e voi stesso non me lo
negherete, se volete sentir qual cosa mi persuada a cosí sperare.
SIMP. La sentirò volentieri, e non men grato
mi sarebbe che in me operasse il medesimo effetto.
SAGR. Favoritemi dunque di rispondere alle mie
interrogazioni. E prima, ditemi, signor Simplicio: non è la conclusione
della quale noi cerchiamo la cognizione, se si deva tener, con Aristotile e
Tolomeo, che stando ferma la Terra sola nel centro dell'universo, i corpi
celesti si muovano tutti; o pur se, stando ferma la sfera stellata ed il Sole
nel centro, la Terra ne sia fuori, e siano suoi quei movimenti che ci
appariscono esser del Sole e delle stelle fisse?
SIMP. Queste son le conclusioni delle quali si
disputa.
SAGR. Queste due conclusioni non son ellen tali,
che per necessità bisogna che una sia vera e l'altra falsa?
SIMP. Cosí è: noi siamo in un dilemma, una
parte del quale bisogna per necessità che sia vera, e l'altra falsa;
perché tra 'l moto e la quiete, che son contradittorii, non si dà un
terzo, sí che si possa dire: «La Terra non si muove, e non sta ferma; il Sole e
le stelle non si muovono, né stanno ferme».
SAGR. La Terra, il Sole e le stelle che cosa sono
in natura? son cose minime, o pur considerabili?
SIMP. Son corpi principalissimi, nobilissimi,
integranti dell'universo, vastissimi, considerabilissimi.
SAGR. E 'l moto e la quiete quali accidenti sono in
natura?
SIMP. Tanto grandi e principali, che la natura
stessa per quelli si definisce.
SAGR. Talché il muoversi eternamente e l'esser del
tutto immobile sono due condizioni molto considerabili in natura ed indicanti
grandissima diversità, e massime attribuite a corpi principalissimi
dell'universo, in conseguenza delle quali non posson venire se non eventi
dissimilissimi.
SIMP. Cosí è sicuramente.
SAGR. Or rispondetemi ad un altro punto. Credete
voi che in dialettica, in rettorica, in fisica, in metafisica, in matematica, e
finalmente nell'università de' discorsi, sieno argomenti potenti a
persuadere e dimostrare altrui non meno le conclusioni false che le vere?
SIMP. Signor no; anzi tengo per fermo e son sicuro
che per la prova di una conclusion vera e necessaria sieno in natura non solo
una ma molte dimostrazioni potissime, e che intorno ad essa si possa discorrere
e rigirarsi con mille e mille riscontri, senza intoppar mai in veruna
repugnanza, e che quanto piú qualche sofista volesse intorbidarla, tanto piú
chiara si farebbe sempre la sua certezza; e che, all'opposito, per far apparir
vera una proposizion falsa e per persuaderla non si possa produrre altro che
fallacie, sofismi, paralogismi, equivocazioni e discorsi vani, inconsistenti e
pieni di repugnanze e contradizioni.
SAGR. Ora, se il moto eterno e la quiete eterna
sono accidenti tanto principali in natura, e tanto diversi che da essi non
posson dependere se non diversissime conseguenze, e massime applicati al Sole
ed alla Terra, corpi tanto vasti ed insigni nell'universo, ed essendo di piú
impossibile che l'una delle due proposizioni contradittorie non sia vera e
l'altra falsa, e non si potendo per prove della falsa produrr'altro che
fallacie, ed essendo la vera persuasibile per ogni genere di ragioni concludenti
e demostrative; come volete che quello di voi che si sarà appreso a
sostener la proposizion vera non mi abbia a persuadere? Bisognerebbe bene ch'io
fussi d'ingegno stupido, di giudizio stravolto, e stolido di mente e
d'intelletto, e cieco di discorso, ch'io non avessi a discernere la luce dalle
tenebre, le gemme da i carboni, il vero dal falso.
SIMP. Io vi dico, e vi ho detto altre volte, che il
maggior maestro per insegnare a conoscere i sofismi e paralogismi ed altre
fallacie è stato Aristotile, il quale in questa parte non si può
mai esser ingannato.
SAGR. Voi l'avete pur con Aristotile, che non
può parlare; ed io vi dico che se Aristotile fosse qui, e' rimarrebbe da
noi persuaso, o sciorrebbe le nostre ragioni e con altre migliori persuaderebbe
noi. Ma che? voi medesimo nel sentir recitar l'esperienze dell'artiglierie, non
l'avete voi conosciute ed ammirate e confessate piú concludenti di quelle
d'Aristotile? con tutto ciò non sento che 'l signor Salviati, il quale
le ha prodotte e sicuramente esaminate e scandagliate puntualissimamente,
confessi d'esser persuaso da quelle, né meno da altre di maggiore efficacia
ancora, che egli accenna d'esser per farci sentire. E non so con che fondamento
voi vogliate riprender la natura, come quella che per la molta età sia
imbarbogita ed abbia dimenticato a produrre ingegni specolativi, né sappia
farne piú se non di quelli che, facendosi mancipii d'Aristotile, abbiano a
intender col suo cervello e sentir co i suoi sensi. Ma sentiamo il rimanente
delle ragioni favorevoli alla sua opinione, per venir poi al lor cimento,
coppellandole e ponderandole con la bilancia del saggiatore.
SALV. Prima che proceder piú oltre, devo dire al
signor Sagredo che in questi nostri discorsi fo da copernichista, e lo imito
quasi sua maschera; ma quello che internamente abbiano in me operato le ragioni
che par ch'io produca in suo favore, non voglio che voi lo giudichiate dal mio
parlare mentre siamo nel fervor della rappresentazione della favola, ma dopo
che avrò deposto l'abito, che forse mi troverete diverso da quello che
mi vedete in scena. Ora seguitiamo avanti. Produce Tolomeo ed i suoi seguaci
un'altra esperienza, simile a quella de i proietti, ed è delle cose che,
separate dalla Terra, lungamente si trattengono per aria, quali sono le nugole
e gli uccelli volanti; e come che di quelle non si può dir che sieno
portate dalla Terra, non essendo a lei aderenti, non par possibile ch'elle
possin seguire la velocità di quella, anzi dovrebbe parere a noi che
tutte velocissimamente si movessero verso occidente; e se noi, portati dalla
Terra, passiamo il nostro parallelo in vintiquattr'ore, che pure è
almeno sedici mila miglia, come potranno gli uccelli tener dietro a un tanto
corso? dove, all'incontro, senza veruna sensibil differenza gli vediamo volar
tanto verso levante quanto verso occidente e verso qualsivoglia parte. Oltre a
ciò, se mentre corriamo a cavallo sentiamo assai gagliardamente ferirci
il volto dall'aria, qual vento dovremmo noi perpetuamente sentir dall'oriente,
portati con sí rapido corso incontro all'aria? e pur nulla di tale effetto si
sente. Ècci un'altra molto ingegnosa ragione, presa da certa esperienza,
ed è tale. Il moto circolare ha facoltà di estrudere, dissipare e
scacciar dal suo centro le parti del corpo che si muove, qualunque volta o 'l
moto non sia assai tardo o esse parti non sian molto saldamente attaccate
insieme; che per ciò, quando, verbigrazia, noi facessimo
velocissimamente girare una di quelle gran ruote dentro le quali caminando uno
o dua uomini muovono grandissimi pesi, come la massa delle gran pietre del
mangano, o barche cariche che d'un'acqua in un'altra si traghettano
strascinandole per terra, quando le parti di essa ruota rapidamente girata non
fossero piú che saldamente conteste, si dissiperebbero tutte, né, per molto che
tenacemente fossero sopra la sua esterior superficie attaccati sassi o altre
materie gravi, potrebbero resistere all'impeto, che con gran violenza le
scaglierebbe in diverse parti lontane dalla ruota, ed in conseguenza dal suo
centro. Quando dunque la Terra si movesse con tanto e tanto maggior
velocità, qual gravità, qual tenacità di calcine o di
smalti, riterrebbe i sassi, le fabbriche e le città intere, che da sí
precipitosa vertigine non fusser lanciate verso 'l cielo? e gli uomini e le
fiere, che niente sono attaccati alla Terra, come resisterebbero a un tanto
impeto? dove che, all'opposito, e queste ed assai minori resistenze, di
sassetti, di rena, di foglie, vediamo quietissimamente riposarsi in Terra, e
sopra quella ridursi cadendo, ancorché con lentissimo moto. Eccovi, signor
Simplicio, le ragioni potissime, prese, per cosí dire, dalle cose terrestri:
restano quelle dell'altro genere, cioè quelle che hanno relazione
all'apparenze celesti, le quali ragioni tendon veramente piú a dimostrar
l'esser la Terra nel centro dell'universo, ed a spogliarla in conseguenza del
movimento annuo intorno ad esso, attribuitogli dal Copernico; le quali, come di
materia alquanto differente, si potranno produr dopo che averemo esaminata la
forza di queste sin qui proposte.
SAGR. Che dite, signor Simplicio? parv'egli che 'l
signor Salviati possegga e sappia esplicare le ragioni tolemaiche e aristoteliche?
credete voi che nissuno peripatetico sia altrettanto posseditore delle
dimostrazioni copernicane?
SIMP. Se non fusse il gran concetto che per i
discorsi avuti sin qui mi son formato della saldezza di dottrina del signor
Salviati e dell'acutezza d'ingegno del signor Sagredo, io, con lor buona
grazia, mi vorrei partire senza piú sentir altro, parendomi impossibil cosa che
contradir si possa a sí palpabili esperienze, e vorrei senza sentir altro
restar nella mia opinione antica, perché mi par che quando bene ella fusse
falsa, l'essere appoggiata su tanto verisimili ragioni la renderebbe scusabile:
e se queste son fallacie, quali vere dimostrazioni furon mai cosí belle?
SAGR. È pur bene che noi sentiamo le
risposte del signor Salviati: le quali se saranno vere, è forza che
sieno ancora piú belle e infinitarnente piú belle, e che quelle sien brutte
anzi bruttissime, se è vera la proposizion metafisicale che 'l vero e 'l
bello sono una cosa medesima, come ancora il falso e 'l brutto. Però,
signor Salviati, non perdiamo piú tempo.
SALV. Fu, se ben mi ricorda, il primo argomento
prodotto dal signor Simplicio questo: La Terra non si può muover
circolarmente, perché tal moto gli sarebbe violento, e però non
perpetuo: dell'esser poi violento la ragione era, perché quando fosse naturale,
le parti sue ancora si moverebbero naturalmente in giro, il che è
impossibile, perché naturale delle parti è il muoversi di moto retto
all'ingiú. Qui rispondo che averei auto caro che Aristotile si fosse meglio
dichiarato, quando disse: «Le parti ancora si moverebber circolarmente»,
imperocché questo muoversi circolarmente può intendersi in due modi: uno
è, che ogni particella separata dal suo tutto si movesse circolarmente
intorno al suo proprio centro, descrivendo i suoi piccoli cerchiettini; l'altro
è, che movendosi tutto 'l globo intorno al suo centro in
ventiquattr'ore, le parti ancora girassero intorno al medesimo centro in
ventiquattr'ore. Il primo sarebbe una impertinenza non minore che se altri
dicesse che di una circonferenza di cerchio ogni parte bisogna che sia un
cerchio, o vero perché la Terra è sferica, ogni parte di Terra bisogna
che sia una palla, perché cosí richiede l'assioma eadem est ratio totius et
partium. Ma s'egli intese nell'altro, cioè che le parti, a imitazion
del tutto, si moverebbero naturalmente intorno al centro di tutto il globo in
ventiquattr'ore, io dico che lo fanno; ed a voi, in vece d'Aristotile,
toccherà a provar che no.
SIMP. Questo è provato da Aristotile nel
medesimo luogo, mentre dice che naturale delle parti è il moto retto al
centro dell'universo, onde il circolare non gli può naturalmente
competere.
SALV. Ma non vedete voi che nelle medesime parole
vi è anco la confutazione di questa risposta?
SIMP. In che modo? e dove?
SALV. Non dic'egli che 'l moto circolare alla Terra
sarebbe violento? e però non eterno? e che questo è assurdo,
perché l'ordine del mondo è eterno?
SIMP. Dicelo.
SALV. Ma se quello che è violento non
può esser eterno, pel converso quello che non può esser eterno
non potrà esser naturale: ma il moto della Terra all'ingiú non
può essere altramente eterno: adunque meno può esser naturale, né
gli potrà esser naturale moto alcuno che non gli sia anco eterno. Ma se
noi faremo la Terra mobile di moto circolare, questo potrà esser eterno
ad essa ed alle parti, e però naturale.
SIMP. Il moto retto è naturalissimo delle
parti della Terra e gli è eterno, né mai accaderà che di moto
retto non si muovano, intendendo però sempre, rimossi gli impedimenti.
SALV. Voi equivocate, signor Simplicio, ed io
voglio pur vedere di liberarvi dall'equivoco. Però ditemi: credete voi
che una nave che dallo stretto di Gibilterra andasse verso Palestina, potesse
eternamente navigare verso quella spiaggia, movendosi sempre con egual corso?
SIMP. Non altramente.
SALV. E perché no?
SIMP. Perché quella navigazione è ristretta
e terminata tra le Colonne e 'l lito di Palestina, ed essendo la distanza
terminata, si passa in tempo finito: se già altri non volesse, col
ritornare in dietro con movimento contrario, tornar poi a replicar il medesimo
viaggio; ma questo sarebbe un moto interrotto, e non continuato.
SALV. Verissima risposta. Ma la navigazione dallo
stretto di Magaglianes per il mar Pacifico, per le Molucche, per il capo di
Buona Speranza, e di lí per il medesimo stretto e di nuovo per il mar Pacifico
etc., credete voi ch'ella si potesse perpetuare?
SIMP. Potrebbesi, perché essendo questa una
circolazione, che ritorna in se stessa, col replicarla infinite volte si
potrebbe perpetuare senza veruno interrompimento.
SALV. Adunque una nave in questo viaggio potrebbe
durare a navigare in eterno.
SIMP. Potrebbe, quando la nave fusse
incorruttibile, ma dissolvendosi la nave, si terminerebbe di necessità
la navigazione.
SALV. Ma nel Mediterraneo, quando anco la nave
fusse incorruttibile, non però potrebbe muoversi perpetuamente verso
Palestina, per esser tal viaggio terminato. Due cose adunque si ricercano,
acciò che un mobile senza intermissione possa muoversi eternamente:
l'una è che il moto possa di sua natura essere interminato e infinito; e
l'altra, che il mobile sia parimente incorruttibile ed eterno.
SIMP. Tutto questo è necessario.
SALV. Adunque già per voi stesso venite ad
aver confessato, esser impossibile che mobile alcuno si muova eternamente di
moto retto, essendo che il moto retto, o vogliatelo in su o vogliatelo in giú,
voi stesso lo fate terminato dalla circonferenza e dal centro: sí che quando
bene il mobile, cioè la Terra, sia eterna, tuttavia, per non essere il
moto retto di sua natura eterno, ma terminatissimo, non può naturalmente
competere alla Terra, anzi, come pure ieri si disse, Aristotile medesimo
è costretto a far il globo della Terra eternamente stabile. Quando poi
voi dite che le parti della Terra sempre si moveranno all'ingiú rimossi gli impedimenti,
equivocate gagliardamente, perché all'incontro bisogna impedirle, contrariarle
e violentarle, se voi volete ch'elle si muovano; perché, cadute ch'elle sono
una volta, bisogna con violenza rigettarle in alto, acciò tornino a
cader la seconda: e quanto a gli impedimenti, questi gli tolgono solamente
l'arrivare al centro; ché quando ci fosse un pozzo che passasse oltre al
centro, non però una zolla di terra si moverebbe oltre a quello, se non
in quanto traportata dall'impeto lo trapassasse, per ritornarvi poi e
finalmente fermarvisi. Quanto dunque al poter sostenere che il movimento per
linea retta convenga o possa convenir naturalmente né alla Terra né ad altro
mobile, mentre l'universo resti nel suo ordine perfetto, toglietevene pur giú
del tutto, e fate pur forza (se voi non le volete concedere il moto circolare)
di mantenerle e difenderle l'immobilità.
SIMP. Quanto all'immobilità, gli argomenti
di Aristotile, e piú gli altri prodotti da voi, mi par che la concludano
necessariamente sin ora, e gran cose ci vorranno, per mio giudizio, a
confutargli.
SALV. Venghiamo dunque al secondo argomento: che
era che quei corpi de i quali noi siam sicuri che circolarmente si muovono,
hanno piú d'un moto, trattone il primo mobile; e però quando la Terra si
movesse circolarmente, dovrebbe muoversi di due moti, dal che ne seguirebbe
mutazione circa gli orti e gli occasi delle stelle fisse; il che non si vede
seguire; adunque etc. La risposta semplicissima e propriissima a questa
instanza è nell'argomento stesso, ed Aristotile medesimo ce la mette in
bocca, e non può essere che voi, signor Simplicio, non l'abbiate veduta.
SIMP. Né l'ho veduta, né ancor la veggo.
SALV. Non può essere, perché ella vi
è troppo chiara.
SIMP. Io voglio, con vostra licenza, dare un'occhiata
al testo.
SAGR. Faremo portare il testo adesso adesso.
SIMP. Io lo porto sempre in tasca. Eccolo qui; e so
per appunto il luogo, che è nel secondo del Cielo, al cap. 14. Eccolo:
testo 97: Præterea, omnia quæ feruntur latione circulari,
subdeficere videntur, ac moveri pluribus una latione, præter primam
sphæram; quare et Terram necessarium est, sive circa medium sive in medio
posita feratur, duabus moveri lationibus: si autem hoc acciderit, necessarium
est fieri mutationes ac conversiones fixorum astrorum: hoc autem non videtur
fieri; sed semper eadem apud eadem loca ipsius et oriuntur et occidunt. Or
qui non veggo io fallacia nissuna, e parmi l'argomento concludentissimo.
SALV. Ed a me questa nuova lettura ha confermata la
fallacia nell'argumentare, e di piú scoperto un'altra falsità.
Però notate. Due posizioni, o vogliam dire due conclusioni, son quelle
che Aristotile vuole impugnare: l'una è di quelli che, collocando la
Terra nel mezo, la facesser muovere in se stessa circa 'l proprio centro:
l'altra è di quelli che, costituendola lontana dal mezo, la facessero
andar con moto circolare intorno ad esso mezo: ed amendue queste posizioni
impugna congiuntamente con l'istesso argomento. Ora io dico che egli erra nell'una
e nell'altra impugnazione, e che l'errore contro la prima posizione è di
uno equivoco o paralogismo, e contro alla seconda è una conseguenza
falsa. Venghiamo alla prima posizione, che costituisce la Terra nel mezo e la
fa mobile in se stessa circa il proprio centro, ed affrontiamola con l'istanza
d'Aristotile, dicendo: Tutti i mobili che si muovono circolarmente, par che
restino indietro, e si muovono di piú d'una lazione, eccettuata la prima sfera
(cioè il primo mobile); adunque la Terra, movendosi circa il proprio
centro, essendo posta nel mezo, bisogna che si muova di due lazioni, e resti in
dietro: ma quando questo fusse, bisognerebbe che si variassero gli orti e gli
occasi delle stelle fisse; il che non si vede fare: adunque la Terra non si muove
etc. Qui è il paralogismo; per iscoprirlo, discorro con Aristotile in
tal modo. Tu di', o Aristotile, che la Terra posta nel mezo non può
muoversi in se stessa, perché sarebbe necessario attribuirle due lazioni:
adunque, quando non fusse necessario attribuirle altro che una lazion sola, tu
non avresti per impossibile che di una tal sola ella si movesse, perché fuor di
proposito ti saresti ristretto a ripor l'impossibilità nella
pluralità delle lazioni, quando anco di una sola ella muover non si
potesse. E perché di tutti i mobili del mondo tu fai che un solo si muova d'una
lazion sola, e tutti gli altri di piú d'una; e questo tal mobile affermi che
è la prima sfera, cioè quello per il quale tutte le stelle fisse
ed erranti ci appariscono muoversi concordemente da levante a ponente; quando
la Terra potesse esser quella prima sfera, che col muoversi d'una lazion sola
facesse apparir le stelle muoversi da levante in ponente, tu non gliela
negheresti: ma chi dice che la Terra posta nel mezo si volge in se stessa, non
gli attribuisce altro moto che quello per il quale tutte le stelle appariscono
muoversi da levante a ponente, e cosí ella viene a esser quella prima sfera che
tu stesso concedi muoversi d'una lazione sola: bisogna dunque, o Aristotile, se
tu vuoi concluder qualcosa, che tu dimostri che la Terra posta nel mezo non
possa muoversi né anco di una sola lazione, o vero che né meno la prima sfera
possa aver un sol movimento; altrimenti tu nel tuo medesimo silogismo commetti
la fallacia e ve la manifesti, negando ed insieme concedendo l'istessa cosa.
Vengo ora alla seconda posizione, che è di quelli che ponendo la Terra
lontana dal mezo, la fanno mobile intorno ad esso, cioè la fanno un
pianeta ed una stella errante; contro alla qual posizione procede l'argomento,
e quanto alla forma è concludente, ma pecca in materia: imperocché,
conceduto che la Terra si muova in cotal guisa, e che si muova di due lazioni,
non però ne segue di necessità che, quando ciò sia,
s'abbiano a far mutazioni ne gli orti e ne gli occasi delle stelle fisse, come
a suo luogo dichiarerò. E qui voglio scusar bene l'error d'Aristotile,
anzi lo voglio lodar d'aver egli arrecato il piú sottile argomento contro alla
posizion del Copernico, che arrecar si possa; e se l'instanza è acuta,
ed in apparenza concludentissima, vedrete tanto piú esser sottile ed ingegnosa
la soluzione, e da non esser ritrovata da ingegno men acuto di quello del
Copernico; e dalla difficultà nell'intenderla potrete argomentare la
difficultà, tanto maggiore, del ritrovarla. Lasciamo in tanto per ora la
risposta in pendente, la quale a suo luogo e tempo intenderete, dopo l'aver
replicata l'instanza medesima d'Aristotele, e di piú fortificata grandemente a
favor suo. Or passiamo all'argomento terzo, pur d'Aristotile, intorno al quale
non fa bisogno replicar altro, essendosegli a bastanza risposto tra ieri e
oggi: imperocché e' replica che 'l moto de' gravi è naturalmente per
linea retta al centro, e cerca poi se al centro della Terra o pur
dell'universo, e conclude che naturalmente al centro dell'universo, ma per
accidente a quel della Terra. Però possiamo passare al quarto, nel quale
converrà che ci trattenghiamo assai, per esser fondato sopra quella
esperienza dalla quale prende poi forza la maggior parte degli argomenti che restano.
Dice dunque Aristotile, argomento certissimo dell'immobilità della Terra
essere il veder noi i proietti in alto a perpendicolo ritornar per l'istessa
linea nel medesimo luogo di dove furon tirati, e questo, quando bene il
movimento fusse altissimo; il che non potrebbe accadere quando la Terra si
movesse, perché nel tempo che 'l proietto si muove in su e 'n giú, separato
dalla Terra, il luogo dove ebbe principio il moto del proietto scorrerebbe,
mercè del rivolgimento della Terra, per lungo tratto verso levante, e
per tanto spazio, nel cadere, il proietto percuoterebbe in Terra lontano dal
detto luogo: sí che qui s'accomoda l'argomento della palla tirata in su
coll'artiglieria, sí ancora l'altro usato da Aristotile e da Tolomeo, del
vedere i gravi cadenti da grandi altezze venir per linea retta e perpendicolare
alla superficie terrestre. Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi, domando
al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristotile che i gravi
nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare,
cioè diretta al centro, con qual mezo lo proverebbero.
SIMP. Col mezo del senso, il quale ci assicura che
quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel
cadere venirla radendo, senza piegar pur un capello da questa o da quella
parte, e percuotere al piede giusto sotto 'l luogo donde fu lasciata.
SALV. Ma quando per fortuna il globo terrestre si
movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni
modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual
bisognerebbe che fusse il suo movimento?
SIMP. Bisognerebbe in questo caso dir piú tosto «i
suoi movimenti», perché uno sarebbe quello col quale verrebbe da alto a basso,
e un altro converrebbe ch'ella n'avesse per seguire il corso della torre.
SALV. Sarebbe dunque il moto suo un composto di
due, cioè di quello col quale ella misura la torre, e dell'altro col
quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che 'l sasso
descriverebbe non piú quella semplice linea retta e perpendicolare, ma una
trasversale, e forse non retta.
SIMP. Del non retta non lo so; ma intendo bene che
di necessità sarebbe trasversale, e differente dall'altra retta
perpendicolare, che ella descrisse stando la Terra immobile.
SALV. Adunque dal solamente vedere la pietra
cadente rader la torre, voi non potete sicuramente affermare che ella descriva
una linea retta e perpendicolare, se non supposto prima che la Terra stia
ferma.
SIMP. Cosí è; perché quando la Terra si
movesse, il moto della pietra sarebbe trasversale, e non a perpendicolo.
SALV. Ecco dunque il paralogismo d'Aristotile e di
Tolomeo evidente e chiaro, e scoperto da voi medesimo, nel quale si suppon per
noto quello che s'intende di dimostrare.
SIMP. In che modo? A me si dimostra silogismo in
buona forma, e non una petizion di principio.
SALV. Eccovi in che modo. Ditemi un poco: nella
dimostrazione non si pon egli la conclusione ignota?
SIMP. Ignota, perché altrimenti il dimostrarla
sarebbe superfluo.
SALV. Ma il mezo termine non conviene egli che sia
noto?
SIMP. È necessario, perché altramente
sarebbe un voler provare ignotum per æque ignotum.
SALV. La nostra conclusione da provarsi, e che
è ignota, non è la stabilità della Terra?
SIMP. Cotesta è.
SALV. Il mezo, che deve esser noto, non è la
caduta del sasso retta e perpendicolare?
SIMP. Questo è il mezo.
SALV. Ma non s'è egli poco fa concluso, che
noi non possiamo aver notizia che tal caduta sia retta e perpendicolare, se
prima non ci è noto che la Terra stia ferma? adunque nel vostro
silogismo la certezza del mezo si cava dall'incertezza della conclusione.
Vedete dunque quale e quanto è il paralogismo.
SAGR. Io vorrei, in grazia del signor Simplicio,
difender, se fusse possibile, Aristotile, o almeno restar io meglio capace
della forza della vostra illazione. Voi dite: Il veder rader la torre non basta
per assicurarsi che 'l moto del sasso sia perpendicolare, che è il mezo
termine del silogismo, se non si suppone che la Terra stia ferma, che è
la conclusione da provarsi; perché, quando la torre si movesse insieme con la
Terra, ed il sasso la radesse, il moto del sasso sarebbe trasversale, e non
perpendicolare. Ma io risponderò, che quando la torre si movesse,
sarebbe impossibile che 'l sasso cadesse radendola, e però dal cader
radendo s'inferisce la stabilità della Terra.
SIMP. Cosí è; perché a voler che 'l sasso
venisse radendo la torre, quando ella fusse portata dalla Terra, bisognerebbe
che 'l sasso avesse due moti naturali, cioè 'l retto verso 'l centro e
'l circolare intorno al centro, il che è poi impossibile.
SALV. La difesa dunque d'Aristotile consiste
nell'esser impossibile, o almeno nell'aver egli stimato impossibile, che 'l
sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e di circolare; perché quando
e' non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e
'ntorno al centro unitamente, egli averebbe inteso che poteva accadere che 'l
sasso cadente potesse venir radendo la torre tanto movendosi ella quanto stando
ferma, e in conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva
inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. Ma questo non
iscusa altramente Aristotile, non solamente perché doveva dirlo, quando egli
avesse auto tal concetto, essendo un punto tanto principale nel suo argumento,
ma di piú ancora perché non si può dir né che tale effetto sia
impossibile né che Aristotile l'abbia stimato impossibile. Non si può
dire il primo, perché di qui a poco mostrerò ch'egli è non pur
possibile, ma necessario: né meno si può dire il secondo, perché
Aristotile medesimo concede al fuoco l'andare in su naturalmente per linea
retta e 'l muoversi in giro col moto diurno, participato dal cielo a tutto
l'elemento del fuoco ed alla maggior parte dell'aria; se dunque e' non ha per
impossibile mescolare il retto in su col circolare, comunicato al fuoco ed
all'aria dal concavo lunare, assai meno dovrà reputare impossibile il
retto in giú del sasso col circolare, che fusse naturale di tutto 'l globo
terrestre, del quale il sasso è parte.
SIMP. A me non par cotesta cosa, perché quando
l'elemento del fuoco vadia in giro insieme con l'aria, facilissima anzi
necessaria cosa è che una particella di fuoco, che da Terra sormonti in
alto, nel passar per l'aria mobile riceva l'istesso movimento, essendo corpo
cosí tenue e leggiero e agevolissimo ad esser mosso; ma che un sasso gravissimo
o una palla d'artiglieria, che da alto venga a basso e sia già posta in
sua balía, si lasci trasportar né da aria né da altro, ha del tutto dell'inopinabile.
Oltre che ci è l'esperienza tanto propria, della pietra lasciata dalla
cima dell'albero della nave, la qual, mentre la nave sta ferma, casca al
piè dell'albero, ma quando la nave camina, cade tanto lontana dal
medesimo termine, quanto la nave nel tempo della caduta del sasso è
scorsa avanti; che non son poche braccia, quando 'l corso della nave è
veloce.
SALV. Gran disparità è tra 'l caso
della nave e quel della Terra, quando 'l globo terrestre avesse il moto diurno.
Imperocché manifestissima cosa è che il moto della nave, sí come non
è suo naturale, cosí è accidentario di tutte le cose che sono in
essa; onde non è meraviglia che quella pietra, che era ritenuta in cima
dell'albero, lasciata in libertà scenda a basso, senza obligo di seguire
il moto della nave. Ma la conversion diurna si dà per moto proprio e
naturale al globo terrestre, ed in conseguenza a tutte le sue parti, e come
impresso dalla natura è in loro indelebile; e però quel sasso che
è in cima della torre, ha per suo primario instinto l'andare intorno al
centro del suo tutto in ventiquattr'ore, e questo natural talento esercita egli
eternamente, sia pur posto in qualsivoglia stato. E per restar persuaso di
questo, non avete a far altro che mutar un'antiquata impressione fatta nella
vostra mente, e dire: «Sí come, per avere stimato io sin ora che sia
proprietà del globo terrestre lo stare immobile intorno al suo centro,
non ho mai auto difficultà o repugnanza alcuna in apprendere che
qualsivoglia sua particella resti essa ancora naturalmente nella medesima
quiete; cosí è ben dovere che quando naturale instinto fusse del globo
terreno l'andare intorno in ventiquattr'ore, sia d'ogni sua parte ancora
intrinseca e naturale inclinazione non lo star ferma, ma seguire il medesimo
corso»: e cosí senza urtare in veruno inconveniente si potrà concludere,
che per non esser naturale, ma straniero, il moto conferito alla nave dalla
forza de' remi, e per essa a tutte le cose che in lei si ritrovano, sia ben
dovere che quel sasso, separato che e' sia dalla nave, si riduca alla sua
naturalezza e ritorni ad esercitare il puro e semplice suo natural talento.
Aggiugnesi che è necessario che almeno quella parte d'aria che è
inferiore alle maggiori altezze de i monti, venga dall'asprezza della
superficie terrestre rapita e portata in giro, o pure che, come mista di molti
vapori ed esalazioni terrestri, naturalmente séguiti il moto diurno; il che non
avviene dell'aria che è intorno alla nave cacciata da i remi: per lo che
l'argumentare dalla nave alla torre non ha forza d'illazione; perché quel sasso
che vien dalla cima dell'albero, entra in un mezo che non ha il moto della
nave; ma quel che si parte dall'altezza della torre, si trova in un mezo che ha
l'istesso moto che tutto 'l globo terrestre, talché, senz'esser impedito dall'aria,
anzi piú tosto favorito dal moto di lei, può seguire l'universal corso
della Terra.
SIMP. Io non resto capace, che l'aria possa
imprimere in un grandissimo sasso o in una grossa palla di ferro o di piombo,
che passasse, verbigrazia, dugento libre, il moto col quale essa medesima si
muove e che per avventura ella comunica alle piume, alla neve ed altre cose
leggierissime; anzi veggo che un peso di quella sorte, esposto a qualsivoglia
piú impetuoso vento, non vien pur mosso di luogo un sol dito: or pensate se
l'aria lo porterà seco.
SALV. Gran disparità è tra la vostra
esperienza e 'l nostro caso. Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso
posto in quiete; e noi esponghiamo nell'aria, che già si muove, il
sasso, che pur si muove esso ancora con l'istessa velocità, talché
l'aria non gli ha a conferire un nuovo moto, ma solo mantenerli, o per meglio
dire non impedirli, il già concepito: voi volete cacciar il sasso d'un
moto straniero e fuor della sua natura; e noi, conservarlo nel suo naturale. Se
voi volevi produrre una piú aggiustata esperienza, dovevi dire che si
osservasse, se non con l'occhio della fronte, almeno con quel della mente,
ciò che accaderebbe quando un'aquila portata dall'impeto del vento si
lasciasse cader da gli artigli una pietra; la quale, perché già nel
partirsi dalle branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un
mezo mobile con egual velocità, ho grande opinione che non si vedrebbe
cader giú a perpendicolo, ma che, seguendo 'l corso del vento ed aggiugnendovi
quel della propria gravità, si moverebbe di un moto trasversale.
SIMP. Bisognerebbe poterla fare una tale
esperienza, e poi secondo l'evento giudicare; in tanto l'effetto della nave sin
qui mostra di applaudere all'opinion nostra.
SALV. Ben diceste, sin qui; perché forse di qui a
poco potrebbe mutar sembianza. E per non vi tener, come si dice, piú su le
bacchette, ditemi, signor Simplicio: parv'egli internamente che l'esperienza
della nave quadri cosí bene al proposito nostro, che ragionevolmente si debba
credere che quello che si vede accadere in lei, debba ancora accadere nel globo
terrestre?
SIMP. Sin qui mi è parso di sí; e benché voi
abbiate arrecate alcune piccole disuguaglianze, non mi paion di tal momento che
basti a rimuovermi di parere.
SALV. Anzi desidero che voi ci continuiate, e
tenghiate saldo che l'effetto della Terra abbia a rispondere a quel della nave,
purché quando ciò si scoprisse progiudiziale al vostro bisogno, non vi
venisse umore di mutar pensiero. Voi dite: «Perché, quando la nave sta ferma,
il sasso cade al piè dell'albero, e quando ell'è in moto cade
lontano dal piede adunque, per il converso, dal cadere il sasso al piede si
inferisce la nave star ferma, e dal caderne lontano s'argumenta la nave
muoversi; e perché quello che occorre della nave deve parimente accader della
Terra, però dal cader della pietra al piè della torre si
inferisce di necessità l'immobilità del globo terrestre». Non
è questo il vostro discorso?
SIMP. È per appunto, ridotto in
brevità, che lo rende agevolissimo ad apprendersi.
SALV. Or ditemi: se la pietra lasciata dalla cima
dell'albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse
precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta
ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l'assicurarvi se 'l
vassello sta fermo o pur se cammina?
SIMP. Assolutamente nissuno: in quel modo che, per
esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o
è desto, poiché il polso batte nell'istesso modo ne' dormienti che ne i
vegghianti.
SALV. Benissimo. Avete voi fatta mai l'esperienza
della nave?
SIMP. Non l'ho fatta; ma ben credo che quelli
autori che la producono, l'abbiano diligentemente osservata: oltre che si
conosce tanto apertamente la causa della disparità, che non lascia luogo
di dubitare.
SALV. Che possa esser che quelli autori la portino
senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta
la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede al detto loro: sí come
è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora,
dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l'abbia
fatta; perché chiunque la farà, troverà l'esperienza mostrar
tutto 'l contrario di quel che viene scritto: cioè mostrerà che
la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi
con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della
Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè
della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della
Terra.
SIMP. Se voi mi rimetteste ad altro mezo che
all'esperienza, io credo bene che le dispute nostre non finirebber per fretta;
perché questa mi pare una cosa tanto remota da ogni uman discorso, che non lasci
minimo luogo alla credulità o alla probabilità.
SALV. E pur l'ha ella lasciato in me.
SIMP. Che dunque voi non n'avete fatte cento, non
che una prova, e l'affermate cosí francamente per sicura? Io ritorno nella mia
incredulità, e nella medesima sicurezza che l'esperienza sia stata fatta
da gli autori principali che se ne servono, e che ella mostri quel che essi
affermano.
SALV. Io senza esperienza son sicuro che l'effetto
seguirà come vi dico, perché cosí è necessario che segua; e piú
v'aggiungo che voi stesso ancora sapete che non può seguire altrimenti,
se ben fingete, o simulate di fingere, di non lo sapere. Ma io son tanto buon
cozzon di cervelli, che ve lo farò confessare a viva forza. Ma il signor
Sagredo sta molto cheto: mi pareva pur di vedervi far non so che moto, per dir
alcuna cosa.
SAGR. Volevo veramente dir non so che; ma la
curiosità che mi ha mossa questo sentir dire di far tal violenza al
signor Simplicio, che palesi la scienza che e' ci vuole occultare, mi ha fatto
deporre ogni altro desiderio: però vi prego ad effettuare il vanto.
SALV. Purché il signor Simplicio si contenti di
rispondere alle mie interrogazioni, io non mancherò.
SIMP. Io risponderò quel che saprò,
sicuro che avrò poca briga, perché delle cose che io tengo false non
credo di poterne saper nulla, essendoché la scienza è de' veri, e non
de' falsi.
SALV. Io non desidero che voi diciate o rispondiate
di saper niente altro che quello che voi sicuramente sapete. Però
ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima come uno specchio e
di materia dura come l'acciaio, e che fusse non parallela all'orizonte, ma
alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla perfettamente
sferica e di materia grave e durissima, come, verbigrazia, di bronzo, lasciata
in sua libertà che credete voi che ella facesse? non credete voi (sí
come credo io) che ella stesse ferma?
SIMP. Se quella superficie fusse inclinata?
SALV. Sí, ché cosí già ho supposto.
SIMP. Io non credo che ella si fermasse altrimente,
anzi pur son sicuro ch'ella si moverebbe verso il declive spontaneamente.
SALV. Avvertite bene a quel che voi dite, signor
Simplicio, perché io son sicuro ch'ella si fermerebbe in qualunque luogo voi la
posaste.
SIMP. Come voi, signor Salviati, vi servite di
questa sorte di supposizioni, io comincierò a non mi maravigliar che voi
concludiate conclusioni falsissime.
SALV. Avete dunque per sicurissimo ch'ella si
moverebbe verso il declive spontaneamente?
SIMP. Che dubbio?
SALV. E questo lo tenete per fermo, non perché io
ve l'abbia insegnato (perché io cercavo di persuadervi il contrario), ma per
voi stesso e per il vostro giudizio naturale.
SIMP. Ora intendo il vostro artifizio: voi dicevi
cosí per tentarmi e (come si dice dal vulgo) per iscalzarmi, ma non che in
quella guisa credeste veramente.
SALV. Cosí sta. E quanto durerebbe a muoversi
quella palla, e con che velocità? E avvertite che io ho nominata una
palla perfettissimamente rotonda ed un piano esquisitamente pulito, per
rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentarii: e cosí voglio che voi
astragghiate dall'impedimento dell'aria, mediante la sua resistenza all'essere
aperta, e tutti gli altri ostacoli accidentarii, se altri ve ne potessero
essere.
SIMP. Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla
vostra domanda, rispondo che ella continuerebbe a muoversi in infinito, se
tanto durasse la inclinazione del piano, e con movimento accelerato
continuamente; ché tale è la natura de i mobili gravi, che vires
acquirant eundo: e quanto maggior fusse la declività, maggior
sarebbe la velocità.
SALV. Ma quand'altri volesse che quella palla si
movesse all'insú sopra quella medesima superficie, credete voi che ella vi
andasse?
SIMP. Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con
violenza gettatavi.
SALV. E quando da qualche impeto violentemente
impressole ella fusse spinta, quale e quanto sarebbe il suo moto?
SIMP. Il moto andrebbe sempre languendo e
ritardandosi, per esser contro a natura, e sarebbe piú lungo o piú breve
secondo il maggiore o minore impulso e secondo la maggiore o minore
acclività.
SALV. Parmi dunque sin qui che voi mi abbiate
esplicati gli accidenti d'un mobile sopra due diversi piani; e che nel piano
inclinato il mobile grave spontaneamente descende e va continuamente
accelerandosi, e che a ritenervelo in quiete bisogna usarvi forza; ma sul piano
ascendente ci vuol forza a spignervelo ed anco a fermarvelo, e che 'l moto
impressogli va continuamente scemando, sí che finalmente si annichila. Dite ancora
di piú che nell'un caso e nell'altro nasce diversità dall'esser la
declività o acclività del piano, maggiore o minore; sí che alla
maggiore inclinazione segue maggior velocità, e, per l'opposito, sopra
'l piano acclive il medesimo mobile cacciato dalla medesima forza in maggior
distanza si muove quanto l'elevazione è minore. Ora ditemi quel che
accaderebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non fusse né acclive
né declive.
SIMP. Qui bisogna ch'io pensi un poco alla
risposta. Non vi essendo declività, non vi può essere
inclinazione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi
può esser resistenza all'esser mosso, talché verrebbe ad essere
indifferente tra la propensione e la resistenza al moto: parmi dunque che e'
dovrebbe restarvi naturalmente fermo. Ma io sono smemorato, perché non è
molto che 'l signor Sagredo mi fece intender che cosí seguirebbe.
SALV. Cosí credo, quando altri ve lo posasse fermo;
ma se gli fusse dato impeto verso qualche parte, che seguirebbe?
SIMP. Seguirebbe il muoversi verso quella parte.
SALV. Ma di che sorte di movimento? di
continuamente accelerato, come ne' piani declivi, o di successivamente
ritardato, come negli acclivi?
SIMP. Io non ci so scorgere causa di accelerazione
né di ritardamento, non vi essendo né declività né acclività.
SALV. Sì. Ma se non vi fusse causa di
ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser di quiete: quanto dunque vorreste
voi che il mobile durasse a muoversi?
SIMP. Tanto quanto durasse la lunghezza di quella
superficie né erta né china.
SALV. Adunque se tale spazio fusse interminato, il
moto in esso sarebbe parimente senza termine, cioè perpetuo?
SIMP. Parmi di sí, quando il mobile fusse di
materia da durare.
SALV. Già questo si è supposto,
mentre si è detto che si rimuovano tutti gl'impedimenti accidentarii ed
esterni, e la fragilità del mobile, in questo fatto, è un degli
impedimenti accidentarii. Ditemi ora: quale stimate voi la cagione del muoversi
quella palla spontaneamente sul piano inclinato, e non, senza violenza, sopra
l'elevato?
SIMP. Perché l'inclinazion de' corpi gravi è
di muoversi verso 'l centro della Terra, e solo per violenza in su verso la
circonferenza; e la superficie inclinata è quella che acquista
vicinità al centro, e l'acclive discostamento.
SALV. Adunque una superficie che dovesse esser non
declive e non acclive, bisognerebbe che in tutte le sue parti fusse egualmente
distante dal centro. Ma di tali superficie ve n'è egli alcuna al mondo?
SIMP. Non ve ne mancano: ècci quella del
nostro globo terrestre, se però ella fusse ben pulita, e non, quale ella
è, scabrosa e montuosa; ma vi è quella dell'acqua, mentre
è placida e tranquilla.
SALV. Adunque una nave che vadia movendosi per la
bonaccia del mare, è un di quei mobili che scorrono per una di quelle
superficie che non sono né declivi né acclivi, e però disposta, quando
le fusser rimossi tutti gli ostacoli accidentarii ed esterni, a muoversi, con
l'impulso concepito una volta, incessabilmente e uniformemente
SIMP. Par che deva esser cosí.
SALV. E quella pietra ch'è su la cima
dell'albero non si muov'ella, portata dalla nave, essa ancora per la
circonferenza d'un cerchio intorno al centro, e per conseguenza d'un moto
indelebile in lei, rimossi gli impedimenti esterni? e questo moto non è
egli cosí veloce come quel della nave?
SIMP. Sin qui tutto cammina bene. Ma il resto?
SALV. Cavatene in buon'ora l'ultima conseguenza da
per voi, se da per voi avete sapute tutte le premesse.
SIMP. Voi volete dir per ultima conclusione, che
movendosi quella pietra d'un moto indelebilmente impressole, non l'è per
lasciare, anzi è per seguire la nave, ed in ultimo per cadere nel
medesimo luogo dove cade quando la nave sta ferma; e cosí dico io ancora che
seguirebbe quando non ci fussero impedimenti esterni, che sturbassero il
movimento della pietra dopo esser posta in libertà: li quali impedimenti
son due; l'uno è l'essere il mobile impotente a romper l'aria col suo
impeto solo, essendogli mancato quello della forza de' remi, del quale era
partecipe, come parte della nave, mentre era su l'albero; l'altro è il
moto novello del cadere a basso, che pur bisogna che sia d'impedimento
all'altro progressivo.
SALV. Quanto all'impedimento dell'aria, io non ve
lo nego; e quando il cadente fusse materia leggiera, come una penna o un fiocco
di lana, il ritardamento sarebbe molto grande; ma in una pietra grave, è
piccolissimo: e voi stesso poco fa avete detto che la forza del piú impetuoso
vento non basta a muover di luogo una grossa pietra; or pensate quel che
farà l'aria quieta incontrata dal sasso, non piú veloce di tutto 'l
navilio. Tuttavia, come ho detto, vi concedo questo piccolo effetto, che
può dependere da tale impedimento; sí come so che voi concederete a me
che quando l'aria si movesse con l'istessa velocità della nave e del
sasso, l'impedimento sarebbe assolutamente nullo. Quanto all'altro, del
sopravegnente moto in giú, prima è manifesto che questi due, dico il
circolare intorno al centro e 'l retto verso 'l centro, non son contrarii né
destruttivi l'un dell'altro né incompatibili, perché, quanto al mobile, ei non
ha repugnanza alcuna a cotal moto: ché già voi stesso avete conceduto,
la repugnanza esser contro al moto che allontana dal centro, e l'inclinazione,
verso il moto che avvicina al centro; onde necessariamente segue che al moto che
non appressa né discosta dal centro, non ha il mobile né repugnanza né
propensione né, in conseguenza, cagione di diminuirsi in lui la facultà
impressagli: e perché la causa motrice non è una sola, che si abbia, per
la nuova operazione, a inlanguidire, ma son due tra loro distinte, delle quali
la gravità attende solo a tirare il mobile al centro, e la virtú
impressa a condurlo intorno al centro, non resta occasione alcuna
d'impedimento.
SIMP. Il discorso veramente è in apparenza
assai probabile, ma in essenza turbato un poco da qualche intoppo mal agevole a
superarsi. Voi in tutto 'l progresso avete fatta una supposizione, che dalla
scuola peripatetica non di leggiero vi sarà conceduta, essendo
contrariissima ad Aristotile: e questa è il prender come cosa notoria e
manifesta che 'l proietto separato dal proiciente continui il moto per virtú
impressagli dall'istesso proiciente, la qual virtú impressa è tanto
esosa nella peripatetica filosofia, quanto il passaggio d'alcuno accidente
d'uno in un altro suggetto: nella qual filosofia si tiene, come credo che vi
sia noto, che 'l proietto sia portato dal mezo, che nel nostro caso viene ad
esser l'aria e però se quel sasso, lasciato dalla cima dell'albero,
dovesse seguire il moto della nave, bisognerebbe attribuire tal effetto
all'aria, e non a virtú impressagli: ma voi supponete che l'aria non séguiti il
moto della nave, ma sia tranquilla. Oltre che colui che lo lascia cadere, non
l'ha a scagliare né dargli impeto col braccio, ma deve semplicemente aprir la
mano e lasciarlo: e cosí, né per virtú impressagli dal proiciente, né per
benefizio dell'aria, potrà il sasso seguire 'l moto della nave, e
però resterà indietro.
SALV. Parmi dunque di ritrar dal vostro parlare,
che non venendo la pietra cacciata dal braccio di colui, la sua non venga
altrimenti ad essere una proiezione.
SIMP. Non si può propriamente chiamar moto
di proiezione.
SALV. Quello dunque che dice Aristotile del moto,
del mobile e del motore de i proietti, non ha che fare nel nostro proposito; e
se non ci ha che fare, perché lo producete?
SIMP. Producolo per amor di quella virtú impressa,
nominata ed introdotta da voi, la quale, non essendo al mondo, non può
operar nulla, perché non entium nullæ sunt operationes; e
però non solo del moto de i proietti, ma di ogn'altro che non sia
naturale, bisogna attribuirne la causa motrice al mezo, del quale non si
è avuta la debita considerazione; e però il detto sin qui resta
inefficace.
SALV. Orsú tutto in buon'ora. Ma ditemi: già
che la vostra instanza si fonda tutta su la nullità della virtú
impressa, quando io vi abbia dimostrato che 'l mezo non ha che fare nella
continuazion del moto de' proietti, dopo che son separati dal proiciente,
lascierete voi in essere la virtú impressa, o pur vi moverete con
qualch'altr'assalto alla sua destruzione?
SIMP. Rimossa l'azione del mezo, non veggo che si
possa ricorrere ad altro che alla facultà impressa dal movente.
SALV. Sarà bene, per levare il piú che sia
possibile le cause dell'andarsene in infinito con le altercazioni, che voi
quanto si può distintamente spianiate qual sia l'operazione del mezo nel
continuar il moto al proietto.
SIMP. Il proiciente ha il sasso in mano; muove con
velocità e forza il braccio, al cui moto si muove non piú il sasso che
l'aria circonvicina, onde il sasso, nell'esser abbandonato dalla mano, si trova
nell'aria che già si muove con impeto, e da quella vien portato: che se
l'aria non operasse, il sasso cadrebbe dalla mano al piede del proiciente.
SALV. E voi sete stato tanto credulo che vi sete
lasciato persuader queste vanità, mentre in voi stesso avevi i sensi da
confutarle e da intenderne il vero? Però ditemi: quella gran pietra e
quella palla d'artiglieria che, posata solamente sopra una tavola, restava
immobile contro a qualsivoglia impetuoso vento, secondo che voi poco fa
affermaste, se fusse stata una palla di sughero o altrettanta bambagia, credete
che il vento l'avesse mossa di luogo?
SIMP. Anzi so certo che l'averebbe portata via, e
tanto piú velocemente, quanto la materia fusse stata piú leggiera; ché per
questo veggiamo noi le nugole esser portate con velocità pari a quella
del vento stesso che le spigne.
SALV. E 'l vento che cosa è?
SIMP. Il vento si definisce, non esser altro che
aria mossa.
SALV. Adunque l'aria mossa molto piú velocemente e
'n maggior distanza traporta le materie leggierissime che le gravissime?
SIMP. Sicuramente.
SALV. Ma quando voi aveste a scagliar col braccio
un sasso, e poi un fiocco di bambagia, chi si moverebbe con piú velocità
e in maggior lontananza?
SIMP. La pietra assaissimo; anzi la bambagia mi
cascherebbe a i piedi.
SALV. Ma se quel che muove il proietto, doppo
l'esser lasciato dalla mano, non è altro che l'aria mossa dal braccio, e
l'aria mossa piú facilmente spigne le materie leggiere che le gravi, come
dunque il proietto di bambagia non va piú lontano e piú veloce di quel di
pietra? bisogna pure che nella pietra resti qualche cosa, oltre al moto
dell'aria. Di piú, se da quella trave pendessero due spaghi lunghi egualmente,
e in capo dell'uno fusse attaccata una palla di piombo, e una di bambagia
nell'altro, ed amendue si allontanassero egualmente dal perpendicolo, e poi si
lasciassero in libertà, non è dubbio che l'una e l'altra si
moverebbe verso 'l perpendicolo, e che spinta dal proprio impeto lo
trapasserebbe per certo intervallo, e poi vi ritornerebbe. Ma qual di questi
due penduli credete voi che durasse piú a muoversi, prima che fermarsi a
piombo?
SIMP. La palla di piombo andrà in qua e 'n
là mille volte, e quella di bambagia dua o tre al piú.
SALV. Talché quell'impeto e quella mobilità,
qualunque se ne sia la causa, piú lungamente si conserva nelle materie gravi
che nelle leggieri. Vengo ora a un altro punto, e vi domando: perché l'aria non
porta via adesso quel cedro ch'è su quella tavola?
SIMP. Perché ella stessa non si muove.
SALV. Bisogna dunque che il proiciente conferisca
il moto all'aria, col quale ella poi muova il proietto. Ma se tal virtú non si
può imprimere, non si potendo far passare un accidente d'un subbietto in
un altro, come può passare dal braccio nell'aria? non è forse
l'aria un subbietto altro dal braccio?
SIMP. Rispondesi che l'aria, per non esser né grave
né leggiera nella sua regione, è disposta a ricevere facilissimamente
ogni impulso ed a conservarlo ancora.
SALV. Ma se i penduli adesso adesso ci hanno
mostrato che il mobile, quanto meno participa di gravità, tanto è
meno atto a conservare il moto, come potrà essere che l'aria, che in
aria non ha punto di gravità, essa sola conservi il moto concepito? Io
credo, e so che voi ancora credete al presente, che non prima si ferma il
braccio, che l'aria attornogli. Entriamo in camera, e con uno sciugatoio agitiamo
quanto piú si possa l'aria, e fermato il panno conducasi una piccola candeletta
accesa nella stanza, o lascivisi andare una foglia d'oro volante; che voi dal
vagar quieto dell'una e dell'altra v'accorgerete dell'aria ridotta
immediatamente a tranquillità. Io potrei addurvi mille esperienze, ma
dove non bastasse una di queste, si potrebbe aver la cura per disperata
affatto.
SAGR. Quando si tira una freccia contr'al vento,
quanto è incredibil cosa che quel filetto d'aria, spinto dalla corda
vadia al dispetto della fortuna accompagnando la freccia! Ma io ancora vorrei
sapere un particolare da Aristotile, per il quale prego il signor Simplicio che
mi favorisca di risposta. Quando col medesimo arco fussero tirate due freccie,
una per punta al modo consueto, e l'altra per traverso, cioè posandola
per lo lungo su la corda, e cosí distesa tirandola, vorrei sapere qual di esse
andrebbe piú lontana. Favoritemi in grazia di risposta, benché forse la dimanda
vi paia piú tosto ridicola che altrimenti; e scusatemi, perché io, che ho, come
voi vedete, anzi del grossetto che no, non arrivo piú in alto con la mia
speculativa.
SIMP. Io non ho veduto mai tirar le freccie per
traverso: tuttavia credo che intraversata non andrebbe né anco la ventesima
parte di quel ch'ella va per punta.
SAGR. E perché io ho creduto l'istesso, quindi
è che mi è nata occasione di metter dubbio tra 'l detto
d'Aristotile e l'esperienza. Perché, quanto all'esperienza, s'io metterò
sopra quella tavola due freccie in tempo che spiri vento gagliardo, una posata
per il filo del vento e l'altra intraversata il vento porterà via
speditamente questa e lascierà star l'altra: ed il medesimo par che
dovesse accadere, quando la dottrina d'Aristotile fusse vera, delle due tirate
con l'arco; imperocché la traversa vien cacciata da una gran quantità
dell'aria mossa dalla corda, cioè da tanta quanta è la sua
lunghezza, dove che l'altra freccia non riceve impulso da piú aria che si sia
il piccolissimo cerchietto della sua grossezza: ed io non so immaginarmi la cagione
di tal diversità, e desidererei di saperla.
SIMP. La causa mi par assai manifesta, ed è
perché la freccia tirata per punta ha a penetrar poca quantità d'aria, e
l'altra ne ha da fender tanta quanta è tutta la sua lunghezza.
SAGR. Adunque le freccie tirate hanno a penetrar
l'aria? Oh se l'aria va con loro, anzi è quella che le conduce, che
penetrazione vi può essere? non vedete voi che a questo modo
bisognerebbe che la freccia si movesse con maggior velocità che l'aria?
e questa maggior velocità, chi la conferisce alla freccia? vorrete voi
dir che l'aria le dia velocità maggiore della sua propria? Intendete
dunque, signor Simplicio, che 'l negozio procede per l'appunto a rovescio di
quel che dice Aristotile, e che tanto è falso che 'l mezo conferisca il moto
al proietto, quanto è vero che egli solo è che gli arreca
impedimento: e inteso questo, intenderete senza trovar difficultà che
quando l'aria si muove veramente, molto meglio porta seco la freccia per
traverso che per lo dritto, perché molta è l'aria che la spigne in
quella postura, e pochissima in questa; ma tirate con l'arco, perché l'aria sta
ferma, la freccia traversa, percotendo in molt'aria, molto viene impedita, e
l'altra per punta facilissimamente supera l'ostacolo della minima quantità
d'aria che se le oppone.
SALV. Quante proposizioni ho io notate in
Aristotile (intendendo sempre nella filosofia naturale), che sono non pur
false, ma false in maniera, che la sua diametralmente contraria è vera,
come accade di questa! Ma seguitando il nostro proposito, credo che il signor
Simplicio resti persuaso che dal veder cader la pietra nel medesimo luogo
sempre, non si possa conietturare circa il moto o la stabilità della
nave; e quando il detto sin qui non gli bastasse, ci è l'esperienza di
mezo, che lo potrà del tutto assicurare: nella quale esperienza, al piú
che e' potesse vedere, sarebbe il rimanere indietro il mobile cadente, quando
e' fusse di materia assai leggiera e che l'aria non seguisse il moto della
nave; ma quando l'aria si movesse con pari velocità, niuna immaginabil
diversità si troverebbe né in questa né in qualsivoglia altra
esperienza, come appresso son per dirvi. Or, quando in questo caso non
apparisca diversità alcuna, che si deve pretender di veder nella pietra
cadente dalla sommità della torre, dove il movimento in giro è
alla pietra non avventizio e accidentario, ma naturale ed eterno, e dove l'aria
segue puntualmente il moto della torre, e la torre quel del globo terrestre?
Avete voi, signor Simplicio, da replicar altro sopra questo particulare?
SIMP. Non altro, se non che non veggio sin qui
provata la mobilità della Terra.
SALV. Né io tampoco ho preteso di provarla, ma solo
di mostrare come dall'esperienza portata da gli avversarii per argomento della
fermezza non si può cavar nulla; sí come credo mostrar dell'altre.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, prima che passare
ad altro, concedetemi che io metta in campo certa difficultà che mi si
è raggirata per la fantasia mentre voi stavi con tanta flemma
sminuzolando al signor Simplicio questa esperienza della nave.
SALV. Noi siam qui per discorrere, ed è bene
che ogn'uno muova le difficultà che gli sovvengono, ché questa è
la strada per venir in cognizion del vero. Però dite.
SAGR. Quando sia vero che l'impeto col quale si
muove la nave resti impresso indelebilmente nella pietra, dopo che s'è
separata dall'albero, e sia in oltre vero che questo moto non arrechi
impedimento o ritardamento al moto retto all'ingiú, naturale alla pietra,
è forza che ne segua un effetto meraviglioso in natura. Stia la nave
ferma, e sia il tempo della caduta d'un sasso dalla cima dell'albero due
battute di polso: muovasi poi la nave, e lascisi andar dal medesimo luogo
l'istesso sasso, il quale, per le cose dette, metterà pur il tempo di
due battute ad arrivare a basso, nel qual tempo la nave avrà,
verbigrazia, scorso venti braccia, talché il vero moto della pietra sarà
stato una linea trasversale, assai piú lunga della prima retta e
perpendicolare, che è la sola lunghezza dell'albero: tuttavia la palla l'avrà
passata nel medesimo tempo. Intendasi di nuovo il moto della nave accelerato
assai piú, sí che la pietra nel cadere dovrà passare una trasversale
ancor piú lunga dell'altra; ed insomma, crescendosi la velocità della
nave quanto si voglia, il sasso cadente descriverà le sue trasversali
sempre piú e piú lunghe, e pur tutte le passerà nelle medesime due
battute di polso: ed a questa similitudine, quando in cima di una torre fusse
una colubrina livellata, e con essa si tirassero tiri di punto bianco, cioè
paralleli all'orizonte, per poca o molta carica che si desse al pezzo, sí che
la palla andasse a cadere ora lontana mille braccia, or quattro mila, or sei
mila, or dieci mila etc., tutti questi tiri si spedirebbero in tempi eguali tra
di loro, e ciascheduno eguale al tempo che la palla consumerebbe a venire dalla
bocca del pezzo sino in terra, lasciata, senz'altro impulso, cadere
semplicemente giú a perpendicolo. Or par meravigliosa cosa che nell'istesso
breve tempo della caduta a piombo sino in terra dall'altezza, verbigrazia, di
cento braccia, possa la medesima palla, cacciata dal fuoco, passare or
quattrocento, or mille, or quattromila, ed or diecimila braccia, sí che la
palla in tutti i tiri di punto bianco si trattenga sempre in aria per tempi
eguali.
SALV. La considerazione per la sua novità
è bellissima, e quando l'effetto sia vero, è meraviglioso: e
della sua verità io non ne dubito; e quando non ci fusse l'impedimento
accidentario dell'aria, io tengo per fermo che se nell'uscir la palla del pezzo
si lasciasse cader un'altra dalla medesima altezza giú a piombo, amendue
arriverebbero in terra nel medesimo instante, ancorché quella avesse camminato
diecimila braccia di distanza, e questa cento solamente; intendendo che il
piano della Terra fusse eguale, che per sicurezza si potrebbe tirare sopra
qualche lago. L'impedimento poi che potesse venir dall'aria, sarebbe nel
ritardar il moto velocissimo del tiro. Or, se cosí vi piace, venghiamo alle
soluzioni degli altri argomenti, già che il signor Simplicio resta (per
quanto io mi creda) ben capace della nullità di questo primo, preso da i
cadenti da alto a basso.
SIMP. Io non mi sento rimossi tutti gli scrupoli; e
forse il difetto è mio, per non esser di cosí facile e veloce apprensiva
come il signor Sagredo. E parmi che quando questo moto participato dalla
pietra, mentre era su l'albero della nave, s'avesse, come voi dite, a conservar
indelebilmente in lei, dopo ancora che si trova separata dalla nave,
bisognerebbe che similmente quando alcuno, sendo sopra un cavallo che corresse
velocemente, si lasciasse cader di mano una palla, quella, caduta in terra,
continuasse il suo moto e seguitasse il corso del cavallo senza restargli a
dietro: il quale effetto non credo io che si vegga, se non quando colui ch'è
sul cavallo la gettasse con forza verso la parte del corso; ma senza questo,
credo ch'ella resterà in terra dov'ella percuote.
SALV. Io credo che voi v'inganniate d'assai, e son
sicuro che l'esperienza vi mostrerà il contrario, e che la palla,
arrivata che sia in terra, correrà insieme col cavallo, né gli
resterà indietro se non quanto l'asprezza ed inegualità della
strada l'impedirà: e la ragione mi par pure assai chiara. Imperocché,
quando voi, stando fermo, tiraste per terra la medesima palla, non continuerebbe
ella il moto anco fuor della vostra mano? e per tanto piú lungo intervallo,
quanto la superficie fusse piú eguale, sí che, verbigrazia, sopra il ghiaccio
andrebbe lontanissima?
SIMP. Questo non ha dubbio, quando io gli do impeto
col braccio; ma nell'altro caso si suppone che colui che è sul cavallo
la lasci solamente cadere.
SALV. Cosí voglio io che segua. Ma quando voi la
tirate col braccio, che altro rimane alla palla, uscita che ella vi è di
mano, che il moto concepito dal vostro braccio, il quale, in lei conservato,
continua di condurla innanzi? ora, che importa che quell'impeto sia conferito
alla palla piú dal vostro braccio che dal cavallo? mentre che voi sete a
cavallo, non corre la vostra mano, ed in conseguenza la palla, cosí veloce come
il cavallo stesso? certo sí; adunque, nell'aprir solamente la mano, la palla si
parte col moto già concepito non dal vostro braccio per moto vostro
particolare, ma dal moto dependente dall'istesso cavallo, che vien comunicato a
voi, al braccio, alla mano, e finalmente alla palla. Anzi voglio dirvi di piú,
che se colui nel correre getterà col braccio la palla al contrario del
corso, ella, arrivata che sia in terra, talvolta, ancorché scagliata al
contrario, pur seguiterà il corso del cavallo, e talvolta resterà
ferma in terra, e solamente si muoverà all'opposito del corso, quando il
moto ricevuto dal braccio superasse in velocità quello della carriera.
Ed è una vanità quella di alcuni che dicono, potersi dal
cavaliere lanciare una zagaglia per aria verso la parte del corso, e col
cavallo seguirla e raggiugnerla e finalmente ripigliarla: e dico una
vanità, perché a far che il proietto vi torni in mano, bisogna tirarlo
all'insú, nel modo medesimo che se altri stesse fermo; perché, sia pure il
corso quanto si voglia veloce, purché sia uniforme ed il proietto non sia una
cosa leggierissima, sempre ricaderà in mano al proiciente, e sia pur
gettato in alto quanto si voglia.
SAGR. Da questa dottrina io vengo in cognizione di
alcuni problemi assai curiosi, in materia di questi proietti; il primo de'
quali dovrà parer molto strano al signor Simplicio. E il problema
è questo: ch'io dico che è possibile che lasciata cader
semplicemente la palla da uno che in qualsivoglia modo corra velocemente,
arrivata che ella sia in terra, non solo segua il corso di colui, ma di assai
lo anticipi; il qual problema è connesso con questo, che il mobile
lanciato dal proiciente sopra il piano dell'orizonte, può acquistar
nuova velocità, maggiore assai della conferitagli da esso proiciente. Il
quale effetto ho io piú volte con ammirazione osservato nello stare a veder
costoro che giuocano a tirar con le ruzzole, le quali si veggono, uscite che
son della mano, andar per aria con certa velocità, la qual poi se gli
accresce assai nell'arrivare in terra; e se ruzzolando urtano in qualche
intoppo che le faccia sbalzare in alto, si veggono per aria andar assai
lentamente, e ricadute in terra pur tornano a muoversi con velocità
maggiore: ma quel che è ancora piú stravagante, ho io ancora osservato
che non solamente vanno sempre piú veloci per terra che per aria, ma di due
spazi fatti amendue per terra, tal volta un moto nel secondo spazio è
piú veloce che nel primo. Or che direbbe qui il signor Simplicio?
SIMP. Direi, la prima cosa, di non aver fatta
cotale osservazione; secondariamente, direi di non la credere; direi poi, nel
terzo luogo, che, quando voi me ne accertaste e che demostrativamente me
l'insegnaste, voi fuste un gran demonio.
SAGR. Di quelli però di Socrate, non di quei
dell'Inferno. Ma voi pur tornate su questo insegnare; io vi dico che quando uno
non sa la verità da per sé, è impossibile che altri gliene faccia
sapere; posso bene insegnarvi delle cose che non son né vere né false, ma le
vere, cioè le necessarie, cioè quelle che è impossibile ad
esser altrimenti, ogni mediocre discorso o le sa da sé o è impossibile
che ei le sappia mai: e cosí so che crede anco il signor Salviati. E
però vi dico che de i presenti problemi le ragioni son sapute da voi, ma
forse non avvertite.
SIMP. Lasciamo per ora questa disputa, e
concedetemi ch'io dica che non intendo né so queste cose che si trattano, e
vedete pur di farmi restar capace de' problemi.
SAGR. Questo primo depende da un altro; il quale
è, onde avvenga che, tirando la ruzzola con lo spago, assai piú lontano
ed in conseguenza con maggior forza va, che tirata con la semplice mano.
SIMP. Aristotile ancora fa non so che problemi
intorno a questi proietti.
SALV. Sì, e molto ingegnosi, ed in
particolare quello onde avvenga che le ruzzole tonde vanno meglio che le
quadre.
SAGR. E di questo, signor Simplicio, non vi darebbe
l'animo di sapere la ragione, senza altrui insegnamento?
SIMP. Sì bene, sì bene; ma lasciamo
le beffe.
SAGR. Tanto sapete ancora la ragion di quest'altro.
Ditemi dunque: sapete che una cosa che si muova, quando vien impedita si ferma?
SIMP. Sollo; quando però l'impedimento
è tanto che basti.
SAGR. Sapete voi che maggiore impedimento arreca al
mobile l'avere a muoversi per terra che per aria, essendo la terra scabrosa e
dura, e l'aria molle e cedente?
SIMP. E perché so questo, so che la ruzzola
andrà piú veloce per aria che per terra; talché il mio sapere è
tutto all'opposito di quel che voi stimavi.
SAGR. Adagio, signor Simplicio. Sapete voi che
nelle parti di un mobile che giri intorno al suo centro, si ritrovano movimenti
verso tutte le bande? sí che altre ascendono altre descendono, altre vanno
innanzi, altre all'indietro?
SIMP. Lo so, ed Aristotile me l'ha insegnato.
SAGR. E con qual dimostrazione? ditemela di grazia.
SIMP. Con quella del senso.
SAGR. Adunque Aristotile vi ha fatto vedere quel
che senza lui non avereste veduto? avrebbev'egli prestato mai i suoi occhi? Voi
volevi dire che Aristotile ve l'aveva detto, avvertito, ricordato, e non
insegnato. Quando dunque una ruzzola, senza mutar luogo, gira in se stessa, non
parallela, ma eretta all'orizonte, alcune sue parti ascendono, le opposte
descendono, le superiori vanno per un verso, l'inferiori per il contrario.
Figuratevi ora una ruzzola che, senza mutar luogo, velocemente giri in se stessa
e stia sospesa in aria, e che, in tal guisa girando, sia lasciata cadere in
terra a perpendicolo: credete voi che arrivata che ella sarà in terra,
seguiterà di girare in se stessa senza mutar luogo, come prima?
SIMP. Signor
no.
SAGR. Ma che farà?
SIMP. Correrà per terra velocemente.
SAGR. E verso qual parte?
SIMP. Verso quella dove la porterà la sua
vertigine.
SAGR. Nella sua vertigine ci son delle parti,
cioè le superiori, che si muovono al contrario delle inferiori;
però bisogna dire a quali ella ubidirà: ché quanto alle parti
ascendenti e descendenti, l'une non cederanno all'altre, né 'l tutto
andrà in giú, impedito dalla terra, né in su, per esser grave.
SIMP. Andrà la ruzzola girando per terra
verso quella parte dove tendono le parti sue superiori.
SAGR. E perché non dove tendono le contrarie,
cioè quelle che toccan terra?
SIMP. Perché quelle di terra vengono impedite
dall'asprezza del toccamento, cioè dall'istessa scabrosità della
terra; ma le superiori, che sono nell'aria tenue e cedente, sono impedite
pochissimo o niente, e però la ruzzola andrà per il loro verso.
SAGR. Talché quell'attaccarsi, per cosí dire, le
parti di sotto alla terra, fa ch'elle restano, e solo si spingono avanti le
superiori.
SALV. E però quando la ruzzola cadesse sul
ghiaccio o altra superficie pulitissima, non cosí bene scorrerebbe innanzi, ma
potrebbe per avventura continuar di girare in se stessa, senza acquistar altro
moto progressivo.
SAGR. È facil cosa che cosí seguisse; ma
almeno non cosí speditamente andrebbe ruzzolando, come cadendo su la superficie
alquanto aspra. Ma dicami il signor Simplicio: quando la ruzzola, girando
velocemente in se stessa, vien lasciata cadere, perché non va ella anche per
aria innanzi, come fa poi quando è in terra?
SIMP. Perché, avendo aria di sopra e di sotto, né
queste parti né quelle hanno dove attaccarsi, e non avendo occasione di andar
piú innanzi che indietro, cade a piombo.
SAGR. Talché la sola vertigine in se stessa,
senz'altro impeto, può spigner la ruzzola, arrivata che sia in terra,
assai velocemente. Or venghiamo al resto. Quello spago che il ruzzolante si
lega al braccio, e col quale, avvolto intorno alla ruzzola, e' la tira, che
effetto fa in essa?
SIMP. La costringe a girare in se stessa, per
isvilupparsi dalla corda.
SAGR. Talché quando la ruzzola arriva in terra,
ella vi giugne girando in se stessa, mercé dello spagno. Non ha ella dunque
cagione in se stessa di muoversi più velocemente per terra, che ella non
faceva mentre era per aria?
SIMP. Certo sí: perché per aria non aveva altro
impulso che quel del braccio del proiciente, e se ben aveva ancora la
vertigine, questa (come si è detto) per aria non spigne punto; ma
arrivando in terra, al moto del braccio s'aggiugne la progressione della
vertigine, onde la velocità si raddoppia. E già intendo benissimo
che rimbalzando la ruzzola in alto, la sua velocità scemerà,
perché l'aiuto della circolazione gli manca; e nel ricadere in terra lo viene a
racquistare, e però torna a muoversi piú velocemente che per aria.
Restami solo da intender che in questo secondo moto per terra ella vadia piú
velocemente che nel primo, perchè cosí ella si moverebbe in infinito,
accelerandosi sempre.
SAGR. Io non ho detto assolutamente che questo
secondo moto sia piú veloce del primo, ma che può talvolta accader ch'e'
sia piú veloce.
SIMP. Questo è quello ch'io non capisco e
ch'io vorrei intendere.
SAGR. E questo ancora sapete per voi stesso.
Però ditemi: quando voi vi lasciaste cader la ruzzola di mano senza che
ella girasse in se stessa, che farebbe percotendo in terra?
SIMP. Niente, ma resterebbe quivi.
SAGR. Non potrebb'egli accadere che nel percuotere
in terra ella acquistasse moto? pensateci meglio.
SIMP. Se noi non la lasciassimo cadere su qualche
pietra che avesse pendio, come fanno i fanciulli con le chiose, e che battendo
a sbiescio su la pietra pendente acquistasse movimento in se stessa in giro,
col quale poi ella seguitasse di muoversi progressivamente in terra, non saprei
in qual altra maniera ella potesse far altro che fermarsi dove ella battesse.
SAGR. Ecco pure che in qualche modo ella può
acquistar nuova vertigine. Quando dunque la ruzzola sbalzata in alto ricade in
giú, perché non può ella abbattersi a dare su lo sbiescio di qualche
sasso fitto in terra e che abbia il pendio verso dove è il moto, ed
acquistando, per tal percossa, nuova vertigine, oltre a quella prima dello
spago, raddoppiar il suo moto, e farlo piú veloce che non fu nel suo primo
battere in terra?
SIMP. Ora intendo che ciò può
facilmente seguire. E vo considerando che quando la ruzzola si facesse girare
al contrario, nell'arrivare in terra farebbe contrario effetto, cioè il
moto della vertigine ritarderebbe quel del proiciente.
SAGR. E lo ritarderebbe, e l'impedirebbe tal volta
del tutto, quando la vertigine fusse assai veloce. E di qui nasce la soluzione
di quell'effetto che i giuocatori di palla a corda piú esperti fanno con lor
vantaggio, cioè d'ingannar l'avversario col trinciar (che tale è
il loro termine) la palla, cioè rimetterla con la racchetta obliqua, in
modo che ella acquisti una vertigine in se stessa contraria al moto proietto;
dal che ne séguita che, nell'arrivare in terra, il balzo che, quando la palla
non girasse, andrebbe verso l'avversario, porgendoli il consueto tempo di
poterla rimettere, resta come morto, e la palla si schiaccia in terra, o meno
assai del solito ribalza, e rompe il tempo della rimessa. Per questo anco si
veggono quelli che giuocano con palle di legno a chi piú s'accosta a un segno
determinato, quando giuocano in una strada sassosa e piena d'intoppi, da far
deviar in mille modi la palla né punto andar verso il segno, per isfuggirli
tutti, gettar la palla non ruzzolando per terra, ma di posta per aria, come se
avessero a gettare una piastra piana; ma perché nel gettar la palla ella esce
di mano con qualche vertigine conferitale dalle dita, tuttavoltaché la mano si
tenesse sotto la palla, come comunemente si tiene, onde la palla, nel
percuotere in terra presso al segno, tra 'l moto del proiciente e quel della
vertigine scorrerebbe assai lontana, per far ch'ella si fermi, abbrancano
artifiziosamente la palla, tenendo la mano di sopra e la palla di sotto, alla
quale nello scappar vien conferita dalle dita la vertigine al contrario, per la
quale, nel battere in terra vicino al segno, quivi si ferma o poco piú avanti
scorre. Ma per tornar al principal problema, che è stato causa di far
nascer questi altri, dico che è possibile che uno mosso velocissimamente
si lasci uscir una palla di mano la quale, giunta che sia in terra, non solo séguiti
il moto di colui, ma lo anticipi ancora, movendosi con velocità
maggiore. E per vedere un tal effetto, voglio che il corso sia d'una carretta,
alla quale per banda di fuori sia fermata una tavola pendente, sí che la parte
inferiore resti verso i cavalli e la superiore verso le ruote di dietro. Ora,
se nel maggior corso della carretta alcuno, che vi sia dentro, lascerà
cadere una palla giú per il pendio di quella tavola, ella nel venir giú
ruzzolando acquisterà vertigine in se stessa, la quale, aggiunta al moto
impresso dalla carretta, porterà la palla per terra assai piú
velocemente della carretta: e quando si accomodasse un'altra tavola pendente
all'opposito, si potrebbe temperare il moto della carretta in modo, che la
palla scorsa giú per la tavola, nell'arrivare in terra, restasse immobile, ed
anco talvolta corresse al contrario della carretta. Ma troppo lungamente ci
siam partiti dalla materia; e se il signor Simplicio resta appagato della
soluzione del primo argomento contro alla mobilità della Terra, preso da
i cadenti a perpendicolo, si potrà venire a gli altri.
SALV. Le digressioni fatte sin qui non son talmente
aliene dalla materia che si tratta, che si possan chiamar totalmente separate
da quella; oltreché dependono i ragionamenti da quelle cose che si vanno destando
per la fantasia non a un solo, ma a tre, che anco, di piú, discorriamo per
nostro gusto, né siamo obligati a quella strettezza che sarebbe uno che ex
professo trattasse metodicamente una materia, con intenzione anco di
publicarla. Non voglio che il nostro poema si astringa tanto a quella
unità, che non ci lasci campo aperto per gli episodii, per l'introduzion
de' quali dovrà bastarci ogni piccolo attaccamento, e quasi che noi ci
fussimo radunati a contar favole, quella sia lecito dire a me, che mi farà
sovvenire il sentir la vostra.
SAGR. Questo a me piace grandemente: e già
che noi siamo in questa larghezza, siami lecito, prima che passare piú innanzi,
ricercar da voi, signor Salviati, se mai vi è venuto pensato qual si
possa credere che sia la linea descritta dal mobile grave, naturalmente cadente
dalla cima della torre a basso; e se vi avete fatto sopra reflessione, ditemi
in grazia il vostro pensiero.
SALV. Io ci ho talvolta pensato: e non dubito punto
che quando altri fusse sicuro della natura del moto col quale il grave descende
per condursi al centro del globo terrestre, mescolandolo poi col movimento
comune circolare della conversion diurna, si troverrebbe precisamente qual
sorte di linea sia quella che dal centro della gravità del mobile vien
descritta nella composizion di tali due movimenti.
SAGR. Del semplice movimento verso il centro,
dependente dalla gravità, credo che si possa assolutamente senza errore
credere che sia per linea retta, quale appunto sarebbe quando la Terra fusse
immobile.
SALV. Quanto a questa parte, non solamente possiamo
crederla, ma l'esperienza ce ne rende certi.
SAGR. Ma come ce ne assicura l'esperienza, se noi
non veggiamo mai altro moto che il composto delli due, circolare ed in giú?
SALV. Anzi pur, signor Sagredo, non veggiamo noi
altro che il semplice in giú, avvenga che l'altro circolare, comune alla Terra
alla torre ed a noi, resta impercettibile e come nullo, e solo ci resta
notabile quello della pietra, non participato da noi; e di questo il senso
dimostra che sia per linea retta, venendo sempre parallelo alla stessa torre,
che sopra la superficie terrestre è fabbricata rettamente ed a
perpendicolo.
SAGR. Avete ragione, e ben troppo dappoco mi son
dimostrato, mentre non m'è sovvenuto una cosa sí facile. Ma già
che questo è notissimo, che altro dite voi di desiderare per intender la
natura di questo movimento a basso?
SALV. Non basta intender che sia retto, ma bisogna
sapere se sia uniforme o pure difforme, cioè se mantenga sempre
un'istessa velocità o pur si vadia ritardando o accelerando.
SAGR. Già è chiaro che si va
accelerando continuamente.
SALV. Né questo basta, ma converrebbe sapere
secondo qual proporzione si faccia tal accelerazione: problema, che sin qui non
credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno, ancorché da
filosofi, ed in particolare Peripatetici, sieno stati volumi intieri, e
grandissimi, scritti intorno al moto.
SIMP. I filosofi si occupano sopra gli universali
principalmente; trovano le definizioni ed i piú comuni sintomi, lasciando poi
certe sottigliezze e certi tritumi, che son poi piú tosto curiosità, a i
matematici: ed Aristotile si è contentato di definire eccellentemente
che cosa sia il moto in universale, e del locale mostrare i principali
attributi, cioè che altro è naturale, altro violento, che altro
è semplice, altro è composto, che altro è equabile, altro
accelerato; e dell'accelerato si è contentato di render la ragione dell'accelerazione,
lasciando poi l'investigazione della proporzione di tale accelerazione e di
altri piú particolari accidenti al mecanico o ad altro inferiore artista.
SAGR. Tutto bene, signor Simplicio mio. Ma voi,
signor Salviati, calandovi talvolta dal trono della maestà peripatetica,
avete mai scherzato intorno all'investigazione di questa proporzione
dell'accelerazione del moto de' gravi descendenti?
SALV. Non mi è stato bisogno di pensarvi,
attesoché l'Accademico, nostro comun amico, mi mostrò già un suo
trattato del moto, dove era dimostrato questo, con molti altri accidenti; ma
troppo gran digressione sarebbe se per questo volessimo interromper il presente
discorso, che pure esso ancora è una digressione, e far, come si dice,
una commedia in commedia.
SAGR. Mi contento d'assolvervi da tal narrazione
per al presente, con patto però che questa sia una delle proposizioni
riservata da esaminarsi tra le altre in altra particolar sessione, perché tal
notizia è da me desideratissima: ed intanto torniamo alla linea
descritta dal grave cadente dalla sommità della torre sino alla sua
base.
SALV. Quando il movimento retto verso il centro
della Terra fusse uniforme, essendo anco uniforme il circolare verso oriente,.
si verrebbe a comporre di amendue un moto per una linea spirale, di quelle
definite da Archimede nel libro delle sue spirali, che sono quando un punto si
muove uniformemente sopra una linea retta, mentre essa pur uniformemente si
gira intorno a un de i suoi estremi punti, fisso come centro del suo rivolgimento.
Ma perché il moto retto del grave cadente è continuamente accelerato,
è forza che la linea del composto de i due movimenti si vadia sempre con
maggior proporzione allontanando successivamente dalla circonferenza di quel
cerchio che avrebbe disegnato il centro della gravità della pietra
quando ella fusse restata sempre sopra la torre; e bisogna che questo
allontanamento sul principio sia piccolo, anzi minimo, anzi pur minimissimo,
avvengaché il grave descendente, partendosi dalla quiete, cioè dalla privazion
del moto a basso, ed entrando nel moto retto in giú, è forza che passi
per tutti i gradi di tardità che sono tra la quiete e qualsivoglia
velocità, li quali gradi sono infiniti, sí come già a lungo si
è discorso e concluso.
Stante dunque che tale sia il progresso
dell'accelerazione, ed essendo oltre di ciò vero che il grave
descendente va per terminare nel centro della Terra, bisogna che la linea del
suo moto composto sia tale, che ben si vadia sempre con maggior proporzione
allontanando dalla cima della torre, o, per dir meglio, dalla circonferenza del
cerchio descritto dalla cima della torre per la conversion della Terra, ma che
tali discostamenti sieno minori e minori in infinito, quanto meno e meno il
mobile si trova essersi scostato dal primo termine dove posava. Oltre di
ciò è necessario che questa tal linea del moto composto vadia a
terminar nel centro della Terra. Or, fatti questi due presupposti, venni
già descrivendo intorno al centro A col semidiametro A B il cerchio B I,
rappresentantemi il globo terrestre; e prolungando il semidiametro AB in C,
descrissi l'altezza della torre BC, la quale, portata dalla Terra sopra la
circonferenza B I, descrive con la sua sommità l'arco C D; divisa poi la
linea C A in mezo in E, col centro E, intervallo E C, descrivo il mezo cerchio
C I A, per il quale dico ora che assai probabilmente si può credere che
una pietra, cadendo dalla sommità della torre C, venga movendosi del
moto composto del comune circolare e del suo proprio retto.
Imperocché, segnando nella circonferenza C D alcune parti eguali C
F, F G, G H, H L, e da i punti F, G, H, L tirate verso il centro A linee rette,
le parti di esse intercette fra le due circonferenze C D, B I ci
rappresenteranno sempre la medesima torre C B, trasportata dal globo terrestre
verso D I, nelle quali linee i punti dove esse vengono segate dall'arco del
mezo cerchio C I sono i luoghi dove di tempo in tempo la pietra cadente si
ritrova; li quali punti si vanno sempre con maggior proporzione allontanando
dalla cima della torre, che è quello che fa che il moto retto fatto
lungo la torre ci si mostra sempre piú e piú accelerato. Vedesi ancora come,
mercé della infinita acutezza dell'angolo del contatto delli due cerchi D C, C
I, il discostamento del cadente dalla circonferenza CFD, cioè dalla cima
della torre, è verso il principio piccolissimo, che è quanto a
dire il moto in giú esser lentissimo, e piú e piú tardo in infinito secondo la
vicinità al termine C, cioè allo stato della quiete; e finalmente
s'intende come in ultimo tal moto andrebbe a terminar nel centro della Terra A.
SAGR. Intendo perfettamente il tutto, né posso
credere che 'l mobile cadente descriva col centro della sua gravità
altra linea che una simile.
SALV. Ma piano, signor Sagredo; ché io ho da
portarvi ancora tre mie meditazioncelle, che forse non vi dispiaceranno. La
prima delle quali è, che se noi ben consideriamo, il mobile non si muove
realmente d'altro che di un moto semplice circolare, sí come quando posava
sopra la torre pur si muoveva di un moto semplice e circolare. La seconda
è ancora piú bella: imperocché egli non si muove punto piú o meno che se
fusse restato continuamente su la torre, essendo che a gli archi C F, F G, G H,
etc., che egli avrebbe passati stando sempre su la torre, sono precisamente
eguali gli archi della circonferenza C I rispondenti sotto gli stessi C F, F G,
G H, etc. Dal che ne séguita la terza meraviglia: che il moto vero e reale
della pietra non vien altrimenti accelerato, ma è sempre equabile ed
uniforme, poiché tutti gli archi eguali notati nella circonferenza C D ed i
loro corrispondenti segnati nella circonferenza C I vengono passati in tempi
eguali. Talché noi venghiamo liberi di ricercar nuove cause di accelerazione o
di altri moti, poiché il mobile, tanto stando su la torre quanto scendendone,
sempre si muove nel modo medesimo, cioè circolarmente, con la medesima
velocità e la medesima uniformità. Or ditemi quel che vi pare di
questa mia bizzarria.
SAGR. Dicovi che non potrei a bastanza con parole
esprimer quanto ella mi par maravigliosa: e per quanto al presente mi si
rappresenta all'intelletto, io non credo che il negozio passi altrimenti; e
volesse Dio che tutte le dimostrazioni de' filosofi avesser la metà
della probabilità di questa. Vorrei bene, per mia intera sodisfazione,
sentir la prova come quelli archi sieno eguali.
SALV. La dimostrazion è facilissima.
Intendete esser tirata questa linea I E; ed essendo il semidiametro del cerchio
C D, cioè la linea C A, doppio del semidiametro C E del cerchio C I,
sarà la circonferenza doppia della circonferenza, ed ogn'arco del
maggior cerchio doppio di ogni arco simile del minore, ed in conseguenza la
metà dell'arco del cerchio maggiore eguale all'arco del minore: e perché
l'angolo C E I, fatto nel centro E del minor cerchio e che insiste su l'arco C
I, è doppio dell'angolo C A D, fatto nel centro A del cerchio maggiore,
al quale suttende l'arco C D, adunque l'arco C D è la metà
dell'arco del maggior cerchio simile all'arco C I, e però sono li due
archi C D, C I eguali: e nell'istesso modo si dimostrerrà di tutte le
parti. Ma che il negozio, quanto al moto de i gravi descendenti, proceda cosí
puntualmente, io per ora non lo voglio affermare; ma dirò bene che se la
linea descritta dal cadente non è questa per l'appunto, ella gli
è sommamente prossima.
SAGR. Ma io, signor Salviati, vo pur ora
considerando un'altra cosa mirabile: e questa è, che stanti queste
considerazioni, il moto retto vadia del tutto a monte e che la natura mai non
se ne serva, poiché anco quell'uso che da principio gli si concedette, che fu
di ridurre al suo luogo le parti de i corpi integrali quando fussero dal suo
tutto separate e però in prava disposizione costituite, gli vien levato,
ed assegnato pur al moto circolare.
SALV. Questo seguirebbe necessariamente quando si
fusse concluso, il globo terrestre muoversi circolarmente, cosa che io non
pretendo che sia fatta, ma solamente si è andato sin qui, e si
andrà, considerando la forza delle ragioni che vengono assegnate da i
filosofi per prova dell'immobilità della Terra: delle quali questa
prima, presa da i cadenti a perpendicolo, patisce le difficultà che
avete sentite; le quali non so di quanto momento sieno parse al signor
Simplicio, e però, prima che passare al cimento de gli altri argomenti,
sarebbe bene ch'ei producesse se cosa ha da replicare in contrario.
SIMP. Quanto a questo primo, confesso veramente
aver sentito varie sottigliezze alle quali non avevo pensato, e come che elle
mi giungono nuove, non posso aver le risposte cosí in pronto. Ma questo, preso
da i cadenti a perpendicolo, non l'ho per de i piú gagliardi argomenti per
l'immobilità della Terra, e non so quello che accaderà de i tiri
dell'artiglierie, e massime di quelli contro al moto diurno.
SAGR. Tanto mi desse fastidio il volar de gli
uccelli, quanto mi fanno difficultà le artiglierie e tutte le altre
esperienze arrecate di sopra! Ma questi uccelli, che ad arbitrio loro volano
innanzi e 'n dietro e rigirano in mille modi, e, quel che importa piú, stanno
le ore intere sospesi per aria, questi, dico, mi scompigliano la fantasia, né
so intendere come tra tante girandole e' non ismarriscano il moto della Terra,
o come e' possin tener dietro a una tanta velocità, che finalmente
supera a parecchi e parecchi doppi il lor volo.
SALV. Veramente il dubitar vostro non è
senza ragione, e forse il Copernico stesso non ne dovette trovar scioglimento
di sua intera sodisfazione, e perciò per avventura lo tacque; se ben
anco nell'esaminar l'altre ragioni in contrario fu assai conciso, credo per
altezza d'ingegno, e fondato su maggiori e piú alte contemplazioni, nel modo
che i leoni poco si muovono per l'importuno abbaiar de i picciol cani.
Serberemo dunque l'instanza de gli uccelli in ultimo, e 'n tanto cercheremo di
dar sodisfazione al signor Simplicio nell'altre, col mostrargli, al modo
solito, che egli stesso ha le soluzioni in mano, se bene non se n'accorge. E
facendo principio da i tiri di volata, fatti, col medesimo pezzo polvere e
palla, l'uno verso oriente e l'altro verso occidente, dicami qual cosa sia
quella che lo muove a credere che 'l tiro verso occidente (quando la revoluzion
diurna fusse del globo terrestre) dovrebbe riuscir piú lungo assai che l'altro
verso levante.
SIMP. Muovomi a cosí credere, perché nel tiro verso
levante la palla, mentre che è fuori dell'artiglieria, viene seguita
dall'istessa artiglieria, la quale, portata dalla Terra pur velocemente corre
verso la medesima parte, onde la caduta della palla in terra vien poco lontana
dal pezzo. All'incontro nel tiro occidentale, avanti che la palla percuota in
terra, il pezzo si è ritirato assai verso levante, onde lo spazio tra la
palla e'l pezzo, cioè il tiro, apparirà piú lungo dell'altro
quanto sarà stato il corso dell'artiglieria, cioè della Terra,
ne' tempi che amendue le palle sono state per aria.
SALV. Io vorrei che noi trovassimo qualche modo di
far una esperienza corrispondente al moto di questi proietti, come quella della
nave al moto de i cadenti da alto a basso, e vo pensando la maniera.
SAGR. Credo che prova assai accomodata sarebbe il
pigliare una carrozzetta scoperta, ed accomodare in essa un balestrone da
bolzoni a meza elevazione, acciò il tiro riuscisse il massimo di tutti,
e mentre i cavalli corressero, tirare una volta verso la parte dove si corre, e
poi un'altra verso la contraria, facendo benissimo notare dove si trova la
carrozza in quel momento di tempo che 'l bolzone si ficca in terra, sí nell'uno
come nell'altro tiro; ché cosí potrà vedersi per appunto quanto l'uno riesce
maggior dell'altro.
SIMP. Parmi che tale esperienza sia molto
accomodata; e non ho dubbio che 'l tiro, cioè che lo spazio tra la
freccia e dove si trova la carrozza nel momento che la freccia si ficca in
terra, sarà minore assai quando si tira verso il corso della carrozza,
che quando si tira per l'opposito. Sia, per esempio, il tiro in se stesso
trecento braccia, e 'l corso della carrozza, nel tempo che il bolzone sta per
aria, sia braccia cento: adunque, tirandosi verso il corso, delle trecento
braccia del tiro la carrozzetta ne passa cento, onde nella percossa del bolzone
in terra lo spazio tra esso e la carrozza sarà braccia dugento
solamente; ma all'incontro nell'altro tiro, correndo la carrozza al contrario
del bolzone, quando il bolzone arà passate le sue trecento braccia e la
carrozza le sua cento altre in contrario, la distanza traposta si
troverà esser di braccia quattrocento.
SALV. Sarebbec'egli modo alcuno per far che questi
tiri riuscissero eguali?
SIMP. Io non saprei altro modo che col far star
ferma la carrozza.
SALV. Questo si sa: ma io domando, facendo correr
la carrozza a tutto corso.
SIMP. Chi non ingagliardisse l'arco nel tirar
secondo il corso, e poi l'indebolisse per tirar contro al corso.
SALV. Ecco dunque che pur ci è qualch'altro
rimedio. Ma quanto bisognerebbe ingagliardirlo di piú, e quanto poi
indebolirlo?
SIMP. Nell'esempio nostro, dove aviamo supposto che
l'arco tirasse trecento braccia, bisognerebbe, per il tiro verso il corso,
ingagliardirlo sí che tirasse braccia quattrocento, e per l'altro indebolirlo
tanto che non tirasse piú di dugento, perché cosí l'uno e l'altro tiro
riuscirebbe di braccia trecento in relazione alla carrozza, la quale col suo
corso di cento braccia, che ella sottrarrebbe al tiro delle quattrocento e
l'aggiugnerebbe a quel delle dugento, verrebbe a ridurgli amendue alle
trecento.
SALV. Ma che effetto fa nella freccia la maggior o
minor gagliardia dell'arco?
SIMP. L'arco gagliardo la caccia con maggior
velocità, e 'l piú debole con minore; e l'istessa freccia va tanto piú
lontana una volta che l'altra, con quanta maggior velocità ella esce
della cocca l'una volta che l'altra.
SALV. Talché per far che la freccia tirata tanto
per l'uno quanto per l'altro verso s'allontani egualmente dalla carrozza
corrente, bisogna che se nel primo tiro dell'esempio proposto ella si parte,
verbigrazia, con quattro gradi di velocità, nell'altro tiro ella si
parta con due solamente. Ma se si adopra il medesimo arco, da esso ne riceve
sempre tre gradi.
SIMP. Cosí è; e per questo, tirando con
l'arco medesimo, nel corso della carrozza i tiri non posson riuscire eguali.
SALV. Mi ero scordato di domandar con che
velocità si suppone, pur in questa esperienza particolare, che corra la
carrozza.
SIMP. La velocità della carrozza bisogna
supporla di un grado, in comparazione di quella dell'arco, che è tre.
