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PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Ugo Foscolo
L E G R A Z I E
CARME AD
ANTONIO CANOVA
Alle Grazie immortali
le tre di Citerea figlie gemelle
è sacro il tempio, e son d’Amor sorelle;
nate il dì che a’ mortali
beltà ingegno virtù concesse Giove,
onde perpetue sempre e sempre nuove
le tre doti celesti
e più lodate e più modeste ognora
le Dee serbino al mondo. Entra ed adora.
INNO PRIMO
VENERE
Cantando, o Grazie,
degli eterei pregi
di
che il cielo v’adorna, e della gioia
che
vereconde voi date alla terra,
belle
vergini! a voi chieggo l’arcana
armonïosa
melodia pittrice 5
della
vostra beltà; sì che all’Italia
afflitta
di regali ire straniere
voli
improvviso a rallegrarla il carme.
Nella convalle fra gli
aerei poggi
di
Bellosguardo, ov’io cinta d’un fonte 10
limpido
fra le quete ombre di mille
giovinetti
cipressi alle tre Dive
l’ara
innalzo, e un fatidico laureto
in
cui men verde serpeggia la vite
la
protegge di tempio, al vago rito 15
vieni,
o Canova, e agl’inni. Al cor men fece
dono
la bella Dea che in riva d’Arno
sacrasti
alle tranquille arti custode;
ed
ella d’immortal lume e d’ambrosia
la
santa immago sua tutta precinse. 20
Forse
(o ch’io spero!) artefice di Numi,
nuovo
meco darai spirto alle Grazie
ch’or
di tua man sorgon dal marmo. Anch’io
pingo
e spiro a’ fantasmi anima eterna:
sdegno
il verso che suona e che non crea; 25
perché
Febo mi disse: Io Fidia, primo,
ed
Apelle guidai con la mia lira.
Eran l’Olimpo e il Fulminante e il Fato,
e
del tridente enosigèo tremava
la
genitrice Terra; Amor dagli astri 30
Pluto
feria: nè ancor v’eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato
a
fecondarlo, e di Natura avea
l’austero
nome: fra’ celesti or gode
di
cento troni, e con più nomi ed are 35
le
dan rito i mortali; e più le giova
l’inno
che bella Citerea la invoca.
Perché clemente a noi che mirò
afflitti
travagliarci
e adirati, un dì la santa
Diva,
all’uscir de’ flutti ove s’immerse 40
a
ravvivar le gregge di Nerèo,
apparì
con le Grazie; e le raccolse
l’onda
Ionia primiera, onda che amica
del
lito ameno e dell’ospite musco
da
Citera ogni dì vien desiosa 45
a’
materni miei colli: ivi fanciullo
la
Deità di Venere adorai.
Salve,
Zacinto! All’antenoree prode,
de’
santi Lari Idei ultimo albergo
e
de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa, 50
e
a te il pensier: chè piamente a queste
Dee
non favella chi la patria obblìa.
Sacra
città è Zacinto. Eran suoi templi,
era
ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi
sacri
al tripudio di Dïana e al coro; 55
pria
che Nettuno al reo Laomedonte
munisse
Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto. A lei versan tesori
l’angliche
navi; a lei dall’alto manda
i
più vitali rai l’eterno sole; 60
candide
nubi a lei Giove concede,
e
selve ampie d’ulivi, e liberali
i
colli di Lieo: rosea salute
prometton
l’aure, da’ spontanei fiori
alimentate,
e da’ perpetui cedri. 65
Splendea tutto quel mar quando sostenne
su
la conchiglia assise e vezzeggiate
dalla
Diva le Grazie: e a sommo il flutto,
quante
alla prima prima aura di Zefiro
le
frotte delle vaghe api prorompono, 70
e
più e più succedenti invide ronzano
a
far lunghi di sé äerei grappoli,
van
alïando su’ nettarei calici
e
del mèle futuro in cor s’allegrano,
tante
a fior dell’immensa onda raggiante 75
ardian
mostrarsi a mezzo il petto ignude
le
amorose Nereidi oceanine;
e
a drappelli agilissime seguendo
la
Gioia alata, degli Dei foriera,
gittavan
perle, dell’ingenue Grazie 80
il
bacio le Nereidi sospirando.
Poi come l’orme della
Diva e il riso
delle
vergini sue fêr di Citera
sacro
il lito, un’ignota violetta
spuntò
a’ piè de’ cipressi; e d’improvviso 85
molte
purpuree rose amabilmente
si
conversero in candide. Fu quindi
religïone
di libar col latte
cinto
di bianche rose, e cantar gl’inni
sotto
a’ cipressi, e d’offerire all’ara 90
le
perle, e il primo fior nunzio d’aprile.
L’una tosto alla Dea col
radïante
pettine
asterge mollemente e intreccia
le
chiome dell’azzurra onda stillanti.
L’altra
ancella a le pure aure concede, 95
a
rifiorire i prati a primavera,
l’ambrosio
umore ond’è irrorato il petto
della
figlia di Giove; vereconda
la
lor sorella ricompone il peplo
su
le membra divine, e le contende 100
di
que’ mortali attoniti al desìo.
Non prieghi d’inni o danze d’imenei,
ma
de’ veltri perpetuo l’ululato
tutta
l’isola udìa, e un suon di dardi
e
gli uomini sul vinto orso rissosi, 105
e
de’ piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l’aratro
a
que’ feroci: invan d’oltre l’Eufrate
chiamò
un dì Bassarèo, giovine dio,
a
ingentilir di pampini le rupi. 110
Il pio strumento irrugginia su’ brevi
solchi,
sdegnato; e divorata, innanzi
che
i grappoli recenti imporporasse
a’
rai d’autunno, era la vite: e solo
quando
apparian le Grazie, i cacciatori 115
e
le vergini squallide, e i fanciulli
l’arco
e ’l terror deponeano, ammirando.
Con mezze in mar le rote iva frattanto
lambendo
il lito la conchiglia, e al lito
pur
con le braccia la spingean le molli 120
Nettunine. Spontanee s’aggiogarono
alla
biga gentil due delle cerve
che
ne’