SALV. Sí, sí, cosí torna il conto giusto. Ma
ditemi: quando la carrozza corre, non si muovono ancora con la medesima
velocità tutte le cose che son nella carrozza?
SIMP. Senza dubbio.
SALV. Adunque il bolzone ancora, e l'arco, e la
corda su la quale è teso.
SIMP. Cosí è.
SALV. Adunque, nello scaricare il bolzone verso il
corso della carrozza l'arco imprime i suoi tre gradi di velocità in un
bolzone che ne ha già un grado, mercé della carrozza che verso quella
parte con tanta velocità lo porta, talché nell'uscir della cocca e' si
trova con quattro gradi di velocità; ed all'incontro, tirando per
l'altro verso, il medesimo arco conferisce i suoi medesimi tre gradi in un
bolzone che si muove in contrario con un grado, talché nel separarsi dalla
corda non gli restano altro che dua soli gradi di velocità. Ma
già voi stesso avete deposto che per fare i tiri eguali bisogna che il
bolzone si parta una volta con quattro gradi e l'altra con due: adunque, senza mutar
arco, l'istesso corso della carrozza è quello che aggiusta le partite, e
l'esperienza è poi quella che le sigilla a coloro che non volessero o
non potessero esser capaci della ragione. Ora applicate questo discorso
all'artiglieria, e troverete che, muovasi la Terra o stia ferma, i tiri fatti
dalla medesima forza hanno a riuscir sempre eguali, verso qualsivoglia parte
indrizzati. L'errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti
gli altri, ha radice in quella fissa e inveterata impressione, che la Terra
stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete
filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; e cosí
nell'altro argomento, non considerando che mentre che la pietra è su la
torre, fa, circa il muoversi o non muoversi, quel che fa il globo terrestre,
perché avete fisso nella mente che la Terra stia ferma, discorrete intorno alla
caduta del sasso sempre come se si partisse dalla quiete, dove che bisogna
dire: Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende
perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresí si muove con
pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della
Terra, col quale mescola il sopravegnente in giú e ne compone un trasversale.
SIMP. Ma, Dio buono, come, se ella si muove
trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? questo
è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso,
per qual altra porta si deve entrare a filosofare?
SALV. Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che
tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto
diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile,
è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale
noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. Voi non sete
il primo che senta gran repugnanza in apprender questo nulla operar il moto tra
le cose delle quali egli è comune.
SAGR. Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento,
che mi passò un giorno per l'immaginativa mentre navigava nel viaggio di
Aleppo, dove andava consolo della nostra nazione; e forse potrebb'esser di
qualche aiuto, per esplicar questo nulla operare del moto comune ed esser come
se non fusse per tutti i participanti di quello: e voglio, se cosí piace al
signor Simplicio, discorrer seco quello che allora fantasticava da me solo.
SIMP. La novità delle cose che sento mi fa
curioso, non che tollerante, di ascoltare: però dite pure.
SAGR. Se la punta di una penna da scrivere, che
fusse stata in nave per tutta la mia navigazione da Venezia sino in
Alessandretta, avesse avuto facultà di lasciar visibil segno di tutto il
suo viaggio, che vestigio, che nota, che linea avrebb'ella lasciata?
SIMP. Avrebbe lasciato una linea distesa da Venezia
sin là, non perfettamente diritta o, per dir meglio, distesa in perfetto
arco di cerchio, ma dove piú e dove meno flessuosa, secondo che il vassello
fusse andato or piú or meno fluttuando; ma questo inflettersi in alcuni luoghi
un braccio o due, a destra o a sinistra, in alto o a basso, in una lunghezza di
molte centinaia di miglia piccola alterazione arebbe arrecato all'intero tratto
della linea, sí che a pena sarebbe stato sensibile, e senza error di momento si
sarebbe potuta chiamare una parte d'arco perfetto.
SAGR. Sì che il vero, vero, verissimo moto
di quella punta di penna sarebbe anco stato un arco di cerchio perfetto, quando
il moto del vassello, tolta la fluttuazion dell'onde, fusse stato placido e
tranquillo. E se io avessi tenuta continuamente quella medesima penna in mano,
e solamente l'avessi talvolta mossa un dito o due in qua o in là, qual
alterazione arei io arrecata a quel suo principale e lunghissimo tratto?
SIMP. Minore di quella che arrecherebbe a una linea
retta lunga mille braccia il declinar in varii luoghi dall'assoluta rettitudine
quanto è un occhio di pulce.
SAGR. Quando dunque un pittore nel partirsi dal
porto avesse cominciato a disegnar sopra una carta con quella penna, e
continuato il disegno sino in Alessandretta, avrebbe potuto cavar dal moto di
quella un'intera storia di molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate
per mille e mille versi, con paesi, fabbriche, animali ed altre cose, se ben
tutto il vero, reale ed essenzial movimento segnato dalla punta di quella penna
non sarebbe stato altro che una ben lunga ma semplicissima linea; e quanto
all'operazion propria del pittore, l'istesso a capello avrebbe delineato quando
la nave fusse stata ferma. Che poi del moto lunghissimo della penna non resti
altro vestigio che quei tratti segnati su la carta, la cagione ne è
l'essere stato il gran moto da Venezia in Alessandretta comune della carta e
della penna e di tutto quello che era in nave; ma i moti piccolini, innanzi e
'n dietro, a destra ed a sinistra, comunicati dalle dita del pittore alla penna
e non al foglio, per esser proprii di quella, potettero lasciar di sé vestigio
su la carta, che a tali movimenti restava immobile. Cosí parimente è
vero, che movendosi la Terra, il moto della pietra, nel venire a basso,
è stato realmente un lungo tratto di molte centinaia ed anco di molte
migliaia di braccia, e se avesse potuto segnare in un'aria stabile o altra
superficie il tratto del suo corso, averebbe lasciata una lunghissima linea
trasversale; ma quella parte di tutto questo moto che è comune del
sasso, della torre e di noi, ci resta insensibile e come se non fusse, e solo
rimane osservabile quella parte della quale né la torre né noi siamo partecipi,
che è in fine quello con che la pietra, cadendo, misura la torre.
SALV. Sottilissimo pensiero per esplicar questo
punto, assai difficile per esser capito da molti. Or, se il signor Simplicio
non vuol replicar altro, possiamo passare all'altre esperienze, lo scioglimento
delle quali riceverà non poca agevolezza dalle cose dichiarate sin qui.
SIMP. Io non ho che dir altro, ed era mezo astratto
su quel disegno, e sul pensare come quei tratti tirati per tanti versi, di qua,
di là, in su, in giú, innanzi, in dietro, e 'ntrecciati con centomila
ritortole, non sono, in essenza e realissimamente, altro che pezzuoli di una
linea sola tirata tutta per un verso medesimo, senza verun'altra alterazione
che il declinar dal tratto dirittissimo talvolta un pochettino a destra e a
sinistra e il muoversi la punta della penna or piú veloce ed or piú tarda, ma
con minima inegualità: e considero che nel medesimo modo si scriverebbe
una lettera, e che questi scrittori piú leggiadri, che, per mostrar la
scioltezza della mano, senza staccar la penna dal foglio, in un sol tratto segnano
con mille e mille ravvolgimenti una vaga intrecciatura, quando fussero in una
barca che velocemente scorresse, convertirebbero tutto il moto della penna, che
in essenza è una sola linea tirata tutta verso la medesima parte e
pochissimo inflessa o declinante dalla perfetta drittezza, in un ghirigoro: ed
ho gran gusto che il signor Sagredo m'abbia destato questo pensiero.
Però seguitiamo innanzi, ché la speranza di poterne sentir de gli altri
mi terrà piú attento.
SAGR. Quando voi aveste curiosità di sentir
di simili arguzie, che non sovvengono cosí a ognuno, non ce ne mancano, e
massime in questa cosa della navigazione. E non vi parrà un bel pensiero
quello che mi sovvenne pur nella medesima navigazione, quando mi accorsi che
l'albero della nave, senza rompersi o piegarsi, aveva fatto piú viaggio con la
gaggia, cioè con la cima, che col piede? perché la cima, essendo piú
lontana dal centro della Terra che non è il piede, veniva ad aver
descritto un arco di un cerchio maggiore del cerchio per il quale era passato
il piede.
SIMP. E cosí, quand'un uomo cammina, fa piú viaggio
col capo che co i piedi?
SAGR. L'avete da per voi stesso e di vostro ingegno
penetrata benissimo. Ma non interrompiamo il signor Salviati.
SALV. Mi piace di veder che il signor Simplicio si
va addestrando, se però il pensiero è suo, e non l'ha imparato da
certo libretto di conclusioni, dove ne sono parecchi altri non men vaghi e
arguti. Segue che noi parliamo dell'artiglieria eretta a perpendicolo sopra
l'orizonte, cioè del tiro verso il nostro vertice, e finalmente del
ritorno della palla per l'istessa linea sopra l'istesso pezzo, ancorché nella
lunga dimora che ella sta separata dal pezzo, la Terra l'abbia per molte miglia
portato verso levante, e par che per tanto spazio dovrebbe la palla cader
lontana dal pezzo verso occidente; il che non accade; adunque l'artiglieria,
senza essersi mossa, l'ha aspettata. La soluzione è l'istessa che quella
della pietra cadente dalla torre, e tutta la fallacia e l'equivocazione
consiste nel suppor sempre per vero quello che è in quistione; perché
l'avversario ha sempre fermo nel concetto che la palla si parta dalla quiete,
nel venir cacciata dal fuoco fuor del pezzo, e partirsi dallo stato di quiete
non può esser se non supposta la quiete del globo terrestre, che
è poi la conclusione di che si quistioneggia. Replico per tanto che
quelli che fanno la Terra mobile, rispondono che l'artiglieria e la palla che
vi è dentro participano il medesimo moto che ha la Terra, anzi che
questo, insieme con lei, hann'eglino da natura, e che però la palla non
si parte altrimenti dalla quiete, ma congiunta co 'l suo moto intorno al
centro, il quale dalla proiezione in su non le vien né tolto né impedito, ed in
tal guisa, seguitando il moto universale della Terra verso oriente, sopra
l'istesso pezzo di continuo si mantiene, sí nell'alzarsi come nel ritorno: e
l'istesso vedrete voi accadere facendo l'esperienza in nave di una palla tirata
in su a perpendicolo con una balestra, la quale ritorna nell'istesso luogo,
muovasi la nave o stia ferma.
SAGR. Questo sodisfà benissimo al tutto: ma
perché ho veduto che il signor Simplicio prende gusto di certe arguzie da
chiappar (come si dice) il compagno, gli voglio domandare se, supposto per ora
che la Terra stia ferma, e sopra essa l'artiglieria eretta perpendicolarmente e
drizzata al nostro zenit, egli ha difficultà nessuna in intender che
quello è il vero tiro a perpendicolo, e che la palla nel partirsi e nel
ritorno sia per andar per l'istessa linea retta, intendendo sempre rimossi tutti
gli impedimenti esterni ed accidentarii.
SIMP. Io intendo che il fatto deva succeder cosí
per appunto.
SAGR. Ma quando l'artiglieria si piantasse non a
perpendicolo, ma inclinata verso qualche parte, qual dovrebbe essere il moto
della palla? andrebbe ella forse, come nell'altro tiro, per la linea
perpendicolare, e ritornando anco poi per l'istessa?
SIMP. Questo non farebb'ella, ma uscita del pezzo
seguiterebbe il suo moto per la linea retta che continua la dirittura della
canna, se non in quanto il proprio peso la farebbe declinar da tal dirittura
verso terra.
SAGR. Talché la dirittura della canna è la
regolatrice del moto della palla, né fuori di tal linea si muove, o muoverebbe,
se 'l peso proprio non la facesse declinare in giú: e però, posta la canna
a perpendicolo e cacciata la palla in su, ella ritorna per l'istessa linea
retta in giú, perché il moto della palla dependente dalla sua gravità
è in giú per la medesima perpendicolare. Il viaggio dunque della palla
fuor del pezzo continua la dirittura di quella particella di viaggio che ella
ha fatto dentro al pezzo: non sta cosí?
SIMP. Cosí pare a me.
SAGR. Ora figuratevi la canna eretta a
perpendicolo, e che la Terra si volga in se stessa co 'l moto diurno e seco
porti l'artiglieria: ditemi qual sarà il moto della palla dentro alla
canna, dato che si sia fuoco?
SIMP. Sarà un moto retto e perpendicolare,
essendo la canna drizzata a perpendicolo.
SAGR. Considerate bene, perch'io credo ch'e' non
sarà perpendicolare altrimenti. Sarebbe bene a perpendicolo se la Terra
stesse ferma, perché cosí la palla non avrebbe altro moto che quello che le
venisse dal fuoco; ma quando la Terra giri, la palla che è nel pezzo ha
essa ancora il moto diurno, talché, sopravvenendole l'impulso del fuoco, ella
cammina, dalla culatta del pezzo alla bocca, di due movimenti, dal composto de'
quali ne risulta, il moto fatto dal centro della gravità della palla
essere una linea inclinata.
E per piú
chiara intelligenza, sia l'artiglieria A C eretta, ed in essa la palla B:
è manifesto che stando il pezzo immobile, e datogli fuoco, la palla
uscirà per la bocca A, ed avrà co 'l suo centro, camminando per
il pezzo, descritta la linea perpendicolare B A, e quella dirittura andrà
seguitando fuor del pezzo, movendosi verso il vertice. Ma quando la Terra
andasse in volta, ed in conseguenza seco portasse l'artiglieria, nel tempo che
la palla cacciata dal fuoco si muovesse per la canna, l'artiglieria portata
dalla Terra passerebbe nel sito D E, e la palla B nello sboccare sarebbe alla
gioia D, ed il moto del centro della palla sarebbe stato secondo la linea B D,
non piú perpendicolare, ma inclinata verso levante; e dovendo (come già
s'è concluso) continuar la palla il suo moto per l'aria secondo la direzion
del moto fatto nel pezzo, il moto seguirà conforme all'inclinazion della
linea B D: e cosí non sarà altrimenti perpendicolare, ma inclinato verso
levante, verso dove ancora cammina il pezzo, onde potrà la palla seguire
il moto della Terra e del pezzo. Or eccovi, signor Simplicio, mostrato come il
tiro che pareva dover esser a perpendicolo, non è altrimenti.
SIMP. Io non resto ben capace di questo negozio; e
voi, signor Salviati?
SALV. Io ne resto in parte; ma vi ho non so che
scrupolo, che Dio voglia ch'io lo sappia spiegare. E' mi pare che, conforme a
questo che si è detto, quando il pezzo sia a perpendicolo e la Terra si
muova, la palla non solo non avrebbe a ricader, come vuole Aristotile e Ticone,
lontana dal pezzo verso occidente, ma né anco, come volete voi, sopra il pezzo,
anzi assai lontano verso levante; perché, conforme alla vostra esplicazione,
ella avrebbe due moti, li quali concordemente la caccerebbero verso quella
parte, cioè il moto comune della Terra, che porta l'artiglieria e la
palla da C A verso E D, ed il fuoco, che la caccia per la linea inclinata B D,
moti amendue verso levante, e però superiori al moto della Terra.
SAGR. No, Signore. Il moto che porta la palla verso
levante vien tutto dalla Terra, ed il fuoco non ve ne ha parte alcuna; il moto
che spigne la palla in su, è tutto del fuoco, né vi ha che far punto la
Terra: e che sia vero, non date fuoco, che mai non uscirà la palla fuor
del pezzo, né pur si alzerà un capello: come ancora, fermate la Terra e
date fuoco; la palla, senza punto inclinarsi, andrà per la
perpendicolare. Avendo dunque la palla due moti, uno in su e l'altro in giro,
de' quali si compone il traversale B D, l'impulso in su è tutto del
fuoco, il circolare vien tutto dalla Terra ed a quel della Terra è
eguale; e perché gli è eguale, la palla si mantien sempre a perpendicolo
sopra la bocca dell'artiglieria, e finalmente in quella ricade; e mantenendosi
sempre sopra la dirittura del pezzo, apparisce ancora continuamente sopra il
capo di chi è vicino al pezzo, e però ci pare che ella giusto a
perpendicolo salga verso il nostro vertice.
SIMP. A me resta un'altra difficultà, ed
è che, per esser il moto della palla nel pezzo velocissimo, non par
possibile che in quel momento di tempo la trasposizion dell'artiglieria da C A
in E D conferisca inclinazion tale alla linea trasversale C D, che mercé di
essa la palla poi per aria possa tener dietro al corso della Terra.
SAGR. Voi errate in piú conti. E prima,
l'inclinazion della trasversale C D credo che sia molto maggiore di quello che
voi vi immaginate, perché tengo senza dubbio che la velocità del moto
terrestre, non solo sotto l'equinoziale, ma nel nostro parallelo ancora, sia
maggior che quella della palla, mentre si muove dentro al pezzo; sí che
l'intervallo C E sarebbe assolutamente maggiore che tutta la lunghezza del
pezzo, e l'inclinazione della traversale maggiore, in conseguenza, di mezzo
angolo retto. Ma, o sia poca o sia molta la velocità della Terra in
comparazione di quella del fuoco, questo non importa niente, perché, se la
velocità della Terra è poca, ed in conseguenza poca
l'inclinazione della trasversale, di poca inclinazione ci è anco di
bisogno per far che la palla continui di mantenersi nella sua volata sopra il
pezzo: ed insomma, se voi attentamente andrete considerando, comprenderete che
il moto della Terra, co 'l trasferir seco il pezzo da C A in E D, conferisce
alla trasversale C D quel di meno o di piú inclinazione che si ricerca per
aggiustare il tiro al suo bisogno. Ma errate secondariamente, mentre voleste
riconoscer la facultà del tener dietro la palla al moto della Terra
dall'impeto del fuoco, e ricadete nell'errore in che pareva esser incorso poco
fa il signor Salviati; perché il tener dietro alla Terra è
l'antichissimo e perpetuo moto participato indelebilmente ed inseparabilmente
da essa palla, come da cosa terrestre e che per sua natura lo possiede e lo
possederà in perpetuo.
SALV. Quietiamoci pur, signor Simplicio, perché il
negozio cammina giustamente cosí. Ed ora da questo discorso vengo a intender la
ragione di un problema venatorio di questi imberciatori che con l'archibuso
ammazzano gli uccelli per aria: e perché io mi era immaginato che per
còrre l'uccello fermassero la mira lontana dall'uccello, anticipando per
certo spazio, e piú o meno secondo la velocità del volo e la lontananza
dell'uccello, acciò che sparando ed andando la palla a dirittura della
mira venisse ad arrivar nell'istesso tempo al medesimo punto, essa co 'l suo
moto e l'uccello co 'l suo volo, e cosí si incontrassero; domandando ad uno di
loro se la lor pratica fusse tale, mi rispose di no, ma che l'artifizio era
assai piú facile e sicuro, e che operano nello stesso modo per appunto che
quando tirano all'uccello fermo, cioè che aggiustano la mira all'uccel
volante, e quello co 'l muover l'archibuso vanno seguitando, mantenendogli
sempre la mira addosso sin che sparano, e che cosí gli imberciano come gli
altri fermi. Bisogna dunque che quel moto, benché lento, che l'archibuso fa nel
volgersi, secondando con la mira il volo dell'uccello, si comunichi alla palla
ancora e che in essa si congiunga con l'altro del fuoco, sí che la palla abbia
dal fuoco il moto diritto in alto, e dalla canna il declinar secondando il volo
dell'uccello, giusto come pur ora si è detto del tiro d'artiglieria;
dove la palla ha dal fuoco l'andare in alto verso il vertice, e dal moto della
Terra il piegar verso oriente e di amendue farne un composto che segua il corso
della Terra e che a chi la guarda apparisca solo di andare a dritto in su,
ritornando per la medesima linea di poi in giú. Il tener dunque la mira
continuamente indirizzata verso lo scopo fa che il tiro va a ferir giusto: e
per tener la mira a segno, se lo scopo sta fermo, anco la canna converrà
che si tenga ferma; e se il berzaglio si muoverà, la canna si
terrà a segno co 'l moto. E di qui depende la propria risposta all'altro
argomento del tirar con l'artiglieria al berzaglio posto verso mezogiorno o
verso settentrione; dove si instava che quando la Terra si movesse, i tiri
riuscirebber tutti costieri verso occidente, perché nel tempo che la palla,
uscita del pezzo, va per aria al segno, quello, portato verso levante, si
lascia la palla per ponente. Rispondo dunque domandando se, aggiustata che si
sia l'artiglieria al segno e lasciata star cosí, ella continua a rimirar sempre
l'istesso segno, muovasi la Terra o stia ferma. Convien rispondere che la mira
non si muta altrimenti, perché, se lo scopo sta fermo, l'artiglieria parimente
sta ferma, e se quello, portato dalla Terra, si muove, muovesi con l'istesso
tenore l'artiglieria ancora; e mantenendosi la mira, il tiro riesce sempre
giusto, come per le cose dette di sopra è manifesto.
SAGR. Fermate un poco in grazia, signor Salviati,
sin che io proponga alcun pensiero che mi si è mosso intorno a questi imberciatori
d'uccelli volanti: il modo dell'operar de' quali credo che sia qual voi dite, e
credo che l'effetto parimente segua del ferir l'uccello; ma non mi par
già che tale operazione sia del tutto conforme a questa de i tiri
dell'artiglieria, li quali debbon colpire tanto nel moto del pezzo e dello
scopo, quanto nella quiete comune di amendue: e le difformità mi paion
queste. Nel tiro dell'artiglieria, essa e lo scopo si muovono con
velocità eguale, sendo portati amendue dal moto del globo terrestre; e se
ben tal volta l'esser il pezzo piantato piú verso il polo che il berzaglio, ed
in conseguenza il suo moto alquanto piú tardo, come fatto in minor cerchio, tal
differenza è insensibile, per la poca lontananza dal pezzo al segno: ma
nel tiro dell'imberciatore il moto dell'archibuso, col quale va seguitando
l'uccello, è tardissimo in comparazion del volo di quello; dal che mi
par che ne séguiti che quel piccol moto che conferisce il volger della canna
alla palla che vi è dentro, non possa, uscita che ella è,
multiplicarsi per aria sino alla velocità del volo dell'uccello, in modo
che essa palla se gli mantenga sempre indirizzata, anzi par ch'e' debba
anticiparla e lasciarsela alla coda. Aggiugnesi che in questo atto l'aria per
la quale debbe passar la palla non si suppone che abbia il moto dell'uccello;
ma ben nel caso dell'artiglieria essa e 'l berzaglio e l'aria intermedia
participano egualmente il moto universal diurno. Talché del colpire
dell'imberciatore crederei che ne fusser cagioni, oltre al secondar il volo col
moto della canna, l'anticiparlo alquanto, con tener la mira innanzi, ed oltr'a
ciò il tirar (com'io credo) non con una sola palla, ma con buon numero
di palline, le quali, allargandosi per aria, occupano spazio assai grande, ed
oltre a questo l'estrema velocità con la quale dall'uscita della canna
si conducono all'uccello.
SALV. Ed ecco di quanto il volo dell'ingegno del
signor Sagredo anticipa e previene la tardità del mio, il quale forse
arebbe avvertite queste disparità, ma non senza una lunga applicazion di
mente. Ora, tornando alla materia, ci restano da considerar i tiri di punto
bianco verso levante e verso ponente: i primi de' quali, quando la Terra si
muovesse, dovrebbon riuscir sempre alti sopra il berzaglio, e i secondi bassi,
avvengaché le parti della Terra orientali, per il moto diurno, si vanno
continuamente abbassando sotto la tangente parallela all'orizonte, che
però ci appariscono le stelle orientali elevarsi, ed all'incontro le
parti occidentali si vengono alzando, onde le stelle occidentali mostrano di
abbassarsi; e però i tiri che son aggiustati secondo la detta tangente
allo scopo orientale, il qual, mentre la palla vien per la tangente, si
abbassa, doverebber riuscir alti, e gli occidentali bassi, mediante l'alzamento
del berzaglio mentre la palla corre per la tangente. La risposta è
simile all'altre: perché, sí come lo scopo orientale per il moto della Terra si
va continuamente abbassando sotto una tangente che restasse immobile, cosí anco
il pezzo per la medesima ragione si va continuamente inclinando, e seguitando
di rimirar sempre l'istesso scopo, onde i tiri ne riescon giusti. Ma qui mi par
opportuna occasione di avvertir certa larghezza che vien fatta, forse con
soverchia liberalità, da i seguaci del Copernico alla parte avversa:
dico di concedergli come sicure e certe alcune esperienze che gli avversarii
veramente non hanno mai fatte, come, verbigrazia, quella de i cadenti
dall'albero della nave mentre è in moto, ed altre molte; tra le quali
tengo per fermo che una sia questa del far prova se i tiri d'artiglieria
orientali riescon alti, e gli occidentali bassi. E perché credo che non
l'abbiano mai fatta, vorrei che mi dicessero qual diversità e' credono
che si dovrebbe scorgere tra i medesimi tiri, posta la Terra immobile o postala
mobile; e per loro risponda adesso il signor Simplicio.
SIMP. Io non mi voglio arrogere di risponder cosí
fondatamente come forse qualche altro piú intendente di me, ma dirò
quello che penso cosí all'improviso che risponderebbero, che è in
effetto quello che già è stato prodotto: cioè che quando
la Terra si movesse, i tiri orientali riuscirebber sempre alti, etc., dovendo,
come par verisimile muoversi la palla per la tangente.
SALV. Ma s'io dicessi che cosí segue in effetto,
come fareste a reprovare il mio detto?
SIMP. Converrebbe venir all'esperienza per
chiarirsene.
SALV. Ma credete voi che si trovasse bombardier
cosí pratico, che togliesse a dar nel berzaglio ogni tiro nella distanza,
verbigrazia, di cinquecento braccia?
SIMP. Signor no: e credo che non sarebbe alcuno,
per esperto che fusse, che si promettesse di non errar ragguagliatamente piú
d'un braccio.
SALV. Come dunque ci potremmo con tiri cosí fallaci
assicurar in quello di che dubitiamo?
SIMP. Potremmoci assicurar in due modi: l'uno, co
'l tirar molti tiri; e l'altro, perché rispetto alla gran velocità del
moto della Terra la deviazion dallo scopo sarebbe, per mio parer, grandissima.
SALV. Grandissima, cioè assai piú d'un
braccio; già che il variar di tanto, ed anco di piú, si concede che
accaschi ordinariamente anco nella quiete del globo terrestre.
SIMP. Credo fermamente che la variazion sarebbe
assai maggiore.
SALV. Or voglio che per nostro gusto facciamo cosí
alla grossa un poco di calcolo, se cosí vi piace, che ci servirà anco
(se il computo batterà, come spero) per avvertimento di non se ne andar
in altre occorrenze, come si dice, cosí facilmente preso alle grida, e porger
l'assenso a tutto quello che prima ci si rappresenta alla fantasia. E per dare
ancora tutti i vantaggi a i Peripatetici e Ticonici, voglio che ci figuriamo
esser sotto l'equinoziale, per tirar con una colubrina di punto bianco verso
occidente al berzaglio in cinquecento braccia di distanza. Prima cerchiamo,
cosí (come ho detto) a un di presso, quanto può essere il tempo nel
quale la palla, uscita dal pezzo, giugne al segno, che sappiamo esser
brevissimo, ed al sicuro non è piú di quello nel quale un pedone cammina
due passi; e questo è ancor manco di un minuto secondo d'ora, perché,
posto che il pedone cammini tre miglia per ora, che sono braccia novemila,
essendo che un'ora contiene tremila seicento minuti secondi, vengono a farsi in
un secondo passi dua e mezo: un secondo dunque è piú che il tempo del
moto della palla. E perché la rivoluzion diurna è ventiquattr'ore,
l'orizonte occidentale si alza quindici gradi per ora, cioè quindici
minuti primi di grado per un minuto primo di ora, cioè quindici secondi
di grado per un secondo d'ora; e perché un secondo è il tempo del tiro,
adunque in questo tempo si alza l'orizonte occidentale quindici secondi di
grado, e tanto ancora il berzaglio: quindici secondi però di quel
cerchio, del quale il semidiametro sia di braccia cinquecento (che tanta si
è posto esser la lontananza del berzaglio dalla colubrina). Or guardiamo
nella tavola de gli archi e corde (che ecco qui appunto il libro del
Copernico), qual parte è la corda di quindici secondi del semidiametro
che sia braccia cinquecento: qui si vede, la corda di un minuto primo esser
manco di trenta parti di quelle che il semidiametro è centomila; adunque
delle medesime la corda di un minuto secondo sarà manco di mezo,
cioè manco di una parte di quali il semidiametro sia dugentomila, e
però la corda di quindici secondi sarà manco di quindici delle
medesime dugentomila parti. Ma quello che di dugentomila è manco di
quindici, è ancor piú di quello che di cinquecento è quattro
centesimi; adunque l'alzamento del berzaglio nel tempo del moto della palla
è manco di quattro centesimi, cioè di un venticinquesimo di
braccio; sarà dunque circa un dito: ed un sol dito, in conseguenza,
sarà lo svario di ciascun tiro occidentale, quando il moto diurno fusse
della Terra. Ora s'io vi dirò che questo svario effettivamente accade in
tutti i tiri (dico di dar piú basso un dito di quel che darebbono se la Terra
non si movesse), come fareste, signor Simplicio, a convincermi, mostrandomi con
l'esperienze ciò non accadere? non vedete voi che non è possibile
ributtarmi, se prima non trovate una maniera di tirar a segno tanto esatta, che
mai non s'erri d'un capello? perché, mentre che i tiri riusciranno variabili di
braccia, come de facto sono, io dirò sempre che in ciascheduno di
quelli svarii vi è contenuto quello di un dito, cagionato dal moto della
Terra.
SAGR. Perdonatemi, signor Salviati; voi sete troppo
liberale; perché io direi a i Peripatetici, che quando bene ogni tiro
investisse il centro stesso del berzaglio, ciò non contrarierebbe punto
al moto della Terra: imperocché i bombardieri si sono esercitati sempre in
aggiustar la mira al berzaglio, ed hanno fatto la pratica di mettere il pezzo a
segno in modo che ci dien dentro, stante il moto della Terra; e dico che se la
Terra si fermasse, i tiri non riuscirebbon giusti, ma gli occidentali
riuscirebbon alti, e bassi gli orientali. Or convincami il signor Simplicio.
SALV. Sottigliezza degna del signor Sagredo. Ma
abbiasi a vedere questa variazione nel moto o nella quiete della Terra, non
potendo ella esser se non piccolissima, non può se non rimaner sommersa
nelle grandissime che per molti accidenti continuamente accascano. E tutto
questo sia detto e conceduto per buona misura al signor Simplicio, e solo per
avvertimento di quanto bisogni andar cauto nel conceder come vere molte
esperienze a quelli che mai non l'hanno fatte, ma animosamente le producono
quali bisognerebbe che fussero per servir alla causa loro. Dico che questo si
dà per giunta al signor Simplicio, perché la verità schietta
è che circa gli effetti di questi tiri il medesimo deve accadere
puntualmente tanto nel moto quanto nella quiete del globo terrestre; sí come
accaderà di tutte l'altre esperienze addotte e che addur si possono, le
quali in tanto hanno nel primo aspetto qualche sembianza di vero, in quanto
l'antiquato concetto dell'immobilità della Terra ci mantiene tra gli
equivoci.
SAGR. Io per la parte mia resto sin qui sodisfatto
a pieno, ed intendo benissimo che chiunque si imprimerà nella fantasia
questa general comunicanza della diurna conversione tra tutte le cose
terrestri, alle quali tutte ella naturalmente convenga, in quel modo che nel
vecchio concetto stimavano convenirgli la quiete intorno al centro, senza
veruno intoppo discernerà la fallacia e l'equivocazione che faceva parer
gli argomenti prodotti esser concludenti. Restami solamente qualche scrupolo,
come di sopra ho accennato, intorno al volar de gli uccelli; i quali, avendo,
come animati, facultà di muoversi a lor piacimento di centomila moti, e
di trattenersi, separati dalla Terra, lungamente per aria, e qui con
disordinatissimi rivolgimenti andar vagando, non resto ben capace come tra sí
gran mescolanza di movimenti non si abbia a confondere e smarrir il primo moto
comune, ed in qual modo, restati che ne sieno spogliati, e' lo possano
compensare e ragguagliar co 'l volo, e tener dietro alle torri ed a gli alberi
che di corso tanto precipitoso fuggono verso levante: dico tanto precipitoso,
che nel cerchio massimo del globo è poco meno di mille miglia per ora,
delle quali il volo delle rondini non credo che ne faccia cinquanta.
SALV. Quando gli uccelli avessero a tener dietro al
corso de gli alberi con l'aiuto delle loro ali, starebbero freschi; e quando e'
venisser privati dell'universal conversione, resterebbero tanto in dietro, e
tanto furioso apparirebbe il corso loro verso ponente, a chi però gli
potesse vedere, che supererebbe di assai quel d'una freccia; ma credo che noi
non gli potremmo scorgere, sí come non si veggono le palle d'artiglieria,
mentre, cacciate dalla furia del fuoco, scorron per aria. Ma la verità è
che il moto proprio de gli uccelli, dico del lor volare, non ha che far nulla
co 'l moto universale, al quale né apporta aiuto né disaiuto: e quello che
mantiene inalterato cotal moto ne gli uccelli, è l'aria stessa per la
quale e' vanno vagando, la quale, seguitando naturalmente la vertigine della
Terra, sí come conduce seco le nugole, cosí porta gli uccelli ed ogn'altra cosa
che in essa si ritrovasse pendente: talché, quanto al seguir la Terra, gli
uccelli non v'hanno a pensare, e per questo servizio potrebbero dormir sempre.
SAGR. Che l'aria possa condur seco le nugole, come
materie facilissime per la lor leggerezza ad esser mosse e come spogliate
d'ogn'altra inclinazione in contrario, anzi pur come materie participanti esse
ancora delle condizioni e proprietà terrene, capisco io senza
difficultà veruna; ma che gli uccelli, che, per esser animati, posson
muoversi di moto anco contrario al diurno, interrotto che l'abbiano, l'aria lo
possa loro restituire, mi pare alquanto duretto: e massime che son corpi solidi
e gravi; e noi, come di sopra s'è detto, veggiamo i sassi e gli altri
corpi gravi restar contumaci contro all'impeto dell'aria, e quando pure si
lascino superare, non acquistano mai tanta velocità quanto il vento che
gli conduce.
SALV. Non diamo, signor Sagredo, sí poca forza
all'aria mossa, la qual è potente a muovere e condurre i navili ben
carichi ed a sbarbar le selve e rovinar le torri, quando rapidamente ella si
muove; né però in queste sì violenti operazioni si può
dire che il moto suo sia a gran lunga cosí veloce come quello della diurna
revoluzione.
SIMP. Ecco dunque che l'aria mossa potrà
ancora continuar il moto a i proietti, conforme alla dottrina d'Aristotile: e
ben mi pareva strana cosa che egli avesse auto a errare in questo particolare.
SALV. Potrebbe senza dubbio, quando ella potesse
continuarlo in se stessa; ma, sí come cessato il vento né le navi camminano né
gli alberi si spiantano, cosí non si continuando il moto nell'aria doppo che la
pietra è uscita della mano e fermatosi il braccio, resta che altro sia
che l'aria quel che fa muover il proietto.
SIMP. E come, cessato il vento, cessa il moto della
nave? anzi si vede che fermato il vento, ed anco ammainate le vele, il vassello
dura a scorrer le miglia intere.
SALV. Ma questo è contro di voi, signor Simplicio,
poiché fermata l'aria, che ferendo le vele conduceva il navilio, ad ogni modo
senza l'aiuto del mezo ei continua il corso.
SIMP. Si potrebbe dire che fusse l'acqua il mezo
che conducesse la nave e le mantenesse il moto.
SALV. Potrebbesi veramente dire, per dir tutto
l'opposito del vero; perché la verità è che l'acqua, con la sua
gran resistenza all'esser aperta dal corpo del vassello, con gran fremito gli
contrasta, né gli lascia concepir a gran pezzo quella velocità che il vento
gli conferirebbe, quando l'ostacolo dell'acqua non vi fusse. Voi, signor
Simplicio, non dovete mai aver posto mente con qual furia l'acqua venga
strisciando intorno alla barca, mentre ella velocemente spinta da i remi o dal
vento, scorre per l'acqua stagnante; ché quando voi aveste badato a un tal
effetto, non vi verrebbe ora in pensiero di produr simil vanità: e vo
comprendendo che voi siate sin qui stato del gregge di coloro che per apprender
come passino simili negozi e per acquistar le notizie de gli effetti di natura,
e' non vadano su barche o intorno a balestre e artiglierie, ma si ritirano in
studio a scartabellar gl'indici e i repertorî per trovar se Aristotile ne ha
detto niente, ed assicurati che si sono del vero senso del testo, né piú oltre
desiderano, né altro stimano che saper se ne possa.
SAGR. Felicità grande, e da esser loro molto
invidiata; perché se il sapere è da tutti naturalmente desiderato, e se
tanto è l'essere quanto il darsi ad intender d'essere, essi godono di un
ben grandissimo, e posson persuadersi d'intendere e di saper tutte le cose,
alla barba di quelli che conoscendo di non saper quel ch'e' non sanno, ed in
conseguenza vedendosi non saper né anco una ben minimissima particella dello
scibile, s'ammazzano con le vigilie, con le contemplazioni, e si macerano
intorno a esperienze ed osservazioni. Ma di grazia torniamo a' nostri uccelli:
nel proposito de' quali voi avevi detto che l'aria mossa con grandissima
velocità poteva loro restituir quella parte del movimento diurno che tra
gli scherzi de' loro voli potessero avere smarrita; sopra di che io replico che
l'aria mossa non par che possa conferire in un corpo solido e grave una
velocità tanta quanta è la sua propria; e perché quella dell'aria
è quanto quella della Terra, non pareva che l'aria fusse bastante a
ristorar il danno della perdita nel volo de gli uccelli.
SALV. Il discorso vostro ha in apparenza molto del
probabile, ed il dubitar a proposito non è da ingegni dozinali;
tuttavia, levatane l'apparenza, credo che in esistenza e' non abbia un pelo piú
di forza che gli altri già considerati e sciolti.
SAGR. E' non è dubbio alcuno, che quando e'
non sia concludente necessariamente, la sua efficacia non può esser se
non nulla assolutamente, perché quando la conclusione è necessariamente
in questo modo solo, non si può produr per l'altra parte ragion che
vaglia.
SALV. L'aver voi maggior difficultà in
questa che nell'altre instanze, pare a me che dependa dall'esser gli uccelli
animati, e poter per ciò usar forza a lor piacimento contro al primario
moto ingenito nelle cose terrene, nel modo appunto che gli veggiamo, mentre son
vivi, volar anco all'insú, moto impossibile ad essi come gravi, dove che morti
non posson se non cadere a basso; e perciò stimate voi che le ragioni
che hanno luogo in tutte le sorti de i proietti detti di sopra, non possano
averlo ne gli uccelli; e quest'è verissimo, e perché è vero,
però non si vede, signor Sagredo, fare a quei proietti quel che fanno
gli uccelli: ché se voi dalla cima della torre lascerete cadere un uccel morto
e un vivo, il morto farà quell'istesso che fa una pietra, cioè
seguiterà prima il moto generale diurno, e poi il moto a basso, come
grave; ma se l'uccello lasciato sarà vivo, chi gli vieta che, restando
sempre in lui il moto diurno, e' non si getti, co 'l batter le ale, verso qual
parte dell'orizonte piú gli piacerà? e questo nuovo moto, come suo
particolare e non participato a noi, ci si deve far sensibile. E quando e' si
sia co 'l suo volo mosso verso occidente, chi gli ha da vietare che con altrettanto
batter di penne e' non ritorni in su la torre? Perché, finalmente, lo spiccar
il volo verso ponente non fu altro che un detrar dal moto diurno, che ha,
verbigrazia, dieci gradi di velocità, un sol grado, onde glie ne
rimanevano nove, mentre volava; e quando si fusse posato in terra, gli
ritornavano i dieci comuni, a i quali co 'l volar verso levante poteva
aggiugnerne uno, e con li undici ritornar su la torre: ed in somma, se noi ben
considereremo e piú intimamente contempleremo gli effetti del volar de gli uccelli,
non differiscono in altro da i proietti verso tutte le parti del mondo, salvo
che nell'esser questi mossi da un proiciente esterno, e quelli da un principio
interno. E qui, per ultimo sigillo della nullità di tutte le esperienze
addotte, mi par tempo e luogo di mostrar il modo di sperimentarle tutte
facilissimamente. Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia
sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e
simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua, e dentrovi de'
pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia
vadia versando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a
basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti
volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i
pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille
cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all'amico alcuna
cosa, non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso
questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a
piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che
avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre
il vassello sta fermo non debbano succeder cosí, fate muover la nave con quanta
si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante
in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li
nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina
o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazii che
prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso
la poppa che verso la prua, benché, nel tempo che voi state in aria, il
tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e
gettando alcuna cosa al compagno, non con piú forza bisognerà tirarla,
per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi
fuste situati per l'opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso
inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola
è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella lor acqua non con
piú fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del
vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo
dell'orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor
voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si
riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in
tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo,
trattenendosi per aria, saranno state separate; e se abbruciando alcuna lagrima
d'incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascender in alto ed a guisa
di nugoletta trattenervisi, e indifferentemente muoversi non piú verso questa
che quella parte. E di tutta questa corrispondenza d'effetti ne è
cagione l'esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed
all'aria ancora, che per ciò dissi io che si stesse sotto coverta; ché
quando si stesse di sopra e nell'aria aperta e non seguace del corso della
nave, differenze piú e men notabili si vedrebbero in alcuni de gli effetti
nominati: e non è dubbio che il fumo resterebbe in dietro, quanto l'aria
stessa; le mosche parimente e le farfalle, impedite dall'aria, non potrebber
seguir il moto della nave, quando da essa per spazio assai notabile si
separassero; ma trattenendovisi vicine, perché la nave stessa, come di fabbrica
anfrattuosa, porta seco parte dell'aria sua prossima, senza intoppo o fatica
seguirebbon la nave, e per simil cagione veggiamo tal volta, nel correr la
posta, le mosche importune e i tafani seguir i cavalli, volandogli ora in
questa ed ora in quella parte del corpo; ma nelle gocciole cadenti pochissima
sarebbe la differenza, e ne i salti e ne i proietti gravi, del tutto
impercettibile.
SAGR. Queste osservazioni, ancorché navigando non
mi sia caduto in mente di farle a posta, tuttavia son piú che sicuro che
succederanno nella maniera raccontata: in confermazione di che mi ricordo
essermi cento volte trovato, essendo nella mia camera, a domandar se la nave
camminava o stava ferma, e tal volta, essendo sopra fantasia, ho creduto che
ella andasse per un verso, mentre il moto era al contrario. Per tanto io sin
qui resto sodisfatto e capacissimo della nullità del valore di tutte
l'esperienze prodotte in provar piú la parte negativa che l'affirmativa della
conversion della Terra. Resta ora l'instanza fondata su 'l veder per esperienza
come una vertigine veloce ha facultà di estrudere e dissipare le materie
aderenti alla machina che va in volta; per lo che pareva a molti, ed anco a
Tolomeo, che quando la Terra si rigirasse in se stessa con tanta velocità,
i sassi e gli animali dovessero esser scagliati verso le stelle, e che le
fabbriche non potessero con sí tenace calcina esser attaccate a i fondamenti,
che esse ancora non patissero un tale eccidio.
SALV. Prima che venire allo scioglimento di questa
instanza, non posso tacer quello che mille volte ho osservato, e non senza
riso, cadere nella mente quasi di tutti gli uomini nel primo motto che sentono
di questo muoversi la Terra, creduta da loro talmente fissa ed immota, che non
solamente di tal quiete mai non hanno dubitato, ma fermamente creduto che tutti
gli altri uomini insieme con loro l'abbiano stimata creata immobile e tale
mantenutasi in tutti i secoli decorsi; e fermatisi in questo concetto,
stupiscono poi nel sentire che alcuno le conceda il moto, quasi che, dopo
averla egli tenuta immobile, scioccamente pensi, allora, e non prima, essersi
ella messa in moto, quando Pitagora o chi altro si fusse il primo a dir che
ella si muoveva. Ora, che tale stoltissimo pensiero (dico di credere che quelli
che ammettono il moto della Terra, l'abbiano prima creduta stabile dalla sua
creazione sino al tempo di Pitagora, e solo fattola poi mobile dopo che
Pitagora la stimò tale) trovi luogo nelle menti de gli uomini vulgari e
di senso leggiero, io non me ne maraviglio; ma che gli Aristoteli e i Tolomei
siano essi ancora incorsi in questa puerizia, mi par veramente assai piú strana
ed inescusabil semplicità.
SAGR. Adunque, signor Salviati, voi credete che
Tolomeo pensasse di dover, disputando, mantener la stabilità della Terra
contro a uomini li quali, concedendo quella essere stata immobile sino al tempo
di Pitagora, allora solamente affermassero essersi ella fatta mobile, quando
esso Pitagora le attribuí il moto?
SALV. Non si può credere altrimenti, se noi
ben consideriamo la maniera ch'e' tiene in confutare il detto loro: la
confutazione del quale consiste nella demolizion delle fabbriche, e nello
scagliamento delle pietre, de gli animali e de gli uomini stessi verso il
cielo; e perché tal rovina e sbalestramento non si può fare di edifizii
e di animali che prima non sieno in Terra, né in Terra possono collocarsi
uomini e fabbricarsi edifizii se non quando ella stesse ferma, di qui dunque
è manifesto che Tolomeo procede contro a quelli che avendo per alcun
tempo conceduto la quiete alla Terra, cioè allora che gli animali, le
pietre e i muratori potetter dimorarvi, e fabbricar i palazzi e le
città, la fanno poi precipitosamente mobile, alla rovina e distruzione
delle fabbriche e de gli animali, etc. Ché quando egli avesse preso assunto di
disputar contro a chi avesse attribuito alla Terra tal vertigine dalla sua
prima creazione, l'avrebbe confutata co 'l dire che se la Terra si fusse sempre
mossa, mai non si sarebbe potuto costituir in essa né fiere né uomini né
pietre, e molto meno fabbricare edifizii e fondar città, etc.
SIMP. Non resto ben capace di questa Aristotelica e
Tolemaica sconvenevolezza.
SALV. Tolomeo o arguisce contro a quelli che hanno
stimata la Terra mobile sempre, o contro a chi ha stimato che ella sia stata
per alcun tempo ferma e che poi si è messa in moto: se contro a i primi,
doveva dire: «La Terra non si è mossa sempre, perché mai non sarebbero
stati uomini né animali né edifizii in Terra, non permettendo loro la terrestre
vertigine il dimorarvi»; ma già che egli argumentando dice: «La Terra
non si muove, perché le fiere gli uomini e le fabbriche, già poste in
Terra, precipiterebbono», suppone la Terra essersi una volta trovata in tale
stato, che abbia ammesso alle fiere e a gli uomini il dimorarvi e 'l
fabbricarvi; il che si tira in conseguenza l'essere stata ella alcun tempo
ferma, cioè atta alla dimora de gli animali ed alla fabbrica de gli
edifizii. Restate voi ora capace di quanto io ho voluto dire?
SIMP. Resto e non resto: ma questo poco importa al
merito della causa, né un erroruzzo di Tolomeo, commesso per inavvertenza,
può esser bastante a muover la Terra, quando ella sia immobile. Ma
lasciati gli scherzi, venghiamo pure al nervo dell'argomento, che a me pare
insolubile.
SALV. Ed io, signor Simplicio, lo voglio ancora
annodare e strigner da vantaggio, co 'l mostrar ancor piú sensatamente come sia
vero che i corpi gravi, girati con velocità intorno a un centro stabile,
acquistano impeto di muoversi allontanandosi da quel centro, quando anco e'
sieno in stato di aver propensione di andarvi naturalmente. Leghisi in capo di
una corda un secchiello, dentrovi dell'acqua, e tenendo forte in mano l'altro
capo, e fatto semidiametro la corda e 'l braccio, e centro la snodatura della
spalla, facciasi andare intorno velocemente il vaso, sí che egli descriva la
circunferenza di un cerchio; il quale o sia parallelo all'orizonte, o siagli
eretto, o in qualsivoglia modo inclinato, in tutti i casi seguirà che
l'acqua non cascherà fuori del vaso, anzi colui che lo gira
sentirà sempre tirar la corda e far forza per allontanarsi piú dalla
spalla; e se nel fondo del secchiello si farà un foro, si vedrà
l'acqua zampillar fuori non meno verso il cielo che lateralmente e verso la
terra; e se in cambio d'acqua si metteranno pietruzze, girando nell'istesso
modo, si sentirà far loro l'istessa forza contro alla corda; e
finalmente si veggono i fanciulli tirar i sassi in gran lontananza co 'l muover
in giro un pezo di canna, in cima della quale sia incastrato il sasso:
argomenti tutti della verità della conclusione, cioè che la
vertigine conferisce al mobile impeto verso la circonferenza, quando il moto
sia veloce; e perché, quando la Terra girasse in se stessa, il moto della
superficie, e massime verso il cerchio massimo, come incomparabilmente piú
veloce che i nominati, dovrebbe estruder ogni cosa contro al cielo.
SIMP. L'instanza mi par molto bene stabilita e
annodata, e gran cosa ci vorrà, per mio credere, a rimuoverla e sciorla.
SALV. Lo scioglimento suo depende da alcune notizie
non meno sapute e credute da voi che da me; ma perché elle non vi sovvengono,
però non vedete lo scioglimento. Senza dunque ch'io ve lo insegni,
perché già voi le sapete, co 'l semplice ricordarvele farò che
voi stesso risolverete l'instanza.
SIMP. Io ho posto mente piú volte al vostro modo di
ragionare, il quale mi ha destato qualche pensiero che voi incliniate a quella
opinion di Platone, che nostrum scire sit quoddam reminisci:
però, di grazia, cavatemi di questo dubbio, dicendomi 'l vostro senso.
SALV. Quel ch'io senta dell'opinion di Platone,
posso significarvelo con parole ed ancora con fatti. Già ne'
ragionamenti avuti sin qui mi son io piú d'una volta dichiarato con fatti:
seguirò l'istesso stile nel particolare che aviamo per le mani, che
potrà poi servirvi come esempio a piú agevolmente comprendere il mio
concetto circa l'acquisto della scienza, quando però ci avanzi tempo per
un altro giorno e non sia di noia al signor Sagredo che noi facciamo questa
digressione.
SAGR. Anzi mi sarà gratissimo, perché mi
ricordo che quando studiavo logica, mai non potetti restar capace di quella
tanto predicata dimostrazion potissima di Aristotile.
SALV. Seguitiamo dunque: e dicami il signor
Simplicio qual sia il moto che fa quel sassetto stretto nella cocca della
canna, mentre il fanciullo la muove per tirarlo lontano.
SIMP. Il moto del sasso sin che è nella
cocca è circolare cioè va per un arco di cerchio, il cui centro
stabile è la snodatura della spalla, e il semidiametro la canna co 'l
braccio.
SALV. E quando la pietra scappa dalla canna, qual
è il suo moto? séguit'ella di continuare 'l suo precedente circolare, o
pur va per altra linea?
SIMP. Non séguit'altrimenti di muoversi in giro,
perché cosí non si discosterebbe dalla spalla del proiciente, dove che noi la
veggiamo andar lontanissima.
SALV. Di che moto dunque si muove ella?
SIMP. Lasciate ch'io ci pensi un poco, perché non
ci ho piú fatto fantasia.
SALV. Signor Sagredo, udite all'orecchio: ecco il quoddam
reminisci in campagna, bene inteso. Voi ci pensate molto, signor Simplicio!
SIMP. Secondo me il moto concepito nell'uscir della
cocca non può esser se non per linea retta; anzi pur è egli
necessariamente per linea retta, intendendo del puro impeto avventizio. Mi dava
un poco di fastidio il vedergli descriver un arco; ma perché tal arco piega
sempre all'ingiú, e non verso altra parte, comprendo che quel declinare vien
dalla gravità della pietra, che naturalmente la tira al basso. L'impeto
impresso dico senz'altro ch'è per linea retta.
SALV. Ma per qual linea retta? perché infinite e
verso tutte le bande se ne posson produrre dalla cocca della canna e dal punto
della separazion della pietra dalla canna.
SIMP. Muovesi per quella che è alla
dirittura del moto che ha fatto la pietra con la canna.
SALV. Il moto della pietra, mentre era nella cocca,
già avete detto che è stato circolare; ora repugna l'esser
circolare e a dirittura, non essendo nella linea circolare parte alcuna di
retto.
SIMP. Io non intendo che 'l moto proietto sia a
dirittura di tutto il circolare, ma di quell'ultimo punto dove terminò
il moto circolare. Io mi intendo dentro di me, ma non so ben esplicarmi.
SALV. Ed io ancora mi accorgo che voi intendete la
cosa, ma non avete i termini proprii da esprimerla: or questi ve gli posso ben
insegnar io; insegnarvi, cioè, delle parole, ma non delle verità,
che son cose. E per farvi toccar con mano che voi sapete la cosa e solo vi
mancano i termini da esprimerla, ditemi: quando voi tirate una palla con
l'archibuso, verso che parte acquist'ella impeto di andare?
SIMP. Acquista impeto di andare per quella linea
retta che segue la dirittura della canna, cioè che non declina né a
destra né a sinistra, né in su né in giú.
SALV. Che in somma è quanto a dire, che non
fa angolo nessuno con la linea del moto retto fatto per la canna.
SIMP. Cosí ho voluto dire.
SALV. Se dunque la linea del moto del proietto si
ha da continuar senza far angolo sopra la linea circolare descritta da lui
mentre fu co 'l proiciente, e se da questo moto circolare deve passar al moto
retto, qual dovrà esser questa linea retta?
SIMP. Non potrà esser se non quella che
tocca il cerchio nel punto della separazione, perché tutte l'altre mi par che,
prolungate, segherebbono la circonferenza, e però conterrebber con essa
qualche angolo.
SALV. Voi benissimo avete discorso, e vi sete
dimostrato mezo geometra. Ritenete dunque in memoria che il vostro concetto
reale si spiega con queste parole: cioè che il proietto acquista impeto
di muoversi per la tangente l'arco descritto dal moto del proiciente nel punto
della separazione di esso proietto dal proiciente.
SIMP. Intendo benissimo, e quest'è quel
ch'io volevo dire.
SALV. D'una linea retta che tocchi un cerchio,
quale de' suoi punti è il piú vicino di tutti al centro di quel cerchio?
SIMP. Quel del contatto senza dubbio; perché quello
è nella circonferenza del cerchio, e gli altri fuora, ed i punti della
circonferenza son tutti egualmente lontani dal centro.
SALV. Adunque un mobile partendosi dal contatto e
movendosi per la retta tangente, si va continuamente discostando dal contatto
ed anco dal centro del cerchio.
SIMP. Cosí è sicuramente.
SALV. Or, se voi avete tenuto a mente le
proposizioni che mi avete dette, ricongiugnetele insieme e ditemi ciò
che se ne raccoglie.
SIMP. Io non credo però d'esser tanto
smemorato, ch'io non me n'abbia a ricordare. Dalle cose dette si raccoglie che
il proietto, mosso velocemente in giro dal proiciente, nel separarsi da quello
ritiene impeto di continuare il suo moto per la linea retta che tocca il
cerchio descritto dal moto del proiciente nel punto della separazione; per il
qual moto il proietto si va sempre discostando dal centro del cerchio descritto
dal moto del proiciente.
SALV. Voi dunque sin ora sapete la ragione del
venir estrusi i gravi aderenti alla superficie d'una ruota mossa velocemente;
estrusi, dico, e lanciati oltre alla circonferenza, sempre piú lontani dal
centro.
SIMP. Di questo mi par di restar assai ben capace;
ma questa nuova cognizione piú tosto mi accresce che mi scemi
l'incredulità che la Terra possa muoversi in giro con tanta
velocità, senza estruder verso il cielo le pietre, gli animali, etc.
SALV. Nell'istesso modo che voi avete saputo sin
qui, saprete, anzi sapete, anco il resto: e co 'l pensarvi sopra ve ne
ricordereste ancora da per voi; ma, per abbreviar il tempo, vi aiuterò
io a ricordarvelo. Sin qui avete per voi stesso saputo che il moto circolare
del proiciente imprime nel proietto impeto di muoversi (quando avviene ch'e' si
separino) per la retta tangente il cerchio del moto nel punto della
separazione, e, continuando per essa il moto, vien sempre allontanandosi dal
proiciente; ed avete detto che per tal linea retta continuerebbe il proietto di
muoversi, quando dal proprio peso non gli fusse aggiunta inclinazione all'in
giú, dalla quale deriva l'incurvazione della linea del moto. Parmi ancora che
voi abbiate saputo da per voi che questa piegatura tende sempre verso il centro
della Terra, perché là tendon tutti i gravi. Ora passo un poco piú
avanti, e vi domando se il mobile dopo la separazione, nel continuar il suo
moto retto, si va sempre allontanando egualmente dal centro, o volete dalla
circonferenza, di quel cerchio del qual il moto precedente fu parte; che tanto
è a dir se un mobile che partendosi dal punto della tangente, e
movendosi per essa tangente, si allontani egualmente dal punto del contatto e
dalla circonferenza del cerchio.
SIMP. Signor no, perché la tangente vicino al punto
del contatto si scosta pochissimo dalla circonferenza, con la quale ella
contiene un angolo strettissimo, ma nell'allontanarsi piú e piú,
l'allontanamento cresce sempre con maggior proporzione; sí che in un cerchio
che avesse, verbigrazia, dieci braccia di diametro, un punto della tangente che
fusse lontano dal contatto due palmi, si troverebbe lontano dalla circonferenza
del cerchio tre o quattro volte piú che un punto che fusse discosto dal
toccamento un palmo; e 'l punto che fusse lontano mezo palmo, parimente credo
che a pena si discosterebbe la quarta parte della distanza del secondo;
sì che vicino al contatto per un dito o due, appena si scorge che la
tangente sia separata dalla circonferenza.
SALV. Talché il discostamento del proietto dalla
circonferenza del precedente moto circolare in su 'l principio è
piccolissimo?
SIMP. Quasi insensibile.
SALV. Or ditemi un poco: il proietto che dal moto
del proiciente riceve impeto di muoversi per la retta tangente, e che vi
andrebbe ancora se il proprio peso non lo tirasse in giú, quanto sta, doppo la
separazione, a cominciar a declinare a basso?
SIMP. Credo che cominci subito, perché non avendo
chi lo sostenti, non può esser che la propria gravità non operi.
SALV. Talché, se quel sasso che scagliato da quella
ruota mossa in giro con velocità grande, avesse cosí propension naturale
di muoversi verso il centro dell'istessa ruota sí come e' l'ha di muoversi
verso il centro della Terra, sarebbe facil cosa che e' ritornasse alla ruota, o
piú tosto che e' non se ne partisse; perché essendo, su 'l principio della
separazione, l'allontanamento tanto minimissimo, mediante l'infinita acutezza
dell'angolo del contatto, ogni poco poco d'inclinazione che lo ritirasse verso
il centro della ruota, basterebbe a ritenerlo sopra la circonferenza.
SIMP. Io non ho dubbio alcuno che, supposto quello
che non è né può essere, cioè che l'inclinazione di quei
corpi gravi fusse di andare al centro di quella ruota, e' non verrebbero
estrusi né scagliati.
SALV. Né io ancora suppongo, né ho bisogno di
supporre, quel che non è, perché non voglio negare che i sassi vengano
scagliati; ma dico cosí per supposizione, acciò voi mi diciate il resto.
Figuratevi ora che la Terra sia la gran ruota, che, mossa con tanta
velocità, abbia a scagliar le pietre. Già voi mi avete molto ben
saputo dire che il moto proietto dovrà esser per quella linea retta che
toccherà la Terra nel punto della separazione: e questa tangente come si
va ella allontanando notabilmente dalla superficie del globo terrestre?
SIMP. Credo che in mille braccia non s'allontani un
dito.
SALV. Ed il proietto non dite voi che, tirato dal
proprio peso, declina dalla tangente verso il centro della Terra?
SIMP. Hollo detto: e dico anco il resto e intendo
perfettamente che la pietra non si separerà dalia Terra, poiché il suo
allontanarsene su 'l principio sarebbe tanto e tanto minimo che ben mille volte
piú vien ad esser l'inclinazione che ha il sasso di muoversi verso il centro
della Terra; il qual centro in questo caso è anco il centro della ruota.
E veramente è forza concedere che le pietre, gli animali e gli altri
corpi gravi non posson esser estrusi: ma mi fanno ora nuova difficultà
le cose leggierissime, le quali hanno debolissima inclinazione di calare al
centro, onde, mancando in loro la facultà di ritirarsi alla superficie,
non veggo che elle non avessero a esser estruse; voi poi sapete che ad
destruendum sufficit unum.
SALV. Daremo sodisfazione anco a questo.
Però ditemi in prima quel che voi intendete per cose leggiere,
cioè se voi intendete materie cosí leggiere veramente che vadano
all'insú, o pur non assolutamente leggiere, ma cosí poco gravi che ben vengano
a basso, ma lentamente; perché se voi intendete delle assolutamente leggiere,
ve le lascerò esser estruse piú che voi non volete.
SIMP. Io intendo di queste seconde, quali sarebbono
penne, lana, bambagia e simili, a sollevar le quali basta ogni minima forza:
tuttavia si veggono starsene in Terra molto riposatamente.
SALV. Come questa penna abbia qualche natural
propensione di scender verso la superficie della Terra, per minima ch'ella sia,
vi dico che ell'è bastante a non la lasciar sollevare; e questo non
è ignoto né anco a voi. Però ditemi: quando la penna fusse
estrusa dalla vertigine della Terra, per che linea si moverebb'ella?
SIMP. Per la tangente nel punto della separazione.
SALV. E quando ella dovesse tornar a riunirsi, per
qual linea si muoverebbe?
SIMP. Per quella che va da lei al centro della
Terra.
SALV. Talché qui cascano in considerazione due
moti: uno della proiezione, che comincia dal punto del contatto e segue per la
tangente; e l'altro dell'inclinazione all'ingiú, che comincia dal proietto e va
per la segante verso il centro: ed a voler che la proiezione segua, bisogna che
l'impeto per la tangente prevaglia all'inclinazione per la segante: non sta
cosí?
SIMP. Cosí mi pare.
SALV. Ma che cosa pare a voi che sia necessaria che
si trovi nel moto proiciente, acciò che e' prevaglia a quel
dell'inclinazione, onde ne segua lo staccamento e l'allontanamento della penna
dalla Terra?
SIMP. Io non lo so.
SALV. Come non lo sapete? qui il mobile è il
medesimo, cioè la medesima penna; or come può il medesimo mobile
superare nel moto e prevalere a se stesso?
SIMP. Io non intendo che e' possa prevalere o
cedere a se medesimo nel moto, se non co 'l muoversi or piú veloce e or piú
tardo.
SALV. Ecco dunque che voi pur lo sapevi. Se dunque
deve seguir la proiezione della penna e prevalere il suo moto per la tangente
al moto per la segante, quali bisogna che sieno le velocità loro?
SIMP. Bisogna che il moto per la tangente sia
maggior di quell'altro per la segante. Oh povero a me! o non è egli anco
centomila volte maggiore, e non solamente del moto in giú della penna, ma anco
di quello della pietra? ed io, ben da semplice davvero, mi ero lasciato
persuadere che le pietre non potrebber esser estruse dalla vertigine della
Terra! Torno dunque a ridirmi, e dico che quando la Terra si muovesse, le
pietre, gli elefanti, le torri e le città volerebbero verso il cielo per
necessità; e perché ciò non segue, dico che la Terra non si
muove.
SALV. Oh, signor Simplicio, voi vi sollevate cosí
presto, ch'io comincerò a temer piú di voi che della penna. Quietatevi
un poco, e ascoltate. Se per ritener la pietra o la penna annessa alla
superficie della Terra ci fusse di bisogno che 'l suo descender a basso fusse
piú o tanto quanto è il moto fatto per la tangente, voi areste ragione a
dir che bisognasse che ella si movesse altrettanto o piú velocemente per la
segante all'ingiú che per la tangente verso levante; ma non mi avete voi detto
poco fa, che mille braccia di distanza per la tangente dal contatto non
rimuovono appena un dito dalla circonferenza? Non basta, dunque, che il moto
per la tangente, che è quel della vertigine diurna, sia semplicemente
piú veloce del moto per la segante, che è quel della penna all'ingiú; ma
bisogna che quello sia tanto piú veloce, che 'l tempo che basta a condur la
penna, verbigrazia, mille braccia per la tangente, sia poco per il muoversi un
sol dito all'ingiú per la segante: il che vi dico che non sarà mai, fate
pur quel moto veloce, e questo tardo, quanto vi piace.
SIMP. E perché non potrebbe esser quello per la
tangente tanto veloce, che non desse tempo alla penna d'arrivar alla superficie
della Terra?
SALV. Provate a mettere il caso in termini, ed io
vi risponderò. Dite adunque quanto vi par che bastasse far quel moto piú
veloce di questo.
SIMP. Dirò, per esempio, che quando quello
fusse un milion di volte piú veloce di questo, la penna e anco la pietra
verrebbero estruse.
SALV. Voi dite cosí, e dite il falso, solo per
difetto non di logica o di fisica o di metafisica, ma di geometria: perché, se
voi intendeste solo i primi elementi sapreste che dal centro del cerchio si
può tirare una retta linea sino alla tangente, che la tagli in modo che
la parte della tangente tra 'l contatto e la segante sia uno, due e tre milioni
di volte maggior di quella parte della segante che resta tra la tangente e la
circonferenza; e di mano in mano che la segante sarà più vicina
al contatto, questa proporzione si fa maggiore in infinito: onde non è
da temere che, per veloce che sia la vertigine e lento il moto in giú, la
penna, o altro piú leggiero, possa cominciare a sollevarsi, perché sempre
l'inclinazione in giú supera la velocità della proiezione.
SAGR. Io non resto interamente capace di questo
negozio.
SALV. Io ve ne farò una dimostrazione
universalissima, e anco assai facile. Sia data proporzione quella che ha la B A
alla C, e sia B A maggior di C quanto esser si voglia; e sia il cerchio il cui
centro D, dal quale bisogni tirare una segante,
sì che la tangente ad essa segante abbia la proporzione che
ha B A alla C: prendasi delle due B A, C la terza proporzionale A I, e come B I
ad I A, cosí si faccia il diametro F E ad E G, e dal punto G tirisi la tangente
G H: dico esser fatto quanto bisognava, e come B A a C, cosí essere H G a G E.
Imperocché, essendo come B I ad I A cosí F E ad E G, sarà, componendo,
come B A ad A I cosí F G a G E; e perché la C è media proporzionale tra
B A, A I, e la GH è media tra FG, GE, però come BA a C, cosí
sarà FG a GH, cioè HG a GE, che è quel che bisognava fare.
SAGR. Resto capace di questa dimostrazione;
tuttavia non mi si toglie interamente ogni scrupolo, anzi mi sento rigirar per
la mente certa confusione, la quale, a guisa di nebbia densa ed oscura, non mi
lascia discerner, con quella lucidità che suole esser propria delle
ragioni matematiche, la chiarezza e necessità della conclusione. E
quello in che io mi confondo, è questo. È vero che gli spazii tra
la tangente e la circonferenza si vanno diminuendo in infinito verso 'l
contatto; ma è anco vero, all'incontro, che la propensione del mobile al
descendere si va facendo in esso sempre minore quanto egli si trova piú vicino
al primo termine della sua scesa, cioè allo stato di quiete, sí come
è manifesto da quello che voi ci dichiaraste, mostrando che il grave
descendente partendosi dalla quiete debbe passar per tutti i gradi di
tardità mezani tra essa quiete e qualsivoglia segnato grado di
velocità, li quali sono minori e minori in infinito. Aggiugnesi che essa
velocità e propensione al moto si va per un'altra ragione diminuendo
pure in infinito, e ciò avviene dal potersi in infinito diminuire la
gravità di esso mobile: talché le cagioni che diminuiscono la
propensione allo scendere, ed in conseguenza favoriscono la proiezione, son
due, cioè la leggerezza del mobile e la vicinità al termine di quiete,
ed amendue agumentabili in infinito; le quali hanno, all'incontro, il contrasto
di una sola causa del far la proiezione, la quale, benché essa parimente
agumentabile in infinito, non comprendo come essa sola non possa restar vinta
dall'unione ed accoppiamento dell'altre, che son due pure agumentabili in
infinito.
SALV. Dubitazione degna del signor Sagredo; e per
dilucidarla, sí che piú chiaramente venga da noi compresa, poiché voi ancora
dite d'averla in confuso, la verremo distinguendo con ridurla in figura, la
quale anco forse ci arrecherà agevolezza nel risolverla. Segniamo dunque
una linea perpendicolare verso il centro, e sia questa A C, ed ad essa sia ad
angoli retti la orizontale A B, sopra la quale si farebbe il moto della
proiezione e vi continuerebbe d'andare il proietto con movimento equabile,
quando la gravità non lo inclinasse a basso. Intendasi ora dal punto A
prodotta una linea retta, la quale con la A B contenga qualsivoglia angolo, e
sia questa A E, e notiamo sopra la A B alcuni spazii eguali A F, F H, H K,
e da essi tiriamo le perpendicolari F G, H I, K L sino alla A E. E
perché, come altra volta si è detto, il grave cadente, partendosi dalla
quiete, va acquistando sempre maggior grado di velocità di tempo in tempo,
secondo che l'istesso tempo va crescendo, possiamo figurarci gli spazii A F, F
H, H K rappresentarci tempi eguali, e le perpendicolari F G, H I, K L gradi di
velocità acquistati in detti tempi, sí che il grado di velocità
acquistato in tutto il tempo A K sia come la linea K L rispetto al grado H I
acquistato nel tempo A H, e 'l grado F G nel tempo A F, li quali gradi K L, H
I, F G hanno (come è manifesto) la medesima proporzione che i tempi KA,
HA, FA; e se altre perpendicolari si tireranno da i punti ad arbitrio notati
nella linea F A, sempre si troverranno gradi minori e minori in infinito,
procedendo verso il punto A, rappresentante il primo instante del tempo e il
primo stato di quiete: e questo ritiramento verso A ci rappresenta la prima
propensione al moto in giú, diminuita in infinito per l'avvicinamento del
mobile al primo stato di quiete, il quale avvicinamento è agumentabile
in infinito. Troveremo adesso l'altra diminuzion di velocità, che pure
si può fare in infinito per la diminuzion della gravità del
mobile; e questo si rappresenterà col produrre altre linee dal punto A,
le quali contengano angoli minori dell'angolo BAE, qual sarebbe questa A D, la
quale, segando le parallele K L, H I, F G ne' punti M, N, O, ci figura i gradi
F O, H N, K M acquistati ne i tempi A F, A H, A K, minori de gli altri gradi F
G, H I, K L acquistati ne i medesimi tempi, ma questi come da un mobile piú
grave, e quelli da un piú leggiero. Ed è manifesto che col ritirar la
linea E A verso A B, ristrignendo l'angolo E A B (il che si può fare in
infinito, sí come la gravità in infinito si può diminuire), si
vien parimente a diminuire in infinito la velocità del cadente, ed in
conseguenza la causa che impediva la proiezione: e però pare che
dall'unione di queste due ragioni contro alla proiezione, diminuite in
infinito, non possa ella esser impedita. E riducendo tutto l'argomento in brevi
parole, diremo: Col ristrigner l'angolo E A B si diminuiscono i gradi di
velocità L K, I H, G F; ed in oltre col ritirar le parallele K L, H I, F
G verso l'angolo A si diminuiscono pure i medesimi gradi, e l'una e l'altra
diminuzione si estende in infinito: adunque la velocità del moto in giú
si potrà ben diminuir tanto e tanto (potendosi doppiamente diminuire in
infinito), che ella non basti per restituire il mobile sopra la circonferenza
della ruota, e per fare, in conseguenza, che la proiezione venga impedita e
tolta. All'incontro poi, per far che la proiezion non segua, bisogna che gli
spazii per i quali il proietto deve scendere per riunirsi alla ruota, si
facciano cosí brevi ed angusti, che per tarda, anzi pur diminuita in infinito,
che sia la scesa del mobile, ella pur basti a ricondurvelo; e però
bisognerebbe che si trovasse una diminuzione di essi spazii non solo fatta in
infinito, ma di una infinità tale che superasse la doppia
infinità che si fa nella diminuzion della velocità del cadente in
giú. Ma come si diminuirà una magnitudine piú di un'altra che si
diminuisce doppiamente in infinito? Ora noti il signor Simplicio quanto si
possa ben filosofare in natura senza geometria! I gradi della velocità
diminuiti in infinito, sí per la diminuzion della gravità del mobile sí
per l'avvicinamento al primo termine del moto, cioè allo stato di
quiete, sempre son determinati, e proporzionatamente rispondono alle parallele
comprese tra due linee rette concorrenti in un angolo, conforme all'angolo B A
E o B A D o altro in infinito piú acuto, ma però sempre rettilineo; ma
la diminuzione degli spazii per li quali il mobile ha da ricondursi sopra la
circonferenza della ruota è proporzionata ad un'altra sorte di
diminuzione, compresa dentro a linee che contengono un angolo infinitamente piú
stretto ed acuto di qualsivoglia acuto rettilineo, quale sarà questo.
Piglisi nella perpendicolare A C qualsivoglia punto C, e fattolo centro,
descrivasi con l'intervallo C A un arco A M P, il quale taglierà le
parallele determinatrici de i gradi di velocità, per minime che elle
siano e comprese dentro ad angustissimo angolo rettilineo; delle quali parallele
le parti che restano tra l'arco e la tangente A B sono le quantità de
gli spazii e de i ritorni sopra la ruota, sempre minori, e con maggior
proporzione minori quanto piú s'accostano al contatto, minori, dico, di esse
parallele, delle quali son parti. Le parallele comprese tra le linee rette, nel
ritirarsi verso l'angolo, diminuiscono sempre con la medesima proporzione,
come, verbigrazia, essendo divisa la A H in mezo nel punto F, la parallela H I
sarà doppia della F G, e suddividendo la F A in mezo, la parallela prodotta
dal punto della divisione sarà la metà della F G, e continuando
la suddivisione in infinito, le parallele sussequenti saranno sempre la
metà delle prossime precedenti: ma non cosí avviene delle linee
intercette tra la tangente e la circonferenza del cerchio; imperocché, fatta
l'istessa suddivisione nella F A e posto, per esempio, che la parallela che
vien dal punto H fusse doppia di quella che vien da F, questa sarà poi
piú che doppia della seguente, e continuamente quanto verremo verso il toccamento
A troveremo le precedenti linee contenere le prossime seguenti tre, quattro,
dieci, cento, mille, centomila, e cento milioni, e piú in infinito. La
brevità, dunque, di tali linee si riduce a tale, che di gran lunga
supera il bisogno per far che il proietto, per leggerissimo che sia, ritorni,
anzi pur si mantenga, sopra la circonferenza.
SAGR. Io resto molto ben capace di tutto il
discorso e della forza con la quale egli strigne: tuttavia mi pare che chi
volesse travagliarlo ancora, potrebbe muoverci qualche difficultà, con
dire che delle due cause che rendono la scesa del mobile piú e piú tarda in
infinito, è manifesto che quella che depende dalla vicinità al
primo termine della scesa, cresce sempre con la medesima proporzione, sí come sempre
mantengono l'istessa proporzione tra di loro le parallele etc.; ma che la
diminuzion della medesima velocità dependente dalla diminuzion della
gravità del mobile (che era la seconda causa) si faccia essa ancora con
la medesima proporzione, non par cosí manifesto. E chi ci assicura che ella non
si faccia secondo la proporzione delle linee intercette tra la tangente e la
circonferenza, o pur anco con proporzion maggiore?
SALV. Io avevo preso come per vero che le
velocità de i mobili naturalmente descendenti seguitassero la proporzione
delle loro gravità, in grazia del signor Simplicio e d'Aristotile, che
in piú luoghi l'afferma come proposizione manifesta; voi, in grazia
dell'avversario, ponete ciò in dubbio, ed asserite poter esser che la
velocità si accresca con proporzion maggiore, ed anco maggiore in
infinito, di quella della gravità, onde tutto il discorso passato vadia
per terra; resta a me, per sostenerlo, il dire che la proporzione delle
velocità è molto minore di quella delle gravità, e cosí
non solamente sollevare, ma fortificare, quanto si è detto: e di questo
ne adduco per prova l'esperienza, la quale ci mostrerà che un grave anco
ben trenta e quaranta volte piú di un altro, qual sarebbe, per esempio, una
palla di piombo ed una di sughero non si moverà né anco a gran pezzo piú
veloce il doppio. Ora, se la proiezione non si farebbe quando ben la
velocità del cadente si diminuisse secondo la proporzione della
gravità, molto meno si farà ella tutta volta che poco si scemi la
velocità per molto che si detragga del peso. Ma posto anco che la
velocità si diminuisse con proporzione assai maggiore di quella con che
si scemasse la gravità, quando ben anco ella fusse quella stessa con la
quale si diminuiscono quelle parallele tra la tangente e la circonferenza, io
non penetro necessità veruna che mi persuada doversi far la proiezione
di materie quanto si vogliano leggierissime, anzi affermo pure che ella non si
farà, intendendo però di materie non propriamente leggierissime,
cioè prive di ogni gravità e che per lor natura vadano in alto,
ma che lentissimamente descendano ed abbiano pochissima gravità: e
quello che mi muove a cosí credere è che la diminuzione di
gravità, fatta secondo la proporzione delle parallele tra la tangente e
la circonferenza, ha per termine ultimo ed altissimo la nullità di peso,
come quelle parallele hanno per ultimo termine della lor diminuzione l'istesso
contatto, che è un punto indivisibile; ora la gravità non si
diminuisce mai sino al termine ultimo, perché cosí il mobile non sarebbe grave;
ma ben lo spazio del ritorno del proietto alla circonferenza si riduce
all'ultima piccolezza, il che è quando il mobile posa sopra la
circonferenza nell'istesso punto del contatto, talché per ritornarvi non ha
bisogno di spazio quanto: e però, sia quanto si voglia minima la
propensione al moto in giú, sempre è ella piú che a bastanza per
ricondurre il mobile su la circonferenza, dalla quale ei dista per lo spazio
minimo, cioè per niente.
SAGR. Veramente il discorso è molto sottile,
ma altrettanto concludente; ed è forza confessare che il voler trattar
le quistioni naturali senza geometria è un tentar di fare quello che
è impossibile ad esser fatto.
SALV. Ma il signor Simplicio non dirà cosí;
se bene io non credo ch'ei sia di quei Peripatetici che dissuadono i lor discepoli
dallo studio delle mattematiche, come quelle che depravano il discorso e lo
rendono meno atto alla contemplazione.
SIMP. Io non farei questo torto a Platone, ma direi
bene con Aristotile che ei s'immerse troppo e troppo s'invaghí di quella sua
geometria; perché finalmente queste sottigliezze mattematiche, signor Salviati,
son vere in astratto, ma applicate alla materia sensibile e fisica non
rispondono: perché dimostrerranno ben i mattematici con i lor principii, per
esempio, che sphæra tangit planum in puncto, proposizione simile
alla presente; ma come si viene alla materia, le cose vanno per un altro verso:
e cosí voglio dire di quest'angoli del contatto e di queste proporzioni, che
tutte poi vanno a monte quando si viene alle cose materiali e sensibili.
SALV. Adunque voi non credete altrimenti che la
tangente tocchi la superficie del globo terrestre in un punto?
SIMP. Non solo in un punto, ma credo che molte e
molte decine e forse centinaia di braccia vadia una linea retta toccando la
superficie anco dell'acqua, non che della Terra, prima che separarsi da lei.
SALV. Ma s'io vi concedo questa cosa, non
v'accorgete voi che tanto peggio è per la causa vostra? perché, se posto
che la tangente, da un sol punto in fuori, fusse separata dalla superficie
della Terra, si è ad ogni modo dimostrato che per la grande strettezza
dell'angolo della contingenza (se però si deve chiamar angolo) il
proietto non si separerebbe, quanto meno avrà egli causa di separarsi se
quell'angolo si chiuda affatto e la superficie e la tangente procedano
unitamente? Non vedete voi che a questo modo la proiezione si farebbe su
l'istessa superficie della Terra, che tanto è quanto a dire che ella non
si farebbe? Vedete adunque qual sia la forza del vero, che mentre voi cercate
d'atterrarlo, i vostri medesimi assalti lo sollevano e l'avvalorano. Ma
già che vi ho tratto di questo errore, non vorrei già lasciarvi
in quest'altro, che voi stimaste che una sfera materiale non tocchi un piano in
un sol punto; e vorrei pur che la conversazione, ancor che di poche ore, avuta
con persone che hanno qualche cognizion di geometria vi facesse comparir un
poco piú intelligente tra quei che non ne sanno niente. Or, per mostrarvi
quanto sia grande l'error di coloro che dicono che una sfera, verbigrazia, di
bronzo, non tocca un piano, verbigrazia, d'acciaio, in un punto, ditemi qual
concetto voi vi formeresti di uno che dicesse e costantemente asseverasse che
la sfera non fusse veramente sfera.
SIMP. Lo stimerei per privo di discorso affatto.
SALV. In questo stato è colui che dice che
la sfera materiale non tocca un piano, pur materiale, in un punto, perché il
dir questo è l'istesso che dire che la sfera non è sfera. E che
ciò sia vero, ditemi in quello che voi costituite l'essenza della sfera,
cioè che cosa è quella che fa differir la sfera da tutti gli
altri corpi solidi.
SIMP. Credo che l'essere sfera consista nell'aver tutte
le linee rette, prodotte dal suo centro sin alla circonferenza eguali.
SALV. Talché quando tali linee non fussero eguali,
quel tal solido non sarebbe altrimenti una sfera.
SIMP. Signor
no.
SALV. Ditemi appresso, se voi credete che delle
molte linee che si posson tirar tra due punti, ve ne possa essere altro che una
retta sola.
SIMP. Signor
no.
SALV. Ma voi intendete pure che questa sola retta
sarà poi per necessità la brevissima di tutte l'altre.
SIMP. L'intendo, e ne ho anche la dimostrazion
chiara, arrecata da un gran filosofo peripatetico; e parmi, se ben mi ricorda,
ch'ei la porti riprendendo Archimede, che la suppone come nota, potendola
dimostrare.
SALV. Questo sarà stato un gran matematico,
avendo potuto dimostrar quel che né seppe né potette dimostrare Archimede; e se
ve ne sovvenisse la dimostrazione, la sentirei volentieri, perché mi ricordo
benissimo che Archimede ne i libri della sfera e del cilindro mette cotesta
proposizione tra i postulati, e tengo per fermo che l'avesse per indimostrabile.
SIMP. Credo che mi sovverrà, perch'ella
è assai facile e breve.
SALV. Tanto sarà maggior la vergogna
d'Archimede, e la gloria di cotesto filosofo.
SIMP. Io farò la sua figura. Tra i punti A,
B tira la linea retta A B e la curva A C B, delle quali ei vuol provare la
retta esser piú breve; e la prova è tale.
Nella curva piglia un punto, che sarebbe C, e tira
due altre rette A C, C B, le quali due sono piú lunghe della sola A B, che cosí
dimostra Euclide, ma la curva A C B è maggiore delle due rette A C, C B;
adunque a fortiori la curva A C B sarà molto maggiore della retta
A B, che è quello che si doveva dimostrare.
SALV. Io non credo che a cercar tutti i paralogismi
del mondo si potesse trovare il piú accomodato di questo per dare un esempio
della piú solenne fallacia che sia tra tutte le fallacie, cioè di quella
che prova ignotum per ignotius.
SIMP. In che modo?
SALV. Come in che modo? la conclusione ignota, che
voi volete provare, non è che la curva A C B sia piú lunga della retta A
B? il mezo termine, che si piglia per noto, non è che la curva A C B sia
maggior delle due A C, C B, le quali è noto esser maggior della A B? e
se vi è ignoto che la curva sia maggiore della sola retta A B, come non
sarà egli assai piú ignoto che ella sia maggiore delle due rette A C, C
B, che si sa esser maggiori della sola A B? e voi lo prendete per noto?
SIMP. Io non intendo ancor bene dove consista la
fallacia.
SALV. Come le due rette sien maggiori della A B (sí
come è noto per Euclide), tuttavolta che la curva sia maggior delle due
rette A C, C B, non sarà ella molto maggiore della sola retta A B?
SIMP. Signor
sí.
SALV. Esser maggiore la curva A C B della retta A B
è la conclusione, piú nota del mezo termine, che è l'esser la
medesima curva maggior delle due rette A C, C B: ora, quando il mezo è
manco noto della conclusione, si domanda provare ignotum per ignotius.
Or torniamo al nostro proposito: basta che voi intendete, la retta esser la
brevissima di tutte le linee che si posson tirare fra due punti. E quanto alla
principal conclusione, voi dite che la sfera materiale non tocca il piano in un
sol punto: qual è dunque il suo contatto?
SIMP. Sarà una parte della sua superficie.
SALV. E il contatto parimente d'un'altra sfera
eguale alla prima, sarà pure una simil particella della sua superficie?
SIMP. Non ci è ragione che non deva esser
cosí.
SALV. Adunque ancor le due sfere, toccandosi, si
toccheranno con le due medesime particelle di superficie, perché, adattandosi
ciascheduna di esse all'istesso piano, è forza che si adattino ancor fra
di loro. Imaginatevi ora le due sfere, i cui centri A, B, che si tocchino, e
congiungansi i lor centri con la retta linea A B, la quale passerà per
il toccamento. Passi per il punto C, e preso nel toccamento un altro punto D,
congiungansi le due rette A D, B D, sí che si constituisca il triangolo ADB,
del quale i due lati AD, DB saranno eguali all'altro solo A C B, contenendo,
tanto quelli quanto questi, due semidiametri, che per la definizion della sfera
sono tutti eguali: e cosí la retta A B, tirata tra i due centri A,
B, non sarà la brevissima di tutte, essendoci le due AD, DB eguali a
lei; il che per le vostre concessioni è assurdo.
SIMP. Questa dimostrazione conclude delle sfere in
astratto, e non delle materiali.
SALV. Assegnatemi dunque in che cosa consiste la
fallacia del mio argomento, già che non conclude nelle sfere materiali,
ma sí bene nelle immateriali e astratte.
SIMP. Le sfere materiali son soggette a molti
accidenti, a i quali non soggiacciono le immateriali. E perché non può
esser che, posandosi una sfera di metallo sopra un piano, il proprio peso non
calchi in modo che il piano ceda qualche poco, o vero che l'istessa sfera nel
contatto si ammacchi? In oltre, quel piano difficilmente potrà esser
perfetto, quando non per altro, almeno per esser la materia porosa; e forse non
sarà men diffficile il trovare una sfera cosí perfetta, che abbia tutte
le linee dal centro alla superficie egualissime per l'appunto.
SALV. Oh tutte queste cose ve le concedo io
facilmente, ma elle sono assai fuor di proposito; perché mentre voi volete
mostrarmi che una sfera materiale non tocca un piano materiale in un punto, voi
vi servite d'una sfera che non è sfera e d'un piano che non è
piano, poiché, per vostro detto, o queste cose non si trovano al mondo, o se si
trovano si guastano nell'applicarsi a far l'effetto. Era dunque manco male che
voi concedeste la conclusione. ma condizionatamente, cioè che se si
desse in materia una sfera e un piano che fussero e si conservassero perfetti,
si toccherebber in un sol punto, e negaste poi ciò potersi dare.
SIMP. Io credo che la proposizione de i filosofi
vadia intesa in cotesto senso, perché non è dubbio che l'imperfezion
della materia fa che le cose prese in concreto non rispondono alle considerate
in astratto.
SALV. Come non si rispondono? Anzi quel che voi
stesso dite al presente prova che elle rispondon puntualmente.
SIMP. In che modo?
SALV. Non dite voi che per l'imperfezion della
materia quel corpo che dovrebbe esser perfetto sferico, e quel piano che
dovrebbe esser perfetto piano, non riescono poi tali in concreto quali altri se
gli immagina in astratto?
SIMP. Cosí dico.
SALV. Adunque, tuttavolta che in concreto voi
applicate una sfera materiale a un piano materiale, voi applicate una sfera non
perfetta a un piano non perfetto; e questi dite che non si toccano in un punto.
Ma io vi dico che anco in astratto una sfera immateriale, che non sia sfera perfetta,
può toccare un piano immateriale, che non sia piano perfetto, non in un
punto, ma con parte della sua superficie; talché sin qui quello che accade in
concreto, accade nell'istesso modo in astratto: e sarebbe ben nuova cosa che i
computi e le ragioni fatte in numeri astratti, non rispondessero poi alle
monete d'oro e d'argento e alle mercanzie in concreto. Ma sapete, signor
Simplicio, quel che accade? Sí come a voler che i calcoli tornino sopra i
zuccheri, le sete e le lane, bisogna che il computista faccia le sue tare di
casse, invoglie ed altre bagaglie, cosí, quando il filosofo geometra vuol
riconoscere in concreto gli effetti dimostrati in astratto, bisogna che
difalchi gli impedimenti della materia; che se ciò saprà fare, io
vi assicuro che le cose si riscontreranno non meno aggiustatamente che i
computi aritmetici. Gli errori dunque non consistono né nell'astratto né nel
concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa
fare i conti giusti. Però, quando voi aveste una sfera ed un piano
perfetti, benché materiali, non abbiate dubbio che si toccherebbero in un
punto; e se questo era ed è impossibile ad aversi, molto fuor di
proposito fu il dire che sphæra æenea non tangit in puncto.
Ma piú vi aggiungo, signor Simplicio: concedutovi che non si possa dare in
materia una figura sferica perfetta né un piano perfetto, credete voi che si
possano dare due corpi materiali di superficie in qualche parte e in qualche
modo incurvata, anco quanto si voglia irregolatamente?
SIMP. Di questi non credo che ce ne manchino.
SALV. Come ve ne siano di tali, questi ancora si
toccheranno in un punto, ché il toccarsi in un sol punto non è miga
privilegio particolare del perfetto sferico e del perfetto piano. Anzi chi piú
sottilmente andasse contemplando questo negozio, troverebbe che piú difficile
assai è il trovar due corpi che si tocchino con parte delle lor
superficie, che con un punto solo: perché a voler che due superficie combagino
bene insieme, bisogna o che amendue sieno esattamente piane, o che se una
è colma, l'altra sia concava, ma di una incavatura che per appunto
risponda al colmo dell'altra; le quali condizioni son molto piú difficili a
trovarsi, per la lor troppo stretta determinazione, che le altre, che nella
casual larghezza son infinite.
SIMP. Adunque voi credete che due pietre o due
ferri, presi a caso e accostati insieme, il piú delle volte si tocchino in un
sol punto?
SALV. Ne gli incontri casuali credo di no, sí
perché per lo piú sopra essi sarà qualche poco d'immondizia cedente, sí
perché non si usa diligenza in applicargli insieme senza qualche percossa, ed
ogni poca basta a far che l'una superficie ceda qualche poco all'altra, sí che
scambievolmente si figurino, almeno in qualche minima particella, l'una
all'impronta dell'altra: ma quando le superficie loro fussero ben terse, e che
posati amendue sopra una tavola, acciocché l'uno non gravasse sopra all'altro,
si spingessero pian piano l'uno verso l'altro, io non ho dubbio che potrebbero
condursi al semplice contatto in un sol punto.
SAGR. Egli è forza che con vostra licenza io
proponga certa mia difficultà, natami nel sentir proporre al signor
Simplicio la impossibilità che è nel potersi trovare un corpo
materiale e solido che abbia perfettamente la figura sferica, e nel veder il signor
Salviati prestargli in certo modo, non contradicendo, l'assenso. Però
vorrei sapere se la medesima difficultà si trovi nel figurare un solido
di qualche altra figura, cioè, per dichiararmi meglio, se maggior
difficultà si trovi in voler ridurre un pezzo di marmo in figura d'una
sfera perfetta, che d'una perfetta piramide o d'un perfetto cavallo o d'una
perfetta locusta.
SALV. Per questa prima risposta, la darò io:
e prima mi scuserò dell'assenso che vi pare ch'io abbia prestato al
signor Simplicio, il quale era solamente per a tempo, perché io ancora avevo in
animo, avanti che entrare in altra materia, dir quello che per avventura
sarà l'istesso o assai conforme al vostro pensiero. E rispondendo alla
vostra prima interrogazione, dico che se figura alcuna si può dare a un
solido, la sferica è la facilissima sopra tutte l'altre, sì come
è anco la semplicissima e tiene tra le figure solide quel luogo che il
cerchio tiene tra le superficiali: la descrizion del qual cerchio, come piú
facile di tutte le altre, essa sola è stata giudicata da i matematici
degna d'esser posta tra i postulati attenenti alle descrizioni di tutte l'altre
figure. Ed è talmente facile la formazion della sfera, che se in una
piastra piana di metallo duro si caverà un vacuo circolare, dentro al
quale si vadia rivolgendo casualmente qualsivoglia solido assai grossamente
tondeggiato, per se stesso senz'altro artifizio si ridurrà in figura
sferica, quanto piú sia possibile perfetta, purché quel tal solido non sia
minore della sfera che passasse per quel cerchio; e quel che ci è anche
di piú degno di considerazione è che dentro a quel medesimo incavo si
formeranno sfere di diverse grandezze. Quello poi che ci voglia per formare un
cavallo o (come voi dite) una locusta, lo lascio giudicare a voi, che sapete
che pochissimi scultori si troveranno al mondo atti a poterlo fare; e credo che
il signor Simplicio in questo particolare non dissentirà da me.
SIMP. Non so se io dissenta punto da voi.
L'oppinion mia è che nessuna delle nominate figure si possa
perfettamente ottenere; ma per avvicinarsi quanto si possa al piú perfetto
grado, credo che incomparabilmente sia piú agevole il ridurre il solido in
figura sferica, che in forma di cavallo o di locusta.
SAGR. E questa maggior difficultà da che
credete voi che ella dependa?
SIMP. Sì come la grand'agevolezza nel formar
la sfera deriva dalla sua assoluta semplicità ed uniformità, cosí
la somma irregolarità rende difficilissimo l'introdur l'altre figure.
SAGR. Adunque, come l'irregolarità è
causa di difficultà, anco la figura di un sasso rotto con un martello a
caso sarà delle difficili a introdursi, essendo essa ancora irregolare
forse piú di quella del cavallo?
SIMP. Cosí deve essere.
SAGR. Ma ditemi: quella figura, qualunque ella si
sia, che ha quel sasso, hall'egli perfettissimamente o pur no?
SIMP. Quella che egli ha, l'ha tanto perfettamente,
che nessun'altra le si assesta tanto puntualmente.
SAGR. Adunque, se delle figure irregolari, e
perciò difficili a conseguirsi, pur se ne trovano infinite perfettissimamente
ottenute, con qual ragione si potrà dire che la semplicissima, e per
ciò facilissima piú di tutte, sia impossibile a ritrovarsi?
SALV. Signori, con vostra pace, mi par che noi
siamo entrati in una disputa non molto piú rilevante che quella della lana
caprina, e dove che i nostri ragionamenti dovrebber continuar di esser intorno
a cose serie e rilevanti, noi consumiamo il tempo in altercazioni frivole e di
nessun rilievo. Ricordiamoci in grazia che il cercar la costituzione del mondo
è de' maggiori e de' piú nobil problemi che sieno in natura, e tanto
maggior poi, quanto viene indrizzato allo scioglimento dell'altro, dico della
causa del flusso e reflusso del mare, cercata da tutti i grand'uomini che sono
stati sin qui e forse da niun ritrovata: però, quando altro non ci resti
da produrre per l'assoluto scioglimento dell'instanza presa dalla vertigine
della Terra, che fu l'ultima portata per argomento della sua immobilità
circa il proprio centro, potremo passare allo scrutinio delle cose che sono in
pro e contro al movimento annuo.
SAGR. Non vorrei, signor Salviati, che voi
misuraste gl'ingegni di noi altri con la misura del vostro: voi, avvezzo sempre
ad occuparvi in contemplazioni altissime, stimate frivole e basse tal una di
quelle che a noi paiono degno cibo de' nostri intelletti; però talvolta,
per sodisfazione nostra, non vi sdegnate di abbassarvi a concedere qualcosa
alla nostra curiosità. Quanto poi allo scioglimento dell'ultima
instanza, presa dallo scagliamento della vertigine diurna, per sodisfare a me
bastava assai meno di quello che si è prodotto; tuttavia le cose che si
son dette soprabbondantemente, mi son parse tanto curiose, che non solo non mi
hanno stancata la fantasia, ma me l'hanno con le loro novità trattenuta
sempre con diletto tale che maggior non saprei desiderarne: però se
qualche altra specolazione resta a voi da aggiugnervi, producetela pure, ch'io
per la parte mia molto volentieri la sentirò.
SALV. Io nelle cose trovate da me ho sempre sentito
grandissimo diletto, e doppo questo, che è il massimo, provo gran
piacere nel conferirle con qualche amico che le capisca e che mostri di
gustarle: or, poiché voi sete uno di questi, allentando un poco la briglia alla
mia ambizione, che gode dentro di sé quando io mi mostro piú perspicace di
qualche altro reputato di acuta vista, produrrò, per colmo e buona
misura della discussion passata, un'altra fallacia de i seguaci di Tolomeo e
d'Aristotile, presa nel già prodotto argomento.
SAGR. Ecco che io avidamente mi apparecchio a
sentirla.
SALV. Noi aviamo sin qui trapassato e conceduto a
Tolomeo come effetto indubitabile, che procedendo lo scagliamento del sasso
dalla velocità della ruota mossa intorno al suo centro, tanto si
accresca la causa di esso scagliamento, quanto la velocità della
vertigine si agumenta; dal che si inferiva che essendo la velocità della
terrestre vertigine sommamente maggiore di quella di qualsivoglia macchina che
noi artifiziosamente possiam far girare, l'estrusione in conseguenza delle
pietre e de gli animali etc. dovesse esser violentissima. Ora io noto che in
questo discorso è una grandissima fallacia, mentre noi indifferentemente
ed assolutamente paragoniamo le velocità tra di loro. È vero che
s'io fo comparazione delle velocità della medesima ruota o di due ruote
eguali tra di loro, quella che piú velocemente sarà girata, con maggior
impeto scaglierà le pietre, e crescendo la velocità, con la
medesima proporzione crescerà anco la causa della proiezione; ma quando
la velocità si facesse maggiore non con l'accrescer velocità
nell'istessa ruota, che sarebbe co 'l fargli dar numero maggiore di conversioni
in tempi eguali, ma co 'l crescere il diametro e far la ruota maggiore, sí che
ritenendo il medesimo tempo di una conversione tanto nella piccola quanto nella
gran ruota, e solo nella grande la velocità fusse maggiore per esser la
sua circonferenza maggiore, non sia chi creda che la causa dello scagliamento
nella gran ruota crescesse secondo la proporzione della velocità della
sua circonferenza verso la velocità della circonferenza della minor
ruota, perché questo è falsissimo, come per adesso una speditissima
esperienza ci potrà mostrar cosí alla grossa: ché tal pietra potremmo
noi scagliare con una canna lunga un braccio, che con una lunga sei braccia non
potremo, ancorché il moto dell'estremità della canna lunga, cioè
della pietra incastratavi, fusse piú veloce il doppio del moto della punta
della canna piú corta; che sarebbe quando le velocità fussero tali, che
nel tempo di una conversione intera della canna maggiore, la minore ne facesse
tre.
SAGR Questo, signor Salviati, che voi mi dite,
già comprendo io dovere necessariamente succeder cosí; ma non mi sovvien
già prontamente la causa perché eguali velocità non abbiano a
operare egualmente in estruder i proietti, ma assai piú quella della ruota
minore che l'altra della ruota maggiore: però vi prego a dichiararmi
come il negozio cammina.
SIMP. Voi, signor Sagredo, questa volta vi sete
dimostrato dissimile a voi medesimo, che solete in un momento penetrar tutte le
cose, ed ora trapassate una fallacia posta nell'esperienza delle canne, la
quale ho io potuto penetrare; e questa è la diversa maniera di operare
nel far la proiezione or con la canna breve ed or con la lunga: perché a voler
che la pietra scappi fuor della cocca, non bisogna continuar uniformemente il
suo moto, ma allora ch'egli è velocissimo, convien ritenere il braccio e
reprimer la velocità della canna, perloché la pietra, che già
è in moto velocissimo, scappa e con impeto si muove; ma tal ritegno non
si può far nella canna maggiore, la quale, per la sua lunghezza e
flessibilità, non ubbidisce interamente al freno del braccio, ma,
continuando di accompagnare il sasso per qualche spazio, co 'l dolcemente
frenarlo se lo ritien congiunto, e non, come se in un duro intoppo avesse
urtato, da sé lo lascia fuggire: ché quando amendue le canne urtassero in un
ritegno che le fermasse, io credo che la pietra parimente scapperebbe dall'una
e dall'altra, ancorché i movimenti loro fussero egualmente veloci.
SAGR. Con licenzia del signor Salviati,
risponderò io alcuna cosa al signor Simplicio, poiché egli a me si
è rivoltato: e dico che nel suo discorso vi è del buono e del
cattivo; buono, perché quasi tutto è vero; cattivo, perché non fa in
tutto al proposito nostro. Verissimo è, che quando quello che con
velocità porta le pietre, urtasse in un ritegno immobile, esse con
impeto scorrerebbero innanzi, seguendone quell'effetto che tutto il giorno si
vede accadere in una barca che, scorrendo velocemente, arreni o urti in qualche
ostacolo, che tutti quelli che vi son dentro, colti all'improvviso,
repentinamente traboccano e cascano verso dove correva il navilio; e quando il
globo terrestre incontrasse un intoppo tale che del tutto resistesse alla sua
vertigine e la fermasse, allora sì ch'io credo che non solamente le
fiere, gli edifizii e le città, ma le montagne, i laghi e i mari si
sovvertirebbero, e pur che il globo stesso non si dissipasse: ma niente di
questo fa al proposito nostro, che parliamo di quel che possa seguire al moto
della Terra girata uniformemente e placidamente in se stessa, ancorché con
velocità grande. Quello parimente che voi dite delle canne, è in
parte vero, ma non fu portato dal signor Salviati come cosa che puntualmente si
assesti alla materia di cui trattiamo, ma solamente come un esempio che cosí
alla grossa possa destarci la mente a piú accuratamente considerare, se
crescendosi la velocità in qualsivoglia modo, con l'istessa proporzione
si accresca la causa della proiezione, sì che, verbigrazia, se una ruota
di dieci braccia di diametro, movendosi in maniera che un punto della sua
circonferenza passasse in un minuto d'ora cento braccia, e perciò avesse
impeto di scagliare una pietra, tale impeto si accresce centomila volte in una
ruota che avesse un milion di braccia di diametro: il che nega il signor
Salviati, ed io inclino a creder l'istesso; ma non ne sapendo la ragione, l'ho
da esso richiesta, e con desiderio la sto attendendo.
SALV. Eccomi per darvi quella sodisfazione che
dalle mie forze mi sarà conceduta; e benché nel mio primo parlare vi sia
per parer ch'io vadia ricercando cose aliene dal proposito nostro, tuttavia
credo che nel progresso del ragionamento troverremo che pur non saranno tali.
Però dicami il signor Sagredo in quali cose egli ha osservato consister
la resistenza di alcun mobile all'esser mosso.
SAGR. Io per adesso non veggo esser nel mobile
resistenza interna all'esser mosso se non la sua naturale inclinazione e
propensione al moto contrario, come ne' corpi gravi, che hanno propensione al
moto in giú, la resistenza è al moto in su: ed ho detto resistenza
interna, perché di questa credo che voi intendiate, e non dell'esterne, che
sono accidentali e molte.
SALV. Cosí ho voluto dire, e la vostra
perspicacità ha prevalso al mio avvedimento. Ma s'io sono stato scarso
nell'interrogare, dubito che il signor Sagredo non abbia, con la risposta,
adequata a pieno la domanda, e che nel mobile, oltre alla naturale inclinazione
al termine contrario, sia un'altra pure intrinseca e naturale qualità
che lo faccia renitente al moto. Però ditemi di nuovo: non credete voi
che l'inclinazione, verbigrazia, de i gravi di muoversi in giú sia eguale alla
resistenza de i medesimi all'essere spinti in su?
SAGR. Credo che ella sia tale per l'appunto; e per
questo veggo nella bilancia due pesi eguali restar fermi nell'equilibrio,
resistendo la gravità dell'uno all'esser alzato alla gravità con
la quale l'altro, premendo in giú, alzar lo vorrebbe.
SALV. Benissimo; sí che a voler che l'uno alzasse
l'altro, bisognerebbe accrescer peso al premente, o scemarlo all'altro. Ma se
nella sola gravità consiste la resistenza al moto in su, onde avviene
che nella bilancia di braccia diseguali, cioè nella stadera, talvolta un
peso di cento libbre, co 'l suo gravare in giú, non è bastante a alzarne
uno di quattro libbre, che gli contrasterà; e potrà questo di
quattro, abbassandosi alzare quello di cento? ché tale è l'effetto dei
romano verso il grave peso che noi vogliam pesare. Se la resistenza all'esser
mosso risiede nella sola gravità, come può il romano, co'l suo
peso di quattro libbre sole, resistere al peso di una balla di lana o di seta,
che sarà ottocento o mille, anzi pure potrà egli vincere co 'l
suo momento la balla e sollevarla? Bisogna pur, signor Sagredo, dire che qui si
lavori con altra resistenza e con altra forza, che con quella della semplice
gravità.
SAGR. È necessario che sia cosí: però
ditemi qual è questa seconda virtú.
SALV. È quello che non era nella bilancia di
braccia eguali. Considerate qual novità è nella stadera, ed in
questa di necessità consiste la causa del nuovo effetto.
SAGR. Credo che 'l vostro tentare mi abbia fatto
sovvenir non so che. In amendue gli strumenti si lavora co 'l peso e co 'l
moto: nella bilancia i movimenti sono eguali, e però l'un peso bisogna
che superi l'altro in gravità per muoverlo; nella stadera il peso minore
non moverà il maggiore se non quando questo si muova poco, essendo
appeso nella minor distanza, e quello si muova molto, pendendo da distanza
maggiore: bisogna dunque dire che 'l minor peso superi la resistenza del
maggiore co 'l muoversi molto, mentre l'altro si muova poco.
SALV. Che tanto è quanto a dire che la
velocità del mobile meno grave compensa la gravità del mobile piú
grave e meno veloce.
SAGR. Ma credete voi che la velocità ristori
per l'appunto la gravità? cioè che tanto sia il momento e la
forza di un mobile, verbigrazia, di quattro libbre di peso, quanto quella di un
di cento, qualunque volta quello avesse cento gradi di velocità e questo
quattro gradi solamente?
SALV. Certo sí, come io vi potrei con molte
esperienze mostrare: ma per ora bastivi la confermazione di questa sola della
stadera, nella quale voi vedrete il poco pesante romano allora poter sostenere
ed equilibrare la gravissima balla, quando la sua lontananza dal centro, sopra
il quale si sostiene e volgesi la stadera, sarà tanto maggiore
dell'altra minor distanza dalla quale pende la balla, quanto il peso assoluto
della balla è maggior di quel del romano. E di questo non poter la gran
balla co 'l suo peso sollevare il romano, tanto men grave, altro non si vede
poterne esser cagione che la disparità de i movimenti che e quella e
questo far dovrebbero, mentre che la balla con l'abbassarsi un sol dito facesse
alzare il romano cento dita (posto che la balla pesasse per cento romani, e la
distanza del romano dal centro della stadera fusse cento volte piú della
distanza tra 'l medesimo centro e 'l punto della sospension della balla): il
muoversi poi lo spazio di cento dita il romano, nel tempo che la balla si muove
per un sol dito, è l'istesso che 'l dire, esser la velocità del
moto del romano cento volte maggior della velocità del moto della balla.
Ora fermatevi bene nella fantasia, come principio vero e notorio, che la resistenza
che viene dalla velocità del moto compensa quello che depende dalla
gravità d'un altro mobile: sí che, in conseguenza, tanto resiste al
l'esser frenato un mobile d'una libbra, che si muova con cento gradi di
velocità, quanto un altro mobile di cento libbre, la cui velocità
sia d'un grado solo; ed all'esser mossi due mobili eguali resisteranno
egualmente, se si avranno a far muovere con egual velocità; ma se uno
doverà esser mosso piú velocemente dell'altro, farà maggior
resistenza, secondo la maggior velocità che se gli vorrà
conferire. Dichiarate queste cose, venghiamo all'esplicazion del nostro
problema; e per piú facile intelligenza facciamone un poco di figura. E siano
due ruote diseguali intorno a questo centro A, e della minore sia la
circonferenza B G, e della maggiore C E H, ed il semidiametro A B C sia eretto
all'orizonte, e per i punti B, C segniamo le rette linee tangenti B F, C D, e
ne gli archi B G, C E sieno prese due parti eguali B G, C E; ed intendasi le
due ruote esser girate sopra i lor centri con eguali velocità, sí che
due mobili, li quali sariano, verbigrazia, due pietre, poste ne' punti B e C,
vengano
portate per le circonferenze B G, C E con eguali velocità,
talché nell'istesso tempo che la pietra B scorrerebbe per l'arco B G, la pietra
C passerebbe l'arco C E: dico adesso che la vertigine della minor ruota
è molto piú potente a far la proiezion della pietra B, che non è
la vertigine della maggior ruota della pietra C. Imperocché dovendosi, come
già si è dichiarato, far la proiezione per la tangente, quando le
pietre B, C dovessero separarsi dalle lor ruote e cominciare il moto della
proiezione da i punti B, C, verrebbero dall'impeto concepito dalla vertigine
scagliate per le tangenti B F, C D: per le tangenti dunque B F, C D hanno, le
due pietre, eguali impeti di scorrere, e vi scorrerebbero se da qualche altra
forza non ne fussero deviate. Non sta cosí, signor Sagredo?
SAGR. Cosí mi par che cammini il negozio.
SALV. Ma qual forza vi par che possa esser quella
che devii le pietre dal muoversi per le tangenti, dove l'impeto della vertigine
veramente le caccia?
SAGR. È o la propria gravità, o
qualche colla che le ritien posate o attaccate sopra le ruote.
SALV. Ma a deviare un mobile dal moto dove egli ha
impeto, non ci vuol egli maggior forza o minore, secondo che la deviazione ha
da esser maggiore o minore? cioè, secondoché nella deviazione egli
dovrà nell'istesso tempo passar maggiore o minore spazio?
SAGR. Sí, perché già di sopra fu concluso
che a far muovere un mobile, con quanta maggior velocità si ha da far
muovere, tanto bisogna che sia maggiore la virtú movente.
SALV. Ora considerate come per deviar la pietra
della minor ruota dal moto della proiezione, che ella farebbe per la tangente B
F, e ritenerla attaccata alla ruota, bisogna che la propria gravità la
ritiri per quanto è lunga la segante F G, o vero la perpendicolare
tirata dal punto G sopra la linea B F; dove che nella ruota maggiore il
ritiramento non ha da esser piú che si sia la segante D E, o vero la
perpendicolare tirata dal punto E sopra la tangente D C, minor assai della F G,
e sempre minore e minore secondo che la ruota si facesse maggiore: e perché
questi ritiramenti si hanno a fare in tempi eguali, cioè mentre che si
passano li due archi eguali B G, C E, quello della pietra B, cioè il
ritiramento F G, doverà esser piú veloce dell'altro D E, e però
molto maggior forza si ricercherà per tener la pietra B congiunta alla
sua piccola ruota, che la pietra C alla sua grande; ch'è il medesimo che
dire, che tal poca cosa impedirà lo scagliamento nella ruota grande, che
non lo proibirà nella piccola. È manifesto, dunque, che quanto
piú si cresce la ruota, tanto si scema la causa della proiezione.
SAGR. Da questo che ora intendo mercé del vostro
lungo sminuzzamento, mi par di poter far restar pago il mio intelletto con
assai breve discorso: perché, venendo dalla velocità eguale delle due
ruote impresso impeto eguale in amendue le pietre per le tangenti, si vede la
gran circonferenza co 'l poco separarsi dalla tangente, andar secondando in un
certo modo e con dolce morso suavemente raffrenando nella pietra l'appetito,
per cosí dire, di separarsi dalla circonferenza, sí che qualunque piccol
ritegno, o della propria inclinazione o di qualche glutine, basta a mantenervela
congiunta; il quale poi resta invalido a ciò poter fare nella piccola
ruota, la quale, co 'l poco secondare la direzione della tangente, con troppa
ingorda voglia cerca ritenere a sé la pietra, e non essendo il freno e 'l
glutine piú gagliardo di quello che manteneva l'altra pietra unita con la
maggior ruota, si strappa la cavezza, e si corre per la tangente. Per tanto io
non solamente resto capace dell'aver tutti quelli errato, che hanno creduto
crescersi la cagione della proiezione secondo che si accresce la
velocità della vertigine; ma di piú vo considerando, che scemandosi la
proiezione nell'accrescersi la ruota, tuttavoltaché si mantenga la medesima
velocità in esse ruote, forse potrebbe esser vero che a voler che la
gran ruota scagliasse come la piccola, bisognasse crescerle tanto di
velocità, quanto se le cresce di diametro, che sarebbe quando le intere
conversioni si finissero in tempi eguali, e cosí si potrebbe stimare che la
vertigine della Terra non piú fusse bastante a scagliare le pietre, che
qualsivoglia altra piccola ruota che tanto lentamente si girasse, che in
ventiquattr'ore desse una sola rivolta.
SALV. Non voglio per ora che noi cerchiamo
tant'oltre; basta che assai abbondantemente abbiamo (s'io non m'inganno) mostrato
l'inefficacia dell'argumento, che nel primo aspetto pareva concludentissimo, e
tale era stato stimato da grandissimi uomini: ed assai bene speso mi
parrà il tempo e le parole, se anco nel concetto del signor Simplicio
averò guadagnato qualche credenza, non dirò della mobilità
della Terra, ma almanco del non esser l'opinion di coloro che la credono, tanto
ridicola e stolta, quanto le squadre de' filosofi comuni la tengono.
SIMP. Le soluzioni addotte sin qui all'instanze
fatte contro a questa diurna revoluzion della Terra, prese da i gravi cadenti
dalla sommità d'una torre, e da i proietti a perpendicolo in su o
secondo qualsivoglia inclinazione lateralmente, verso oriente, occidente,
mezzogiorno o settentrione etc., mi hanno in qualche parte scemata l'antiquata
incredulità concepita contro a tale opinione: ma altre maggiori
difficultà mi si aggirano adesso per la fantasia, dalle quali io
assolutamente non mi saprei mai sviluppare, né forse credo che voi medesimi ve
ne potrete disciorre; e può anco essere che venute non vi sieno
all'orecchie, perché sono assai moderne. E queste sono le opposizioni di due
autori che ex professo scrivono contro al Copernico: le prime si leggono
in un libretto di conclusioni naturali; le altre sono d'un gran filosofo e
matematico insieme, inserte in un trattato che egli fa in grazia d'Aristotile e
della sua opinione intorno all'inalterabilità del cielo, dove ei prova
che non pur le comete, ma anco le stelle nuove, cioè quella del
settantadua in Cassiopea e quella del seicentoquattro nel Sagittario, non erano
altrimenti sopra le sfere de i pianeti, ma assolutamente sotto il concavo della
Luna nella sfera elementare; e ciò dimostra egli contro a Ticone,
Keplero e molti altri osservatori astronomi, e gli abbatte con le loro armi medesime,
cioè per via delle parallassi. Io, se vi è in piacere,
produrrò le ragioni dell'uno e dell'altro, perché le ho lette piú d'una
volta con attenzione; e voi potrete esaminar la lor forza e dirne il vostro
parere.
SALV. Essendoché il nostro principal fine è
di produrre e ponderar tutto quello che è stato addotto in pro e contro
a i due sistemi Tolemaico e Copernicano, non è bene passar cosa alcuna
delle scritte in cotal materia.
SIMP. Comincerò dunque dall'instanze
contenute nel libretto delle conclusioni, e poi verrò all'altre.
Primieramente, dunque, l'autore con grand'acutezza va calcolando quante miglia
per ora fa un punto della superficie terrestre posto sotto l'equinoziale, e
quante si fanno da altri punti posti in altri paralleli; e non contento di
investigar tali movimenti in tempi orarii, gli trova anco in un minuto d'ora,
né contento del minuto, lo ritrova sino a uno scrupolo secondo; ma piú, e' va
insino a mostrar apertissimamente quante miglia farebbe in tali tempi una palla
d'artiglieria, posta nel concavo dell'orbe lunare, suppostolo anco tanto grande
quanto l'istesso Copernico se lo figura, per levar tutti i sutterfugii
all'avversario: e fatta quest'ingegnosissima ed esquisitissima supputazione,
dimostra che un grave cadente di lassú consumerebbe assai piú di sei giorni per
arrivar sino al centro della Terra, dove naturalmente tendono tutte le cose
gravi. Ora, quando dall'assoluta potenza divina o da qualche angelo fusse
miracolosamente trasferita lassú una grossissima palla di artiglieria, e posta
nel nostro punto verticale e di lí lasciata in sua libertà, è
ben, per suo e mio parere, incredibilissima cosa che ella nel descendere a
basso si andasse sempre mantenendo nella nostra linea verticale, continuando di
girare con la Terra intorno al suo centro per tanti giorni, descrivendo sotto
l'equinoziale una linea spirale nel piano di esso cerchio massimo, e sotto
altri paralleli linee spirali intorno a coni, e sotto i poli cadendo per una
semplice linea retta. Stabilisce poi e conferma questa grand'improbabilità
co 'l promover, per modo di interrogazioni, molte difficultà impossibili
a rimuoversi da i seguaci del Copernico; e sono, se ben mi ricorda…
SALV. Piano un poco: di grazia, signor Simplicio,
non vogliate avvilupparmi con tante novità in un tratto; io ho poca
memoria, e però mi bisogna andar di passo in passo. E perché mi sovviene
aver già voluto calcolare in quanto tempo un simil grave, cadendo dal
concavo della Luna, arriverebbe nel centro della Terra, e mi par ricordare che
il tempo non sarebbe sí lungo, sarà bene che voi ci dichiate con qual
regola quest'autore abbia fatto il suo computo.
SIMP. Hallo fatto, per provare il suo intento a
fortiori, vantaggioso assai per la parte avversa, supponendo che la
velocità del cadente per la linea verticale verso il centro della Terra
fusse eguale alla velocità del suo moto circolare fatto nel cerchio
massimo del concavo dell'orbe lunare, al cui ragguaglio verrebbe a fare in
un'ora dodicimila seicento miglia tedesche, cosa che veramente ha dell'impossibile;
tuttavia, per abbondare in cautela e dar tutti i vantaggi alla parte, ei la
suppone per vera, e conclude il tempo della caduta dovere ad ogni modo esser
piú di sei giorni.
SALV. E quest'è tutto il suo progresso? e
con questa dimostrazione prova, il tempo di tal cascata dover esser piú di sei
giorni?
SAGR. Parmi che e' si sia portato troppo
discretamente, poiché essendo in poter del suo arbitrio dar qual
velocità gli piaceva a un tal cadente, ed in conseguenza farlo venire in
Terra in sei mesi ed anco in sei anni, si è contentato di sei giorni. Ma
di grazia, signor Salviati, racconciatemi un poco il gusto co 'l dirmi in qual
maniera procedeva il vostro computo, già che voi dite averlo altra volta
fatto; ché ben son sicuro che se 'l quesito non ricercava qualche operazione
spiritosa, voi non vi areste applicata la mente.
SALV. Non basta, signor Sagredo, che la conclusione
sia nobile e grande, ma il punto sta nel trattarla nobilmente. E chi non sa che
nel resecar le membra di un animale si possono scoprir meraviglie infinite
della provida e sapientissima natura? tuttavia, per uno che il notomista ne
tagli, mille ne squarta il beccaio; ed io, nel cercar ora di sodisfare alla
vostra domanda, non so con quale delli due abiti sia per comparire in scena:
pur, preso animo dalla comparsa dell'autor del signor Simplicio, non
resterò di recitarvi (se mi sovverrà) il modo che io tenevo. Ma
prima ch'io metta mano ad altro, non posso lasciar di dire che dubito
grandemente che il signor Simplicio non abbia fedelmente referito il modo co 'l
quale questo suo autore trova che la palla d'artiglieria, nel venir dal concavo
della Luna sino al centro della Terra, consumerebbe piú di sei giorni; perché,
s'egli avesse supposto che la sua velocità nello scendere fusse stata
eguale a quella del concavo (come dice il signor Simplicio che e' suppone), si
sarebbe dichiarato ignudissimo anco delle prime e piú semplici cognizioni di
geometria: anzi mi maraviglio che l'istesso signor Simplicio nell'ammetter la
supposizione ch'egli dice, non vegga l'esorbitanza immensa che in quella si
contiene.
SIMP. Ch'io abbia equivocato nel riferirla,
potrebbe essere; ma che io vi scuopra dentro fallacia, non è
sicuramente.
SALV. Forse non ho ben appreso quel che avete
riferito. Non dite voi che quest'autore fa la velocità del moto della
palla nello scendere eguale a quella ch'ell'aveva nello andare in volta, stando
nel concavo lunare, e che calando con tal velocità si condurrebbe al
centro in sei giorni?
SIMP. Cosí mi par ch'egli scriva.
SALV. E non vedete un'esorbitanza sí grande? Ma voi
certo la dissimulate: ché non può esser che non sappiate che 'l
semidiametro del cerchio è manco che la sesta parte della circonferenza;
e che in conseguenza il tempo nel quale il mobile passerà il
semidiametro, sarà manco della sesta parte del tempo nel quale, mosso
con la medesima velocità, passerebbe la circonferenza; e che però
la palla, scendendo con la velocità con la quale si muoveva nel concavo,
arriverà in manco di quattr'ore al centro, posto che nel concavo compiesse
una revoluzione in ore ventiquattro, come bisogna ch'ei supponga per mantenersi
sempre nella medesima verticale.
SIMP. Intendo ora benissimo l'errore; ma non glie
lo vorrei attribuire immeritamente, ed è forza ch'io abbia errato nel
recitar il suo argomento: e per fuggir di non gli n'addossar de gli altri,
vorrei avere il suo libro, e se ci fusse chi andasse a pigliarlo, l'averei
molto caro.
SAGR. Non mancherà un lacchè, che
anderà volando; ed appunto si farà senza perdimento di tempo, ché
intanto il signor Salviati ci favorirà del suo computo.
SIMP. Potrà andare, che lo troverà
aperto su 'l mio banco insieme con quello dell'altro che pur argomenta contro
al Copernico.
SAGR. Faremo portar quello ancora, per piú
sicurezza; ed in tanto il signor Salviati farà il suo calculo. Ho
spedito un servitore.
SALV. Avanti di ogni altra cosa, bisogna
considerare come il movimento de i gravi descendenti non è uniforme, ma
partendosi dalla quiete vanno continuamente accelerandosi; effetto conosciuto
ed osservato da tutti, fuor che dal prefato autore moderno, il quale, non
parlando di accelerazione, lo fa equabile. Ma questa general cognizione
è di niun profitto, quando non si sappia secondo qual proporzione sia
fatto questo accrescimento di velocità, conclusione stata sino a i tempi
nostri ignota a tutti i filosofi, e primieramente ritrovata e dimostrata
dall'Accademico, nostro comun amico: il quale, in alcuni suoi scritti non ancor
pubblicati, ma in confidenza mostrati a me e ad alcuni altri amici suoi,
dimostra come l'accelerazione del moto retto de i gravi si fa secondo i numeri
impari ab unitate, cioè che segnati quali e quanti si voglino
tempi eguali, se nel primo tempo, partendosi il mobile dalla quiete,
averà passato un tale spazio, come, per esempio, una canna, nel secondo
tempo passerà tre canne, nel terzo cinque, nel quarto sette, e cosí
conseguentemente secondo i succedenti numeri caffi, che in somma è
l'istesso che il dire che gli spazii passati dal mobile, partendosi dalla
quiete, hanno tra di loro proporzione duplicata di quella che hanno i tempi ne'
quali tali spazii son misurati, o vogliam dire che gli spazii passati son tra
di loro come i quadrati de' tempi.
SAGR. Mirabil cosa sento dire. E di questo dite
esserne dimostrazion matematica?
SALV. Matematica purissima, e non solamente di
questa, ma di molte altre bellissime passioni attenenti a i moti naturali e a i
proietti ancora, tutte ritrovate e dimostrate dall'amico nostro: ed io le ho
vedute e studiate tutte con mio grandissimo gusto e meraviglia, vedendo
suscitata una nuova cognizione intera, intorno ad un suggetto del quale si sono
scritti centinaia di volumi; e né pur una sola dell'infinite conclusioni
ammirabili che vi son dentro, è stata osservata e intesa da alcuno prima
che dal nostro amico
SAGR. Voi mi fate fuggir la voglia d'intender piú
oltre de i nostri cominciati discorsi, e solo sentire alcuna delle
dimostrazioni che mi accennate; però, o ditemele al presente, o almeno
datemi ferma parola di farne meco una particolare sessione, ed anco presente il
signor Simplicio, se avrà gusto di sentire le passioni ed accidenti del
primario effetto della natura.
SIMP. Averollo indubitatamente, ancorché, per
quanto appartiene al filosofo naturale, io non credo che il descendere a certe
minute particolarità sia necessario, bastando una general cognizione
della definizion del moto e della distinzione di naturale e violento, equabile
e accelerato, e simili; ché quando questo non fusse bastato, io non credo che
Aristotile avesse pretermesso di insegnarci tutto quello che fusse mancato.
SALV. Può essere. Ma non perdiamo piú tempo
in questo, ch'io prometto spenderci una meza giornata appartatamente per vostra
sodisfazione, anzi pur ora mi sovviene avervi un'altra volta promesso di darvi
questa medesima sodisfazione. E tornando al nostro cominciato calcolo del tempo
nel quale il grave cadente verrebbe dal concavo della Luna sino al centro della
Terra, per proceder non arbitrariamente e a caso, ma con metodo
concludentissimo, cercheremo prima di assicurarci, con l'esperienza piú volte
replicata, in quanto tempo una palla, verbigrazia, di ferro venga in Terra
dall'altezza di cento braccia.
SAGR. Pigliando però una palla di un tal
determinato peso, e quella stessa sopra la quale noi vogliamo far il computo
del tempo della scesa dalla Luna.
SALV. Questo non importa niente, perché palle di
una, di dieci, di cento, di mille libbre, tutte misureranno le medesime cento
braccia nell'istesso tempo.
SIMP. Oh questo non cred'io, né meno lo crede
Aristotile, che scrive che le velocità de i gravi descendenti hanno tra
di loro la medesima proporzione delle loro gravità.
SALV. Come voi, signor Simplicio, volete ammetter
cotesto per vero, bisogna che voi crediate ancora, che lasciate nell'istesso
momento cader due palle della medesima materia, una di cento libbre e l'altra
d'una, dall'altezza di cento braccia, la grande arrivi in Terra prima che la
minore sia scesa un sol braccio: ora accomodate, se voi potete, il vostro
cervello a imaginarsi di veder la gran palla giunta in Terra quando la piccola
sia ancora a men d'un braccio vicina alla sommità della torre.
SAGR. Che questa proposizione sia falsissima, io
non ne ho un dubbio al mondo; ma che anco la vostra sia totalmente vera, non ne
son ben capace: tuttavia la credo, poiché voi risolutamente l'affermate; il che
son sicuro che non fareste quando non ne aveste certa esperienza o ferma
dimostrazione.
SALV. Honne l'una e l'altra, e quando tratteremo la
materia de i moti separatamente, ve la comunicherò: intanto, per non
avere occasione di piú interrompere il filo, ponghiamo di voler fare il computo
sopra una palla di ferro di cento libbre, la quale per replicate esperienze
scende dall'altezza di cento braccia in cinque minuti secondi d'ora. E perché, come
vi ho detto, gli spazii che si misurano dal cadente, crescono in duplicata
proporzione, cioè secondo i quadrati de' tempi, essendoché il tempo di
un minuto primo è duodecuplo del tempo di cinque secondi, se noi
multiplicheremo le cento braccia per il quadrato di 12, cioè per 144,
averemo 14400, che sarà il numero delle braccia che il mobile medesimo
passerà in un minuto primo d'ora; e seguitando la medesima regola,
perché un'ora è 60 minuti, multiplicando 14400, numero delle braccia
passate in un minuto, per il quadrato di 60, cioè per 3600, ne
verrà 51840000, numero delle braccia da passarsi in un'ora, che sono
miglia 17280. E volendo sapere lo spazio che si passerebbe in 4 ore,
multiplicheremo 17280 per 16 (che è il quadrato di 4), e ce ne verranno
miglia 276480: il qual numero è assai maggiore della distanza dal
concavo lunare al centro della Terra, che è miglia 196000, facendo la
distanza del concavo 56 semidiametri terrestri, come fa l'autor moderno, ed il
semidiametro della Terra
SAGR. Di grazia, caro Signor, non mi defraudate di
questo calculo esatto, perché bisogna che sia cosa bellissima.
SALV. Tale è veramente. Però avendo
(come ho detto) con diligente esperienza osservato come un tal mobile passa,
cadendo, l'altezza di 100 braccia in 5 secondi d'ora, diremo: Se 100 braccia si
passano in 5 secondi, braccia 588 000 000 (che tante sono 56 semidiametri della
Terra) in quanti secondi si passeranno? La regola per quest'operazione è
che si multiplichi il terzo numero per il quadrato del secondo; ne viene 14 700
000 000, il quale si deve dividere per il primo, cioè per 100, e la radice
quadrata del quoziente, che è 12 124, è il numero cercato,
cioè 12 124 minuti secondi d'ora, che sono ore 3, minuti primi 22 e
4 secondi.
100 |
5 |
588000000 |
||
A |
B |
C |
25 |
|
1 |
1470000000 35956 10 |
|||
22 |
|
|||
241 |
|
|||
2422 |
60 |
12124 202 3 |
||
24240 |
|
|
||
SAGR. Ho veduta
l'operazione, ma non intendo niente della ragione del cosí operare, né mi par
tempo adesso di domandarla.
SALV. Anzi ve la voglio dire, ancorché non la
ricerchiate, perché è assai facile. Segniamo questi tre numeri con le
lettere A primo, B secondo, C terzo; A, C sono i numeri de gli spazii, B
è 'l numero del tempo: si cerca il quarto numero, pur del tempo. E
perché noi sappiamo, che qual proporzione ha lo spazio A allo spazio C, tale
deve avere il quadrato del tempo B al quadrato del tempo che si cerca,
però, per la regola aurea, si multiplicherà il numero C per il
quadrato del numero B, ed il prodotto si dividerà per il numero A, ed il
quoziente sarà il quadrato del numero, che si cerca, e la sua radice
quadrata sarà l'istesso numero cercato. Or vedete come è facile
da intendersi.
SAGR. Tali sono tutte le cose vere, doppo che son
trovate; ma il punto sta nel saperle trovare. Io resto capacissimo, e vi
ringrazio; e se altra curiosità vi resta in questa materia, vi prego a
dirla, perché, s'io debbo parlar liberamente, dirò, con licenzia del
signor Simplicio, che da i vostri discorsi imparo sempre qualche bella
novità, ma da quelli de' suoi filosofi non so d'aver sin ora imparato
cose di gran rilievo.
SALV. Pur troppo ci resterebbe da dire in questi movimenti
locali; ma conforme al convenuto ci riserberemo ad una sessione appartata, e
per ora dirò qualche cosa attenente all'autor proposto dal signor
Simplicio: al quale par d'aver dato un gran vantaggio alla parte nel concederle
che quella palla d'artiglieria, nel cader dal concavo della Luna, possa venir
con velocità eguale alla velocità con la quale si sarebbe mossa
in giro restando lassú e movendosi alla conversion diurna. Ora io gli dico che
quella palla, cadendo dal concavo sino al centro, acquisterà grado di
velocità assai piú che doppio della velocità del moto diurno del
concavo lunare; e questo mostrerò io con supposti verissimi, e non
arbitrarii. Dovete dunque sapere, come il grave cadendo, ed acquistando sempre
velocità nuova secondo la proporzione già detta, in qualunque
luogo egli si trovi della linea del suo moto, ha in sé tal grado di
velocità, che se ei continuasse di muoversi con quella uniformemente,
senza piú crescerla, in altrettanto tempo quanto è stato quello della
sua scesa passerebbe spazio doppio del passato nella linea del precedente moto
in giú: e cosí, per esempio, se quella palla nel venir dal concavo della Luna
al suo centro ha consumato ore 3, minuti primi 22 e 4 secondi, dico che giunta
al centro si trova costituita in tal grado di velocità, che se con
quella, senza piú crescerla, continuasse di muoversi uniformemente, passerebbe
in altre ore 3, minuti primi 22 e 4 secondi il doppio di spazio, cioè
quant'è tutto 'l diametro intero dell'orbe lunare. E perché dal concavo
della Luna al centro sono miglia 196000, le quali la palla passa in ore 3,
minuti primi 22 e 4 secondi, adunque (stante quello ch'è detto)
continuando la palla di muoversi con la velocità che si trova avere
nell'arrivare al centro, passerebbe, in altre ore 3, minuti primi 22 e 4
secondi, spazio doppio del detto, cioè miglia 392000: ma la medesima,
stando nel concavo della Luna, che ha di circuito miglia 1232000, e movendosi
con quello al moto diurno, farebbe nel medesimo tempo, cioè in ore 3,
minuti primi 22 e 4 secondi, miglia 172880, che sono assai manco che la
metà delle miglia 392000. Ecco dunque come il moto nel concavo non
è qual dice l'autor moderno, cioè di velocità impossibile
a participarsi dalla palla cadente, etc.
SAGR. Il discorso camminerebbe benissimo e mi
quieterebbe, quando mi fusse saldata quella partita del muoversi il mobile per
doppio spazio del passato cadendo, in altro tempo eguale a quel della scesa,
quando e' continuasse di muoversi uniformemente co 'l massimo grado della
velocità acquistata nel descendere: proposizione anco un'altra volta da
voi supposta per vera, ma non dimostrata.
SALV. Quest'è una delle dimostrate dal
nostro amico, e la vedrete a suo tempo; ma in tanto voglio con alcune
conietture, non insegnarvi cosa nuova, ma rimuovervi da una certa opinione
contraria, mostrandovi che forse cosí possa essere. Sospendendosi con un filo
lungo e sottile, legato al palco, una palla di piombo, se noi la allontaneremo
dal perpendicolo, lasciandola poi in libertà, non avete voi osservato
che ella declinando passerà spontaneamente di là dal perpendicolo
poco meno che altrettanto?
SAGR. L'ho osservato benissimo, e veduto (massime
se la palla sarà grave assai) che ella sormonta tanto poco meno della
scesa, che ho talvolta creduto che l'arco ascendente sia eguale al descendente,
e però dubitato che le sue vibrazioni potessero perpetuarsi; e
crederò che lo farebbero se si potesse levar l'impedimento dell'aria, la
quale, resistendo all'esser aperta, ritarda qualche poco ed impedisce il moto
del pendolo: ma l'impedimento è ben poco; di che è argomento il
numero grande delle vibrazioni che si fanno avanti che il mobile si fermi del
tutto.
SALV. Non si perpetuerebbe il moto, signor Sagredo,
quando ben si levasse totalmente l'impedimento dell'aria, perché ve n'è
un altro piú recondito assai.
SAGR. E qual è? ché altro non me ne
sovviene.
SALV. Vi gusterà il sentirlo, ma ve lo
dirò poi; intanto seguitiamo. Io vi ho proposta l'osservazione di questo
pendolo, acciò che voi intendiate che l'impeto acquistato nell'arco
descendente, dove il moto è naturale, è per se stesso potente a
sospignere di moto violento la medesima palla per altrettanto spazio nell'arco
simile ascendente; è tale, dico, per se stesso, rimossi tutti
gl'impedimenti esterni. Credo anco che senza dubitarne s'intenda, che sí come
nell'arco descendente si va crescendo la velocità sino al punto infimo
del perpendicolo, cosí da questo per l'altro arco ascendente si vadia
diminuendo sino all'estremo punto altissimo, e diminuendo con l'istesse proporzioni
con le quali si venne prima agumentando, sí che i gradi delle velocità
ne i punti egualmente distanti dal punto infimo sieno tra di loro eguali. Di
qui parmi (discorrendo con una certa convenienza) di poter credere, che quando
il globo terrestre fusse perforato per il centro, una palla d'artiglieria
scendendo per tal pozzo acquisterebbe sino al centro tal impeto di
velocità che, trapassato il centro la spignerebbe in su per altrettanto
spazio quanto fusse stato quello della caduta, diminuendo sempre la velocità
oltre al centro con decrementi simili a gl'incrementi acquistati nello
scendere; ed il tempo che si consumerebbe in questo secondo moto ascendente
credo che sarebbe eguale al tempo della scesa. Ora, se il mobile co 'l diminuir
successivamente, sino alla totale estinzione, il sommo grado della
velocità che ebbe nel centro, conduce il mobile in tanto tempo per tanto
spazio per quanto in altrettanto tempo era venuto con l'acquisto di
velocità dalla total privazione di essa sino a quel sommo grado; par ben
ragionevole che quando si movesse sempre co 'l sommo grado di velocità,
trapassasse in altrettanto tempo amendue quelli spazii: perché se noi andremo
con la mente dividendo quelle velocità in gradi crescenti e calanti,
come, verbigrazia, questi numeri, sí che i primi sino al 10 sieno i crescenti,
e gli altri sino all'1 i calanti, e quelli, del tempo della scesa, e gli altri,
del tempo della salita, si vede che, congiunti tutti insieme, fanno tanto
quanto se una delle due parti di loro fusse stata tutta di gradi massimi; e
però tutto lo spazio passato con tutti i gradi delle velocità
crescenti e calanti (che è tutto il diametro intero) dev'esser eguale
allo spazio passato dalle velocità massime che in numero sono la
metà dell'aggregato delle crescenti e delle calanti. Io mi conosco
essermi assai duramente spiegato, e Dio voglia ch'io mi lasci intendere.
SAGR. Credo d'avere inteso benissimo, ed anco di
poter in brevi parole mostrar ch'io ho inteso. Voi avete voluto dire, che
cominciando il moto dalla quiete ed andando successivamente crescendo la
velocità con agumenti eguali, quali sono quelli de' numeri conseguenti,
cominciando dall'unità, anzi dal zero, che rappresenta lo stato di
quiete, disponendogli cosí, e conseguentemente quanti ne piacesse, sí che il minimo
grado sia il zero e 'l massimo, verbigrazia, 5, tutti questi gradi di
velocità, con i quali il mobile si è mosso, fanno la somma di 15;
ma quando il mobile si movesse con tanti gradi in numero quanti son questi, e
che ciascheduno fusse eguale al massimo, che è
1 2 3 4 5 6 7 8
9 10 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 1 2 3 4 5
SALV. Voi, conforme alla vostra
velocissima e sottilissima apprensiva, avete spiegato il tutto assai piú
lucidamente di me, e fattomi anco venire in mente di aggiugnere alcuna cosa di
piú. Imperocché, essendo nel moto accelerato l'agumento continuo, non si
può compartire i gradi della velocità, la quale sempre cresce, in
numero alcuno determinato,
perché, mutandosi di momento in momento, son sempre infiniti:
però meglio potremo esemplificare la nostra intenzione figurandoci un
triangolo, qual sarebbe questo A B C, pigliando nel lato A C quante parti
eguali ne piacerà, A D, D E, E F, F G, e tirando per i punti D, E, F, G
linee rette parallele alla base B C; dove voglio che ci imaginiamo, le parti
segnate nella linea A C esser tempi eguali, e le parallele tirate per i punti
D, E, F, G rappresentarci i gradi delle velocità accelerate e crescenti
egualmente in tempi eguali, ed il punto A esser lo stato di quiete, dal quale
partendosi il mobile abbia, verbigrazia, nel tempo A D acquistato il grado di
velocità D H, nel seguente tempo aver cresciuta la velocità sopra
il grado D H sino al grado E I, e conseguentemente fattala maggiore ne i tempi
succedenti, secondo i crescimenti delle linee F K, G L, etc. Ma perché
l'accelerazione si fa continuamente di momento in momento, e non intercisamente
di parte quanta di tempo in parte quanta, essendo posto il termine A come
momento minimo di velocità, cioè come stato di quiete e come
primo instante del tempo susseguente A D, è manifesto che avanti
l'acquisto del grado di velocità D H, fatto nel tempo A D, si è
passato per altri infiniti gradi minori e minori, guadagnati ne gli infiniti
instanti che sono nel tempo D A, corrispondenti a gli infiniti punti che sono
nella linea D A: però per rappresentare la infinità de i gradi di
velocità che precedono al grado D H, bisogna intendere infinite linee
sempre minori e minori, che si intendano tirate da gl'infiniti punti della
linea D A, parallele alla D H, la qual infinità di linee ci rappresenta
in ultimo la superficie del triangolo A H D; e cosí intenderemo, qualsivoglia
spazio passato dal mobile con moto che, cominciando dalla quiete, si vadia
uniformemente accelerando, aver consumato ed essersi servito di infiniti gradi
di velocità crescenti, conforme all'infinite linee, che, cominciando dal
punto A, si intendono tirate parallele alla linea H D ed alle I E, K F, L G, B
C, continuandosi il moto quanto ne piace.
Ora finiamo l'intero parallelogrammo A M B C, e
prolunghiamo sino al suo lato B M non solo le parallele segnate nel triangolo,
ma la infinità di quelle che si intendono prodotte da tutti i punti del
lato A C. E sí come la B C era massima delle infinite del triangolo,
rappresentanteci il massimo grado di velocità acquistato dal mobile nel
moto accelerato, e tutta la superficie di esso triangolo era la massa e la
somma di tutta la velocità con la quale nel tempo A C passò un
tale spazio, cosí il parallelogrammo viene ad esser una massa ed aggregato di
altrettanti gradi di velocità, ma ciascheduno eguale al massimo B C, la
qual massa di velocità viene a esser doppia della massa delle velocità
crescenti del triangolo, sí come esso parallelogrammo è doppio del
triangolo; e però, se il mobile che cadendo si è servito de i
gradi di velocità accelerata, conforme al triangolo A B C, ha passato in
tanto tempo un tale spazio, è ben ragionevole e probabile che servendosi
delle velocità uniformi, e rispondenti al parallelogrammo, passi con
moto equabile nel medesimo tempo spazio doppio al passato dal moto accelerato.
SAGR. Resto interamente appagato. E se voi chiamate
questo un discorso probabile, quali saranno le dimostrazioni necessarie?
Volesse Dio che in tutta la comune filosofia se ne trovasse pur una delle sí
concludenti!
SIMP. Non bisogna nella scienza naturale ricercar
l'esquisita evidenza matematica.
SAGR. Ma questa del moto non è quistion naturale?
e pur non trovo che di esso Aristotile mi dimostri pur un minimo accidente. Ma
non divertiamo piú il nostro ragionamento; e voi, signor Salviati, non mancate
in grazia di dirmi quello che mi accennaste esser cagione del fermare il
pendolo, oltre alla resistenza del mezo all'esser aperto.
SALV. Ditemi: di due pendenti da distanze
diseguali, quello che è attaccato a piú lunga corda non fa le sue
vibrazioni piú rare?
SAGR. Sí, quando si movessero per eguali distanze
dal perpendicolo.
SALV. Cotesto allontanarsi piú o meno
non importa niente, perché il medesimo pendolo fa le sue reciprocazioni sempre
sotto tempi eguali, sieno quelle lunghissime o brevissime; cioè
rimuovasi il pendolo assaissimo o pochissimo dal perpendicolo; e se pur non
sono del tutto eguali, son elleno insensibilmente differenti, come l'esperienza
vi può mostrare; ma quando ben le fussero molto diseguali, non
disfavorirebbe, ma favorirebbe la causa nostra.
Imperocché segniamo il perpendicolo A B,
e penda dal punto A nella corda A C un peso C, ed un altro pur nella medesima
piú alto, che sia E; e discostata la corda A C dal perpendicolo, e lasciata poi
in libertà, i pesi C, E si moveranno per gli archi C B D, E G F: ed il
peso E, come pendente da minor distanza, ed anco come (per vostro detto)
allontanato meno, vuol ritornare indietro piú presto e far le sue vibrazioni
piú frequenti che il peso C, e però gli impedirà il trascorrere
tant'oltre verso il termine D quanto farebbe se fusse libero; e cosí,
recandogli in ogni vibrazione continuo impedimento, finalmente lo
ridurrà alla quiete. Ora, la corda medesima (levando i pesi di mezo)
è un composto di molti pendoli gravi, cioè ciascheduna delle sue
parti è un tal pendolo, attaccato piú e piú vicino al punto A e
però disposto a far le sue vibrazioni sempre piú e piú frequenti; ed in
conseguenza è abile ad arrecare un continuo impedimento al peso C. Segno
di questo ne è, che se noi osserveremo la corda A C, la vedremo distesa
non rettamente, ma in arco; e se noi in cambio di corda piglieremo una catena,
vedremo tale effetto assai piú manifesto, e massime con l'allontanar assai il
grave C dal perpendicolo A B: imperocché, per esser la catena composta di molte
particelle snodate, e ciascheduna assai grave, gli archi A E C, A F D si
vedranno notabilmente incurvati. Per questo dunque, che le parti della catena,
secondo che son piú vicine al punto A, voglion far le lor vibrazioni piú
frequenti, non lasciano scorrer le piú basse quanto naturalmente farebbero; e con
il continuo detrar dalle vibrazioni del peso C, finalmente lo fermano, quando
ben l'impedimento dell'aria si potesse tor via.
SAGR. Appunto sono arrivati i libri. Pigliate,
signor Simplicio, e trovate il luogo del quale si dubita.
SIMP. Eccolo qui, dove egli incomincia ad
argumentar contro al moto diurno della Terra, avendo egli prima confutato
l'annuo: Motus Terrae annuus asserere Copernicanos cogit conversionem
eiusdem quotidianam; alias idem Terrae hemispherium continenter ad Solem esset
conversum, obumbrato semper averso([2]); e cosí la metà
della Terra non vedrebbe mai il Sole.
SALV. Parmi, per questo primo ingresso, che
quest'uomo non si sia ben figurata la posizion del Copernico; perché s'egli
avesse avvertito, come e' fa star l'asse del globo terrestre perpetuamente
parallelo a se stesso, non arebbe detto che la metà della Terra non
vedrebbe mai il Sole, ma che l'anno sarebbe stato un sol giorno naturale,
cioè che per tutte le parti della Terra si sarebbe auto sei mesi di
giorno e sei mesi di notte, come ora accade a gli abitatori sotto 'l polo. Ma
questo siagli perdonato, e venghiamo al resto.
SIMP. Segue: Hanc autem gyrationem Terrae
impossibilem esse, sic demonstramus.([3]) Questo appresso è
la dichiarazione della seguente figura, dove si veggono dipinti molti gravi
descendenti, e leggieri ascendenti, e uccelli che si trattengono per aria, etc.
SAGR. Mostrate, di grazia. Oh che belle figure, che
uccelli, che palle, e che altre belle cose son queste?
SIMP. Queste son palle che vengono dal concavo
della Luna.
SAGR. E questa che è?
SIMP. È una chiocciola, che qua a Venezia
chiaman buovoli, che ancor essa vien dal concavo della Luna.
SAGR. Sí, sí: quest'è che la Luna ha cosí
grand'efficacia sopra questi pesci ostreacei, che noi chiamiamo pesci armai.
SIMP. Quest'è poi quel calcolo ch'io dicevo,
di questo viaggio in un giorno naturale, in un'ora, in un minuto primo ed in un
secondo, che farebbe un punto della Terra posto sotto l'equinoziale, ed anco
nel parallelo di 48 gradi. E poi segue questo, dov'io dubito non avere errato
nel referirlo; però leggiamolo: His positis, necesse est, Terra
circulariter mota, omnia ex aëre eidem etc. Quod si hasce pilas aequales
ponemus pondere, magnitudine, gravitate, et in concavo spherae lunaris positas
libero descensui permittamus, si motum deorsum aequemus celeritate motui circum
(quod tamen secus est, cum pila A etc.), elabentur minimum (ut multum cedamus
adversariis) dies sex: quo tempore sexies circa Terram etc.([4])
SALV. Voi pur troppo avevi fedelmente referita
l'instanza di quest'uomo. Di qui potete comprender, signor Simplicio, con
quanta cautela dovrebber andar quelli che vorrebber dar a credere altrui quelle
cose che forse non credono essi medesimi: perché mi pare impossibil cosa che
quest'autore non si avesse ad accorgere ch'e' si figurava un cerchio il cui
diametro, che appresso i matematici è manco che la terza parte della
circonferenza, fusse piú di 12 volte maggiore della medesima; errore che pone
esser assai piú di 36 quello ch'è manco d'uno.
SAGR. Forse che queste proporzioni matematiche, che
son vere in astratto, applicate poi in concreto a cerchi fisici ed elementari
non rispondon cosí per appunto: se ben mi pare che i bottai, per trovare il
semidiametro del fondo da farsi per la botte, si servono della regola in
astratto de' matematici, ancorché tali fondi sien cose assai materiali e
concrete. Però dica il signor Simplicio la scusa di quest'autore, e se
gli pare che la fisica possa differir tanto dalla matematica.
SIMP. La ritirata non mi par suffiziente, perché lo
svario è troppo grande: e in questo caso non saprei che dire altro, se
non che quandoque bonus etc. Ma posto che il calcolo del signor Salviati
sia piú giusto, e che il tempo della scesa della palla non fusse piú di tre
ore, parmi ad ogni modo che venendo dal concavo della Luna, distante per sí
grand'intervallo, mirabil cosa sarebbe che ella avesse instinto da natura di
mantenersi sempre sopra 'l medesimo punto della Terra al quale nella sua
partita ella soprastava, e non piú tosto restar in dietro per lunghissimo
intervallo.
SALV. L'effetto può esser mirabile, e non
mirabile, ma naturale e ordinario, secondo che sono le cose precedenti.
Imperocché, se la palla (conforme a' supposti che fa l'autore) mentre si
tratteneva nel concavo della Luna aveva il moto circolare delle ventiquattr'ore
insieme con la Terra e co 'l resto del contenuto dentro ad esso concavo, quella
medesima virtú che la faceva andare in volta avanti lo scendere,
continuerà di farla andar anco nello scendere; e tantum abest che
ella non sia per secondare il moto della Terra, ma debba restare indietro, che
piú tosto dovrebbe prevenirlo, essendoché nell'avvicinarsi alla Terra il moto
in giro ha da esser fatto continuamente per cerchi minori: talché, mantenendosi
nella palla quella medesima velocità che ell'aveva nel concavo, dovrebbe
anticipare, come ho detto, la vertigine della Terra. Ma se la palla nel concavo
mancava della circolazione, non è in obbligo nello scendere di
mantenersi perpendicolarmente sopra quel punto della Terra che gli era
sottoposto quando la scesa cominciò; né il Copernico né alcuno de' suoi
aderenti lo dirà.
SIMP. Ma l'autore farà instanza, come voi
vedete, domandando da qual principio dependa questo moto circolare de' gravi e
de' leggieri, cioè se da principio interno o esterno.
SALV. Stando nel problema di che si tratta, dico
che quel principio che faceva andar la palla in volta mentre era nel concavo
lunare, è il medesimo che gli mantiene la circolazione anco nello
scendere: lascerò poi che l'autore lo faccia interno o esterno a modo
suo.
SIMP. L'autore proverà che non può
esser né interno né esterno.
SALV. Ed io risponderò che la palla nel
concavo non si muoveva, e sarò libero dal dover dichiarare come
discendendo resti sempre verticale al medesimo punto, attesoché ella non vi
resterà.
SIMP. Bene; ma come i gravi e i leggieri non
possono aver principio né interno né esterno di muoversi circolarmente, né anco
il globo terrestre si muoverà di moto circolare; e cosí avremo
l'intento.
SALV. Io non ho detto che la Terra non abbia
principio né esterno né interno al moto circolare, ma dico che non so qual de'
dua ella si abbia; ed il mio non lo sapere non ha forza di levarglielo. Ma se
questo autore sa da che principio sieno mossi in giro altri corpi mondani, che
sicuramente si muovono, dico che quello che fa muover la Terra è una
cosa simile a quella per la quale si muove Marte, Giove, e che e' crede che si
muova anco la sfera stellata; e se egli mi assicurerà chi sia il movente
di uno di questi mobili, io mi obbligo a sapergli dire chi fa muover la Terra.
Ma piú, io voglio far l'istesso s'ei mi sa insegnare chi muova le parti della
Terra in giú.
SIMP. La causa di quest'effetto è notissima,
e ciaschedun sa che è la gravità.
SALV. Voi errate, signor Simplicio; voi dovevi dire
che ciaschedun sa ch'ella si chiama gravità. Ma io non vi domando del
nome, ma dell'essenza della cosa: della quale essenza voi non sapete punto piú
di quello che voi sappiate dell'essenza del movente le stelle in giro,
eccettuatone il nome, che a questa è stato posto e fatto familiare e
domestico per la frequente esperienza che mille volte il giorno ne veggiamo; ma
non è che realmente noi intendiamo piú, che principio o che virtú sia
quella che muove la pietra in giú, di quel che noi sappiamo chi la muova in su,
separata dal proiciente, o chi muova la Luna in giro, eccettoché (come ho
detto) il nome, che piú singulare e proprio gli abbiamo assegnato di gravità.
doveché a quello con termine piú generico assegnamo virtú impressa, a
quello diamo intelligenza, o assistente, o informante, ed
a infiniti altri moti diamo loro per cagione la natura.
SIMP. Parmi che quest'autore domandi assai manco di
quello a che voi negate la risposta; poiché e' non vi chiede qual sia
particolarmente e nominatamente il principio che muove i gravi e i leggieri in
giro, ma, qualunque e' si sia, cerca solamente se voi lo stimate intrinseco o
estrinseco: che se bene, verbigrazia, io non so che cosa sia la gravità,
per la quale la Terra descende, so però ch'ell'è principio
interno, poiché, non impedito, spontaneamente muove; ed all'incontro so che il
principio che la muove in su, è esterno, ancorché io non sappia che cosa
sia la virtú impressale dal proiciente.
SALV. In quante quistioni bisognerebbe divertire,
se noi volessimo decidere tutte le difficultà che si vengono attaccando
l'una in conseguenza dell'altra! Voi chiamate principio esterno, ed anco lo
chiamerete preternaturale e violento, quello che muove il proietto grave
all'insú; ma forse non è egli meno interno e naturale che quello che lo
muove in giú: può chiamarsi per avventura esterno e violento mentre il
mobile è congiunto co 'l proiciente; ma separato, che cosa esterna
rimane per motore della freccia o della palla? Bisogna pur necessariamente dire
che quella virtú che la conduce in alto, sia non meno interna che quella che la
muove in giú; ed io ho cosí per naturale il moto in su de i gravi per l'impeto
concepito, come il moto in giú dependente dalla gravità.
SIMP. Questo non ammetterò io mai; perché
questo ha il principio interno naturale e perpetuo, e quello, esterno violento
e finito.
SALV. Se voi vi ritirate dal concedermi che i
principii de i moti de i gravi in giú ed in su sieno egualmente interni e
naturali, che fareste s'io vi dicessi che e' potessero anco essere il medesimo
in numero?
SIMP. Lo lascio giudicare a voi.
SALV. Anzi voglio io voi stesso per giudice.
Però ditemi: credete voi che nel medesimo corpo naturale possano riseder
principii interni che siano tra di loro contrarii?
SIMP. Credo assolutamente di no.
SALV. Della terra, del piombo, dell'oro, ed in
somma delle materie gravissime, quale stimate voi che sia la lor naturale
intrinseca inclinazione, cioè a qual moto credete voi che 'l lor
principio interno le tiri?
SIMP. Al moto verso il centro delle cose gravi,
cioè al centro dell'universo e della Terra, dove, non impedite, si
condurrebbero.
SALV. Talché, quando il globo terrestre fusse
perforato da un pozzo che passasse per il centro di esso, una palla
d'artiglieria lasciata cader per esso, mossa da principio naturale ed
intrinseco, si condurrebbe al centro; e tutto questo moto farebbe ella
spontaneamente e per principio intrinseco: non sta cosí?
SIMP. Cosí tengo io per fermo.
SALV. Ma giunta al centro, credete voi ch'ella
passasse piú oltre, o pur che quivi cesserebbe immediatamente dal moto?
SIMP. Credo che ella continuerebbe di muoversi per
lunghissimo spazio.
SALV. Ma questo moto oltre al centro non
sarebb'egli all'insú e, per vostro detto, preternaturale e violento? e da qual
altro principio lo farete voi dependere, salvoché da quell'istesso che ha
condotta la palla al centro, e che voi avete chiamato intrinseco e naturale?
trovate voi un proiciente esterno, che gli sopraggiunga di nuovo per cacciarla
in su. E questo che si dice del moto per il centro, si vede anco quassú da noi:
imperocché l'impeto interno di un grave cadente per una superficie declive, se
la medesima, piegandosi da basso, si refletterà in su, lo
porterà, senza punto interrompere il moto, anco all'insú. Una palla di
piombo pendente da uno spago, rimossa dal perpendicolo, descende
spontaneamente, tirata dall'interna inclinazione, e senza interpor quiete
trapassa il punto infimo, e senz'altro sopravvegnente motore si muove in su. Io
so che voi non negherete che tanto è naturale ed interno de i gravi il
principio che gli muove in giú, quanto de i leggieri quello che gli muove in
su: onde io vi metto in considerazione una palla di legno, la quale scendendo
per aria da grande altezza, e però movendosi da principio interno,
giunta sopra una profondità d'acqua, continua la sua scesa, e senz'altro
motore esterno per lungo tratto si sommerge; e pure il moto in giú per l'acqua
gli è preternaturale, e con tutto ciò depende da principio che
è interno, e non esterno della palla. Eccovi dunque dimostrato come un
mobile può esser mosso, da uno stesso principio interno, di movimenti
contrarii.
SIMP. Io credo che a tutte queste instanze ci sieno
risposte, benché per ora non mi sovvengano. Ma comunque ciò sia,
continua l'autor di domandar da qual principio dependa questo moto circolare de
i gravi e de i leggieri, cioè se da principio interno o esterno, e
seguendo dimostra che non può esser né l'uno né l'altro, dicendo: Si
ab externo, Deusne illum excitat per continuum miraculum? an vero angelus? an
aër? Et hunc quidem multi assignant. Sed contra… ([5])
SALV. Non vi affaticate in legger l'instanze,
perch'io non son di quelli che attribuisca tal principio all'aria ambiente.
Quanto poi al miracolo o all'angelo, piú tosto inclinerei in quella parte;
perché quello che comincia da divino miracolo o da operazione angelica, qual
è la trasportazione d'una palla d'artiglieria nel concavo della Luna,
non ha dell'improbabile che in virtú del medesimo principio faccia anco il resto.
Ma quanto all'aria, a me basta che ella non impedisca il moto circolare de i
mobili che per essa si dice che si muovono; e per ciò fare, basta (né
piú si ricerca) che essa si muova dell'istesso moto, e che con la medesima
velocità finisca le sue circolazioni che il globo terrestre.
SIMP. Ed egli insurgerà parimente contro a
questo, domandando chi conduce intorno l'aria, la natura o la violenza? e
confuta la natura, con dire che ciò è contro alla verità,
all'esperienza, all'istesso Copernico.
SALV. Contro al Copernico non è altrimenti,
il quale non scrive tal cosa, e quest'autor glie l'attribuisce con troppo
eccesso di cortesia: anzi egli dice, e per mio parer dice bene, che la parte
dell'aria vicina alla Terra, essendo piú presto evaporazion terrestre,
può aver la medesima natura, e naturalmente seguire il suo moto, o vero,
per essergli contigua, seguirla in quella maniera che i Peripatetici dicono che
la parte superiore e l'elemento del fuoco seguono il moto del concavo della
Luna; sí che a loro tocca a dichiarare se cotal moto sia naturale o violento.
SIMP. Replicherà l'autore, che se 'l
Copernico fa muovere una parte dell'aria inferiore solamente, mancando di cotal
moto la superiore, non potrà render ragione, come quell'aria quieta sia
per poter condur seco i medesimi gravi e fargli secondare il moto della Terra.
SALV. Il Copernico dirà che questa
propension naturale de i corpi elementari di seguire il moto terrestre ha una
limitata sfera, fuor della quale cesserebbe tal naturale inclinazione;
oltreché, come ho detto, non è l'aria quella che porta seco i mobili, i
quali, sendo separati dalla Terra, seguano il suo moto; sí che cascano tutte le
instanze che questo autor produce per provar che l'aria può non cagionar
cotali effetti.
SIMP. Come dunque ciò non sia,
bisognerà dire che tali effetti dependano da principio interno; contro
alla qual posizione oboriuntur dificillimæ, immo inextricabiles,
quæstiones secundæ,([6]) che sono le seguenti: Principium
illud internum vel est accidens, vel substantia: si primum, quale nam illud?
nam qualitas loco motiva circum hactenus nulla videtur esse agnita. ([7])
SALV. Come non si ha notizia di alcuna? non ci sono
queste, che muovon intorno tutte queste elementari materie, insieme con la
Terra? Vedete come quest'autore suppon per vero quello ch'è in
quistione.
SIMP. Ei dice che ciò non si vede, e parmi
che abbia ragione in questo.
SALV. Non si vede da noi, perché andiamo in volta
insieme con loro.
SIMP. Sentite l'altra instanza: Quæ etiam
si esset, quomodo tamen inveniretur in rebus tam contrariis? in igne ut in
aqua? in aëre ut in terra? in viventibus ut in anima carentibus?([8])
SALV. Posto per ora che l'acqua e il fuoco sien
contrarii, come anche l'aria e la terra (che pur ci sarebbe da dire assai), il
piú che da questo ne possa seguire, sarà che ad essi non possono esser
comuni i moti che tra loro sien contrarii, sí che, verbigrazia, il moto in su,
che naturalmente compete al fuoco, non possa competere all'acqua, ma che, sí
come essa è per natura contraria al fuoco, cosí a lei convenga quel moto
che è contrario al moto del fuoco, che sarà il moto deorsum:
ma il moto circolare, che non è contrario né al sursum né al deorsum,
anzi che si può mescolare con amendue, come il medesimo Aristotile
afferma, perché non potrà egualmente competere a i gravi ed a i
leggieri? I moti poi che non posson esser comuni a i viventi ed a i non
viventi, son quelli che dependon dall'anima; ma quelli che son del corpo, in
quanto egli è elementare, ed in conseguenza participante delle
qualità degli elementi, perché non hanno ad esser comuni al cadavero ed
al vivente? E però, quando il moto circolare sia proprio degli elementi,
dovrà esser comune de i misti ancora.
SAGR. È forza che quest'autor creda, che
cadendo una gatta morta da una finestra, non possa esser che anco viva ci
potesse cadere, non essendo cosa conveniente che un cadavero partecipi delle
qualità che convengono ad un vivente.
SALV. Non conclude, dunque, il discorso di
quest'autore contro a chi dicesse, il principio del moto circolare de i gravi e
de i leggieri esser un accidente interno. Non so quanto e' sia per dimostrare
che non possa esser una sustanza.
SIMP. Insurge contro a questo con molte
opposizioni, la prima delle quali è questa: Si secundum (nempe si
dicas, tale principium esse substantiam), illud est aut materia, aut forma, aut
compositum; sed repugnant iterum tot diversæ rerum naturæ, quales
sunt aves, limaces, saxa, sagittæ, nives, fumi, grandines, pisces, etc.,
quæ tamen omnia, specie et genere differentia, moverentur a natura sua
circulariter, ipsa naturis diversissima, etc. ([9])
SALV. Se queste cose nominate sono di nature
diverse, e le cose di nature diverse non possono aver un moto comune,
bisognerà, quando si debba sodisfare a tutte, pensar ad altro che a due
moti solamente in su e in giú; e se se ne deve trovar uno per le freccie, uno
per le lumache, un altro per i sassi, uno per i pesci, bisognerà pensare
anco a i lombrichi e a i topazii e all'agarico, che non son men differenti di
natura tra di loro che la gragnuola e la neve.
SIMP. Par che voi ve ne burliate di questi
argomenti.
SALV. Anzi no, signor Simplicio; ma già si
è risposto di sopra, cioè che se un moto in giú o vero in su
può convenire alle cose nominate, potrà non meno convenir loro un
circolare. E stando nella dottrina peripatetica, non porrete voi
diversità maggiore tra una cometa elementare e una stella celeste, che
tra un pesce e un uccello? e pur quelle si muovono amendue circolarmente. Or
seguite il secondo argumento.
SIMP. Si Terra staret per voluntatem Dei,
rotarentne cætera annon? si hoc, falsum est a natura gyrari; si illud,
redeunt priores quæstiones; et sane mirum esset, quod gavia pisciculo, alauda
nidulo suo et corvus limaci petræque, etiam volens, imminere non posset.([10])
SALV. Io per me darei una risposta generale: che,
dato per volontà di Dio che la Terra cessasse dalla vertigine diurna,
quegli uccelli farebber tutto quello che alla medesima volontà di Dio
piacesse. Ma se pur cotesto autore desiderasse una piú particolar risposta, gli
direi che e' farebber tutto l'opposito di quello che e' facessero quando,
mentre eglino separati dalla Terra si trattenesser per aria, il globo terrestre
per volontà divina si mettesse inaspettatamente in un moto
precipitosissimo: tocca ora a quest'autore ad assicurarci di quello che in tal
caso accaderebbe.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, concedete a mia
richiesta a quest'autore, che fermandosi la Terra per volontà di Dio,
l'altre cose da quella separate continuasser d'andar in volta del natural
movimento loro, e sentiamo quali impossibili o inconvenienti ne seguirebbero:
perché io per me non so veder disordini maggiori di questi che produce l'autor
medesimo, cioè che l'allodole, ancorché le volessero, non si potrebber
trattener sopra i nidi loro, né i corbi sopra le lumache o sopra i sassi; dal
che ne seguirebbe che a i corbi converrebbe patirsi la voglia delle lumache, e
gli allodolini si morrebber di fame e di freddo, non potendo esser né imbeccati
né covati dalle lor madri: questa è tutta la rovina ch'io so ritrar che
seguirebbe, stante il detto dell'autore. Vedete voi, signor Simplicio, se
maggiori inconvenienti seguir ne dovessero.
SIMP. Io non ne so scorger di maggiori, ma è
ben credibile che l'autore ci scorga, oltre a questi, altri disordini in
natura, che forse per suoi degni rispetti non ha volsuti produrre. Seguirò
dunque la terza instanza: Insuper, quî fit utistæ res tam variæ
tantum moveantur ab occasu in ortum parallelæ ad æquatorem? ut
semper moveantur, numquam quiescant?. ([11])
SALV. Muovonsi da occidente in oriente, parallele
all'equinoziale, senza fermarsi, in quella maniera appunto che voi credete che
le stelle fisse si muovano da levante a ponente, parallele all'equinoziale,
senza fermarsi.
SIMP. Quare quo sunt altiores celerius, quo
humiliores tardius?([12])
SALV. Perché in una sfera o in un cerchio che si
volga intorno al suo centro, le parti piú remote descrivono cerchi maggiori, e
le piú vicine gli descrivono nell'istesso tempo minori.
SIMP. Quare quæ æquinoctiali
propiores in maiori, quæ remotiores in minori, circulo feruntur?([13])
SALV. Per immitar la sfera stellata, nella quale le
piú vicine all'equinoziale si muovon in cerchi maggiori che le piú lontane.
SIMP. Quare pila eadem sub æquinoctiali
tota circa centrum Terræ ambitu maximo, celeritate incredibili, sub polo
vero circa centrum proprium gyro nullo, tarditate suprema, volveretur?. ([14])
SALV. Per immitar le stelle del firmamento, che
farebbon l'istesso se 'l moto diurno fusse loro.
SIMP. Quare eadem res, pila verbi gratia
plumbea, si semel Terram circuivit descripto circulo maximo, eamdem ubique non
circummigret secundum circulum maximum, sed translata extra æquinoctialem
in circulis minoribus agetur? ([15])
SALV. Perché cosí farebbero, anzi pure hanno fatto
in dottrina di Tolomeo, alcune stelle fisse, che già erano vicinissime
all'equinoziale e descrivevan cerchi grandissimi, ed ora, che ne son lontane,
gli descrivon minori.
SAGR. Oh s'io potessi tenere a mente tutte queste
belle cose, mi parrebbe pur d'aver fatto il grand'acquisto! Bisogna, signor
Simplicio, che voi me lo prestiate questo libretto, perché egli è forza
che perentro vi sia un mare di cose peregrine ed esquisitissime.
SIMP. Io ve ne farò un presente.
SAGR. Oh questo no, io non ve ne priverei mai. Ma
son finite ancora le interrogazioni?
SIMP. Signor no; sentite pure: Si latio
circularis gravibus et levibus est naturalis, qualis est ea quæ fit
secundum lineam rectam? nam si naturalis, quomodo et is motus qui circum est,
naturalis est, cum specie differat a recto? si violentus, quî fit ut missile
ignitum, sursum evolans, scintillosum caput sursum a Terra, non autem circum,
volvatur?([16])
etc.
SALV. Già mille volte si è detto che
il moto circolare è naturale del tutto e delle parti, mentre sono in
ottima disposizione: il retto è per ridurr'all'ordine le parti
disordinate; se ben meglio è dire che mai, né ordinate né disordinate,
non si muovon di moto retto, ma di un moto misto, che anco potrebb'esser
circolare schietto; ma a noi resta visibile e osservabile una parte sola di questo
moto misto, cioè la parte del retto, restandoci l'altra parte del
circolare impercettibile, perché noi ancora lo participiamo; e questo risponde
a i razzi, li quali si muovono in su e in giro, ma noi non possiamo distinguer
il circolare, perché di quello ci moviamo noi ancora. Ma quest'autore non credo
che abbia mai capita questa mistione, poiché si vede come egli resolutamente
dice che i razzi vanno in su a diritto e non vanno altrimenti in giro.
SIMP. Quare centrum spheræ delapsæ
sub æquatore spiram describit in eius plano, sub aliis parallelis spiram
describit in cono? sub polo descendit in axe, lineam gyralem decurrens in
superficie cylindrica consignatam? ([17])
SALV. Perché delle linee tirate dal centro alla
circonferenza della sfera, che son quelle per le quali i gravi descendono,
quella che termina nell'equinoziale disegna un cerchio, e quelle che terminano
in altri paralleli descrivon superficie coniche, e l'asse non descrive altro,
ma si resta nell'esser suo. E se io vi debbo dire il mio parer liberamente,
dirò che non so ritrarre da tutte queste interrogazioni costrutto
nissuno che rilievi contro al moto della Terra; perché s'io domandassi a
quest'autore (concedutogli che la Terra non si muova) quello che accaderebbe di
tutti questi particolari, dato che ella si movesse come vuole il Copernico, son
ben sicuro che e' direbbe che ne seguirebbon tutti questi effetti, che egli
adesso oppone come inconvenienti per rimuover la mobilità; talché nella
mente di quest'uomo le conseguenze necessarie vengon reputate assurdi. Ma, di
grazia, se ci è altro, spediamoci da questo tedio.
SIMP. In questo che segue, ci è contro al
Copernico e suoi seguaci, che voglion che il moto delle parti, separate dal suo
tutto, sia solo per riunirsi al suo tutto, ma che naturale assolutamente sia il
muoversi circolarmente alla vertigine diurna; contro a i quali instà
dicendo che, conforme all'oppinion di costoro, si tota Terra, una cum aqua,
in nihilum redigeretur, nulla grando aut pluvia e nube decideret, sed
naturaliter tantum circumferretur; neque ignis ullus aut igneum ascenderet,
cum, illorum non improbabili sententia, ignis nullus sit supra. ([18])
SALV. La providenza di questo filosofo è
mirabile e degna di gran lode, attesoché e' non si contenta di pensare alle
cose che potrebbon accadere stante il corso della natura, ma vuol trovarsi
provvisto in occasione che seguissero di quelle cose che assolutamente si sa
che non sono mai per seguire. Io voglio dunque, per sentir qualche bella sottigliezza,
concedergli che quando la Terra e l'acqua andassero in niente, né le grandini
né la pioggia cadessero piú, né le materie ignee andasser piú in alto, ma si
trattenesser girando: che sarà poi? e che mi opporrà il filosofo?
SIMP. L'opposizione è nelle parole che
seguono immediatamente; eccole qui: Quibus tamen experientia et ratio
adversatur. ([19])
SALV. Ora mi convien cedere, poiché egli ha sí gran
vantaggio sopra di me, qual è l'esperienza, della quale io manco; perché
sin ora non mi son mai incontrato in vedere che 'l globo terrestre, con
l'elemento dell'acqua, sia andato in niente, sí ch'io abbia potuto osservare
quel che in questo piccol finimondo faceva la gragnuola e l'acqua. Ma ci
dic'egli almanco, per nostra scienza, quel che facevano?
SIMP. Non lo dice altrimenti.
SALV. Pagherei qualsivoglia cosa a potermi abboccar
con questa persona, per domandargli, se quando questo globo sparí, e'
portò via anco il centro comune della gravità, sí com'io credo;
nel qual caso, penso che la grandine e l'acqua restassero come insensate e
stolide tra le nugole, senza saper che farsi di loro. Potrebbe anco esser che,
attratte da quel grande spazio vacuo, lasciato mediante la partita del globo terrestre,
si rarefacesser tutti gli ambienti, ed in particolar l'aria, che è
sommamente distraibile, e concorressero con somma velocità a riempierlo;
e forse i corpi piú solidi e materiali, come gli uccelli, che pur di ragione ne
dovevano esser molti per aria, si ritirarono piú verso il centro della grande
sfera vacua (che par ben ragionevole che alle sustanze che sotto minor mole
contengono assai materia, sieno assegnati i luoghi piú angusti, lasciando alle
piú rare i piú ampli), e quivi, mortisi finalmente di fame e risoluti in terra,
formassero un nuovo globettino, con quella poca di acqua che si trovava allora
tra' nugoli. Potrebbe anco essere che le medesime materie, come quelle che non
veggon lume, non s'accorgessero della partita della Terra, e che alla cieca
scendessero al solito, pensando d'incontrarla, e a poco a poco si conducessero
al centro, dove anco di presente andrebbero se l'istesso globo non l'impedisse.
E finalmente, per dare a questo filosofo una meno irrisoluta risposta, gli dico
che so tanto di quel che seguirebbe dopo l'annichilazione del globo terrestre,
quanto egli avrebbe saputo che fusse per seguir di esso ed intorno ad esso
avanti che fusse creato: e perché io son sicuro ch'e' direbbe che non si
sarebbe né anco potuto immaginare nissuna delle cose seguite, delle quali la
sola esperienza l'ha fatto scienziato, dovrà non mi negar perdono e
scusarmi s'io non so quel che egli sa delle cose che seguirebbero doppo
l'annichilazione di esso globo, atteso che io manco di quest'esperienza che egli
ha. Dite ora se ci è altra cosa.
SIMP. Ci è questa figura, che rappresenta il
globo terrestre con una gran cavità intorno al suo centro, ripiena
d'aria; e per mostrare che i gravi non si muovono in giú per unirsi co 'l globo
terrestre, come dice il Copernico, costituisce questa pietra nel centro, e
domanda, posta in libertà quel che ella farebbe; ed un'altra ne pone
nella concavità di questa gran caverna, e fa l'istessa interrogazione, dicendo
quanto alla prima: Lapis in centro constitutus aut ascendet ad Terram in
punctum aliquod, aut non: si secundum, falsum est partes ob solam seiunctionem
a toto ad illud moveri; si primum, omnis ratio et experientia renititur, neque
gravia in suæ gravitatis centro conquiescent. Item, si suspensus lapis
liberatus decidat in centrum, separabit se a toto, contra Copernicum; si
pendeat, refragatur omnis experientia, cum videamus integros fornices corruere.
([20])
SALV. Risponderò, benché con mio disavvantaggio
grande, già che son alle mani con chi ha veduto per esperienza
ciò che fanno questi sassi in questa gran caverna, cosa che non ho
veduta io, e dirò che credo che prima siano le cose gravi che il centro
comune della gravità, sí che non un centro, che altro non è che
un punto indivisibile, e però di nessuna efficacia, sia quello che
attragga a sé le materie gravi, ma che esse materie, cospirando naturalmente
all'unione, si formino un comun centro, che è quello intorno al quale
consistono parti di eguali momenti: onde stimo, che trasferendosi il grande
aggregato de i gravi in qualsivoglia luogo, le particelle che dal tutto fusser
separate lo seguirebbero, e non impedite lo penetrerebbero sin dove trovassero
parti men gravi di loro, ma pervenute sin dove s'incontrassero in materie piú
gravi, non scenderebber piú. E però stimo che nella caverna ripiena
d'aria tutta la volta premerebbe, e solo violentemente si sostenterebbe sopra
quell'aria, quando la durezza non potesse esser superata e rotta dalla gravità;
ma sassi staccati credo che scenderebbero al centro, e non soprannoterebbero
all'aria: né per ciò si potrebbe dire che non si movessero al suo tutto,
movendosi là dove tutte le parti del tutto si moverebbero, quando non
fussero impedite.
SIMP. Quel che resta è certo errore ch'ei
nota in un seguace del Copernico, il quale, facendo che la Terra si muova del
moto annuo e del diurno in quella guisa che la ruota del carro si muove sopra
il cerchio della Terra ed in se stessa, veniva a fare o il globo terrestre
troppo grande o l'orbe magno troppo piccolo; attesoché 365 revoluzioni
dell'equinoziale son meno assai che la circonferenza dell'orbe magno.
SALV. Avvertite che voi equivocate, e dite il
contrario di quello che bisogna che sia scritto nel libretto: imperocché
bisogna dire che quel tale autore veniva a fare il globo terrestre troppo
piccolo o l'orbe magno troppo grande, e non il terrestre troppo grande e
l'annuo troppo piccolo.
SIMP. L'equivoco non è altrimenti mio: ecco
qui le parole del libretto: Non videt quod vel circulum annuum æquo
minorem, vel orbem terreum iusto multo fabricet maiorem.([21])
SALV. Se il primo autore abbia errato,
io non lo posso sapere, poiché l'autor del libretto non lo nomina; ma ben
è manifesto e inescusabile l'error del libretto, abbia o non abbia
errato quel primo seguace del Copernico, poiché quel del libretto trapassa
senza accorgersi un error sí materiale, e non lo nota e non lo emenda [Qui
è attribuito l'errore all'autor del libretto, ma veramente l'errore non
vi è.] .
Ma questo siagli perdonato, come errore piú tosto
d'inavertenza che d'altro. Oltre che, se non ch'io sono omai stracco e sazio di
piú lungamente occuparmi e consumare il tempo con assai poca utilità in
queste molto leggieri altercazioni, potrei mostrare come non è
impossibile che un cerchio, anco non maggior d'una ruota d'un carro, co 'l dar
non pur 365, ma anco meno di 20 revoluzioni, può descrivere o misurare
la circonferenza non pur dell'orbe magno, ma di uno mille volte maggiore: e
questo dico per mostrare che non mancano sottigliezze assai maggiori di questa,
con la quale quest'autore nota l'error del Copernico. Ma, di grazia, respiriamo
un poco, per venir poi a quest'altro filosofo, oppositor del medesimo
Copernico.
SAGR. Veramente ne ho bisogno io ancora, benché
abbia solamente affaticato gli orecchi; e quando io pensassi di non aver a
sentir cose piú ingegnose in quest'altro autore, non so s'io mi risolvessi a
andarmene a i freschi in gondola.
SIMP. Credo che sentirete cose di maggior polso,
perché quest'è filosofo consumatissimo, e anco gran matematico, ed ha
confutato Ticone in materia delle comete e delle stelle nuove.
SALV. È egli forse l'autor medesimo dell'Antiticone?
SIMP. È quello stesso: ma la confutazione
contro alle stelle nuove non è nell'Antiticone, se non in quanto
e' dimostra che elle non erano progiudiziali all'inalterabilità ed
ingenerabilità del cielo, sí come già vi dissi: ma doppo l'Antiticone,
avendo trovato per via di parallasse modo di dimostrare che esse ancora son
cose elementari e contenute dentro al concavo della Luna, ha scritto
quest'altro libro: De tribus novis stellis etc., ed inseritovi anco gli
argomenti contro al Copernico. Io l'altra volta vi produssi quello ch'egli
aveva scritto circa queste stelle nuove nell'Antiticone, dove egli non
negava che le fussero nel cielo, ma dimostrava che la lor produzione non
alterava l'inalterabilità del cielo, e ciò facev'egli con
discorso puro filosofico, nel modo ch'io vi dissi; e non mi sovvenne di dirvi
come di poi aveva trovato modo di rimuoverle dal cielo, perché, procedendo egli
in questa confutazione per via di computi e di parallassi, materie poco o
niente comprese da me, non l'avevo lette, e solo avevo fatto studio sopra
queste instanze contro al moto della Terra, che son pure naturali.
SALV. Intendo benissimo, e converrà, doppo
che avremo sentite le opposizioni al Copernico, che sentiamo, o veggiamo
almeno, la maniera con la quale per via di parallasse dimostra essere state
elementari quelle nuove stelle, che tanti astronomi di gran nome costituiron
tutti altissime e tra le stelle del firmamento; e come quest'autore conduce a
termine una tanta impresa, di ritirar di cielo le nuove stelle sin dentro alla
sfera elementare, sarà ben degno d'esser grandemente esaltato e
trasferito esso tra le stelle, o almeno che per fama sia tra quelle eternato il
suo nome. Però spediamoci quanto prima da questa parte, che oppone
all'oppinion del Copernico, e cominciate a portare le sue instanze.
SIMP. Queste non occorrerà leggerle ad
verbum, perché sono molto prolisse; ma io, come vedete, nel leggerle
attentamente piú volte, ho contrassegnato nella margine le parole dove consiste
tutto il nervo della dimostrazione, e quella basterà leggere. Il primo
argomento comincia qui: Et primo, si opinio Copernici recipiatur, criterium
naturalis philosophiæ, ni prorsus tollatur, vehementer saltem labefactari
videtur.([22])
Il qual criterio vuole, secondo l'opinione di tutte le sette de' filosofi, che
il senso e l'esperienza siano le nostre scorte nel filosofare; ma nella
posizion del Copernico i sensi vengono a ingannarsi grandemente, mentre
visibilmente scorgono da vicino, in mezi purissimi, i corpi gravissimi scender
rettamente a perpendicolo, né mai deviar un sol capello dalla linea retta; con
tutto ciò per il Copernico la vista in cosa tanto chiara s'inganna, e
quel moto non è altrimenti retto, ma misto di retto e circolare.
SALV. Questo è il primo argomento che
Aristotile e Tolomeo e tutti i lor seguaci producono: al quale si è
abbondantemente risposto, e mostrato il paralogismo, ed assai apertamente
dichiarato come il moto comune a noi ed a gli altri mobili è come se non
fusse. Ma perché le conclusioni vere hanno mille favorevoli rincontri che le
confermano, voglio, in grazia di questo filosofo, aggiunger qualche altra cosa;
e voi, signor Simplicio, facendo la parte sua, rispondetemi alle domande. E
prima, ditemi: che effetto fa in voi quella pietra la quale, cadendo dalla cima
della torre, è cagione che voi di tal movimento vi accorgiate? perché se
'l suo cadere nulla di piú o di nuovo operasse in voi di quello che si operava
la sua quiete in cima della torre, voi sicuramente non vi accorgereste della
sua scesa, né distinguereste il suo muoversi dal suo star ferma.
SIMP. Comprendo il suo discendere in relazione alla
torre, perché or la veggo a canto a un tal segno di essa torre, poi ad un
basso, e cosí successivamente, sin che la scorgo giunta in terra.
SALV. Adunque, se quella pietra fusse caduta da gli
artigli d'una volante aquila e scendesse per la semplice aria invisibile, e voi
non aveste altro oggetto visibile e stabile con chi far parallelo di quella,
non potreste il suo moto comprendere?
SIMP. Anzi pur me n'accorgerei, poiché, per vederla
mentre è altissima, mi converrebbe alzar la testa, e secondo ch'ella
venisse calando, mi bisognerebbe abbassarla, ed in somma muover continuamente o
quella o gli occhi, secondando il suo moto.
SALV. Ora avete data la vera risposta. Voi
conoscete dunque la quiete di quel sasso, mentre senza muover punto l'occhio ve
lo vedete sempre avanti, e conoscete ch'ei si muove, quando, per non lo perder
di vista, vi convien muover l'organo della vista, cioè l'occhio.
Adunque, tuttavoltaché senza muover mai l'occhio voi vi vedeste continuamente
un oggetto nell'istesso aspetto, sempre lo giudichereste immobile.
SIMP. Credo che cosí bisognasse necessariamente.
SALV. Figuratevi ora d'esser in una nave, e d'aver
fissato l'occhio alla punta dell'antenna: credete voi che, perché la nave si
muovesse anco velocissimamente, vi bisognasse muover l'occhio per mantener la
vista sempre alla punta dell'antenna e seguitare il suo moto?
SIMP. Son sicuro che non bisognerebbe far mutazion
nessuna, e che non solo la vista, ma quando io v'avessi drizzato la mira d'un
archibuso, mai per qualsivoglia moto della nave non mi bisognerebbe muoverla un
pelo per mantenervela aggiustata.
SALV. E questo avviene perché il moto che
conferisce la nave all'antenna, lo conferisce anche a voi ed al vostro occhio,
sí che non vi convien muoverlo punto per rimirar la cima dell'antenna; ed in
conseguenza ella vi apparisce immobile. [E tanto è che il raggio della
vista vadia dall'occhio all'antenna, quanto se una corda fusse legata tra due
termini della nave: ora, cento corde sono a diversi termini fermate, e negli stessi
posti si conservano, muovasi la nave o stia ferma.]
Ora trasferite questo discorso alla vertigine della
Terra ed al sasso posto in cima della torre, nel quale voi non potete
discernere il moto, perché quel movimento che bisogna per seguirlo, l'avete voi
comunemente con lui dalla Terra, né vi convien muover l'occhio; quando poi gli
sopraggiugne il moto all'ingiú, che è suo particolare, e non vostro, e
che si mescola co 'l circolare, la parte del circolare che è comune
della pietra e dell'occhio, continua d'esser impercettibile, e solo si fa
sensibile il retto, perché per seguirla vi convien muover l'occhio
abbassandolo. Vorrei, per tòr d'error questo filosofo, potergli dire
che, una volta andando in barca, facesse d'avervi un vaso assai profondo pieno
d'acqua, ed avesse accomodato una palla di cera o d'altra materia che
lentissimamente scendesse al fondo, sí che in un minuto d'ora appena calasse un
braccio, e facendo andar la barca quanto piú velocemente potesse, talché in un
minuto d'ora facesse piú di cento braccia, leggiermente immergesse nell'acqua
la detta palla e la lasciasse liberamente scendere, e con diligenza osservasse
il suo moto: egli primieramente la vedrebbe andare a dirittura verso quel punto
del fondo del vaso dove tenderebbe quando la barca stesse ferma, ed all'occhio
suo ed in relazione al vaso tal moto apparirebbe perpendicolarissimo e
rettissimo; e pure non si può dir che non fusse composto del retto in
giú e del circolare intorno all'elemento dell'acqua. E se queste cose
accaggiono in moti non naturali, ed in materie che noi possiamo farne
l'esperienze nel loro stato di quiete e poi nel contrario del moto, e pur,
quanto all'apparenza, non si scorge diversità alcuna e par che ingannino
il senso, che vogliamo noi distinguere circa alla Terra, la quale perpetuamente
è stata nella medesima costituzione, quanto al moto o alla quiete? ed in
qual tempo vogliamo in essa sperimentare se differenza alcuna si scorge tra
questi accidenti del moto locale ne' suoi diversi stati di moto e di quiete, se
ella in un solo di questi due eternamente si mantiene?
SAGR. Questi discorsi m'hanno racconciato alquanto
lo stomaco, il quale quei pesci e quelle lumache in parte mi avevano
conturbato; ed il primo m'ha fatto sovvenire la correzione d'un errore, il
quale ha tanto apparenza di vero, che non so se di mille uno non l'ammettesse
per indubitato. E questo fu, che navigando in Soria, e trovandomi un telescopio
assai buono, statomi donato dal nostro comune amico, che non molti giorni
avanti l'aveva investigato, proposi a quei marinari che sarebbe stato di gran
benefizio nella navigazione l'adoperarlo su la gaggia della nave per iscoprir
vasselli da lontano e riconoscergli: fu approvato il benefizio, ma opposta la
difficultà del poterlo usare mediante il continuo fluttuar della nave, e
massime in su la cima dell'albero, dove l'agitazione è tanto maggiore, e
che meglio sarebbe stato chi l'avesse potuto adoperare al piede, dove tal
movimento è minore che in qualsivoglia altro luogo del vassello. Io (non
voglio ascondere l'error mio) concorsi nel medesimo parere, e per allora non
replicai altro, né saprei dirvi da che mosso, tornai tra me stesso a ruminar
sopra questo fatto, e finalmente m'accorsi della mia semplicità (ma
però scusabile) nell'ammetter per vero quello che è falsissimo:
dico falso, che l'agitazion massima della gaggia, in comparazion della piccola
del piede dell'albero, debba render piú difficile l'uso del telescopio
nell'incontrar l'oggetto.
SALV. Io sarei stato compagno de i marinari ed
anche vostro, su 'l principio.
SIMP. Ed io parimente sarei stato, e sono ancora;
né crederei co 'l pensarvi cent'anni intenderla altrimenti.
SAGR. Potrò dunque io questa volta farvi a
tutti due (come si dice) il maestro addosso: e perché il proceder per
interrogazioni mi par che dilucidi assai le cose, oltre al gusto che si ha
dello scalzare il compagno, cavandogli di bocca quel che non sapeva di sapere,
mi servirò di tale artifizio E prima io suppongo che le navi, fuste o
altri legni, che si cerca di scoprire e riconoscere, sieno lontani assai,
cioè 4, 6, 10 o
SALV. Figuriamoci che la nave vadia verso levante:
prima, nel mar tranquillissimo, non ci sarebbe altro moto che questo
progressivo; ma aggiunta l'agitazion dell'onde, ce ne sarà uno che,
alzando ed abbassando vicendevolmente la poppa e la prua, fa che la gaggia
inclina innanzi e indietro; altre onde, facendo andare il vassello alla banda,
piegano l'albero a destra e a sinistra; altre posson girare alquanto la nave e
farla defletter, diremo con l'artimone, dal dritto punto orientale or verso
greco or verso sirocco; altre, sollevando per di sotto la carina, potrebber far
che la nave, senza deflettere, solamente si alzasse ed abbassasse: ed in somma
parmi che in spezie questi movimenti sien due, uno, cioè, che muta per
angolo la direzion del telescopio, e l'altro che la muta, diremo, per linea,
senza mutar angolo, cioè mantenendo sempre la canna dello strumento
parallela a se stessa.
SAGR. Ditemi appresso: se noi, avendo prima
drizzato il telescopio là a quella torre di Burano, lontana di qua sei
miglia, lo piegassimo per angolo a destra o a sinistra, o vero in su o in giú,
solamente quanto è un nero d'ugna, che effetto ci farebbe circa
l'incontrar essa torre?
SALV. Ce la farebbe immediate sparir dalla vista,
perché una tal declinazione, benché piccolissima qui, può importar
là le centinaia e le migliaia delle braccia.
SAGR. Ma se senza mutar l'angolo, conservando
sempre la canna parallela a se stessa, noi la trasferissimo 10 o 12 braccia piú
lontana, a destra o a sinistra, in alto o a basso, che effetto ci cagionerebbe
ella quanto alla torre?
SALV. Assolutamente impercettibile; perché, sendo
gli spazii qui e là contenuti tra raggi paralleli, le mutazioni fatte
qui e là convien che sieno eguali; e perché lo spazio che scuopre
là lo strumento è capace di molte di quelle torri, però non
la perderemmo altrimenti di vista.
SAGR. Tornando ora alla nave, possiamo
indubitabilmente affermare, che il muovere il telescopio a destra o a sinistra,
in su o in giú, ed anco innanzi o indietro, 20 o 25 braccia, mantenendolo
però sempre parallelo a se stesso, non può sviare il raggio visivo
dal punto osservato nell'oggetto piú che le medesime 25 braccia; e perché nella
lontananza di 8 o
SALV. Quanto bisogna andar circospetto prima che
affermare o negare una proposizione! Io torno a dire, che nel sentir pronunziar
resolutamente che per il movimento maggiore fatto nella sommità
dell'albero che nel piede, ciascuno si persuaderà che grandemente sia
piú difficile l'uso del telescopio su alto che a basso. E cosí anco voglio
scusar quei filosofi che si disperano e si gettan via contro a quelli che non
gli voglion concedere che quella palla d'artiglieria, che e' veggon chiaramente
venire a basso per una linea retta e perpendicolare, assolutamente si muova in
quel modo, ma voglion che 'l moto suo sia per un arco, ed anco molto e molto
inclinato e trasversale. Ma lasciamogli in quest'angustia, e sentiamo l'altre
opposizioni che l'autore che aviamo a mano fa contro al Copernico.
SIMP. Continua pur l'autore di mostrare come in
dottrina del Copernico bisogna negare i sensi, e le sensazioni massime, qual
sarebbe se noi, che sentiamo il ventilar d'una leggierissima aura, non abbiamo
poi a sentire l'impeto d'un vento perpetuo che ci ferisce con una
velocità che scorre piú di
SALV. È forza che questo filosofo creda che
quella Terra che il Copernico fa andare in giro, insieme con l'aria ambiente,
per la circonferenza dell'orbe magno, non sia questa dove noi abitiamo, ma
un'altra separata, perché questa nostra conduce seco noi ancora, con la
medesima velocità sua e dell'aria circostante: e qual ferita possiam noi
sentire, mentre fuggiamo con egual corso a quello di chi ci vuol giostrare?
Questo signore s'è scordato che noi ancora siamo, non men che la Terra e
l'aria, menati in volta, e che in conseguenza sempre siamo toccati dalla
medesima parte d'aria, la quale però non ci ferisce.
SIMP. Anzi no: eccovi le parole che immediatamente
seguono: Præterea nos quoque rotamur ex circumductione Terræ etc.
([24])
SALV. Ora non lo posso piú né aiutare né scusare;
scusatelo voi e aiutatelo, signor Simplicio.
SIMP. Per ora, cosí improvvisamente, non mi sovvien
difesa di mia sodisfazione.
SALV. Ombé, ci penserete stanotte, e difenderetelo
poi domani: intanto sentiamo l'altre opposizioni.
SIMP. Séguita pur l'istessa instanza, mostrando che
in via del Copernico bisogna negar le sensazioni proprie. Imperocché questo
principio, per il quale noi andiamo intorno con la Terra, o è nostro
intrinseco, o ci è esterno, cioè un rapimento di essa Terra: e se
questo secondo è, non sentendo noi cotal rapimento, convien dire che 'l
senso del tatto non senta il proprio obietto congiunto, né la sua impressione
nel sensorio; ma se il principio è intrinseco, noi non sentiremo un moto
locale derivante da noi medesimi, e non ci accorgeremo mai di una propensione
perpetuamente annessa con esso noi.
SALV. Talché l'instanza di questo filosofo batte
qua, che, sia quel principio, per il quale noi ci moviamo con la Terra, o
esterno o interno, dovremmo in ogni maniera sentirlo, e non lo sentendo, non
è né l'uno né l'altro, e però noi non ci moviamo, né in
conseguenza la Terra. Ed io dico che può essere nell'un modo e
nell'altro, senza che noi lo sentiamo. E del poter esser esterno, l'esperienza
della barca rimuove ogni difficultà soprabbondantemente: e dico soprabbondantemente,
perché, potendo noi a tutte l'ore farla muovere ed anco farla star ferma, e con
grand'accuratezza andare osservando se da qualche diversità, che dal
senso del tatto possa esser compresa, noi possiamo imparare ad accorgerci se la
si muova o no, vedendo che per ancora non si è acquistata tale scienza,
a che maravigliarsi se l'istesso accidente ci resta incognito nella Terra, la
quale ci può aver portati perpetuamente, senza potere mai sperimentar la
sua quiete? Voi sete pur, signor Simplicio, per quel ch'io credo, andato mille
volte nelle barche da Padova, e se voi volete confessar il vero, non avete mai
sentita in voi la participazione di quel moto, se non quando la barca,
arrenando o urtando in qualche ritegno, si è fermata, e che voi con gli
altri passeggieri, colti all'improvviso, sete con pericolo traboccati.
Bisognerebbe che il globo terrestre incontrasse qualche intoppo che
l'arrestasse, che vi assicuro che allora vi accorgereste dell'impeto che in voi
risiede, mentre da esso sareste scagliato verso le stelle. Ben è vero
che con altro senso, ma accompagnato co 'l discorso, potete accorgervi del moto
della barca, cioè con la vista, mentre riguardate gli alberi e le
fabbriche poste nella campagna, le quali, essendo separate dalla barca, par che
si muovano in contrario: ma se per una tale esperienza voleste restare appagato
del moto terrestre, direi che riguardaste le stelle, che per ciò vi
appariscono muoversi in contrario. Il maravigliarsi poi di non sentir cotal
principio, posto che fusse nostro interno, è pensiero men ragionevole;
perché se noi non sentiamo un simile che ci vien di fuori e che frequentemente
si parte, per qual ragione dovremmo sentirlo quando immutabilmente risedesse di
continuo in noi? Ora ècci altro in questo primo argomento?
SIMP. Ècci questa esclamazioncella: Ex
hac itaque opinione necesse est diffidere nostris sensibus, ut penitus
fallacibus vel stupidis in sensibilibus, etiam coniunctissimis, diiudicandis;
quam ergo veritatem sperare possumus, a facultate adeo fallaci ortum trahentem?
([25])
SALV. Oh io ne vorrei dedur precetti piú utili e
piú sicuri, imparando ad esser piú circuspetto e men confidente circa quello
che a prima giunta ci vien rappresentato da i sensi, che ci possono facilmente
ingannare; e non vorrei che questo autore si affannasse tanto in volerci far
comprender co 'l senso, questo moto de i gravi descendenti esser semplice retto
e non di altra sorte, né si risentisse ed esclamasse perché una cosa tanto
chiara manifesta e patente venga messa in difficultà; perché in questo
modo dà indizio di credere che a quelli che dicon, tal moto non esser
altrimenti retto, anzi piú tosto circolare, paia di veder sensatamente quel
sasso andar in arco, già che egli invita piú il lor senso che il lor
discorso a chiarirsi di tal effetto: il che non è vero signor Simplicio,
perché, sí come io, che sono indifferente tra queste opinioni e solo a guisa di
comico mi immaschero da Copernico in queste rappresentazioni nostre, non ho mai
veduto, né mi è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a
perpendicolo, cosí credo che a gli occhi di tutti gli altri si rappresenti
l'istesso. Meglio è dunque che, deposta l'apparenza, nella quale tutti
convenghiamo, facciamo forza co 'l discorso, o per confermar la realtà di
quella, o per iscoprir la sua fallacia.
SAGR. Se io potessi una volta incontrarmi in questo
filosofo, che pur mi pare che si elevi assai sopra molti altri seguaci
dell'istesse dottrine, vorrei in segno di affetto ricordargli un accidente che
assolutamente egli ha ben mille volte veduto, dal quale, con molta
conformità di questo che trattiamo, si può comprendere quanto
facilmente possa altri restar ingannato dalla semplice apparenza o vogliamo
dire rappresentazione del senso. E l'accidente è il parere, a quelli che
di notte camminano per una strada, d'esser seguitati dalla Luna con passo
eguale al loro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le
quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che,
realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando
il discorso non s'interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la
vista.
SIMP. Veramente non mancano l'esperienze le quali
ci rendono sicuri delle fallacie de i semplici sensi; però, sospendendo
per ora cotali sensazioni, sentiamo gli argomenti che seguono, che son presi,
come e' dice, ex rerum natura. Il primo de' quali è, che la Terra
non può muoversi di sua natura di tre movimenti grandemente diversi, o
vero bisognerebbe rifiutare molte dignità manifeste: la prima delle
quali è, che ogni effetto depende da qualche causa, la seconda; che
nessuna cosa produce se medesima, dal che ne segue che non è possibile
che il movente e quello che è mosso siano totalmente l'istessa cosa: e
questo non solo nelle cose che son mosse da motore estrinseco è
manifesto, ma si raccoglie anco da i principii proposti l'istesso accadere nel
moto naturale dependente da principio intrinseco; altrimenti, essendo che il
movente, come movente, è causa, e 'l mosso, come mosso, è effetto,
il medesimo totalmente sarebbe causa ed effetto; adunque un corpo non muove
tutto sé, cioè che tutto muova e tutto sia mosso, ma bisogna nella cosa
mossa distinguere in qualche modo il principio efficiente della mozione, e
quello che di tal mozione si muove. La terza dignità è che, nelle
cose suggette a i sensi, uno, in quanto uno, produce una cosa sola; cioè
l'anima nell'animale produce ben diverse operazioni cioè la vista,
l'udito, l'odorato, la generazione, ma con istrumenti diversi: ed in somma si
scorge, nelle cose sensibili le diverse operazioni derivar da diversità
che sia nella causa. Ora, se si congiugneranno queste dignità,
sarà cosa chiarissima che un corpo semplice, qual è la Terra, non
si potrà di sua natura muover insieme di tre movimenti grandemente
diversi. Imperocché, per le supposizioni fatte, tutta non muove sé tutta;
bisogna dunque distinguere in lei tre principii di tre moti, altrimenti un
principio medesimo produrrebbe piú moti: ma contenendo in sé tre principii di
moti naturali, oltre alla parte mossa, non sarà corpo semplice, ma
composto di tre principii moventi e della parte mossa: se dunque la Terra
è corpo semplice, non si moverà di tre moti. Anzi, pur non si
moverà ella di alcuno di quelli che le attribuisce il Copernico, dovendosi
muover d'un solo; essendo manifesto, per le ragioni di Aristotile, che ella si
muove al suo centro, come mostrano le sue parti, che scendono ad angoli retti
alla superficie sferica della Terra.
SALV. Molte cose sarebbon da dirsi e da
considerarsi intorno alla testura di questo argomento; ma già che noi lo
possiamo in brevi parole risolvere, non voglio per ora senza necessità
diffondermi, e tanto piú, quanto la risposta mi vien dal medesimo autore
somministrata, mentre egli dice, nell'animale da un sol principio esser
prodotte diverse operazioni: onde io per ora gli rispondo, con un simil modo da
un sol principio derivare nella Terra diversi movimenti.
SIMP. A questa risposta non si quieterà
punto l'autore dell'instanza, anzi vien pur ella totalmente atterrata da quello
che ei soggiugne immediatamente per maggiore stabilimento dell'impugnazion
fatta, sí come voi sentirete. Corrobora, dico, l'argomento con altra
dignità, che è questa: che la natura non manca, né soprabbonda,
nelle cose necessarie. Questo è manifesto a gli osservatori delle cose
naturali e principalmente degli animali, ne' quali, perché dovevano muoversi di
molti movimenti, la natura ha fatte loro molte flessure, e quivi acconciamente
ha legate le parti per il moto, come alle ginocchia, a i fianchi, per il
camminar de gli animali e per coricarsi a lor piacimento; in oltre nell'uomo ha
fabbricate molte flessioni e snodature al gomito ed alla mano, per poter
esercitar molti moti. Da queste cose si cava l'argomento contro al triplicato
movimento della Terra: o vero il corpo uno e continuo, senza essere snodato da
flessura nessuna, può esercitar diversi movimenti, o vero non può
senza aver le flessure; se può senza, adunque indarno ha la natura
fabbricate le flessure negli animali, che è contro alla dignità;
ma se non può senza, adunque la Terra, corpo uno e continuo e privo di
flessure e di snodamenti, non può di sua natura muoversi di piú moti. Or
vedete quanto argutamente va a incontrar la vostra risposta, che par quasi che
l'avesse prevista.
SALV. Dite voi su 'l saldo, o pur parlate
ironicamente?
SIMP. Io dico dal miglior senno ch'i' m'abbia.
SALV. Bisogna dunque che voi vi sentiate d'aver
tanto buono in mano, da poter anco sostener la difesa di questo filosofo contro
qualche altra replica che gli fusse fatta in contrario: però
rispondetemi, vi prego, in sua grazia, già che non possiamo averlo
presente. Voi primieramente ammettete per vero che la natura abbia fatti gli
articoli, le flessure e snodature a gli animali, acciocché si possano muover di
molti e diversi movimenti; ed io vi nego questa proposizione, e dico che le
flessioni son fatte acciocché l'animale possa muovere una o piú delle sue
parti, restando immobile il resto, e dico che quanto alle spezie e differenze
de' movimenti, quelli sono di una sola, cioè tutti circolari: e per
questo voi vedete, tutti i capi de gli ossi mobili esser colmi o cavi; e di
questi, altri sono sferici, che son quelli che hanno a muoversi per tutti i
versi, come fa nella snodatura della spalla il braccio dell'alfiere nel
maneggiar l'insegna, e dello strozziere nel richiamar co 'l logoro il falcone,
e tal è la flessura del gomito, sopra la quale si gira la mano nel forar
col succhiello; altri son circolari per un sol verso e quasi cilindrici, che
servono per le membra che si piegano in un sol modo, come le parti delle dita
l'una sopra l'altra, etc. Ma senza piú particolari incontri, un solo general
discorso ne può far conoscer questa verità; e questo è,
che di un corpo solido che si muova restando uno de' suoi estremi senza mutar
luogo, il moto non può esser se non circolare: e perché nel muover
l'animale uno delle sue membra non lo separa dall'altro suo conterminale,
adunque tal moto è circolare di necessità.
SIMP. Io non l'intendo per questo verso; anzi veggo
io l'animale muoversi di cento moti non circolari e diversissimi tra loro, e
correre e saltare e salire e scendere e notare e molt'altri.
SALV. Sta bene: ma cotesti son moti secondarii,
dependenti da i primi, che sono de gli articoli e delle flessure. Al piegar
delle gambe alle ginocchia e delle cosce a i fianchi, che son moti circolari
delle parti, ne viene in conseguenza il salto o il corso, che son movimenti di
tutto 'l corpo, e questi posson esser non circolari. Ora, perché del globo
terrestre non si ha da muovere una parte sopra un'altra immobile, ma il
movimento deve esser di tutto il corpo, non ci è bisogno di flessure.
SIMP. Questo (dirà la parte) potrebbe esser
quando il moto fusse un solo; ma l'esser tre, e diversissimi tra di loro, non
è possibile che s'accomodino in un corpo inarticolato.
SALV. Cotesta credo veramente che sarebbe la
risposta del filosofo; contro alla quale io insurgo per un'altra banda, e vi
domando se voi stimate che per via di articoli e flessure si potesse adattare
il globo terrestre alla participazione di tre moti circolari diversi. Voi non
rispondete? Già che voi tacete, risponderò io per il filosofo; il
quale assolutamente direbbe di sí, perché altrimenti sarebbe stato superfluo e
fuori del caso il metter in considerazione che la natura fa le flessioni
acciocché il mobile possa muoversi di moti differenti, e che però, non
avendo il globo terrestre flessure; non può aver i tre moti
attribuitigli; perché, quando egli avesse stimato che né anco per via di
flessure si potesse render atto a tali movimenti, arebbe liberamente
pronunziato, il globo non poter muoversi di tre moti. Ora, stante questo, io
prego voi, e per voi, se fusse possibile, il filosofo autor dell'argomento, ad
essermi cortese d'insegnarmi in qual maniera bisognerebbe accomodar le
flessure, acciocché i tre moti comodamente potessero esercitarsi; e vi concedo
tempo per la risposta quattro e anco sei mesi. Intanto a me pare che un
principio solo possa cagionar nel globo terrestre piú moti, in quella guisa
appunto, come dianzi risposi, che un sol principio, co 'l mezo di varii
strumenti, produce moti multiplici e diversi nell'animale: e quanto
all'articolazione, non ve n'è bisogno, dovendo esser i movimenti del
tutto, e non di alcune parti; e perché hanno ad esser circolari, la semplice
figura sferica è la piú bella articolazione che domandar si possa.
SIMP. Al piú che vi si dovesse concedere, sarebbe
che ciò potesse accader d'un movimento solo; ma di tre diversi, al parer
mio e dell'autore, non è possibile, come egli pur continuando, e
corroborando l'instanza, segue scrivendo: Figuriamoci co 'l Copernico che la
Terra si muova, per propria facultà e da principio intrinseco, da
occidente in oriente nel piano dell'eclittica, ed oltre a ciò che ella si
rivolga, pur da principio intrinseco, intorno al suo proprio centro da oriente
in occidente, e per il terzo moto ch'ella per propria inclinazione si pieghi da
settentrione in austro ed all'incontro; essendo ella un corpo continuo e non
collegato con flessioni e giunture, potrà mai la nostra stimativa e 'l
nostro giudizio comprendere che un medesimo principio naturale e indistinto,
cioè che una medesima propensione, si distragga insieme in diversi moti
e quasi contrarii? Io non posso credere che alcuno sia per dir tal cosa, se non
chi a dritto e a torto avesse preso a sostenere questa posizione.
SALV. Fermate un poco, e trovatemi questo luogo nel
libro; mostrate. Fingamus modo cum Copernico, Terram aliqua sua vi et ab
indito principio impelli ab occasu ad ortum in eclipticæ plano, tum
rursus revolvi ab indito etiam principio circa suimet centrum ab ortu in
occasum, tertio deflecti rursus suopte nutu a septentrione in austrum et
vicissim. Io dubitavo, signor Simplicio, che voi non aveste preso errore
nel riferirci le parole dell'autore; ma veggo che egli stesso, e pur troppo
gravemente, si inganna, e con mio dispiacere comprendo ch'e' si è posto
ad impugnar una posizione la quale e' non ha ben capita; imperocché questi non
sono i movimenti che 'l Copernico attribuisce alla Terra. E donde cava egli che
'l Copernico faccia il moto annuo per l'eclittica contrario al moto circa il
proprio centro? bisogna che e' non abbia letto il suo libro, che in cento
luoghi, ed anco ne i primi capitoli, scrive tali movimenti esser amendue verso
le medesime parti, cioè da occidente verso oriente. Ma senza sentirlo da
altri, non dovev'egli per se stesso comprendere, che attribuendosi alla Terra i
movimenti che si levano l'uno al Sole e l'altro al primo mobile, bisognava che
fussero necessariamente fatti pel medesimo verso?
SIMP. Guardate pur di non errar voi, ed il
Copernico insieme. Il moto diurno del primo mobile non è egli da levante
a ponente? ed il moto annuo del Sole per l'eclittica non è, per
l'opposito, da ponente a levante? come dunque volete che i medesimi, trasferiti
nella Terra, di contrarii divengan concordi?
SAGR. Certo che il signor Simplicio ci ha scoperta
l'origine dell'error di questo filosofo: è forza che esso ancora abbia
fatto l'istesso discorso.
SALV. Or che si può, caviamo d'errore
almanco il signor Simplicio. Il quale, vedendo le stelle nel nascere alzarsi
sopra l'orizonte orientale, non arà difficultà nell'intendere
che, quando tal moto non fusse delle stelle, bisognerebbe necessariamente dire
che l'orizonte con moto contrario si abbassasse, ed in conseguenza che la Terra
si volgesse in se stessa al contrario di quel che ci sembrano muoversi le
stelle, cioè da occidente verso oriente, che è secondo l'ordine
de' segni del zodiaco. Quanto poi all'altro moto, essendo il Sole fisso nel
centro del zodiaco e la Terra mobile per la circonferenza di quello, per far
che il Sole ci apparisca muoversi per esso zodiaco secondo l'ordine de i segni,
è necessario che la Terra cammini secondo il medesimo ordine attesoché
il Sole ci apparisce sempre occupar nel zodiaco il grado opposto al grado nel
quale si trova la Terra: e cosí, scorrendo la Terra, verbigrazia, l'Ariete, il
Sole apparirà scorrer la Libra, e passando la Terra per il segno del
Toro, il Sole scorrerà per quello dello Scorpione; la Terra per i
Gemini, il Sole per il Sagittario: ma quest'è muoversi per il medesimo
verso amendue, cioè secondo l'ordine de' segni, come anco era la
revoluzion della Terra circa il proprio centro.
SIMP. Ho inteso benissimo, né saprei qual cosa
produr per isgravio d'un tanto errore.
SALV. Ma piano, signor Simplicio, ché ce n'è
un altro maggior di questo: ed è, ch'e' fa muover la Terra per il moto
diurno intorno al proprio centro da oriente verso occidente, e non comprende
che quando questo fusse, il movimento delle 24 ore dell'universo ci apparirebbe
fatto da ponente verso levante, per l'opposito giusto di quel che noi veggiamo.
SIMP. Oh io, che appena ho veduti i primi elementi
della sfera, son sicuro che non arei errato sí gravemente.
SALV. Giudicate ora quale studio si può
stimare che abbia fatto questo oppositore ne i libri del Copernico, se e'
prende al rovescio questa principale e massima ipotesi, sopra la quale si fonda
tutta la somma delle cose nelle quali il Copernico dissente dalla dottrina
d'Aristotile e di Tolomeo. Quanto poi a questo terzo moto che l'autore, pur di
mente del Copernico, assegna al globo terrestre, non so di quale e' si voglia
intendere: quello non è egli sicuramente che il Copernico gli
attribuisce congiuntamente con gli altri due, annuo e diurno, che non ha che
fare co 'l declinare verso austro e settentrione, ma solo serve per mantener
l'asse della revoluzion diurna continuamente parallelo a se stesso; talché
bisogna dire, o che l'oppositore non abbia compreso questo, o l'abbia
dissimulato. Ma benché questo solo grave mancamento bastasse a liberarne
dall'obbligo di piú occuparci nella considerazione delle sue opposizioni,
tuttavia voglio ritenerle in stima, sí come veramente meritano di esser
apprezzate assai piú che mille altre di altri vani oppositori. Tornando dunque
all'instanza, dico che i due movimenti annuo e diurno non sono altrimenti
contrarii, anzi son per il medesimo verso, e però posson dependere da un
medesimo principio; il terzo vien talmente in conseguenza dell'annuo, da per se
stesso e spontaneamente, che non vi bisogna chiamar principio interno né
esterno (come a suo luogo dimostrerò) dal quale, come da causa, venga
prodotto.
SAGR. Voglio pur io ancora, scorto dal discorso
naturale, dire a questo oppositore qualche cosa. Il qual vuol condennare il
Copernico se io non gli so puntualmente risolvere tutti i dubbi e risponder a
tutte le opposizioni che ei gli fa, quasi che in conseguenza della mia
ignoranza segua necessariamente la falsità della sua dottrina: ma se
questo termine di condennar gli scrittori gli par iuridico, non dovrà
parergli fuor di ragione se io non approverò Aristotile e Tolomeo,
quando egli non risolva meglio di me le difficultà medesime ch'io gli
promuovo nella loro dottrina. E' mi domanda quali siano i principii, per i
quali il globo terrestre si muove del moto annuo nel zodiaco, e del diurno per
l'equinoziale in se stesso. Dicogli che e' sono una cosa simile a quelli per i
quali Saturno si muove per il zodiaco in 30 anni, ed in se stesso in tempo
molto piú breve secondo l'equinoziale, come lo scoprirsi ed ascondersi de i
suoi globi collaterali ci mostra; e una cosa simile a quella per la quale ei
concederebbe senza scrupolo che il Sole scorresse l'eclittica in un anno, ed in
se stesso si rivolgesse parallelo all'equinoziale in manco d'un mese, come
sensatamente mostrano le sue macchie; e una cosa simil a quella per la quale le
stelle Medicee scorrono il zodiaco in 12 anni, e tra tanto si volgono in cerchi
piccolissimi ed in tempi brevissimi intorno a Giove.
SIMP. Quest'autore vi negherà tutte queste
cose, come inganni della vista, mediante i cristalli del telescopio.
SAGR. Oh questo sarebbe un volerne troppo per sé,
mentre e' vuole che l'occhio semplice non si possa ingannare nel giudicar il
moto retto de' gravi descendenti, e vuol che e' si inganni nel comprendere
questi altri movimenti, mentre la sua virtú vien perfezionata ed accresciuta a
trenta doppii. Diciamogli dunque che la Terra partecipa la pluralità di
movimenti in un modo simile e forse il medesimo, co 'l quale la calamita ha il
muoversi in giú, come grave, e due moti circolari, uno orizontale e l'altro
verticale, sotto il meridiano. Ma che piú? ditemi, signor Simplicio, tra chi
credete voi che quest'autore mettesse maggior diversità, tra il moto
retto e 'l circolare, o tra il moto e la quiete?
SIMP. Tra il moto e la quiete sicuramente. E
quest'è manifesto; perché il moto circolare non è contrario al
retto per Aristotile, anzi e' concede che si possano mescolare; il che è
impossibile del moto e della quiete.
SAGR. Adunque proposizione meno improbabile
è il porre in un corpo naturale due principii interni, uno a 'l moto
retto e l'altro al circolare, che due, pur interni, uno al moto e l'altro alla
quiete. Ora, della naturale inclinazione che risegga nelle parti della Terra,
di ritornar al suo tutto quando per violenza ne vengono separate, concordano
insieme amendue le posizioni; e solo dissentono nell'operazion del tutto, ché
questa vuole che per principio interno stia immobile, e quella gli attribuisce
il moto circolare: ma per la vostra concessione e di questo filosofo, due
principii, uno al moto e l'altro alla quiete, son incompatibili insieme, sí
come incompatibili sono gli effetti; ma non già accade questo de i due
movimenti retto e circolare, che nulla repugnanza hanno fra di loro.
SALV. Aggiugnete di piú, che probabilissimamente
può essere che il movimento che fa la parte della Terra separata, mentre
si riconduce al suo tutto, sia esso ancora circolare, come di già si
è dichiarato: talché per tutti i rispetti, in quanto appartiene al
presente caso, la mobilità sembra piú accettabile che la quiete. Ora
seguite, signor Simplicio, quello che resta.
SIMP. Fortifica l'autore l'instanza con additarci
un altro assurdo, cioè che gli stessi movimenti convengano a nature
sommamente diverse: ma l'osservazione ci insegna, l'operazioni e i moti di
nature diverse esser diversi; e la ragione lo conferma, perché altrimenti non
avremmo ingresso per conoscere e distinguer le nature, quando elle non avessero
i lor moti ed operazioni che ci scorgessero alla cognizione delle sustanze.
SAGR. Io ho dua o tre volte osservato ne i discorsi
di quest'autore, che per prova che la cosa stia nel tale e nel tal modo, e' si
serve del dire che in quel tal modo si accomoda alla nostra intelligenza, o che
altrimenti non avremmo adito alla cognizione di questo o di quell'altro
particolare, o che il criterio della filosofia si guasterebbe, quasi che la
natura prima facesse il cervello a gli uomini, e poi disponesse le cose
conforme alla capacità de' loro intelletti. Ma io stimerei piú presto,
la natura aver fatte prima le cose a suo modo, e poi fabbricati i discorsi
umani abili a poter capire (ma però con fatica grande) alcuna cosa de'
suoi segreti.
SALV. Io son dell'istessa opinione. Ma dite, signor
Simplicio: quali sono queste nature diverse, alle quali, contro
all'osservazione ed alla ragione, il Copernico assegna moti ed operazioni
medesime?
SIMP. Eccole: l'acqua e l'aria (che pur sono nature
diverse dalla terra), e tutte le cose che in tali elementi si trovano, aranno
ciascheduna quei tre movimenti che il Copernico finge nel globo terrestre. E
segue di dimostrar geometricamente come in via del Copernico una nugola che sia
sospesa in aria, e che per lungo tempo ci soprastia al capo senza mutar luogo,
bisogna necessariamente ch'ell'abbia tutti tre que' movimenti che ha il globo
terrestre: la dimostrazione è questa, e voi la potete legger da per voi,
ch'io non la saprei riferir a mente.
SALV. Io non istarò altrimenti a leggerla,
anzi stimo superfluo l'avercela posta, perch'io son sicuro che nessuno de gli
aderenti del moto della Terra glie la negherà. Però, ammessagli
la dimostrazione, parliamo dell'instanza: la qual non mi pare che abbia molta
forza di concluder nulla contro alla posizione del Copernico, avvengaché niente
si deroga a quei moti e a quelle operazioni per i quali si viene in cognizione
delle nature etc. Rispondetemi in grazia, signor Simplicio: quelli accidenti
ne' quali alcune cose puntualissimamente convengono, ci posson eglin servire
per farci conoscer le diverse nature di quelle tali cose?
SIMP. Signor no, anzi tutto l'opposito, perché
dall'identità delle operazioni e degli accidenti non si può
argumentare salvo che una identità di nature.
SALV. Talché le diverse nature dell'acqua, della
terra, dell'aria, e dell'altre cose che sono per questi elementi, voi non
l'arguite da quelle operazioni nelle quali tutti questi elementi e loro annessi
convengono, ma da altre operazioni: sta cosí?
SIMP. Cosí è in effetto.
SALV. Talché quello che lasciasse ne gli elementi
tutti quei moti, operazioni ed altri accidenti per i quali si distinguono le
lor nature, non ci priverebbe del poter venire in cognizione di esse, ancorché
e' rimovesse poi quella operazione nella quale unitamente convengono, e che
perciò non serve nulla per la distinzione di tali nature.
SIMP. Credo che il discorso proceda benissimo.
SALV. Ma che la terra, l'acqua e l'aria siano da
natura egualmente costituite immobili intorno al centro, non è opinione
vostra, dell'autore, di Aristotile, di Tolomeo e di tutti i lor seguaci?
SIMP. È ricevuta come verità
irrefragabile.
SALV. Adunque da questa comune natural condizione,
di quietare intorno al centro, non si trae argomento delle diverse nature di questi
elementi e cose elementari, ma convien apprender tal notizia da altre
qualità non comuni; e però chi levasse a gli elementi solamente
questa quiete comune e gli lasciasse loro tutte l'altre operazioni, non
impedirebbe punto la strada che ne guida alla cognizione delle loro essenze: ma
il Copernico non leva loro altro che questa comune quiete, e glie la tramuta in
un comunissimo moto, lasciandogli la gravità, la leggierezza, i moti in
su, in giú, piú tardi, piú veloci, la rarità, la densità, le
qualità di caldo, freddo, secco, umido, ed in somma tutte l'altre cose:
adunque un tal assurdo, qual s'immagina questo autore, non è altrimenti
nella posizion copernicana; né il convenire in una identità di moto
importa piú o meno che il convenire in una identità di quiete, circa 'l
diversificare o non diversificar nature. Or dite se ci è altro argomento
in contrario.
SIMP. Séguita una quarta instanza, presa pur da una
naturale osservazione, che è che i corpi del medesimo genere hanno moti
che convengono in genere, o vero convengono nella quiete: ma nella posizione
del Copernico, corpi che convengono in genere, e tra di loro similissimi,
arebbono in quanto al moto una somma sconvenienza, anzi una diametral
repugnanza; imperocché stelle tanto tra di loro simili, nulladimeno nel moto
sarebbero tanto dissimili, poiché sei pianeti andrebbono in volta
perpetuamente, ma il Sole e tutte le stelle fisse perpetuamente starebbero
immote.
SALV. La forma dell'argomentare mi par concludente,
ma credo bene che l'applicazione o la materia sia difettosa; e purché l'autore
voglia persistere nel suo assunto, la conseguenza verrà senz'altro
direttamente contro di lui. Il progresso dell'argomento è tale: Tra i
corpi mondani, sei ce ne sono che perpetuamente si muovono, e sono i sei pianeti;
de gli altri, cioè della Terra, del Sole e delle stelle fisse, si dubita
chi di loro si muova e chi stia fermo, essendo necessario che se la Terra sta
ferma, il Sole e le stelle fisse si muovano, e potendo anch'essere che il Sole
e le fisse stessero immobili, quando la Terra si muovesse; cercasi, in dubbio
del fatto, a chi piú convenientemente si possa attribuire il moto, ed a chi la
quiete. Detta il natural discorso, che il moto debba stimarsi essere di chi piú
in genere ed in essenza conviene con quei corpi che indubitatamente si muovono,
e la quiete di chi da i medesimi piú dissente; ed essendo che un'eterna quiete
e perpetuo moto sono accidenti diversissimi, è manifesto che la natura
del corpo sempre mobile convien che sia diversissima dalla natura del sempre
stabile; cerchiamo dunque, mentre stiamo ambigui del moto e della quiete, se
per via di qualche altra rilevante condizione potessimo investigare chi piú
convenga con i corpi sicuramente mobili, o la Terra, o pure il Sole e le stelle
fisse. Ma ecco, la natura, favorevole al nostro bisogno e desiderio, ci
somministra due condizioni insigni, e differenti non meno che 'l moto e la
quiete, e sono la luce e le tenebre, cioè l'esser per natura
splendidissimo, e l'esser oscuro e privo di ogni luce. Son dunque diversissimi
d'essenza i corpi ornati d'un interno ed eterno splendore, da i corpi privi
d'ogni luce: priva di luce è la Terra; splendidissimo per se stesso
è il Sole, e non meno le stelle fisse; i sei pianeti mobili mancano
totalmente di luce, come la Terra; adunque l'essenza loro convien con la Terra,
e dissente dal Sole e dalle stelle fisse: mobile dunque è la Terra,
immobile il Sole e la sfera stellata.
SIMP. Ma l'autore non concederà che i sei
pianeti sien tenebrosi, e su tal negativa si terrà saldo, o vero egli
argomenterà la conformità grande di natura tra' sei pianeti e il
Sole e le stelle fisse, e la difformità tra questi e la Terra, da altre
condizioni che dalle tenebre e dalla luce; anzi, or ch'io m'accorgo,
nell'instanza quinta, che segue, ci è posta la disparità somma
tra la Terra e i corpi celesti: nella quale egli scrive, che gran confusione e
intorbidamento sarebbe nel sistema dell'universo e tra le sue parti secondo
l'ipotesi del Copernico; imperocché tra corpi celesti immutabili ed incorruttibili,
secondo Aristotile e Ticone ed altri, tra corpi, dico, di tanta nobiltà,
per confessione di ognuno e dell'istesso Copernico, che afferma quelli esser
ordinati e disposti in un'ottima costituzione, e che da quelli rimuove ogni
inconstanza di virtú, tra corpi, dico, tanto puri, cioè tra Venere e
Marte, collocar la sentina di tutte le materie corruttibili, cioè la
Terra, l'acqua, l'aria e tutti i misti! Ma quanto piú prestante distribuzione e
piú alla natura conveniente, anzi a Dio stesso architetto, sequestrar i puri da
gl'impuri, i mortali da gl'immortali, come insegnano l'altre scuole, che ci
insegnano come queste materie impure e caduche son contenute nell'angusto
concavo dell'orbe lunare, sopra 'l quale con serie non interrotta s'alzano poi
le cose celesti!
SALV. È vero che 'l sistema Copernicano
mette perturbazione nell'universo d'Aristotile; ma noi trattiamo dell'universo
nostro, vero e reale. Quando poi la disparità d'essenza tra la Terra e i
corpi celesti la vuol quest'autore inferire dall'incorruttibilità di
quelli e corruttibilità di questa, in via d'Aristotile, dalla qual
disparità e' concluda il moto dover esser del Sole e delle fisse e
l'immobilità della Terra, va vagando nel paralogismo, supponendo quel
che è in quistione; perché Aristotile inferisce
l'incorruttibilità de' corpi celesti dal moto, del quale si disputa se
sia loro o della Terra. Della vanità poi di queste retoriche illazioni,
se n'è parlato a bastanza. E qual cosa piú insulsa che dire, la Terra e
gli elementi esser relegati e separati dalle sfere celesti, e confinati dentro
all'orbe lunare? ma non è l'orbe lunare una delle celesti sfere, e,
secondo il consenso loro, compresa nel mezo di tutte l'altre? nuova maniera di
separare i puri da gl'impuri e gli ammorbati da' sani, dar a gl'infetti stanza
nel cuore della città! io credeva che il lazeretto se le dovesse
scostare piú che fusse possibile. Il Copernico ammira la disposizione delle
parti dell'universo per aver Iddio costituita la gran lampada, che doveva
rendere il sommo splendore a tutto il suo tempio, nel centro di esso, e non da
una banda. Dell'esser poi il globo terrestre tra Venere e Marte, ne tratteremo
in breve; e voi stesso, in grazia di quest'autore, farete prova di
rimuovernelo. Ma, di grazia, non intrecciamo questi fioretti rettorici con la
saldezza delle dimostrazioni, e lasciamogli a gli oratori o piú tosto a i
poeti, li quali hanno saputo con lor piacevolezze inalzar con laude cose
vilissime ed anco tal volta perniziose; e se altro ci resta, spediamoci quanto
prima.
SIMP. Ci è il sesto ed ultimo argomento: nel
qual ei pone per cosa molto inverisimile che un corpo corruttibile e
dissipabile si possa muovere d'un moto perpetuo e regolare; e questo conferma
con l'esempio de gli animali, li quali movendosi di moto a loro naturale, pur
si straccano, ed hanno bisogno di riposo per restaurare le forze; ma che ha da
fare tal movimento con quel della Terra, immenso al paragon del loro? ma, piú,
farla muovere di tre moti discorrenti e distraenti in parti diverse? chi potrà
mai asserir tali cose, salvo che quelli che si fussero giurati lor difensori?
Né vale in questo caso quel che produce il Copernico, che per essere questo
moto naturale alla Terra, e non violento, opera contrarii effetti da i moti
violenti; e che si dissolvon bene, né posson lungamente sussister, le cose alle
quali si fa impeto, ma le fatte dalla natura si conservano nell'ottima loro
disposizione; non val, dico, questa risposta, che vien atterrata dalla nostra.
Imperocché l'animale è pur corpo naturale, e non fabbricato dall'arte,
ed il movimento suo è naturale, derivando dall'anima, cioè da
principio intrinseco; e violento è quel moto il cui principio è
fuori, ed al quale niente conferisce la cosa mossa: tuttavia, se l'animal continua
lungo tempo il suo moto, si stracca, ed anco si muore, quando si vuole sforzare
ostinatamente. Vedete dunque come in natura si incontrano da tutte le bande
vestigii contrarianti alla posizione del Copernico, né mai de' favorabili. E
per non aver a ripigliar piú la parte di questo oppositore, sentite quel ch'ei
produce contro al Keplero (co 'l quale ei disputa), in proposito di quello che
esso Keplero istava contro a quelli a i quali pare inconveniente, anzi
impossibil cosa, l'accrescer in immenso la sfera stellata, come ricerca la
posizion del Copernico. Instà dunque il Keplero dicendo: Difficilius
est accidens præter modulum subiecti intendere, quam subiectum sine
accidente augere: Copernicus igitur verisimilius facit, qui auget orbem
stellarum fixarum absque motu, quam Ptolemæus, qui auget motum fixarum
immensa velocitate.([26]) La qual instanza
scioglie l'autore, maravigliandosi di quanto il Keplero s'inganni nel dire che
nell'ipotesi di Tolomeo si cresca il moto fuor del modello del subietto,
imperocché a lui pare che non si accresca se non conforme al modello, e che
secondo il suo accrescimento si agumenti la velocità del moto: il che
prova egli con figurarsi una macina che dia una revoluzione in 24 ore, il qual
moto si chiamerà tardissimo; intendendosi poi il suo semidiametro
prolungato sino alla distanza del Sole, la sua estremità
agguaglierà la velocità del Sole; prolungatolo sino alla sfera
stellata, agguaglierà la velocità delle fisse, benché nella
circonferenza della macina sia tardissimo. Applicando ora questa considerazione
della macina alla sfera stellata, intendiamo un punto nel suo semidiametro
vicino al centro quant'è il semidiametro della macina; il medesimo moto,
che nella sfera stellata è velocissimo, in quel punto sarà
tardissimo: ma la grandezza del corpo è quella che di tardissimo lo fa
divenir velocissimo, ancorché e' continui d'esser il medesimo; e cosí la velocità
cresce non fuor del modello del subietto, anzi cresce secondo quello e la sua
grandezza, molto diversamente da quel che stima il Keplero.
SALV. Io non credo che quest'autore si sia formato
concetto del Keplero cosí tenue e basso, che e' possa persuadersi che e' non
abbia inteso che il termine altissimo d'una linea tirata dal centro sin
all'orbe stellato si muove piú velocemente che un punto della medesima linea
vicino al centro a due braccia: e però è forza che e' capisca e
comprenda che il concetto e l'intenzione del Keplero è stata di dire,
minore inconveniente esser l'accrescer un corpo immobile a somma grandezza, che
l'attribuire una somma velocità a un corpo pur vastissimo, avendo
riguardo al modulo, cioè alla norma ed all'esempio, de gli altri corpi
naturali, ne i quali si vede che crescendo la distanza dal centro, si
diminuisce la velocità, cioè che i periodi delle lor circolazioni
ricercano tempi piú lunghi; ma nella quiete, che non è capace di farsi
maggiore o minore, la grandezza o piccolezza del corpo non fa diversità
veruna. Talché, se la risposta dell'autore debbe andar ad incontrar l'argomento
del Keplero, è necessario che esso autore stimi che al principio movente
l'istesso sia muover dentro al medesimo tempo un corpo piccolissimo ed uno
immenso, essendo che l'augumento della velocità vien senz'altro in
conseguenza dell'accrescimento della mole: ma quest'è poi contro alle
regole architettoniche della natura, la quale osserva nel modello delle minori
sfere, sí come veggiamo ne i pianeti e sensatissimamente nelle stelle Medicee,
di far circolare gli orbi minori in tempi piú brevi, onde il tempo della
revoluzion di Saturno è piú lungo di tutti i tempi dell'altre sfere
minori, essendo di 30 anni: ora il passar da questa a una sfera grandemente
maggiore, e farla muover in 24 ore, può ben ragionevolmente dirsi uscir
delle regole del modello. Sí che, se noi attentamente considereremo, la
risposta dell'autore va non contro al concetto e senso dell'argomento, ma
contro alla spiegatura e 'l modo del parlare; dove anco l'autore ha il torto né
può negare di non aver ad arte dissimulato l'intelligenza delle parole,
per gravar il Keplero d'una troppo crassa ignoranza: ma l'impostura è
stata tanto grossolana, che non ha potuto con sí gran tara difalcar del
concetto che ha della sua dottrina impresso il Keplero nelle menti de i
litterati. Quanto poi all'instanza contro al perpetuo moto della Terra, presa
dall'esser impossibil cosa che ella continuasse senza straccarsi, essendo che
gli animali stessi, che pur si muovon naturalmente e da principio interno, si
straccano ed hanno bisogno di riposo per relassar le membra…
SAGR. Mi par di sentire il Keplero rispondergli,
che pur ci sono de gli animali che si rinfrancano dalla stanchezza co 'l
voltolarsi per terra, e che però non si deve temer che il globo
terrestre si stracchi; anzi ragionevolmente si può dire che e' goda d'un
perpetuo e tranquillissimo riposo, mantenendosi in un eterno rivoltolamento.
SALV. Voi, signor Sagredo, sete troppo arguto e
satirico: ma lasciamo pur gli scherzi da una banda, mentre trattiamo di cose
serie.
SAGR. Perdonatemi, signor Salviati: questo ch'io
dico non è miga cosí fuor del caso quanto forse voi lo fate; perché un
movimento che serva per riposo e per rimuover la stanchezza a un corpo
defatigato dal viaggio, può molto piú facilmente servire a non la
lasciar venire, sí come piú facili sono i rimedii preservativi che i curativi.
E io tengo per fermo, che quando il moto de gli animali procedesse come questo
che viene attribuito alla Terra, e' non si stancherebbero altrimenti, avvenga
che lo stancarsi il corpo dell'animale deriva, per mio credere, dall'impiegare
una parte sola per muover se stessa e tutto il resto del corpo: come,
verbigrazia, per camminare si impiegano le cosce e le gambe solamente, per
portar loro stesse e tutto il rimanente; all'incontro vedrete il movimento del
cuore esser come infatigabile, perché muove sé solo. In oltre, non so quanto
sia vero che il movimento dell'animale sia naturale, e non piú tosto violento;
anzi credo che si possa dir con verità che l'anima muove naturalmente le
membra dell'animale di moto preternaturale: perché, se il moto all'insú
è preternaturale a i corpi gravi, l'alzar le gambe e le cosce, che son
corpi gravi, per camminare, non si potrà far senza violenza, e
però non senza fatica del movente; il salir su per una scala porta il
corpo grave, contro alla sua naturale inclinazione, all'in su, onde ne segue la
stanchezza, mediante la natural repugnanza della gravità a cotal moto.
Ma per muover un mobile di un movimento al quale e' non ha repugnanza nissuna,
qual lassezza o diminuzion di virtú e di forza si deve temer nel movente? e
perché si deve scemar la forza dove non se n'esercita punto?
SIMP. Sono i moti contrarii, de i quali il globo
terrestre si figura muoversi, quelli sopra i quali l'autore fonda la sua
instanza.
SAGR. Già si è detto che non sono
altrimenti contrarii, e che in questo l'autore si è grandemente
ingannato, talché il vigore di tutta l'instanza si volge contro l'impugnator
medesimo, mentre e' voglia che il primo mobile rapisca tutte le sfere inferiori
contro al moto il quale esse nell'istesso tempo e continuamente esercitano. Al
primo mobile, dunque, tocca a stancarsi, che, oltre al muovere se stesso, deve
condur tant'altre sfere, le quali, di piú, con movimento contrario gli
contrastano. Talché quell'ultima conclusione che l'autor inferiva, con dir che
discorrendo per gli effetti di natura s'incontrano sempre cose favorabili per
l'opinion d'Aristotile e Tolomeo, e non mai alcuna che non contrarii al Copernico,
ha bisogno d'una gran considerazione; e meglio è dire, che sendo una di
queste due posizioni vera, e l'altra necessariamente falsa, è
impossibile che per la falsa s'incontri mai ragione, esperienza o retto
discorso che le sia favorevole, sí come alla vera nessuna di queste cose
può esser repugnante. Gran diversità dunque convien che si trovi
tra i discorsi e gli argomenti che si producono dall'una e dall'altra parte in
pro e contro a queste due opinioni, la forza de i quali lascerò che
giudichiate voi stesso, signor Simplicio.
SALV. Voi, signor Sagredo, traportato dalla
velocità del vostro ingegno, mi tagliaste dianzi il ragionamento, mentre
io volevo dire alcuna cosa in risposta di quest'ultimo argomento dell'autore; e
benché voi gli abbiate piú che a sufficienza risposto, voglio ad ogni modo
aggiugner non so che, che allora avevo in mente. Egli pone per cosa molto
inverisimile che un corpo dissipabile e corruttibile, qual è la Terra,
possa perpetuamente muoversi d'un movimento regolare, massime vedendo noi gli
animali finalmente stancarsi ed aver necessità di riposo; e gli accresce
l'inverisimile il dover essere tal moto di velocità incomparabile e
immensa, rispetto a quella de gli animali. Ora io non so intendere perché la
velocità della Terra l'abbia di presente a perturbare, mentre quella
della sfera stellata, tanto e tanto maggiore, non gli arreca disturbo piú
considerabile che se gli arrechi la velocità d'una macine, la quale in
24 ore dia una sola revoluzione. Se per esser la velocità della conversion
della Terra su 'l modello di quella della macine non si tira in conseguenza
cose di maggior efficacia di quella, cessi l'autore di temer lo stancarsi della
Terra perché né anco qualsivoglia ben fiacco e pigro animale, dico né anco un
camaleonte, si straccherebbe col muoversi non piú di cinque o sei braccia in 24
ore; ma se e' vuol considerar la velocità non piú su 'l modello della
macine, ma assolutamente, ed in quanto in 24 ore il mobile ha da passare uno
spazio grandissimo, molto piú si dovrebbe mostrar renitente a concederla alla
sfera stellata, la quale con velocità incomparabilmente maggiore di
quella della Terra deve condur seco migliaia di corpi, ciaschedun grandemente
maggiore del globo terrestre.
Resterebbe ora che noi vedessimo le prove per le
quali l'autore conclude, le stelle nuove del 72 e del 604 essere state
sublunari, e non celesti, come comunemente si persuasero gli astronomi di quei
tempi, impresa veramente grande; ma ho pensato, per essermi tale scrittura
nuova, e lunga per i tanti calcoli, che sarà piú espediente che io tra
stasera e domattina ne vegga quel piú ch'io potrò, e domani poi,
tornando a i soliti ragionamenti, vi referisca quello che avrò ritratto:
e se ci avanzerà tempo, verremo a discorrere del movimento annuo
attribuito alla Terra. Intanto, se voi avete da dire alcuna cosa, ed in
particolare il signor Simplicio, intorno alle cose attenenti al moto diurno,
assai lungamente da me esaminato, ci avanza ancora un poco di tempo da poter
discorrere.
SIMP. A me non resta altro che dire, se non che i
discorsi auti in questo giorno mi son ben parsi ripieni di pensieri molto acuti
e ingegnosi, prodotti per la parte del Copernico in confermazion del moto della
Terra, ma non mi sento già persuaso a crederlo; perché finalmente le
cose dette non concludon altro se non che le ragioni per la stabilità
della Terra non son necessarie, ma non però si è prodotta
dimostrazione alcuna per la parte contraria, la quale necessariamente convinca
e concluda la mobilità.
SALV. Io non ho mai preso, signor Simplicio, a
rimuovervi dalla vostra opinione, né meno ardirei di definitivamente sentenziar
sopra sí gran litigio; ma solamente è stata, e sarà anco nelle
disputazioni seguenti, mia intenzione di farvi manifesto, che quelli che hanno
creduto che questo moto velocissimo delle 24 ore sia della Terra sola, e non
dell'universo trattane la sola Terra, non si erano persuasi che in cotal guisa
potesse e dovesse essere, come si dice, alla cieca, ma che benissimo avevano
vedute sentite ed esaminate le ragioni della contraria opinione, ed anco non
leggiermente rispostole. Con questa medesima intenzione, quando cosí sia di
gusto vostro e del signor Sagredo, potremo passare alla considerazione
dell'altro movimento, prima da Aristarco Samio e poi da Niccolò Copernico
attribuito al medesimo globo terrestre, il quale è, come credo che voi
già abbiate sentito, fatto sotto il zodiaco, dentro allo spazio d'un
anno, intorno al Sole, immobilmente collocato nel centro di esso zodiaco.
SIMP. La quistione è tanto grande e tanto
nobile, che molto curiosamente sentirò discorrerne, presupponendo d'aver
a sentir tutto quello che in tal materia si possa dire. Andrò poi meco
medesimo facendo con mio comodo reflession maggiore sopra le cose sentite e da
sentirsi; e quando altro io non guadagni, non sarà poco il poterne con
piú fondamento discorrere.
SAGR. Adunque, per non stancar piú il signor
Salviati, faremo punto a i ragionamenti d'oggi, e domani ripiglieremo, conforme
al solito, i discorsi, con isperanza d'aver a sentir gran novità.
SIMP. Io lascio il libro delle stelle nuove, ma
riporto questo delle conclusioni, per riveder quello che vi è scritto
contro al moto annuo, che deve esser la materia de' ragionamenti di domani.
GIORNATA TERZA
SAGR. Il desiderio grande con che sono stato
aspettando la venuta di Vostra Signoria, per sentir le novità de i
pensieri intorno alla conversione annua di questo nostro globo, mi ha fatto
parer lunghissime le ore notturne passate, ed anco queste della mattina, benché
non oziosamente trascorse ,anzi buona parte vegliate in riandar con la mente i
ragionamenti di ieri, ponderando le ragioni addotte dalle parti a favor delle
due contrarie posizioni, quella d'Aristotile e Tolomeo, e questa di Aristarco e
del Copernico. E veramente parmi, che qualunque di questi si è
ingannato, sia degno di scusa; tali sono in apparenza le ragioni che gli
possono aver persuasi, tuttavolta però che noi ci fermassimo sopra le
prodotte da essi primi autori gravissimi: ma, come che l'opinione peripatetica
per la sua antichità ha auti molti seguaci e cultori, e l'altra
pochissimi, prima per l'oscurità e poi per la novità, mi pare
scorgerne tra quei molti, ed in particolare tra i moderni, esserne alcuni che
per sostentamento dell'oppinione da essi stimata vera abbiano introdotte altre
ragioni assai puerili, per non dir ridicole.
SALV. L'istesso è occorso a me, e tanto piú
che a Vossignoria, quanto io ne ho sentite produrre di tali, che mi vergognerei
a ridirle, non dirò per non denigrare la fama de i loro autori, i nomi
de i quali si posson sempre tacere, ma per non avvilir tanto l'onore del genere
umano. Dove io finalmente, osservando, mi sono accertato esser tra gli uomini
alcuni i quali, preposteramente discorrendo, prima si stabiliscono nel cervello
la conclusione, e quella, o perché sia propria loro o di persona ad essi molto
accreditata, sí fissamente s'imprimono, che del tutto è impossibile
l'eradicarla giammai; ed a quelle ragioni che a lor medesimi sovvengono o che
da altri sentono addurre in confermazione dello stabilito concetto, per
semplici ed insulse che elle siano, prestano subito assenso ed applauso, ed
all'incontro, quelle che lor vengono opposte in contrario, quantunque ingegnose
e concludenti, non pur ricevono con nausea, ma con isdegno ed ira acerbissima:
e taluno di costoro, spinto dal furore non sarebbe anco, lontano dal tentar
qualsivoglia machina per supprimere e far tacer l'avversario; ed io ne ho
veduta qualche esperienza.
SAGR. Questi dunque non deducono la conclusione
dalle premesse, né la stabiliscono per le ragioni, ma accomodano o per dir
meglio scomodano, e travolgon, le premesse e le ragioni alle loro già
stabilite e inchiodate conclusioni. Non è ben adunque cimentarsi con
simili, e tanto meno, quanto la pratica loro è non solamente ingioconda,
ma pericolosa ancora. Per tanto seguiteremo col nostro signor Simplicio,
conosciuto da me di lunga mano per uomo di somma ingenuità e spogliato
in tutto e per tutto di malignità: oltre che è assai pratico
nella peripatetica dottrina, sí che io posso assicurarmi che quello che non
sovverrà ad esso per sostentamento dell'opinione d'Aristotile, non
potrà facilmente sovvenire ad altri. Ma eccolo appunto tutto anelante,
il quale questo giorno si è fatto desiderare un gran pezzo. Stavamo
appunto dicendo mal di voi.
SIMP. Bisogna non accusar me, ma incolpar Nettunno,
di questa mia cosí lunga dimora, che nel reflusso di questa mattina ha in
maniera ritirate l'acque, che la gondola che mi conduceva, entrata non molto
lontano di qui in certo canale dove non son fondamenta, è restata in
secco, e mi è bisognato tardar lí piú d'una grossa ora in aspettare il
ritorno del mare. E quivi stando cosí senza potere smontar di barca, che quasi
repentinamente arrenò, sono andato osservando un particolare che mi
è parso assai maraviglioso: ed è che nel calar l'acque, si
vedevan fuggir via molto velocemente per diversi rivoletti, sendo già il
fango in piú parti scoperto; e mentre io attendo a considerar quest'effetto,
veggo in un tratto cessar questo moto, e senza intervallo alcuno di tempo
cominciar a tornar la medesima acqua in dietro, e di retrogrado farsi il mar
diretto, senza restar pure un momento stazionario: effetto, che per tutto il
tempo che ho praticato Venezia, non mi è incontrato il vederlo altra
volta.
SAGR. Non vi debbe anco esser molte volte accaduto
il restar cosí in secco tra piccolissimi rivoletti, per li quali, per aver
pochissima declività, l'abbassamento o alzamento solo di quanto è
grossa una carta, che faccia la superficie del mare aperto, è assai per
fare scorrere e ricorrer l'acqua per tali rivoletti per ben lunghi spazii; sí
come in alcune spiagge marine l'alzamento del mare di 4 o 6 braccia solamente
fa sparger l'acqua per quelle pianure per molte centinaia e migliaia di pertiche.
SIMP. Questo intendo benissimo, ma avrei creduto
che tra l'ultimo termine dell'abbassamento e primo principio dell'alzamento
dovesse interceder qualche notabile intervallo di quiete.
SAGR. Questo vi si rappresenterà quando voi
porrete mente alle mura o a i pali dove queste mutazioni si fanno a
perpendicolo; ma non è che veramente vi sia stato di quiete.
SIMP. Mi pareva, che per esser questi due moti
contrarii, dovesse tra di loro esser in mezo qualche quiete; conforme anco alla
dottrina d'Aristotile, che dimostra che in puncto regressus mediat quies.([27])
SAGR. Mi ricordo benissimo di cotesto luogo, ma mi
ricordo ancora che quando studiavo filosofia, non restai persuaso della
dimostrazione d'Aristotile, anzi che avevo molte esperienze in contrario; le
quali vi potrei anco addurre, ma non voglio che entriamo in altri pelaghi,
essendo convenuti qui per discorrer della materia nostra, se sarà
possibile, senza interromperla, come abbiamo fatto quest'altri giorni passati.
SIMP. E pur converrà, se non interromperla,
almanco prolungarla assai, perché, ritornato iersera a casa, mi messi a
rileggere il libretto delle conclusioni, dove trovo dimostrazioni contro a
questo movimento annuo, attribuito alla Terra, molto concludenti; e perché non
mi fidavo di poterle cosí puntualmente riferire, ho voluto riportar meco il
libro.
SAGR. Avete fatto bene: ma se noi vogliamo
ripigliare i ragionamenti conforme all'appuntamento di ieri, converrà
sentir prima ciò che avrà da riferirci il signor Salviati intorno
al libro delle stelle nuove, e poi senz'altri interrompimenti verremo al moto
annuo. Ora, che dice il signor Salviati in proposito di tali stelle? son ellen
veramente state traportate di cielo in queste piú basse regioni in virtú de'
calcoli dell'autore prodotto dal signor Simplicio?
SALV. Io mi messi iersera a legger i suoi
progressi, e questa mattina ancora gli ho data un'altra scorsa, per veder pure
se quel che mi pareva aver letto la sera, vi era scritto veramente, o se erano
state mie larve e imaginazioni fantastiche della notte: ed in somma trovo con
mio gran cordoglio esservi veramente scritto e stampato quello che per
riputazion di questo filosofo non avrei voluto. Che e' non conosca la
vanità della sua impresa, non mi par possibile, sí perché l'è
troppo scoperta, sí perché mi ricordo averlo sentito nominar con laude
dall'Accademico amico nostro; parmi anco cosa troppo inverisimile che egli a
compiacenza di altri si possa esser indotto ad aver in cosí poca stima la sua
riputazione, ch'e' si sia indotto a far pubblica un'opera, della quale non
poteva attenderne altro che biasimo appresso gl'intelligenti.
SAGR. Soggiugnete che saranno assai manco che un
per cento, a ragguaglio di quelli che lo celebrerranno ed esalteranno sopra
tutti i maggiori intelligenti che sieno o sieno stati già mai. Uno che
abbia saputo sostener la peripatetica inalterabilità del cielo contro a
una schiera d'astronomi, e che, per lor maggior vergogna, gli abbia atterrati
con le lor proprie armi! E che volete che possano quattro o sei per provincia,
che scorgano le sue leggierezze, contro a gl'innumerabili che, non sendo atti a
poterle scoprire né comprendere, se ne vanno presi alle grida, e tanto piú gli
applaudono quanto manco l'intendono? Aggiugnete che anco quei pochi che
intendono, si asterranno di dar risposta a scritture tanto basse e nulla
concludenti; e ciò con gran ragione, perché per gl'intendenti non ce
n'è bisogno, e per quelli che non intendono è fatica buttata via.
SALV. Il piú proporzionato gastigo al lor demerito
sarebbe veramente il silenzio, se non fusser altre ragioni per le quali
è forse quasi necessario il risentirsi: l'una delle quali è, che
noi altri Italiani ci facciamo spacciar tutti per ignoranti e diamo da ridere a
gli oltramontani, e massime a quelli che son separati dalla nostra religione;
ed io potrei mostrarvene di tali assai famosi, che si burlano del nostro
Accademico e di quanti matematici sono in Italia, per aver lasciato uscire in
luce e mantenervisi senza contradizione le sciocchezze di un tal Lorenzini
contro gli astronomi. Ma questo pur anco si potrebbe passare, rispetto ad altra
maggior occasione di risa che si potesse porger loro, dependente dalla
dissimulazione de gl'intelligenti intorno alle leggerezze di questi simili
oppositori alle dottrine da loro non intese.
SAGR. Io non voglio maggior esempio della
petulanzia di costoro e dell'infelicità d'un pari del Copernico,
sottoposto ad esser impugnato da chi non intende né anco la primaria sua
posizione, per la quale gli è mossa la guerra.
SALV. Voi non meno resterete maravigliato della
maniera del confutar gli astronomi che affermano, le stelle nuove essere state
superiori a gli orbi de' pianeti, e per avventura nel firmamento stesso.
SAGR. Ma come potete voi in sí breve tempo aver
esaminato tutto cotesto libro, che pure è un gran volume, ed è
forza che le dimostrazioni sieno in gran numero?
SALV. Io mi son fermato su queste prime
confutazioni sue, nelle quali con dodici dimostrazioni, fondate sopra le
osservazioni di dodici astronomi, che tutti stimarono che la stella nuova del
72, apparsa in Cassiopea, fusse nel firmamento, prova per l'opposito lei essere
stata sullunare, conferendo a due a due l'altezze meridiane prese da diversi
osservatori in luoghi di differente latitudine, procedendo nella maniera che
appresso intenderete: e perché mi par, nell'esaminar questo primo suo
progresso, d'avere scoperto in quest'autore una gran lontananza dal poter
concluder nulla contro a gli astronomi, in favor de' filosofi peripatetici, e
che molto e molto piú concludentemente si confermi l'opinion loro, non ho
volsuto applicarmi con una simil pazienza nell'esaminar gli altri suo' metodi,
ma gli ho dato una scorsa assai superficiale, sicuro che quella inefficacia che
è in queste prime impugnazioni, sia parimente nell'altre: e sí come
vedrete in fatto, pochissime parole bastano a confutar tutta quest'opera,
benché construtta con tanti e tanti laboriosi calcoli, come voi vedete.
Però sentite il mio progresso. Piglia quest'autore, per trafigger, come
dico, gli avversarii con le lor proprie armi, un numero grande d'osservazioni
fatte da lor medesimi, che pur sono da 12 o 13 autori in numero, e sopra una
parte di quelle fa suoi calcoli, e conclude tali stelle essere state inferiori
alla Luna. Ora, perché il proceder per interrogazioni mi piace assai,
già che non ci è l'autore stesso, rispondami il signor Simplicio,
alle domande ch'io farò, quel ch'e' crederà che fusse per
rispondere esso. E supponendo di trattar della già detta stella del 72,
apparsa in Cassiopea, ditemi, signor Simplicio, se voi credete che ella potesse
esser nell'istesso tempo collocata in diversi luoghi, cioè esser tra gli
elementi, ed anco tra gli orbi de' pianeti, ed anco sopra questi e tra le
stelle fisse, ed anco infinitamente piú alta.
SIMP. Non è dubbio che bisogna dire che ella
fusse in un sol luogo, ed in una sola e determinata distanza dalla Terra.
SALV. Adunque, quando le osservazioni fatte da gli
astronomi fusser giuste, e che i calcoli fatti da questo autore non fussero
errati, bisognerebbe necessariamente che da tutte quelle e da tutti questi se
ne raccogliesse la medesima lontananza sempre per appunto: non è vero?
SIMP. Sin qua arriva a 'ntendere il mio discorso,
che bisognerebbe che fusse cosí di necessità; né credo che l'autore
contradicesse.
SALV. Ma quando de' molti e molti computi fatti non
ne riuscissero pur due solamente che s'accordassero, che giudizio ne fareste?
SIMP. Giudicherei che tutti fussero fallaci, o per
colpa del computista o per difetto de gli osservatori; ed al piú che si potesse
dire, direi che un solo, e non piú, fusse giusto, ma non saprei già
elegger quale.
SALV. Vorreste voi dunque da fondamenti falsi
dedurre e stabilir per vera una conclusione dubbia? certo no. Ora i calcoli di
questo autore son tali, che nessuno confronta con un altro; vedete dunque
quant'è da prestar lor fede.
SIMP. Veramente, come la cosa sia cosí, questo
è un mancamento notabile.
SAGR. Voglio pure aiutare il signor Simplicio e
l'autore, con dire al signor Salviati che il suo motivo concluderebbe ben
necessariamente, quando l'autore avesse intrapreso a voler determinatamente
ritrovare quanta fusse la lontananza della stella dalla Terra; il che non credo
che sia stato il suo intento, ma solo di dimostrare che da quelle osservazioni
si traeva, la stella essere stata sullunare; talché, se dalle dette
osservazioni e da tutti i computi fatti sopra di esse si raccoglie l'altezza
della stella sempre minor di quella della Luna, tanto basta all'autore per
convincer d'una crassissima ignoranza tutti quelli astronomi che, per difetto
di geometria o d'aritmetica, non avevano saputo dalle lor medesime osservazioni
dedurre vere conclusioni.
SALV. Sarà dunque conveniente ch'io mi volga
a voi, signor Sagredo, che tanto accortamente sostenete la dottrina di questo
autore. E per veder di fare che anco il signor Simplicio, benché inesperto di
calcoli e dimostrazioni, resti capace almeno della non concludenza delle
dimostrazioni di questo autore, prima metto in considerazione come ed esso e
gli astronomi tutti con i quali egli è in controversia convengono che la
stella nuova fusse priva di moto proprio, e solo andasse in giro al moto diurno
del primo mobile; ma dissentono circa il luogo, ponendola quelli nella region celeste,
cioè sopra la Luna, e per avventura tra le stelle fisse, e questi
giudicandola vicina alla Terra, cioè sotto al concavo dell'orbe lunare.
E perché il sito della stella nuova, della quale si parla, fu verso
settentrione e non in gran lontananza dal polo, in modo che a noi
settentrionali ella non tramontava mai, fu agevol cosa il poter prendere con
istrumenti astronomici le sue altezze meridiane, tanto le minime sotto il polo,
quanto le massime sopra; dalla conferenza delle quali altezze, fatte da diversi
luoghi della Terra posti in varie distanze dal settentrione, cioè tra di
loro differenti quanto all'altezze polari, si poteva argomentare la lontananza
della stella. Imperocché, quando ella fusse stata nel firmamento tra le altre
fisse, le sue altezze meridiane prese in diverse elevazioni di polo conveniva
che fussero tra di loro differenti con le medesime differenze che tra esse
elevazioni si ritrovavano; cioè, per esempio, se l'elevazione della
stella sopra l'orizonte era 30 gradi, presa nel luogo dove l'altezza polare
era, verbigrazia, gradi 45, conveniva che l'elevazione della medesima stella
fusse cresciuta 4 o 5 gradi in quei paesi piú settentrionali ne' quali il polo
fusse piú alto gli stessi 4 o 5 gradi: ma quando la lontananza della stella
dalla Terra fusse assai piccola in comparazion di quella del firmamento, le
altezze sue meridiane convien che, accostandoci al settentrione, crescano
notabilmente piú che l'altezze polari; e da quel maggiore accrescimento,
cioè dall'eccesso dell'accrescimento dell'elevazion della stella sopra
l'accrescimento dell'altezza polare (che si chiama differenza di parallasse),
si calcola prontamente, con metodo chiaro e sicuro, la lontananza della stella
dal centro della Terra. Ora, questo autore piglia le osservazioni fatte da 13
astronomi in diverse elevazioni di polo, e conferendo una particella di quelle
a sua elezione, calcola, con dodici accoppiamenti, l'altezza della stella nuova
essere stata sempre sotto la Luna; ma ciò conseguisce egli con
promettersi tanto crassa ignoranza in tutti quelli alle mani de' quali potesse
pervenire il suo libro, che veramente m'ha fatto nausea: ed io sto a vedere
come gli altri astronomi ed in particolare il Keplero, contro al quale
principalmente inveisce quest'autore, si contenga in silenzio, che pur non gli
suol morir la lingua in bocca, se già egli non ha stimato tale impresa
troppo bassa. Ora, per farne avvertiti voi, ho trascritte sopra questo foglio
le conclusioni che e' raccoglie dalle sue 12 indagini. Delle quali la prima è
delle due osservazioni
1a, del Maurolico e dell'Hainzelio;
onde si raccoglie, la stella essere stata lontana dal centro manco di 3
semidiametri terrestri, essendo la differenza di parallasse gr. |
3 |
semidiametri; |
2a, e calculata dall'osservazioni
dell'Hainzelio e dello Schulero, con parallasse |
25 |
semidiametri; |
3a, e sopra le osservazioni di Ticone
e dell'Hainzelio, con parallasse di |
19 |
semidiametri, |
4a, e sopra l'osservazioni di Ticone e
del Landgravio, con parallasse di |
10 |
semidiametri; |
5a, e sopra l'osservazioni
dell'Hainzelio e di Gemma, con parallasse di |
4 |
semidiametri; |
6a, e sopra l'osservazioni del
Landgravio e del Camerario, con parallasse di |
4 |
semidiametri; |
7a, e sopra l'osservazioni di Ticone e
dell'Hagecio, con parallasse di |
32 |
semidiametri; |
8a, e con l'osservazioni dell'Hagecio
e dell'Ursino, con parallasse di |
1/2 |
semidiametri; |
9a, e sopra le osservazioni del
Landgravio e del Buschio, con parallasse di |
1/48 |
semidiametri; |
10a, e sopra l'osservazioni del
Maurolico e del Munosio, con parallasse di 4 gr. e |
1/5 |
semidiametri; |
11a, e con le osservazioni del Munosio
e di Gemma, con parallasse di |
13 |
semidiametri; |
12a, e con le osservazioni del Munosio
e dell'Ursino, con parallasse di gr. 1 e |
7 |
semidiametri. |
Queste sono 12 investigazioni fatte dall'autore a
sua elezione, tra moltissime che, come egli dice, potevano farsi con le
combinazioni delle osservazioni di questi 13 osservatori; le quali 12 è
credibile che sieno le piú favorevoli per provare il suo intento.
SAGR. Ma io vorrei sapere se tra le altre tante
indagini pretermesse dall'autore ve ne sono di quelle che fussero in suo
disfavore, cioè dalle quali calcolando si raccogliesse, la stella nuova
essere stata sopra la Luna, sí come mi par, cosí a prima fronte, di poter
ragionevolmente dubitare, mentre io veggo queste prodotte esser tanto tra di
loro differenti, che alcune mi danno la lontananza della stella nuova da Terra
4, 6, 10, 100, e mille, e millecinquecento volte maggiore l'una che l'altra;
talché posso ben sospettare che tra le non calcolate ve ne fusse qualcuna in
favor della parte avversa, e tanto piú mi pare di poter creder ciò,
quanto io non penso che quelli astronomi osservatori mancassero della
intelligenza e pratica di questi computi, che non penso che dependano dalle piú
astruse cose del mondo. E ben mi parrà cosa piú che miracolosa se,
mentre in queste 12 sole indagini ce ne sono di quelle che rendono la stella
vicina alla Terra a poche miglia, ed altre che per piccolissimo intervallo la
rendono inferiore alla Luna, non se ne trovi alcuna che, a favor della parte
avversa, la renda almanco per 20 braccia sopra l'orbe lunare, e, quel che
sarà poi piú stravagante, che tutti quelli astronomi siano stati cosí
ciechi, che non abbiano scorta una lor fallacia tanto patente.
SALV. Cominciate ora a prepararvi l'orecchie a
sentir con infinita ammirazione a quali eccessi di confidenza della propria
autorità e dell'altrui balordaggine trasporta il desiderio di contradire
e mostrarsi piú intelligente de gli altri. Tra le indagini tralasciate
dall'autore ce ne sono di quelle che rendono la stella nuova non pur sopra la
Luna, ma sopra le stelle fisse ancora; e queste non son poche, ma la maggior
parte, come vedrete in quest'altro foglio, dove io l'ho registrate.
SAGR. Ma che dice l'autore di queste? forse non le
ha considerate?
SALV. Le ha considerate pur troppo, ma dice che le
osservazioni sopra le quali i calcoli rendon la stella infinitamente lontana,
sono errate, e che non possono tra di loro combinarsi.
SIMP. Oh questa mi par bene una ritirata debole,
perché la parte potrà con altrettanta ragione dire che errate siano
quelle onde egli sottrae, la stella essere stata nella regione elementare.
SALV. Oh, signor Simplicio, se mi succedesse di
farvi restar capace dell'artifizio, benché non gran cosa artifizioso, di questo
autore, vorrei destarvi meraviglia ed anco sdegno, mentre scorgeste come egli,
palliando la sua sagacità co 'l velo della vostra semplicità e de
gli altri puri filosofi, si vuole insinuare nella vostra grazia co 'l grattarvi
le orecchie e co 'l gonfiar la vostra ambizione, mostrando d'aver convinti e
resi muti questi astronometti che hanno voluto assalire l'inespugnabile
inalterabilità del cielo peripatetico, e, quel che è piú, ammutitigli
e convinti con le lor proprie armi. Io ne voglio fare ogni sforzo; ed intanto
il signor Sagredo condoni al signor Simplicio ed a me il tediarlo forse un po'
troppo, mentre con soverchio circuito di parole (soverchio dico, alla sua
velocissima apprensiva) anderò cercando di far palese cosa, che è
bene che non gli resti ascosa e incognita.
SAGR. Io, non solo senza tedio, ma con gusto,
sentirò i vostri discorsi; e cosí ci potessero intervenire tutti i
filosofi peripatetici, acciò potessero comprendere quanto devano restar
obbligati a questo lor protettore.
SALV. Ditemi, signor Simplicio, se voi sete ben
restato capace, come, sendo la stella nuova collocata nel cerchio meridiano
là verso settentrione, a uno che da mezzo giorno camminasse verso
tramontana tanto se gli andrebbe elevando sopra l'orizonte l'istessa stella
nuova quanto il polo, tuttavolta che ella fusse veramente collocata tra le
stelle fisse; ma che quando ella fusse notabilmente piú bassa, cioè piú
vicina a Terra, ella apparirebbe elevarsi piú del medesimo polo, e sempre piú
quanto la vicinanza fusse maggiore?
SIMP. Parmi d'esserne capacissimo, in
segno di che mi proverò a farne una figura matematica: ed in questo
cerchio grande noterò il polo P, e in questi due cerchi piú bassi
noterò due stelle vedute da un punto in Terra, che sia A, e le due
stelle sieno queste B, C, vedute per la medesima linea A B C incontro a una
stella fissa D; camminando poi in Terra sino al termine E, le due stelle mi
appariranno separate
dalla fissa D e avvicinatesi al polo P, e piú la piú bassa B, che
mi apparirà in G, e manco la C, che apparirà in F; ma la fissa D
averà mantenuta la medesima lontananza dal polo.
SALV. Veggo che voi intendete benissimo. Credo che
voi comprendiate ancora, come, per esser la stella B piú bassa della C,
l'angolo che vien costituito da i raggi della vista che partendosi da i due
luoghi A, E si congiungono in C, cioè quest'angolo A C E, è piú
stretto, o vogliam dir piú acuto, dell'angolo costituito in B da i raggi A B, E
B.
SIMP. Si vede al senso benissimo.
SALV. Ed anco, per esser la Terra piccolissima e
quasi insensibile rispetto al firmamento, ed in conseguenza per esser
brevissimo lo spazio A E, che si può camminare in Terra, in comparazion
dell'immensa lunghezza delle linee E G, E F da Terra sino al firmamento, venite
a intendere che la stella C si potrebbe alzare e allontanar tanto e tanto dalla
Terra, che l'angolo costituito in essa da i raggi che partono da i medesimi
punti A, E divenisse acutissimo e come assolutamente insensibile e nullo.
SIMP. E questo ancora intendo io perfettamente.
SALV. Ora sappiate, signor Simplicio, che gli
astronomi e matematici hanno trovate regole infallibili per via di geometria e
d'aritmetica, da potere, mercé della quantità di questi angoli B, C e
delle loro differenze, congiugnendovi la notizia della distanza de i due luoghi
A, E, ritrovare a un palmo la lontananza delle cose sublimi, tuttavolta
però che detta distanza e detti angoli siano presi giusti.
SIMP. Talché, se le regole dependenti dalla
geometria e dall'aritmetica son giuste, tutte le fallacie ed errori che
s'incontrassero nel volere investigar tali altezze di stelle nuove o di comete
o di altro, convien che dependano dalla distanza A E e da gli angoli B, C, non
ben misurati. E cosí tutte quelle diversità che si veggono in queste 12
indagini, dependono non da difetti delle regole de i calcoli, ma da errori
commessi nell'investigar tali angoli e tali distanze per mezo delle
osservazioni istrumentali.
SALV. Cosí è, né di questo casca
difficultà veruna. Ora convien che attentamente notiate, come
nell'allontanar la stella da B in C, onde l'angolo si fa sempre piú acuto, il
raggio E B G si va continuamente allontanando dal raggio A B D dalla parte di
sotto l'angolo, come mostra la linea E C F, la cui parte inferiore E C è
piú remota dalla parte A C che non è la E B: ma non può
già mai accadere che, per qualunque immenso allontanamento, le linee A
D, E F totalmente si disgiunghino, dovendosi finalmente andare a congiugner
nella stella; e solamente si potrebbe dire che le si separassero e si
riducessero ad esser parallele, quando l'allontanamento fusse infinito, il qual
caso non si può dare. Ma perché (notate bene) la lontananza del
firmamento, in relazione alla piccolezza della Terra, come già
s'è detto, si reputa come infinita, però l'angolo contenuto da i
raggi che tirati da i punti A, E andassero a terminare in una stella fissa, si
stima come nullo, ed essi raggi come due linee parallele; e però si
conclude, che allora solamente si potrà affermare, la stella nuova
essere stata nel firmamento, quando dalla collazione delle osservazioni fatte
in diversi luoghi si raccolga co 'l calcolo, l'angolo detto esser insensibile e
le linee come parallele. Ma quando l'angolo sia di notabil quantità,
convien necessariamente la stella nuova esser piú bassa delle fisse, ed anco
della Luna, quando però l'angolo A B E fusse maggiore di quello che si
costituirebbe nel centro della Luna.
SIMP. Adunque la lontananza della Luna non è
tanto grande che un simil angolo in lei resti insensibile?
SALV. Signor no; anzi è egli sensibile non
solo nella Luna, ma nel Sole ancora.
SIMP. Ma se questo è, potrà anco
essere che tale angolo sia osservabile nella stella nuova senza che ella sia
inferiore al Sole, non che alla Luna.
SALV. Cotesto può essere, ed è anco
ne i presenti casi, come vedrete a suo luogo, cioè quando averò
spianata la strada in maniera, che voi ancora, benché non intelligente di
calcoli astronomici, possiate restar capace e toccar con mano quanto
quest'autore ha avuto piú la mira di scrivere a compiacenza de i Peripatetici,
co 'l palliare e dissimular varie cose, che a stabilimento del vero, co 'l
portarle con nuda sincerità. Però seguiamo oltre. Dalle cose
dichiarate sin qui credo che voi restiate capacissimo come la lontananza della
stella nuova non si può mai far tanto immensa, che 'l piú volte nominato
angolo interamente svanisca e che li due raggi de gli osservatori da i luoghi
A, E divengano linee parallele; e venite in conseguenza a comprender
perfettamente, che quando il calcolo ritraesse dalle osservazioni, tal angolo
esser totalmente nullo o le linee esser veramente parallele, saremmo sicuri
l'osservazioni esser, almeno in qualche minimo che, errate; ma quando il
calcolo ci desse, le medesime linee essersi disseparate non solamente sino
all'equidistanza, cioè sino all'esser parallele, ma aver trapassato
oltre al termine, ed essersi allargate piú ad alto che a basso, allora bisogna
risolutamente concludere, le osservazioni essere state fatte con meno
accuratezza, ed in somma essere errate, come quelle che ci conducono ad un
manifesto impossibile. Bisogna poi che voi mi crediate, e supponghiate per cosa
verissima, che due linee rette che si partono da due punti segnati sopra
un'altra retta, allora son piú larghe in alto che a basso, quando gli angoli
compresi dentro di esse sopra quella retta son maggiori di due angoli retti; e
quando questi fussero eguali a due retti, esse linee sarebbero parallele; ma se
fussero minori di due retti, le linee sarebbero concorrenti, e prolungate
serrerebbero il triangolo indubitabilmente.
SIMP. Io, senza prestarvi fede, ne ho scienza, e
non son tanto nudo di geometria, ch'io non sappia una proposizione che mille
volte ho avuto occasione di leggere in Aristotile, cioè che i tre angoli
d'ogni triangolo sono eguali a due retti: talché, s'io piglio nella mia figura
il triangolo A B E, posto che la linea E A fusse retta, comprendo benissimo
come i suoi tre angoli A, E, B sono eguali a due retti, e che in conseguenza li
due soli E, A son minori di due retti tanto quanto è l'angolo B; onde
allargando le linee A B, E B (ritenendole però ferme ne' punti A, E) sin
che l'angolo contenuto da esse verso le parti B svanisca, li due da basso
resteranno eguali a due retti, ed esse linee saranno ridotte all'esser
parallele; e se si seguitasse di slargarle piú, gli angoli a i punti E, A
diverrebbero maggiori di due retti.
SALV. Voi sete un Archimede, e mi avete liberato
dallo spender piú parole in dichiararvi, come tuttavolta che da i calcoli si
cavasse li due angoli A, E esser maggiori di due retti, l'osservazioni
senz'altro vengono ad essere errate. Quest'è quel tanto ch'io desideravo
che voi capiste perfettamente, e ch'io dubitavo di non aver a poter dichiarar
in modo che un puro filosofo peripatetico ne acquistasse sicura intelligenza.
Ora seguitiamo quel che resta. E ripigliando quello che poco fa mi concedeste,
cioè, che non potendo esser la stella nuova in piú luoghi, ma in un
solo, tuttavoltaché i calcoli fatti sopra le osservazioni di questi astronomi
non ce la rendono nel medesimo luogo, è forza che sia errore nelle
osservazioni, cioè o nel prender l'altezze polari, o nel prender l'elevazioni
della stella, o nell'una e nell'altra operazione; ora, perché nelle molte
indagini, fatte con le combinazioni a due a due dell'osservazioni, pochissime
sono che si rincontrino a render la stella nel medesimo sito, adunque queste
pochissime sole potrebbero esser le non errate, ma le altre tutte sono
assolutamente errate.
SAGR. Bisognerà dunque credere a queste
pochissime sole piú che a tutte l'altre insieme; e perché voi dite che queste
che si concordano son pochissime, ed io tra queste 12 ne veggo due che rendon
la distanza della stella dal centro della Terra amendue 4 semidiametri, che
sono questa quinta e la sesta, adunque piú probabile è che la stella
nuova sia stata elementare che celeste.
SALV. Non sta cosí: perché, se voi notate bene, non
ci è scritto la distanza essere stata puntualmente 4 semidiametri, ma
circa 4 semidiametri; ma però voi vedrete che tali due distanze
differivano tra di loro per molte centinaia di miglia. Eccovele qui: vedete che
questa quinta, che è
SAGR. Quali son dunque queste poche che s'accordano
in por la stella nel medesimo luogo?
SALV. Son, per disgrazia di questo autore, cinque
indagini, che tutte la ripongono nel firmamento, come voi vedrete in
quest'altra nota, dove io registro molte altre combinazioni. Ma io voglio
concedere all'autore piú di quello che per avventura mi domanderebbe, che
è insomma che in ciascuna combinazione delle osservazioni sia qualche
errore: il che credo che assolutamente sia necessario; perché, sendo
SIMP. Non può esser ch'e' gli reputi se non
molto cauti ed intelligenti; perché quando e' gli stimasse inetti a tal
esercizio, potrebbe dar bando al suo stesso libro, come nulla concludente, per
esser fondato sopra supposizioni piene di errori; e per troppo semplici
spaccerebbe noi, mentre e' credesse con l'inesperienza di quelli persuaderci
per vera una sua falsa proposizione.
SALV. Adunque, come questi osservatori sien tali, e
che pur con tutto ciò abbiano errato e però convenga emendar loro
errori, per poter dalle loro osservazioni ritrar quel piú di notizia che sia
possibile, conveniente cosa è che noi gli applichiamo le minori e piú
vicine emende e correzioni che si possa, purch'elle bastino a ritirar
l'osservazioni dall'impossibilità alla possibilità; sí che,
verbigrazia, se si può temperar un manifesto errore ed un patente
impossibile di una loro osservazione con l'aggiugnere o detrar 2 o ver 3
minuti, e con tale emenda ridurlo al possibile, non si deva volerlo aggiustare
con la giunta o suttrazione del 15 o 20 o 50.
SIMP. Non credo che l'autore contradicesse a
questo; perché, conceduto che e' siano uomini giudiziosi ed esperti, si deve creder
piú presto che egli abbiano errato di poco che d'assai.
SALV. Or notate appresso. De i luoghi dove collocar
la stella nuova, alcuni son manifestamente impossibili, ed altri possibili.
Impossibile assolutamente è che ella fusse per infinito intervallo superiore
alle stelle fisse, perché un tal sito non è al mondo, e quando fusse, la
stella posta là a noi sarebbe stata invisibile; è anco
impossibile che ella andasse serpendo sopra la superficie della Terra, e molto
piú che ella fusse dentro all'istesso globo terreno. Luoghi possibili sono
questi de' quali si è in controversia, non repugnando al nostro
intelletto che un oggetto visibile, in aspetto di stella, potesse esser sopra
la Luna, non men che sotto. Ora, mentre si va cercando di ritrar per via d'osservazioni
e di calcoli, fatti con quella sicurezza alla quale la diligenza umana
può arrivare, qual veramente fusse il suo luogo, si trova che la maggior
parte di essi calcoli la rendon piú che per infinito intervallo superiore al
firmamento, altri la rendon prossima alla superficie della Terra, ed alcuni
anco sotto tal superficie, e de gli altri, che la ripongono in luoghi non
impossibili, nissuni si concordano tra di loro, dimodoché convien dire, tutte
le osservazioni esser necessariamente fallaci; talché, se noi vogliamo pur da
tante fatiche ritrar qualche frutto, bisogna ridursi alle correzioni, emendando
tutte l'osservazioni.
SIMP. Ma l'autore dirà, che delle
osservazioni che rendono la stella in luoghi impossibili, non si deve far
capitale alcuno, come quelle che infinitamente sono errate e fallaci; e solo si
debbono accettar quelle che la costituiscono in luoghi non impossibili, e tra
queste solamente andar ricercando, per via de i piú probabili e piú numerosi
rincontri, se non il sito particolare e giusto, cioè la sua vera
distanza dal centro della Terra, almeno di venire in cognizione se ella fu tra
gli elementi o pur tra i corpi celesti.
SALV. Il discorso che fate voi adesso, è
quell'istesso che ha fatto l'autore a favor della causa sua, ma con troppo
irragionevol disavvantaggio della parte; e quest'è quel punto principale
che mi ha fatto sopramodo maravigliare della troppa confidenza ch'e' si
è presa, non men della propria autorità, che della cecità
ed inavvertenza de gli astronomi: per i quali io parlerò, e voi
risponderete per l'autore. E prima io vi domando, se gli astronomi
nell'osservare con loro strumenti, e cercar, verbigrazia, quanta sia
l'elevazione d'una stella sopra l'orizonte, possono deviar dal vero tanto nel
piú quanto nel meno, cioè ritrar con errore che ella sia talvolta piú
alta del vero e talvolta piú bassa, o pure se l'errore non può mai esser
se non d'un genere, cioè che, errando, sempre pecchino nel soverchio e
non mai nel meno, o sempre nel meno né già mai nel soverchio.
SIMP. Io non ho dubbio che sia egualmente pronto
l'errare nell'uno che nell'altro modo.
SALV. Credo che l'autore risponderebbe il medesimo.
Ora, di questi due generi d'errori, che son contrarii e ne quali possono essere
egualmente incorsi gli osservatori della stella nuova, applicati al calcolo,
l'un genere renderà la stella piú alta del vero, e l'altro piú bassa: e
perché già noi convenghiamo che tutte le osservazioni son errate, per
qual ragione vuol quest'autore che noi accettiamo per piú congruenti co 'l vero
quelle che mostrano la stella essere stata vicina, che l'altre che la mostrano
soverchiamente lontana?
SIMP. Per quel che mi pare aver ritratto dalle cose
dette sin qui, io non veggo che l'autore ricusi quelle osservazioni ed indagini
che potesser render la stella lontana piú che la Luna ed anco piú del Sole, ma
solamente quelle che la fanno remota (come voi stesso avete detto) piú che per
un infinito intervallo; la qual distanza perché voi ancora recusate come
impossibile, però egli trapassa, come per infinitamente convinte di
falsità e di impossibilità, cotali osservazioni. Parmi dunque,
che se voi volete convincer l'autore, voi debbiate produrre indagini piú
esatte, o piú in numero, o di piú diligenti osservatori, le quali costituiscano
la stella in tanta e tanta lontananza sopra la Luna o sopra al Sole, in luogo
insomma possibile ad esservi, sí come egli produce queste 12 che tutte rendono
la stella sotto la Luna, in luoghi che sono al mondo e dove ella poteva essere.
SALV. Maaa, signor Simplicio, qui consiste
l'equivoco vostro e dell'autore; vostro per un rispetto, e dell'autore per un
altro. Io scorgo dal vostro parlare, che voi vi sete formato concetto che
l'esorbitanze che si commettono nello stabilir la lontananza della stella,
vadano crescendo secondo la proporzione de gli errori che si fanno sopra lo
strumento nel far l'osservazioni, e che, per il converso, dalla grandezza delle
esorbitanze si possa argomentar la grandezza de gli errori, e che però,
sentendo dire, ritrarsi dalla tale osservazione la lontananza della stella
esser infinita, sia necessario l'error nell'osservare essere stato infinito, e
perciò inemendabile e come tale recusabile: ma il negozio, signor
Simplicio mio, non cammina cosí; e del non aver compreso come stia questo
fatto, ne scuso voi, come inesperto di tali maneggi, ma non posso già
sotto simil mantello palliar l'error dell'autore, il quale, dissimulando
l'intelligenza di questo, che si è persuaso che noi veramente non
fussimo per intendere, ha sperato servirsi della nostra ignoranza per
accreditar maggiormente la sua dottrina appresso la moltitudine de i poco
intelligenti. Però, per avvertimento di quelli che son piú creduli che
intendenti, e per trar voi d'errore, sappiate che può essere (e che il
piú delle volte accaderà) che una osservazione la quale vi dia la
stella, per esempio, nella lontananza di Saturno, con l'accrescere o detrarre
un sol minuto dall'elevazione presa con lo strumento la farà divenir in
distanza infinita, e però di possibile impossibile; e per il converso,
quei calcoli che fabbricati sopra tali osservazioni vi rendono la stella
infinitamente lontana, molte volte può essere che con l'aggiugnere o
scemare un sol minuto la ritirino in sito possibile: e questo ch'io dico d'un
minuto, può accadere ancora con la correzione d'un mezo, e d'un sesto, e
di manco. Ora fissatevi ben nella mente, che nelle distanze altissime qual
è, verbigrazia, l'altezza di Saturno o quella delle stelle fisse,
minimissimi errori fatti dall'osservatore sopra lo strumento rendono il sito di
terminato e possibile, infinito ed impossibile. Ciò non cosí avviene
delle distanze sublunari e vicine alla Terra, dove può accadere che
l'osservazione dalla quale si sia raccolto, la stella esser lontana, verbigrazia,
4 semidiametri terrestri, si potrà crescere o diminuire non solamente
d'un minuto, ma di dieci e di cento e di assai piú, senza che il calcolo la
renda non pur infinitamente remota, ma né anco superiore alla Luna. Comprendete
da questo, che la grandezza de gli errori, per cosí dire, strumentali non si ha
da stimare dall'esito del calcolo, ma dalla quantità stessa de i gradi e
de' minuti che si numerano sopra lo strumento; e quelle osservazioni s'hanno a
chiamar piú giuste o men errate, le quali con la giunta o suttrazione di manco
minuti restituiscono la stella in luogo possibile; e tra i luoghi possibili, il
vero sito convien credere che fusse quello intorno al quale concorre numero
maggiore delle distanze, sopra le piú giuste osservazioni calcolate.
SIMP. Io non resto ben capace di questo che voi
dite, né so per me stesso comprendere come possa essere che nelle distanze
massime maggior esorbitanza possa nascere dall'error d'un sol minuto, che nelle
piccole da 10 o da 100; e però arei caro di intenderlo.
SALV. Voi, se non per teorica almeno per pratica,
lo vedrete da questo breve sunto ch'io ho fatto di tutte le combinazioni e di
parte delle indagini tralasciate dall'autore, le quali io ho calcolate, e
notate sopra questo medesimo foglio.
SAGR. Convien dunque che voi da ieri in qua, che
pur non son passate piú di 18 ore, non abbiate fatto altro che calcolare, senza
prender né cibo né sonno.
SALV. Anzi ho io preso l'uno e l'altro ristoro: ma
io fo simili calcoli con gran brevità; e s'io debbo dire il vero, mi son
maravigliato non poco che quest'autore vadia cosí per la lunga ed interponendo
tante computazioni non punto necessarie al quesito che si cerca. E per piena
intelligenza di questo, ed anco acciò speditamente si possa conoscer
quanto dalle osservazioni de gli astronomi, de i quali si serve l'autore, piú
probabilmente si raccolga, la stella nuova potere essere stata superiore alla
Luna ed anco a tutti i pianeti, e tra le stelle fisse e piú alta ancora, ho
trascritte sopra questa carta tutte l'osservazioni registrate dal medesimo
autore che furon fatte da 13 astronomi, dove son notate le elevazioni polari e
le altezze della stella nel meridiano, tanto le minime sotto il polo, quanto le
massime e superiori: e son queste.
|
Ticone. |
|
||
Altezza del polo |
gr. |
55. |
58 |
m.p. |
Altezza della * |
gr. |
84. |
0 |
la massima; |
|
|
27. |
57 |
m.p. la minima. |
E queste sono del primo
scritto; ma del secondo la minima è |
27. |
45 |
m. p. |
|
|
|
|
|
|
|
||||
|
Ainzelio. |
|
||
Altezza polare |
gr. |
48. |
22 |
m.p. |
Altezza della * |
gr. |
76. |
34 |
m.p. |
|
|
76. |
33 |
m.p. e 45 sec. |
|
|
76. |
35 |
m.p. |
|
|
20. |
9 |
m.p. e 40 sec. |
|
|
20. |
9 |
m.p. e 30 sec. |
|
|
20. |
9 |
m.p. e 20 sec. |
_______________________________________________
Peucero e
Sculero. |
Landgravio. |
||
Altezza polare |
|
Altezza polare |
|
Altezza della stella |
|
Altezza della stella |
|
|
|
|
|
Camerario. |
||
Altezza polare |
gr. |
|
della stella |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Agecio. |
Ursino. |
||||
Altezza polare |
gr. |
|
Altezza polare |
|
|
della stella |
|
|
Stella |
79. |
|
Munosio. |
|
22. |
|||
|
Maurolico. |
||||
Altezza polare |
|
|
|||
Stella |
|
Altezza polare |
gr. |
|
|
|
|
della stella |
|
62 |
|
Gemma. |
Buschio. |
||||
Altezza polare |
|
Altezza polare |
|
||
Stella |
|
Stella |
|
||
|
|
|
|
Reinoldo. |
|
Altezza polare |
|
Stella |
|
|
|
Ora, per veder tutto il mio progresso, potremo
cominciar da questi calcoli, che son 5 trapassati dall'autore forse perché
fanno contro di lui, atteso che costituiscono la stella sopra la Luna per molti
semidiametri terrestri. Il primo de' quali è questo, calcolato sopra
l'osservazioni del Landgravio d'Assia e di Ticone, che sono, anco per
concession dell'autore, de i piú esquisiti osservatori: ed in questo primo
dichiarerò l'ordine che tengo nell'investigazione, la qual notizia vi
servirà per tutti gli altri, atteso che vanno con la medesima regola,
non variando in altro che nella quantità del dato, cioè ne i
numeri de i gradi dell'altezze polari e delle elevazioni sopra l'orizonte della
stella nuova, della quale si cerca la distanza dal centro della Terra in
proporzione al semidiametro del globo terrestre; del quale in questo caso
niente importa il saper quante miglia sia, onde il risolver quello e la
distanza de' luoghi dove furon fatte l'osservazioni, come fa quest'autore,
è fatica e tempo gettato via, né so perché l'abbia fatto, e massime che
in ultimo e' torna a riconvertir le miglia trovate in semidiametri del globo
terrestre.
SIMP. Forse fa questo per ritrovar, con tali misure
piú piccole e con le loro frazioni, la distanza della stella determinata sino a
4 dita; perché noi altri, che non intendiamo le vostre regole aritmetiche,
restiamo stupefatti nel sentir le conclusioni, mentre leggiamo, verbigrazia:
«Adunque la cometa, o la stella nuova, era lontana dal centro della Terra
trecento settantatremila ottocentosette miglia, e piú dugent'undici
quattromilanovantasettesimi 373807 211/4097», e sopra
queste tanto precise puntualità, dove si registrano tali minuzie,
formiamo concetto che sia impossibil cosa che voi, che ne' vostri calcoli
tenete conto d'un dito, poteste in ultimo ingannarci di
SALV. Questa vostra ragione e scusa sarebbe
accettabile, quando in una distanza di migliaia di miglia un braccio di piú o
di meno fusse di gran rilievo, e quando le supposizioni che noi pigliamo per
vere fusser cosí certe, che ci assicurassero che noi fussimo per ritrarre in
ultimo un'indubitabil verità: ma qui voi vedete, nelle 12 indagini
dell'autore le lontananze della stella, che da esse si raccolgono, esser
differenti l'una dall'altra (e però lontane dal vero) di molte centinaia
e migliaia di miglia; ora, mentre io sia piú che sicuro che quel ch'io cerco
deve necessariamente differir dal giusto di centinaia di miglia, a che
proposito affannarsi nel calcolo, per la gelosia di non ismagliar d'un dito? Ma
venghiamo finalmente all'operazione, la qual io risolvo in tal modo. Ticone,
come si vede nella nota, osservò la stella nell'altezza polare di gr.
|
|
Ticone |
Polo |
|
|
stella |
|
|
Landgravio |
Polo |
|
|
stella |
Fatto questo, sottraggo le minori dalle maggiori, e
restano queste differenze qui sotto:
|
|
|
|
4.40m.p. |
|
|
|
|
|
Parallasse |
|
|
|
dove la
differenza dell'altezze polari,
Ang. BAD |
|
|
Corda
sua 8142 parti di quali il semid. AB è
100000 |
|
|
BDF |
|
|
|
|
|
BDC BCD |
|
|
sini
|
42657 58 |
|
|
|
|
58 |
42657 |
8142 |
|
|
|
|
||
|
|
|
|
8142 |
|
|
|
|
|
||
|
|
|
|
85314 |
|
|
|
|
|
||
|
|
|
|
170628_ |
|
|
|
|
|
||
|
|
|
|
42657__ |
|
|
|
|
|
||
|
|
|
|
341256___ |
|
|
|
|
|
||
|
|
|
|
|
59 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
58 |
3473 |
13294 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
571 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
5 |
|
|
|
|
|
|
E perché l'angolo B A D, compreso tra le verticali,
è eguale alla differenza dell'altezze polari, sarà gr.
|
5988160 |
1/4 |
|
58 |
347313294 |
|
|
|
5717941 |
|
|
|
54 |
3 |
|
e questo diviso per 100000 ci dà 59 88160/100000 |
|
1 | 00000 | 59 | 88160 |
Ma noi possiamo abbreviare assai l'operazione,
dividendo il primo prodotto trovato, cioè 347313294, per il prodotto
della multiplicazione delli due numeri 58 e 100000, che è
|
|
59 |
|
58 |
00000 |
3473 |
13294 |
|
|
571 |
|
|
|
5 |
|
e ne vien parimente 59 5113294/5800000.
E tanti semidiametri son contenuti nella linea B C,
a i quali aggiuntone uno per la linea A B, averemo poco meno che 61
semidiametri per le due linee A B C, e però la distanza retta dal centro
A alla stella C sarà piú di 60 semidiametri; adunque viene ad esser
superiore alla Luna, secondo Tolomeo piú di 27 semidiametri, e secondo il
Copernico piú di 8, posto che la lontananza della Luna dal centro della Terra
in via di esso Copernico sia, qual dice l'autore, semidiametri 52.
Con questa simile indagine trovo, dall'osservazioni
del Camerario e del Munosio, la stella tornar situata in una simil lontananza,
cioè essa ancora piú di 60 semidiametri: e queste sono le osservazioni,
e questo appresso il calcolo.
Altezza polare del |
|
Camerario Munosio |
|
altezza della stella |
|
|
|
|
||||||||
Differenza dell'altezze polari |
|
|
|
differenza dell'altezze della stella |
|
|
||||||||||
|
|
|
|
|
|
|
||||||||||
|
Differenza di parallasse |
|
ed angolo BCD |
|
|
|||||||||||
|
|
|
|
|
|
|
||||||||||
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
; |
e
la sua corda sini |
22466 30930 116 |
|
|
||||||||
Regola aurea |
|||||
|
|
22466 |
|
|
|
|
116 |
30930 |
22466 |
|
|
|
|
673980 |
|
|
|
|
|
202194 |
|
|
|
|
|
67398 |
|
|
|
|
|
59 |
distanza BC semidiametri 59 e quasi 60. |
||
|
116 |
6948 |
73380 |
|
|
|
|
1144 |
|
|
|
|
|
10 |
|
|
|
La indagine appresso è fatta sopra due
osservazioni di Ticone e del Munosio; dalle quali si calcola, la stella essere
stata lontana dal centro della Terra semidiametri 478 e piú.
Altezze
polari di |
|
Ticone |
|
altezza della * |
|
|
|
|
|
Munosio |
|
|
|
|
|
Differenza
dell'altezze polari |
|
|
|
differenza
dell'altezze della * |
|||
|
|
|
|
|
|||
Differenza di
parallasse |
|
ed
angolo BCD. |
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
; |
e
la sua corda sini |
28640 96930 58 |
|
Regola aurea |
|||||
|
58 |
96930 |
28640 |
|
|
|
|
28640 |
|
|
|
|
|
3877200 |
|
|
|
|
|
58158 |
|
|
|
|
|
77544 |
|
|
|
|
|
19386 |
|
|
|
|
|
478 |
|
|
|
|
58 |
27760 |
75200 |
|
|
|
|
4506 |
|
|
|
|
|
53 |
|
|
|
Quest'indagine che segue, dà la stella
remota dal centro piú di 358 semidiametri.
Altezze
polari |
|
Peucero Munosio |
|
altezza
della stella |
|
|
|
|||||||
|
|
|
|
|
||||||||||
|
|
|
|
|
||||||||||
|
|
|
|
|
||||||||||
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
; |
e
la sua corda sini |
21600 95996 58 |
|
|||||||
Regola aurea |
||||||
|
|
58 |
95996 |
21600 |
|
|
|
|
|
21600 |
|
|
|
|
|
|
57597600 |
|
|
|
|
|
|
95996 |
|
|
|
|
|
|
191992 |
|
|
|
|
|
|
357 |
|
|
|
|
58 |
20735 |
13600 |
|
|
|
|
3339 |
|
|
|
||
|
42 |
|
|
|
||
Da quest'altra indagine la stella si ritrova esser
lontana dal centro piú di 716 semidiametri.
Altezze
polari |
|
Landgravio Ainzelio |
|
altezza
della stella |
|
|
|
||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
||||||||
|
|
|
|
|
|
|
|
||||||||
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
|
corda sini |
5120 97845 7 |
|
|
|||||||
Regola aurea |
|||||
|
7 |
97845 |
5120 |
|
|
|
|
5120 |
|
|
|
|
|
1956900 |
|
|
|
|
|
97845 |
|
|
|
|
|
489225 |
|
|
|
|
|
715 |
|
|
|
|
7 |
5009 |
66400 |
|
|
|
|
134 |
|
|
|
Queste, come vedete, son cinque indagini le quali
rendon la stella assai superiore alla Luna: dove voglio che voi facciate
considerazione sopra quel particolare che poco fa vi dissi, cioè che
nelle distanze grandi la mutazione, o vogliam dir correzione, di pochissimi
minuti, rimuove la stella per grandissimi spazii; come, per esempio, nella
prima di queste indagini, dove il calcolo rese la stella 60 semidiametri remota
dal centro, con la parallasse di 2 minuti, chi volesse sostenere che ella fusse
nel firmamento, non ha a corregger nelle osservazioni altro che 2 minuti e anco
meno, perché allora cessa la parallasse, o divien cosí piccola che rende la
stella in lontananza immensa, quale si riceve da tutti esser quella del
firmamento. Nella seconda indagine l'emenda di manco di
SAGR. Non sarà se non bene, per nostra piena
intelligenza, veder qualche esempio di questo che dite.
SALV. Stabilite voi a vostro beneplacito qual si
sia determinata lontananza sublunare, dove costituir la stella; ché con poca
briga potremo assicurarci se correzioni simili a queste, che abbiamo veduto
bastar per ridurla tra le fisse, la ridurranno nel luogo da voi stabilito.
SAGR. Per pigliare la piú favorevole distanza per
l'autore, porremo che sia quella che è la maggiore di tutte le
investigate da esso nelle sue 12 indagini; imperocché, mentre si è in
controversia tra gli astronomi ed esso, e che quelli dicono la stella essere
stata superiore alla Luna, e questo inferiore, ogni poco spazio che e' la provi
essere stata sotto, gli dà la vittoria.
SALV. Pigliamo dunque la settima indagine, fatta
sopra le osservazioni di Ticone e di Taddeo Agecio, per le quali trova l'autore
la stella essere stata lontana dal centro 32 semidiametri, il qual sito
è il piú favorevole per la parte sua; e per dargli ogni vantaggio,
voglio che, oltre a questo, la ponghiamo nella piú disfavorevole lontananza per
gli astronomi, qual è il collocarla anco sopra il firmamento. Posto
dunque ciò, andiam ricercando quali correzioni sarebber necessarie
applicare all'altre sue 11 indagini, acciò sublimassero la stella sino
alla distanza di 32 semidiametri; e cominciamo dalla prima, calcolata sopra
l'osservazioni dell'Ainzelio e del Maurolico, nella quale l'autore trova la
distanza dal centro circa 3 semidiametri, con la parallasse di gr.
Ainzelio |
Pol. |
48.22 |
* |
76.34 |
m.p.
e 30 sec. |
|
|
||||||||||
Maurolico |
Pol. |
38.30 |
* |
62 |
|
|
|
||||||||||
|
|
9.52 |
|
14.34 |
m.p.
e 30 sec. |
|
|
||||||||||
|
|
|
|
9.52 |
|
|
|
||||||||||
Parallasse |
|
4.42 |
m.p.
e 30 sec. |
|
|
||||||||||||
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
|
corda sino sino |
17200 94910 582 |
|
||||||||||
|
|
94910 |
|
|
|||||||||||||
|
|
17200 |
|
|
|||||||||||||
|
|
18982000 |
|
|
|||||||||||||
|
|
66437 |
|
|
|||||||||||||
|
|
9491 |
|
|
|||||||||||||
|
|
28 |
|
|
|||||||||||||
|
582 |
16324 |
52000 |
|
|
||||||||||||
|
|
4688 |
|
|
|
||||||||||||
|
|
2 |
|
|
|
||||||||||||
Nella seconda operazione, fatta sopra
l'osservazioni dell'Ainzelio e dello Sculero, con parallasse di gr. 0.
BD |
corda |
6166 |
|
|
97987 |
|||
BDC |
|
sini |
|
97987 |
|
|
6166 |
|
BCD |
|
|
|
247 |
|
|
587922 |
|
|
|
|
|
|
587922 |
|||
|
|
|
|
|
97987 |
|||
|
|
|
|
|
587922 |
|||
|
|
|
|
|
24 |
|
||
|
|
|
|
247 |
6041 |
87842 |
||
|
|
|
|
|
1103 |
|
||
|
|
|
|
|
11 |
|
E ritirando la parallasse
|
|
29 |
|
|
|
204 |
6041 |
87842 |
|
|
|
1965 |
|
|
|
|
12 |
|
|
Angoli |
|
BAD BDC BCD |
|
|
corda sino sino |
13254 40886 291 |
|
|
|
|
13254 |
|
|
||
|
|
|
40886 |
|
|
||
|
|
|
79524 |
|
|
||
|
|
|
106032 |
|
|
||
|
|
|
106032 |
|
|
||
|
|
|
53016 |
|
|
||
|
|
|
18 |
|
|
30 |
|
|
|
291 |
5419 |
03044 |
|
175 |
5419 |
|
|
|
2501 |
|
|
16 |
|
|
|
|
18 |
|
|
|
|
Or veggiamo qual correzione bisogna per la terza
indagine, fatta su l'osservazioni dell'Ainzelio e di Ticone, la qual rende la
stella alta circa 19 semidiametri, con la parallasse
Venghiamo alla quarta indagine ed alle rimanenti
con la medesima regola, e con le corde e sini ritrovati dall'autor medesimo. In
questa la parallasse è
BD |
corda |
8142 |
|
|
43235 |
|
BDC |
sino |
43235 |
|
|
8142 |
|
BCD |
sino |
407 |
|
|
86470 |
|
|
|
|
|
|
172940 |
|
|
|
|
|
|
43235 |
|
|
|
|
|
|
345880 |
|
|
|
|
|
|
30 |
|
|
|
|
|
116 |
3520 |
19370 |
|
|
|
|
|
4 |
|
Nella quinta operazione dell'autore abbiamo i sini
e la corda come vedete:
BD |
corda |
4034 |
|
|
97998 |
|
BDC |
sino |
97998 |
|
|
4034 |
|
BCD |
sino |
1236 |
|
|
391992 |
|
|
|
|
|
|
293994 |
|
|
|
|
|
|
391992 |
|
|
|
|
|
|
27 |
|
|
|
|
|
145 |
3953 |
23932 |
|
|
|
|
|
1058 |
|
|
|
|
|
|
3 |
|
e la parallasse è
Nella sesta operazione la corda, i sini e la
parallasse son tali
BD |
|
corda |
1920 |
|
|
40248 |
|
BDC |
|
sino |
40248 |
|
|
1920 |
|
BCD |
|
sino |
233 |
|
|
804960 |
|
|
|
|
|
|
|
362232 |
|
|
|
|
|
|
|
40248 |
|
|
|
|
|
|
|
26 |
|
|
|
|
|
|
29 |
772 |
76160 |
|
|
|
|
|
|
198 |
|
|
|
|
|
|
|
1 |
|
e la stella si trova esser alta circa 4
semidiametri: vegghiamo dove la si riduce calando la parallasse da
Nell'ottava operazione la corda, i sini e la
parallasse, come vedete, son tali:
BD |
corda |
1804 |
|
|
36643 |
||
BDC |
sino |
36643 |
|
|
1804 |
||
BCD |
sino |
29 |
|
|
146572 |
||
|
|
|
|
|
293144 |
||
|
|
|
|
|
36643 |
||
|
|
|
|
|
22 |
||
|
|
|
|
29 |
661 |
03972 |
|
|
|
|
|
|
83 |
|
|
|
|
|
|
|
2 |
|
|
e di qui calcola l'autore l'altezza della stella
semidiametri 1 e mezo, con la parallasse di
Veggiamo ora la nona. Ecco la corda, i sini e la
parallasse, che è
BD |
corda |
232 |
|
|
39046 |
||
BDC |
sino |
39046 |
|
|
232 |
||
BCD |
sino |
436 |
|
|
78092 |
||
|
|
|
|
|
117138 |
||
|
|
|
|
|
78092 |
||
|
|
|
|
436 |
90 |
58672 |
|
Quello che soggiugne poi l'autore in emenda delle
osservazioni, cioè che non basta ritirar la differenza della parallasse
né a un sol minuto, né anco all'ottava parte di
La decima dà l'altezza della stella un
quinto di semidiametro, con quest'angolo, sini e parallasse, che è gr.
BD |
|
corda |
1746 |
|
1746 |
||
BDC |
|
sino |
92050 |
|
|
92050 |
|
BCD |
|
sino |
7846 |
|
|
87300 |
|
|
|
|
|
|
|
3492 |
|
|
|
|
|
|
|
15714 |
|
|
|
|
|
|
|
27 |
|
|
|
|
|
|
58 |
1607 |
19300 |
|
|
|
|
|
|
441 |
|
|
|
|
|
|
|
4 |
|
L'undecima rende la stella all'autore remota circa
13 semidiametri, con la parallasse di
BD |
|
corda |
19748 |
|
|
96166 |
|
|
BDC |
|
sino |
96166 |
|
|
19748 |
|
|
BCD |
m.p.
0.55 |
sino |
1600 |
|
|
769328 |
|
|
|
|
|
|
|
|
384664 |
|
|
|
|
|
|
|
|
673162 |
|
|
|
|
|
|
|
|
865494 |
|
|
|
|
|
|
|
|
96166 |
|
|
|
|
|
|
|
|
32 |
|
|
|
|
|
|
|
582 |
18900 |
86168 |
|
|
|
|
|
|
|
1536 |
|
|
|
|
|
|
|
|
36 |
|
|
La duodecima, con la parallasse di gr.
BD |
|
corda |
17258 |
|
|
17258 |
|
BDC |
|
sino |
96150 |
|
|
96150 |
|
BCD |
|
sino |
2792 |
|
|
862900 |
|
|
|
|
|
|
|
17258 |
|
|
|
|
|
|
|
103548 |
|
|
|
|
|
|
|
155322 |
|
|
|
|
|
|
|
28 |
|
|
|
|
|
|
582 |
16593 |
56700 |
|
|
|
|
|
|
4957 |
|
|
|
|
|
|
|
29 |
|
Queste sono le correzioni delle parallasse delle 10
indagini dell'autore, per ridur la stella in altezza di 32 semidiametri:
Gr. |
I |
II |
|
Gr. |
I |
II |
|
||
4. |
22 |
m.p. e 30 sec....... |
sopra |
4. |
42 |
.30 |
|
||
|
4 |
............... |
sopra |
0. |
10 |
|
|
||
|
10 |
............... |
sopra |
0. |
14 |
|
|
||
|
37 |
............... |
sopra |
0. |
42 |
.30 |
|
||
|
7 |
............... |
sopra |
0. |
8 |
|
|
||
|
42 |
............... |
sopra |
0. |
43 |
|
|
||
|
14 |
....e 50 sec...... |
sopra |
0. |
15 |
|
|
||
4. |
28 |
............... |
sopra |
4. |
30 |
|
|
||
|
35 |
............... |
sopra |
0. |
55 |
|
|
||
1. |
16 |
............... |
sopra |
1. |
36 |
|
|
||
216 |
|
|
296 |
|
60 |
||||
540 |
|
|
540 |
|
9 |
||||
|
756 |
|
|
|
836 |
|
540 |
||
Di qui si vede come per ridur la stella all'altezza
di 32 semidiametri, bisogna dalla somma delle parallassi 836 detrarne 756 e
ridurle a 80, né anco basta tal correzione.
Di qui si vede (sí come ho notato qua dreto) che
quando l'autore stabilisse di voler ricever per vero sito della stella nuova la
distanza di 32 semidiametri, la correzione dell'altre sue 10 indagini (e dico
10, perché la seconda, essendo assai ben alta, si riduce all'altezza di 32
semidiametri con
Le indagini poi, che immediatamente senz'altra
correzione rendon la stella senza parallasse, e perciò nel firmamento ed
anco nelle piú remote parti di esso, ed in somma alta quanto l'istesso polo,
son queste 5 notate qui:
Camerario |
|
Altezze polari |
|
Gr. 52.24 |
m.p. |
|
Altezze della * |
|
80.26 |
|
Peucero |
|
|
|
Gr. 51.54 |
|
|
|
|
79.56 |
|
|
|
0.30 |
|
|
0.30 |
|
Landgravio |
|
Altezze polari |
|
Gr. 51.18 |
|
|
Altezze della * |
|
79.30 |
|
Ainzeglio |
|
|
|
Gr. 48.22 |
|
|
|
|
76.34 |
|
|
|
2.56 |
|
|
2.56 |
|
Ticone |
|
Altezze polari |
|
Gr.
55.58 |
|
|
Altezze della * |
|
84.00 |
|
Peucero |
|
|
|
Gr.
51.54 |
|
|
|
|
79.56 |
|
|
|
4.04 |
|
|
4.04 |
|
Reinoldo |
|
Altezze polari |
|
Gr. 51.18 |
|
|
Altezze della * |
|
79.30 |
|
Ainzeglio |
|
|
|
Gr. 48.22 |
|
|
|
|
76.34 |
|
|
|
2.56 |
|
|
2.56 |
|
Camerario |
|
Altezze polari |
|
Gr.
52.24 |
|
|
Altezze della * |
|
24.17 |
|
Agecio |
|
|
|
Gr.
48.22 |
|
|
|
|
20.15 |
|
|
|
4.02 |
|
|
4.02 |
|
Del resto de gli accoppiamenti che si posson fare
delle osservazioni di tutti questi astronomi, quelli che rendon la stella per
infinito spazio sublime son molti piú in numero, cioè circa 30 di piú,
che gli altri che danno, calcolando, la stella sotto la Luna; e perché (sí come
siam convenuti) è da credere che gli osservatori abbiano errato piú
presto di poco che d'assai, manifesta cosa è che le correzioni da
applicarsi all'osservazioni che danno la stella alta in infinito, nel ritirarla
a basso, prima e con emenda minore la condurranno nel firmamento che sotto la
Luna: talché tutte queste applaudono all'opinione di quelli che la mettono tra
le fisse. Aggiugnete che le correzioni che si ricercano per tali emende, sono
assai minori che quelle per le quali la stella dall'inverisimil vicinità
si può ridurre all'altezza piú favorevole per questo autore, come per
gli esempi passati si è veduto: tra le quali impossibili vicinità
ce ne son 3 che par che rimuovano la stella dal centro della Terra per manco
distanza d'un semidiametro, facendola in certo modo andar in volta sotto Terra;
e queste son quelle combinazioni nelle quali, essendo l'altezza polare d'uno de
gli osservatori maggiore dell'altezza polare dell'altro, l'elevazion della
stella presa da quello è minore dell'elevazione della stella di questo.
E sono tali combinazioni le notate qui appresso.
Questa prima è del Landgravio con Gemma:
dove l'altezza polare del Landgravio,
Landgravio |
|
Altezza polare |
51.18 |
|
Altezze della * |
|
79.30 |
|
Gemma |
|
|
50.50 |
|
|
|
79.45 |
|
Le altre due sono queste di sotto:
Buschio Gemma |
|
Altezza polare |
51.10 50.50 |
|
Altezze della * |
|
79.20 79.45 |
|
Reinoldo Gemma |
|
Altezza polare |
51.18 50.50 |
|
Altezze della * |
|
79.30 79.45 |
|
Da quello che sin qui v'ho mostrato, potete
comprendere quanto questa prima maniera d'investigar la distanza della stella e
provarla sublunare, introdotta dall'autore, sia disfavorevole per la causa sua,
e quanto piú probabilmente e chiaramente si raccolga, la lontananza di quella
esser stata tra le piú remote stelle fisse.
SIMP. Sino a questa parte mi par che assai
manifestamente sia scoperta la poca efficacia delle dimostrazioni dell'autore;
ma io veggo che tutto questo vien compreso in non molte carte del libro, e
potrebb'esser che altre sue ragioni fusser piú concludenti che non son queste
prime.
SALV. Anzi non posson esser se non men valide, se
vogliamo che le passate ci siano esempio per le rimanenti; attesoché (sí come
è manifesto) l'incertezza e poca concludenza di quelle chiaramente si
comprende derivar da gli errori commessi nelle osservazioni strumentali, dalle
quali si è creduto le altezze polari e della stella essere state prese
giustamente, essendo in effetto errate facilmente tutte; e pur per trovar
l'altezze del polo hanno avuto gli astronomi secoli di tempo da impiegarvisi a
lor agio, e le altezze meridiane della stella sono le piú agevoli da
osservarsi, come quelle che sono terminatissime e concedono qualche spazio
all'osservatore di poterle continuare, come quelle che non si mutano
sensibilmente in tempo brevissimo, come fanno le remote dal meridiano: e se
questo è, sí come è, verissimo, qual fede vorrem noi prestare a
calcoli fondati sopra osservazioni piú in numero, piú difficili a farsi, piú
momentanee nel variarsi, con la giunta appresso di strumenti piú incomodi e piú
fallaci? Per una semplice occhiata che ho data alle dimostrazioni seguenti, i
computi son fatti sopra altezze della stella prese in diversi cerchi verticali,
che chiamano con voce arabica azimutti: nelle quali osservazioni si adoprano
strumenti mobili non solo ne i cerchi verticali, ma nell'orizonte ancora nel
medesimo tempo; in modo che convien, nell'istesso momento che si prende
l'altezza, aver nell'orizonte osservata la distanza del verticale, nel qual
è la stella, dal meridiano; in oltre dopo notabile intervallo di tempo
convien reiterar l'operazione, e tener minuto conto del tempo decorso,
fidandosi o d'oriuoli o d'altre osservazioni di stelle: una tal matassa di
osservazioni va poi conferendo con un'altra simile, fatta da un altro
osservatore, in un altro paese, con diverso strumento ed in diverso tempo; e da
questa cerca l'autore di ritrar quali sarebbono state l'altezze della stella e
le latitudini orizontali accadute nel tempo ed ora dell'altre prime
osservazioni, e sopra un tale aggiustamento fabbrica in ultimo il suo calcolo.
Lascio ora giudicar a voi quanto sia da prestar fede a ciò che da simili
indagini si ritrae. Oltre che io non dubito punto che quando altri si volesse
martirizare sopra tali lunghissimi computi, si troverebbe, sí come ne i
passati, esser piú quelli che favorissero la parte avversa, che l'autore: ma
non mi par che metta conto prendersi una tal fatica per cosa che non è
tra le primarie intese da noi.
SAGR. Io son dalla vostra in questa parte; ma sendo
questo negozio circondato da tante confusioni incertezze ed errori, sopra qual
confidenza hanno tanti astronomi asseverantemente pronunziato, la nuova stella
essere stata altissima?
SALV. Sopra due sorte di osservazioni,
semplicissime facilissime e verissime, una sola delle quali è piú che a
bastanza per assicurarne dell'essere stata locata nel firmamento, o almeno per
lunghissimo tratto superiore alla Luna: una delle quali è presa
dall'egualità o poco differente inegualità delle sue lontananze
dal polo, tanto mentre ell'era nell'infima parte del meridiano, quanto nella
suprema; l'altra è l'aver lei conservato perpetuamente le medesime
distanze da alcune stelle fisse, sue circonvicine, ed in particolare
dall'undecima di Cassiopea, non piú da essa remota di gradi I e mezo: dalli
quali due capi indubitabilmente si raccoglie o l'assoluta mancanza di
parallasse, o una piccolezza tale, che ne assicura con calcoli speditissimi
della sua gran lontananza dalla Terra.
SAGR. Ma queste cose non sono state comprese da
questo autore? e se egli le ha vedute, in che modo se ne difende?
SALV. Noi sogliamo dire che quando
altri, non trovando ripiego che vaglia contro a i suoi falli, produce
frivolissime scuse, cerca di attaccarsi alle funi del cielo; ma quest'autore
ricorre non alle corde, ma alle fila de' ragnateli del cielo, come apertamente
vedrete nell'andare esaminando questi due punti pur ora accennativi. E prima,
quello che ci mostrino le distanze polari ad uno ad uno de gli osservatori,
l'ho io notato in questi brevi calcoli; per piena intelligenza de' quali devo
primamente avvertirvi, come, tuttavolta che la stella nuova o altro fenomeno
sia vicino a Terra, girando al moto diurno intorno al polo, piú distante si
mostrerà da esso mentre si trovi nella parte di sotto nel meridiano, che
quando è nella superiore, come in questa figura si vede: nella quale il
punto T denota il centro della Terra, O il luogo dell'osservatore, il
firmamento l'arco V P C, il polo P; il fenomeno, muovendosi per il cerchio F S,
vedesi or sotto il
polo, per il raggio OFC, ed or sopra, secondo il raggio O S D, sí
che i luoghi veduti nel firmamento siano D, C; ma i veri, rispetto al centro T,
sono B, A, lontani egualmente dal polo: dove già è manifesto, il luogo
apparente del fenomeno S, cioè il punto D, esser piú vicino al polo che
non è l'altro apparente luogo C, veduto per il raggio O F C; che
è la prima cosa da notarsi. Conviene che nel secondo luogo voi notiate,
come l'eccesso della apparente inferior distanza dal polo sopra l'apparente
superiore distanza, pur dal polo, è maggiore che non è la
parallasse inferiore del fenomeno; cioè dico che l'eccesso dell'arco C P
(distanza inferiore apparente) sopra l'arco P D (distanza apparente superiore)
è maggiore dell'arco C A (che è la parallasse inferiore). Il che
si raccoglie facilmente: imperocché di piú eccede l'arco C P il P D che il P B,
essendo P B maggiore di P D; ma P B è eguale a P A, e l'eccesso di C P
sopra P A è l'arco C A; adunque l'eccesso dell'arco C P sopra l'arco P D
è maggiore dell'arco C A, che è la parallasse del fenomeno posto
in F: che è quel che bisognava sapere. E per dar tutti i vantaggi
all'autore, voglio che supponghiamo, la parallasse della stella in F esser
tutto l'eccesso dell'arco C P (cioè della distanza inferiore dal polo)
sopra l'arco P D (distanza superiore). Vengo adesso ad esaminare quel che ci
danno le osservazioni di tutti gli astronomi prodotti dall'autore: tra le quali
non ce n'è pur una che non gli sia in disfavore e contraria al suo
intento. E facciamo principio da queste del Buschio, il quale trovò la
distanza della stella dal polo, quando gli era superiore, esser gr.
Angoli |
|
IOT IFT |
|
|
sini |
92276 582 |
|
582 |
15854982 9227600000 |
||||
|
|
|
|
|
|
3407002246 |
|||||||
TI |
TF |
TI |
TF |
|
|
49297867 |
|||||||
582 |
100000 |
92276 |
0 |
|
|
325414 |
|||||||
|
|
|
|
|
100000 |
158 |
54982 |
||||||
|
|
|
|
|
|
|
158 |
||||||
|
|
|
|
|
|
582 |
92276 |
||||||
|
|
|
|
|
|
|
34070 |
||||||
|
|
|
|
|
|
|
492 |
||||||
|
|
|
|
|
|
|
3 |
||||||
Vedete ora quel che ci danno le osservazioni del
Peucero: del quale la distanza inferior dal polo è gr.
Angoli |
|
IAC IEC |
|
|
sini |
91672 553 |
|
553 |
165 91672 |
427/553 |
||
|
|
|
|
|
|
36397 |
|
|||||
|
|
|
|
|
|
312 |
|
|||||
|
|
|
|
|
|
4 |
|
|||||
Ecco quel che ci mostra l'osservazione di Ticone,
presa la piú favorevole per l'avversario: cioè, la distanza inferiore
dal polo, gr.
Angoli |
|
IAC |
|
|
sini |
88500 320 |
|
320 |
276 88500 |
9/16 |
|
|
|
|
|
|
2418 |
|
|||
|
|
|
|
|
|
21 |
|
L'osservazione del Reinoldo, ch'è la
seguente, ci rende la distanza della stella dal centro semidiametri 793.
Angoli |
|
IAC |
|
|
sini |
92026 116 |
|
116 |
793 92026 |
38/116 |
|
|
|
|
|
|
10888 |
|
|||
|
|
|
|
|
|
33 |
|
Dalla seguente osservazion del Landgravio si ritrae
la distanza della stella dal centro semidiametri 1057.
Angoli |
|
IAC |
|
|
sini |
92012 87 |
|
87 |
1057 92012 |
53/87 |
|
|
|
|
|
|
5663 |
|
|||
|
|
|
|
|
|
5 |
|
Prese dal Camerario due delle sue osservazioni piú
favorevoli per l'autore, si trova la lontananza della stella dal centro
semidiametri 3143.
Angoli |
|
IAC |
|
|
sini |
91152 29 |
|
29 |
3143 91152 |
|
|
|
|
|
|
|
4295 |
|
|||
|
|
|
|
|
|
1 |
|
L'osservazione del Munosio non dà
parallasse, e però rende la stella nuova tra le fisse altissime: quella
dell'Ainzelio ce la dà remota per infinito spazio, ma con emendazion di
un mezo minuto primo la ripon tra le fisse: e l'istesso si ritrae dall'Ursino con
la correzione di
SAGR. Ma che difesa trov'egli contro a sí patenti
contrarietà?
SALV. Uno di quei debolissimi fili: dicendo che le
parallassi vengono diminuite mercè delle refrazioni, le quali, operando
contrariamente, sublimano il fenomeno, dove le parallassi l'abbassano. Ora,
quanto vaglia questo miserabil refugio, giudicatelo da questo, che quando
quest'effetto delle refrazioni fusse di quella efficacia che da non molto tempo
in qua alcuni astronomi hanno introdotto, al piú che potesse operar circa
l'elevar piú del vero un fenomeno sopra l'orizonte, mentre egli sia di
già alto 23 o 24 gradi, sarebbe il diminuirgli circa 3 minuti di
parallasse; il qual temperamento è scarsissimo per ritrar la stella
sotto la Luna, ed in alcuni casi è minore che non è il vantaggio
conceduto da noi nell'ammetter che l'eccesso della distanza inferior dal polo
sopra la superiore sia tutto parallasse, il qual vantaggio è cosa assai
piú chiara e palpabile che l'effetto della refrazione, della grandezza del
quale io dubito, e non senza ragione. Ma piú, io domando quest'autore s'ei
crede che quelli astronomi, delle osservazioni de i quali egli si serve,
avessero cognizione di questi effetti delle refrazioni e vi facessero sopra
considerazione, o no: se gli conobbero e considerarono, è ragionevol
credere che di essi tenesser conto nell'assegnare le vere elevazioni della
stella, facendo a quei gradi di altezze, che sopra gli strumenti si scorgevano,
quelle tare che erano convenienti mercé dell'alterazioni delle refrazioni,
immodo che le distanze pronunziate da loro fussero poi le corrette e giuste, e
non le apparenti e false; ma s'ei crede che tali autori non facessero
reflessione sopra le dette refrazioni, convien confessare che eglino abbiano
parimente errato in determinar tutte quelle cose le quali non si possono
perfettamente aggiustare senza la modificazione delle refrazioni: tra le quali
cose una è l'investigazione precisa delle altezze polari, le quali
comunemente si prendono dalle due altezze meridiane di alcuna delle stelle
fisse sempre apparenti, le quali altezze verranno alterate dalla refrazione,
nell'istesso modo appunto che quelle della stella nuova; talché l'altezza
polare, che da esse si deduce, verrà difettosa, e partecipe dell'istesso
mancamento che quest'autore ascrive alle altezze assegnate alla stella nuova,
cioè e quella e queste poste, con pari errore, piú sublimi del vero. Ma
tale errore, per quanto appartiene al nostro presente negozio, non progiudica
punto, perché non avendo noi bisogno di saper altro che la differenza tra le
due distanze della stella nuova dal polo, mentre ella gli fu inferiore e poi
superiore, chiara cosa è che tali distanze saran l'istesse posta l'alterazion
della refrazione comunemente per la stella e per il polo, ch'è
comunemente emendata per questo e per quella. Arebbe qualche momento, benché
debolissimo, l'argomento dell'autore, se egli ci avesse assicurati che
l'altezza del polo fusse stata assegnata precisa e emendata dall'error
dependente dalla refrazione, dal quale non si fussero poi guardati i medesimi
astronomi nell'assegnarci l'altezze della stella nuova; ma egli di ciò
non ci ha fatti sicuri, né forse ce ne poteva fare, e forse (e questo è
piú credibile) tal cautela è stata tralasciata da gli osservatori.
SAGR. Parmi soprabbondantemente annullata questa
instanza; però ditemi in qual maniera e' si libera poi da quell'aver
mantenuta sempre la medesima distanza dalle stelle fisse sue circonvicine.
SALV. Apprendendosi similmente a due fili ancor piú
deboli dell'altro, l'uno de' quali è pur legato alla refrazione, ma
tanto men saldamente, quanto e' dice che, pur la refrazione operando nella
stella nuova e sublimandola sopra il vero sito, rende incerte le distanze
vedute dalle vere, comparate alle stelle fisse sue vicine; né posso a bastanza
maravigliarmi come e' dissimuli d'accorgersi che la medesima refrazione
lavorerà nell'istesso modo nella stella nuova che nell'antica, sua
vicina, sublimando amendue egualmente, onde da tale accidente l'intervallo tra
esse resti inalterato. L'altro refugio è ancora piú infelice e tiene
assai del ridicolo, fondandosi sopra l'errore che può nascere
nell'operazione stessa strumentale, mentre che l'osservatore, non potendo
costituire il centro della pupilla dell'occhio nel centro del sestante
(strumento adoprato nell'osservare gl'intervalli tra due stelle), ma tenendolo
elevato sopra detto centro quant'è la distanza di essa pupilla da non so
che osso della gota, dove s'appoggia il capo dello strumento, si viene a formar
nell'occhio un angolo piú acuto di quello che si forma da i lati del sestante:
il qual angolo de' raggi differisce anco da se stesso, mentre si riguardano
stelle poco elevate sopra l'orizonte e le medesime poi poste in grande altura.
Si fa, dice, tal angolo differente, mentre si vadia elevando lo strumento,
tenendo ferma la testa: ma se nell'alzar il sestante si piegasse il collo
indietro e si andasse elevando la testa insieme con lo strumento, l'angolo allora
si conserverebbe l'istesso: suppone dunque la risposta dell'autore che gli
osservatori, nell'uso dello strumento, non abbiano alzato la testa conforme al
bisogno, cosa che non ha del verisimile. Ma posto anco che cosí fusse seguito,
lascio giudicare a voi qual differenza può essere tra due angoli acuti
di due triangoli equicruri, i lati dell'uno de i quali triangoli siano lunghi
ciascuno quattro braccia, e quelli dell'altro quattro braccia meno
quant'è il diametro d'una lente; ché assolutamente non maggiore
può essere la differenza tra la lunghezza delli due raggi visivi mentre
la linea vien tirata perpendicolarmente dal centro della pupilla sopra il piano
dell'aste del sestante (la qual linea non è maggiore che la grossezza
del pollice), e la lunghezza de i medesimi raggi mentre, elevandosi il sestante
senza alzar insieme la testa, tal linea non cade piú a perpendicolo sopra detto
piano, ma inclina, facendo l'angolo verso la circonferenza alquanto acuto. Ma
per liberare in tutto e per tutto questo autore da queste infelicissime
mendicità, sappia (già che si vede che egli non ha molta pratica
nell'uso de gli strumenti astronomici) che ne i lati del sestante o quadrante
si accomodano due traguardi, uno nel centro e l'altro nell'estremità
opposta, i quali sono elevati un dito o piú dal piano dell'aste e per le
sommità di tali traguardi si fa passar il raggio dell'occhio, il quale
occhio si tiene anco remoto dallo strumento un palmo o due o piú ancora; talché
né pupilla, né osso di gota, né di tutta la persona, tocca né si appoggia allo
strumento; il quale strumento né meno si sostiene o si eleva a braccia, e
massime se saranno di quei grandi, come si costuma, li quali, pesando le decine
e le centinaia ed anco le migliaia delle libbre, si sostengono sopra basi saldissime:
talché tutta l'instanza svanisce. Questi sono i sutterfugii di questo autore, i
quali, quando ben fussero tutto acciaio, non lo potrebbero sollevare d'un
centesimo di minuto: e con questi si persuade di darci a credere d'aver
compensata quella differenza che importa piú di cento minuti, dico del non si
esser osservata notabil diversità nelle distanze tra una fissa e la
nuova stella in tutta la lor circolazione, che, quando ella fusse stata
prossima alla Luna, doveva farsi grandemente cospicua anco alla semplice vista,
senza strumento veruno, e massime paragonandola con l'undecima di Cassiopea,
sua vicina a gr. 1 e mezo; che di piú di due diametri della Luna doveva
variarsi, come ben avvertirono i piú intelligenti astronomi di quei tempi.
SAGR. Mi par di vedere quell'infelice agricoltore,
che dopo l'essergli state battute e destrutte dalla tempesta tutte le sue
aspettate ricolte, va con faccia languida e china raggranellando reliquie cosí
tenui, che non son per bastargli a nutrir né anco un pulcino per un sol giorno.
SALV. Veramente che con troppo scarsa provisione
d'arme s'è levato quest'autore contro a gl'impugnatori della
inalterabilità del cielo, e con troppo fragili catene ha tentato di
ritirar dalle regioni altissime la stella nuova di Cassiopea in queste basse ed
elementari. E perché mi pare che assai chiaramente si sia dimostrata la
differenza grande che è tra i motivi di quelli astronomi e di questo
loro oppugnatore, sarà bene che, lasciata questa parte, torniamo alla
nostra principal materia; nella quale segue la considerazione del movimento
annuo comunemente attribuito al Sole, ma poi, da Aristarco Samio in prima, e dopo dal Copernico, levato dal
Sole e trasferito nella Terra; contro alla qual posizione sento venir
gagliardamente provisto il signor Simplicio, ed in particolare con lo stocco e
con lo scudo del libretto delle conclusioni o disquisizioni matematiche,
l'oppugnazioni del quale sarà bene cominciare a proporre.
SIMP. Voglio, quando cosí vi piaccia, riserbarle in
ultimo, come quelle che sono le ultime ritrovate.
SALV. Sarà dunque necessario che voi,
conforme al modo tenuto sin qui, andiate ordinatamente proponendo le ragioni in
contrario, sí d'Aristotile come di altri antichi, il che son per far io ancora,
acciò non resti nulla indietro senza esser attentamente considerato ed
esaminato; e parimente il signor Sagredo con la vivacità del suo
ingegno, secondoché si sentirà svegliare, produrrà in mezo i suoi
pensieri.
SAGR. Lo farò con la mia solita
libertà; e perché voi cosí comandate, sarete anco in obbligo di
scusarla.
SALV. Il favore obbligherà a ringraziarvi, e
non a scusarvi. Ma cominci or mai il signor Simplicio a promuover quelle
difficultà che lo respingono dal poter credere che la Terra, a guisa de
gli altri pianeti, si possa muover in giro intorno ad un centro stabile.
SIMP. La prima e massima difficultà è
la repugnanza ed incompatibilità che è tra l'esser nel centro e
l'esserne lontano: perché, quando il globo terrestre si abbia a muover in un
anno per la circonferenza di un cerchio, cioè sotto il zodiaco, è
impossibile che nell'istesso tempo e' sia nel centro del zodiaco; ma che la
Terra sia in tal centro, è in molti modi provato da Aristotile, da
Tolomeo e da altri.
SALV. Molto bene discorrete; e non è dubbio
alcuno che chi vorrà far muover la Terra per la circonferenza di un
cerchio, bisogna prima che e' provi che ella non sia nel centro di quel tal
cerchio. Séguita dunque ora che noi vegghiamo se la Terra sia o non sia in quel
centro, intorno al quale io dico che ella si gira, e voi dite ch'ell'è
collocata; e prima che questo, è necessario ancora che ci dichiariamo se
di questo tal centro abbiamo voi ed io l'istesso concetto o no. Però
dite quale e dove è questo vostro inteso centro.
SIMP. Intendo per centro quello dell'universo,
quello del mondo, quello della sfera stellata, quel del cielo.
SALV. Ancorché molto ragionevolmente io potessi
mettervi in controversia, se in natura sia un tal centro, essendo che né voi né
altri ha mai provato se il mondo sia finito e figurato, o pure infinito e
interminato; tuttavia, concedendovi per ora che ei sia finito e di figura
sferica terminato, e che per ciò abbia il suo centro, converrà
vedere quanto sia credibile che la Terra, e non piú tosto altro corpo, si
ritrovi in esso centro.
SIMP. Che il mondo sia finito e terminato e
sferico, lo prova Aristotile con cento dimostrazioni.
SALV. Le quali si riducono poi tutte ad una sola, e
quella sola al niente; perché se io gli negherò il suo assunto,
cioè che l'universo sia mobile, tutte le sue dimostrazioni cascano,
perché e' non prova esser finito e terminato se non quello dell'universo che
è mobile. Ma per non multiplicar le dispute, concedasi per ora che il
mondo sia finito, sferico, ed abbia il suo centro: e già che tal figura
e centro si è argomentato dalla mobilità, non sarà se non
molto ragionevole se da gl'istessi movimenti circolari de' corpi mondani noi
andremo alla particolar investigazione del sito proprio di tal centro; anzi
Aristotile medesimo ha egli pur nell'istessa maniera discorso e determinato,
facendo centro dell'universo quell'istesso intorno al quale tutte le celesti
sfere si girano e nel quale ha creduto venir collocato il globo terrestre. Ora
ditemi, signor Simplicio: quando Aristotile si trovasse costretto da
evidentissime esperienze a permutar in parte questa sua disposizione ed ordine
dell'universo, ed a confessare d'essersi ingannato in una di queste due
proposizioni, cioè o nel por la Terra nel centro, o nel dir che le sfere
celesti si movessero intorno a cotal centro, qual delle due confessioni credete
voi ch'egli eleggesse?
SIMP. Credo che quando il caso accadesse, i
Peripatetici…
SALV. Non domando de i Peripatetici, domando
d'Aristotile medesimo; ché quanto a quelli so benissimo ciò che
risponderebbero. Essi, come reverentissimi ed umilissimi mancipii d'Aristotile,
negherebbero tutte l'esperienze e tutte l'osservazioni del mondo, e
recuserebbero anco di vederle, per non le avere a confessare, e direbbero che
il mondo sta come scrisse Aristotile, e non come vuol la natura; perché,
toltogli l'appoggio di quell'autorità, con che vorreste che comparissero
in campo? E però ditemi pure quel che voi stimate che fusse per far
Aristotile medesimo.
SIMP. Veramente non mi saprei risolvere, qual de'
due inconvenienti e' fusse per reputar minore.
SALV. Non usate, di grazia, questo termine di
chiamar inconveniente quel che potrebb'esser necessario che fusse cosí.
Inconveniente fu il voler por la Terra nel centro delle celesti revoluzioni. Ma
già che voi non sapete in qual parte e' fusse per inclinare, stimandolo
io uomo di grand'ingegno, andiamo esaminando qual delle due elezioni sia la piú
ragionevole, e quella reputiamo che fusse la ricevuta da Aristotile.
Ripigliando dunque il nostro ragionamento da principio, e posto, in grazia
d'Aristotile, che il mondo (della grandezza del quale non abbiamo sensata
notizia oltre alle stelle fisse), come quello che è di figura sferica e
circolarmente si muove, abbia necessariamente, e rispetto alla figura e
rispetto al moto, un centro, ed essendo noi oltre a ciò sicuri che
dentro alla sfera stellata sono molti orbi, l'uno dentro all'altro, con loro
stelle, che pur circolarmente si muovono, si cerca quel che sia piú ragionevol
credere e dire, che questi orbi contenuti si muovano intorno all'istesso centro
del mondo, o pure intorno ad altro assai lontano da quello. Dite ora, signor
Simplicio, il parer vostro circa questo particolare.
SIMP. Quando noi potessimo fermarci sopra questo
solo presupposto, e che fussimo sicuri di non poter incontrar qualche altra cosa
che ci disturbasse, io direi che molto piú ragionevol fusse il dire che il
continente e le parti contenute si movesser tutte circa un comun centro, che
sopra diversi.
SALV. Ora, quando sia vero che 'l centro del mondo
sia l'istesso che quello intorno al quale si muovono gli orbi de i corpi
mondani, cioè de' pianeti, certissima cosa è che non la Terra, ma
piú tosto il Sole, si trova collocato nel centro del mondo; talché, quanto a
questa prima semplice e generale apprensione, il luogo di mezo è del
Sole, e la Terra si trova tanto remota dal centro, quanto dall'istesso Sole.
SIMP. Ma da che argumentate voi che non la Terra,
ma il Sole, sia nel centro delle conversioni de' pianeti?
SALV. Concludesi da evidentissime, e perciò
necessariamente concludenti, osservazioni; delle quali le piú palpabili, per
escluder la Terra da cotal centro e collocarvi il Sole, sono il ritrovarsi
tutti i pianeti ora piú vicini ed ora piú lontani dalla Terra, con differenze
tanto grandi, che, verbigrazia, Venere lontanissima si trova sei volte piú
remota da noi che quando ell'è vicinissima, e Marte si inalza quasi otto
volte piú in uno che in un altro stato. Vedete intanto se Aristotile
s'ingannò di qualche poco in creder che e' fussero sempre egualmente
remoti da noi.
SIMP. Quali poi sono gl'indizii che i movimenti
loro sieno intorno al Sole?
SALV. Si argomenta ne i tre pianeti superiori,
Marte Giove e Saturno, dal trovarsi sempre vicinissimi alla Terra quando sono
all'opposizion del Sole, e lontanissimi quando sono verso la congiunzione; e
questo avvicinamento ed allontanamento importa tanto, che Marte vicino si vede
ben 60 volte maggiore che quando è lontanissimo. Di Venere poi e di
Mercurio si ha certezza del rivolgersi intorno al Sole dal non si allontanar
mai molto da lui e dal vedersegli or sopra ed or sotto, come la mutazion di
figure in Venere conclude
necessariamente. Della Luna è vero che ella non si può in verun
modo separar dalla Terra, per le ragioni che piú distintamente nel progresso si
produrranno.
SAGR. Io mi aspetto d'aver a sentir cose ancor piú
meravigliose, dependenti da questo movimento annuo della Terra, che non sono
state le dependenti dalla conversione diurna.
SALV. Voi non v'ingannate punto: perché, quanto
all'operar il moto diurno ne' corpi celesti, non fu né potette esser altro che
il farci apparir l'universo precipitosamente scorrer in contrario; ma questo
moto annuo, mescolandosi con i moti particolari di tutti i pianeti, produce
moltissime stravaganze, le quali hanno fatto sin ora perder la scherma a tutti i
maggiori uomini del mondo. Ma ritornando alle prime apprensioni generali,
replico che il centro delle celesti conversioni de i cinque pianeti, Saturno,
Giove, Marte, Venere e Mercurio, è il Sole; e sarà del moto della
Terra ancora, se ci succederà di metterla in cielo. Quanto poi alla
Luna, questa ha un moto circolare intorno alla Terra, dalla quale (come ho
già detto) in modo alcuno non si può separare; ma non però
resta ella d'andare intorno al Sole insieme con la Terra co 'l movimento annuo.
SIMP. Io non resto ancora ben capace di questa
struttura; e forse co 'l farne un poco di disegno s'intenderà meglio, e
piú agevolmente si potrà discorrere intorno ad essa.
SALV. E cosí sia: anzi, per vostra maggior
sodisfazione e meraviglia insieme, voglio che voi stesso la disegniate, e
veggiate come, non credendo d'intenderla, ottimamente la capite; e solo co 'l
risponder alle mie interrogazioni la descriverrete puntualmente. Pigliate
dunque un foglio e le seste: e sia questa carta bianca l'immensa espansione
dell'universo, nella quale voi avete a distribuire ed ordinar le sue parti
conforme a che la ragione vi detterà. E prima, essendo che senza mio
insegnamento voi tenete per fermo la Terra esser collocata in questo universo,
però notate un punto a vostro beneplacito, intorno al quale voi
intendete ella esser collocata, e contrassegnatelo con qualche carattere.
SIMP. Sia questo, segnato A, il luogo del globo
terrestre.
SALV. Bene sta. So, secondariamente, che voi sapete
benissimo che essa Terra non è dentro al corpo solare, né meno a quello
contigua, ma per certo spazio distante; e però assegnate al Sole qual
altro luogo piú vi piace, remoto dalla Terra a vostro beneplacito, e questo
ancora contrassegnate.
SIMP. Ecco fatto: sia il luogo del corpo solare questo,
segnato O.
SALV. Stabiliti questi due, voglio che pensiamo di
accomodar il corpo di Venere in tal maniera, che lo stato e movimento suo possa
sodisfar a ciò che di essi ci mostrano le sensate apparenze; e
però riducetevi a memoria quello che, o per i discorsi passati o per
vostre proprie osservazioni, avete compreso accadere in tale stella; e poi
assegnatele quello stato che vi parrà convenirsele.
SIMP. Posto che sieno vere le apparenze narrate da
voi, e che ho lette ancora nel libretto delle conclusioni, cioè che tale
stella non si discosti mai dal Sole oltre a certo determinato intervallo di 40
e tanti gradi, sí che ella già mai non arrivi non solamente
all'opposizion del Sole, ma né anco al quadrato, né tampoco all'aspetto
sestile; e piú, che ella si mostri in un tempo quasi 40 volte maggiore che in
altro tempo, cioè grandissima quando, sendo retrograda, va alla
congiunzion vespertina del Sole, e piccolissima quando con movimento diretto va
alla congiunzion mattutina; e di piú, sendo vero che quando ella appar
grandissima, si mostri di figura cornicolata, e quando appar piccolissima, si
vegga rotonda perfettamente; sendo, dico, vere cotali apparenze, non veggo che
si possa sfuggire di affermare, tale stella raggirarsi in un cerchio intorno al
Sole, poiché tal cerchio in niuna maniera si può dire che abbracci e
dentro di sé contenga la Terra, né meno che sia inferiore al Sole, cioè
tra esso e la Terra, né anco superior al Sole. Non può tal cerchio
abbracciar la Terra, perché Venere verrebbe talvolta all'opposizion del Sole;
non può esser inferiore, perché Venere circa l'una e l'altra
congiunzione co 'l Sole si mostrerebbe falcata; né può esser superiore,
perché si mostrerebbe sempre rotonda, né mai cornicolata. E però per il
ricetto di lei segnerò il cerchio C H intorno al Sole, senza che egli
abbracci la Terra.
SALV. Accomodata Venere, è bene che pensiate
a Mercurio, il quale, come sapete, trattenendosi sempre intorno al Sole, molto
meno da lui si allontana che Venere; però considerate qual luogo
convenga assegnargli.
SIMP. Non è dubbio che, immitando egli
Venere, accomodatissima stanza sarà per lui un minor cerchio dentro a
questo di Venere, e pure intorno al Sole, essendo, massime della sua
vicinità al Sole, argomento ed indizio assai concludente la
vivacità del suo splendore sopra quello di Venere e de gli altri
pianeti: potremo dunque con tal fondamento segnare il suo cerchio, notandolo
con li caratteri B G.
SALV. Marte poi dove lo metteremo?
SIMP. Marte, perché viene all'opposizion del Sole,
è necessario che co 'l suo cerchio abbracci la Terra: ma veggo ch'e'
bisogna per necessità ch'egli abbracci il Sole ancora; imperocché,
venendo alla congiunzion co 'l Sole, se e' non gli passasse di sopra, ma gli
fusse inferiore, apparirebbe cornicolato, come fa Venere e la Luna; ma egli si
mostra sempre rotondo; adunque è necessario che egli includa dentro al
suo cerchio non meno il Sole che la Terra. E perché mi sovviene che voi abbiate
detto che quando esso è all'opposizion del Sole si mostra 60 volte
maggiore che quando è verso la congiunzione, parmi che molto bene si
accomoderà a queste apparenze un cerchio intorno al centro del Sole e
che abbracci la Terra, quale io noto adesso e contrassegno D I: dove Marte nel
punto D è vicinissimo alla Terra, ed è opposto al Sole; ma quando
è nel punto I, è alla congiunzion co 'l Sole, ma lontanissimo
dalla Terra. E perché l'istesse apparenze si osservano in Giove ed in Saturno,
se ben con assai minor diversità in Giove che in Marte, e con minor
ancora in Saturno che in Giove, mi par comprendere che molto acconciamente
sodisfaremo anco a questi due pianeti con due cerchi pur intorno al Sole, e
questo primo per Giove segnandolo E L, ed un altro superiore per Saturno notato
F M.
SALV. Voi sin qui vi sete portato egregiamente. E
perché (come vedete) l'appressamento e discostamento de' tre superiori vien
misurato dal doppio della distanza tra la Terra e 'l Sole, questa fa maggior
diversità in Marte che in Giove, per essere il cerchio D I di Marte
minore del cerchio E L di Giove; e similmente perché questo E L è minore
del cerchio F M di Saturno, la medesima diversità è ancor minore
in Saturno che in Giove: e ciò puntualmente risponde all'apparenze.
Resta ora che pensiate di assegnare il luogo alla Luna.
SIMP. Seguendo l'istesso metodo, che mi par
concludentissimo, poiché veggiamo che la Luna viene alla congiunzione ed
all'opposizione del Sole, è necessario dire che il suo cerchio abbracci
la Terra; ma non bisogna già che egli abbracci il Sole, perché quando
ella fusse verso la congiunzione, non si mostrerebbe falcata, ma sempre rotonda
e piena di lume; oltre che già mai non potrebbe ella farci, come spesse
volte fa, l'eclisse del Sole, con l'interporsi tra esso e noi. È dunque
necessario assegnarle un cerchio intorno alla Terra, qual sarebbe questo N P,
sí che costituita in P ci apparisca dalla Terra A congiunta co 'l Sole, onde
possa talora eclissarlo, e posta in N si vegga opposta al Sole, ed in tale
stato possa cadere nell'ombra della Terra ed oscurarsi.
SALV. Ora che faremo, signor Simplicio, delle
stelle fisse? Vogliamole por disseminate per gl'immensi abissi dell'universo,
in diverse lontananze da qualsivoglia determinato punto, o pur collocate in una
superficie sfericamente distesa intorno a un suo centro, sí che ciascheduna di
loro sia dal medesimo centro egualmente distante?
SIMP. Piú tosto torrei una strada di mezo, e gli
assegnerei un orbe descritto intorno a un determinato centro e compreso dentro
a due superficie sferiche, cioè una altissima concava e l'altra
inferiore convessa, tra le quali costituirei l'innumerabil moltitudine delle
stelle, ma però in diverse altezze; e questa si potrebbe chiamar la
sfera dell'universo, continente dentro di sé gli orbi de i pianeti, già
da noi disegnati.
SALV. Adunque già aviamo noi, signor
Simplicio, sin qui ordinati i corpi mondani giusto secondo la distribuzion del
Copernico, e ciò si è fatto di propria mano vostra: e di piú a
tutti avete voi assegnati movimenti proprii, eccettuatone il Sole, la Terra e
la sfera stellata; ed a Mercurio con Venere avete attribuito il moto circolare
intorno al Sole, senza abbracciar la Terra: intorno al medesimo Sole fate
muover li tre superiori, Marte, Giove e Saturno, comprendendo la Terra dentro a
i cerchi loro; la Luna poi non può muoversi in altra maniera che intorno
alla Terra, senza abbracciar il Sole: e pure in questi moti convenite voi
ancora co 'l medesimo Copernico. Restano ora da decidere, tra il Sole, la Terra
e la sfera stellata, tre cose: cioè la quiete, che apparisce esser della
Terra; il movimento annuo sotto il zodiaco, che apparisce esser del Sole; e il
movimento diurno, che apparisce esser della sfera stellata, con participarlo a
tutto il resto dell'universo, eccettuatone la Terra. Ed essendo vero che tutti
gli orbi de' pianeti, dico di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno, si
muovono intorno al Sole, come centro loro, di esso Sole par tanto piú
ragionevole che sia la quiete che della Terra, quanto di sfere mobili è
piú ragionevole che il centro stia fermo, che alcun altro luogo da esso centro
remoto: alla Terra, dunque, la qual resta costituita in mezo a parti mobili,
dico tra Venere e Marte, che l'una fa la sua revoluzione in nove mesi e l'altro
in due anni, molto acconciamente si può attribuire il movimento d'un
anno, lasciando la quiete al Sole. E quando ciò sia, segue per
necessaria conseguenza che anco il moto diurno sia della Terra: imperocché se,
stando fermo il Sole, la Terra non si rivolgesse in se stessa, ma solo avesse
il movimento annuo intorno al Sole, il nostro anno non sarebbe altro che un
giorno ed una notte, cioè sei mesi di giorno e sei mesi di notte,
com'altra volta s'è detto. Vedete poi quanto acconciamente vien levato
dall'universo il precipitosissimo moto delle 24 ore, e come le stelle fisse,
che sono tanti Soli, conforme al nostro Sole godono una perpetua quiete. Vedete
in oltre quanta agevolezza si trovi in questo primo abbozzamento, per render le
ragioni di apparenze tanto grandi ne' corpi celesti.
SAGR. Io la scorgo benissimo; ma sí come voi da
questa simplicità raccogliete gran probabilità per la
verità di cotal sistema, altri forse per l'opposito ne potrebbe far
contrarie deduzioni, dubitando, non senza ragione, come, essendo tal
costituzione antichissima de' Pittagorici e tanto bene accomodata
all'apparenze, abbia poi nel progresso di migliaia d'anni auto cosí pochi
seguaci, e sia sin da Aristotile medesimo stata rifiutata, e doppo l'istesso
Copernico vadia continuando nell'istessa fortuna.
SALV. Se voi, signor Sagredo, vi foste alcuna volta
abbattuto, sí com'io molte e molte volte incontrato mi sono, a sentir quali
sorte di scempiezze bastano a render contumace ed impersuasibile il vulgo al
prestar l'orecchio, non che l'assenso, a queste novità, credo che assai
in voi si diminuirebbe la meraviglia del trovarsi cosí pochi seguaci di tale
opinione; ma poca stima, per mio parere, si deve fare di cervelli a i quali,
per confermargli e fissamente ritenergli nell'immobilità della Terra,
concludentissima dimostrazione è il vedere come stamani non saranno a
desinar in Costantinopoli né stasera a cena nel Giappone, e che son certi che
la Terra, come gravissima, non può montar su sopra il Sole e poi a
rompicollo calare a basso. Di questi tali, il numero de' quali è infinito,
non bisogna tener conto né registrar le loro sciocchezze e cercar di fare
acquisto d'uomini nella cui difinizione entra solo il genere e manca la
differenza, per avergli per compagni nelle opinioni sottilissime e
delicatissime. In oltre, qual guadagno credereste voi di poter mai fare con
tutte le dimostrazioni del mondo in cervelli tanto stolidi, che non sono per se
stessi bastanti a conoscer le lor cosí estreme pazzie? Ma la mia, signor
Sagredo, è molto differente dalla vostra meraviglia: voi vi maravigliate
che cosí pochi siano seguaci della opinione de' Pitagorici; ed io stupisco come
si sia mai sin qui trovato alcuno che l'abbia abbracciata e seguita, né posso a
bastanza ammirare l'eminenza dell'ingegno di quelli che l'hanno ricevuta e
stimata vera, ed hanno con la vivacità dell'intelletto loro fatto forza
tale a i proprii sensi, che abbiano possuto antepor quello che il discorso gli
dettava, a quello che le sensate esperienze gli mostravano apertissimamente in
contrario. Che le ragioni contro alla vertigine diurna della Terra, già
esaminate da voi, abbiano grandissima apparenza, già l'abbiamo veduto, e
l'averle ricevute per concludentissime i Tolemaici, gli Aristotelici e tutti i
lor seguaci, è ben grandissimo argomento della loro efficacia; ma quelle
esperienze che apertamente contrariano al movimento annuo, son ben di tanto piú
apparente repugnanza, che (lo torno a dire) non posso trovar termine
all'ammirazion mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la
ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona
della loro credulità.
SAGR. Adunque siamo per avere altri contrasti
gagliardi contro a questo movimento annuo ancora?
SALV. Siamo; e tanto evidenti e sensati, che se
senso superiore e piú eccellente de i comuni e naturali non si accompagnava con la ragione, dubito
grandemente che io ancora sarei stato assai piú ritroso contro al sistema
Copernicano, di quello che stato non sono doppo che piú chiara lampada che la
consueta mi ha fatto lume.
SAGR. Or dunque, signor Salviati, vegnamo, come si
dice, alle strette, ché ogni parola che si spende in altro mi par gettata via.
SALV. Eccomi a servirvi.
[SIMP. Di grazia, signori, permettetemi che io
riduca a tranquillità la mia mente, che ora mi ritrovo molto fluttuante
per certo particolare pur ora tocco dal signor Salviati, acciò che io
possa poi, spianate che siano l'onde, piú distintamente ricever le vostre
specolazioni: imperò che non ben s'imprimano le spezie nello speccio
ondeggiante, come il Poeta latino graziosamente ci espresse dicendo: … nuper
me in littore vidi cum placidum ventis staret mare. <«al lido or ora mi
vidi, | placido essendo il mare di venti» (Virgilio,
Bucoliche, ecloga II, 25-26)>
SALV. Voi avete molto ben ragione, e però
dite i vostri dubbii.
SIMP Voi avete ultimamente spacciati per egualmente
d'ingegno ottuso quelli che negano alla Terra il moto diurno, perché non si
veggono da quello trasportare in Persia o nel Giappone, e quelli che son
contrarianti al moto annuo per la repugnanza che sentono nel dovere ammettere
che la vastissima e gravissima mole del globo terrestre possa sollevarsi in
alto e quindi calare abasso, come converrebbe che facesse quando intorno al
Sole con tal movimento si rigirasse: ed io, non prendendo rossore d'essere
annumerato tra questi sciocchi, sento l'istessa repugnanza nel mio cervello,
quanto però a questo secondo punto che oppone al moto annuo, e
massimamente mentre veggo quanta resistenza faccia all'esser mossa anco per
piano, non dirò una montagna ma una pietra che piccola parte sia d'una
rupe alpestre. Però, non disprezzando affatto simili instanze, vi prego
a risolverle, e non solo per me, quanto per altri, a i quali sembrano
concludentissime; perché ho per assai difficile che alcuno, per semplice che
sia, conosca e confessi la sua semplicità, mosso dal solo sentirsi
reputare per tale.
SAGR. Anzi, quanto piú semplice, tanto piú
sarà egli impersuasibile del suo difetto. E con questa occasione vo
considerando come non solamente per sodisfare al signor Simplicio, ma per altro
rispetto ancora, non meno importante, è bene risolver questa ed altre
instanze di simil sorte; poiché si vede che non mancano uomini, nella comune
filosofia ed in altre scienze versatissimi, che, per mancamento o
dell'astronomia o delle matematiche o di qual altra facoltà si sia che
acuisce l'ingegno alla penetrazion del vero, restano persuasi da discorsi tanto
vani: per lo che mi par degna di commiserazione la condizione del povero
Copernico, il quale non si può tener sicuro che la censura delle sue
dottrine non possa per avventura cadere in mano di persone, che non sendo abili
a restar capaci delle sue ragioni sottilissime e per ciò difficili ad
esser comprese ma ben di già persuasi da simili vane apparenze della
falsità di quelle, per false e per erronee le vadano predicando. Per lo
che, quando non si potessero render capaci di quelle piú astruse, è bene
procurare che conoscano la nullità di queste altre, dalla qual
cognizione venga moderato il giudizio e la condanna della dottrina che ora
tengano per erronea. Recherò dunque due altre obiezzioni, ma contro al
moto diurno, le quali non è molto che sentii produrre da persone di gran
litteratura, e poi verremo al moto annuo. La prima fu, che quando fusse vero
che non il Sole e l'altre stelle si sollevassero sopra l'orizonte orientale, ma
che la parte orientale della Terra se gli abbassasse sotto, restando quelle
immobili, bisognerebbe che di lí a poche ore le montagne situate a levante
declinando in giú mediante la conversion del globo terrestre, si riducessero in
tale stato, che dove poco fa per ascendere al lor giogo conveniva caminare
all'erta, convenisse di poi, per condursi lassú, scendere alla china. L'altra
fu, che quando il moto diurno fusse della Terra, doverebbe esser tanto veloce,
che uno costituito nel fondo di un pozzo non potrebbe se non per un momento di
tempo vedere una stella che gli fusse sopra 'l vertice, non la potendo egli
vedere se non quel brevissimo tempo nel quale passa 2 o 3 braccia della
circonferenza della Terra, ché tanta sarà la larghezza del pozzo: tutta
via si vede per esperienza che il passaggio apparente di tale stella, nel
traversare il pozzo, consuma assai lungo tempo; argomento necessario che la
bocca del pozzo non si muove altramente con quella furia che converrebbe alla
diurna conversione, e, per consequenza, che la Terra è immobile.
SIMP. Di questi 2 argomenti, il secondo veramente
mi pare assai concludente: ma quanto al primo, crederei di potermi da per me
stesso disbrigare, mentre considero che l'istesso è che il globo
terrestre, rivolgendosi intorno al proprio centro, porti una montagna verso
levante, che se, stando fermo il globo, la montagna, svelta dalla radice, fusse
strascicata sopra la Terra; ed il portare il monte sopra la superficie della
Terra non veggo che sia differente operazione dal condurre una nave per la
superficie del mare: onde, tuttavolta che l'instanza del monte valesse, ne
seguirebbe parimente che, continuando la nave il suo viaggio, discostata che
ella si fusse da i nostri porti per molti gradi, ci convenisse per andare sopra
'l suo albero non piú salire, ma muoversi per la piana e poi ancora scendere;
il che non accade, né io ho mai sentito alcun marinaro, etiam di quelli
che hanno circondato tutto 'l globo, che ponga differenza veruna circa tale
operazione, né intorno ad alcun altro ministerio che si faccia in nave, per
ritrovarsi il vassello piú in questa che in qualsivoglia altra parte.
SALV. Voi molto ben discorrete: e se all'autore di
quella instanza fusse mai caduto in mente di considerare che la sua vicina
montagna, postagli a levante, quando il globo terrestre girasse, di lí a 2 ore
per tal moto si troverebbe condotta colà dove ora si trova, verbigrazia,
il monte Olimpo o 'l Carmelo, arebbe compreso come dal suo proprio modo di
argomentare si costrigneva a credere e confessare che per andare nel vertice di
detti monti, de facto conviene sciendere. Questi sono di quei cervelli
atti a negar gli antipodi, atteso che non si può caminare col capo
all'ingiú e coi piedi attaccati al palco; questi da concetti veri, ed anco
perfettamente intesi da loro, non sanno poi dedur soluzioni facilissime a i lor
dubbi: voglio dire che benissimo intendono che il gravitare e lo sciendere
è tendere verso 'l centro del globo terrestre, e che 'l salire è
il discostarsene; si perdono poi nell'intendere che gli antipodi nostri per
sostenersi e caminare non hanno difficoltà veruna, perché fanno giusto
come noi, cioè tengono le piante de' piedi verso 'l centro della Terra e
'l capo verso 'l cielo.
SAGR. E pur sappiamo, uomini in altre dottrine di
subblimi ingegni essersi abbagliati in tali cognizioni; dal che tanto
maggiormente vien confermato quello che pur ora dicevo, cioè che
è bene rimuover tutte le obbiezzioni, ancor che debolissime: e
però rispondasi pur ancora a quei del pozzo.
SALV Questo secondo argomento ha bene in apparenza
un non so che piú del concludente; tutta via io tengo per fermo che quando si
potesse interrogare quell'istesso a chi e' sovvenne, acciò meglio si
spiegasse con dichiarare qual sia precisamente l'effetto che dovrebbe seguire,
e che gli par che non segua, posta la conversion diurna esser della Terra,
credo, dico, che egli si avvilupperebbe nell'espor la sua difficoltà con
le sue conseguenze, forse non meno di quel ch'e' farebbe nello svilupparsene
col pensarvi.
SIMP. S'io debbo dire 'l vero, stimo certo che cosí
accaderebbe, imperò che io ancora di presente mi trovo nella medesima
confusione: perché mi pare che l'argomento stringa, quanto alla prima
apprensione; ma all'incontro veggo come per nebbia che se il discorso
procedesse rettamente, quella immensa rapidità di corso che si dovrebbe
scorger nella stella quando il moto fusse della Terra, si doverebbe ancora,
anzi molto piú, scorger nella medesima quando il moto fusse suo, dovendo esser
molte migliaia di volte piú veloce nella stella che nella Terra. All'incontro
poi, l'aversi a perder la vista della stella per il solo trapasso della bocca
del pozzo, che sarà poi 2 o tre braccia di diametro, mentre il pozzo con
la Terra ne trapassano assai piú di
SALV. Ora mi confermo io maggiormente nel credere
la confusione dell'autor dell'instanza, mentre veggo che voi ancora, signor
Simplicio, adombrate, né ben possedete, quello che dir vorreste: il che
raccolgo io principalmente dal tralasciar voi una distinzione, che è un
punto principalissimo in questa faccenda. Però ditemi se nel far questa
esperienza, dico di questo trapasso di stella sopra la bocca del pozzo, voi
fate differenza veruna dall'essere il pozzo piú o men profondo, cioè
dall'esser quello che osserva piú o men distante dalla bocca; perché non vi ho
sentito far caso sopra ciò.
SIMP. Veramente non ci ho applicato il pensiero, ma
ben la vostra interrogazione mi sveglia la mente, e mi accenna, tal distinzione
dovere esser necessariissima; e già comincio a comprendere che per
determinare il tempo di tal passaggio, la profondità del pozzo
può per avventura arrecar diversità non minore che la larghezza.
SALV. Anzi pur vo io dubitando che la larghezza non
ci abbia che far niente, o pochissimo.
SIMP. E pur mi pare che dovendo scorrer 10 braccia
di larghezza ricerchi dieci volte piú tempo che il trapasso di un braccio: e
son sicuro che una barchetta lunga 10 braccia prima mi trapasserà
innanzi alla vista, che una galera lunga cento.
SALV. E pur persistiamo ancora in quello inveterato
concetto, di non ci muover se non tanto quanto le nostre gambe ci portano.
Questo che voi dite, signor Simplicio mio, è vero quando l'oggetto veduto
si muove stando voi fermo a osservarlo; ma se voi sarete nel pozzo quando il
pozzo e voi insieme siate portati dalla terrestre conversione, non vedete voi
che né in un'ora né in mille né in eterno sarete trapassato dalla bocca del
pozzo? Quello che in tal caso operi in voi il muoversi o non muoversi la Terra,
non può riconoscersi nella bocca del pozzo, ma in altro oggetto separato
e che non partecipi della medesima condizione, dico di moto o di quiete.
SIMP. Tutto sta bene: ma posto che io, stando nel
pozzo, sia portato di conserva con esso dal moto diurno, e che la stella da me
veduta sia immobile, non essendo l'apertura del pozzo, che sola dà il
passaggio alla mia vista, piú di tre braccia de i tanti milioni di braccia del
resto della superficie terrestre, che la vista m'impedisce, come potrà
essere il tempo della veduta sensibil parte di quello dell'occultazione?
SALV. E pur ricadete nel medesimo equivoco: ed in
effetto sete bisognoso di chi v'aiuti a uscirne. Non è, signor
Simplicio, la larghezza del pozzo quella che misura il tempo dell'apparizion
della stella, perché cosí la vedreste perpetuamente, essendo che perpetuamente
la bocca del pozzo dà il transito alla vostra vista; ma tal misura si
deve prendere dalla quantità del cielo immobile, che per l'apertura del
pozzo vi resta visibile.
SIMP. Ma quello che mi si scuopre del cielo non
è egli tal parte di tutta la sfera celeste, quale è la bocca del
pozzo di tutta la terrestre?
SALV. Voglio che vi rispondiate da voi medesimo;
però ditemi, se la bocca del medesimo pozzo è sempre la medesima
parte della superficie terrena.
SIMP. È senza dubbio la medesima sempre.
SALV. E la parte del cielo veduta da quello che
è nel pozzo, è ella sempre la medesima quantità di tutta
la sfera celeste?
SIMP. Ora comincio a disottenebrarmi la mente e a
intender quello che poco fa mi accennaste, e che la profondità del pozzo
ha che fare assai nel presente negozio; perché non è dubbio che quanto
piú si allontanerà l'occhio dalla bocca del pozzo, minor parte del cielo
si scoprirà, la qual poi, in consequenza, piú presto verrà
trapassata e persa di vista da colui che dal profondo del pozzo la
rimirerà
SALV. Ma èvv'egli luogo alcuno nel pozzo dal
quale si scoprisse tal parte appunto della celeste sfera, quale è la
bocca del pozzo della superficie terrena?
SIMP. Parmi che quando si profondasse il pozzo sino
al centro della Terra, forse di là si scoprirebbe una parte di cielo,
che sarebbe di lui quale è il pozzo della Terra. Ma discostandosi dal
centro e salendo verso la superficie, si vien sempre scoprendo parte maggiore
di esso cielo.
SALV. E finalmente, posto l'occhio nel
piano della bocca del pozzo, si scuopre la metà del cielo o pochissimo
meno, per la qual passare (dato che noi fussimo sotto l'equinoziale) ci vuol 12
ore di tempo.] Già vi ho disegnato la forma del sistema Copernicano:
contro alla verità del quale muove prima fierissimo assalto Marte
istesso, il quale, quando fusse vero che variasse tanto le sue distanze dalla
Terra che dalla minima alla massima lontananza ci fusse differenza quanto
è due volte dalla Terra al Sole, sarebbe necessario che quando è
a noi vicinissimo si mostrasse il suo disco piú di 60 volte maggiore di quello
che si mostra quando è lontanissimo; tuttavia tal diversità di
apparente grandezza non ci si scorge, anzi nella opposizione al Sole, quando
è vicino alla Terra, non si mostra né anco 4 o 5 volte piú grande che
quando, verso la congiunzione, viene occultato sotto i raggi del Sole. Altra e
maggior difficultà ci fa Venere, che se girando intorno al Sole, come
afferma il Copernico, gli fusse ora sopra ed ora sotto, allontanandosi ed
appressandosi a noi quanto verrebbe ad esser il diametro del cerchio da lei
descritto, quando fusse sotto il Sole e a noi vicinissima, dovrebbe il suo
disco mostrarcisi poco meno di 40 volte maggiore che quando è superiore
al Sole, vicina all'altra sua congiunzione; tutta via la differenza è
quasi impercettibile. Aggiugnesi un'altra difficultà: che quando il
corpo di Venere sia per se stesso tenebroso, e solo risplenda, come la Luna,
per l'illuminazion del Sole, come par ragionevole, quando ella si ritrova sotto
il Sole, dovrebbe mostrarcisi falcata, come la Luna quando parimente
ell'è vicina al Sole: accidente che in lei non apparisce; per lo che il
Copernico pronunziò che ella o fusse lucida per se medesima, o che la
sua materia fusse tale, che potesse imbeversi del lume solare e quello
trasmettere per tutta la sua profondità, sí che potesse mostrarcisi
sempre risplendente: ed in questo modo scusò il Copernico il non mutar
figura in Venere; ma della poco variata grandezza di lei non disse cosa veruna,
e di Marte assai meno del suo bisogno, credo per non poter a sua sodisfazion
salvare un'apparenza tanto repugnante alla sua posizione: e pur, persuaso da
tanti altri rincontri, ci si mantenne, e l'ebbe per vera. Oltre a queste cose,
il far che tutti i pianeti, insieme con la Terra, si muovano intorno al Sole,
come centro delle lor conversioni, e che la Luna sola perturbi cotale ordine,
ed abbia il suo movimento proprio intorno alla Terra, e che insieme insieme ed
essa e la Terra e tutta la sfera elementare si muova in un anno intorno al
Sole, par che alteri in guisa l'ordine, che lo renda inverisimile e falso.
Queste son quelle difficultà che mi fanno maravigliare come Aristarco e
il Copernico, che non può esser che non l'abbiano osservate, non le
avendo poi potute risolvere, ad ogni modo abbiano per altri mirabili riscontri
confidato tanto in quello che la ragione gli dettava, che pur confidentemente
abbiano affermato, non poter la struttura dell'universo avere altra forma che
la da loro disegnata. Ci sono poi altre gravissime e bellissime
difficultà, non cosí agevoli da esser risolute da gli ingegni mediocri,
ma però penetrate e dichiarate dal Copernico, le quali noi rimetteremo
piú di sotto, doppo che averemo risposto ad altre opposizioni di altri, che si
mostrano contrarie a questa posizione. Ora venendo alle dichiarazioni e
risposte alle tre addotte gravissime obiezioni, dico che le due prime non
solamente non contrariano al sistema Copernicano, ma grandemente ed
assolutamente lo favoriscono; perché e Marte e Venere si mostrano diseguali a
se stessi, secondo le proporzioni assegnate, e Venere sotto il Sole si mostra
falcata, e va puntualmente mutando sue figure nello stesso modo che fa la Luna.
SAGR. Ma com'è stato questo occulto al
Copernico, e manifesto a voi?
SALV. Queste cose non possono esser comprese se non
co 'l senso della vista, il quale da natura non è stato conceduto a gli
uomini tanto perfetto, che sia potuto arrivare a discerner tali differenze;
anzi pur lo strumento stesso del vedere a se medesimo reca impedimento: ma
doppo che all'età nostra è piaciuto a Dio di concedere all'umano
ingegno tanto mirabil invenzion, di poter perfezionar la nostra vista co 'l
multiplicarla 4, 6, 10, 20, 30 e 40 volte, infiniti oggetti che, o per la loro
lontananza o per la loro estrema piccolezza, ci erano invisibili, si sono co 'l
mezo del telescopio resi visibilissimi.
SAGR. Ma Venere e Marte non sono de gli oggetti
invisibili per la lor lontananza o piccolezza, anzi pur gli comprendiamo noi
con la semplice vista naturale: perché dunque non distinguiamo noi le
differenze delle grandezze e figure loro?
SALV. In questo ci ha gran parte l'impedimento del
nostro occhio stesso, come pur ora vi ho accennato, dal quale gli oggetti
risplendenti e lontani non ci vengono rappresentati semplici e schietti; ma ce
gli porge inghirlandati di raggi avventizii e stranieri, cosí lunghi e folti,
che il lor nudo corpicello ci si mostra ingrandito 10, 20, 100 e mille volte
piú di quello che ci si rappresenterebbe quando se gli levasse il capellizio
radioso non suo.
SAGR. Ora mi sovviene d'aver letto non so che in
questa materia, non so se nelle Lettere Solari o nel Saggiatore
del nostro amico comune: ma non sarà se non bene, sí per ridurlo in
memoria a me sí per intelligenza del signor Simplicio, che forse non ha viste
tali scritture, dichiararci piú distintamente come sta questo negozio, la cui
cognizione penso che sia molto necessaria per ben restar capace di quello che
ora si tratta.
SIMP. A me veramente giugne nuovo tutto quello che
di presente vien portato dal signor Salviati; ché, per dire il vero, non ho
auto curiosità di legger cotesti libri, né ho sin qui prestato molta
fede all'occhiale nuovamente introdotto, anzi, seguendo le pedate de gli altri
filosofi peripatetici miei consorti, ho creduto esser fallacie e inganni de i
cristalli quelle che altri hanno ammirate per operazioni stupende: e
però, quando io sia sin qui stato in errore, mi sarà caro d'esserne
cavato; e allettato dall'altre novità udite da voi, starò piú
attentamente a sentire il resto.
SALV. La confidenza che hanno questi tali uomini
del proprio loro accorgimento è non meno fuor di ragione di quel che sia
la poca stima che fanno del giudizio altrui; ed è gran cosa che si
stimino atti a poter giudicar meglio d'un tale strumento senza averlo mai
sperimentato, che quelli che mille e mille esperienze ne hanno fatte e ne fanno
ogni giorno. Ma lasciamo, di grazia, questa sorta di pervicaci, che non si
possono né anco tassare senza onorargli piú che non meritano: e tornando al
nostro proposito, dico che gli oggetti risplendenti, o sia che il loro lume si
refranga nella umidità che è sopra le pupille, o si refletta ne
gli orli delle palpebre, spargendo i suoi raggi reflessi sopra le medesime
pupille, o sia pur per altra cagione, si mostrano all'occhio nostro circondati
di nuovi raggi, e perciò maggiori assai di quello che ci si
rappresenterebbero i corpi loro spogliati di tale irradiazione; e questo
ingrandimento si fa con maggiore e maggior proporzione secondo che tali oggetti
lucidi son minori e minori; in quella guisa appunto che se noi supponessimo che
il ricrescimento de' crini risplendenti fusse, verbigrazia, quattro dita, la
qual giunta fatta intorno a un cerchio che avesse quattro dita di diametro
accrescerebbe nove volte la sua apparente grandezza, ma…
SIMP. Dubito che voi abbiate voluto dir tre volte;
perché aggiunto quattro dita di qua e quattro di là al diametro d'un
cerchio che sia pur quattro dita, si viene a triplicar la sua quantità,
e non a crescerla nove volte.
SALV. Un poco di geometria, signor Simplicio.
È vero che 'l diametro cresce tre volte, ma la superficie, che è
quella della quale noi parliamo, cresce nove volte; perché, signor Simplicio,
le superficie de i cerchi son fra di loro come i quadrati de i lor diametri, ed
un cerchio che abbia quattro dita di diametro ad un altro che ne abbia dodici
ha quella proporzione che ha il quadrato di quattro al quadrato di dodici, cioè
che ha
SAGR. La difficultà che ha dato fastidio al
signor Simplicio, veramente non l'ha dato a me, ma son bene alcune altre cose
delle quali io desidero piú chiara intelligenza; ed in particolare vorrei
intendere sopra qual fondamento voi affermate che tale ricrescimento sia sempre
eguale in tutti gli oggetti visibili.
SALV. Già mi son io in parte dichiarato,
mentre ho detto ricrescer solamente gli oggetti lucidi, e non gli oscuri; ora
aggiungo il rimanente: che degli oggetti risplendenti quelli che son di luce
piú viva, maggior fanno e piú forte la reflessione sopra la nostra pupilla,
onde molto piú mostrano d'ingrandirsi che i manco lucidi. E per non mi
distender piú lungamente sopra questo particolare, venghiamo a quello che la
vera maestra ci insegna. Guardiamo questa sera, quando l'aria sia bene scurita,
la stella di Giove; noi la vedremo raggiante assai e molto grande: facciamo poi
passar la vista nostra per un cannello, o anco per un piccolo spiraglio che,
strignendo il pugno ed accostandocelo all'occhio, lasceremo tra la palma della
mano e le dita, o veramente per un foro fatto con un sottile ago in una carta;
vedremo il disco del medesimo Giove spogliato de i raggi, ma cosí piccolo che
ben lo giudicheremo minore anco della sessantesima parte di quello che ci
apparisce la sua gran fiaccola veduta con l'occhio libero: potremo doppo
riguardare il Cane, stella bellissima e maggior di tutte l'altre fisse, la
quale all'occhio libero si rappresenta non gran fatto minor di Giove; ma
toltagli poi nel modo detto la capellatura, si vedrà il suo disco cosí
piccolo, che ben non si giudicherà la ventesima parte di quel di Giove,
anzi chi non è di vista perfettissima a gran fatica lo scorgerà:
dal che si può ragionevolmente concludere che tale stella, come quella che
è di un lume grandemente piú vivo che quel di Giove, fa la sua
irradiazione maggiore che Giove la sua. L'irradiazion poi del Sole e della Luna
è come nulla, mediante la grandezza loro, la quale occupa per sé sola
tanto spazio nell'occhio nostro, che non lascia luogo per i raggi avventizii;
tal che i dischi loro si veggono tosi e terminati. Potremo assicurarci della
medesima verità con un'altra esperienza, da me piú volte fatta;
assicurarci, dico, come i corpi splendenti di luce piú vivace si irraggiano
assai piú che quelli che sono di luce piú languida. Io ho piú volte veduto
Giove e Venere insieme, lontani dal Sole 25 o 30 gradi, ed essendo l'aria assai
imbrunita, Venere pareva bene 8 ed anco 10 volte maggior di Giove, mentre
però si riguardavono con l'occhio libero; ma guardati poi co 'l
telescopio, il disco di Giove si scorgeva veramente maggior quattro e piú volte
di quel di Venere, ma la vivacità dello splendor di Venere era
incomparabilmente maggiore della luce languidissima di Giove: il che da altro
non procedeva che dall'esser Giove lontanissimo dal Sole e da noi, e Venere
vicina a noi ed al Sole. Dichiarate queste cose, non sarà difficile a
intender come possa esser che Marte, quand'è all'opposizion del Sole, e
però vicino a Terra sette volte e piú che quando è verso la
congiunzione, appena ci si mostri maggiore 4 o 5 volte in quello stato che in
questo, mentre lo doveremmo vedere piú di 50 volte tanto: di che la sola
irradiazione è causa; ché se noi lo spoglieremo de i raggi avventizii,
lo troveremo precisamente ingrandito con la debita proporzione: per levargli
poi la chioma, il telescopio è l'unico e l'ottimo mezo, il quale,
ingrandendo il suo disco 900 o mille volte, ce lo fa veder nudo e terminato
come quel della Luna, e differente da se stesso nelle due posizioni secondo la
debita proporzione a capello. In Venere poi, che nella sua congiunzion
vespertina, quando è sotto il Sole, si dovrebbe mostrar quasi 40 volte
maggiore che nell'altra congiunzion mattutina, e pur non si vede né anco
raddoppiata, accade, oltre all'effetto della irradiazione, ch'ell'è
falcata, e le sue corna, oltre all'esser sottili, ricevono il lume del Sole
obliquamente, e però assai languido, talché, per esser poco e debile,
meno ampla e vivace si fa la sua irradiazione che quando si mostra a noi co 'l
suo emisferio tutto lucido; ma però il telescopio apertamente ci mostra
le sue corna cosí terminate e distinte come quelle della Luna, e veggonsi come
di un cerchio grandissimo, ed a proporzione maggiori quelle quasi 40 volte del
suo medesimo disco, quando è superiore al Sole nell'ultima sua
apparizion mattutina.
SAGR. Oh Niccolò Copernico, qual gusto
sarebbe stato il tuo nel veder con sí chiare esperienze confermata questa parte
del tuo sistema!
SALV. Sí; ma quanto minore la fama della
sublimità del suo ingegno appresso a gl'intendenti! mentre si vede, come
pur dissi dianzi, aver egli costantemente continuato nell'affermare, scorto
dalle ragioni, quello di cui le sensate esperienze mostravano il contrario: che
io non posso finir di stupire ch'egli abbia pur costantemente voluto persistere
in dir che Venere giri intorno al Sole, ed a noi sia meglio di sei volte piú
lontana una volta che un'altra, e pur sempre si mostri eguale a se stessa,
quando ella dovrebbe mostrarsi quaranta volte maggiore.
SAGR. In Giove, in Saturno ed in Mercurio credo pur
che si devano veder ancor le differenze delle lor grandezze apparenti
puntualmente rispondere alle lor variate lontananze.
SALV. Ne' due superiori le ho io precisamente
osservate quasi ogni anno da ventidua anni in qua: in Mercurio non si
può fare osservazione di momento, per non si lasciar egli vedere se non
nelle sue massime digressioni dal Sole, nelle quali le sue distanze dalla Terra
sono insensibilmente diseguali e però tali differenze inosservabili, come
anco le mutazioni di figure, che assolutamente bisogna che seguano come in
Venere; e quando lo vediamo, dovrebbe mostrarsi in figura di mezo cerchio, come
fa Venere ancora nelle sue massime digressioni; ma il suo disco è tanto
piccolo e 'l suo splendore tanto vivace, per esser egli cosí vicino al Sole,
che non basta la virtú del telescopio a radergli il crine, sí che egli
apparisca tutto tosato. Restaci da rimuover quella che pareva grande
sconvenevolezza nel moto della Terra, cioè che, volgendosi tutti i pianeti
intorno al Sole, ella solamente non solitaria come gli altri, ma in compagnia
della Luna, insieme con tutta la sfera elementare, andasse in un anno intorno
al Sole, ed insieme insieme si movesse l'istessa Luna ogni mese intorno alla
Terra. Qui è forza esclamar un'altra volta ed esaltare l'ammirabil
perspicacità del Copernico ed insieme compiagner la sua disavventura,
poiché egli non vive al nostro tempo, quando, per tòr via l'apparente
assurdità del movimento in conserva della Terra e della Luna, vediamo
Giove, quasi un'altra Terra, non in conserva di una Luna, ma accompagnato da
quattro Lune, andare intorno al Sole in 12 anni, con tutto quello che
può esser contenuto dentro a gli orbi delle quattro stelle Medicee.
SAGR. Per qual cagione chiamate voi Lune i quattro
pianeti gioviali?
SALV. Tali si rappresentan elleno a chi stando in
Giove le riguardasse. Imperocché esse per se stesse son tenebrose, e dal Sole
ricevono il lume, il che è manifesto dal suo rimaner eclissate quando
entrano nel cono dell'ombra di Giove; e perché di esse vien solamente
illuminato l'emisferio che riguarda verso il Sole, a noi, che siamo fuor de i
loro orbi e piú vicini al Sole, si mostrano sempre tutte lucide; ma a chi fusse
in Giove si mostrerebbero tutte luminose quando fussero nelle parti superiori
de i lor cerchi, ma nelle parti inferiori, cioè tra Giove e 'l Sole, da
Giove si scorgerebbon falcate: ed in somma farebbero a i Gioviali le mutazioni
stesse di figure che a noi Terrestri fa la Luna. Vedete ora quanto mirabilmente
si accordano co 'l sistema Copernicano queste tre prime corde, che da principio
parevan sí dissonanti. Di qui potrà intanto il signor Simplicio vedere
con quanta probabilità si possa concludere che non la Terra, ma il Sole,
sia nel centro delle conversioni de i pianeti: e poiché la Terra vien collocata
tra i corpi mondani che indubitatamente si muovono intorno al Sole, cioè
sopra Mercurio e Venere, e sotto a Saturno, Giove e Marte, come parimente non
sarà probabilissimo e forse necessario concedere che essa ancora gli vadia
intorno?
SIMP. Questi accidenti son tanto grandi e cospicui,
che non è possibile che Tolomeo e gli altri suoi seguaci non ne abbiano
avuto cognizione; ed avendol auta, è pur necessario che abbiano ancor
trovata maniera di render di tali e cosí sensate apparenze sufficiente ragione,
ed anco assai congrua e verisimile, poiché per sí lungo tempo è stata
ricevuta da tanti e tanti.
SALV. Voi molto ben discorrete; ma sappiate che il
principale scopo de i puri astronomi è il render solamente ragione delle
apparenze ne i corpi celesti, ed ad esse ed a i movimenti delle stelle adattar
tali strutture e composizioni di cerchi, che i moti secondo quelle calcolati
rispondano alle medesime apparenze, poco curandosi di ammetter qualche
esorbitanza che in fatto, per altri rispetti, avesse del difficile: e l'istesso
Copernico scrive, aver egli ne' primi suoi studii restaurata la scienza
astronomica sopra le medesime supposizioni di Tolomeo, e in maniera ricorretti
i movimenti de i pianeti, che molto aggiustatamente rispondevano i computi
all'apparenze e l'apparenze a i calcoli, tuttavia però che si prendeva
separatamente pianeta per pianeta; ma soggiugne che nel voler poi comporre
insieme tutta la struttura delle fabbriche particolari, ne risultava un mostro
ed una chimera composta di membra tra di loro sproporzionatissime e del tutto
incompatibili, sí che, quantunque si sodisfacesse alla parte dell'astronomo
puro calcolatore, non però ci era la sodisfazione e quiete
dell'astronomo filosofo. E perché egli molto ben intendeva, che se con assunti
falsi in natura si potevan salvar le apparenze celesti, molto meglio ciò
si sarebbe potuto ottenere dalle vere supposizioni, si messe a ricercar
diligentemente se alcuno tra gli antichi uomini segnalati avesse attribuita al
mondo altra struttura che la comunemente ricevuta di Tolomeo; e trovando che
alcuni Pitagorici avevano in particolare attribuito alla Terra la conversion
diurna, ed altri il movimento annuo ancora, cominciò a rincontrar con
queste due nuove supposizioni le apparenze e le particolarità de i moti
de i pianeti, le quali tutte cose egli aveva prontamente alle mani, e vedendo
il tutto con mirabil facilità corrisponder con le sue parti,
abbracciò questa nuova costituzione ed in essa si quietò.
SIMP. Ma quali esorbitanze sono nella costituzione
tolemaica, che maggiori non ne sieno in questa copernicana?
SALV. Sono in Tolomeo le infermità, e nel
Copernico i medicamenti loro. E prima, non chiameranno tutte le sette de i
filosofi grande sconvenevolezza che un corpo naturalmente mobile in giro si
muova irregolarmente sopra il proprio centro, e regolarmente sopra un altro
punto? e pur di tali movimenti difformi sono nella fabbrica di Tolomeo; ma nel
Copernico tutti sono equabili intorno al proprio centro. In Tolomeo bisogna assegnare
a i corpi celesti movimenti contrarii, e far che tutti si muovano da levante a
ponente ed insieme insieme da ponente verso levante; che nel Copernico son
tutte le revoluzion celesti per un sol verso, da occidente in oriente. Ma che
diremo noi dell'apparente movimento de i pianeti, tanto difforme che non
solamente ora vanno veloci ed ora piú tardi, ma talvolta del tutto si fermano,
ed anco dopo per molto spazio ritornano in dietro? per la quale apparenza
salvare introdusse Tolomeo grandissimi epicicli, adattandone un per uno a
ciaschedun pianeta, con alcune regole di moti incongruenti, li quali tutti con
un semplicissimo moto della Terra si tolgono via. E non chiamereste voi, signor
Simplicio, grandissimo assurdo se nella costruzion di Tolomeo, dove a ciascun
pianeta sono assegnati proprii orbi, l'uno superior all'altro, bisognasse bene
spesso dire che Marte, costituito sopra la sfera del Sole, calasse tanto che,
rompendo l'orbe solare, sotto a quello scendesse, ed alla Terra piú che il
corpo solare si avvicinasse, e poco appresso sopra il medesimo smisuratamente
si alzasse? e pur questa ed altre esorbitanze dal solo e semplicissimo
movimento annuo della Terra vengono medicate.
SAGR. Queste stazioni, regressi e
direzioni, che sempre mi son parse grandi improbabilità, vorrei io
meglio intendere come procedano nel sistema Copernicano.
SALV. Voi, signor Sagredo, le vedrete proceder
talmente, che questa sola coniettura dovrebbe esser bastante, a chi non fusse
più che protervo o indisciplinabile, a farlo prestar l'assenso a tutto
il rimanente di tal dottrina. Vi dico dunque che, nulla mutato nel movimento di
Saturno di 30 anni, in quel di Giove di
Voi vedete, Signori, con quanta agevolezza e
simplicità il moto annuo, quando fusse della Terra, si accomoda a render
ragione delle apparenti esorbitanze che si osservano ne i movimenti de i cinque
pianeti, Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio, levandole via tutte e
riducendole a moti equabili e regolari; e di questo maraviglioso effetto
è stato Niccolò Copernico il primo che ci ha resa manifesta la
cagione. Ma di un altro, non men di questo ammirando e che con nodo forse di
piú difficile scioglimento strigne l'intelletto umano ad ammetter questa annua
conversione e lasciarla al nostro globo terrestre, nuova ed inopinata
coniettura ce n'arreca il Sole stesso, il quale mostra di non aver voluto esso
solo sfuggir l'attestazione di una conclusione tanto insigne, anzi, come
testimonio maggior di ogni eccezione, ci è voluto essere a parte.
Sentite dunque l'alta e nuova maraviglia.
Fu il primo scopritore ed osservatore delle macchie
solari, sí come di tutte l'altre novità celesti, il nostro Academico
Linceo; e queste scopers'egli l'anno 1610, trovandosi ancora alla lettura delle
Matematiche nello Studio di Padova, e quivi ed in Venezia ne parlò con
diversi, de i quali alcuni vivono ancora: ed un anno doppo le fece vedere in
Roma a molti Signori, come egli asserisce nella prima delle sue Lettere al
signor Marco Velsero, Duumviro d'Augusta. Esso fu il primo che, contro alle
opinioni de i troppo timidi e troppo gelosi dell'inalterabilità del
cielo, affermò tali macchie esser materie che in tempi brevi si
producevano e si dissolvevano; che, quanto al luogo, erano contigue al corpo
del Sole, e che intorno a quello si rigiravano, o vero, portate dall'istesso
globo solare, che in se stesso circa il proprio centro nello spazio quasi di un
mese si rivolgesse, finivano loro conversioni: il qual moto giudicò sul
principio farsi dal Sole intorno ad un asse eretto al piano dell'eclittica,
atteso che gli archi descritti da esse macchie sopra il disco del Sole
apparivano all'occhio nostro linee rette ed al piano dell'eclittica parallele;
le quali però venivano alterate in parte di alcuni movimenti
accidentarii, vaganti ed irregolari, a i quali elleno son sottoposte, e per i
quali tumultuariamente e senza ordine alcuno si vanno tra di loro mutando di
sito, ora accozzandosi molte insieme, ora disseparandosi, ed alcuna in piú
dividendosi, e grandemente mutandosi di figure, per lo piú molto stravaganti. E
benché tali incostanti mutazioni alterassero in parte il periodico primario
corso di esse macchie, non fecero però mutar pensiero all'amico nostro,
sí che ei credesse che di tali deviazioni fusse alcuna cagione essenziale e
ferma, ma continuò di credere che tutta l'apparente alterazione
derivasse da quelle accidentarie mutazioni; in quella guisa appunto che
accaderebbe a chi da lontane regioni osservasse il moto delle nostre nugole, le
quali si scorgerebbero muoversi di moto velocissimo, grande e costante, portate
dalla vertigine diurna della Terra (quando tal moto fusse suo) in
ventiquattr'ore per cerchi paralleli all'equinoziale, ma però alterati
in parte da i movimenti accidentarii cagionatigli da i venti, li quali verso
diverse parti del mondo casualmente le spingono. Occorse in questo tempo che il
signor Velsero gli mandò alcune lettere scritte da certo finto Apelle in
materia di queste macchie, ricercandolo con instanza che gli volesse
liberamente dire il suo parere sopra tali lettere, e di piú significargli qual
fusse l'opinion sua circa l'essenza di tali macchie: al che egli sodisfece con
tre Lettere, mostrando prima quanto fussero vani i pensieri di Apelle, e
scoprendogli secondariamente le proprie opinioni, con predirgli appresso che
assolutamente Apelle, consigliatosi meglio col tempo, era per venire nella sua
opinione, sí come poi seguí. E perché parve al nostro Academico (sí come parve
anco ad altri intelligenti delle cose della natura) d'avere investigato e
dimostrato nelle dette tre Lettere se non quanto si poteva dalla
curiosità umana desiderare e ricercare, almeno quanto si poteva per umani
discorsi conseguire in cotal materia, intermesse per alcun tempo (occupato in
altri studii) le continuate osservazioni, e solo per compiacere a qualche
amico, faceva seco tal volta alcuna osservazione alla spezzata; sin che
incontratosi meco, doppo alcuni anni, essendo noi nella mia villa delle Selve,
in una delle solari macchie solitaria, assai grande e densa, invitati anco da
una chiarissima e continuata serenità di cielo, si fecero a mia
richiesta osservazioni di tutto il transito di quella, appuntando
diligentemente sopra la carta i luoghi di giorno in giorno, nell'ora che il
Sole si trovava nel meridiano; ed accortici come il viaggio suo non era
altrimenti per linea retta, ma alquanto incurvata, venimmo in pensiero di fare
altre osservazioni di tempo in tempo: alla quale impresa gagliardamente ci
stimulò un concetto che repentinamente cascò in mente all'ospite
mio, e con tali parole mel conferí: «Filippo, a gran conseguenza mi par che ci
si apra la strada. Imperocché, se l'asse intorno al quale si rivolge il Sole
non è eretto perpendicolarmente al piano dell'eclittica, ma sopra di
quello è inclinato, come il pur ora osservato passaggio incurvato mi
accenna, tal coniettura avremo degli stati del Sole e della Terra, quale né sí
ferma né sí concludente da verun altro rincontro non ne è sin qui stata
somministrata». Io, risvegliato da sí alta promessa, gli feci instanza
acciò apertamente mi scoprisse il suo concetto. Ed egli: «Quando il moto
annuo sia della Terra per l'eclittica intorno al Sole, e che il Sole sia
costituito nel centro di essa eclittica, ed in quello si volga in se stesso non
intorno all'asse di essa eclittica (che sarebbe l'asse del movimento annuo
della Terra), ma sopra uno inclinato, strane mutazioni converrà che a
noi si rappresentino ne i movimenti apparenti delle macchie solari, quando ben
si ponga tale asse del Sole persister perpetuamente ed immutabilmente nella
medesima inclinazione ed in una medesima direzione verso l'istesso punto
dell'universo. Imperocché, camminandogli intorno il globo terrestre al moto
annuo, primieramente converrà che a noi, portati da quello, i passaggi
delle macchie ben talvolta appariscano fatti per linee rette, ma questo due
volte l'anno solamente, ed in tutti gli altri tempi si mostreranno fatti per
archi sensibilmente incurvati. Secondariamente, la curvità di tali archi
per una metà dell'anno ci apparirà inclinata al contrario di
quello che si scorgerà nell'altra metà; cioè per sei mesi
il convesso de gli archi sarà verso la parte superiore del disco solare,
e per gli altri 6 mesi verso l'inferiore. Terzo, cominciando ad apparire, e,
per cosí dire, a nascere, all'occhio nostro le macchie dalla parte sinistra del
disco solare, ed andando ad occultarsi e a tramontare nella parte destra, i
termini orientali, cioè delle prime comparite, per sei mesi saranno piú
bassi de i termini opposti delle occultazioni, e per altri sei mesi
accaderà per l'opposito, cioè che nascendo esse macchie da punti
piú elevati e da quelli descendendo, ne i corsi loro verranno ad ascondersi in
punti piú bassi, e per due giorni soli di tutto l'anno saranno tali termini, de
gli orti e de gli occasi, equilibrati; doppo i quali libramenti cominciando
pian piano l'inclinazione de i viaggi delle macchie, e di giorno in giorno
facendosi maggiore, in tre mesi giugnerà alla somma obbliquità, e
di lí cominciando a diminuirsi, in altrettanto tempo si ridurrà
all'altro equilibrio. Accaderà, per la quarta maraviglia, che il giorno
della massima obbliquità sarà l'istesso che quello del passaggio
fatto per linea retta, e nel giorno della librazione apparirà l'arco del
viaggio piú che mai incurvato: ne gli altri tempi poi, secondo che la pendenza
si andrà diminuendo e incamminandosi verso l'equilibrio, l'incurvazione
de gli archi de i passaggi, per l'opposito, si andrà agumentando».
SAGR. Io, signor Salviati mio, conosco che
l'interrompervi il discorso è mala creanza; ma non men cattiva stimo che
sia il lasciarvi diffonder piú lungamente in parole, mentre elle vengano, come
si dice, buttate al vento. Imperocché, a dirla liberamente, io non mi so formar
concetto alcuno distinto pur di una delle conclusioni che avete pronunziate: ma
perché, apprese cosí in generale ed in confuso, mi si rappresentano cose di
ammirabili conseguenze, vorrei pure in qualche maniera esserne fatto capace.
SALV. L'istesso che accade a voi, avvenne a me
ancora, mentre con nude parole mi furon portate dal mio ospite; il quale mi
agevolò poi l'intelligenza col figurarmi il fatto sopra uno strumento
materiale, che non fu altro che una semplice sfera, servendosi di alcuni de'
suoi cerchi, ma in altro uso di quello al quale comunemente sono ordinati. Ora,
in difetto della sfera, supplirò con farne disegni in carta, secondo che
bisognerà. E per rappresentare il primo accidente da me proposto, il
quale fu che i passaggi delle macchie due volte l'anno solamente potevano
apparir fatti per linee rette, figuriamoci questo punto O esser centro
dell'orbe magno, o vogliam dire dell'eclittica, e parimente ancora del globo
dell'istesso Sole, del quale, mediante la gran distanza che è tra esso e
la Terra, possiamo suppor noi terreni di vederne la metà; però
descriveremo questo cerchio A B C D intorno al medesimo centro O, il quale ci
rappresenti il termine estremo che divide e separa l'emisferio del Sole a noi
apparente dall'altro occulto. E perché l'occhio nostro, non meno che 'l centro
della Terra, s'intende esser nel piano dell'eclittica, nel quale è
parimente il centro del Sole, però, se ci rappresenteremo il corpo
solare esser segato dal detto piano, la sezione all'occhio nostro
apparirà una linea retta, quale sia la B O D;
e posta sopra di essa la perpendicolare A O C, sarà l'asse
di essa eclittica e del moto annuo del globo terrestre. Intendiamo ora il corpo
solare (senza mutar centro) rivolgersi in se stesso, non già intorno
all'asse A O C (che è l'eretto al piano dell'eclittica), ma intorno ad
uno alquanto inclinato, qual sia questo E O I, il quale asse fisso ed
immutabile si mantenga perpetuamente nella medesima inclinazione e direzione
verso i medesimi punti del firmamento e dell'universo; e perché nelle
revoluzioni del solar globo ciaschedun punto della sua superficie (trattone i
poli) descrive la circonferenza d'un cerchio, o maggiore o minore secondo ch'e'
si ritrova piú o men remoto da essi poli, preso il punto F egualmente distante
da quelli, segniamo il diametro F O G, che sarà perpendicolare all'asse
E I e sarà diametro del cerchio massimo descritto intorno a i poli E, I.
Posto ora che la Terra, e noi con lei, sia in tal luogo dell'eclittica che
l'emisferio del Sole a noi apparente venga terminato dal cerchio A B C D, il
quale, passando (come sempre fa) per i poli A, C, passi ancora per li E, I,
è manifesto che il cerchio massimo il cui diametro è F G,
sarà eretto al cerchio A B C D; al quale è perpendicolare il
raggio che dall'occhio nostro casca sopra il centro O; onde il medesimo raggio
cade nel piano del cerchio il cui diametro è F G, e però la sua
circonferenza ci apparirà una linea retta, e l'istessa che F G: per lo
che qualunque volta nel punto F fusse una macchia, venendo poi portata dalla
solar conversione, segnerebbe sopra la superficie del Sole la circonferenza di
quel cerchio che a noi appare una linea retta. Retto dunque apparirà il
suo passaggio; e retti ancora appariranno i movimenti di altre macchie le quali
nell'istessa revoluzione descrivessero minor cerchi, per esser tutti paralleli
al massimo, e l'occhio nostro posto in distanza immensa da quelli. Ora, se voi
considererete come, doppo che avrà scorso la Terra in sei mesi la
metà dell'orbe magno e si sarà costituita incontro all'emisferio
del Sole che ora ci è occulto, sí che il terminator della parte che
allor sarà veduta sia l'istesso cerchio A B C D, che pur passerà
per li poli E, I, intenderete che l'istesso accaderà de i viaggi delle
macchie, cioè che tutti appariranno fatti per linee rette: ma perché
tale accidente non ha luogo se non quando il terminator passa per i poli E, I,
ed esso terminatore di momento in momento, mediante il moto annuo della Terra,
si va mutando, però momentaneo è il suo passar per i poli fissi
E, I, ed in conseguenza momentaneo è il tempo dell'apparir diritti i
moti di esse macchie. Da questo che sin qui si è detto, si viene a
comprendere ancora come, essendo l'apparizione e principio del moto delle
macchie dalla parte F, procedendo verso G, i passaggi loro sono dalla sinistra,
ascendendo verso la destra; ma posta la Terra nella parte diametralmente
opposta, la comparsa delle macchie intorno a G sarà bene alla sinistra
del riguardante, ma il passaggio sarà descendente verso la destra F.
Figuriamoci ora la Terra esser situata per una quarta lontana dal presente
stato, e segniamo in quest'altra figura il terminatore A B C D e l'asse, come
prima, A C, per il quale passerebbe il piano del nostro meridiano, nel qual
piano sarebbe ancora l'asse della revoluzion del Sole, con i suoi poli, uno
verso di noi, cioè nell'emisferio apparente, il qual polo
rappresenteremo col punto E, e l'altro caderà nell'emisferio occulto, e
lo noto I. Inclinando dunque l'asse E I con la superior parte E verso noi, il
cerchio massimo descritto dalla conversion del Sole sarà questo B F D G,
la cui metà da noi veduta, cioè B F D, non piú ci apparirà
una linea retta, per non esser i poli E, I nella circonferenza A B C D, ma si
mostrerà incurvata e col suo convesso verso la parte inferiore C; ed
è manifesto che l'istesso apparirà di tutti i cerchi minori
paralleli al massimo B F D. Intendesi ancora, che quando la Terra sarà
diametralmente opposta a questo stato, sí che vegga l'altro emisferio del Sole,
il quale ora è occulto, vedrà del medesimo cerchio massimo la
parte D G B incurvata col suo convesso verso la parte superiore A; e i corsi
delle macchie in queste costituzioni saranno prima per l'arco B F D e poi per
l'altro D G B, e le lor prime apparizioni e l'ultime occultazioni, fatte
intorno a i punti B, D, saranno equilibrate, e non quelle piú o meno elevate di
queste.
Ma se noi porremo la Terra in tal luogo dell'eclittica, che né il
finitore A B C D né il meridiano AC passi per i poli dell'asse E I, come adesso
vi mostro disegnando questa terza figura, dove il polo apparente E casca tra
l'arco del terminatore A B e la sezione del meridiano A C, il diametro del
cerchio massimo sarà F O G ed il semicerchio apparente F N G, e
l'occulto G S F: quello, incurvato col suo convesso N verso la parte inferiore;
e questo, piegato col suo colmo S verso la parte superiore del Sole:
gl'ingressi e l'uscite delle macchie, cioè i termini F, G, non saranno
librati, come i passati B, D, ma l'F piú basso e 'l G piú alto, ma ben con
minor differenza che nella prima figura; l'arco ancora F N G sarà
incurvato, ma non tanto quanto il precedente B F D: onde in tal costituzione i
passaggi delle macchie saranno ascendenti dalla parte sinistra F verso la
destra G, e saranno fatti per linee curve. Ed intendendo la Terra esser
collocata nel sito diametralmente opposto, sí che l'emisferio del Sole adesso
occulto sia il veduto, e dal medesimo finitore A B C D terminato,
manifestamente si scorge che il corso delle macchie sarà per l'arco G S
F, cominciando dal punto sublime G, che pur sarà dalla sinistra del
riguardante, ed andando a terminare, descendendo verso la destra, nel punto F.
Inteso quanto sin qui ho esposto, non credo che resti difficultà veruna
in comprender come dal passare il terminatore dei solari emisferi per i poli
della conversion del Sole o a quelli vicino o lontano, nascono tutte le
diversità ne gli apparenti viaggi delle macchie, sí che quanto piú essi
poli saranno lontani da esso terminatore, tanto piú i detti viaggi saranno
incurvati e meno obbliqui; onde nella massima lontananza, che è quando
detti poli sono nella sezion del meridiano, la curvità è ridotta
al sommo, ma l'obbliquità al minimo, cioè all'equilibrio, come
dimostra la seconda figura; all'incontro, quando i poli sono nel terminatore,
come mostra la prima figura, l'inclinazione è massima, ma la
curvità è minima e ridotta alla rettitudine; partendosi il
terminator da i poli, comincia la curvità a farsi sensibile, con andar
sempre crescendo, e l'obbliquità e inclinazione si va facendo minore.
Queste sono le stravaganti mutazioni che mi diceva
l'ospite mio che sarebbero apparse di tempo in tempo ne i progressi delle
macchie solari, tuttavolta che fusse stato vero che il movimento annuo fusse
della Terra, e che il Sole, costituito nel centro dell'eclittica, si fusse
girato in se stesso sopra un asse non eretto, ma inclinato, al piano di essa
eclittica.
SAGR. Io resto assai ben capace di queste
conseguenze, e meglio credo che me l'imprimerò nella fantasia
nell'andarle riscontrando con accomodar un globo con tale inclinazione,
riguardandolo poi da diverse bande. Resta ora che ci diciate quello che di poi
seguí circa gli eventi delle immaginate conseguenze.
SALV. Seguinne, che continuando noi per molti e
molti mesi a far diligentissime osservazioni, notando con somma accuratezza i
passaggi di varie macchie in diversi tempi dell'anno, si trovarono gli eventi
puntualmente rispondere alle predizioni.
SAGR. Signor Simplicio, come questo che dice il
signor Salviati sia vero (né già conviene por dubbio sopra le sue
parole), di saldi argomenti e di gran conietture e di fermissime esperienze
aranno bisogno i Tolemaici e gli Aristotelici per bilanciare un incontro di
tanto peso, e far sí che la loro opinione non dia l'ultimo tracollo.
SIMP. Piano, signor mio, che forse voi non sete
ancora dove per avventura vi persuadete d'essere pervenuto: imperocché io, se
ben non mi sono interamente impadronito della materia del discorso fatto dal
signor Salviati, non trovo che la mia logica, mentre riguardo alla forma,
m'insegni che tal maniera d'argomentare m'induca necessità veruna di
concludere a favor dell'ipotesi Copernicana, cioè della stabilità
del Sole nel centro del zodiaco e della mobilità della Terra sotto la di
lui circonferenza. Perché, se bene è vero che posta la tal conversion
del Sole e la tal circuizion della Terra si debban necessariamente scorger nelle
macchie solari le tali e tali stravaganze, non però ne séguita che,
argomentando per il converso, dallo scorgersi nelle macchie tali stravaganze si
debba necessariamente concludere, la Terra muoversi per la circonferenza e 'l
Sole esser posto nel centro del zodiaco: imperocché chi m'assicura che simili
stravaganze non possano anco esser vedute nel Sole mobile per l'eclittica da
gli abitatori della Terra stabile nel centro di quella? Se voi non mi
dimostrate prima che di tale apparenza non si possa render ragione quando si
faccia mobile il Sole e stabile la Terra, io non mi rimoverò dalla mia
opinione e dal credere che 'l Sole si muova e la Terra stia immobile.
SAGR. Strenuamente si porta il signor Simplicio, e
molto acutamente s'oppone e sostiene la parte d'Aristotile e di Tolomeo; e,
s'io debbo dire il vero, mi par che la conversazione del signor Salviati, ancor
che sia stata di tempo breve, l'abbia addestrato assai nel discorrer
concludentemente, effetto che intendo essere stato cagionato in altri ancora.
Quanto poi all'investigare e giudicare se delle apparenti esorbitanze ne i
movimenti delle macchie solari si possa render competente ragione lasciando la
Terra immobile e mantenendo mobile il Sole, aspetterò che 'l signor
Salviati ci manifesti il suo pensiero; ché ben è credibile che egli
v'abbia fatto sopra reflessione e ritrattone quanto in tal proposito si
può produrre.
SALV. Io ci ho piú volte pensato, ed anco
discorsone con l'amico ed ospite mio: e circa quello che siano per produrre i
filosofi e gli astronomi in mantenimento dell'antico sistema, per una parte
siamo sicuri, sicuri dico, che i veri e puri Peripatetici, ridendosi di chi
s'impiega in tali, al gusto loro, insipide sciocchezze, spaccieranno tutte
queste apparenze per vane illusioni de' cristalli, ed in questa maniera con
poca fatica si libereranno dall'obbligo di pensar piú oltre; quanto poi a i
filosofi astronomi, doppo aver noi con qualche attenzione specolato ciò
che si potesse addurre in mezo, non abbiamo investigato ripiego che basti per
sodisfare unitamente al corso delle macchie ed al discorso della mente. Io vi
esporrò quello che ci è sovvenuto, e voi ne farete quel capitale
che il giudizio vostro vi detterà.
Posto che gli apparenti movimenti delle macchie
solari siano quali di sopra si è dichiarato, e posta la Terra immobile
nel centro dell'eclittica, nella cui circonferenza sia collocato il centro del
Sole, è necessario che di tutte le diversità che si scorgono in
essi movimenti le cagioni riseggano in moti che siano nel corpo solare: il
quale primieramente converrà che in se stesso si rivolga portando seco
le macchie, le quali si è supposto, anzi pur dimostrato, essere aderenti
alla solar superficie. Bisognerà, secondariamente, dire che l'asse della
solar conversione non sia parallelo all'asse dell'eclittica, che è
quanto a dire che non sia eretto perpendicolarmente sopra 'l piano
dell'eclittica, perché, se fusse tale, i passaggi di esse macchie ci
apparirebber fatti per linee rette e parallele all'eclittica: è dunque
tale asse inclinato, poiché i passaggi per lo piú appariscon fatti per linee
curve. Sarà, nel terzo luogo, necessario dire che l'inclinazion di
questo asse non sia fissa e riguardante di continuo verso il medesimo punto
dell'universo, anzi che di momento in momento vadia mutando direzione; perché,
quando la pendenza riguardasse continuamente verso l'istesso punto, i passaggi
delle macchie non cangerebbero già mai apparenza, ma, retti o curvi,
piegati in su o in giú, ascendenti o descendenti, che apparissero una volta, tali
apparirebber sempre. È forza dunque dire, tale asse esser convertibile,
e talora trovarsi nel piano del cerchio estremo terminator dell'emisferio
apparente, allora, dico, quando i passaggi delle macchie appariscono fatti per
linee rette e piú che mai pendenti, il che accade due volte l'anno; altre volte
poi trovarsi nel piano del meridiano del riguardante, in modo tale che l'uno
de' suoi poli caschi nel solare emisferio apparente e l'altro nell'occulto, ed
amendue lontani da i punti estremi, o vogliam dire da i poli, d'un altro asse
del Sole, il quale sia parallelo all'asse dell'eclittica (il qual secondo asse
converrà necessariamente assegnare al globo del Sole), lontani, dico,
tanto quanto importa l'inclinazione dell'asse della revoluzione delle macchie;
e di piú, che il polo cadente nell'emisferio apparente una volta sia nella
parte superiore e l'altra nell'inferiore, perché del cosí accadere necessario
argomento ce ne danno i passaggi quando sono equilibrati e nelle lor massime
curvità, ora col convesso loro verso la parte inferiore, ed altra volta
verso la superiore del disco solare. E perché tali stati si vanno continuamente
mutando, facendosi le inclinazioni e le incurvazioni or maggiori ed or minori,
e talora riducendosi quelle all'equilibrio perfetto e queste alla perfetta
dirittezza, convien necessariamente porre, l'istesso asse della revoluzione
mestrua delle macchie avere una sua propria conversione, per la quale i suoi
poli descrivano due cerchi intorno a i poli d'un altro asse, il quale per ciò
conviene (come ho detto) assegnare al Sole, il semidiametro de i quali cerchi
risponda alla quantità dell'inclinazione del medesimo asse; ed è
necessario che il tempo del suo periodo sia d'un anno, avvengaché tale è
il tempo nel quale si restituiscono tutte l'apparenze e diversità ne i
passaggi delle macchie: e del farsi la conversione di questo asse sopra i poli
dell'altro asse parallelo a quel dell'eclittica, e non intorno ad altri punti,
ne son manifesto indizio le massime inclinazioni e le massime incurvazioni, le
quali son sempre della medesima grandezza. Talché, finalmente, per mantener la
Terra stabile nel centro, sarà necessario attribuire al Sole due
movimenti intorno al proprio centro, sopra due differenti assi, l'uno de i
quali finisca la sua conversione in un anno, e l'altro la sua in manco di un
mese: il quale assunto all'intelletto mio si rappresenta molto duro e quasi
impossibile; e questo depende dal doversi attribuire all'istesso corpo solare
du' altri movimenti intorno alla Terra sopra diversi assi, descrivendo con
l'uno l'eclittica in un anno, e con l'altro formando spire o cerchi paralleli
all'equinoziale uno per giorno; onde quel terzo movimento, il qual si debbe
assegnare al globo del Sole in se stesso (non parlo di quello quasi mestruo che
conduce le macchie, ma dico dell'altro che deve trasferir l'asse ed i poli di
questo mestruo), non si vede ragion nessuna per la quale ei debba finire il suo
periodo piú tosto in un anno, come dependente dal moto annuo per l'eclittica,
che in ventiquatt'ore, come dependente dal moto diurno sopra i poli
dell'equinoziale. So che questo che dico, al presente è assai oscuro, ma
vi si farà manifesto quando parleremo del terzo moto annuo assegnato dal
Copernico alla Terra. Ora, quando questi quattro moti, tanto tra di loro
incongruenti (li quali tutti per necessità converrebbe attribuire
all'istesso corpo del Sole), si possano ridurre a un solo e semplicissimo,
assegnato al Sole sopra un asse non mai alterabile, e che, senza innovar cosa
veruna ne i movimenti per tanti altri rincontri assegnati al globo terrestre,
si possa cosí agevolmente salvar tante stravaganti apparenze ne i movimenti
delle macchie solari, par veramente che il partito non sia da recusarsi.
Questo, signor Simplicio, è quanto sin ora
è sovvenuto all'amico nostro ed a me da potersi produrre, in esplicazion
di questa apparenza, da i Copernicani e da i Tolemaici per mantenimento delle
loro opinioni. Voi fatene quel capitale che il giudizio vostro vi persuade.
SIMP. Io mi conosco inabile a potermi intromettere
in una decisione tanto importante; e quanto al concetto mio, me ne starò
neutrale, con isperanza però che sia per venir tempo che, illuminati da
piú alte contemplazioni che non sono questi nostri umani discorsi, ci debba essere
svelata la mente, e tolta via quella caligine che ora ce la tiene offuscata.
SAGR. Ottimo e santo è il consiglio al quale
si attiene il signor Simplicio, e degno d'esser da tutti ricevuto e seguito,
come quello che, derivando dalla somma sapienza e suprema autorità, solo
può con sicurezza essere abbracciato. Ma per quanto è permesso di
penetrare al discorso umano, contenendomi dentro a i termini delle conietture e
delle ragioni probabili, dirò bene, un poco piú resolutamente che non fa
il signor Simplicio, non aver, tra quante sottigliezze io mai mi abbia sentite,
incontrato mai cosa di maggior maraviglia al mio intelletto, né che piú
strettamente m'abbia allacciata la mente (trattone le pure geometriche ed
aritmetiche dimostrazioni), di queste due conietture, prese l'una dalle
stazioni e retrogradazioni de i cinque pianeti, e l'altra da queste stravaganze
de i movimenti delle macchie solari: e perché mi pare che elleno tanto
facilmente e lucidamente rendan la vera cagione di apparenze tanto stravaganti,
mostrando come un solo semplice moto, mescolato con tanti altri pur semplici,
ma tra di loro differenti, senza introdur difficultà alcuna, anzi con
levar tutte quelle ch'accompagnano l'altra posizione […] vo meco medesimo
concludendo, necessariamente bisognare che quelli che restano contumaci contro
a questa dottrina, o non abbian sentite o non abbiano intese queste tanto
manifestamente concludenti ragioni.
SALV. Io non gli attribuirò titolo né di
concludenti né di non concludenti, attesoché, come altre volte ho detto, l'intenzion
mia non è stata di risolver cosa veruna sopra cosí alta quistione, ma
solo di proporre quelle ragioni naturali ed astronomiche le quali per l'una e
per l'altra posizione possono da me addursi, lasciando ad altri la
determinazione: la quale non dovrà in ultimo esser ambigua, attesoché,
convenendo una delle due costituzioni esser necessariamente vera e l'altra
necessariamente falsa, impossibil cosa è che (stando però tra i
termini delle dottrine umane) le ragioni addotte per la parte vera non si manifestino
altrettanto concludenti, quanto le in contrario vane ed inefficaci.
SAGR. Sarà dunque tempo che sentiamo le
opposizioni del libretto delle conclusioni o disquisizioni, che il signor
Simplicio ha riportato.
SIMP. Ecco il libro; ed ecco il luogo dove l'autore
prima brevemente descrive il sistema mondano conforme alla posizion del
Copernico, dicendo: Terram igitur una cum Luna totoque hoc elementari mundo
Copernicus, etc. ([28])
SALV. Fermate un poco, signor Simplicio, ché mi
pare che questo autore in questo primo ingresso si dichiari molto poco
intelligente della posizione la quale egli intraprende a voler confutare,
mentre dice che il Copernico fa che la Terra insieme con la Luna va descrivendo
in un anno l'orbe magno, movendosi da oriente verso occidente; cosa che, sí
come è falsa ed impossibile, cosí non fu mai profferita da quello; ma
ben la fa egli andare al contrario, dico da occidente verso oriente, cioè
secondo l'ordine de i segni, onde tale apparisce poi esser il moto annuo del
Sole, costituito immobile nel centro del zodiaco. Vedete troppa ardita
confidenza di uno! mettersi alla confutazione della dottrina di un altro, ed
ignorare i suoi primi fondamenti, sopra i quali s'appoggia la maggiore e
più importante parte di tutta la fabrica. Questo è un cattivo
principio per guadagnarsi credito appresso il lettore. Ma seguitiamo piú
avanti.
SIMP. Esplicato l'universal sistema, comincia a
propor sue instanze contro a questo movimento annuo: e le prime son queste,
ch'e' profferisce ironicamente ed in derisione del Copernico e de' suoi
seguaci, scrivendo che in questa fantastica costituzione del mondo convien dir
solennissime sciocchezze; cioè che 'l Sole, Venere e Mercurio son sotto
alla Terra, e che le materie gravi vanno naturalmente all'in su e le leggiere
all'in giú, e che Cristo, nostro Signore e Redentore, salí a gli inferi e scese
in cielo, quando s'avvicinò al Sole, e che quando Iosuè comandò
al Sole che si fermasse, la Terra si fermò o vero il Sole si mosse al
contrario della Terra, e che quando il Sole è in Cancro, la Terra scorre
per il Capricorno, e che i segni iemali fanno la state e gli estivali il verno,
e che non le stelle alla Terra, ma la Terra alle stelle nasce e tramonta, e che
l'oriente comincia in occidente e l'occidente in oriente, ed in somma che quasi
tutto 'l corso del mondo si travolge.
SALV. Ogni cosa mi piace, fuor che l'aver mescolati
luoghi della Sacra Scrittura, sempre veneranda e tremenda, tra queste puerizie
pur troppo scurrili, e volsuto ferire con cose sacrosante chi, per ischerzo e
da burla filosofando, non afferma né nega, ma, fatti alcuni presupposti o
ipotesi, familiarmente ragiona.
SIMP. Veramente ha scandalezato me ancora e non poco,
e massime co 'l soggiugner poi, che se bene i Copernichisti rispondono, benché
assai stravoltamente, a queste e simili altre ragioni, non però potranno
sodisfare e rispondere alle cose che seguono.
SALV. Quest'è poi peggio di tutto, perché
mostra d'aver cose piú efficaci e concludenti che le autorità delle
Sacre Lettere. Ma, di grazia, riveriamo queste, e passiamo a i discorsi
naturali ed umani: anzi pure, quando e' non produca tra le ragioni naturali
cose di miglior senso che queste sin qui addotte, potremo lasciar da banda
tutta questa impresa, perché io sicuramente non son per spender parola in
rispondere a inezzie cosí scempie; e quello che egli dice, che i Copernichisti
rispondono a queste instanze, è falsissimo, né si può credere che
uomo alcuno si mettesse a consumar il tempo tanto inutilmente.
SIMP. Concorro io ancora nell'istesso giudizio:
però sentiamo l'altre instanze, che egli arreca per molto piú gagliarde.
Ed ecco qui, come voi vedete, egli con calcoli esattissimi conclude, che quando
l'orbe magno della Terra, nel quale il Copernico fa che ella scorra in un anno
intorno al Sole, fusse come insensibile rispetto all'immensità della
sfera stellata, secondo che l'istesso Copernico dice che bisogna porlo,
converrebbe di necessità dire e confermare che le stelle fisse fussero
per una distanza inimmaginabile lontane da noi, e che le minori di loro fussero
piú grandi che non è tutto l'istesso orbe magno, ed alcune altre
maggiori assai di tutta la sfera di Saturno; moli veramente pur troppo vaste,
ed incomprensibili ed incredibili.
SALV. Io già ho veduto una cosa simile
portata da Ticone contro al Copernico, e non è ora che ho scoperta la
fallacia, o per dir meglio le fallacie, di questo discorso, fabbricato sopra
ipotesi falsissime e sopra un pronunziato del medesimo Copernico preso da i
suoi contradittori con una puntualissima strettezza, come fanno quei litiganti
che, avendo il torto nel merito principale della causa, si attaccano a una sola
paroluzza incidentemente profferita dalla parte, e su quella strepitano senza
prender sosta. E per vostra piú chiara intelligenza, avendo il Copernico
dichiarato quelle mirabili conseguenze che derivano dal movimento annuo della
Terra ne gli altri pianeti, cioè le direzioni e retrogradazioni de i tre
superiori in particolare, soggiunse che questa apparente mutazione (che piú in
Marte che in Giove, per esser Giove piú lontano, e meno ancora in Saturno, per
esser piú lontano di Giove, si scorgeva) nelle stelle fisse restava
insensibile, per la loro immensa lontananza da noi in comparazion della
distanza di Giove o di Saturno. Qui si levano su gli avversarii di questa
opinione, e presa quella nominata insensibilità del Copernico come posta
da lui per cosa che realmente ed assolutamente sia nulla, e soggiugnendo che
una stella fissa anco delle minori è pur sensibile, poiché ella cade
sotto il senso della vista, vengono calcolando, con l'intervento di altri falsi
assunti, e concludendo, bisognare in dottrina del Copernico ammettere che una
stella fissa sia maggiore assai che tutto l'orbe magno. Ora io, per discoprir
la vanità di tutto questo progresso, mostrerò che dal porre che
una stella fissa della sesta grandezza non sia maggior del Sole, si conclude
con dimostrazion verace che la distanza di esse stelle fisse da noi viene ad
esser tanta, che basta per far che in esse non apparisca notabile il movimento
annuo della Terra, che ne i pianeti cagiona sí grandi ed osservabili
variazioni; ed insieme partitamente mostrerò le gran fallacie ne gli
assunti de gli avversarii del Copernico.
E prima, suppongo con l'istesso Copernico, e
concordemente con gli avversarii, che il semidiametro dell'orbe magno,
ch'è la distanza della Terra al Sole, contenga 1208 semidiametri di essa
Terra; secondariamente pongo, con l'assenso de i medesimi e con la
verità, il diametro apparente del Sole, nella sua mediocre distanza
esser circa un mezo grado, cioè minuti primi 30, che sono 1800 secondi,
cioè 108.000 terzi. E perché il diametro apparente d'una stella fissa
della prima grandezza non è piú di 5 secondi, cioè 300 terzi, ed
il diametro di una fissa della sesta grandezza 50 terzi (e qui è il
massimo errore de gli avversarii del Copernico), adunque il diametro del Sole
contiene il diametro d'una fissa della sesta grandezza 2160 volte; e
però quando si ponesse, una fissa della sesta grandezza esser realmente
eguale al Sole, e non maggiore, che è il medesimo che dire, quando si
allontanasse il Sole tanto che il suo diametro si mostrasse una delle 2160
parti di quello che ci si mostra adesso, la distanza sua converrebbe esser 2160
volte maggiore di quello che è ora in effetto; che è quanto dire
che la distanza delle fisse della sesta grandezza sia 2160 semidiametri
dell'orbe magno. E perché la distanza del Sole dalla Terra contiene di comune
assenso 1208 semidiametri di essa Terra, e la distanza delle fisse (come si
è detto) 2160 semidiametri dell'orbe magno, adunque molto maggiore
(cioè quasi il doppio) è il semidiametro della Terra in
comparazione dell'orbe magno, che 'l semidiametro dell'orbe magno in relazione
alla distanza della sfera stellata; e per ciò la diversità di
aspetto nelle fisse, cagionata dal diametro dell'orbe magno, poco piú
osservabile può esser di quella che si osserva nel Sole, derivante dal
semidiametro della Terra.
SAGR. Questa, per il primo scalino, fa un gran
calare.
SALV. Fallo veramente; poi che una stella fissa
della sesta grandezza, che al computo di questo autore bisognava, per
mantenimento del detto del Copernico, che fusse grande quanto tutto l'orbe
magno, co 'l porla solamente eguale al Sole, il qual Sole è minore assai
della diecimilionesima parte di esso orbe magno, rende la sfera stellata tanto
grande e alta, che basta per rimuovere l'instanza fatta contro esso Copernico.
SAGR. Fatemi, di grazia, questo computo.
SALV. Il computo è facile e brevissimo. Il
diametro del Sole è undici semidiametri della Terra, ed il diametro
dell'orbe magno contiene, de i medesimi, 2416, per detto comune delle parti;
talché il diametro dell'orbe contiene quel del Sole 220 volte prossimamente: e perché
le sfere sono tra di loro come i cubi de i lor diametri, facciamo il cubo di
220, che è 10.648.000, ed averemo l'orbe magno maggior del Sole dieci
milioni seicentoquarant'ottomila volte; al qual orbe magno diceva quest'autore
dover essere eguale una stella della sesta grandezza.
SAGR. L'error dunque di costoro consiste
nell'ingannarsi sommamente nel prender il diametro apparente delle stelle
fisse.
SALV. Cotesto è l'errore, ma non è
solo: e veramente io resto grandemente ammirato come tanti astronomi, e pur di
gran nome, quali sono Alfagrano, Albategno, Tebizio, e piú modernamente i
Ticoni, i Clavii, ed in somma tutti i predecessori al nostro Accademico, si
sien cosí altamente ingannati nel determinar le grandezze di tutte le stelle,
tanto fisse quanto mobili, trattine i dua luminarii, né abbiano posto cura alla
irradiazione avventizia, che ingannevolmente le mostra cento e piú volte
maggiori che quando si veggono senza crini. E non si può scusare questa
loro inavvertenza, perché era in lor potestà il vederle a lor piacimento
senza i crini, ché basta guardarle nella lor prima apparizion della sera o
ultima occultazion dell'aurora; e se non altro, Venere, che pure spesse volte
si vede di mezo giorno cosí piccola che ben bisogna aguzzar la vista, e che pur
poi nella seguente notte comparisce una grandissima fiaccola, gli doveva fare
accorti della lor fallacia: che non crederò già che eglino
stimassero, il vero disco esser quello che si mostra nelle profonde tenebre, e
non quello che si scorge nell'ambiente luminoso, perché i nostri lumi, che
veduti la notte di lontano appariscon grandi, e da vicino mostrano la lor vera
fiammella terminata e piccola, potevano a sufficienza fargli cauti. Anzi, s'io
devo liberamente dire il mio parere, credo assolutamente che nessun di costoro,
né anco Ticone stesso, tanto accurato nel maneggiare strumenti astronomici, e
che tanto grandi ed esatti, senza rispiarmo di spese grandissime, ne
fabbricò, si sieno messi mai a voler prendere e misurare l'apparente
diametro d'alcuna stella, trattone il Sole e la Luna; ma penso che
arbitrariamente, e come si dice a occhio, uno di loro de i piú antichi
pronunziasse la cosa esser cosí, e che i seguaci poi senza altro riscontro se
ne sieno stati al primo detto: ché quando alcuno di loro si fusse applicato al
farne qualche riprova, si sarebbe senza dubbio accorto dell'inganno.
SAGR. Ma se eglino mancavano del telescopio, e voi
di già avete detto che l'amico nostro con tale strumento è venuto
in cognizione della verità, devono gli altri restare scusati, e non
accusati di negligenza.
SALV. Questo seguirebbe, quando senza 'l telescopio
non si potesse ottenere l'intento. È vero che tale strumento, co 'l
mostrar il disco della stella nudo ed ingrandito cento e mille volte, rende
l'operazione piú facile assai, ma si può anco senza lo strumento
conseguir, se ben non cosí esattamente, l'istesso; ed io piú volte l'ho fatto,
e 'l modo che ho tenuto è questo. Ho fatto pendere una cordicella verso
qualche stella, ed io mi son servito della Lira, che nasce tra settentrione e
greco, e poi con l'appressarmi e slontanarmi da essa corda, traposta tra me e
la stella, ho trovato il posto dal quale la grossezza della corda puntualmente
mi nasconde la stella; fatto questo, ho preso la lontananza dall'occhio alla corda,
che viene a esser un de' lati che comprendon l'angolo che si forma nell'occhio
e che insiste sopra la grossezza della corda, e che è simile, anzi
l'istesso, che l'angolo che nella sfera stellata insiste sopra il diametro
della stella, e dalla proporzione della grossezza della corda alla distanza
dall'occhio alla corda, con la tavola de gli archi e corde, ho immediatamente
trovata la quantità dell'angolo; usando però la solita cautela
che si osserva nel prendere angoli cosí acuti, di non formare il concorso de'
raggi visuali nel centro dell'occhio, dove non vanno se non refratti, ma oltre
all'occhio, dove realmente la grandezza della pupilla gli manda a concorrere.
SAGR. Capisco questa cautela, se ben vi ho un non
so che di dubbio; ma quel che mi dà piú fastidio è che in questa
operazione, quando si faccia nelle tenebre della notte, mi par che si misuri il
diametro del disco irraggiato, e non il vero e nudo della stella.
SALV. Signor no, perché la corda nel coprir il nudo
corpicello della stella leva via i capelli, che non son suoi ma del nostro
occhio, de i quali riman privo subito che se gli nasconde il vero disco; e voi,
nel far l'osservazione, vedrete come inaspettatamente vi si cuopre da una
sottil cordicella quella assai gran fiaccola che pareva non doversi nascondere
se non doppo ostacolo assai maggiore. Per misurar poi esattissimamente e
ritrovar quante di tali grossezze di corda entrino nella distanza dell'occhio,
piglio non un solo diametro della corda, ma accoppiando molti pezzi della
medesima sopra una tavola, sí che si tocchino, prendo con un compasso tutto lo
spazio occupato da 15 o 20 di loro, e con tal misura misuro la lontananza,
già con altro piú sottil filo presa, dalla corda al concorso de' raggi visuali.
E con questa assai esatta operazione trovo, il diametro apparente d'una fissa
della prima grandezza, stimato comunemente 2 minuti primi, ed anco 3 minuti
prima da Ticone nelle sue Lettere Astronomiche, fac. 167, non esser piú
di 5 secondi, che è una delle 24 o delle 36 parti di quello che essi han
creduto: or vedete sopra che gravi errori son fondate le lor dottrine.
SAGR. Veggo e comprendo benissimo; ma prima che
passar piú oltre, vorrei proporre il dubbio che mi nasce nel ritrovare il
concorso de' raggi visuali oltre all'occhio, quando si rimirano oggetti
compresi sotto angoli molto acuti. E la difficultà mia procede dal
parermi che tal concorso possa essere or piú lontano ed or meno, e questo non
tanto mediante la maggiore o minor grandezza dell'oggetto che si riguarda,
quanto che nel riguardare oggetti dell'istessa grandezza mi pare che 'l
concorso de' raggi per certo altro rispetto deva farsi piú e meno remoto
dall'occhio.
SALV. Già veggo dove tende la
perspicacità del signor Sagredo, diligentissimo osservatore delle cose
della natura: e farei ben qualsivoglia scommessa, che tra mille che hanno
osservato ne' gatti strignersi ed allargarsi assaissimo la pupilla dell'occhio,
non ve ne sono due, né forse uno, che abbia osservato, un simile effetto farsi
dalle pupille de gli uomini nel guardare, mentre il mezo sia molto o poco
illuminato, e che nella aperta luce il cerchietto della pupilla si diminuisce
assai; sí che nel riguardare il disco del Sole si riduce a una piccolezza
minore di un grano di panico, che nel mirare oggetti non risplendenti, e dentro
a mezo men chiaro, si allarga alla grandezza di una lente o piú; ed in somma
questo allargamento e strignimento si diversifica piú assai che in decupla
proporzione: dal che è manifesto che quando la pupilla è dilatata
molto, è necessario che l'angolo del concorso de' raggi sia piú remoto
dall'occhio; il che accade nel riguardare gli oggetti poco luminosi. Dottrina
somministratami nuovamente dal signor Sagredo: per la quale, quando si abbia a
fare un'osservazione esattissima e di gran conseguenza, venghiamo avvertiti a
dover fare l'investigazione di tal concorso nell'atto dell'istessa o di molto
simile operazione: ma in questa, per manifestar l'errore de gli astronomi, non
vi è necessaria tanta accuratezza, perché, quando anco a favor della
parte noi supponessimo tal concorso farsi sopra l'istessa pupilla, poco
importerebbe, per esser la fallacia loro tanto grande. Non so, signor Sagredo,
se questo voleva essere il vostro motivo.
SAGR. Quest'è per appunto, ed ho caro che
non sia stato irragionevole, come m'assicura l'essermi incontrato con voi; ma
ben con questa occasione sentirei volentieri in che modo si possa investigare
la distanza del concorso de' raggi visuali.
SALV. Il modo è assai facile, ed è
tale. Lo piglio due strisce di carta, una nera e l'altra bianca, e fo la nera
larga per la metà della bianca; attacco poi la bianca in un muro, e
lontana da essa fermo l'altra sopra una bacchetta o altro sostegno, in distanza
di 15 o 20 braccia: e allontanandomi da questa seconda per altrettanto spazio
per la medesima dirittura, chiara cosa è che in tal lontananza
concorrerebbono le linee rette che, partendosi da i termini della larghezza
della bianca, passassero toccando la larghezza dell'altra striscia posta in
mezo: onde ne séguita, che quando in tal concorso si ponesse l'occhio, la
striscia nera di mezo asconderebbe precisamente la bianca opposta, quando la
vista si facesse in un sol punto; ma se noi troveremo che l'estremità
della striscia bianca apparisca scoperta, sarà necessario argomento che
non da un punto solo escono i raggi visuali. E per far che la striscia bianca
resti occultata dalla nera, bisognerà avvicinar l'occhio: accostatolo,
dunque, tanto che la striscia di mezo occupi la remota, e notato quanto
è bisognato avvicinarsi, sarà la quantità di tale
avvicinamento misura certa di quanto il vero concorso de' raggi visuali si fa
remoto dall'occhio in tale operazione, ed averemo di piú il diametro della
pupilla, o vero di quel foro onde escono i raggi visuali; imperocché tal parte
sarà egli della larghezza della carta nera, qual è la distanza
dal concorso delle linee che si produssero per l'estremità delle carte
al luogo dove stette l'occhio quando prima vedde occultarsi la carta remota
dall'intermedia, qual è, dico, tal distanza della lontananza tra le due
carte. E però, quando volessimo con esquisitezza misurare il diametro
apparente d'una stella, fatta l'osservazione nel modo sopradetto, bisognerebbe
far paragone del diametro della corda co 'l diametro della pupilla; e trovato,
verbigrazia, il diametro della corda esser quadruplo di quel della pupilla, e
la distanza dell'occhio alla corda esser, per esempio, 30 braccia, diremo il
vero concorso delle linee prodotte da i termini del diametro della stella per i
termini del diametro della corda andare a concorrer lontane dalla corda 40
braccia: ché cosí sarà osservata come si deve la proporzione tra la
distanza della corda al concorso delle dette linee e la distanza da tal
concorso e 'l luogo dell'occhio, che debbe esser la medesima che cade tra 'l
diametro della corda e 'l diametro della pupilla.
SAGR. Ho inteso benissimo; e però sentiamo
quel che adduce il signor Simplicio in difesa de gli avversarii del Copernico.
SIMP. Ancorché quello inconveniente massimo e del
tutto incredibile, indotto da questi avversarii del Copernico, sia per il
discorso del signor Salviati modificato assai, non però mi par tolto via
in maniera, che non gli rimanga ancora tanto di vigore che basti per atterrar
cotal opinione: perché, se ho ben capito la somma ed ultima conclusione, quando
si ponesse le stelle della sesta grandezza esser grandi quanto il Sole (che pur
mi par gran cosa a credersi), tuttavia resterebbe vero che l'orbe magno avesse
a cagionar nella sfera stellata mutazione e diversità tale qual è
quella che il semidiametro della Terra produce nel Sole, che pure è
osservabile; onde, non si scorgendo né una tale né tampoco una minore nelle
fisse, parmi che per questo il movimento annuo della Terra resti pur desolato e
distrutto.
SALV. Voi ben concludereste, signor Simplicio,
quando non ci fusse altro da produr per la parte del Copernico; ma molt'altre
cose ci restano ancora. E quanto alla replica fatta da voi, nessuna cosa ci
osta che noi non possiamo suppor la lontananza delle fisse esser ancor molto
maggiore di quello che si è fatto; e voi stesso, e chi si sia altro che
non voglia derogare alle proposizioni ammesse da i seguaci di Tolomeo,
bisognerà che ammetta per convenientissima cosa il por la sfera stellata
assaissimo maggiore ancora di quello che pur ora abbiamo detto doversi stimare.
Imperocché, convenendo tutti gli astronomi che della maggior tardanza delle
conversioni de' pianeti ne sia cagione la maggioranza delle loro sfere, e che
per ciò Saturno sia piú tardo di Giove, e Giove del Sole, perché quello
ha a descriver cerchio maggiore di questo, e questo di quest'altro, etc.;
considerando che Saturno, verbigrazia, l'altezza del cui orbe è nove
volte maggiore che quella del Sole, e che per ciò il tempo di una
revoluzione di Saturno è 30 volte piú lungo che quello di una conversion
del Sole; essendo che nella dottrina di Tolomeo una conversion della sfera
stellata si finisca in 36.000 anni, dove quella di Saturno si fornisce in 30, e
quella del Sole in uno; argumentando con simile proporzione, e dicendo: Se
l'orbe di Saturno, per esser 9 volte maggiore dell'orbe del Sole, si rivolge in
tempo 30 volte maggiore, per la ragione eversa quanto doverà esser
grande quell'orbe che si rivolge 36.000 volte piú tardo?; si troverà, la
distanza della sfera stellata dovere esser 10.800 semidiametri dell'orbe magno,
che sarebbe 5 volte appunto maggiore di quello che poco fa la calcolammo dovere
esser quando una fissa della sesta grandezza fusse quanto è il Sole. Or
vedete quanto minore ancora dovrebbe, per tal rispetto, esser la
diversità cagionata in esse dal movimento annuo della Terra. E quando
con simil relazione noi volessimo argumentar la lontananza della sfera stellata
da Giove e da Marte, quello ce la darebbe 15.000, e questo 27.000, semidiametri
dell'orbe magno, cioè ancora maggior, quello 7 e questo 12 volte, che
non ce la dava la grandezza della fissa supposta eguale al Sole.
SIMP. Mi par che a questo si potrebbe rispondere
che 'l moto della sfera stellata si è doppo Tolomeo osservato non esser
cosí tardo come esso lo stimò; anzi mi pare avere inteso che l'istesso
Copernico è stato l'osservatore.
SALV. Voi dite benissimo, ma non producete cosa che
favorisca punto la causa de i Tolemaici, li quali non hanno mai recusato il
moto de i 36.000 anni nella sfera stellata, perché tanta tardità la
facesse troppo vasta ed immensa; ché se tal immensità non era da
concedersi in natura, dovevano prima che ora negare una conversione tanto
tarda, che non potesse con buona proporzione adattarsi se non ad una sfera di
grandezza intollerabile.
SAGR. Di grazia, signor Salviati, non perdiam piú
tempo in proceder per via di tali proporzioni con gente che sono accomodate ad
ammetter cose sproporzionatissime, talché assolutamente con loro per questa
strada non è possibile guadagnar nulla. E qual piú sproporzionata
proporzione si può immaginare di quella che questi tali trapassano ed
ammettono, mentre che, scrivendo non ci esser piú conveniente modo di ordinar
le celesti sfere che 'l regolarsi con le diversità de' tempi de' periodi
loro, mettendo di grado in grado le piú tarde sopra le piú veloci, costituita
che hanno altissima la sfera stellata, come tardissima piú di tutte, glie ne
costituiscono una superiore, e per ciò maggiore, e la fanno muovere in
ventiquattr'ore, mentre che la sua inferiore si muove in 36.000 anni? Ma di
queste sproporzionalità se ne parlò a bastanza il giorno passato.
SALV. Vorrei, signor Simplicio, che sospesa per un
poco l'affezione che voi portate a i seguaci della vostra opinione, mi diceste
sinceramente se voi credete che essi nella mente loro comprendano quella
grandezza che dipoi giudicano non poter, per la sua immensità,
attribuirsi all'universo; perché io, quanto a me, credo di no, e mi pare che,
sí come nell'apprension de' numeri, come si comincia a passar quelle migliaia
di milioni, l'immaginazion si confonde né può piú formar concetto, cosí
avvenga ancora nell'apprender grandezze e distanze immense; sí che intervenga
al discorso effetto simile a quello che accade al senso, che mentre nella notte
serena io guardo verso le stelle, giudico al senso la lontananza loro esser di
poche miglia, né esser le stelle fisse punto piú remote di Giove o di Saturno,
anzi pur né della Luna. Ma, senza piú, considerate le controversie passate tra
gli astronomi ed i filosofi peripatetici per cagione della lontananza delle
stelle nuove di Cassiopea e del Sagittario, riponendole quelli tra le fisse, e
questi credendole piú basse della Luna: tanto è impotente il nostro
senso a distinguere le distanze grandi dalle grandissime, ancor che queste in
fatto siano molte migliaia di volte maggiori di quelle. E finalmente io ti
domando, oh uomo sciocco: Comprendi tu con l'immaginazione quella grandezza
dell'universo, la quale tu giudichi poi essere troppo vasta? se la comprendi,
vorrai tu stimar che la tua apprensione si estenda piú che la potenza divina,
vorrai tu dir d'immaginarti cose maggiori di quelle che Dio possa operare? ma
se non la comprendi, perché vuoi apportar giudizio delle cose da te non capite?
SIMP. Questi discorsi camminan tutti benissimo, e
non si nega che 'l cielo non possa superare di grandezza la nostra
immaginazione, come anco l'aver potuto Dio crearlo mille volte maggiore di
quello che è: ma non deviamo ammettere, nessuna cosa esser stata creata
in vano ed esser oziosa nell'universo; ora, mentre che noi veggiamo questo
bell'ordine di pianeti, disposti intorno alla Terra in distanze proporzionate
al produrre sopra di quella suoi effetti per benefizio nostro, a che fine
interpor di poi tra l'orbe supremo di Saturno e la sfera stellata uno spazio
vastissimo senza stella alcuna, superfluo e vano? a che fine? per comodo ed
utile di chi?
SALV. Troppo mi par che ci arroghiamo, signor
Simplicio, mentre vogliamo che la sola cura di noi sia l'opera adequata ed il
termine oltre al quale la divina sapienza e potenza niuna altra cosa faccia o
disponga: ma io non vorrei che noi abbreviassimo tanto la sua mano, ma ci
contentassimo di esser certi che Iddio e la natura talmente si occupa al
governo delle cose umane, che piú applicar non ci si potrebbe quando altra cura
non avesse che la sola del genere umano; il che mi pare con un accomodatissimo
e nobilissimo esempio poter dichiarare, preso dall'operazione del lume del
Sole, il quale, mentre attrae quei vapori o riscalda quella pianta, gli attrae
e la riscalda in modo, come se altro non avesse che fare; anzi nel maturar quel
grappolo d'uva, anzi pur quel granello solo, vi si applica che piú
efficacemente applicar non vi si potrebbe quando il termine di tutti i suoi
affari fusse la sola maturazione di quel grano. Ora, se questo grano riceve dal
Sole tutto quello che ricever si può, né gli viene usurpato un minimo
che dal produrre il Sole nell'istesso tempo mille e mill'altri effetti,
d'invidia o di stoltizia sarebbe da incolpar quel grano, quando e' credesse o
chiedesse che nel suo pro solamente si impiegasse l'azione de' raggi solari.
Son certo che niente si lascia indietro dalla divina Providenza di quello che
si aspetta al governo delle cose umane; ma che non possano essere altre cose
nell'universo dependenti dall'infinita sua sapienza, non potrei per me stesso,
per quanto mi detta il mio discorso, accomodarmi a crederlo: tuttavia, quando
pure il fatto stesse in altra maniera, nessuna renitenza sarebbe in me di
credere alle ragioni che da piú alta intelligenza mi venissero addotte. In
tanto, quando mi vien detto che sarebbe inutile e vano un immenso spazio
intraposto tra gli orbi de i pianeti e la sfera stellata, privo di stelle ed
ozioso, come anco superflua tanta immensità, per ricetto delle stelle
fisse, che superi ogni nostra apprensione, dico che è temerità
voler far giudice il nostro debolissimo discorso delle opere di Dio, e chiamar
vano o superfluo tutto quello dell'universo che non serve per noi.
SAGR. Dite pure, e credo che direte meglio, che noi
non sappiamo che serva per noi: ed io stimo una delle maggiori arroganze, anzi
pazzie, che introdur si possano, il dire «Perch'io non so a quel che mi serva
Giove o Saturno, adunque questi son superflui, anzi non sono in natura»; mentre
che, oh stoltissimo uomo, io non so né anco a quel che mi servano le arterie,
le cartilagini, la milza o il fele, anzi né saprei d'avere il fele, la milza o
i reni, se in molti cadaveri tagliati non mi fussero stati mostrati, ed allora
solamente potrei intender quello che operi in me la milza, quando ella mi fusse
levata. Per intender quali cose operi in me questo o quel corpo celeste
(già che tu vuoi che ogni loro operazione sia indrizzata a noi),
bisognerebbe per qualche tempo rimuover quel tal corpo, e quell'effetto, ch'io
sentissi mancare in me, dire che dependeva da quella stella. Di piú, chi
vorrà dire che lo spazio che costoro chiamano troppo vasto ed inutile,
tra Saturno e le stelle fisse, sia privo d'altri corpi mondani? forse perché
non gli vediamo? adunque i quattro pianeti Medicei e i compagni di Saturno
vennero in cielo quando noi cominciammo a vedergli, e non prima? e cosí le
altre innumerabili stelle fisse non vi erano avanti che gli uomini le
vedessero? le nebulose erano prima solamente piazzette albicanti, ma poi noi co
'l telescopio l'aviamo fatte diventare drappelli di molte stelle lucide e
bellissime? Prosuntuosa, anzi temeraria, ignoranza de gli uomini!
SALV. Non occorre, signor Sagredo, distendersi piú
in queste infruttuose esagerazioni: seguitiamo il nostro instituto, che
è di esaminare i momenti delle ragioni portate dall'una e dall'altra
parte, senza determinar cosa alcuna, rimettendone poi il giudizio a chi ne sa
piú di noi. E tornando su i nostri discorsi naturali ed umani, dico che questo
grande, piccolo, immenso, minimo, etc., son termini non assoluti, ma relativi,
sí che la medesima cosa, paragonata a diverse, potrà ora chiamarsi
immensa, e tal ora insensibile, non che piccola. Stante questo, io domando in
relazione a chi la sfera stellata del Copernico si può chiamare troppo
vasta. Questa, per mio parere, non può paragonarsi né dirsi tale se non
in relazione a qualche altra cosa del medesimo genere: or pigliamo la minima
del medesimo genere, che sarà l'orbe lunare; e se l'orbe stellato si
deve sentenziare per troppo vasto rispetto a quel della Luna, ogn'altra
grandezza che con simile o maggior proporzione ecceda un'altra del medesimo
genere, doverà dirsi troppo vasta, ed anco, per questa ragione, negarsi
che ella si ritrovi al mondo: e cosí gli elefanti e le balene saranno
senz'altro chimere e poetiche immaginazioni, perché quelli, come troppo vasti
in relazione alle formiche, le quali sono animali terrestri, e quelle rispetto
alle spillancole, che sono pesci, e veggonsi di sicuro essere in rerum
natura, sarebbono troppo smisurati, perché assolutamente l'elefante e la
balena superano la formica e la spillancola con assai maggior proporzione che
non fa la sfera stellata quella della Luna, figurandoci noi detta sfera tanto
grande quanto basta per accomodarsi al sistema Copernicano. Di piú, quanto
è grande la sfera di Giove, quanto quella di Saturno, assegnate per
recettacolo di una stella sola, e ben piccola, in comparazione di una fissa?
certo che se a ciascuna fissa si dovesse consegnar per suo ricetto tal parte
dello spazio mondano, bisognerebbe far l'orbe, dove stanzia l'innumerabil
moltitudine di quelle, molte e molte migliaia di volte maggiore di quello che
basta per il bisogno del Copernico. In oltre, non chiamate voi una stella
fissa, piccolissima, dico anco delle piú apparenti, non che di quelle che
fuggono la nostra vista? e le chiamiamo cosí in comparazione dello spazio
circonfuso. Ora, quando tutta la sfera stellata fusse un corpo solo
risplendente, chi è che non capisca che nello spazio infinito si
può assegnare una distanza tanto grande, dalla quale tale sfera lucida
apparisse cosí piccola ed anco minore di questo che dalla Terra ci pare adesso
una stella fissa? di lí dunque giudicheremmo allora piccola quella medesima
cosa, che ora di qui chiamiamo smisuratamente grande.
SAGR. Grandissima mi par l'inezzia di coloro che
vorrebbero che Iddio avesse fatto l'universo piú proporzionato alla piccola
capacità del loro discorso, che all'immensa, anzi infinita, Sua potenza.
SIMP. Tutto questo che voi dite va bene; ma quello
sopra di che la parte fa instanza, è l'avere a concedere che una stella
fissa abbia ad esser non pure eguale, ma tanto maggiore del Sole, che pure
amendue sono corpi particolari situati dentro all'orbe stellato. E ben parmi
che molto a proposito interroghi quest'autore e domandi: «A che fine ed a
benefizio di chi sono macchine tanto vaste? prodotte forse per la Terra,
cioè per un piccolissimo punto? e perché tanto remote, acciocché appariscano
tantine e niente assolutamente possano operare in Terra? a che proposito una
spropositata immensa voragine tra esse e Saturno? frustratorie sono tutte
quelle cose che da ragioni probabili non son sostenute».
SALV. Dall'interrogazioni che fa quest'uomo mi par
che si possa raccorre, che quando si lasci stare il cielo, le stelle e le
distanze, della quantità e grandezze ch'egli ha sin ora creduto (benché
nissuna comprensibil grandezza egli già mai non se ne sia sicuramente
figurata), ei penetri benissimo e resti capace de i benefizii che da esse
provengano sopra la Terra, la quale non piú sia una cosetta minima, né che esse
sien piú tanto remote che appariscano cosí piccoline, ma tanto grandi quanto
basta per potere operare in Terra, e che la distanza tra esse e Saturno sia
proporzionata benissimo, e che egli di tutte queste cose abbia molto probabili
ragioni, delle quali ne averei volentieri sentito qualcuna; ma il vedere che
egli in queste poche parole si confonde e si contraddice, mi fa credere ch'e'
sia molto penurioso e scarso di queste probabili ragioni, e che quelle che ei
chiama ragioni, sieno piú tosto fallacie, anzi ombre di vane immaginazioni.
Imperocché io domando adesso a lui, se questi corpi celesti operano veramente
sopra la Terra, e se per tale effetto sono stati prodotti delle tali e tali
grandezze, ed in tali e tali distanze disposti, o pure se non hanno che fare
con le cose terrene. Se non han che fare con la Terra, sciocchezza grande
è il voler noi terreni esser arbitri delle grandezze, e regolatori delle
loro locali disposizioni, mentre siamo ignorantissimi di tutti i loro affari e
interessi: ma se dirà che operano e che a questo fine siano indrizzati,
viene ad affermare quello che per un altro verso egli medesimo nega ed a laudar
quello che pur ora ha dannato, mentre diceva che i corpi celesti, locati in
tanta lontananza che dalla Terra appariscan tantini, non possono in lei operar
cosa alcuna. Ma, uomo mio, nella sfera stellata, già stabilita nella
distanza che ella si trova e che da voi vien giudicata per ben proporzionata
per gl'influssi in queste cose terrene, moltissime stelle appariscono
piccolissime, e cento volte tante ve ne sono del tutto a noi invisibili (che
è un apparire ancor minori che tantine): adunque bisogna che voi (contradicendo
a voi medesimo) neghiate ora la loro operazione in Terra; o vero che
(contradicendo pure a voi stesso) concediate che l'apparir tantine non detrae
della loro operazione; o sí veramente (e questa sarà piú sincera e
modesta concessione) concediate e liberamente confessiate che 'l giudicar
nostro circa le loro grandezze e distanze sia una vanità, per non dir
prosunzione o temerità.
SIMP. Veramente veddi ancor io subito, nel legger
questo luogo, la contradizion manifesta, nel dir che le stelle, per cosí dire,
del Copernico, apparendo tanto piccoline, non potrebbero operare in Terra, e
non si accorgere d'aver conceduto l'azione sopra la Terra a quelle di Tolomeo e
sue, che appariscono non pur tantine, ma sono la maggior parte invisibili.
SALV. Ma vengo ad un altro punto. Sopra che
fondamento dice egli che le stelle appariscano cosí piccole? forse perché tali
le veggiamo noi? e non sa egli che questo viene dallo strumento che noi
adoperiamo in riguardarle, cioè dall'occhio nostro? E che ciò sia
vero, mutando strumento le vedremo maggiori e maggiori, quanto ne
piacerà: e chi sa che alla Terra, che le rimira senza occhi, elle non si
mostrino grandissime e quali realmente elle sono? Ma è tempo che,
lasciate queste leggerezze, venghiamo a cose di piú momento: e però,
avendo io già dimostrato queste due cose prima, quanto basti por lontano
il firmamento sí che in lui il diametro dell'orbe magno non faccia maggior
diversità di quella che fa l'orbe terrestre nella lontananza del Sole, e
poi dimostrato parimente come per far che una stella del firmamento ci
apparisca della grandezza che noi la veggiamo, non è necessario porla
maggiore del Sole, vorrei saper se Ticone o alcuno de' suoi aderenti ha tentato
mai di investigare in qualche modo se nella sfera stellata si scorga veruna
apparenza per la quale si possa piú resolutamente negare o ammettere il moto
annuo della Terra.
SAGR. Io per loro risponderei di no, né tampoco
averne avuto bisogno; già che il Copernico stesso è che dice, tal
diversità non vi essere, ed essi, argomentando ad hominem, glie
l'ammettono, e sopra questo assunto mostrano l'improbabilità che ne
segue, cioè che sarebbe necessario far la sfera tanto immensa, che una
stella fissa, per apparirci grande come ci apparisce, converrebbe che in
realtà fusse una mole cosí immensa che eccedesse la grandezza di tutto
l'orbe magno: cosa che è poi, come essi dicono, del tutto incredibile.
SALV. Io son del medesimo parere, e credo appunto
ch'egli argomentino contro all'uomo piú per difesa d'un altro uomo, che per
brama di venire in cognizion del vero; e non solamente non credo che alcun di
loro si sia applicato al far tal osservazione, ma non son sicuro ancora se
alcuno di essi sappia quale diversità dovesse produr nelle fisse il
movimento annuo della Terra, quando la sfera stellata non fusse in tanta
distanza che in esse tal diversità per la sua piccolezza svanisse:
perché il cessare da tal inquisizione e rimettersi al semplice detto del
Copernico, può ben bastare a convincer l'uomo, ma non già a
chiarirsi del fatto, potendo esser che la diversità ci sia, ma non
cercata, o, per la sua piccolezza o per mancamento di strumenti esatti, non
compresa dal Copernico; che non sarebbe questa la prima cosa che egli, per
mancanza di strumenti o per altro difetto, non ha saputa, e pur, fondato sopra
altre saldissime conietture, affermò quello a cui parevano contrariare
le cose non comprese da lui: ché, come già si disse, senza il telescopio
né Marte poteva comprendersi crescer 60 volte, e Venere 40, piú in quella che
in questa positura, anzi le differenze loro appariscono minori assai del vero;
tuttavia si è poi venuto in certezza, tali mutazioni esservi a capello
quali ricercava il sistema copernicano. Or cosí sarebbe ben fatto ricercare,
con quella esquisitezza che si potesse maggiore, se una tal mutazione che
dovrebbe scorgersi nelle fisse, posto il moto annuo della Terra, effettivamente
si osservasse; cosa che assolutamente credo non esser sin ora stata fatta da
alcuno, e non solamente fatta, ma forse (come ho detto) né anco da molti ben
inteso quel che cercar si dovrebbe. Né mi muovo a caso a dir cosí; perché
già veddi certa scrittura a penna di uno di questi anticopernicani, che
diceva, necessariamente dover seguire, quando tal opinion fusse vera, un
continuo alzamento ed abbassamento del polo di 6 mesi in 6 mesi, secondo che la
Terra in tanto tempo, per tanto spazio quant'è il diametro dell'orbe
magno, si ritira or verso settentrione or verso austro; e pur gli pareva
ragionevole, anzi necessario, che seguendo noi la Terra, quando fussimo verso
settentrione, dovessimo avere il polo piú elevato che quando siamo verso il
mezo giorno. In questo medesimo errore incorse uno per altro assai intelligente
matematico, pur seguace del Copernico, secondo che riferisce Ticone ne' suoi Proginnasmi
a fac. 684, il quale diceva aver osservato mutarsi l'altezza polare ed esser
diversa la state dal verno: e perché Ticone nega il merito della causa, ma non
danna l'ordine, cioè nega il vedersi mutazione nell'altezza polare, ma
non condanna tale inquisizione come non accomodata a conseguir quel che si
cerca, viene a dichiararsi che egli ancora stima, l'altezza polare, variata o
non variata di 6 mesi in 6 mesi, esser buona riprova per escludere o introdurre
il movimento annuo della Terra.
SIMP. Veramente, signor Salviati, che a me ancora
par che dovesse seguir l'istesso. Imperocché io non credo che voi mi negherete,
che se noi camminiamo solamente
SALV. Doverà fare (se si deve seguir cotesta
proporzione) che il polo ci si alzerà mille gradi. Vedete, signor
Simplicio, quanto può un'inveterata impressione! Voi, per esservi
fissato nella fantasia per tanti anni che il cielo sia quello che si rivolga in
ventiquattr'ore, e non la Terra, e che in conseguenza i poli di tal revoluzione
siano nel cielo e non nel globo terrestre, non potete né anco per un'ora
spogliarvi quest'abito e mascherarvi del contrario, figurandovi che la Terra
sia quella che si muova solamente per tanto tempo quanto basta per concepir
quello che ne seguirebbe quando questa bugia fusse vera. Se la Terra, signor
Simplicio, è quella che si muove in se stessa in ventiquattr'ore, in lei
sono i poli, in lei è l'asse, in lei è l'equinoziale, cioè
il cerchio massimo descritto dal punto egualmente distante da i poli, in lei
sono gli infiniti paralleli, maggiori e minori, descritti da i punti della sua
superficie piú e meno distanti da i poli; in lei sono tutte queste cose, e non
nella sfera stellata, che, per essere immobile, manca di tutte, e solo con
l'imaginazione vi si possono figurare, prolungando l'asse della Terra sin
là dove terminando segnerà due punti sopraposti a i nostri poli,
ed il piano dell'equinoziale disteso figurerà in cielo un cerchio a sé
corrispondente. Ora, se il vero asse, i veri poli, il vero equinoziale
terrestri non si mutano in Terra tuttavolta che voi ancora resterete nel
medesimo luogo in Terra, trasportate pure la Terra dove vi piace, che voi
già mai non cangerete abitudine né a i poli né a i cerchi né ad altra
cosa terrena; e questo, per esser cotal trasportamento comune a voi ed a tutte
le cose terrestri, ed il moto, dove è comune, è come se non vi
fusse: e sí come voi non muterete abitudine a i poli terreni (abitudine, dico,
sí che vi si alzino o vi s'abbassino), cosí parimente non la muterete a i poli
figurati in cielo, tuttavoltaché per poli celesti intenderemo (come già
si è definito) quei due punti che dall'asse terrestre, prolungato sin
là, vi vengono segnati. È vero che si mutano tali punti nel
cielo, quando il trasportamento della Terra vien fatto in tal modo, che il suo
asse vadia a ferire in altri ed altri punti della sfera celeste immobile; ma
non si muta la nostra abitudine ad essi, sí che il secondo ci si elevi piú che
il primo. Chi vuole che de i punti del firmamento, rispondenti a i poli della
Terra, l'uno se gli alzi e l'altro se gli abbassi, bisogna camminare in Terra
verso l'uno, allontanandosi dall'altro; ché il trasportar la Terra, e con lei
noi medesimi (come ho già detto), non opera niente.
SAGR. Concedetemi in grazia, signor Salviati, ch'io
spiani assai chiaramente questo negozio con un esempio, se ben grossolano,
altrettanto però accomodato a questo proposito. Figuratevi, signor
Simplicio, d'essere in una galera, e che stando in poppa abbiate drizzato un
quadrante o altro strumento astronomico alla sommità dell'albero del
trinchetto, come se voi voleste prender la sua elevazione, la quale fusse,
verbigrazia, 40 gradi: non è dubbio, che camminando voi per corsía verso
l'albero 25 o 30 passi, tornando a drizzare il medesimo strumento alla medesima
sommità dell'albero, troverete la sua elevazione esser maggiore, ed
esser cresciuta, verbigrazia, 10 gradi; ma se in cambio di camminar i detti 25
o 30 passi verso l'albero, voi, restando fermo in poppa, faceste muover tutta
la galera verso quella parte, credereste voi che, mediante il viaggio che ella
avesse fatto de i 25 o 30 passi, l'elevazion del trinchetto vi si mostrasse di
10 gradi accresciuta?
SIMP. Credo ed intendo che ella non si
vantaggierebbe né anco un sol capello per il viaggio di mille né di centomila
miglia, non che di 30 passi; ma credo bene che, se traguardando la
sommità del trinchetto si fusse incontrato una stella fissa ad esser
nella medesima dirittura, credo, dico, che tenendo fermo il quadrante, doppo
aver navigato verso la stella
SAGR. Ma voi non credete già che 'l
traguardo non battesse a quel punto della sfera stellata che risponde alla
dirittura della sommità del trinchetto?
SIMP. Questo no, ma il punto sarebbe variato, e
rimarrebbe sotto alla stella prima osservata.
SAGR. Cosí sta per appunto. Ma sí come quello che
in quest'esempio risponde all'elevazion della sommità dell'albero non
è la stella, ma il punto del firmamento che si trova nella dirittura
dell'occhio e della cima dell'albero, cosí nel caso esemplificato quello che
nel firmamento risponde al polo della Terra, non è una stella o altra
cosa fissa del firmamento, ma è quel punto nel quale va a terminar
l'asse terrestre dirittamente prolungato sin là, il qual punto non
è fisso, ma ubbidisce alle mutazioni che facesse il polo terreno: e
però Ticone o altri, che avevano portato questa instanza dovevano dire
che a tal movimento della Terra, quando vero fusse, si dovrebbe conoscere ed
osservar qualche diversità nell'alzamento ed abbassamento non del polo,
ma di alcuna stella fissa verso quella parte che risponde al nostro polo.
SIMP. Già intendo benissimo l'equivoco preso
da costoro, ma non però mi si toglie la forza, che mi par grandissima,
dell'argomento portato in contrario, quando si riferisca alla mutazion delle
stelle, e non piú del polo: atteso che, se il movimento della galera, di
SAGR. Qui, signor Simplicio, ci è un altro
equivoco, il quale veramente voi intendete, ma non vi sovviene l'intenderlo; ed
io cercherò di ricordarvelo. Però ditemi: Se quando, doppo avere
aggiustato il quadrante a una stella fissa, e trovato, verbigrazia, la sua
elevazione esser 40 gradi, voi, senza muovervi di luogo inclinaste il lato del
quadrante, sí che la stella rimanesse elevata sopra quella dirittura, direte
voi perciò la stella aver acquistato maggior elevazione?
SIMP. Certo no, perché la mutazione si è
fatta nello strumento, e non nell'osservatore, che abbia mutato luogo movendosi
verso quella.
SAGR. Ma quando voi navigate o camminate sopra la
superficie della Terra, direste voi che nel medesimo quadrante non si facesse
mutazione alcuna, ma si conservasse sempre la medesima elevazione rispetto al
cielo, tuttavolta che voi stesso non l'inclinaste, ma lo lasciaste stare nella
prima costituzione?
SIMP. Lasciate ch'io ci pensi un poco. Direi
senz'altro che non la conservasse, per esser, il viaggio ch'io fo, non in
piano, ma sopra la circunferenza del globo terrestre, la quale di passo in
passo muta inclinazione rispetto al cielo, ed in conseguenza la fa mutare allo
strumento che sopra di lei la conserva.
SAGR. Voi benissimo dite; ed anco intendete, che
quanto maggiore e maggiore fusse quel cerchio sopra il quale voi vi moveste,
tante piú miglia bisognerebbe camminare per far che quella stella vi si alzasse
quel grado di piú, e che finalmente, quando il moto verso la stella fusse per
linea retta, piú ancora converrebbe muoversi che per la circonferenza di
qualsivoglia grandissimo cerchio.
SALV. Sí, perché finalmente la circonferenza del
cerchio infinito e una linea retta sono l'istessa cosa.
SAGR. Oh questo non intendo io, né credo che
l'intenda anco il signor Simplicio; e bisogna che ci sia sotto qualche misterio
ascosto, perché sappiamo che il signor Salviati non parla mai a caso, né mette
in campo paradosso che non riesca in qualche concetto non punto triviale:
però a luogo e tempo vi ricorderò la dichiarazion di questo esser
la linea retta l'istesso che la circonferenza del cerchio infinito, ché per
adesso non voglio che interrompiamo il discorso che aviam per le mani. E
tornando al caso, metto in considerazione al signor Simplicio come
l'accostamento e discostamento che fa la Terra a quella stella fissa che
è vicina al polo, si fa come per una linea retta, che è il
diametro dell'orbe magno; talché il voler regolare l'alzamento ed abbassamento
della stella polare co 'l moto per tal diametro come pe 'l moto sopra il
cerchio piccolissimo della Terra, è gran segno di poca intelligenza.
SIMP. Ma pur restiamo ancora nelle medesime
difficultà, già che né anco quella poca diversità che
esser vi dovrebbe, si scorge esservi; e se questa è nulla, nullo ancora
bisogna confessar che sia il moto annuo per l'orbe magno, attribuito alla
Terra.
SAGR. Or qui lascio seguire al signor Salviati: il
quale mi par che non trapassava per nullo l'alzamento o abbassamento della
stella polare o di altra delle fisse, ancorché non compreso da alcuno, e
dall'istesso Copernico posto non dirò per nullo, ma per inosservabile
per la sua piccolezza.
SALV. Già ho detto di sopra, che non credo
che alcuno si sia messo ad osservare se ne i diversi tempi dell'anno si scorga
mutazione alcuna nelle fisse, che possa dependere dal movimento annuo della
Terra; e soggiunto di piú, che ho dubbio se forse alcuno abbia bene inteso,
quali sieno le mutazioni, e tra quali stelle debbano apparire: però
è bene che andiamo con diligenza esaminando questo punto. L'aver trovato
scritto solamente in genere, non si dovere ammettere il movimento annuo della
Terra nell'orbe magno, perché non ha del verisimile che per esso non si vedesse
alcuna apparente mutazione nelle stelle fisse, e il non sentir poi dire quali
dovessero esser in particolare cotali apparenti mutazioni ed in quali stelle,
mi fa molto ragionevolmente stimare che costoro che su quel generico pronunziato
si fermano, non abbiano inteso, né anco forse cercato di intendere, come
cammini il negozio di queste mutazioni, né che cose siano quelle che dicono che
veder si dovrebbero; ed a cosí giudicare mi muove il sapere, che il movimento
annuo attribuito dal Copernico alla Terra quando debba farsi sensibile nella
sfera stellata, non rispetto a tutte le stelle egualmente ha da farsi apparente
mutazione, ma tale apparenza in alcune deve farsi maggiore, in altre minore, in
altre ancor minore, e finalmente in altre assolutamente nulla, per grandissimo
che si ponesse il cerchio di questo moto annuo. Le mutazioni poi, che veder si
dovrebbero, sono di due generi: l'uno è il mutar esse stelle l'apparente
grandezza, e l'altro il variar altezze nel meridiano; che si tira poi in
conseguenza il mutar gli orti e gli occasi, e le distanze dal vertice, etc.
SAGR. Mi par di vedermi apparecchiare una matassa
di questi rivolgimenti, che Dio voglia ch'io me ne sia per poter distrigar mai;
perché, a confessare il mio difetto al signor Salviati, io ci ho tal volta
pensato, né mai ne ho potuto ritrovare il bandolo, e non dico tanto di questo
che appartiene alle stelle fisse, quanto di un'altra piú terribil faccenda, che
voi mi avete fatta sovvenire co 'l ricordar queste altezze meridiane,
latitudini ortive e distanze dal vertice, etc.: e 'l mio ravvolgimento di
cervello nasce da quello ch'io vi dirò adesso. Il Copernico pone la
sfera stellata immobile, ed il Sole nel centro di essa, parimente immobile;
adunque ogni mutazione che a noi apparisca farsi nel Sole o nelle stelle fisse,
è necessario che sia della Terra, cioè nostra: ma il Sole si alza
e si abbassa nel nostro meridiano per un arco grandissimo, quasi di 47 gradi, e
per archi ancora maggiori e maggiori varia le sue larghezze ortive ed occidue
ne gli orizonti obliqui: or come può mai la Terra inclinarsi e rilevarsi
tanto notabilmente al Sole, e nulla alle stelle fisse, o per sí poco che sia
cosa impercettibile? Questo è quel nodo che non è possuto mai passare
al mio pettine; e se voi me lo scioglierete, vi stimerò piú che un
Alessandro.
SALV. Queste sono difficultà degne
dell'ingegno del signor Sagredo: ed è tale il dubbio, che sino l'istesso
Copernico diffidò quasi di poterlo dichiarare in maniera che lo rendesse
intelligibile, il che si vede sí dal confessare egli stesso la sua
oscurità, sí dal rimettersi due volte in due diverse maniere per
dichiararlo: ed io ingenuamente confesso di non avere capita la sua spiegatura
se non doppo che con altro diverso modo, assai piano e chiaro, lo resi
intelligibile, ma non però senza una lunga e laboriosa applicazion di
mente.
SIMP. Aristotile vedde la difficultà
medesima e se ne serví per redarguir alcuni antichi i quali volevano che la
Terra fusse un pianeta: contro a i quali argomenta, che se ciò fusse,
converrebbe che essa parimente, come gli altri pianeti, avesse piú di un
movimento, dal che ne seguirebbe questa variazione ne gli orti ed occasi delle
stelle fisse, e nell'altezze meridiane parimente. E poiché ei promosse la difficultà
e non la risolvette, è forza che ella sia, se non d'impossibile, almeno
di difficile scioglimento.
SALV. La grandezza e forza dell'annodamento rende
lo scioglimento piú bello e ammirando; ma io non ve lo prometto per oggi, e vi
prego a dispensarmi sino a domani, e per ora andremo considerando e dichiarando
quelle mutazioni e diversità che per il movimento annuo dovriano
scorgersi nelle stelle fisse, sí come pur ora dicevamo, nell'esplicazion delle
quali vengono a proporsi alcuni punti preparatorii per lo scioglimento della
massima difficultà. Ora, ripigliando i due movimenti attribuiti alla
Terra (e dico due, perché il terzo non è altrimenti un moto, come a suo
luogo dichiarerò), cioè l'annuo ed il diurno, quello si deve
intendere fatto dal centro della Terra nella circonferenza dell'orbe magno,
cioè di un cerchio massimo descritto nel piano dell'eclittica, fissa ed
immutabile; l'altro, cioè il diurno, è fatto dal globo della
Terra in se stesso circa il proprio centro e proprio asse, non eretto, ma
inclinato al piano dell'eclittica, con inclinazione di gradi 23 e mezo in
circa, la quale inclinazione si mantiene per tutto l'anno e, quello che
sommamente si deve notare, si conserva sempre verso la medesima parte del
cielo, talmenteché l'asse del moto diurno si mantien perpetuamente parallelo a
se stesso: sí che, se noi ci immagineremo tale asse prolungato sino alle stelle
fisse, mentre che il centro della Terra circonda in un anno tutta l'eclittica,
l'istesso asse descrive la superficie di un cilindro obliquo, che ha per una
delle sue basi il detto cerchio annuo, e per l'altra un simil cerchio
imaginariamente descritto dalla sua estremità, o vogliamo dir polo, tra
le stelle fisse; ed è tal cilindro obliquo al piano dell'eclittica
secondo l'inclinazion dell'asse che lo descrive, che aviamo detto esser gradi
23 e mezo, la quale, conservandosi perpetuamente l'istessa (se non quanto in
molte migliaia di anni fa qualche piccolissima mutazione, che al presente
negozio niente importa), fa che 'l globo terrestre né piú s'inclina già
mai né si solleva, ma immutabile si conserva: dal che ne séguita che, per
quanto appartiene alle mutazioni da osservarsi nelle fisse, dependenti dal solo
movimento annuo, l'istesso accaderà a qualsivoglia punto della
superficie terrena, che all'istesso centro della Terra; e però nelle
presenti esplicazioni ci serviremo del centro, come di qualsivoglia punto della
superficie. E per piú facile intelligenza del tutto, ne disegneremo le figure
lineari: e prima segniamo nel piano dell'eclittica il cerchio ANBO, ed
intendiamo i punti A, B essere gli estremi verso borea e verso austro,
cioè il principio di Cancro e di Capricorno, ed il diametro A B
prolunghiamolo indeterminatamente per D e C verso la sfera stellata:
dico ora, primieramente, che niuna delle stelle fisse poste
nell'eclittica, per qualsivoglia mutazion fatta dalla Terra per esso piano
dell'eclittica, varierà mai elevazione, ma sempre si scorgerà
nella medesima superficie; ma bene se gli avvicinerà ed
allontanerà la Terra per tanto spazio quanto è il diametro
dell'orbe magno. Il che sensatamente si vede nella figura: imperocché, sia la
Terra nel punto A o sia in B, sempre la stella C si vede per la medesima linea
A B C; ma bene la lontananza B C si è fatta minore della C A per tutto
il diametro B A: il piú dunque che si possa scorgere nella stella C, ed in
qualsivoglia altra posta nell'eclittica, è la accresciuta o diminuita
apparente grandezza, per l'avvicinamento o allontanamento della Terra.
SAGR. Fermate un poco, in cortesia, perché sento
non so che scrupolo che mi dà fastidio, ed è questo. Che la
stella C venga veduta per la medesima linea A B C tanto quando la Terra sia in
A quanto se ella sia in B, l'intendo benissimo; come anco di piú capisco che
l'istesso avverrebbe da tutti i punti della linea A B, mentre che la Terra
passasse da A in B per essa linea; ma passandovi, come si suppone per l'arco A
N B, è manifesta cosa che quando ella sarà nel punto N, ed in
qualunque altro fuori che li due A, B, non piú per la linea A B, ma per altre
ed altre, si scorgerà: talché se il mostrarsi sotto diverse linee deve
cagionar apparente mutazione, qualche diversità converrà che si
scorga. Anzi piú dirò, con quella libertà filosofica che tra i
filosofi amici debbe esser permessa, parermi che voi, contrariando a voi
stesso, neghiate ora quello che pur oggi ci avete, con nostra maraviglia,
dichiarato esser cosa verissima e grande: dico di quello che accade ne i
pianeti ed in particolare ne i tre superiori, che ritrovandosi continuamente
nell'eclittica o a quella vicinissimi, non solamente si mostrano ora a noi
propinqui ed ora remotissimi ma tanto, nei regolati lor movimenti, difformi,
che talvolta immobili, e tal ora, per molti gradi, retrogradi, ci si
rappresentano; e tutto non per altra cagione, che per il movimento annuo della
Terra.
SALV. Ancorché per mille riscontri io sia stato
fatto certo dell'accortezza del signor Sagredo, pur ho voluto con quest'altro
cimento assicurarmi maggiormente di quanto io possa promettermi dell'ingegno
suo; e tutto per util mio, ché quando le mie proposizioni potranno star salde
al martello o alla coppella del suo giudizio, potrò star sicuro che elle
sien di lega buona a tutto paragone. Dico per tanto, che a bello studio avevo
dissimulata cotesta obiezzione, ma non però con animo di ingannarvi e di
persuadervi alcuna falsità, come sarebbe potuto accadere quando
l'instanza da me dissimulata, e da voi trapassata, fusse stata tale in effetto
quale in apparenza si mostra, cioè veramente gagliarda e concludente; ma
ella non è tale, anzi dubito io adesso che voi, per tentar me, finghiate
di non conoscer la sua nullità. Ma voglio in questo particolare esser
piú malizioso di voi, co 'l cavarvi a forza di bocca quello che artifiziosamente
volevi nasconderci: e però ditemi, che cosa è quella onde voi
conoscete la stazione e retrogradazione de' pianeti derivante dal moto annuo, e
che è cosí grande che pure almeno qualche vestigio di simile effetto
dovrebbe vedersi nelle stelle dell'eclittica.
SAGR. Due quesiti contien questa vostra domanda, a
i quali convien ch'io risponda: il primo riguarda l'imputazione, che mi date,
di simulatore; l'altro è di quello che possa apparir nelle stelle, etc.
Quanto al primo, dirò con vostra pace che non è vero ch'io abbia
simulato di non intender la nullità di quella instanza; e per
assicurarvi di ciò, vi dic'ora che benissimo capisco tal nullità.
SALV. Ma non capisco già io come possa
essere che voi non parlaste simulatamente, quando dicevi di non intender quella
tal fallacia, la quale confessate ora di intender benissimo.
SAGR. La confessione stessa d'intenderla può
assicurarvi ch'io non simulavo, mentre dicevo di non l'intendere; perché quando
io avessi voluto e volessi simulare, chi potria tenermi ch'io non continuassi
nella medesima simulazione, negando tuttavia di intender la fallacia? Dico
dunque che non l'intendevo allora, ma che ben la capisco al presente, mercé
dell'avermi voi destato l'intelletto, prima co 'l dirmi risolutamente che ella
non è nulla, e poi co 'l cominciare a interrogarmi cosí alla larga, che
cosa fusse quella per la quale io conosceva la stazione e retrogradazione de'
pianeti: e perché questo si conosce dalla conferenza che si fa di essi con le
stelle fisse, in relazion delle quali si veggono variare lor movimenti or verso
occidente ed or verso oriente e tal ora restar come immobili, e perché sopra la
sfera stellata non ve n'è altra immensamente piú remota, ed a noi
visibile, con la quale possiamo conferir le nostre stelle fisse, però
vestigio niuno possiamo noi scorger nelle fisse, che risponda a quello che ci
apparisce ne' pianeti. Questo penso io che sia quel tanto che voi mi volevi
cavar di bocca.
SALV. Questo è, con la giunta da vantaggio
della vostra sottilissima arguzia. E se io con un piccol motto vi apersi la
mente, voi con un altro fate sovvenire a me, non esser del tutto impossibile
che qualche cosa in qualche tempo si trovasse osservabile tra le fisse, per la
quale comprender si potesse in chi risegga l'annua conversione, talché esse ancora,
non men de i pianeti e del Sole stesso, volesser comparire in giudizio a render
testimonianza di tal moto a favor della Terra: perch'io non credo che le stelle
siano sparse in una sferica superficie, egualmente distanti da un centro, ma
stimo che le loro lontananze da noi siano talmente varie, che alcune ve ne
possano esser 2 e 3 volte piú remote di alcune altre; talché, quando si
trovasse co 'l telescopio qualche piccolissima stella vicinissima ad alcuna
delle maggiori, e che però quella fusse altissima, potrebbe accadere che
qualche sensibil mutazione succedesse tra di loro, rispondente a quella de i
pianeti superiori. E tanto sia detto per ora circa il particolare delle stelle
poste nell'eclittica: venghiamo ora alle fisse poste fuora dell'eclittica, ed
intendiamo un cerchio massimo eretto al piano di quella, e sia, per esempio, un
cerchio che nella sfera stellata risponda al coluro de' solstizii, e segniamolo
C E H, che verrà insieme ad esser un meridiano, ed in esso pigliamo una
stella fuori dell'eclittica, qual sarebbe la E. Or questa al movimento della
Terra varierà bene elevazione; perché dalla Terra in A sarà
veduta secondo il raggio A E, con l'elevazione dell'angolo E A C; ma dalla
Terra posta in B si vedrà ella per il raggio B E, con elevazione
dell'angolo E B C, maggiore dell'altro E A C, per esser quello esterno, e
questo interno ed opposto, nel triangolo EAB: vedrassi dunque mutata la
distanza della stella E dall'eclittica; ed anco la sua altezza nel meridiano
sarà fatta maggiore nello stato B che nel luogo A, secondo che l'angolo
E B C supera l'angolo E A C, che è la quantità dell'angolo A E B:
imperocché, essendo del triangolo E A B prolungato il lato A B in C,
l'esteriore angolo E B C (per esser eguale alli due interiori ed opposti E, A) supera
esso A per la quantità dell'angolo E. E se noi piglieremo un'altra
stella nel medesimo meridiano, piú remota dall'eclittica, qual sarebbe,
verbigrazia, la stella H, maggiore anco sarà in essa la diversità
dall'esser vista dalli due luoghi A, B, secondo che l'angolo A H B si fa
maggiore dell'altro E: il quale angolo anderà sempre crescendo, secondo
che la stella osservata
piú sarà lontana dall'eclittica, sin che finalmente la
massima mutazione apparirà in quella stella che fusse posta nell'istesso
polo dell'eclittica come, per totale intelligenza, potremo dimostrar cosí: Sia
il diametro dell'orbe magno A B, il cui centro G, ed intendasi prolungato sino
alla sfera stellata ne i punti D, C; e sia dal centro G eretto l'asse
dell'eclittica G F sino alla medesima sfera, nella quale s'intenda descritto un
meridiano D F C, che sarà eretto al piano dell'eclittica; e presi
nell'arco FC qualsivoglino punti H, E, come luoghi di stelle fisse,
congiungansi le linee F A, F B, A H, H G, H B, A E, G E, B E, sí che l'angolo
della diversità o vogliàn dire la parallasse della stella posta
nel polo F sia A F B, quello della stella posta in H sia l'angolo A H B, e
della stella in E sia l'angolo A E B: dico l'angolo della diversità
della stella polare F essere il massimo, e de gli altri il piú vicino al
massimo esser maggiore del piú remoto, cioè l'angolo F esser maggiore
dell'angolo H, e questo maggiore dell'angolo E. Intendasi intorno al triangolo
F A B descritto un cerchio; e perché l'angolo F è acuto (per esser la
sua base A B minore del diametro D C del mezo cerchio D F C), sarà posto
nella porzione maggiore del circoscritto cerchio tagliata dalla base A B; e
perché essa A B è divisa in mezo ed ad angoli retti dalla F G,
sarà il centro del cerchio circoscritto nella linea F G: sia il punto I.
E perché delle linee tirate dal punto G, che non è centro, sino alla
circonferenza del cerchio circoscritto, la massima è quella che passa
per il centro, sarà la G F maggiore di ogn'altra che dal punto G si tiri
sino alla circonferenza del medesimo cerchio; e però tal circonferenza
taglierà la linea G H (che è eguale alla linea G F), e tagliando
la G H taglierà ancora la A H: taglila in L, e congiungasi la linea L B:
saranno dunque li due angoli A F B, A L B eguali, per esser nella medesima
porzione del cerchio circoscritto: ma A L B, esterno, è maggiore
dell'interno H: adunque l'angolo F è maggiore dell'angolo H. E con
l'istesso metodo dimostreremo, l'angolo H esser maggiore dell'angolo E, perché
del cerchio descritto intorno al triangolo A H B il centro è nella
perpendicolare G F, al quale la linea G H è piú vicina della G E, e
però la circonferenza di esso taglia la G E ed anco la A E: onde
è manifesto il proposito. Concludiamo per tanto, che la diversità
di apparenza (la quale con termine proprio dell'arte potremo chiamar parallasse
delle stelle fisse) è maggiore e minore secondo che le stelle osservate
sono piú o meno vicine al polo dell'eclittica; sí che finalmente delle stelle
che sono nell'eclittica stessa, tal diversità si riduce a nulla.
Quanto poi all'avvicinarsi o allontanarsi per tal moto la Terra
alle stelle, a quelle che sono nell'eclittica si avvicina ella e si discosta
per quanto è tutto il diametro dell'orbe magno, come pur ora vedemmo; ma
alle stelle intorno al polo dell'eclittica tale accostamento o allontanamento
è quasi nullo, ed all'altre questa diversità si fa maggiore
secondo che elle sono piú vicine all'eclittica. Possiamo, nel terzo luogo,
intendere, come quella diversità d'aspetto si fa maggiore o minore,
secondo che la stella osservata fusse a noi piú vicina o piú remota; perché, se
noi segneremo un altro meridiano men lontano dalla Terra, qual sarebbe questo D
F I, una stella posta in F e veduta per il medesimo raggio A F E, stante la
Terra in A, quando poi si osservasse dalla Terra in B, si scorgerebbe secondo
il raggio B F, e farebbe l'angolo della diversità, cioè B F A,
maggiore dell'altro primo A E B, essendo esteriore del triangolo BFE.
SAGR. Con gran gusto, ed anco profitto, ho sentito
il vostro discorso; e per assicurarmi s'io ben l'abbia capito, dirò la
somma delle conclusioni sotto brevi parole. Parmi che voi ci abbiate spiegato,
due sorte di diverse apparenze esser quelle che mediante il moto annuo della
Terra possiamo noi osservare nelle stelle fisse: l'una è delle lor
variate grandezze apparenti, secondo che noi, portati dalla Terra, a quelle ci
avviciniamo o ci allontaniamo; l'altra (che pur depende dal medesimo
allontanamento o avvicinamento) è il mostrarcisi nel medesimo meridiano
ora piú elevate ed ora meno. Di piú, voi ci dite (ed io benissimo l'intendo)
che l'una e l'altra di tali mutazioni non si fa egualmente in tutte le stelle,
ma in altre maggiore ed in altre minore ed in altre niente. L'appressamento e
discostamento per il quale la medesima stella ci debba apparire or piú grande
ed or piú piccola, è insensibile e quasi nullo nelle stelle vicine al
polo dell'eclittica, ma è massimo nelle stelle poste in essa eclittica,
mediocre nelle intermedie; il contrario accade dell'altra diversità,
cioè che nullo è l'alzamento o abbassamento nelle stelle poste
nell'eclittica, massimo nelle circonvicine al polo di essa eclittica, mediocre
nelle intermedie. Oltre di ciò, amendue queste diversità sono piú
sensibili nelle stelle che fussero piú vicine, nelle piú lontane son sensibili
meno, e finalmente nelle estremamente lontane svanirebbero. Questo è
quanto alla parte mia; resta ora, per quel ch'io mi avviso, di sodisfare al
signor Simplicio, il quale non credo che facilmente si accomoderà a
passar come cose insensibili cotali diversità, derivanti da un movimento
della Terra tanto vasto e da una mutazione che trasporti la Terra in luoghi tra
di loro distanti per due volte tanto quanto è da noi al Sole.
SIMP. In vero io, liberamente parlando, sento gran
repugnanza nell'avere a conceder, la distanza delle fisse dovere esser tanta,
che in esse le dichiarate diversità devano esser del tutto
impercettibili.
SALV. Non vi gettate del tutto al disperato, signor
Simplicio, ché forse ci è ancora qualche temperamento per le vostre
difficultà. E prima, che l'apparente grandezza delle stelle non si vegga
alterar sensibilmente, non vi deve parer punto improbabile, mentre che voi
vedete l'estimativa de gli uomini in cotal fatto tanto altamente ingannarsi, e
massime nel riguardare oggetti risplendenti: e voi stesso rimirando,
verbigrazia, una torcia accesa dalla distanza di 200 passi, nell'appressarvisi
ella 3 o 4 braccia, credereste di accorgervene, perché maggiore vi si
mostrasse? Io per me non me ne accorgerei sicuramente, quando ben mi se
n'avvicinasse 20 o 30: anzi tal volta mi sono incontrato a vedere un simil lume
in una tal lontananza, né sapermi risolvere se e' veniva verso me o pur si
allontanava, mentre egli realmente mi si avvicinava. Ma che? se il medesimo
appressamento e allontanamento (dico del doppio della distanza dal Sole a noi)
nella stella di Saturno è quasi totalmente impercettibile, ed in Giove
poco osservabile, che doverà essere nelle stelle fisse, che non credo
che voi foste renitente a porle piú lontane il doppio di Saturno? In Marte, che
per avvicinarsi a noi…
SIMP. Vossignoria non si affatichi piú in questo
particolare, ché già resto capace, poter benissimo accadere quanto si
è detto circa la non alterata apparente grandezza delle stelle fisse; ma
che diremo dell'altra difficultà, che nasce da non si scorger variazione
alcuna nella mutazion di aspetto?
SALV. Diremo cosa per avventura da potervi quietare
anco in questa parte. E per venire alle brevi, non sareste voi sodisfatto
quando realmente si scorgesser nelle stelle quelle mutazioni che vi par
necessario che scorger vi si dovessero quando il movimento annuo fusse della
Terra?
SIMP. Sarei senza dubbio, per quanto appartiene a
questo particolare.
SALV. Vorrei che voi diceste, che quando una tal
diversità si scorgesse, niuna cosa resterebbe piú che potesse render
dubbia la mobilità della Terra, atteso che a cotal apparenza nissun
altro ripiego assegnar si potrebbe. Ma quando bene anco ciò
sensibilmente non apparisse, non però la mobilità si rimuove, né
la immobilità necessariamente si conclude, potendo esser (come afferma
il Copernico) che l'immensa lontananza della sfera stellata renda inosservabili
cotali minime apparenze; le quali, come già si è detto,
può esser che sin ora non sieno state né anco ricercate, o, se pur
ricercate, non ricercate nella maniera che si deve, cioè con quella
esattezza che a cosí minute puntualità sarebbe necessaria; la quale
esattezza è difficile a conseguirsi, sí per difetto de gli strumenti
astronomici, suggetti a molte alterazioni, sí ancora per colpa di quelli che
gli maneggiano con minor diligenza di quello che sarebbe necessario. Argomento
necessariamente concludente di quanto poco sia da fidarsi di tali osservazioni,
siane la diversità che noi troviamo tra gli astronomi nell'assegnare i
luoghi, non dirò delle stelle nuove e delle comete, ma delle stelle
fisse medesime, sino anco all'altezze polari, nelle quali il piú delle volte
per molti minuti si trovano tra di loro discordanti. E per vero dire, chi vuole
in un quadrante o sestante, che al piú averà il lato di 3 o 4 braccia di
lunghezza, assicurarsi nell'incidenza del perpendicolo o nel taglio della
diottra di non si ingannare di dua o tre minuti, che nella sua circonferenza
non saranno maggiori della larghezza di un grano di miglio? oltre all'esser
quasi impossibile che lo strumento sia con assoluta giustezza fabbricato e
conservato. Tolomeo mostra diffidenza di un strumento armillare fabbricato
dall'istesso Archimede per prender l'ingresso del Sole nell'equinoziale.
SIMP. Ma se gli strumenti son cosí sospetti e le
osservazioni tanto dubbiose, come potremo noi già mai costituirci in
sicurezza e liberarci dalle fallacie? Io avevo sentito predicare gran cose de
gli strumenti di Ticone, fatti con immense spese, e della sua singolar
diligenza nelle osservazioni.
SALV Tutto questo vi ammetto; ma né quelli né
questa bastano per assicurarci in un negozio di tanta importanza. Io voglio che
ci serviamo di strumenti maggiori assai assai di quelli di Ticone, esattissimi
e fatti con pochissima spesa, il lato de i quali sia di 4, 6, 20, 30 e
SAGR. Io comprendo benissimo tutto il progresso, e
parmi l'operazione tanto facile e accomodata al bisogno, che molto
ragionevolmente si potrebbe credere che dall'istesso Copernico o da altro
astronomo fusse stata messa in atto.
SALV. A me par tutto l'opposito, perché non ha del
verisimile che, se alcuno l'avesse sperimentata, non avesse fatto menzione
dell'esito, se succedeva in favore di questa o di quella opinione; oltre che né
per questo né per altro fine si trova che alcuno si sia valso di tal modo di
osservare, il quale anco, senza telescopio esatto, malamente si potrebbe
effettuare.
SAGR. Resto interamente quieto di quanto dite. Ma
già che ci avanza gran tempo a notte, se voi desiderate ch'io possa
trapassarla con quiete, non vi sia grave esplicarci quei problemi, la
dichiarazione de i quali poco fa domandaste di poter differire a dimane;
rendeteci in grazia il già conceduto indulto, e lasciati tutti gli altri
ragionamenti da banda, venite dichiarandoci come, posti i movimenti che il
Copernico attribuisce alla Terra, e ritenendo immobile il Sole e le stelle
fisse, ne possano seguire quei medesimi accidenti circa gli alzamenti ed
abbassamenti del Sole, circa le mutazioni delle stagioni e le
disequalità de i giorni e delle notti etc., nel medesimo modo appunto
che nel sistema Tolemaico assai facilmente si apprendono.
SALV Non si deve né si può negare cosa che
sia ricercata dal signor Sagredo: e la proroga da me domandata non era ad altro
effetto, che per aver tempo di riordinarmi nella fantasia quelle premesse che
servono per una larga ed aperta dichiarazione del modo col quale i nominati
accidenti seguono tanto nella posizione copernicana quanto nella tolemaica,
anzi con assai maggiore agevolezza e semplicità in quella che in questa;
onde manifestamente si comprenda, quella ipotesi altrettanto esser facile ad
effettuarsi dalla natura, quanto difficile ad esser compresa dall'intelletto.
Tuttavia spero, con servirmi d'altra spiegatura che dell'usata dal Copernico,
rendere anco la sua apprensione assai meno oscura; per lo che fare proporrò
alcune supposizioni per sé note e manifeste, e saranno le seguenti:
Prima. Posto che la Terra, corpo sferico, si volga
circa 'l proprio asse e poli, ciaschedun punto segnato nella sua superficie
descrive la circonferenza di un cerchio, maggiore o minore secondo che il punto
segnato sarà piú o meno lontano da i poli; e di questi cerchi, massimo
è quello che vien disegnato da un punto egualmente lontano da essi poli:
e tutti questi cerchi sono tra di loro paralleli; e paralleli, li chiameremo.
Seconda. Essendo la Terra di figura sferica e di
sustanza opaca, vien continuamente illuminata dal Sole secondo la metà
della sua superficie, restando l'altra metà tenebrosa: ed essendo il
termine che distingue la parte illuminata dalla tenebrosa un cerchio massimo,
lo chiameremo cerchio terminator della luce.
Terzo. Quando il cerchio terminator della luce passasse
per i poli della Terra, taglierebbe (essendo cerchio massimo) tutti i paralleli
in parti eguali; ma non passando per i poli, gli taglierà tutti in parti
diseguali, trattone il solo cerchio di mezo, che, per esser massimo, vien pur
segato in parti eguali.
Quarta. Volgendosi la Terra intorno a i proprii
poli, le quantità de i giorni e delle notti vengono determinate da gli
archi de i paralleli segati dal cerchio terminator della luce; e l'arco che
resta nell'emisferio illuminato prescrive la lunghezza del giorno, e il
rimanente è la quantità della notte.
Proposte queste cose, per piú chiara
intelligenza di quello che resta da dirsi verremo a descriverne una figura: e
prima segneremo la circonferenza di un cerchio, che ci rappresenterà
quella dell'orbe magno, descritta nel piano dell'eclittica, e questa divideremo
in quattro parti eguali con li due diametri, Capricorno, Granchio, Libra e
Ariete, che nell'istesso tempo ci rappresenteranno i quattro punti cardinali,
cioè li due solstizii e li due equinozii; e nel centro di tal cerchio
noteremo il Sole O, fisso ed immobile. Segnamo ora circa i quattro punti
Capricorno, Granchio, Libra e Ariete, come centri, quattro cerchi eguali, li
quali ci rappresentino la Terra, in essi in diversi tempi costituita, la quale
co 'l suo centro nello spazio di un anno cammini per tutta la circonferenza
Capricorno Ariete Granchio e Libra, muovendosi da occidente verso oriente, cioè
secondo l'ordine de' segni. Già è manifesto che mentre la Terra
sia in Capricorno, il Sole apparirà in Granchio, e movendosi la Terra
per l'arco Capricorno e Ariete, il Sole apparirà muoversi per l'arco
Granchio e Libra, ed in somma scorrere il zodiaco secondo l'ordine de i segni
nello spazio di un anno; e con questo primo assunto vien senza controversia
sodisfatto all'apparente movimento annuo del Sole sotto l'eclittica.
Ora venendo all'altro movimento, cioè al diurno della Terra
in se stessa, bisogna stabilire i suoi poli ed il suo asse, il quale si ha da
intendere esser non eretto a perpendicolo sopra il piano dell'eclittica,
cioè non parallelo all'asse dell'orbe magno, ma declinante dall'angolo
retto gradi 23 e mezo in circa, co 'l suo polo boreale verso l'asse dell'orbe
magno, stante il centro della Terra nel punto solstiziale di Capricorno.
Intendendo dunque il globo terrestre avere il suo centro nel punto Capricorno,
segneremo i poli ed il suo asse A B, inclinato dal perpendicolo sopra 'l
diametro Capricorno e Granchio gradi 23 e mezo, sí che l'angolo A Capricorno e
Granchio venga ad essere il complimento di una quarta, cioè gradi 66 e
mezo, e tale inclinazione bisogna intendere esser immutabile; ed il polo
superiore A intenderemo essere il boreale, e l'altro B l'australe.
Immaginandoci ora la Terra rivolgersi in se stessa circa l'asse A B in ore
ventiquattro, pur da occidente verso oriente, verranno da tutti i punti notati
nella sua superficie descritti cerchi tra di loro paralleli: segneremo, in
questo primo posto della Terra, il massimo C D e li due da esso lontani gradi
23 e mezo, E F sopra e G N sotto, e gli altri due estremi I K, L M, lontani per
simile intervallo da i poli A, B; e sí come aviamo notati questi cinque, cosí
ne possiamo intendere altri innumerabili, paralleli a questi, descritti da
gl'innumerabili punti della terrestre superficie. Intendiamo ora la Terra, co
'l moto annuo del suo centro trasferirsi ne gli altri luoghi già notati,
ma passarvi con tal legge: che il proprio asse A B non solamente non muti
inclinazione sopra il piano dell'eclittica, ma non varii anco già mai
direzzione, sí che, mantenendosi sempre parallelo a se stesso, riguardi
continuamente verso le medesime parti dell'universo o vogliamo dire del
firmamento; dove se noi l'intendessimo prolungato, verrebbe co 'l suo altissimo
termine a disegnare un cerchio parallelo ed eguale all'orbe magno Libra
Capricorno Ariete e Granchio, come base superiore di un cilindro descritto da
se medesimo nel moto annuo sopra l'inferior base Libra Capricorno Ariete e
Granchio: e però, stante questa immutabilità d'inclinazione,
segneremo quest'altre tre figure intorno a i centri Ariete, Granchio e Libra,
simili in tutto e per tutto alla descritta prima intorno al centro Capricorno.
Consideriamo adesso la prima figura della Terra:
nella quale, per esser l'asse A B declinante dal perpendicolo sopra il diametro
Capricorno Granchio gradi 23 e mezo verso il Sole O, ed essendo l'arco A I pur
gradi 23 e mezo, l'illuminazion del Sole illustrerà l'emisferio del
globo terrestre esposto verso il Sole (del quale qui se ne vede la
metà), diviso dalla parte tenebrosa per il terminator della luce I M;
dal quale il parallelo C D, per esser cerchio massimo, verrà diviso in
parti eguali, ma gli altri tutti in parti diseguali, essendo che il terminator
della luce I M non passa per i lor poli A, B; ed il parallelo I K, insieme con
tutti gli altri descritti dentro di esso e piú vicini al polo A, resteranno
interi nella parte illuminata, come, all'incontro, gli opposti verso il polo B,
contenuti dentro al parallelo L M, resteranno nelle tenebre. Oltre a
ciò, per esser l'arco A I eguale all'arco F D e l'arco A F comune,
saranno li due I K F, A F D eguali, e ciascheduno una quarta; e perché tutto
l'arco I F M è mezo cerchio, sarà l'arco M F una quarta, ed
eguale all'altra F K I: e però il Sole O sarà, in questo stato
della Terra, verticale a chi fusse nel punto F. Ma per la revoluzione diurna
intorno all'asse stabile A B tutti i punti del parallelo E F passano per il
medesimo punto F; e però in tal giorno il Sole nel mezo dí sarà
verticale a tutti gli abitatori del parallelo E F, e gli sembrerà
descriver nel suo moto apparente il cerchio che noi chiamiamo il tropico di
Cancro; ma a gli abitatori di tutti i paralleli che sono sopra 'l parallelo E
F, verso il polo boreale A, il Sole declina dal lor vertice verso austro; ed
all'incontro, tutti gli abitatori de i paralleli che sono sotto l'E F, verso
l'equinoziale C D e 'l polo austrino B, il Sole meridiano è elevato
oltre al lor vertice verso 'l polo boreale A. Vedesi appresso, come di tutti i
paralleli il solo massimo C D è tagliato in parti eguali dal terminator
della luce I M; ma gli altri, che sono sotto e sopra il detto massimo, son tutti
tagliati in parti diseguali: e de i superiori, gli archi semidiurni, che sono
quelli della parte della superficie terrestre illustrata dal Sole, son maggiori
de i seminotturni, che restano nelle tenebre; ed il contrario accade de i
rimanenti, che sono sotto il massimo C D verso il polo B, de i quali gli archi
semidiurni son minori de i seminotturni. Vedesi ancora manifestamente, che le
differenze di essi archi si vanno agumentando secondo che i paralleli son piú
vicini a i poli, sin tanto che il parallelo I K resta tutto intero nella parte
illuminata, e gli abitatori di esso hanno un giorno di ventiquattr'ore senza
notte, ed all'incontro il parallelo L M, restando tutto nelle tenebre, ha una
notte di ventiquattr'ore senza giorno.
Venghiamo ora alla terza figura della Terra, posta
co 'l suo centro nel punto Granchio, di dove il Sole apparisce essere nel primo
punto di Capricorno: già manifestamente si vede, come per non aver
l'asse A B mutata inclinazione, ma per essersi conservato parallelo a se stesso,
l'aspetto e situazion della Terra è l'istesso a capello che quel della
prima figura, salvo che quell'emisferio che nella prima era illuminato dal
Sole, in questa resta nelle tenebre, e viene illuminato quello che nel primo
posto era tenebroso; onde quello che accadeva prima circa le differenze de i
giorni e delle notti, circa l'esser quelli maggiori o minori di queste, ora
accade il contrario. E prima si vede, che dove nella prima figura il cerchio I
K era tutto nella luce, ora è tutto nelle tenebre, e l'opposto L M ora
è tutto nella luce, che prima era tutto tenebroso: dei paralleli tra 'l
cerchio massimo C D e 'l polo A, sono ora gli archi semidiurni minori de i
seminotturni, che prima erano il contrario: de gli altri parimente verso il
polo B, sono ora gli archi semidiurni maggiori de i seminotturni, l'opposto di
che accadeva nell'altro stato della Terra: vedesi ora il Sole fatto verticale a
gli abitatori del tropico G N, ed essersi abbassato verso austro a quelli del
parallelo E F per tutto l'arco E C G, cioè gradi 47, ed essere in somma
passato dall'uno all'altro tropico traversando l'equinoziale, con alzarsi ed
abbassarsi ne' meridiani il detto spazio di gradi 47: e tutta questa mutazione
deriva non dall'inclinarsi o elevarsi la Terra, ma all'incontro dal non si
inclinare o elevar già mai, ed in somma dal conservarsi ella sempre
nella medesima costituzione rispetto all'universo, solo co 'l circondare il
Sole, situato nel mezo dell'istesso piano nel quale circolarmente se gli muove
ella intorno co 'l movimento annuo. E qui è da notare un accidente
maraviglioso, che è, che sí come il conservar l'asse della Terra la
medesima direzione verso l'universo, o vogliamo dire verso la sfera altissima
delle stelle fisse, fa che il Sole ci appare elevarsi ed inclinarsi per tanto
spazio, cioè per gradi 47, e niente inclinarsi o elevarsi le stelle
fisse, cosí all'incontro, quando il medesimo asse della Terra si mantenesse
continuamente con la medesima inclinazione verso il Sole, o vogliam dire verso
l'asse del zodiaco, nissuna mutazione apparirebbe farsi nel Sole circa
l'alzarsi e abbassarsi, onde gli abitatori dell'istesso luogo sempre avrebbero
le medesime diversità de i giorni e delle notti e la medesima
costituzione di stagioni, cioè altri sempre inverno, altri sempre state,
altri primavera etc., ma all'incontro grandissima apparirebbe la mutazione
nelle stelle fisse circa l'elevarsi ed inclinarsi a noi, che importerebbe i
medesimi 47 gradi. Per intelligenza di che, torniamo a considerar lo stato
della Terra nella prima figura, dove si vede l'asse A B co 'l polo superiore A
inclinare verso il Sole; ma nella terza figura, avendo il medesimo asse
conservata l'istessa direzione verso la sfera altissima, co 'l mantenersi
parallelo a se stesso, non piú inclina verso 'l Sole co 'l polo superiore A, ma
all'incontro reclina dal primiero stato gradi 47 ed inclina verso la parte
opposta: sí che, per restituir la medesima inclinazione dell'istesso polo A
verso 'l Sole, bisognerebbe, co 'l girar il globo terrestre secondo la
circonferenza A C B D, trasportarlo verso E i medesimi 47 gradi; e per tanti
gradi qualsivoglia stella fissa osservata nel meridiano apparirebbe essersi
elevata o inclinata.
Venghiamo adesso all'esplicazione di quel che
resta, e consideriamo la Terra collocata nella quarta figura, cioè co 'l
suo centro nel punto primo della Libra, onde il Sole apparirà nel
principio dell'Ariete: e perché l'asse della Terra, che nella prima figura
s'intende esser inclinato sopra il diametro Capricorno Granchio, e però
esser nel medesimo piano che, segando il piano dell'orbe magno secondo la linea
Capricorno Granchio, a quello fusse eretto perpendicolare, trasportato nella
quarta figura, e mantenuto, come sempre si è detto, parallelo a se
stesso, verrà ad esser in un piano pur eretto alla superficie dell'orbe
magno e parallelo al piano che ad angoli retti sega la medesima superficie
secondo 'l diametro Capricorno Granchio, e però la linea che dal centro
del Sole va al centro della Terra, quale è la O Libra, sarà perpendicolare
all'asse B A: ma la medesima linea che dal centro del Sole va al centro della
Terra è sempre perpendicolare ancora al cerchio terminator della luce:
però questo medesimo cerchio passerà per i poli A, B nella quarta
figura, e nel suo piano sarà l'asse A B. Ma il cerchio massimo passando
per i poli de i paralleli, gli divide tutti in parti eguali; adunque gli archi
I K, E F, C D, G N, L M saranno tutti mezi cerchi, e l'emisferio illuminato
sarà questo che riguarda verso noi e 'l Sole, e 'l terminator della luce
sarà l'istesso cerchio A C B D, e stante la Terra in questo luogo,
farà l'equinozio a tutti li suoi abitatori. E 'l medesimo accade nella
seconda figura, dove la Terra, avendo l'emisferio suo illuminato verso il Sole,
mostra a noi l'altro oscuro con li suoi archi notturni, che pur son tutti mezi
cerchi; ed in conseguenza qui ancora si fa l'equinozio. E finalmente, essendo
che la linea prodotta dal centro del Sole al centro della Terra è
perpendicolare all'asse A B, al quale è parimente eretto il cerchio
massimo de i paralleli C D, passerà la medesima linea O Libra
necessariamente per l'istesso piano del parallelo C D, segando la sua
circonferenza nel mezo dell'arco diurno C D; e però il Sole sarà
verticale a quello che in tal segamento si trovasse: ma vi passano, portati
dalla diurna conversion della Terra, tutti gli abitatori di tal parallelo:
adunque tutti questi in tal giorno averanno il Sole meridiano sopra il vertice
loro, ed il Sole intanto a tutti gli abitatori della Terra apparirà
descrivere il massimo parallelo, detto equinoziale. In oltre, essendo
che, stante la Terra in amendue i punti solstiziali, de i cerchi polari I K, L
M l'uno resta intero nella luce e l'altro nelle tenebre; ma quando la Terra
è ne i punti equinoziali, la metà de i medesimi cerchi polari si
trovano nella luce, restando il rimanente nelle tenebre; non doverà
esser difficile a intendersi, come passando la Terra, verbigrazia, dal Granchio
(dove il parallelo I K è tutto nelle tenebre) nel Leone, cominci una
parte del parallelo I K verso il punto I a entrar nella luce, e che il
terminator della luce I M cominci a ritirarsi verso i poli A, B, segando il
cerchio A C B D non piú in I, M, ma in due altri punti cadenti tra i termini I,
A, M, B, de gli archi I A, M B, onde gli abitatori del cerchio I K comincino a
goder del lume, e gli altri abitatori del cerchio L M a sentir della notte. Ed
ecco, con due semplicissimi movimenti, fatti dentro a tempi proporzionati alle
grandezze loro e tra sé non contrarianti, anzi fatti, come tutti gli altri de' corpi
mondani mobili, da occidente verso oriente, assegnati al globo terrestre, rese
adequate ragioni di tutte quelle medesime apparenze, per le quali salvare con
la stabilità della Terra è necessario (renunziando a quella
simmetria che si vede tra le velocità e le grandezze de i mobili)
attribuire ad una sfera vastissima sopra tutte le altre una celerità
incomprensibile, mentre le altre minori sfere si muovono lentissimamente, e piú
far tal moto contrario al movimento di quelle, e, per accrescere l'improbabilità,
far che da quella superiore sfera sieno, contro alla propria inclinazione,
rapite tutte le inferiori. E qui rimetto al vostro parere il giudicar quello
che abbia piú del verisimile.
SAGR. A me, per quello che appartiene al mio senso,
si rappresenta non piccola differenza tra la semplicità e
facilità dell'operare effetti con i mezi assegnati in questa nuova
constituzione, e la multiplicità confusione e difficultà che si
trova nell'antica e comunemente ricevuta; ché quando secondo questa
multiplicità fusse ordinato questo universo, bisognerebbe in filosofia
rimuover molti assiomi comunemente ricevuti da tutti i filosofi, come che la
natura non multiplica le cose senza necessità, e che ella si serve de'
mezi piú facili e semplici nel produrre i suoi effetti, e che ella non fa
niente indarno, ed altri simili. Io confesso non aver sentita cosa piú
ammirabile di questa, né posso credere che intelletto umano abbia mai penetrato
in piú sottile speculazione. Non so quello che ne paia al signor Simplicio.
SIMP. Queste (se io devo dire il parer mio con
libertà) mi paiono di quelle sottigliezze geometriche, le quali
Aristotile riprende in Platone, mentre l'accusa che per troppo studio della
geometria si scostava dal saldo filosofare: ed io ho conosciuti e sentiti grandissimi
filosofi peripatetici sconsigliar suoi discepoli dallo studio delle
matematiche, come quelle che rendono l'intelletto cavilloso ed inabile al ben
filosofare; instituto diametralmente contra a quello di Platone, che non
ammetteva alla filosofia se non chi prima [si] fusse impossessato della
geometria.
SALV. Applaudo al consiglio di questi vostri
Peripatetici, di distorre i loro scolari dallo studio della geometria, perché
non ci è arte alcuna piú accomodata per scoprir le fallacie loro; ma vedete
quanto cotesti sien differenti da i filosofi matematici, li quali assai piú
volentieri trattano con quelli che ben son informati della comune filosofia
peripatetica, che con quelli che mancano di tal notizia, li quali, per tal
mancamento, non posson far parallelo tra dottrina e dottrina. Ma posto questo
da banda, ditemi, di grazia, quali stravaganze o troppo sforzate sottigliezze
vi rendon meno applausibile questa copernicana costituzione.
SIMP. Io invero non l'ho interamente capita, forse
perché non ho né anco ben in pronto le ragioni che de i medesimi effetti vengon
prodotte da Tolomeo, dico di quelle stazioni, retrogradazioni, accostamenti e
allontanamenti de' pianeti, accrescimenti e scorciamenti de' giorni, mutazioni
delle stagioni, etc.: ma, lasciate le conseguenze che dependono dalle prime
supposizioni, sento nelle supposizioni stesse non piccole difficultà: le
quali supposizioni quando vengon atterrate, si tiran dietro la rovina di tutta
la fabbrica. Ora, perché tutta la machina del Copernico mi par che si fondi
sopra instabili fondamenti, poiché si appoggia su la mobilità della
Terra, quando questa sia rimossa, non accade passare ad altre disputazioni; e
per rimuover questa parmi che l'assioma d'Aristotile sia sufficientissimo, che
di un corpo semplice un solo moto semplice possa esser naturale; ma qui alla
Terra, corpo semplice, vengono assegnati 3, se non 4, movimenti, e tra di loro
molto differenti; poiché, oltre al moto retto, come grave, verso il centro, che
non se gli può negare, se gli attribuisce un moto circolare in un gran
cerchio intorno al Sole in un anno, ed una vertigine in se stessa in
ventiquattr'ore, e, quello poi che è piú esorbitante e che forse per
ciò voi lo tacevi, un'altra vertigine intorno al proprio centro,
contraria alla prima delle ventiquattr'ore, e che si compie in un anno. A
questo l'intelletto mio sente repugnanza grandissima.
SALV. Quanto al moto in giú, già s'è
concluso non esser altrimenti del globo terrestre, che mai di tal movimento non
s'è mosso né già mai s'è per muovere; ma è (se pure
è) delle parti, per riunirsi al suo tutto. Quanto poi al movimento annuo
ed al diurno, questi, essendo fatti per il medesimo verso, sono benissimo
compatibili, in quella maniera che se noi lasciassimo andare una palla giú per
una superficie declive, ella, nello scendere per quella spontaneamente,
girerà in se stessa. Quanto poi al terzo moto attribuitole dai Copernico
in se stessa in un anno, solamente per conservare il suo asse inclinato e
diretto verso la medesima parte del firmamento, vi dirò cosa degna di
grandissima considerazione; cioè, che tantum abest che (benché fatto al contrario dell'altro
annuo) in esso sia repugnanza o difficultà alcuna, che egli
naturalissimamente e senza veruna causa motrice compete a qualsivoglia corpo
sospeso e librato, il quale, se sarà portato in giro per la
circonferenza di un cerchio, immediate per se stesso acquista una conversione
circa 'l proprio centro, contraria a quella che lo porta intorno, e tale in
velocità, che amendue finiscono una conversione nell'istesso tempo
precisamente. Potrete veder questa mirabile ed accomodata al nostro proposito
esperienza, mettendo in un catino d'acqua una palla che vi galleggi, e tenendo
il vaso in mano: se vi andrete rivolgendo sopra le piante de' piedi, vedrete
immediatamente cominciar la palla a rivolgersi in se stessa con moto contrario
a quel del catino, e finir la sua revoluzione quando finirà quella del
vaso. Ora, che altro è la Terra che un globo pensile e librato in aria
tenue e cedente, il quale, portato in giro in un anno per la circonferenza di
un gran cerchio, ben deve acquistar senz`altro motore una vertigine circa 'l
proprio centro, annua e contraria all'altro movimento pur annuo? Voi vedrete
quest'effetto; ma se poi andrete piú accuratamente considerando, vi accorgerete
quest'esser non cosa reale, ma una semplice apparenza, e quello che vi assembra
un rivolgersi in se stesso, essere un non si muovere ed un conservarsi del
tutto immutabile rispetto a tutto quello che fuor di voi e del vaso resta
immobile: perché, se in quella palla segnerete qualche nota, e considererete
verso qual parte del muro della stanza dove sete, o della campagna o del cielo,
ella riguarda, vedrete tal nota, nel rivolgimento del vaso e vostro, riguardar
sempre verso quella medesima parte; ma paragonandola al vaso ed a voi stesso,
che sete mobili, ben apparirà ella andar mutando direzione, e con
movimento contrario al vostro e del vaso andar ricercando tutti i punti del
giro di quello; talché con maggior verità si può dire che voi ed
il vaso giriate intorno alla palla immobile, che ch'essa si volga drento al
vaso. In tal guisa la Terra, sospesa e librata nella circonferenza dell'orbe
magno, e situata in tal modo che una delle sue note, qual sarebbe per esempio
il suo polo boreale, riguardi verso una tale stella o altra parte del
firmamento, verso la medesima si mantien sempre diretta, benché portata co 'l
moto annuo per la circonferenza di esso orbe magno. Questo solo è
bastante a far cessare la maraviglia e rimuovere ogni difficultà: ma che
dirà il signor Simplicio se a questa non indigenza di causa cooperante
aggiugneremo una mirabile virtú intrinseca del globo terrestre, di riguardar
con sue determinate parti verso determinate parti del firmamento? Parlo della
virtú magnetica, participata costantissimamente da qualsivoglia pezzo di
calamita. E se ogni minima particella di tal pietra ha in sé tal virtú, chi
vorrà dubitare, la medesima piú altamente risedere in tutto questo globo
terreno, abbondante di tal materia, e che forse egli stesso, quanto alla sua
interna e primaria sustanza, altro non è che un'immensa mole di
calamita?
SIMP. Adunque voi sete di quelli che aderiscono
alla magnetica filosofia di Guglielmo Gilberto?
SALV. Sono per certo, e credo d'aver per compagni
tutti quelli che attentamente avranno letto il suo libro e riscontrate le sue
esperienze; né sarei fuor di speranza che quello che è intervenuto a me
in questo caso, potesse accadere a voi ancora, tuttavolta che una
curiosità simile alla mia ed un conoscere che infinite cose restano in
natura incognite a gl'intelletti umani, con liberarvi dalla schiavitudine di
questo o di quel particolare scrittore delle cose naturali, allentasse il freno
al vostro discorso e rammorbidisse la contumacia e renitenza del vostro senso,
sí che ei non negasse tal ora di dare orecchio a voci non piú sentite. Ma
(siami permesso d'usar questo termine) la pusillanimità de gl'ingegni
comuni è giunta a segno, che non solamente alla cieca fanno dono, anzi
tributo, del proprio assenso a tutto quello che trovano scritto da quelli
autori che nella prima infanzia de' loro studii gli furono accreditati da i lor
precettori, ma recusano di ascoltare, non che di esaminare, qual si sia nuova
proposizione o problema, benché non solamente non sia stato confutato, ma né
pure esaminato né considerato, da i loro autori: de' quali uno è questo,
di investigare qual sia la vera, propria, primaria, interna e general materia e
sustanza di questo nostro globo terrestre; che, benché né ad Aristotile né ad altri,
prima che al Gilberto, sia caduto in mente di pensare se possa esser calamita,
non che né Aristotile né altri abbiano confutata una tale opinione, tuttavia mi
son io incontrato in molti che al primo motto di questo, quasi cavallo che
adombri, si sono ritirati in dietro e sfuggito di trattarne, spacciando un tal
concetto per una vana chimera, anzi per una solenne pazzia; e forse il libro
del Gilberto non mi sarebbe venuto nelle mani, se un filosofo peripatetico di
gran nome, credo per assicurar la sua libreria dal contagio, non me n'avesse
fatto dono.
SIMP. Io, che liberamente confesso essere stato uno
de gl'ingegni comuni, e solamente da questi pochi giorni in qua, che mi
è stato conceduto d'intervenire a i ragionamenti vostri, conosco di
essermi alquanto sequestrato dalle strade trite e popolari, non però mi
sento per ancora sollevato tanto, che le scabrosità di questa nuova
fantastica opinione non mi sembrino molto ardue e difficili da superarsi.
SALV. Se quello che scrive il Gilberti è
vero, non è opinione, ma suggetto di scienza; non è cosa nuova,
ma antichissima quanto la Terra stessa; né potrà (essendo vera) esser
aspra né difficile, ma piana ed agevolissima; ed io, quando vi piaccia, vi
farò toccar con mano come voi da per voi stesso vi fate ombra, ed avete
in orrore cosa che nulla tiene in sé di spaventoso, quasi piccolo fanciullo che
ha paura della tregenda senza sapere di lei altro che il nome, come quella che
oltre al nome non è nulla.
SIMP. Avrò piacere d'esser illuminato e
tratto d'errore.
SALV. Rispondetemi dunque alle domande ch'io vi
farò. E prima, ditemi se voi credete che questo nostro globo, che noi
abitiamo e nominiamo Terra, consti di una sola e semplice materia, o pur sia un
aggregato di materie diverse tra di loro.
SIMP. Io lo veggo composto di sustanze e corpi
molto diversi; e prima, per le maggiori parti componenti, veggo l'acqua e la
terra, sommamente tra di loro differenti.
SALV. Lasciamo da parte per ora i mari e
l'altr'acque, e consideriamo le parti solide; e ditemi s'elle vi paiono tutte
una cosa stessa, o pur cose diverse.
SIMP. Quanto all'apparenza, io le veggo diverse,
trovandosi grandissime campagne di infeconda arena, ed altre di terreni fecondi
e fruttiferi; veggonsi infinite montagne sterili ed alpestri, ripiene di duri
sassi e pietre di diversissime sorte, come porfidi, alabastri, diaspri e mille
e mill'altre sorte di marmi; ci sono le miniere vastissime de i metalli di
tante spezie, ed in somma tante diversità di materie, che un giorno
intero non basterebbe a numerarle solamente.
SALV. Ora, di tutte queste diverse materie, credete
voi che nel compor questa gran massa concorrano porzioni eguali, o pur che tra
tutte ce ne sia una parte che di gran lunga superi le altre e sia come materia
e sustanza principale della vasta mole?
SIMP. Credo che le pietre, i marmi, i metalli, le
gemme e l'altre tante materie diverse, sieno appunto come gioie ed ornamenti
esteriori e superficiali del primario globo, che in mole penso che
smisuratamente superi tutte quest'altre cose.
SALV. E questa principale e vasta mole, della quale
le nominate cose son quasi escrescenze ed ornamenti, di che materia credete che
sia composta?
SIMP. Penso che sia il semplice, o meno impuro,
elemento della terra.
SALV. Ma per terra che cosa intendete voi? forse
questa ch'è sparsa per le campagne, la quale si rompe con le vanghe e
con gli aratri, dove si seminano i grani e si piantano i frutti, e dove
spontaneamente nascono boscaglie grandissime, e che in somma è
l'abitazione di tutti gli animali e la matrice di tutti i vegetabili?
SIMP. Cotesta direi io che fusse la primaria
sustanza di questo nostro globo.
SALV. Oh questo non pare a me che sia ben detto;
perché questa terra, che si rompe, si semina, e che è fruttifera,
è una parte, e ben sottile, della superficie del globo, la quale non si
profonda salvo che per breve spazio, in comparazione della distanza sino al
centro: e l'esperienza ci mostra che non molto si cava al basso, che si trovano
materie diverse assai da questa esterior corteccia, piú sode e non buone alle
produzioni de i vegetabili; oltre che le parti piú interne, come premute da
gravissimi pesi che a loro soprastanno, è credibile che siano costipate
e dure quanto qualsivoglia durissimo scoglio. Aggiugnete a questo, che indarno
sarebbe stata contribuita la fecondità a quelle materie che già
mai non erano per produr frutto, ma per restare eternamente sepolte ne'
profondi e tenebrosi abissi della Terra.
SIMP. E chi ci assicura che le parti piú interne e
vicine al centro siano infeconde? forse hanno esse ancora le lor produzioni di
cose ignote a noi.
SALV. Voi, quanto qualsisia altri, potreste di
ciò esser certo, come quello che ben potete comprendere, che se i corpi
integranti dell'universo son prodotti solo per benefizio del genere umano,
questo sopra tutti gli altri deve esser destinato a i soli comodi di noi
abitatori suoi: ma qual benefizio potremo ritrarre da materie talmente a noi
recondite e remote, che già mai non siamo per farcele trattabili? Non
può dunque l'interna sustanza di questo nostro globo essere una materia
frangibile dissipabile e nulla coerente, come questa superficiale che noi
chiamiamo terra; ma convien che sia corpo densissimo e solidissimo, ed in somma
una durissima pietra. E se ella pur debbe esser tale, qual ragione vi ha da far
piú renitente al creder che ella sia una calamita, che un porfido, un diaspro o
altro marmo duro? Forse quando il Gilberto avesse scritto che questo globo
è interiormente fatto di pietra serena o di calcidonio, il paradosso vi
sarebbe parso meno esorbitante?
SIMP. Che le parti di questo globo piú interne
siano piú compresse, e per ciò piú costipate e solide, e piú e piú tali
secondo che elle si profondan piú, lo concedo, e lo concede anco Aristotile; ma
che elle degenerino, e sieno altro che terra della medesima sorta che questa
delle parti superficiali, non sento cosa che mi necessiti a concederlo.
SALV. Io non ho intrapreso questo ragionamento a
fine di concludervi demostrativamente che la primaria e real sustanza di questo
nostro globo sia calamita, ma solamente per mostrarvi, niuna ragione ritrovarsi
per la quale altri deva esser piú renitente a conceder che ei sia di calamita,
che di qualche altra materia. E voi, se andrete ben considerando, troverete,
non esser improbabile che un solo puro ed arbitrario nome abbia mossi gli
uomini a creder che ei sia di terra; e questo è l'essersi serviti
comunemente da principio di questo nome terra per significar tanto quella
materia che si ara e si semina, quanto per nominar questo nostro globo; la
denominazion del quale se si fusse presa dalla pietra, come non meno poteva
prendersi da quella che dalla terra, il dir che la sustanza primaria di esso
fusse pietra non arebbe sicuramente trovato renitenza o contradizione in
alcuno: e questo ha tanto piú del probabile, quanto io tengo per fermo, che
quando si potesse scortecciar questo gran globo, levandone un suolo grosso
mille o duamila braccia, e separar poi le pietre dalla terra, molto e molto
maggior sarebbe il cumulo de i sassi, che quello del terreno fecondo. Delle
ragioni poi che concludentemente provino, de facto, questo nostro globo
esser di calamita, io non ve ne ho prodotte nessuna, né questo è tempo
di produrle, e massimo che con vostra comodità le potrete vedere nel
Gilberto; solo, per inanimirvi a leggerlo, vi voglio esporre con certa mia
similitudine il progresso che egli tiene nel suo filosofare. So che voi sapete
benissimo quanto la cognizione de gli accidenti conferisca alla investigazione
della sustanza ed essenza delle cose: però voglio che usiate diligenza di
ben informarvi di molti accidenti e proprietà che singolarmente si
trovano nella calamita, e non in altra pietra né in altro corpo, come sarebbe,
per esempio, dell'attrarre il ferro, del conferirgli, solo con la sua presenza,
la medesima virtú, di comunicargli parimente proprietà di riguardar
verso i poli, sí come una tale ritiene ella in se medesima; ed oltre a questa,
fate di veder per prova come in lei risiede virtú di conferire all'ago
magnetico non solamente il drizzarsi sotto un meridiano verso i poli con moto
orizontale (proprietà già piú tempo fa conosciuta), ma un
nuovamente osservato accidente di declinare (stando bilanciato sotto il
meridiano già segnato sopra una sferetta di calamita), declinar, dico,
sino a' determinati segni piú e meno, secondo che tal ago si terrà piú o
meno vicino al polo, sin che sopra l'istesso polo si pianta eretto a
perpendicolo, dove che sopra le parti di mezo sta parallelo all'asse. Di piú,
proccurate di far prova, come risedendo la virtú di attrarre il ferro vigorosa assai
piú verso i poli che circa le parti di mezo, tal forza è notabilmente
piú gagliarda nell'uno che nell'altro polo, e questo in tutti i pezzi di
calamita, il polo piú gagliardo de' quali è quello che riguarda verso
austro. Notate appresso, che in una piccola calamita questo polo australe, e
piú valoroso dell'altro, diventa piú debile qualunque volta e' deva sostenere
il ferro alla presenza del polo boreale di un'altra calamita assai maggiore: e
per non far lungo discorso, assicuratevi con l'esperienza di queste ed altre
molte proprietà descritte dal Gilberto, le quali tutte sono talmente
proprie della calamita, che nessuna di loro compete a veruna altra materia.
Ditemi ora, signor Simplicio: quando vi fussero proposti mille pezzi di diverse
materie, ma ciascheduno coperto e rinvolto in un panno sotto il quale ei si
occultasse, e vi fusse domandato che, senza scoprirgli, voi faceste opera
d'indovinare da segni esteriori la materia di ciascheduno, e che, nel tentare,
voi vi incontraste in uno il quale mostrasse apertamente di aver tutte le
proprietà da voi già conosciute risedere nella sola calamita e
non in veruna altra materia, che giudizio fareste voi dell'essenza di tal
corpo? direste voi che potesse essere un pezo d'ebano o di alabastro o di stagno?
SIMP. Direi, senza punto dubitare, che fusse un
pezzo di calamita.
SALV. Quando ciò sia, dite pur risolutamente
che sotto questa coverta e scorza, di terra, di pietre, di metalli, di acqua
etc., si nasconde una gran calamita, poiché intorno ad essa si riconoscono, da chi
di osservargli si prende cura, tutti quei medesimi accidenti che ad un verace e
scoperto globo di calamita competer si scorgono: ché quando altro non si
vedesse che quello dell'ago declinatorio, che, portato intorno alla Terra, piú
e piú s'inclina con l'avvicinarsi al polo boreale, e meno declina verso
l'equinoziale, sotto il quale si riduce finalmente all'equilibrio, dovrebbe
bastare a persuadere ogni piú renitente giudizio. Taccio quell'altro mirabile
effetto che sensatamente si vede in tutti i pezzi di calamita: de i quali a
noi, abitatori dell'emisferio boreale, il polo meridionale di essa calamita
è piú gagliardo dell'altro, e la differenza si scorge maggiore quanto
piú altri si allontana dall'equinoziale; e sotto l'equinoziale amendue le parti
sono di forze eguali, ma notabilmente piú deboli; ma nelle regioni meridionali,
lontano dall'equinoziale, si cangia natura, e quella parte che a noi era piú
debile, acquista vigore sopra l'altra: e tutto questo confronta con quello che
veggiamo farsi da un piccol pezzetto di calamita alla presenza di un grande, la
virtú del quale, prevalendo al minore, se lo rende obbediente, e secondo ch'e'
si terrà di qua o di là dall'equinoziale della grande, fa le
mutazioni medesime che ho detto farsi da ogni calamita portata di qua o di
là dall'equinozial della Terra.
SAGR. Io rimasi persuaso alla prima lettura del
libro del Gilberto; ed avendo incontrato un pezzo di calamita eccellentissima,
feci per lungo tempo molte osservazioni, e tutte degne d'estrema meraviglia; ma
sopra a tutte a me pare stupenda quella dell'accrescergli tanto la
facultà del sostenere un ferro, con l'armarla nel modo che 'l medesimo
autore insegna: ed io, con armare quel mio pezzo, gli multiplicai la forza in
ottupla proporzione, e dove disarmata non sosteneva appena nove once di ferro,
armata ne sosteneva piú di sei libbre; e forse voi arete veduto questo medesimo
pezzo nella Galleria del Serenissimo Gran Duca vostro (al quale io la cedetti),
sostenente due ancorette di ferro.
SALV. Io molte volte la veddi, e con gran
meraviglia, sin che altro assai maggior stupore mi porse un piccolo pezzetto
che si ritrova in mano del nostro Accademico; il quale, non essendo piú che
once sei di peso, né sostenendo disarmato altro che once dua appena, armato ne
sostiene 160, sí che viene a regger 80 volte piú armato che disarmato, ed a
regger peso 26 volte maggiore del suo proprio: maraviglia assai maggiore di
quello che aveva potuto incontrare il Gilberti, che scrive non aver potuto
incontrar calamita che arrivi a sostenere il quadruplo del proprio peso.
SAGR. Gran campo di filosofare mi par che porga
questa pietra a gl'intelletti umani: ed io l'ho ben mille volte meco medesimo
specolato, come possa esser che ella porga a quel ferro, che l'arma, forza
tanto superiore alla sua propria, e finalmente non trovo cosa che mi quieti; né
molto costrutto cavo da quel che circa questo particolare scrive il Gilberto.
Non so se l'istesso avvenga a voi.
SALV. Io sommamente laudo ammiro ed invidio questo
autore, per essergli caduto in mente concetto tanto stupendo circa a cosa
maneggiata da infiniti ingegni sublimi, né da alcuno avvertita; parmi anco
degno di grandissima laude per le molte nuove e vere osservazioni fatte da lui,
in vergogna di tanti autori mendaci e vani, che scrivono non sol quel che
sanno, ma tutto quello che senton dire dal vulgo sciocco, senza cercare di
assicurarsene con esperienza, forse per non diminuire i lor libri: quello che
avrei desiderato nel Gilberti, è che fusse stato un poco maggior
matematico, ed in particolare ben fondato nella geometria, la pratica della
quale l'avrebbe reso men risoluto nell'accettare per concludenti dimostrazioni
quelle ragioni ch'ei produce per vere cause delle vere conclusioni da sé
osservate; le quali ragioni (liberamente parlando) non annodano e stringono con
quella forza che indubitabilmente debbon fare quelle che di conclusioni
naturali, necessarie ed eterne, si possono addurre: e io non dubito che co 'l
progresso del tempo si abbia a perfezionar questa nuova scienza, con altre
nuove osservazioni, e piú con vere e necessarie dimostrazioni. Né per
ciò deve diminuirsi la gloria del primo osservatore; né io stimo meno,
anzi ammiro piú assai, il primo inventor della lira (benché creder si debba che
lo strumento fusse rozissimamente fabbricato, e piú rozamente sonato), che
cent'altri artisti che nei i conseguenti secoli tal professione ridussero a
grand'esquisitezza: e parmi che molto ragionevolmente l'antichità
annumerasse tra gli Dei i primi inventori dell'arti nobili, già che noi
veggiamo il comune de gl'ingegni umani esser di tanta poca curiosità, e
cosí poco curanti delle cose pellegrine e gentili, che nel vederle e sentirle
esercitar da professori esquisitamente non per ciò si muovono a
desiderar d'apprenderle; or pensate se cervelli di questa sorta si sariano
giamai applicati a volere investigar la fabbrica della lira o all'invenzion
della musica, allettati dal sibilo de i nervi secchi di una testuggine o dalle
percosse di quattro martelli. L'applicarsi a grandi invenzioni, mosso da
piccolissimi principii, e giudicar sotto una prima e puerile apparenza potersi
contenere arti maravigliose, non è da ingegni dozinali, ma son concetti
e pensieri, di spiriti sopraumani. Ora, rispondendo alla vostra domanda, dico
che io ancora lungamente ho pensato per ritrovar qual possa essere la cagione
di questa cosí tenace e potente congiunzione che noi veggiamo farsi tra l'un
ferro, che arma la calamita, e l'altro che a quello si congiugne: e prima mi
sono assicurato che la virtú e forza della pietra non si agumenta punto per
essere armata, per ciò che né attrae da maggior distanza, né meno
sostiene piú validamente un ferro tra 'l quale e l'armadura s'interponga una
sottilissima carta, sino a una foglia d'oro battuto; anzi con tale
interposizione piú ferro sostiene l'ignuda che l'armata: non ci è dunque
mutazione nella virtú, e pure ci è innovazione nell'effetto: e perché
è necessario che di nuovo effetto nuova sia la cagione, ricercando qual
novità si introduca nell'atto del sostener con l'armadura, altra
mutazione non si scorge che nel diverso toccamento, ché dove prima ferro
toccava calamita, ora ferro tocca ferro; adunque bisogna necessariamente
concludere, i diversi toccamenti esser causa della diversità de gli
effetti. La diversità poi tra i contatti, non veggo che possa derivar da
altro che dall'esser la sustanza del ferro di parti piú sottili, piú pure e piú
costipate, che quelle della calamita, che son piú grosse, men pure e piú rare;
dal che ne segue, che le superficie de' due ferri che s'hanno da toccare,
mentre sieno esquisitamente spianate forbite e lustrate, tanto esattamente si
congiungono, che tutti gl'infiniti punti dell'una si incontrano con gl'infiniti
dell'altra, sí che i filamenti (per cosí dire) che collegano i due ferri, sono
molti piú di quelli che collegano calamita con ferro, per esser la sustanza
della calamita piú porosa e men sincera, che fa che non tutti i punti e
filamenti della superficie del ferro trovino nella superficie della calamita
riscontri con chi unirsi. Che poi la sustanza del ferro (e massimo del ben
purificato, qual è l'acciaio finissimo) sia di parti grandemente piú
dense sottili e pure che la materia della calamita, si vede dal potersi ridurre
il suo taglio ad una sottigliezza estrema, qual è il taglio del rasoio,
alla quale mai non si condurrebbe a gran segno quel d'un pezzo di calamita.
L'impurità poi della calamita, e l'esser mescolata con altre
qualità di pietre, prima sensatamente si scorge dal colore di alcune
macchiette, per lo piú biancheggianti, e poi dal presentargli un ago pendente
da un filo, il quale sopra tali pietruzze non si può posare, ma,
attratto dalle parti circonfuse, par che sfugga quelle e salti sopra la calamita
contigua ad esse; e come alcune di tali parti eterogenee son per la grandezza
loro molto visibili, cosí possiamo credere altre in gran copia, per la lor
piccolezza incospicue, esserne disseminate per tutta la massa. Confermasi
quanto io dico (cioè che la moltitudine de' toccamenti che si fanno tra
ferro e ferro è causa del tanto saldo congiugnimento) da una esperienza:
la qual è, che se noi presenteremo l'aguzza punta d'un ago all'armatura
della calamita, non piú validamente se gli attaccherà che alla medesima
ignuda; il che da altro non può derivare che dall'esser i due toccamenti
eguali, cioè amendue di un sol punto. Ma che piú? prendasi un ago e
pongasi sopra la calamita sí che una delle sue estremità sporga alquanto
infuori, ed a quella si appresenti un chiodo, al quale subito l'ago si
attaccherà, in maniera che ritirando in dietro il chiodo, l'ago si
ridurrà sospeso, ed attaccato con le sua estremità alla calamita
ed al ferro, e ritirando ancora piú il chiodo, staccherà l'ago dalla
calamita, se però la cruna dell'ago sarà unita al chiodo e la
punta alla calamita; ma se la cruna sarà verso la calamita, nel
rimuovere il chiodo l'ago resterà attaccato con la calamita, e questo
(per mio giudizio) non per altro, se non che, per esser l'ago piú grosso verso la
cruna, tocca in molti più punti che non fa l'acutissima punta.
SAGR. Tutto il discorso mi è parso molto
concludente, e quest'esperienze dell'ago me lo rendon di poco inferiore a una
dimostrazion matematica: ed ingenuamente confesso di non avere in tutta la
filosofia magnetica sentito o letto altrettanto, che con simil efficacia renda
ragione di alcun altro de' suoi tanti maravigliosi accidenti; de i quali se
avessimo le cause con tanta chiarezza spiegate, non so qual piú suave cibo
potesse desiderare l'intelletto nostro.
SALV. Nell'investigar le ragioni delle conclusioni
a noi ignote, bisogna aver ventura d'indirizzar da principio il discorso verso
la strada del vero; per la quale quando altri si incammina, agevolmente accade
che s'incontrino altre ed altre proposizioni conosciute per vere, o per
discorsi o per esperienze, dalla certezza delle quali la verità della
nostra acquisti forza ed evidenza, come appunto è accaduto a me del
presente problema: del quale volendo io con qualche altro riscontro assicurarmi
se la ragione da me investigata fusse vera, cioè che la sustanza della
calamita fusse veramente assai men continuata che quella del ferro o
dell'acciaio, feci, da quei maestri che lavorano nella Galleria del Gran Duca
mio Signore, spianare una faccia di quel medesimo pezzo di calamita che
già fu vostro, e poi quanto piú fu possibile pulire e lustrare; dove con
mio contento toccai con mano quel ch'io cercavo. Imperocché si scopersero molte
macchie di color diverso dal resto, ma splendide e lustre quanto qualsivoglia
piú densa pietra dura; il resto del campo era pulito, ma al tatto solamente,
non essendo punto lustrante, anzi come da caligine annebbiato: e questa era la
sustanza della calamita; e la splendida, di altre pietre mescolate tra quella,
sí come sensatamente si conosceva dall'accostar la faccia spianata sopra
limatura di ferro, la quale in gran copia saltava alla calamita, ma né pure una
sola stilla alle dette macchie; le quali erano molte; alcune, grandi quanto la
quarta parte di un'ugna; altre, alquanto minori; moltissime poi le piccole; e
le appena visibili, quasi che innumerabili. Onde io mi assicurai, verissimo
essere stato il mio concetto, quando prima giudicai dover la sustanza della
calamita esser non fissa e serrata, ma porosa o per meglio dire spugnosa, ma
con questa differenza, che dove la spugna nelle sue cavità e cellule
contiene aria o acqua, la calamita ha le sue ripiene di pietra durissima e
grave, come ci dimostra l'esquisito lustro che esse ricevono: onde, come da
principio dissi, applicando la superficie del ferro alla superficie della
calamita, le minime particelle del ferro, benché continuatissime forse piú di
quelle di qualsivoglia altro corpo (sí come ci mostra il lustrarsi egli piú di
qualsivoglia altra materia), non tutte, anzi poche, incontrano sincera
calamita, ed essendo pochi i contatti, debile è l'attaccamento; ma
perché l'armadura della calamita, oltre al toccar gran parte della sua
superficie, si veste anco della virtú delle parti vicine, ancorché non tocche, essendo
esattamente spianata quella sua faccia alla quale si applica l'altra, pur
similmente bene spianata, del ferro da esser sostenuto, il toccamento si fa di
innumerabili minime particelle, se non forse de gl'infiniti punti di amendue le
superficie, per lo che l'attaccamento ne riesce gagliardissimo. Questa
osservazione, di spianar le superficie de i ferri che si hanno a toccare, non
fu avvertita dal Gilberti; anzi egli fa i ferri colmi, sí che piccolo è
il lor contatto, onde avviene che minor assai sia la tenacità con la
quale essi ferri si attaccano.
SAGR. Resto dall'assegnata ragione, come dissi pur
ora, poco meno appagato che se ella fusse una pura dimostrazion geometrica; e
perché si tratta di problema fisico, stimo che anco il signor Simplicio si
troverà sodisfatto, per quanto comporta la scienza naturale, nella quale
ei sa che non si deve ricercar la geometrica evidenza.
SIMP. Parmi veramente che il signor Salviati con
bel circuito di parole abbia sí chiaramente spiegata la causa di quest'effetto,
che qualsivoglia mediocre ingegno, ancorché non scienziato, ne potrebbe restar
capace: ma noi, contenendoci dentro a' termini dell'arte, riduchiamo la causa
di questi e simili altri effetti naturali alla simpatia, che è certa
convenienza e scambievole appetito che nasce tra le cose che sono tra di loro
simiglianti di qualità; sí come, all'incontro, quell'odio e nimicizia,
per la quale altre cose naturalmente si fuggono e si hanno in orrore, noi
addimandiamo antipatia.
SAGR. E cosí con questi due nomi si vengono a render
ragioni di un numero grande di accidenti ed effetti, che noi veggiamo, non
senza maraviglia, prodursi in natura. Ma questo modo di filosofare mi par che
abbia gran simpatia con certa maniera di dipignere che aveva un amico mio, il
quale sopra la tela scriveva con gesso: «Qui voglio che sia il fonte, con Diana
e sue ninfe; qua, alcuni levrieri: in questo canto voglio che sia un
cacciatore, con testa di cervio; il resto, campagna, bosco e collinette»; il
rimanente poi lasciava con colori figurare al pittore: e cosí si persuadeva
d'aver egli stesso dipinto il caso d'Atteone, non ci avendo messo di suo altro
che i nomi. Ma dove ci siamo condotti con sí lunga digressione, contro alle
nostre già stabilite costituzioni? Quasi mi è uscito di mente
qual fusse la materia che trattavamo allora che deviammo in questo magnetico
discorso; e pure avevo per la mente non so che da dire in quel proposito.
SALV Eramo su 'l dimostrare, quel terzo moto
attribuito dal Copernico alla Terra non esser altrimenti un movimento, ma una
quiete, ed un mantenersi immutabilmente diretta con sue determinate parti verso
le medesime e determinate parti dell'universo, cioè un conservar
perpetuamente l'asse della sua diurna revoluzione parallelo a se stesso e
riguardante verso tali stelle fisse: il qual costantissimo stato dicevamo
competer naturalmente ad ogni corpo librato e sospeso in un mezo fluido e
cedente, che, benché portato in volta, non mutava direzione rispetto alle cose
esterne, ma pareva solamente girare in se stesso rispetto a quello che lo
portava ed al vaso nel quale era portato. Aggiugnemmo poi, a questo semplice e
naturale accidente, la virtú magnetica, per la quale il globo terrestre tanto
piú saldamente poteva contenersi immutabile, etc.
SAGR. Già mi sovvien del tutto: e quel che
allor mi passava per la mente, e che volevo produrre, era certa considerazione
intorno alla difficultà e instanza del signor Simplicio, la quale egli
promoveva contro alla mobilità della Terra, presa dalla
multiplicità de' moti, impossibile ad attribuirsi ad un corpo semplice,
del quale, in dottrina d'Aristotile, un solo e semplice movimento può
esser naturale; e quello ch'io volevo mettere in considerazione, era appunto la
calamita, alla quale noi sensatamente veggiamo competer naturalmente tre movimenti:
l'uno, verso il centro della Terra, come grave; il secondo è il moto
circolare orizontale, per il quale restituisce e conserva il suo asse verso
determinate parti dell'universo; il terzo è questo, nuovamente scoperto
dal Gilberto, d'inclinar il suo asse, stante nel piano di un meridiano, verso
la superficie della Terra, e questo piú e meno secondo che ella sarà
distante dall'equinoziale, sotto 'l quale resta parallelo all'asse della Terra.
Oltre a questi tre, non è forse improbabile che possa averne un quarto,
di rigirarsi intorno al proprio asse, qualunque volta ella fusse librata e
sospesa in aria o altro mezo fluido e cedente, sí che tutti gli esterni ed
accidentarii impedimenti fussero tolti via; ed a questo pensiero mostra di
applaudere ancora l'istesso Gilberto. Talché, signor Simplicio, vedete quanto
resti titubante l'assioma d'Aristotile.
SIMP. Questo non solo non va a ferire il
pronunziato, ma né pure è drizzato alla sua volta, avvenga che egli
parli d'un corpo semplice e di quello che ad esso possa naturalmente convenire,
e voi opponete ciò che avviene ad un misto; né dite cosa nuova in
dottrina d'Aristotile, perché egli ancora concede a i misti moto composto etc.
SAGR. Fermate un poco, signor Simplicio, e
rispondetemi all'interrogazioni ch'io vi farò. Voi dite che la calamita
non è corpo semplice, ma è un misto: ora io vi domando quali sono
i corpi semplici che si mescolano nel compor la calamita.
SIMP. Io non vi saprò dire gl'ingredienti né
la dose precisamente, ma basta che sono corpi elementari.
SAGR. Tanto basta a me ancora. E di questi corpi
semplici elementari quali sono i moti loro naturali?
SIMP. Sono i due semplici retti, sursum et
deorsum.
SAGR. Ditemi appresso: credete voi che 'l moto che
resterà naturale di tal corpo misto debba essere uno che possa risultare
dal componimento de i due moti semplici naturali de i corpi semplici
componenti, o pur che possa esser anco un moto impossibile a comporsi di
quelli?
SIMP. Credo che si moverà del moto
risultante dal componimento de' moti de' corpi semplici componenti, e che d'un
moto impossibile a comporsi di questi impossibil sia che si possa muovere.
SAGR. Ma, signor Simplicio, con due moti retti
semplici voi non comporrete mai un moto circolare, quali sono li due o i tre
circolari diversi che ha la calamita. Vedete dunque in quali angustie conducono
i mal fondati principii, o, per dir meglio, le mal tirate consequenze da
principii buoni: che adesso sete costretto a dire che la calamita sia un misto
composto di sustanze elementari e di celesti, se volete mantenere che 'l moto
retto sia solo de gli elementi, e 'l circolare de' corpi celesti. Però,
se volete piú sicuramente filosofare, dite che de' corpi integranti
dell'universo, quelli che son per natura mobili, si muovon tutti circolarmente,
e che però la calamita, come parte della verace primaria ed integral
sustanza del nostro globo, ritien della medesima natura; ed accorgetevi con
questa fallacia, che voi chiamate corpo misto la calamita, e corpo semplice il
globo terrestre, il quale si vede sensatamente esser centomila volte piú
composto, poiché, oltre il contenere mille e mille materie tra sé diversissime,
contien egli gran copia di questa che voi chiamate mista, dico della calamita.
Questo mi pare il medesimo, che se altri chiamasse il pane corpo misto, e corpo
semplice l'ogliopotrida, nella quale entrasse anco non piccola quantità
di pane, oltre a cento diversi companatici. Mirabil cosa mi sembra invero, tra
l'altre, questa de i Peripatetici, li quali concedono (né posson negarlo) che
il nostro globo terrestre sia de facto un composto di infinite materie
diverse; concedono appresso, de i corpi composti il moto dovere esser composto;
i moti che si posson comporre sono il retto e 'l circolare, atteso che i due
retti, per esser contrarii, sono incompatibili tra di loro; affermano,
l'elemento puro della terra non si ritrovare; confessano che ella non si
è mossa già mai di verun movimento locale: e poi voglion porre in
natura quel corpo che non si trova, e farlo mobile di quel moto che mai non ha
egli esercitato né mai è per esercitare; ed a quel corpo che è ed
è stato sempre, negano quel moto che prima concedettero dovergli
naturalmente convenire.
SALV. Di grazia, signor Sagredo, non ci affatichiam
piú in questi particolari, e massime che voi sapete che il fin nostro non
è stato di determinar risolutamente o accettar per vera questa o quella
opinione, ma solo di propor per nostro gusto quelle ragioni e risposte che per
l'una e per l'altra parte si possono addurre; e il signor Simplicio risponde
questo in riscatto de' suoi Peripatetici: però lasciamone il giudizio in
pendente, e la determinazione in mano di chi ne sa piú di noi. E perché mi pare
che assai a lungo si sia in questi tre giorni discorso circa il sistema
dell'universo, sarà ormai tempo che venghiamo all'accidente massimo, dal
quale presero origine i nostri ragionamenti; parlo del flusso e reflusso del
mare, la cagione del quale pare che assai probabilmente si possa referire a i
movimenti della Terra: ma ciò, quando vi piaccia, riserberemo al
seguente giorno. In tanto, per non me lo scordare, voglio dirvi certo
particolare, al quale non vorrei che il Gilberto avesse prestato orecchio; dico
dell'ammettere che quando una piccola sferetta di calamita potesse esattamente
librarsi, ella fusse per girare in se stessa: perché nissuna ragione vi
è per la quale ella ciò far dovesse. Imperocché, se tutto il
globo terrestre ha da natura di volgersi intorno al proprio centro in
ventiquattr'ore, e ciò aver debbono ancora tutte le sue parti, dico di
girare, insieme co 'l suo tutto, intorno al centro di quello in
ventiquattr'ore, già effettivamente l'hann'elleno mentre, stando sopra
la Terra, vanno insieme con essa in volta; e l'assegnar loro un rivolgimento
intorno al proprio centro sarebbe un attribuirgli un secondo movimento, molto
diverso dal primo, perché cosí ne averebbero due, cioè il rivolgersi in
ventiquattr'ore intorno al centro del suo tutto, ed il girare intorno al suo
proprio: or questo secondo è arbitrario, né vi è ragione alcuna
d'introdurlo. Se nello staccarsi un pezzo di calamita da tutta la massa
naturale se gli togliesse il seguirla, come faceva mentre gli era congiunto, sí
che cosí restasse privo del rigirare intorno al centro universale del globo
terrestre, potrebbe per avventura con qualche maggior probabilità
credere alcuno che quello fusse per appropriarsi una nuova vertigine circa 'l
suo particolar centro; ma se esso, non meno separato che congiunto, continua
pur tuttavia il suo primo eterno e natural corso, a che volere addossargliene
un altro nuovo?
SAGR. Intendo benissimo, e ciò mi fa
sovvenire d'un discorso assai simile a questo, nell'esser vano, posto da certi
scrittori di sfera, e credo, se ben mi ricordo, tra gli altri dal Sacrobosco:
il quale, per dimostrar come l'elemento dell'acqua si figura, insieme con la
Terra, di superficie sferica, onde di amendue si costituisce questo nostro
globo, scrive, di ciò esser concludente argomento il veder le minute
particelle dell'acqua figurarsi in forma rotonda, come nelle gocciole nella
rugiada e sopra le foglie di molte erbe giornalmente si vede, e perché,
conforme al trito assioma «La medesima ragione è del tutto che delle
parti», appetendo le parti cotal figura, è necessario che la medesima
sia propria di tutto l'elemento. Ed invero mi par cosa assai sconcia che questi
tali non si accorgano di una pur troppo patente leggerezza, e non considerino
che quando il discorso loro fusse retto, converrebbe che non solo le minute
stille, ma che qualsivoglia maggior quantità d'acqua, separata da tutto
l'elemento, si riducesse in una palla, il che non si vede altrimenti: ma ben si
può veder co 'l senso, e intender con l'intelletto, che amando
l'elemento dell'acqua di figurarsi in forma sferica intorno al comun centro di
gravità, al quale tendono tutti i gravi (che è il centro del
globo terrestre), in ciò vien egli seguito da tutte le sue parti,
conforme all'assioma; sí che tutte le superficie de i mari, de i laghi, de gli
stagni, ed in somma di tutte le parti dell'acque contenute dentro a vasi, si
distendono in figura sferica, ma di quella sfera che per centro ha il centro
del globo terrestre, e non fanno sfere particolari di lor medesime.
SALV. L'errore è veramente puerile, e quando
non fusse d'altri che del Sacrobosco, facilmente glie lo ammetterei; ma l'averlo
a perdonare anco a suoi comentatori ed ad altri grand'uomini, e sino a Tolomeo
stesso, non posso farlo senza qualche rossore per la reputazion loro. Ma
è tempo di pigliar licenza, send'or mai l'ora tarda, per esser domani al
solito per l'ultima conclusione di tutti i passati ragionamenti.
GIORNATA QUARTA
SAGR. Non so se il ritorno vostro a i soliti
ragionamenti sia realmente stato piú tardo del consueto, o pur se 'l desiderio
di sentire i pensieri del signor Salviati intorno a materia tanto curiosa me
l'abbia fatto parer tale. Mi sono per una grossa ora trattenuto alla finestra,
aspettando di momento in momento di vedere spuntar la gondola, che avevo
mandato a levarvi.
SALV. Credo veramente che l'imaginazion vostra, piú
che la nostra tardanza, abbia allungato il tempo; e per non lo prolungar piú,
sarà bene che, senza interporre altre parole, venghiamo al fatto, e
mostriamo come la natura ha permesso (o sia che la cosa in rei veritate
stia cosí, o pur per ischerzo e quasi per pigliarsi giuoco de' nostri
ghiribizzi), ha, dico, permesso, che i movimenti, per ogni altro rispetto che
per sodisfare al flusso e reflusso del mare attribuiti gran tempo fa alla
Terra, si trovino ora tanto aggiustatamente servire alla causa di quello, e
come vicendevolmente il medesimo flusso e reflusso comparisca a confermare la
terrestre mobilità: gli indizii della quale sin ora si son presi dalle
apparenze celesti, essendo che delle cose che accaggiono in Terra, nessuna era
potente a stabilir piú questa che quella sentenza, sí come a lungo abbiamo
già esaminato, con mostrare che tutti gli accidenti terreni, per i quali
comunemente si tiene la stabilità della Terra e mobilità del Sole
e del firmamento, devono apparire a noi farsi sotto le medesime sembianze posta
la mobilità della Terra e fermezza di quelli; il solo elemento
dell'acqua, come quello che è vastissimo e che non è annesso e
concatenato al globo terrestre, come sono tutte l'altre sue parti solide, anzi
che per la sua fluidezza resta in parte sui iuris e libero, rimane, tra
le cose sullunari, nel quale noi possiamo riconoscere qualche vestigio ed
indizio di quel che faccia la Terra in quanto al moto o alla quiete. Io, doppo
aver piú e piú volte meco medesimo esaminati gli effetti ed accidenti, parte
veduti e parte intesi da altri, che ne i movimenti dell'acque si osservano, e
piú lette e sentite le gran vanità prodotte da molti per cause di tali
accidenti, mi son quasi sentito non leggiermente tirare ad ammettere queste due
conclusioni (fatti però i presupposti necessari): che quando il globo
terrestre sia immobile, non si possa naturalmente fare il flusso e reflusso del
mare; e che quando al medesimo globo si conferiscano i movimenti già
assegnatili, è necessario che il mare soggiaccia al flusso e reflusso,
conforme a tutto quello che in esso viene osservato.
SAGR. La proposizione è grandissima, sí per
se stessa, sí per quello ch'ella si tira in conseguenza; onde io tanto piú
attentamente ne starò a sentire la dichiarazione e confermazione.
SALV. Perché nelle questioni naturali, delle quali
questa, che abbiamo alle mani, ne è una, la cognizione de gli effetti
è quella che ci conduce all'investigazione e ritrovamento delle cause, e
senza quella il nostro sarebbe un camminare alla cieca, anzi piú incerto, poiché
non sapremmo dove riuscir ci volessimo, che i ciechi almeno sanno dove e'
vorrebber pervenire; però innanzi a tutte l'altre cose è
necessaria la cognizione de gli effetti de' quali ricerchiamo le cagioni: de'
quali effetti voi, signor Sagredo, e piú abbondantemente e piú sicuramente
dovete esser informato che io non sono, come quello che, oltre all'esser nato e
per lungo tempo dimorato in Venezia, dove i flussi e reflussi sono molto
notabili per la lor grandezza, avete ancora navigato in Soria, e, come ingegno
svegliato e curioso, dovete aver fatte molte osservazioni; dove che a me, che
solamente ho potuto osservare per qualche tempo, benché breve, quello che
accade qui in quest'estremità del golfo Adriatico e nel nostro mar di
sotto, intorno alle spiagge del Tirreno, conviene di molte cose starmene alle
relazioni di altri, le quali, essendo per lo piú non ben concordi, e per
conseguenza assai incerte, confusione piú tosto che confermazione possono
arrecare alle nostre specolazioni. Tuttavia da quelle che aviamo sicure, e che
son anco le principali, parmi di poter pervenire al ritrovamento delle vere
cause e primarie; non mi arrogando di potere addur tutte le ragioni proprie ed
adequate di quelli effetti che mi giugnesser nuovi, e che in conseguenza io non
potessi avervi pensato sopra. E quello che io son per dire, lo propongo
solamente come una chiave che apra la porta di una strada non mai piú
calpestata da altri, con ferma speranza che ingegni piú specolativi del mio
siano per allargarsi e penetrar piú oltre assai di quello che avrò fatto
io in questa mia prima scoperta: ed ancor che in altri mari, da noi remoti,
possano accadere de gli accidenti che nel nostro Mediterraneo non accaggiono,
non per questo resterà di esser vera la ragione e la causa ch'io produrrò,
tuttavoltaché ella si verifichi e pienamente sodisfaccia a gli accidenti che
seguono nel mar nostro; perché finalmente una sola ha da esser la vera e
primaria causa de gli effetti che son del medesimo genere. Dirò dunque
l'istoria de gli effetti ch'io so esser veri, e assegneronne la cagione da me
creduta vera; e voi altri, signori, ne produrrete de gli altri noti a voi,
oltre a i miei, e poi faremo prova se la causa da me addotta possa a quelli
ancora sodisfare.
Dico dunque, tre esser i periodi che si osservano ne
i flussi e reflussi dell'acque marine. Il primo e principale è questo
grande e notissimo, cioè il diurno, secondo il quale con intervalli di
alcune ore l'acque si alzano e si abbassano; e questi intervalli sono per lo
piú nel Mediterraneo di
Parleremo prima del periodo diurno, come quello che
è il principale, e sopra 'l quale par che secondariamente esercitino
loro azione la Luna e 'l Sole, con loro mestrue ed annue alterazioni. Tre
diversità si osservano in queste mutazioni orarie: imperocché in alcuni
luoghi le acque si alzano ed abbassano, senza far moto progressivo; in altri,
senza alzarsi né abbassarsi, si muovono or verso levante ed or ricorrono verso
ponente; ed in altri variano l'altezze e variano il corso ancora, come accade
qui in Venezia, dove l'acque entrando alzano, e nell'uscire abbassano: e questo
fanno all'estremità delle lunghezze de i golfi che si distendono da
occidente in oriente e terminano in ispiagge, sopra le quali l'acqua
nell'alzarsi ha campo di potersi spargere; che quando il corso gli fusse
intercetto da montagne o argini molto rilevati, quivi si alzerebbero ed
abbasserebbero senza moto progressivo. Corrono poi e ricorrono, senza mutare
altezza, nelle parti di mezzo, come accade notabilissimamente nel Faro di
Messina tra Scilla e Cariddi, dove le correnti, per la strettezza del canale,
sono velocissime, ma ne i mari piú aperti e intorno all'isole di mezo, come
sono le Baleariche, la Corsica, la Sardigna, l'Elba, la Sicilia verso la parte
di Affrica, Malta, Candia etc., le mutazioni di altezza sono piccolissime, ma
ben notabili le correnti, e massime dove il mare tra l'isole, o tra esse e 'l
continente, si ristrigne.
Ora, questi soli effetti veraci e certi, quando
altro non si vedesse, parmi che assai probabilmente persuadano, a chiunque
voglia star dentro a i termini naturali, a conceder la mobilità della
Terra; imperocché ritener fermo il vaso del Mediterraneo, e far che l'acqua,
che in esso si contiene, faccia questo che fa, supera la mia immaginazione, e
forse quella di ogn'altro che oltre alla scorza s'internerà in tale
specolazione.
SIMP. Questi accidenti, signor Salviati, non
cominciano adesso; sono antichissimi, e stati osservati da infiniti, e molti si
sono ingegnati di renderne chi una e chi un'altra ragione; e non è molte
miglia lontano di qui un gran Peripatetico, che ne adduce una causa nuovamente
espiscata da certo testo di Aristotile, non bene avvertito da' suoi interpreti,
dal qual testo ei raccoglie, la vera causa di questi movimenti non derivar
d'altronde che dalle diverse profondità de' mari: imperocché l'acque
delle piú alte profondità, essendo maggiori in copia, e per ciò
più gravi, discacciano l'acque de' minor fondi, le quali poi, sollevate,
voglion descendere; e da questo continuo combattimento deriva il flusso e
reflusso. Quelli poi che referiscon ciò alla Luna, son molti, dicendo
che ella ha particolar dominio sopra l'acqua: ed ultimamente certo prelato ha
pubblicato un trattatello, dove dice che la Luna, vagando per il cielo, attrae
e solleva verso di sé un cumolo d'acqua, il quale la va continuamente
seguitando, sí che il mare alto è sempre in quella parte che soggiace
alla Luna; e perché quando essa è sotto l'orizonte, pur tuttavia ritorna
l'alzamento, dice che non si può dir altro, per salvar tal effetto, se
non che la Luna non solo ritiene in sé naturalmente questa facultà, ma
in questo caso ha possanza di conferirla a quel grado del zodiaco, che gli
è opposto. Altri, come credo che sappiate, dicono pur che la Luna ha
possanza, co 'l suo temperato calore, di rarefar l'acqua, la quale, rarefatta,
viene a sollevarsi. Non ci è mancato anco chi…
SAGR. Di grazia, signor Simplicio, non ce ne
riferite piú, ché non mi pare che metta conto di consumare il tempo nel
referirle, né meno le parole per confutarle; e voi, quando ad alcuna di queste
o simili leggerezze prestaste l'assenso, fareste torto al vostro giudizio, che
pur lo conosciamo per molto purgato.
SALV. Io, che sono un poco piú flemmatico di voi,
signor Sagredo, spenderò pur cinquanta parole in grazia del signor
Simplicio, se forse egli stimasse, nelle cose da lui raccontate ritrovarsi
qualche probabilità. Dico per tanto: L'acque, signor Simplicio, che
hanno piú alta la loro superficie esteriore, discacciano quelle che gli sono
inferiori e piú basse; ma ciò non fanno già le piú alte di
profondità; e le piú alte, scacciate che hanno le piú basse, in breve si
quietano e si librano. Bisogna che questo vostro Peripatetico creda che tutti i
laghi del mondo che stanno in quiete, e tutti i mari dove il flusso e reflusso
è insensibile, abbiano i letti loro egualissimi; ed io era sí semplice,
che mi persuadevo che, quando altro scandaglio non ci fusse, l'isole, che
sopravanzano sopra l'acque, fussero assai manifesto indizio
dell'inegualità de i fondi. A quel prelato potreste dire che la Luna
scorre ogni giorno sopra tutto 'l Mediterraneo, né però si sollevano le
acque salvo che nelle sue estremità orientali e qui a noi in Venezia. A
quelli del calor temperato, potente a far rigonfiar l'acqua, dite che pongano
il fuoco sotto di una caldaia piena d'acqua, e che vi tengan dentro la man
destra sin che l'acqua per il caldo si sollevi un sol dito, e poi la cavino, e
scrivano del rigonfiamento del mare; o dimandategli almeno che vi insegnino
come fa la Luna a rarefar certa parte dell'acque e non il rimanente, come dir
queste qui di Venezia, e non quelle d'Ancona, di Napoli o di Genova. È
forza dire che gl'ingegni poetici sieno di due spezie: alcuni, destri ed atti
ad inventar le favole; ed altri, disposti ed accomodati a crederle.
SIMP. Io non penso che alcuno creda le favole
mentre che per tali le conosce: e delle opinioni intorno alle cagioni del
flusso e reflusso, che son molte, perché so che di un effetto una sola è
la cagione primaria e vera, intendo benissimo e son sicuro che una sola al piú
potrebbe esser vera, ma tutto il resto so che son favolose e false; e forse
anco la vera non è tra quelle che sin ora son state prodotte: anzi cosí
credo esser veramente, perché gran cosa sarebbe che 'l vero potesse aver sí
poco di luce, che nulla apparisse tra le tenebre di tanti falsi. Ma dirò
bene, con quella libertà che tra noi è permessa, che l'introdurre
il moto della Terra e farlo cagione del flusso e reflusso mi sembra sin ora un
concetto non men favoloso di quanti altri io me n'abbia sentiti; e quando non
mi fusser porte ragioni piú conformi alle cose naturali, senza veruna
repugnanza passerei a credere, questo essere un effetto sopra naturale, e per
ciò miracoloso e imperscrutabile da gl'intelletti umani, come infiniti
altri ce ne sono, dependenti immediatamente dalla mano onnipotente di Dio.
SALV. Voi discorrete molto prudentemente, e
conforme anco alla dottrina d'Aristotile, che sapete come nel principio delle
sue Quistioni Meccaniche attribuisce a miracolo le cose delle quali le cagioni
sono occulte: ma che la causa vera del flusso e reflusso sia delle
impenetrabili, non credo che ne abbiate indizio maggiore che il vedere come,
tra tutte quelle che sin qui sono state prodotte per vere cagioni, nessuna ve
ne è con la quale, per qualunque artifizio si adoperi, si possa
rappresentar da noi un simile effetto; attesoché né con lume di Luna o di Sole,
né con caldi temperati, né con diverse profondità, mai non si
farà artifiziosamente correre e ricorrere, alzarsi ed abbassarsi, in un
luogo sí ed in altri no, l'acqua contenuta in un vaso immobile. Ma se co 'l far
muovere il vaso, senza artifizio nessuno, anzi semplicissimamente, io vi posso
rappresentar puntualmente tutte quelle mutazioni che si osservano nell'acque
marine, perché volete voi ricusar questa cagione e ricorrere al miracolo?
SIMP. Voglio ricorrere al miracolo se voi con altre
cause naturali che co 'l moto de i vasi dell'acque marine non me ne rimovete,
perché so che tali vasi non si muovono, essendo che tutto l'intero globo
terrestre è naturalmente immobile.
SALV. Ma non credete voi che il globo terrestre
potesse sopranaturalmente, cioè per l'assoluta potenza di Dio, farsi
mobile?
SIMP. E chi ne dubita?
SALV. Adunque, signor Simplicio, già che per
fare il flusso e reflusso del mare ci è bisogno d'introdurre il
miracolo, facciamo miracolosamente muover la Terra, al moto della quale si
muova poi naturalmente il mare: e questa operazione sarà anco tanto piú
semplice, e dirò naturale, tra le miracolose, quanto il far muovere in
giro un globo, de' quali ne veggiamo tanti altri muoversi, è men
difficile che 'l fare andar innanzi e in dietro, dove piú velocemente e dove
meno, alzarsi ed abbassarsi, dove piú e dove meno e dove niente, una immensa
mole d'acqua, e tutte queste diversità farle nell'istesso vaso che la
contiene; oltre che questi son molti miracoli diversi, e quello è un
solo. Ed aggiugnete di piú, che 'l miracolo del far muover l'acqua se ne tira
un altro in conseguenza, che è il ritener ferma la Terra contro a gli
impulsi dell'acqua, potenti a farla vacillare or verso questa ed or verso
quella parte, quando miracolosamente non venga ritenuta.
SAGR. Di grazia, signor Simplicio, sospendiam per
un poco il nostro giudizio circa il sentenziar per vana la nuova opinione che
ci vuol esplicare il signor Salviati, e non la mettiamo cosí presto in mazzo
con le vecchie ridicolose: e quanto al miracolo, ricorriamovi parimente doppo
che avremo sentito i discorsi contenuti dentro a i termini naturali; se ben,
per dire il mio senso, a me si rappresentano miracolose tutte l'opere della
natura e di Dio.
SALV. Ed io stimo il medesimo; né il dire che la
cagion naturale del flusso e reflusso sia il movimento della Terra, toglie che
questa sia operazion miracolosa. Ora, ripigliando il nostro ragionamento,
replico e raffermo, esser sin ora ignoto come possa essere che l'acque
contenute dentro al nostro seno Mediterraneo facciano quei movimenti che far se
gli veggono, tuttavoltaché l'istesso seno e vaso contenente resti immobile; e
quello che fa la difficultà, e rende questa materia inestricabile, sono
le cose che dirò appresso, e che giornalmente si osservano. Però
notate.
Siamo qui in Venezia, dove ora sono l'acque basse,
ed il mar quieto e l'aria tranquilla: comincia l'acqua ad alzarsi, ed in
termine di 5 o 6 ore ricresce dieci palmi e piú: tale alzamento non è
fatto dalla prima acqua, che si sia rarefatta, ma è fatto per acqua
nuovamente venutaci, acqua della medesima sorte che era la prima, della
medesima salsedine, della medesima densità, del medesimo peso: i
navilii, signor Simplicio, vi galleggiano come nella prima, senza demergersi un
capello di piú; un barile di questa seconda non pesa un sol grano piú né meno
che altrettanta quantità dell'altra; ritiene la medesima freddezza, non
punto alterata: è in somma acqua nuovamente e visibilmente entrata per i
tagli e bocche del Lio. Trovatemi ora voi come e donde ell'è qua venuta.
Son forse qui intorno voragini o meati nel fondo del mare, per le quali la
Terra attragga e rinfonda l'acqua, respirando quasi immensa e smisurata balena?
Ma se questo è, come nello spazio di 6 ore non si alza l'acqua parimente
in Ancona, in Ragugia, in Corfú, dove il ricrescimento è piccolissimo e
forse inosservabile? chi ritroverà modo di infondere nuova acqua in un
vaso immobile, e far che solamente in una determinata parte di esso ella si
alzi ed altrove no? Direte forse, questa nuova acqua venirgli prestata
dall'Oceano, porgendogliela per lo stretto di Gibelterra? questo non
torrà le difficoltà già dette, ed arrecheranne delle
maggiori. E prima, ditemi qual deva essere il corso di quell'acqua, che,
entrando per lo stretto, si conduca in 6 ore sino all'estreme spiagge del
Mediterraneo, in distanza di due e tremila miglia, e che il medesimo spazio
ripassi in altrettanto tempo nel suo ritorno? che faranno i navilii sparsi pe
'l mare? che quelli che fussero nello stretto, in un precipizio continuo di
un'immensa copia di acque, che, entrando per un canale largo non piú di
SAGR. Di questo resto io sin ora benissimo capace,
e sto con avidità attendendo di sentire in qual modo queste maraviglie
possono seguire senza intoppo da i moti già assegnati alla Terra.
SALV. Come questi effetti abbiano a venire in
conseguenza de i movimenti che naturalmente convengano alla Terra, è
necessario che non solamente non trovino repugnanza o intoppo, ma che seguano
facilmente, e non solo che seguano con facilità, ma con
necessità, sí che impossibil sia il succedere in altra maniera; ché tale
è la proprietà e condizione delle cose naturali e vere. Stabilita
dunque l'impossibilità del poter render ragione de i movimenti che si
scorgono nell'acque, ed insieme mantenere l'immobilità del vaso che le
contiene, passiamo a vedere se la mobilità del contenente possa ella
produrre l'effetto condizionato nella maniera che si osserva seguire.
Due sorte di movimenti posson conferirsi ad un
vaso, per li quali l'acqua, che in esso fusse contenuta, acquistasse
facultà di scorrere in esso or verso l'una or verso l'altra
estremità, e quivi ora alzarsi ed ora abbassarsi. Il primo sarebbe
quando or l'una or l'altra di esse estremità si abbassasse, perché
allora l'acqua, scorrendo verso la parte inclinata, vicendevolmente ora in
questa ed ora in quella s'alzerebbe ed abbasserebbe. Ma perché questo alzarsi
ed abbassarsi non è altro che discostarsi ed avvicinarsi al centro della
Terra, tal sorta di movimento non può attribuirsi alle concavità
della medesima Terra, che sono i vasi contenenti l'acque, le parti de' quali
vasi, per qualunque moto che si attribuisse al globo terrestre, né si possono
avvicinare né allontanare dal centro di quello. L'altra sorta di movimento
è quando il vaso si muovesse (senza punto inclinarsi) di moto
progressivo, non uniforme, ma che cangiasse velocità, con accelerarsi
talvolta ed altra volta ritardarsi: dalla qual difformità seguirebbe che
l'acqua, contenuta sí nel vaso, ma non fissamente annessa, come l'altre sue
parti solide, anzi, per la sua fluidezza, quasi separata e libera e non
obbligata a secondar tutte le mutazioni del suo continente, nel ritardarsi il
vaso, ella, ritenendo parte dell'impeto già concepito, scorrerebbe verso
la parte precedente, dove di necessità verrebbe ad alzarsi; ed
all'incontro, quando sopraggiugnesse al vaso nuova velocità, ella, con
ritener parte della sua tardità, restando alquanto indietro, prima che
abituarsi al nuovo impeto resterebbe verso la parte susseguente, dove alquanto
verrebbe ad alzarsi: i quali effetti possiamo piú apertamente dichiarare e
manifestare al senso con l'esempio di una di queste barche le quali
continuamente vengono da Lizzafusina, piene d'acqua dolce per uso della
città. Figuriamoci dunque una tal barca venirsene con mediocre
velocità per la Laguna, portando placidamente l'acqua della quale ella
sia piena, ma che poi, o per dare in secco o per altro impedimento che le sia
opposto, venga notabilmente ritardata; non perciò l'acqua contenuta perderà,
al pari della barca, l'impeto già concepito, ma, conservandoselo,
scorrerà avanti verso la prua, dove notabilmente si alzerà,
abbassandosi dalla poppa: ma se, per l'opposito, all'istessa barca nel mezo del
suo placido corso verrà con notabile agumento aggiunta nuova
velocità, l'acqua contenuta, prima di abituarsene, restando nella sua
lentezza, rimarrà indietro, cioè verso la poppa, dove in
conseguenza si solleverà, abbassandosi dalla prua. Questo effetto
è indubitato e chiaro, e puossi a tutte l'ore esperimentare; nel quale
voglio che notiamo per adesso tre particolari. Il primo è, che per fare
alzar l'acqua in una dell'estremità del vaso, non ci è bisogno di
nuova acqua, né che ella vi corra partendosi dall'altra estremità. Il
secondo è, che l'acqua di mezo non si alza né abbassa notabilmente, se
già il corso della barca non fusse velocissimo, e l'urto o altro ritegno
che la ritenesse, gagliardissimo e repentino, nel qual caso potrebbe anco tutta
l'acqua non pure scorrer avanti, ma per la maggior parte saltar fuor della
barca; e l'istesso anco farebbe quando, mentre ella lentamente camminasse,
improvvisamente gli sopraggiugnesse un impeto violentissimo: ma quando ad un
suo moto quieto sopraggiunga mediocre ritardamento o incitazione, le parti di
mezo (come ho detto) inosservabilmente si alzano e si abbassano; e le altre
parti, secondo che son piú vicine al mezo, meno si alzano, e piú le piú
lontane. Il terzo è, che dove le parti intorno al mezo poca mutazione
fanno nell'alzarsi ed abbassarsi rispetto all'acque delle parti estreme,
all'incontro scorron molto innanzi e in dietro, in comparazion dell'estreme.
Ora, signori miei, quello che fa la barca rispetto all'acqua contenuta da essa,
e quello che fa l'acqua contenuta rispetto alla barca, sua contenente, è
l'istesso a capello che quel che fa il vaso Mediterraneo rispetto l'acque da
esso contenute, e che fanno l'acque contenute rispetto al vaso Mediterraneo,
lor contenente. Séguita ora che dimostriamo, come ed in qual maniera sia vero
che il Mediterraneo e tutti gli altri seni, ed in somma tutte le parti della
Terra, si muovano di moto notabilmente difforme, benché movimento nessuno che
regolare ed uniforme non sia, venga a tutto l'istesso globo assegnato.
SIMP. Questo, nel primo aspetto, a me che non sono
né matematico né astronomo, ha sembianza di un gran paradosso; e quando sia
vero che, sendo il movimento del tutto regolare, quel delle parti, restando
sempre congiunte al suo tutto, possa essere irregolare, il paradosso
distruggerà l'assioma che afferma, eandem esse rationem totius et
partium.
SALV. Io dimostrerò il mio paradosso, ed a
voi, signor Simplicio, lascerò il carico di difender l'assioma da esso,
o di mettergli d'accordo; e la mia dimostrazione sarà breve e
facilissima, dependente dalle cose lungamente trattate ne i nostri passati
ragionamenti, senza indur né pure una minima sillaba in grazia del flusso e
reflusso.
Due aviamo detto essere i moti attribuiti al globo
terrestre: il primo, annuo, fatto dal suo centro per la circonferenza dell'orbe
magno sotto l'ecclittica secondo l'ordine de' segni, cioè da occidente
verso oriente; l'altro, fatto dall'istesso globo, rivolgendosi intorno al
proprio centro in ventiquattr'ore, e questo parimente da occidente verso
oriente, benché circa un asse alquanto inclinato e non equidistante a quello
della conversione annua. Dalla composizione di questi due movimenti,
ciascheduno per se stesso uniforme, dico resultare un moto difforme nelle parti
della Terra: il che, acciò piú facilmente s'intenda, dichiarerò
facendone la figura. E prima, intorno al centro A descriverò la
circonferenza dell'orbe magno B C, nella quale preso qualsivoglia punto B,
circa esso, come centro, descriveremo questo minor cerchio DEFG, rappresentante
il globo terrestre;
il quale intenderemo discorrer per tutta la circonferenza
dell'orbe magno co 'l suo centro B da ponente verso levante, cioè dalla
parte B verso C: ed oltre a ciò intenderemo il globo terrestre volgersi
intorno al proprio centro B, pur da ponente verso levante, cioè secondo
la successione de i punti D, E, F, G, nello spazio di ventiquattr'ore. Ma qui
doviamo attentamente notare, come rigirandosi un cerchio intorno al proprio
centro, qualsivoglia parte di esso convien muoversi in diversi tempi di moti
contrarii: il che è manifesto considerando che mentre le parti della
circonferenza intorno al punto D si muovono verso la sinistra, cioè
verso E, le opposte, che sono intorno all'F, acquistano verso la destra,
cioè verso G, talché quando le parti D saranno in F, il moto loro
sarà contrario a quello che era prima, quando era in D; in oltre,
nell'istesso tempo che le parti E descendono, per cosí dire, verso F, le G
ascendono verso D. Stante dunque tal contrarietà di moti nelle parti
della superficie terrestre, mentre che ella si rigira intorno al proprio
centro, è forza che, nell'accoppiar questo moto diurno con l'altro
annuo, risulti un moto assoluto per le parti di essa superficie terrestre ora
accelerato assai ed ora altrettanto ritardato: il che è manifesto
considerando prima la parte intorno a D, il cui moto assoluto sarà
velocissimo, come quello che nasce da due moti fatti verso la medesima banda,
cioè verso la sinistra; il primo de' quali è parte del moto
annuo, comune a tutte le parti del globo, l'altro è dell'istesso punto
D, portato pur verso la sinistra dalla vertigine diurna; talché in questo caso
il moto diurno accresce ed accelera il moto annuo; l'opposito di che accade
alla parte opposta F, la quale, mentre dal comune moto annuo è portata,
insieme con tutto il globo, verso la sinistra, vien dalla conversion diurna
portata ancor verso la destra; talché il moto diurno viene a detrarre
all'annuo, per lo che il movimento assoluto, resultante dal componimento di
amendue, ne riman ritardato assai: intorno poi a i punti E, G il moto assoluto
viene a restare come eguale al semplice annuo, avvenga che il diurno niente o
poco gli accresce o gli detrae, per non tendere né a sinistra né a destra, ma in
giú ed in su. Concludiamo per tanto, che sí come è vero che il moto di
tutto il globo e di ciascuna delle sue parti sarebbe equabile ed uniforme
quando elle si movessero d'un moto solo, o fusse il semplice annuo o fusse il
solo diurno, cosí è necessario che, mescolandosi tali due moti insieme,
ne risultino per le parti di esso globo movimenti difformi, ora accelerati ed
ora ritardati, mediante gli additamenti o suttrazioni della conversion diurna
alla circolazione annua. Onde se è vero (come è verissimo, e
l'esperienza ne dimostra) che l'accelerazione e ritardamento del moto del vaso
faccia correre e ricorrere nella sua lunghezza, alzarsi ed abbassarsi nelle sue
estremità, l'acqua da esso contenuta, chi vorrà por
difficultà nel concedere che tale effetto possa, anzi pur debba di
necessità, accadere all'acque marine, contenute dentro a i vasi loro,
soggetti a cotali alterazioni, e massime in quelli che per lunghezza si
distendono da ponente verso levante, che è il verso per il quale si fa
il movimento di essi vasi? Or questa sia la potissima e primaria causa del
flusso e reflusso, senza la quale nulla seguirebbe di tale effetto. Ma perché
multiplici e varii sono gli accidenti particolari che in diversi luoghi e tempi
si osservano, i quali è forza che da altre diverse cause concomitanti
dependano, se ben tutte devono aver connessione con la primaria, però fa
di mestiero andar proponendo ed esaminando i diversi accidenti che di tali
diversi effetti possano esser cagioni.
Il primo de' quali è, che qualunque volta
l'acqua, mercé d'un notabile ritardamento o accelerazione di moto del vaso suo
contenente, avrà acquistata cagione di scorrere verso questa o quella
estremità, e si sarà alzata nell'una ed abbassata nell'altra, non
però resterà in tale stato, quando ben cessasse la cagion
primaria, ma, in virtú del proprio peso e naturale inclinazione di livellarsi e
librarsi, tornerà per se stessa con velocità in dietro; e, come
grave e fluida, non solo si moverà verso l'equilibrio, ma, promossa dal
proprio impeto, lo trapasserà, alzandosi nella parte dove prima era piú
bassa; né qui ancora si fermerà, ma di nuovo ritornando in dietro, con
piú reiterate reciprocazioni di scorrimenti ci darà segno come ella non
vuole da una concepita velocità di moto ridursi subito alla privazion di
quello ed allo stato di quiete, ma successivamente ci si vuole, mancando a poco
a poco, lentamente ridurre: in quel modo appunto che vediamo alcun peso
pendente da una corda, doppo essere stato una volta rimosso dal suo stato di
quiete, cioè dal perpendicolo, per se medesimo ricondurvisi e
quietarvisi, ma non prima che molte volte l'avrà di qua e di là,
con sue vicendevoli corse e ricorse, trapassato.
Il secondo accidente da notarsi è, che le
pur ora dichiarate reciprocazioni di movimento vengon fatte e replicate con
maggiore o minor frequenza, cioè sotto piú brevi o piú lunghi tempi,
secondo le diverse lunghezze de' vasi contenenti l'acque; sí che negli spazii
piú brevi le reciprocazioni son piú frequenti, e piú rare ne' piú lunghi: come
appunto nel medesimo esempio de' corpi pendoli si veggono le reciprocazioni di
quelli che sono appesi a piú lunghe corde esser men frequenti che quelle de i
pendenti da fili piú corti.
E qui, per il terzo notabile, vien da sapersi, che
non solamente la maggiore o minor lunghezza del vaso è cagione di far
che l'acqua sotto diversi tempi faccia le sue reciprocazioni, ma la maggiore o
minor profondità opera l'istesso; ed accade che dell'acque contenute in
ricetti di eguali lunghezze, ma di diseguali profondità, quella che
sarà piú profonda faccia le sue librazioni sotto tempi piú brevi, e men
frequenti siano le reciprocazioni dell'acque men profonde.
Quarto, vengon degni d'esser notati e
diligentemente osservati due effetti che fa l'acqua in tali suoi libramenti.
L'uno è l'alzarsi ed abbassarsi alternatamente verso questa e quella
estremità; l'altro è il muoversi e scorrere, per cosí dire
orizontalmente, innanzi e in dietro: li quali due moti differenti
differentemente riseggono in diverse parti dell'acqua. Imperocché le sue parti
estreme son quelle che sommamente si alzano e si abbassano; quelle di mezo
niente assolutamente si muovon in su o in giú; dell'altre, di grado in grado
quelle che son piú vicine a gli estremi si alzano ed abbassano
proporzionatamente piú delle piú remote: ma, per l'opposito, dell'altro
movimento progressivo innanzi e 'n dietro assai si muovono, andando e
ritornando, le parti di mezo, e nulla acquistano l'acque che si trovano
nell'ultime estremità, se non se in quanto nell'alzarsi elleno superassero
gli argini e traboccassero fuor del suo primo alveo e ricetto; ma dove è
l'intoppo de gli argini che le raffrenano, solamente si alzano e si abbassano;
né però restan l'acque di mezo di scorrer innanzi e indietro, il che
fanno anco proporzionatamente l'altre parti, scorrendo piú o meno secondo che
si trovan locate piú remote o vicine al mezo.
Il quinto particolare accidente
dovrà tanto piú attentamente esser considerato, quanto che a noi
è impossibile il rappresentarne con esperienza e pratica il suo effetto;
e l'accidente è questo. Ne i vasi fatti da noi per arte, e mossi, come
le soprannominate barche, or piú ed or meno velocemente, l'accelerazione e
ritardamento vien sempre partecipato nell'istesso modo da tutto il vaso e da
ciascheduna sua parte: sí che, mentre, verbigrazia, la barca si raffrena dal
moto, non piú si ritarda la parte precedente che la susseguente, ma egualmente
tutte partecipano del medesimo ritardamento; e l'istesso avviene
dell'accelerazione, cioè che, contribuendo alla barca nuova causa di
maggior velocità, nell'istesso modo si accelera la prora e la poppa. Ma
ne' vasi immensi, quali sono i letti lunghissimi de' mari, benché essi ancora
altro non siano che alcune cavità fatte nella solidità del globo
terrestre, tuttavia mirabilmente avviene che gli estremi di quelli non
unitamente, egualmente e ne
gl'istessi momenti di tempo, accreschino e scemino il lor moto; ma
accade che quando l'una delle sue estremità si trova avere, in virtú del
componimento de i due moti diurno ed annuo, ritardata grandemente la sua
velocità, l'altra estremità si ritrovi ancora affetta e congiunta
con moto velocissimo: il che, per piú facile intelligenza, dichiareremo
ripigliando la figura pur ora disegnata. Nella quale se intenderemo un tratto
di mare esser lungo, verbigrazia, una quarta, qual è l'arco B C, perché
le parti B sono, come di sopra si dichiarò, in moto velocissimo, per
l'unione de' due movimenti diurno ed annuo verso la medesima banda, ma la parte
C allora si ritrova in moto ritardato, come quello che è privo della
progressione dependente dal moto diurno: se intenderemo, dico, un seno di mare
lungo quant'è l'arco B C, già vedremo come gli estremi suoi si
muovono nell'istesso tempo con molta disegualità. E sommamente
differenti sarebbero le velocità d'un tratto di mare lungo mezo cerchio
e posto nello stato dell'arco B C D, avvengaché l'estremità B si
troverebbe in moto velocissimo, l'altra D sarebbe in moto tardissimo, e le parti
di mezo verso C sarebbero in moto mediocre: e secondo che essi tratti di mare
saranno piú brevi, participeranno meno di questo stravagante accidente, di
ritrovarsi in alcune ore del giorno con le parti loro diversamente affette da
velocità e tardità di moto. Sí che se, come nel primo caso,
veggiamo per esperienza l'accelerazione e 'l ritardamento, benché participati
egualmente da tutte le parti del vaso contenente, esser pur cagione all'acqua
contenuta di scorrer innanzi e 'n dietro, che dovremo stimare che accader debba
in un vaso cosí mirabilmente disposto, che molto disegualmente venga
contribuita alle sue parti ritardanza di moto ed accelerazione? Certo che noi
dir non possiamo altro, se non che maggiore e piú maravigliosa cagione di
commozioni nell'acqua, e piú strane, ritrovar si debbano. E benché impossibil
possa parer a molti che in machine e vasi artifiziali noi possiamo
esperimentare gli effetti di un tale accidente, nulla dimeno non è
però del tutto impossibile; ed io ho la costruzione d'una machina, nella
quale particolarmente si può scorgere l'effetto di queste meravigliose
composizioni di movimenti. Ma per quanto appartiene alla presente materia,
basta quello che sin qui potete aver compreso con l'immaginazione.
SAGR. Io, per la parte mia, molto ben capisco, questo
maraviglioso accidente doversi necessariamente ritrovare ne i seni de i mari, e
massime in quelli che per gran distanze si distendono da occidente in oriente,
cioè secondo il corso de i movimenti del globo terrestre; e come che ei
sia in certo modo inescogitabile e senza esempio tra i movimenti possibili a
farsi da noi, cosí non mi è difficile a credere che da esso possano
derivar effetti non imitabili con nostre artificiali esperienze.
SALV. Dichiarate queste cose, è tempo che
venghiamo a esaminare i particolari accidenti, e loro diversità, che ne'
flussi e reflussi dell'acque per esperienza si osservano. E prima, non dovremo
aver difficultà nell'intendere, onde accaggia che ne i laghi, stagni, ed
anco ne i mari piccoli, non sia notabil flusso e reflusso: il che ha due
concludentissime ragioni. L'una è, che, per la brevità del vaso,
nell'acquistare egli in diverse ore del giorno diversi gradi di
velocità, con poca differenza vengano acquistati da tutte le sue parti;
ma tanto le precedenti quanto le susseguenti, cioè l'orientali e
l'occidentali, quasi nell'istesso modo si accelerano e si ritardano; facendosi,
di piú, tale alterazione a poco a poco, e non con l'opporre un repentino
intoppo e ritardamento o una subitanea e grande accelerazione al movimento del
vaso contenente, ed esso e tutte le sue parti vengon lentamente ed egualmente
impressionandosi de i medesimi gradi di velocità: dalla quale
uniformità ne séguita che anco l'acqua contenuta, con poca contumacia e
renitenza riceva le medesime impressioni, e per conseguenza molto oscuramente
dia segno d'alzarsi o abbassarsi, scorrendo verso questa o verso l'altra
estremità; il quale effetto si vede ancora manifestamente ne' piccoli
vasi artifiziali, ne i quali l'acqua contenuta si va impressionando de gl'istessi
gradi di velocità, tuttavoltaché l'accelerazione o ritardamento si
faccia con lenta ed uniforme proporzione. Ma ne i seni de i mari che per grande
spazio si distendono da levante a ponente, assai piú notabile e difforme
è l'accelerazione o 'l ritardamento, mentre una delle sue
estremità si troverà in un moto assai ritardato, e l'altra
sarà ancora di moto velocissimo. La seconda causa è la reciproca
librazion dell'acqua, proveniente dall'impeto che ella pure avesse concepito
dal moto del suo continente, la qual librazione ha, come si è notato, le
sue vibrazioni molto frequenti ne i vasi piccoli: dal che ne risulta, che
risedendo ne i movimenti terrestri cagione di contribuire all'acque movimento
solo di dodici in dodici ore, poi che una volta sola il giorno sommamente si
ritarda e sommamente si accelera il movimento de i vasi contenenti,
nientedimeno l'altra seconda cagione, dependente dalla gravità
dell'acqua, che cerca ridursi all'equilibrio, e, secondo la brevità del
vaso, ha le sue reciprocazioni o di un'ora o di due o di tre etc., questa
mescolandosi con la prima, che anco per sé ne i vasi piccoli resta
piccolissima, la vien del tutto a render insensibile; imperocché, non si
essendo ancora finita di imprimer la commozione procedente dalla cagion primaria,
che ha i periodi di 12 ore, sopravvien, contrariando, l'altra secondaria,
dependente dal proprio peso dell'acqua, la quale, secondo la cortezza e
profondità del vaso, ha il tempo delle sue vibrazioni di 1, 2, 3 o 4
ore, etc., e, contrariando alla prima, la perturba e rimuove, senza lasciarla
giugnere al sommo né al mezo del suo movimento. E da tal contrapposizione resta
annichilata in tutto, o molto oscurata, l'evidenza del flusso e reflusso.
Lascio stare l'alterazion continua dell'aria, la quale, inquietando l'acqua,
non ci lascerebbe venire in certezza d'un piccolissimo ricrescimento o
abbassamento di mezo dito o di minor quantità, che potesse realmente
risedere ne i seni e ricetti di acque non piú lunghi di un grado o due.
Vengo, nel secondo luogo, a sciorre il dubbio,
come, non risedendo nel primario principio cagione di commuover l'acque se non
di
Avremo, nel terzo luogo, molto spedita la ragione,
onde avvenga che alcun mare, benché lunghissimo, qual è il Mar Rosso,
nulladimeno è quasi del tutto esente da i flussi e reflussi. La qual
cosa accade, perché la sua lunghezza non si distende dall'oriente verso
l'occidente, anzi traversa da sirocco verso maestro: ma essendo i movimenti
della Terra da occidente in oriente, gli impulsi dell'acque vanno sempre a
ferire ne i meridiani, e non si muovono di parallelo in parallelo; onde ne i
mari che traversalmente si distendono verso i poli, e che per l'altro verso
sono angusti, non resta cagione di flussi e reflussi se non per la
participazione di altro mare co 'l quale comunicassero, che fusse soggetto a
movimenti grandi.
Intenderemo, nel quarto luogo, molto facilmente la
ragione, perché i flussi e reflussi siano massimi, quanto all'alzarsi ed
abbassarsi le acque, ne gli estremi de' golfi, e minimi nelle parti di mezo:
come la quotidiana esperienza ne mostra qui in Venezia, posta
nell'estremità dell'Adriatico, dove comunemente tal diversità
importa 5 o
In oltre, considerando, nel quinto luogo, come la
medesima quantità d'acqua, mossa, benché lentamente, per un alveo
spazioso, nel dover poi passare per luogo ristretto, per necessità
scorre con impeto grande, non avremo difficultà d'intendere la causa
delle gran correnti che si fanno nello stretto canale che separa la Calabria
dalla Sicilia; poiché tutta l'acqua che dall'ampiezza dell'isola e dal golfo
Jonico vien sostenuta nella parte del mare orientale, benché in quello per la
sua ampiezza lentamente descenda verso occidente, tuttavia nel ristrignersi nel
bosforo tra Scilla e Cariddi rapidamente cala e fa grandissima agitazione:
simile alla quale, e molto maggiore, s'intende esser tra l'Affrica e la
grand'isola di S. Lorenzo, mentre le acque de i due vasti mari Indico ed
Etiopico, che la mettono in mezo, devono, scorrendo, ristrignersi in minor
canale, tra essa e la costa d'Etiopia. Grandissime conviene che sieno le
correnti nello Stretto di Magalianes, che comunica gli oceani vastissimi
Etiopico e del Sur.
Séguita adesso, nel 6° luogo, che per render ragion
di alcuni piú reconditi ed inopinabili accidenti che in questa materia si
osservano, andiamo facendo un'altra importante considerazione sopra le due
principali cagioni de i flussi e reflussi, componendole poi e mescolandole
insieme. La prima e piú semplice delle quali è (come piú volte si
è detto) la determinata accelerazione e ritardamento delle parti della
Terra, dalla quale arebbon l'acque un determinato periodo di scorrere verso
levante e ritornar verso ponente dentro al tempo di ventiquattr'ore. L'altra
è quella che depende dalla propria gravità dell'acqua, che,
commossa una volta dalla causa primaria, cerca poi di ridursi all'equilibrio
con iterate reciprocazioni, le quali non sono determinate da un tempo solo e
prefisso, ma hanno tante diversità di tempi quante sono le diverse
lunghezze e profondità de i ricetti e seni de i mari; e per quanto
depende da questo secondo principio, scorrerebbero e ritornerebbero altre in
un'ora, altre in
Dobbiamo ancora (e sarà come il settimo
problema) avere avvertenza d'un'altra cagione di movimento, dependente dalla
copia grande dell'acque de i fiumi che vanno a scaricarsi ne' mari non molto
vasti: dove ne i canali o bosfori che con tali mari comunicano, l'acqua si vede
scorrer sempre per l'istesso verso, come accade nel Bosforo Tracio sotto
Costantinopoli, dove l'acqua scorre sempre dal Mar Negro verso la Propontide.
Imperocché in esso Mar Negro, per la sua brevità, di poca efficacia sono
le cause principali del flusso e reflusso; ma all'incontro, scaricandosi in
esso grandissimi fiumi, nel dover passare e sgorgar tanto profluvio d'acque per
lo stretto, quivi il corso è assai notabile e sempre verso mezo giorno.
Dove, di piú, deviamo avvertire che tale stretto e canale, benché assai
angusto, non è sottoposto alle perturbazioni come lo stretto di Scilla e
Cariddi: imperocché quello ha il Mar Negro sopra verso tramontana, e la
Propontide e l'Egeo co 'l Mediterraneo postogli, benché per lungo tratto, verso
mezogiorno; ma già, come abbiamo notato, i mari quanto si voglino lunghi
da tramontana verso mezogiorno non soggiacciono a i flussi e reflussi: ma
perché lo stretto di Sicilia è traposto tra le parti del Mediterraneo
distese per gran distanze da ponente a levante, cioè secondo la corrente
de' flussi e reflussi, però in questo le agitazioni son molto grandi: e
maggiori sarebbero tra le Colonne, quando lo stretto di Gibilterra s'aprisse
meno; e grandissime riferiscono esser quelle dello stretto di Magalianes.
Questo è quanto per ora mi sovviene di poter
dirvi intorno alle cause di questo primo periodo diurno del flusso e reflusso e
suoi varii accidenti, dove se hanno da propor cosa alcuna, potranno farlo, per
passar poi a gli altri due periodi, mestruo ed annuo.
SIMP. Non mi par che si possa negare che il
discorso fatto da voi proceda molto probabilmente, argumentando, come noi
dichiamo, ex suppositione, cioè posto che la Terra si muova de i
due movimenti attribuitigli dal Copernico: ma quando si escludano tali
movimenti, il tutto resta vano ed invalido; l'esclusion poi di tale ipotesi ci
viene dall'istesso vostro discorso assai manifestamente additata. Voi con la
supposizion de i due movimenti terrestri rendete ragione del flusso e reflusso,
ed all'incontro, circolarmente discorrendo, dal flusso e reflusso traete
l'indizio e la confermazione di quei medesimi movimenti: e passando a piú
specifico discorso, dite che l'acqua per esser corpo fluido, e non tenacemente
annesso alla Terra, non è costretta ad ubbidir puntualmente ad ogni suo
movimento, dal che inducete poi il suo flusso e reflusso. Io su le vostre
stesse pedate arguisco in contrario, e dico: L'aria è assai piú tenue e
fluida dell'acqua, e meno annessa alla superficie terrena, alla quale l'acqua,
se non per altro per la sua gravità, co 'l premergli sopra assai piú che
l'aria leggierissima, aderisce; adunque molto meno dovrebbe l'aria secondar i
movimenti della Terra; e però quando la Terra si movesse in quella
maniera, noi, abitatori di quella e da lei con simile velocità portati,
dovremmo perpetuamente sentir un vento da levante, che con intollerabil forza
ci ferisse: e del cosí dover seguire l'esperienza ci fa cotidianamente
avvertiti; ché se nel correr la posta solamente con velocità di 8 o
SALV. A questa instanza, che ha assai
dell'apparente, rispondo che è vero che l'aria è piú tenue e piú
leggiera, e per la sua leggerezza meno aderente alla Terra, che l'acqua, tanto
piú grave e corpulenta; ma è poi falsa la conseguenza che voi deducete
da queste condizioni, cioè che per tal sua leggerezza tenuità e
minore aderenza alla Terra ella dovesse esentarsi piú dell'acqua dal secondare
i movimenti terrestri, onde a noi, che totalmente gli partecipiamo, tal sua
inobbedienza si facesse sensibile e manifesta: anzi accade tutto l'opposito.
Imperocché, se voi ben vi ricordate, la causa del flusso e reflusso dell'acqua,
assegnata da noi, consiste nel non secondar l'acqua la disegualità del
moto del suo vaso, ma ritener l'impeto concepito per avanti, senza diminuirlo o
crescerlo con quella precisa misura che si accresce o diminuisce nel suo vaso:
perché dunque nella conservazione e mantenimento dell'impeto concepito prima
consiste l'inobbedienza ad un nuovo agumento o diminuzion di moto, quel mobile
che sarà piú atto a tal conservazione, sarà anco piú accomodato a
dimostrar l'effetto che a tal conservazione viene in conseguenza. Ora, quanto
sia l'acqua disposta a mantenere una concepita agitazione, benché cessi la causa
che l'impresse, l'esperienza de i mari altamente commossi da venti impetuosi ce
lo dimostra, l'onde de i quali, benché tranquillata l'aria e cessato il vento,
per lungo tempo restano in moto, come leggiadramente cantò il Poeta
sacro: «Qual l'alto Egeo» etc.: ed il continuar in tal guisa nella commozione
depende dalla gravità dell'acqua; imperocché, come altra volta
s'è detto, i corpi leggieri son ben piú facili ad esser mossi che i piú
gravi, ma son ben tanto meno atti a conservar il moto impressoli, cessante la
causa movente; onde l'aria, come in se stessa tenuissima e leggierissima,
è agevolissimamente mobile da qualsivoglia minima forza, ma è
anco inettissima a conservare il moto, cessante il motore. Però quanto
all'aria che circonda il globo terrestre, direi che, per la sua aderenza, non
meno che l'acqua venga portata in giro, e massime quella parte che è
contenuta da i vasi, i quali vasi sono le pianure circondate da i monti; e
questa tal porzione possiamo noi molto piú ragionevolmente affermare che sia portata
in volta, rapita dall'asprezza della Terra, che la superiore, rapita dal moto
celeste, come asserite voi Peripatetici.
Quanto sin qui ho detto mi pare assai competente
risposta all'instanza del signor Simplicio; tuttavia voglio con nuova
obbiezione e con nuova risposta, fondata sopra una mirabile esperienza,
soprabbondantemente dar sodisfazione ad esso, e confermare al signor Sagredo la
mobilità del globo terrestre. Ho detto, l'aria, ed in particolare quella
parte di lei che non si eleva sopra la sommità delle piú alte montagne,
esser dall'asprezza della terrestre superficie portata in giro; dal che pare
che in conseguenza ne venga, che quando la superficie della Terra non fusse
ineguale, ma tersa e pulita, non resterebbe cagione per tirarsi in compagnia
l'aria, o almeno per condurla con tanta uniformità. Ora, la superficie
di questo nostro globo non è tutta scabrosa ed aspera, ma vi sono
grandissime piazze ben lisce, cioè le superficie di mari amplissimi, le
quali, sendo anco lontanissime da i gioghi de i monti che le circondino, non
par che possano aver facultà di condur seco l'aria sopreminente; e non
la conducendo, si dovrebbe in quei luoghi sentir quello che in conseguenza ne
viene.
SIMP. Questa medesima difficultà volevo io
ancora promuovere, la qual mi pare esser di grand'efficacia.
SALV. Voi parlate benissimo: di maniera che, signor
Simplicio, dal non si sentir nell'aria quello che in conseguenza accaderebbe
quando questo nostro globo andasse in volta, voi argumentate la sua
immobilità. Ma quando questo, che vi par che per necessaria conseguenza
sentir si dovesse, in fatto e per esperienza si sentisse, l'accettereste voi
per indizio ed argomento assai gagliardo per la mobilità del medesimo
globo?
SIMP. In questo caso non bisogna parlar con me
solo, perché quando ciò accadesse, e che a me ne fusse occulta la causa,
forse ad altri potrebbe esser nota.
SALV. Talché con esso voi non si può mai
guadagnare, ma sempre si sta su 'l perdere, e però sarebbe meglio non
giocare; tuttavia, per non piantare il terzo, seguirò avanti. Dicevamo
pur ora, e con qualche aggiunta replico, che l'aria, come corpo tenue e fluido
e non saldamente congiunto alla Terra, pareva che non avesse necessità
d'obbedire al suo moto, se non in quanto l'asprezza della superficie terrestre
ne rapisce e seco porta una parte a sé contigua, che di non molto intervallo
sopravanza le maggiori altezze delle montagne: la qual porzion d'aria tanto
meno dovrà esser renitente alla conversion terrestre, quanto che ella
è ripiena di vapori fumi ed esalazioni, materie tutte participanti delle
qualità terrene, e per conseguenza atte nate per lor natura a i medesimi
movimenti. Ma dove mancassero le cause del moto, cioè dove la superficie
del globo avesse grandi spazii piani e meno vi fusse della mistione de i vapori
terreni, quivi cesserebbe in parte la causa per la quale l'aria ambiente
dovesse totalmente obbedire al rapimento della conversion terrestre; sí che in
tali luoghi, mentre che la Terra si volge verso oriente, si devrebbe sentir
continuamente un vento che ci ferisse spirando da levante verso ponente, e tale
spiramento devrebbe farsi piú sensibile dove la vertigine del globo fusse piú
veloce; il che sarebbe ne i luoghi piú remoti da i poli e vicini al cerchio
massimo della diurna conversione. Ma già de facto l'esperienza
applaude molto a questo filosofico discorso: poiché ne gli ampi mari e nelle
lor parti lontane da terra e sottoposte alla zona torrida, cioè comprese
da i tropici, dove anco l'evaporazioni terrestri mancano, si sente una perpetua
aura muovere da oriente, con tenor tanto costante, che le navi mercé di quella
prosperamente se ne vanno all'Indie Occidentali, e dalle medesime, sciogliendo
da i lidi messicani, solcano con 'l medesimo favor il Mar Pacifico verso
l'Indie, orientali a noi, ma occidentali a loro; dove che, per l'opposito, le
navigazioni di là verso oriente son difficili ed incerte, né si possono
in maniera alcuna far per le medesime strade, ma bisogna costeggiar piú verso
terra per trovare altri venti, per cosí dire, accidentarii e tumultuarii,
cagionati da altri principii, sí come noi abitanti tra terra ferma
continuamente sentiamo per prova: delle quali generazioni di venti molte e
diverse son le cagioni, che al presente non accade produrre; e questi venti
accidentarii son quelli che indifferentemente spirano da tutte le parti della
Terra, e che perturbano i mari remoti dall'equinoziale e circondati dalla
superficie aspra della Terra, che tanto è quanto a dire sottoposti a
quelle perturbazioni d'aria che confondono quella primaria espirazione, la
quale, quando mancassero questi impedimenti accidentarii, si devrebbe
perpetuamente sentire, e massime sopra mare. Or vedete, come gli effetti
dell'acqua e dell'aria par che maravigliosamente s'accordino con l'osservazioni
celesti a confermar la mobilità nel nostro globo terrestre.
SAGR. Voglio pur io ancora, per ultimo sigillo,
dirvi un particolare, che mi par che vi sia incognito, e che pur viene in
confermazion della medesima conclusione. Voi, signor Salviati, avete prodotto
quell'accidente che trovano i naviganti dentro a i tropici, dico quella
costanza perpetua del vento che gli vien da levante, del quale io ho relazione
da chi piú volte ha fatto quel viaggio; e di piú (ch'è cosa notabile)
intendo che li marinari non lo chiamano vento, ma con altro nome che ora
non mi sovviene, preso forse dal suo tenore tanto fermo e costante, che, quando
l'hanno incontrato, legano le sarte e l'altre corde delle vele, e senza mai piú
aver bisogno di toccarle, ancora dormendo, con sicurezza posson far lor cammino.
Ora, questa aura perpetua è stata conosciuta per tale dal suo continuo
spirare senza interrompimenti; ché quando da altri venti fusse interrotta, non
sarebbe stata conosciuta per effetto singolare e differente da gli altri: dal
che voglio inferire che potrebbe esser che anche il mar nostro Mediterraneo
fusse partecipe d'un tale accidente, ma non osservato, come quello che
frequentemente vien alterato da altri venti sopravegnenti. E questo dico io non
senza gran fondamento, anzi con molto probabili conietture, le quali mi vengono
da quello che ho avuto occasione d'intender mediante il viaggio che feci in
Soria, andando consolo della Nazione in Aleppo: e quest'è, che tenendosi
particolar registro e memoria de i giorni delle partenze e de gli arrivi delle
navi ne i porti di Alessandria, d'Alessandretta e qui di Venezia, nel
riscontrarne molti e molti, il che feci per mia curiosità, trovai che
ragguagliatamente i ritorni in qua, cioè le navigazioni da levante verso
ponente, per il Mediterraneo si fanno in manco tempo che le contrarie, a ragion
di 25 per cento; talché si vede che sottosopra i venti da levante son piú
potenti che quei da ponente.
SALV. Ho caro d'aver saputo questo particolare, che
arreca non piccola confermazione per la mobilità della Terra. E se bene
si potrebbe dire che l'acqua tutta del Mediterraneo cali perpetuamente verso lo
Stretto, come quella che debbe andare a scaricar nell'Oceano l'acque de i tanti
fiumi che dentro vi sgorgano, non credo che tal corrente possa esser tanta che
per sé sola bastasse a far sí notabil differenza: il che è anco
manifesto dal vedersi nel Faro ricorrer l'acqua non meno verso levante che
correr verso ponente.
SAGR. Io, che non ho, come il signor Simplicio,
stimolo di sodisfare ad altri che a me stesso, resto da quanto si è
detto appagato circa questa prima parte; però, signor Salviati, quando
vi sia comodo di seguir piú, sono apparecchiato ad ascoltarvi.
SALV. Farò quanto mi comandate; ma vorrei
pur sentire anco il parer del signor Simplicio, dal giudizio del quale posso
argumentar quanto io mi potessi prometter, circa questi miei discorsi, dalle
scuole peripatetiche, se mai gli pervenissero all'orecchie.
SIMP. Non voglio che 'l mio parer vi vaglia o serva
per coniettura de' giudizi d'altri, perché, come piú volte ho detto, io son de'
minimi in questa sorte di studii, e tal cosa sovverrà a quelli che si
sono internati ne gli ultimi penetrali della filosofia, che non può
sovvenire a me, che l'ho (come si dice) salutata a pena dalla soglia: tuttavia,
per parer vivo, dirò che de gli effetti raccontati da voi, ed in
particolare in quest'ultimo, mi pare che senza la mobilità della Terra
se ne possa rendere assai suffiziente ragione con la mobilità del cielo
solamente, senza introdur novità veruna, fuor che il converso di quella
che voi stesso producete in campo. È stato ricevuto dalle scuole
peripatetiche, l'elemento del fuoco ed anco gran parte dell'aria esser portati
in giro, secondo la conversion diurna, da oriente verso occidente dal contatto
del concavo dell'orbe lunare, come da vaso lor contenente. Ora, senza
discostarmi dalle vostre vestigie, voglio che determiniamo, la quantità
dell'aria participante di tal moto abbassarsi sin presso alle sommità
delle piú alte montagne, e che anco sino in Terra arriverebbe, quando gli
ostacoli delle medesime montagne non l'impedissero: che corrisponde a quello
che dite voi, cioè che sí come voi affermate, l'aria circondata da i
gioghi de i monti esser portata in giro dall'asprezza della Terra mobile, noi
per il converso diciamo, l'elemento dell'aria tutto esser portato in volta dal
moto del cielo, trattone quella parte che soggiace a i gioghi, che viene
impedita dall'asprezza della Terra immobile; e dove voi dicevi, che quando tale
asprezza si togliesse, si torrebbe anco all'aria l'esser rapita, noi possiam
dire che rimossa la medesima asprezza, l'aria tutta continuerebbe suo
movimento: onde, perché le superficie de gli ampli mari sono lisce e terse,
sopra di quelle si continua il moto dell'aura, che perpetuamente spira da levante;
e questo si fa piú sentire nelle parti sottoposte all'equinoziale e dentro a i
tropici, dove il moto del cielo è piú veloce. E sí come tal movimento
celeste è potente a portar seco tutta l'aria libera, cosí possiamo molto
ragionevolmente dire che contribuisca il medesimo moto all'acqua mobile, per
esser fluida e non attaccata all'immobilità della Terra; e tanto piú
possiamo noi ciò affermare con confidenza, quanto, per vostra
confessione, tal movimento deve esser pochissimo, rispetto alla causa sua efficiente,
la quale, circondando in un giorno naturale tutto 'l globo terrestre, passa
molte centinaia di miglia per ora, e massime verso l'equinoziale, dove che
nelle correnti del mare aperto è di pochissime miglia per ora. E cosí le
navigazioni verso occidente verranno ad esser comode e spedite non solamente
mercé dell'aura perpetua orientale, ma del corso ancora dell'acque; dal qual
corso potrà anco per avventura procedere il flusso e reflusso, mediante
le diverse posture de i lidi terrestri, ne i quali andando a percuoter l'acqua,
può anco ritornare in dietro con movimento contrario, sí come
l'esperienza ci mostra del corso de i fiumi; che secondo che l'acqua, nella
disegualità delle rive, incontra qualche parte che sporga in fuori o che
di sotto faccia qualche seno, qui l'acqua si raggira, e si vede notabilmente
ritornare in dietro. Per questo mi pare che de i medesimi effetti da i quali
voi argomentate la mobilità della Terra, e la medesima adducete per
cagione di quelli, si possa allegar causa concludente abbastanza, ritenendo la
Terra stabile e restituendo la mobilità al cielo.
SALV. Non si può negare che il vostro
discorso non sia ingegnoso ed abbia assai del probabile; dico però,
probabile in apparenza, ma non già in esistenza e realtà. Egli ha
due parti: nella prima rende ragione del moto continuo dell'aura orientale, ed
anco di un simil moto nell'acqua; nella seconda vuol anco dal medesimo fonte
attigner la causa del flusso e reflusso. La prima parte ha (come ho detto)
qualche sembianza di probabilità, ma però sommamente minore di
quella che noi prendiamo dal moto terrestre; la seconda è del tutto non
solo improbabile, ma assolutamente impossibile e falsa. E venendo alla prima,
dove si dice che 'l concavo lunare rapisce l'elemento del fuoco e tutta l'aria
sino alla sommità delle piú alte montagne, dico, prima, che è
dubbio se ci sia l'elemento del fuoco; ma posto che ci sia si dubita
grandemente dell'orbe della Luna, come anco di tutti gli altri, cioè se
ci siano tali corpi solidi e vastissimi o pure se oltre all'aria si estenda una
continuata espansione di una sustanza assai piú tenue e pura della nostra aria,
per la quale vadiano vagando i pianeti, come or mai comincia ad esser tenuto
anco da buona parte de i medesimi filosofi: ma sia in questo o in quel modo,
non ci è ragione per la quale il fuoco da un semplice contatto d'una
superficie, che per voi si stima esser tersissima e liscia, possa esser,
secondo tutta la sua profondità, portato in volta di un moto alieno
dalla sua naturale inclinazione, come diffusamente è stato provato e con
sensate esperienze dimostrato dal Saggiatore; oltre all'altra
improbabilità del trasfondersi tal moto dal fuoco sottilissimo per
l'aria assai piú densa, e da questa anco poi nell'acqua. Ma che un corpo di
superficie aspra e montuosa, nel volgersi in se stesso, conduca seco l'aria a
sé contigua e nella quale vanno percotendo le sue prominenze, è non pur
probabile, ma necessario, e si può tuttavia vederne l'esperienza,
benché, senza vederla, non credo che sia intelletto che ci ponga dubbio. Quanto
all'altra parte, posto che dal moto del cielo fosse condotta l'aria ed anco
l'acqua, non però tal moto avrebbe che far nulla co 'l flusso e
reflusso. Imperocché, essendo che da una causa una ed uniforme non può
seguire altro che un effetto solo ed uniforme, quello che nell'acqua si
devrebbe scorgere, sarebbe un corso continuato ed uniforme da levante verso
ponente, ed in quel mare solamente che, ritornando in se stesso, circonda tutto
'l globo; ma ne i mari terminati, come è il Mediterraneo, racchiuso da
oriente, non vi potrebbe esser tal moto, perché se l'acqua sua potesse esser
cacciata dal corso del cielo verso occidente, son molti secoli che sarebbe
restato asciutto: oltre che la nostra acqua non corre solamente verso
occidente, ma ritorna in dietro verso levante, e con periodi ordinati. E se ben
voi dite, con l'esempio de i fiumi, che benché il corso del mare fusse
originariamente il solo da oriente in occidente, tuttavia la diversa postura de
i lidi può far ringurgitare parte dell'acqua in dietro, ciò vi
concedo; ma bisogna, signor Simplicio mio, che voi avvertiate, che dove l'acqua
per tal cagione ritorna in dietro, vi ritorna perpetuamente, e dove ella corre
a dirittura, vi corre sempre nell'istesso modo, ché cosí vi mostra l'esempio de
i fiumi; ma nel caso del flusso e reflusso, bisogna trovare e produr ragione di
far che nell'istesso luogo ora corra per un verso ed ora per l'opposito,
effetti che, essendo contrarii e difformi, voi non potrete mai dedurre da una
causa uniforme e costante. E questo con che s'atterra questa posizione del moto
contribuito al mare dal movimento diurno del cielo, abbatte ancora quella di
chi volesse ammetter il moto solo diurno della Terra, e credesse con quello
solo poter render ragione del flusso e reflusso; del qual effetto, perché
è difforme, bisogna necessariissimamente che difforme ed alterabile sia
la cagione.
SIMP. Io non ho che replicare, né del mio proprio,
per la debolezza del mio ingegno, né di quel d'altri, per la novità
dell'opinione; ma crederei bene, che quando la si spargesse per le scuole, non
mancherebbero filosofi che la saprebbero impugnare.
SAGR. Aspetteremo dunque una tale occasione: e noi
tra tanto, se cosí vi piace, signor Salviati, procederemo avanti.
SALV. Tutto quello che sin qui si è detto,
appartiene al periodo diurno del flusso e reflusso, del quale prima si è
dimostrata in genere la cagion primaria ed universale, senza la quale nulla di
tale effetto seguirebbe; di poi, passando a gli accidenti particolari, varii ed
in certo modo sregolati, che in esso si osservano, si son trattate le cause
secondarie e concomitanti, onde essi dependono. Seguono ora gli altri due
periodi, mestruo ed annuo, li quali non arrecano accidenti nuovi e diversi,
oltre a i già considerati nel periodo diurno, ma operano ne i medesimi
con rendergli maggiori e minori in diverse parti del mese lunare ed in diversi
tempi dell'anno solare, quasi che e la Luna e il Sole entrino a parte
nell'opera e nella produzion di tali effetti: cosa che totalmente repugna al
mio intelletto, il quale, vedendo come questo de i mari è un movimento
locale e sensato, fatto in una mole immensa d'acqua, non può arrecarsi a
sottoscrivere a lumi, a caldi temperati, a predominii per qualità
occulte ed a simili vane immaginazioni, le quali tantum abest che siano
o possano esser cause del flusso, che per l'opposito il flusso è causa
di quelle, cioè di farle venire ne i cervelli atti piú alla
loquacità ed ostentazione, che alla specolazione ed investigazione
dell'opere piú segrete di natura; li quali, prima che ridursi a profferir
quella savia ingenua e modesta parola Non lo so, scorrono a lasciarsi
uscir di bocca, ed anco della penna, qual si voglia grande esorbitanza. Ed il
veder solamente che la medesima Luna e 'l medesimo Sole non operano, co 'l lor
lume, co 'l moto, co 'l caldo grande o col temperato, ne i minori ricetti
d'acqua, anzi, che a volerla per caldo far sollevare bisogna ridurla poco meno
che al bollire, ed in somma non poter noi artifiziosamente immitar in verun
modo i movimenti del flusso, salvo che co 'l moto del vaso, non dovrebbe egli
assicurare ogn'uno, tutte l'altre cose prodotte per cause di tale effetto esser
vane fantasie e del tutto aliene dal vero? Dico per tanto, che se è vero
che di un effetto una sola sia la cagion primaria, e che tra la causa e
l'effetto sia una ferma e costante connessione, necessaria cosa è che
qualunque volta si vegga alterazione ferma e costante nell'effetto, ferma e
costante alterazione sia nella causa: e perché le alterazioni che accaggiono a
i flussi e reflussi in diverse parti dell'anno e del mese hanno lor periodi
fermi e costanti, è forza dire che regolata alterazione ne i medesimi
tempi accaggia nella cagion primaria de i flussi e reflussi. L'alterazione poi
che si trova ne i detti tempi ne i flussi e reflussi, non consiste in altro che
nella lor grandezza, cioè nell'alzarsi ed abbassarsi piú o meno le
acque, e nel correr con impeto maggiore o minore; adunque è necessario
che quello che è cagion primaria del flusso e reflusso, ne i detti tempi
determinati accresca o diminuisca la sua forza. Ma già si è
concluso, la disegualità e difformità del moto de i vasi
contenenti l'acqua esser causa primaria de i flussi e reflussi; adunque bisogna
che tal difformità di tempo in tempo corrispondentemente si difformi
piú, cioè si faccia maggiore e minore. Ora convien che ci ricordiamo
come la difformità, cioè la diversa velocità di moto de i
vasi, cioè delle parti della superficie terrestre, depende dal muoversi
loro del movimento composto resultante dall'accoppiamento de i due moti annuo e
diurno proprii dell'intero globo terrestre; de i quali la vertigine diurna, co
'l suo ora aggiugnere ed or detrarre al movimento annuo, è quella che
produce la difformità nel moto composto; talché ne gli additamenti e
suttrazioni che fa la vertigine diurna al moto annuo, consiste l'originaria
cagione del moto difforme dei vasi, ed in conseguenza del flusso e reflusso: in
guisa tale, che quando questi additamenti e suttrazioni si facesser sempre con
la medesima proporzione verso 'l moto annuo, continuerebbe ben la causa del
flusso e reflusso, ma però di farsi perpetuamente nell'istesso modo. Ma
noi abbiam bisogno di trovar la cagione del farsi i medesimi flussi e reflussi,
in diversi tempi, maggiori e minori; adunque bisogna (se vogliamo ritener
l'identità della causa) ritrovar alterazione in questi additamenti e
suttrazioni, che gli faccia piú e meno potenti nel produr quelli effetti che da
loro dependono. Ma tal potenza ed impotenza non veggo che si possa indurre se non
co 'l fare i medesimi additamenti e suttrazioni or maggiori ed or minori, sí
che l'accelerazione e 'l ritardamento del moto composto si faccia or con
maggiore ed or con minor proporzione.
SAGR. Io mi sento molto placidamente guidar per
mano; e bench'io non trovi intoppi per la strada, tuttavia, a guisa di cieco,
non veggo dove la vostra scorta mi conduca, né so immaginarmi dove tal viaggio
abbia a terminare.
SALV. Ancorché gran differenza sia tra 'l mio lento
filosofare e il vostro velocissimo discorso, tuttavia in questo particolare,
che ora abbiamo alle mani, non voglio maravigliarmi che la perspicacità
del vostro ingegno resti ancora offuscata dalla caligine alta ed oscura che ci
nasconde il termine al quale noi camminiamo: e cessa la mia maraviglia nel
rimembrarmi quant'ore, quanti giorni, e piú quante notti, abbia io trapassate
in questa specolazione, e quante volte, disperato di poterne venire a capo,
abbia, per consolazion di me medesimo, fatto forza di persuadermi, a guisa
dell'infelice Orlando, che potesse non esser vero quello che tuttavia la
testimonianza di tanti uomini degni di fede mi rappresentava innanzi a gli
occhi. Non vi maravigliate dunque se questa volta, contro al vostro consueto,
non prevedete il segno; e se pur vi maravigliate, credo che la riuscita, per
quanto posso giudicare assai inopinata, vi farà cessar la maraviglia.
SAGR. Ringrazio dunque Iddio dell'avere Egli
ovviato, che tal disperazione non traesse voi all'esito che si favoleggia del
misero Orlando, né a quello che forse non men favolosamente s'intende
d'Aristotile, acciocché né io né altri restasse privo del ritrovamento di cosa
tanto recondita quanto desiderata. Pregovi dunque che, quanto prima si possa,
satolliate la mia famelica avidità.
SALV. Eccomi a sodisfarvi. Eramo ridotti a
ritrovare in qual maniera gli additamenti e suttrazioni della vertigine
terrestre sopra 'l moto annuo potessero farsi or con maggiore ed or con minore
proporzione, la qual diversità, e non altra cosa, poteva assegnarsi per
cagion delle alterazioni mestrue ed annue che si veggono nella grandezza de i
flussi e reflussi. Considero adesso come questa proporzione de gli additamenti
e suttrazioni della vertigine diurna e del moto annuo può farsi maggiore
e minore in tre maniere. L'una è co 'l crescere e diminuire la
velocità del moto annuo, ritenendo gli additamenti e suttrazioni, fatte
dalla vertigine diurna, nella medesima grandezza; perché, per essere il moto
annuo circa tre volte maggiore, cioè piú veloce, del moto diurno (considerato anco nel cerchio massimo), se
noi di nuovo l'accresceremo, minore alterazione gli arrecheranno le giunte o
suttrazioni del moto diurno; ma, per l'opposito, facendolo piú tardo,
verrà con proporzion maggiore alterato dal medesimo moto diurno; in quel
modo che l'accrescere o detrarre quattro gradi di velocità a quello che
si muove con venti gradi, altera meno il suo corso che non farebbero i medesimi
quattro gradi aggiunti o detratti a uno che si movesse solamente con 10 gradi.
La seconda maniera sarebbe con far maggiori o minori gli additamenti e le
suttrazioni. ritenendo il moto annuo nell'istessa velocità: il che
è tanto facile da intendersi, quanto è manifesto che una
velocità, verbigrazia, di 20 gradi piú si altera con l'aggiunta o
suttrazione di 10 gradi, che con la giunta o suttrazione di 4. La terza maniera
sarebbe quando queste due si congiugnessero insieme, diminuendo il moto annuo e
crescendo le giunte e suttrazioni diurne. Sin qui, come voi vedete, non
è stato difficile il pervenire; ma ben è egli stato a me
laborioso il ritrovare in qual maniera ciò possa effettuarsi in natura.
Pur finalmente trovo che ella mirabilmente se ne serve, e con modi quasi
inopinabili: dico mirabili ed inopinabili a noi, ma non a lei, la quale anco le
cose all'intelletto nostro d'infinito stupore opera ella con somma
facilità e semplicità; e quello che a noi è difficilissimo
a intendersi, a quella è agevolissimo a farsi. Passando ora piú avanti,
ed avendo dimostrato come la proporzione tra gli additamenti e suttrazioni
della vertigine e 'l moto annuo si può far maggiore e minore in due
maniere (e dico in due, perché la terza vien composta delle due prime),
aggiungo che la natura di amendue si serve, e di piú soggiungo, che quando ella
si servisse di una sola, bisognerebbe tor via una delle due alterazioni
periodiche: cesserebbe quella del periodo mestruo, se 'l movimento annuo non si
alterasse; e quando le giunte e suttrazioni della vertigine diurna si
mantenesser continuamente eguali, mancherebbero le alterazioni del periodo
annuo.
SAGR. Adunque l'alterazione mestrua de' flussi e
reflussi depende dall'alterazion del moto annuo della Terra? e l'alterazione
annua de' medesimi flussi e reflussi deriva da gli additamenti e suttrazioni
della vertigine diurna? Ora mi ritrovo io più confuso che mai, e piú
fuori di speranza d'avere a poter restar capace come stia questo
intralciamento, piú intrigato, al mio parere, del nodo Gordiano; ed invidio il
signor Simplicio, dal cui silenzio argomento che ei resti capace del tutto, e
libero da quella confusione che grandemente a me ingombra la fantasia.
SIMP. Credo veramente, signor Sagredo, che voi vi
ritroviate confuso, e credo di sapere anco la causa della vostra confusione; la
quale, per mio avviso, nasce, che delle cose portate da poco in qua dal signor
Salviati, parte ne intendete e parte no. È anche vero ch'io mi trovo
fuori di confusione, ma non per quella causa che voi credete, cioè
perché io resti capace del tutto, anzi ciò mi avviene dal contrario,
cioè dal non capir nulla; e la confusione è nella
pluralità delle cose, e non nel niente.
SAGR. Vedete, signor Salviati, come alcune
sbrigliatelle che si son date ne i giorni passati al signor Simplicio, l'hanno
reso mansueto, e di saltatore cangiato in una chinea. Ma, di grazia, senza piú
indugio cavateci amendue di travaglio.
SALV. Farò forza quanto potrò alla
mia dura espressiva, alla cui ottusità supplirà l'acutezza del
vostro ingegno. Due sono gli accidenti de' quali doviamo investigar le cagioni:
il primo riguarda le diversità che accascano ne' flussi e reflussi nel
periodo mestruo; e l'altro appartiene al periodo annuo: prima parleremo del
mestruo, poi tratteremo dell'annuo; e tutto convien che risolviamo secondo i
fondamenti e ipotesi già stabilite, senza introdur novità alcuna,
né in astronomia né nell'universo, in grazia de i flussi e reflussi, ma
dimostriamo che di tutti i diversi accidenti che in essi si scorgono, le cause
riseggono nelle cose già conosciute, e ricevute per vere ed indubitate.
Dico per tanto, cosa vera, naturale, anzi necessaria, essere che un medesimo
mobile, fatto muovere in giro dalla medesima virtú movente, in piú lungo tempo
faccia suo corso per un cerchio maggiore che per un minore; e questa è
verità ricevuta da tutti, e confermata da tutte l'esperienze, delle
quali ne produrremo alcuna. Ne gli oriuoli da ruote, ed in particolare ne i
grandi, per temperare il tempo accomodano i loro artefici certa asta volubile
orizontalmente, e nelle sue estremità attaccano due pesi di piombo; e
quando il tempo andasse troppo tardo, co 'l solo avvicinare alquanto i detti
piombi al centro dell'asta, rendono le sue vibrazioni piú frequenti; ed
all'incontro, per ritardarlo, basta ritirare i medesimi pesi piú verso
l'estremità, perché cosí le vibrazioni si fanno piú rade, ed in
conseguenza gl'intervalli dell'ore si allungano. Qui la virtú movente è
la medesima, cioè il contrappeso, i mobili sono i medesimi piombi, e le
vibrazioni loro son piú frequenti quando sono piú vicini al centro, cioè
quando si muovono per minori cerchi. Sospendansi pesi equali da corde
diseguali, e rimossi dal perpendicolo lascinsi in libertà; vedremo gli
appesi a corde piú brevi fare lor vibrazioni sotto piú brevi tempi, come quelli
che si muovono per cerchi minori. Ma piú: attacchisi un tal peso a una corda la
quale cavalchi un chiodo fermato nel palco, e voi tenete l'altro capo della
corda in mano, ed avendo data l'andata al pendente peso, mentre ei va facendo
sue vibrazioni, tirate il capo della corda che avete in mano, sí che il peso si
vadia alzando; vedrete nel suo sollevarsi crescer la frequenza delle sue
vibrazioni, come quelle che si vanno facendo continuamente per cerchi minori. E
qui voglio che notiate due particolari, degni d'esser saputi. Uno è, che
le vibrazioni di un tal pendolo si fanno con tal necessità sotto tali
determinati tempi, che è del tutto impossibile il fargliele far sotto
altri tempi, salvo che con allungargli o abbreviargli la corda; del che potete
anco di presente con l'esperienza accertarvi, legando un sasso a uno spago e
tenendo l'altro capo in mano, tentando se mai, per qualunque artifizio si usi,
vi possa succedere di farlo andare in qua ed in là sotto altro che un
determinato tempo, fuor che con allungare o scorciar lo spago, che assolutamente
vedrete essere impossibile. L'altro particolare, veramente maraviglioso,
è che il medesimo pendolo fa le sue vibrazioni con l'istessa frequenza,
o pochissimo e quasi insensibilmente differente, sien elleno fatte per archi
grandissimi o per piccolissimi dell'istessa circonferenza. Dico che se noi
rimoveremo il pendolo dal perpendicolo uno, due o tre gradi solamente, o pure
lo rimuoveremo 70, 80, ed anco sino a una quarta intera, lasciato in sua
libertà farà nell'uno e nell'altro caso le sue vibrazioni con la
medesima frequenza, tanto le prime, dove ha da muoversi per un arco di 4 o 6
gradi, quanto le seconde, dove ha da passare archi di 160 o più gradi:
il che piú manifestamente si vedrà con sospender due pesi eguali da due
fili egualmente lunghi, rimovendone poi dal perpendicolo uno per piccola
distanza e l'altro per grandissima, li quali, posti in libertà, andranno
e torneranno sotto gl'istessi tempi, quello per archi assai piccoli, e questo
per grandissimi.
Dal che ne
séguita la conclusione d'un problema bellissimo: che è che, data una
quarta di cerchio (ne segnerò qui in terra un poco di figura), qual
sarebbe questa A B, eretta all'orizonte sí che insista su 'l piano toccando nel
punto B, e fatto un arco con una tavola ben pulita e liscia dalla parte
concava, piegandola secondo la curvità della circonferenza A D B, sí che
una palla ben rotonda e tersa vi possa liberamente scorrer dentro (la cassa di
un vaglio è accomodata a tale esperienza), dico che posta la palla in
qualsivoglia luogo, o vicino o lontano dall'infimo termine B, come sarebbe
mettendola nel punto C o vero qui in D o in E, e lasciata in libertà, in
tempi eguali o insensibilmente differenti arriverà al termine B,
partendosi dal C o dal D o dall'E o da qualsivoglia altro luogo: accidente
veramente maraviglioso. Aggiugnete un altro accidente, non men bello di questo:
che è che anco per tutte le corde tirate dal punto B a i punti C, D, E
ed a qualunque altro, non solamente preso nella quarta B A, ma in tutta la
circonferenza del cerchio intero, il mobile stesso scenderà in tempi
assolutamente eguali; talché in tanto tempo scenderà per tutto 'l
diametro eretto a perpendicolo sopra il punto B, in quanto scenderà per
la B C, quando bene ella suttendesse a un sol grado o a minore arco. Aggiugnete
l'altra meraviglia, qual è che i moti de i cadenti fatti per gli archi
della quarta A B si fanno in tempi piú brevi che quelli che si fanno per le
corde de i medesimi archi: talché il moto velocissimo e fatto nel tempo
brevissimo da un mobile per arrivare dal punto A al termine B sarà
quello che si farà non per la linea retta A B (ancor che sia la
brevissima di tutte quelle che tirar si possono tra i punti A, B), ma per la
circonferenza A D B; e preso anco qualsivoglia punto nel medesimo arco, qual
sia, verbigrazia, il punto D, e tirate due corde A D, D B, il mobile,
partendosi dal punto A, in manco tempo giugnerà al B venendo per le due
corde A D, D B, che per la sola A B; ma brevissimo sopra tutti i tempi sarà
quello della caduta per l'arco A D B: e gli stessi accidenti intendansi di
tutti gli altri archi minori, presi dall'infimo termine B in su.
SAGR. Non piú, non piú, ché voi mi ingombrate sí di
maraviglia, ed in tante bande mi distraete la mente, ch'io dubito che piccola
parte sarà quella che mi resterà libera e sincera per applicarla
alla materia principale che si tratta, e che pur troppo è per se stessa
oscura e difficile. Vi pregherò bene che vogliate favorirmi, spedita che
aviamo la specolazione de i flussi e reflussi, di esser altri giorni ancora a
onorar questa mia e vostra casa, ed a discorrere sopra tanti altri problemi che
aviamo lasciati in pendente, e che forse non son men curiosi e belli di questo
che si è trattato ne i passati giorni e che oggi dovrà
terminarsi.
SALV. Sarò a servirvi; ma piú di una e di
due sessioni bisognerà che facciamo, se, oltre all'altre quistioni
riserbate a trattarsi appartatamente, vorremo aggiugnerci le tante attenenti al
moto locale, tanto de i mobili naturali quanto de i proietti, materia
diffusamente trattata dal nostro Accademico Linceo. Ma tornando al nostro primo
proposito, dove eravamo su il dichiarare come de i mobili circolarmente da
virtù motrice, che continuamente si conservi la medesima, i tempi delle
circolazioni erano prefissi e determinati, ed impossibili a farsi piú lunghi o
piú brevi, avendone dati esempi e portate esperienze sensate e fattibili da
noi, possiamo la medesima verità confermare con le esperienze de i
movimenti celesti de i pianeti, ne i quali si vede mantener l'istessa regola:
che quelli che si muovono per cerchi maggiori, piú tempo consumano in
passargli. Speditissima osservazione di questo abbiamo da i pianeti Medicei,
che in tempi brevi fanno lor revoluzioni intorno a Giove. Talché non è
da metter dubbio, anzi possiamo tener per fermo e sicuro, che quando, per
esempio, la Luna, seguitando di esser mossa dalla medesima facoltà
movente, fusse ritirata a poco a poco in cerchi minori, ella acquisterebbe
disposizione di abbreviare i tempi de i suoi periodi, conforme a quel pendolo
del quale, nel corso delle sue vibrazioni, andavamo abbreviando la corda,
cioè scorciando il semidiametro delle circonferenze da lui passate.
Sappiate ora che questo, che della Luna ho portato per esempio, avviene e si
verifica essenzialmente in fatto. Rammemoriamoci che già fu concluso da
noi, insieme co 'l Copernico, non esser possibile separar la Luna dalla Terra,
intorno alla quale, senza controversia, si muove in un mese: ricordiamoci
parimente che il globo terrestre, accompagnato pur sempre dalla Luna, va per la
circonferenza dell'orbe magno intorno al Sole in un anno, nel qual tempo la
Luna si rivolge intorno alla Terra quasi 13 volte; dal qual rivolgimento
séguita che essa Luna talor si trovi vicina al Sole, cioè quando
è tra 'l Sole e la Terra, e talora assai piú lontana, che è
quando la Terra riman tra la Luna e il Sole: vicina, in somma, nel tempo della
sua congiunzione e novilunio; lontana, nel plenilunio ed opposizione; e la
massima lontananza e la massima vicinità differiscono per quanto
è grande il diametro dell'orbe lunare. Ora, se è vero che la
virtú che muove la Terra e la Luna intorno al Sole si mantenga sempre del
medesimo vigore; e se è vero che il medesimo mobile, mosso dalla
medesima virtú, ma in cerchi diseguali, in tempi piú brevi passi archi simili
de i cerchi minori; bisogna necessariamente dire che la Luna quando è in
minor distanza dal Sole, cioè nel tempo della congiunzione, archi
maggiori passi dell'orbe magno, che quando è in maggior lontananza,
cioè nell'opposizione e plenilunio: e questa lunare inegualità
convien che sia participata dalla Terra ancora. Imperocché, se noi intenderemo
una linea retta prodotta dal centro del Sole per il centro del globo terrestre,
e prolungata sino all'orbe lunare, questa sarà il semidiametro dell'orbe
magno, nel quale la Terra, quando fusse sola, si moverebbe uniformemente; ma se
nel medesimo semidiametro collocheremo un altro corpo da esser portato,
ponendolo una volta tra la Terra e il Sole, ed un'altra volta oltre alla Terra
in maggior lontananza dal Sole, è forza che in questo secondo caso il
moto comune di amendue secondo la circonferenza dell'orbe magno, mediante la
lontananza della Luna, riesca alquanto piú tardo che nell'altro caso, quando la
Luna è tra la Terra e 'l Sole, cioè in minor distanza: talché in
questo fatto accade giusto quel che avviene nel tempo dell'oriuolo,
rappresentandoci la Luna quel piombo che s'attacca or piú lontano dal centro,
per far le vibrazioni dell'asta men frequenti, ed ora piú vicino, per farle piú
spesse. Di qui può esser manifesto, come il movimento annuo della Terra
nell'orbe magno e sotto l'eclittica non è uniforme, e come la sua
difformità deriva dalla Luna ed ha suoi periodi e restituzioni mestrue.
E perché si era concluso, le alterazioni periodiche, mestrue ed annue, de i
flussi e reflussi non poter derivare da altra cagione che dall'alterata
proporzione tra il moto annuo e gli additamenti e suttrazioni della vertigine
diurna; e tale alterazione poteva farsi in due modi, cioè con l'alterare
il moto annuo, ritenendo ferma la quantità de gli additamenti, o co 'l
mutar la grandeza di questi, mantenendo l'uniformità del moto annuo;
già abbiamo ritrovato il primo di questi due modi, fondato sopra la
difformità del moto annuo, dependente dalla Luna e che ha i suoi periodi
mestrui: è dunque necessario che per tal cagione i flussi e reflussi
abbiano un periodo mestruo, dentro al quale si facciano maggiori e minori. Ora
vedete come la causa del periodo mestruo risiede nel moto annuo, ed insieme
vedete ciò che ha che far la Luna in questo negozio, e come ella ci
entra a parte senza aver che fare niente né con mari né con acque.
SAGR. Se a uno che non avesse cognizione di veruna
sorte di scale fusse mostrata una torre altissima, e domandatogli se gli desse
l'animo d'arrivare alla sua suprema altezza, credo assolutamente che direbbe di
no, non comprendendo che in altro modo che co 'l volare vi si potesse
pervenire; ma mostrandosegli una pietra non piú alta di mezo braccio ed
interrogandolo se sopra quella credessi di poter montare, son certo che
risponderebbe di sí, ed anco non negherebbe che non una sola, ma 10, 20 e 100
volte, agevolmente salir vi potrebbe: per lo che, quando se gli mostrassero le
scale, co 'l mezo delle quali, con l'agevolezza da lui conceduta, si poteva
pervenire colà dove poco fa aveva affermato esser impossibile di
arrivare, credo che, ridendo di se stesso, confesserebbe il suo poco
avvedimento. Voi, signor Salviati, mi avete di grado in grado tanto soavemente
guidato, che non senza meraviglia mi trovo giunto con minima fatica a
quell'altezza dove io credeva non potersi arrivare; è ben vero che, per
esser stata la scala buia, non mi sono accorto d'essermi avvicinato né
pervenuto alla cima se non dopo che, uscendo all'aria luminosa, ho scoperto
gran mare e gran campagna: e come nel salire un grado non è fatica
veruna, cosí ad una ad una delle vostre proposizioni mi son parse tanto chiare,
che, sopraggiugnendomi poco o nulla di nuovo, piccolo o nulla mi sembrava
essere il guadagno; onde tanto maggiormente si accresce in me la maraviglia per
l'inopinata riuscita di questo discorso, che mi ha scorto all'intelligenza di
cosa ch'io stimava inesplicabile. Una difficultà mi rimane solamente,
dalla quale desidero di esser liberato; e questa è, che se 'l movimento
della Terra insieme con quel della Luna sotto 'l zodiaco sono irregolari,
dovrebbe tale irregolarità essere stata osservata e notata da gli
astronomi, il che non so che sia seguito; però voi, che piú di me sete
di queste materie informato, liberatemi dal dubbio, e ditemi come sta il fatto.
SALV. Molto ragionevolmente dubitate: ed io
all'instanza rispondendo, dico che benché l'astronomia nel corso di molti
secoli abbia fatto gran progressi, nell'investigar la constituzione e i
movimenti de i corpi celesti, non però è ella sin qui arrivata a
segno tale, che moltissime cose non restino indecise, e forse ancora molt'altre
occulte. È da credere che i primi osservatori del cielo non conoscessero
altro che un moto comune a tutte le stelle, quale è questo diurno:
crederò bene che in pochi giorni si accorgessero che la Luna era
incostante nel tener compagnia all'altre stelle, ma che scorressero ben poi
molti anni prima che si distinguessero tutti i pianeti; ed in particolare penso
che Saturno, per la sua tardità, e Mercurio, per il vedersi di rado,
fussero de gli ultimi ad esser conosciuti per vagabondi ed erranti. Molti piú
anni è da credere che passassero avanti che fussero osservate le
stazioni e retrogradazioni de i tre superiori, come anco gli accostamenti e
discostamenti dalla Terra, occasioni necessarie dell'introdur gli eccentrici e
gli epicicli, cose incognite sino ad Aristotile, già che ei non ne fa
menzione. Mercurio e Venere con le loro ammirande apparizioni quanto hanno
tenuto sospesi gli astronomi nel risolversi, non che altro, circa il sito loro?
Talché qual sia l'ordine solamente de i corpi mondani e la integrale struttura
delle parti dell'universo da noi conosciute, è stata dubbia sino al
tempo del Copernico, il quale ci ha finalmente additata la vera costituzione ed
il vero sistema secondo il quale esse parti sono ordinate; sí che noi siamo
certi che Mercurio, Venere e gli altri pianeti si volgono intorno al Sole, e
che la Luna si volge intorno alla Terra. Ma come poi ciascun pianeta si governi
nel suo rivolgimento particolare e come stia precisamente la struttura
dell'orbe suo, che è quella che vulgarmente si chiama la sua teorica,
non possiamo noi per ancora indubitatamente risolvere: testimonio ce ne sia Marte,
che tanto travaglia i moderni astronomi; ed alla Luna stessa sono state
assegnate variate teoriche, dopo l'averla il medesimo Copernico mutata assai da
quella di Tolomeo. E per descender piú al nostro particolare, cioè al
moto apparente del Sole e della Luna, di quello è stato osservato certa
grande inegualità, per la quale in tempi assai differenti e' passa li
due mezi cerchi dell'eclittica, divisi da i punti de gli equinozii; nel passar
l'uno de i quali egli consuma circa a nove giorni di piú che nel passar l'altro,
differenza, come vedete, molto grande e notabile. Ma se nel passare archi
piccoli, quali sarebbono, per esempio, i 12 segni, e' mantenga un moto
regolarissimo, o pure proceda con passi or piú veloci alquanto ed or piú lenti,
come è necessario che segua quando il movimento annuo sia solo in
apparenza del Sole, ma in realtà della Terra accompagnata dalla Luna,
ciò non è stato sin qui osservato, né forse ricercato. Della Luna
poi, le cui restituzioni sono state investigate principalmente in grazia de gli
eclissi, per i quali basta aver esatta cognizione del moto suo intorno alla
Terra, non si è parimente con intera curiosità ricercato qual sia
il suo progresso per gli archi particolari del zodiaco. Che dunque la Terra e
la Luna nello scorrer per il zodiaco, cioè per la circonferenza
dell'orbe magno, si accelerino alquanto ne' novilunii e si ritardino ne'
plenilunii, non deve mettersi in dubbio perché tal inegualità non si sia
manifestata: il che per due ragioni è accaduto; prima, perché non
è stata ricercata; secondariamente poi, perché ella può essere
non molto grande. Né molto grande fa di bisogno che ella sia per produr
l'effetto che si vede nell'alterazione delle grandezze de i flussi e reflussi,
perché non solamente tali alterazioni, ma gli stessi flussi e reflussi, son
piccola cosa rispetto alla grandezza de' suggetti in cui si esercitano, ancor
che rispetto a noi ed alla nostra piccolezza sembrino cose grandi. Imperocché
l'aggiugnere o scemare un grado di velocità dove ne sono naturalmente
700 o 1000, non si può chiamar grande alterazione né in chi lo
conferisce né in chi lo riceve: l'acqua del mar nostro, portata dalla vertigine
diurna, fa circa
SAGR. Rimango pienamente sodisfatto quanto a questa
parte; resta da dichiararci come quelli additamenti e suttrazioni derivanti
dalla vertigine diurna si facciano or maggiori ed or minori; dalla quale
alterazione ci accennaste che dependeva il periodo annuo de gli accrescimenti e
diminuzioni de' flussi e reflussi.
SALV. Farò ogni possibile sforzo per
lasciarmi intendere; ma la difficoltà dell'accidente stesso, e la
grand'astrazion di mente che ci vuol per capirlo, mi sgomentano. La
disegualità de gli additamenti e suttrazioni che la vertigine diurna fa
sopra 'l moto annuo, depende dall'inclinazion dell'asse del moto diurno sopra
'l piano dell'orbe magno o vogliamo dire dell'eclittica, mediante la quale
inclinazione l'equinoziale sega essa eclittica, restando sopra di lei inclinato
ed obbliquo secondo la medesima inclinazion dell'asse: e la quantità de
gli additamenti viene a importar quanto è tutto il diametro di esso
equinoziale, stante il centro della Terra ne i punti solstiziali; ma fuor di
quelli importa mano e manco, secondo che esso centro si va avvicinando a i
punti degli equinozii, dove tali additamenti son minori che in tutti gli altri
luoghi. Questo è il tutto, ma involto in quella oscurità, che voi
vedete.
SAGR. Anzi pure in quella ch'io non veggo, perché
sin ora non comprendo nulla.
SALV. Già l'ho io predetto: tuttavia
proveremo se co 'l disegnarne un poco di figura si potesse guadagnar qualche
lume, se bene meglio sarebbe il rappresentarla con corpi solidi che con
semplici disegni; pure ci aiuteremo con la prospettiva e con gli scorci.
Segnamo dunque, come di sopra, la circonferenza dell'orbe magno, nella quale intendasi
il punto A essere uno de i solstiziali, ed il diametro A P la comun sezione del
coluro de' solstizi e del piano dell'orbe magno o vogliam dire dell'eclittica,
ed in esso punto A esser locato il centro del globo terrestre, l'asse del quale
C A B, inclinato sopra il piano dell'orbe magno, cade nel piano del detto
coluro, che passa per amendue gli assi dell'equinoziale e dell'eclittica; e per
minor confusione segneremo il solo cerchio equinoziale, notandolo con questi
caratteri DGEF, del quale la comun sezione col piano dell'orbe magno sia la
linea D E, sí che la metà di
esso equinoziale D F E rimarrà inclinata sotto il piano dell'orbe magno,
e l'altra metà D G E elevata sopra. Intendasi ora, la revoluzione di
esso equinoziale farsi secondo la conseguenza de i punti D, G, E, F, ed il moto
del centro da A verso E: e perché, stante il centro della Terra in A, l'asse C
B (che è eretto al diametro dell'equinoziale D E) cade, come si è
detto, nel coluro de' solstizii, la comun sezione del quale e dell'orbe magno
è il diametro P A, sarà essa linea P A perpendicolare alla
medesima D E, per esser il coluro eretto all'orbe magno, e però essa D E
sarà la tangente dell'orbe magno nel punto A; talché in questo stato il
moto del centro per l'arco A E, che è di un grado per giorno, pochissimo
differisce, anzi è come se fusse fatto per la tangente D A E. E perché
per la vertigine diurna il punto D portato per G in E accresce al moto del
centro, mosso quasi per la medesima linea D E, tanto quanto è tutto il
diametro D E, ed all'incontro altrettanto diminuisce movendosi per l'altro mezo
cerchio E F D, saranno gli additamenti e suttrazioni in questo luogo,
cioè nel tempo del solstizio, misurati da tutto il diametro D E.
Passiamo ora a vedere se ne i tempi de gli
equinozii e' siano della medesima grandezza; e trasportando il centro della
Terra nel punto I, lontano per una quarta dal punto A, intendiamo il medesimo
equinoziale G E F D, la sua comun sezione con l'orbe magno D E, l'asse con la
medesima inclinazione C B; ma la tangente dell'orbe magno nel punto I non
sarà piú la D E, ma un'altra che la segherà ad angoli retti, e
sia questa notata H I L, secondo la quale verrà ad essere incamminato il
moto del centro I, procedente per la circonferenza dell'orbe magno. Ora in
questo stato gli additamenti e suttrazioni non si misurano piú nel diametro D
E, come prima si fece, perché, non si distendendo tal diametro secondo la linea
del moto annuo H L, anzi segandola ad angoli retti, niente promuovono o
detraggono essi termini D, E; ma gli additamenti e suttrazioni s'hanno a
prendere da quel diametro che cade nel piano eretto al piano dell'orbe magno e
che lo sega secondo la linea H L, il qual diametro sarà adesso questo G
F: ed il moto addiettivo, per cosí dire, sarà il fatto dal punto G per
il mezzo cerchio G E F, e l'ablativo sarà il restante, fatto per l'altro
mezo cerchio F D G. Ora questo diametro, per non esser nella medesima linea H L
del moto annuo, anzi perché la sega, come si vede, nel punto I, restando il
termine G elevato sopra ed F depresso sotto il piano dell'orbe magno, non
determina gli additamenti e suttrazioni secondo tutta la sua lunghezza; ma
devesi la quantità di quelli prendere dalla parte della linea H L che
rimane intercetta tra le perpendicolari tirate sopra di lei da i termini G, F,
quali sono queste due G S, F V: sí che la misura de gli additamenti è la
linea S V, minore della G F o vero della D E, che fu la misura de gli
additamenti nel solstizio A. Secondo poi che si costituirà il centro
della Terra in altri punti del quadrante A I, tirando le tangenti in essi punti
e le perpendicolari sopra esse cadenti da i termini de i diametri
dell'equinoziale segnati da i piani eretti per esse tangenti al piano dell'orbe
magno, le parti di esse tangenti (che saranno sempre minori verso gli equinozii
e maggiori verso i solstizii) ci daranno le quantità de gli additamenti
e suttrazioni. Quanto poi differischino i minimi additamenti da i massimi,
è facile a sapersi, perché tra essi è la differenza medesima che
tra tutto l'asse o diametro della sfera e la parte di esso che resta tra i
cerchi polari, la quale è minor di tutto 'l diametro la duodecima parte
prossimamente, intendendo però de gli additamenti e suttrazioni fatte
nell'equinoziale; ma negli altri paralleli son minori, secondo che i lor
diametri si vanno diminuendo.
Questo è quanto io posso dirvi in questa
materia e quanto per avventura può comprendersi sotto una nostra
cognizione, la quale, come ben sapete, non si può aver se non di quelle
conclusioni che son ferme e costanti, quali sono i tre periodi in genere de'
flussi e reflussi, come quelli che dependono da cause invariabili, une ed
eterne. Ma perché con queste cagion primarie ed universali si mescolano poi le
secondarie e particolari, potenti a far molte alterazioni, e sono, queste
secondarie, parte inosservabili ed incostanti, qual è, per esempio,
l'alterazion de i venti, e parte, benché determinate e ferme, non però
osservate per la loro multiplicità, come sono le lunghezze de i seni, le
loro diverse inclinazioni verso questa o quella parte, le tante e tanto diverse
profondità dell'acque; chi potrà, se non forse doppo lunghissime
osservazioni e ben sicure relazioni, formarne istorie cosí spedite, che possano
servir come ipotesi e supposizioni sicure a chi volesse con le lor combinazioni
render ragioni adequate di tutte le apparenze, e dirò anomalie e
particolari difformità, che ne i movimenti dell'acque possono scorgersi?
Io mi contenterò d'avere avvertito come le cause accidentarie sono in
natura, e son potenti a produr molte alterazioni: le minute osservazioni le
lascerò fare a quelli che praticano diversi mari; e solo, per chiusa di
questo nostro discorso, metterò in considerazione come i tempi precisi
de i flussi e reflussi non solamente vengono alterati dalle lunghezze de i seni
e dalle profondità varie, ma notabile alterazione ancora penso io che
possa provenire dalla conferenza di diversi tratti di mari, differenti in
grandezza ed in positura o vogliam dire inclinazione: qual diversità
cade appunto qui nel golfo Adriatico, minore assai del resto del Mediterraneo,
e posto in tanta diversa inclinazione, che dove quello ha il suo termine che lo
serra dalla parte orientale, che sono le rive della Soria, questo è
racchiuso dalla parte piú occidentale; e perché nelle estremità sono
assai maggiori i flussi e reflussi, anzi quivi solamente sono grandissimi gli
alzamenti ed abbassamenti, molto verisimilmente può accadere che i tempi
de i flussi in Venezia si facciano ne i reflussi dell'altro mare, il quale,
come molto maggiore e piú direttamente disteso da occidente in oriente, viene
in certo modo ad aver dominio sopra l'Adriatico; e però non sarebbe da
maravigliarsi quando gli effetti dependenti dalle cagioni primarie non si verificassero
ne i tempi debiti, e rispondenti a i periodi, nell'Adriatico, ma sí bene nel
resto del Mediterraneo. Ma queste particolarità ricercano lunghe
osservazioni, le quali né io ho sin qui fatte, né meno son per poterle fare per
l'avvenire.
SAGR. Assai mi par che voi abbiate fatto in aprirci
il primo ingresso a cosí alta specolazione: della quale quando altro non ci
aveste arrecato che quella prima general proposizione, che a me par che non
patisca replica alcuna, dove molto concludentemente si dichiara, che stando
fermi i vasi contenenti le acque marine, impossibil sarebbe, secondo il comun
corso di natura, che in esse seguissero quei movimenti che seguir veggiamo, e
che, all'incontro, posti i movimenti per altri rispetti attribuiti dal
Copernico al globo terrestre, debbano necessariamente seguire simili
alterazioni ne i mari, quando, dico, altro non ci fusse, questo solo mi par che
superi di tanto intervallo le vanità introdotte da tanti altri, che il
ripensar solamente a quelle mi muove nausea; e molto mi maraviglio che tra
uomini di sublime ingegno, che pur ve ne sono stati non pochi, non sia ad
alcuno cascato in mente la incompatibilità che è tra il reciproco
moto dell'acqua contenuta e la immobilità del vaso contenente, la quale
repugnanza ora mi par tanto manifesta.
SALV. Piú è da maravigliarsi, che essendo
pur caduto in pensiero ad alcuni di referir la causa de i flussi e reflussi al
moto della Terra, onde in ciò hanno mostrato perspicacità
maggiore della comune, nello strigner poi il negozio non abbiano afferrato
nulla, per non avere avvertito che non basta un semplice moto ed uniforme,
quale è, verbigrazia, il semplice diurno del globo terrestre, ma si
ricerca un movimento ineguale, ora accelerato ed ora ritardato; perché quando
il moto de i vasi sia uniforme, l'acque contenute si abitueranno a quello, né
mai faranno mutazione alcuna. Il dire anco (come si referisce d'uno antico
matematico) che il moto della Terra, incontrandosi col moto dell'orbe lunare,
cagiona, per tal contrasto, il flusso e reflusso, resta totalmente vano, non
solo perché non vien dichiarato né si vede come ciò debba seguire, ma si
scorge la falsità manifesta, atteso che la conversione della Terra non
è contraria al moto della Luna, ma è per il medesimo verso:
talché il detto e imaginato sin qui da gli altri resta, al parer mio, del tutto
invalido. Ma tra tutti gli uomini grandi che sopra tal mirabile effetto di
natura hanno filosofato, piú mi meraviglio del Keplero che di altri, il quale,
d'ingegno libero ed acuto, e che aveva in mano i moti attribuiti alla Terra,
abbia poi dato orecchio ed assenso a predominii della Luna sopra l'acqua, ed a
proprietà occulte, e simili fanciullezze.
SAGR. Io son d'opinione che a questi piú
specolativi sia avvenuto quello che di presente accade a me ancora, cioè
il non potere intendere il viluppo de i tre periodi, annuo, mestruo e diurno, e
come le cause loro mostrino di dependere dal Sole e dalla Luna, senza che né il
Sole né la Luna abbiano che far nulla con l'acqua; negozio, per piena intelligenza
del quale a me fa di mestiero una piú fissa e lunga applicazione di mente, la
quale sin ora dalla novità e dalla difficultà mi resta assai
offuscata: ma non dispero, col tornar da me stesso, in solitudine e silenzio, a
ruminar quello che non ben digesto mi rimane nella fantasia, d'esser per
farmene possessore. Aviamo dunque da i discorsi di questi 4 giorni grandi
attestazioni a favor del sistema Copernicano; tra le quali queste tre, prese,
la prima, dalle stazioni e retrogradazioni de i pianeti e da i loro
accostamenti e allontanamenti dalla Terra, la seconda dalla revoluzion del Sole
in se stesso e da quello che nelle sue macchie si osserva, la terza da i flussi
e reflussi del mare, si mostrano assai concludenti.
SALV. Ci si potrebbe forse in breve aggiugner la
quarta, e per avventura anco la quinta: la quarta, dico, presa dalle stelle
fisse, mentre in loro per esattissime osservazioni apparissero quelle minime
mutazioni che il Copernico pone per insensibili. Surge di presente una quinta
novità, dalla quale si possa arguir mobilità nel globo terrestre,
mediante quello che sottilissimamente va scoprendo l'Illustrissimo signor
Cesare della nobilissima famiglia de i Marsilii di Bologna, pur Accademico
Linceo, il quale in una dottissima scrittura va esponendo come ha osservato una
continua mutazione, benché tardissima, nella linea meridiana; della quale
scrittura, da me ultimamente con stupore veduta, spero che doverà farne
copia a tutti gli studiosi delle maraviglie della natura.
SAGR. Non è questa la prima volta che io ho
inteso parlar dell'esquisita dottrina di questo Signore, e di quanto egli si
mostri ansioso protettor di tutti i litterati; e se questa o altra sua opera
uscirà in luce, già possiamo esser sicuri che sia per esser cosa
insigne.
SALV. Ora, perché è tempo di por fine a i
nostri discorsi, mi resta a pregarvi, che se nel riandar piú posatamente le
cose da me arrecate incontraste delle difficultà o dubbii non ben
resoluti, scusiate il mio difetto, sí per la novità del pensiero, sí per
la debolezza del mio ingegno, sí per la grandezza del suggetto, e sí finalmente
perché io non pretendo né ho preteso da altri quell'assenso ch'io medesimo non
presto a questa fantasia, la quale molto agevolmente potrei ammetter per una
vanissima chimera e per un solennissimo paradosso: e voi, signor Sagredo, se
ben ne i discorsi avuti avete molte volte con grand'applauso mostrato di
rimaner appagato d'alcuno de' miei pensieri, ciò stimo io che sia
provenuto, in parte, piú dalla novità che dalla certezza di quelli, ma
piú assai dalla vostra cortesia, che ha creduto e voluto co 'l suo assenso
arrecarmi quel gusto che naturalmente sogliamo prendere dall'approvazione e
laude delle cose proprie. E come a voi mi ha obbligato la vostra gentilezza,
cosí m'è piaciuta l'ingenuità del signor Simplicio; anzi la sua
costanza nel sostener con tanta forza e tanto intrepidamente la dottrina del
suo maestro, me gli ha reso affezionatissimo: e come a Vossignoria, signor
Sagredo, rendo grazie del cortesissimo affetto, cosí al signor Simplicio
chieggio perdono se tal volta co 'l mio troppo ardito e resoluto parlare l'ho
alterato; e sia certo che ciò non ho io fatto mosso da sinistro affetto,
ma solo per dargli maggior occasione di portar in mezo pensieri alti, onde io potessi
rendermi piú scienziato.
SIMP. Non occorre che voi arrechiate queste scuse,
che son superflue, e massime a me, che, sendo consueto a ritrovarmi tra circoli
e pubbliche dispute, ho cento volte sentito i disputanti non solamente
riscaldarsi e tra di loro alterarsi, ma prorompere ancora in parole ingiuriose,
e talora trascorrere assai vicini al venire a i fatti. Quanto poi a i discorsi
avuti, ed in particolare in quest'ultimo intorno alla ragione del flusso e
reflusso del mare, io veramente non ne resto interamente capace; ma per quella
qual si sia assai tenue idea che me ne son formata, confesso, il vostro
pensiero parermi bene piú ingegnoso di quanti altri io me n'abbia sentiti, ma
non però lo stimo verace e concludente: anzi, ritenendo sempre avanti a
gli occhi della mente una saldissima dottrina, che già da persona
dottissima ed eminentissima appresi ed alla quale è forza quietarsi, so
che amendue voi, interrogati se Iddio con la Sua infinita potenza e sapienza
poteva conferire all'elemento dell'acqua il reciproco movimento, che in esso
scorgiamo, in altro modo che co 'l far muovere il vaso contenente, so, dico,
che risponderete, avere egli potuto e saputo ciò fare in molti modi, ed
anco dall'intelletto nostro inescogitabili. Onde io immediatamente vi concludo che,
stante questo, soverchia arditezza sarebbe se altri volesse limitare e coartare
la divina potenza e sapienza ad una sua fantasia particolare.
SALV. Mirabile e veramente angelica dottrina: alla
quale molto concordemente risponde quell'altra, pur divina, la quale, mentre ci
concede il disputare intorno alla costituzione del mondo, ci soggiugne (forse
acciò che l'esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca)
che non siamo per ritrovare l'opera fabbricata dalle Sue mani. Vaglia dunque
l'esercizio permessoci ed ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto
maggiormente ammirare la grandeza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a
penetrare i profondi abissi della Sua infinita sapienza.
SAGR. E questa potrà esser l'ultima chiusa
de i nostri ragionamenti quatriduani: dopo i quali se piacerà al signor
Salviati prendersi qualche intervallo di riposo, conviene che dalla nostra
curiosità gli sia conceduto, con condizione però che, quando gli
sia meno incomodo, torni a sodisfare al desiderio, in particolare mio, circa i
problemi lasciati indietro, e da me registrati per proporgli in una o due altre
sessioni, conforme al convenuto; e sopra tutto starò con estrema
avidità aspettando di sentire gli elementi della nuova scienza del
nostro Accademico intorno a i moti locali, naturale e violento. Ed in tanto
potremo, secondo il solito, andare a gustare per un'ora de' nostri freschi
nella gondola che ci aspetta.
[1] Nota all'edizione elettronica Manuzio: Il nostro testo di riferimento (Einaudi 1964), e l'Edizione Nazionale delle opere di Galileo, riportano in forma di nota, ma nello stesso corpo del testo, una serie di aggiunte che Galileo riportò a margine di una copia del Dialogo conservata oggi alla Biblioteca del Seminario di Padova.
Per evitare confusioni, in questa edizione elettronica, i brani sono inseriti all'interno del testo, compresi tra parentesi quadre.
[2] Il moto annuo della Terra costringe i copernicani ad asserire [anche] la rotazione diurna; altrimenti sarebbe rivolto continuamente verso il Sole lo stesso emisfero della Terra, e l'altro sarebbe sempre in ombra.
[3] «Che questa rotazione della Terra sia impossibile, lo dimostriamo come segue.»
[4] «Poste queste premesse ne consegue necessariamente che, muovendosi la Terra di moto circolare, tutte le cose dall'aria ad essa, ecc. Se poi immaginiamo che queste palle siano di ugual peso, grandezza, gravità, e le lasciamo cadere dal concavo lunare, ammesso che il moto di discesa abbia la stessa velocità del moto di rotazione (cosa che in realtà non è, perché la palla A ecc.) arriveranno al suolo (per fare una grossa concessione agli avversari) in almeno sei giorni: nel qual tempo sei volte intorno alla Terra, ecc.»
[5] «Se dall'esterno, è Dio stesso che lo produce con un miracolo continuo? O forse un angelo? O l'aria? E questa è invero la spiegazione di molti. Ma contro queste argomentazioni…»
[6] «Insorgono questioni seconde difficilissime, anzi inestricabili.»
[7] «Quel principio interno è accidente o sostanza: se è accidente, qual è? Poiché finora sembra non si conosca nessuna qualità che muova in cerchio di moto locale.»
[8] «La quale, anche se esistesse, come potrebbe trovarsi in cose tanto contrarie? Nel fuoco come nell'acqua? Nell'aria come nella terra? Nei viventi come negli esseri inanimati?»
[9] «Se sostieni la seconda ipotesi (ossia se asserisci che tale principio è una sostanza), allora esso è o materia o composto di materia e forma; ma a quest'ipotesi si oppongono di nuovo tante diverse nature, quali sono gli uccelli, le lumache, i sassi, le frecce, le nevi, i fumi, le grandini, i pesci, ecc., cose che tutte, benché differenti per specie e per genere, sarebbero mosse circolarmente dalla loro natura, essendo per le loro nature, diversissime.»
[10] «Se la Terra, per volontà di Dio, fosse in quiete, le altre cose ruoterebbero o no? Se no, è falso che ruotino per natura; se sí, si tornerebbe alle questioni prime; e invero sarebbe ben strano che, anche volendolo, il gabbiano non potesse trattenersi sopra un pesciolino, l'allodola sopra il suo nido, e il corvo sopra una lumaca o sopra un sasso.»
[11] «Inoltre, come avviene che cose tanto diverse si muovano soltanto da occidente a oriente, parallele all'equatore? E che si muovano sempre, senza mai fermarsi?»
[12] «Perché tanto più velocemente quanto piú sono alte, e tanto piú lentamente quanto piú sono basse?»
[13] «Perché le cose piú prossime all'equinoziale si muovono in un cerchio maggiore, e quelle piú lontane in un cerchio minore?»
[14] «Perché una stessa palla sotto l'equinoziale si rivolgerebbe intorno al centro della terra in un cerchio massimo, con velocità incredibile, e sotto il polo invece ruoterebbe intorno al proprio centro, con rotazione nulla, e con lentezza massima?»
[15] «Perché una stessa cosa, ad esempio una palla di piombo, se avrà ruotato una volta intorno alla Terra descrivendo un cerchio massimo, non continuerà a rivolgersi ovunque, intorno ad essa, secondo un cerchio massimo, ma, portata fuori dell'equinoziale, si muoverà in cerchi minori?»
[16] «Se il moto circolare è naturale ai corpi gravi e ai leggeri, come si potrà definire quello in linea retta? Se infatti lo si definirà naturale, come potrà esser tale anche il moto circolare, differendo in specie dal retto? Se lo si definirà violento, come accade che un razzo, volando verso l'alto, muova il capo scintillante in su invece che in giro?»
[17] «Perché il centro di una sfera in caduta libera all'equatore descrive una spira nel suo piano, mentre alle altre latitudini descrive una spira in una superficie conica? Perché cadendo al polo discende nell'asse (terrestre) descrivendo circolarmente una linea su una superficie cilindrica?»
[18] «Se tutta la terra, insieme con l'acqua, fosse annientata, dalle nubi non cadrebbero grandine o pioggia, ma per natura si muoverebbero soltanto in cerchio; né alcun fuoco o corpo igneo salirebbe, poiché probabilmente a loro giudizio in alto non c'è fuoco.»
[19] Alle quali conclusioni si oppongono tuttavia l'esperienza e la ragione.
[20] «Una pietra posta nel centro, o salirà per congiungersi alla Terra in qualche punto, oppure no: in questo secondo caso è falso che le parti, per il semplice fatto di esserne separate, si muovano verso il tutto; quanto al primo caso vi si oppone ogni ragione ed esperienza, e in tal caso i gravi non riposerebbero nel loro centro di gravità. Analogamente, se una pietra lasciata libera cadrà nel centro, si separerà del tutto, contro Copernico; che rimanga sospesa, è contrario ad ogni esperienza; vediamo infatti archi interi crollare.»
[21] «Non si avvede di fare il cerchio annuo minore o l'orbe della Terra molto maggiore del giusto.»
[22] «E in primo luogo, se si accetta l'opinione del Copernico, pare si metta in grave pericolo, se pure non si distrugge del tutto, il criterio della filosofia naturale.»
[23] «Insieme con la Terra si muove l'aria che la circonda, e tuttavia noi non sentiremmo il suo moto, benché piú veloce e piú rapido di qualunque impetuosissimo vento, ma anzi lo considereremmo una somma calma, se non vi si aggiungesse un altro moto. Quando mai si potrebbe dire che i sensi s'ingannano, se questo non è un inganno dei sensi?»
[24] «Inoltre noi stessi siamo portati in giro dalla circolazione della Terra, ecc.»
[25] «Secondo quest'opinione è necessario che noi diffidiamo dei nostri sensi, in quanto del tutto fallaci o ottusi nel giudicare le cose sensibili, anche quelle a noi piú prossime; che verità possiamo dunque sperare da una facoltà cosí soggetta a errore?»
[26] «È piú difficile accrescere l'accidente oltre la norma del soggetto, che aumentare il soggetto senza l'accidente: è dunque piú verosimile quel che fa Copernico, accrescendo l'orbe delle stelle fisse senza conferirgli il moto, che quel che fa Tolomeo, che accresce con velocità immensa il moto delle fisse.»
[27] «Nel punto del regresso intercorre quiete.»
[28] «Copernico [trasportò] la Terra, insieme con la Luna e tutto questo mondo elementare...»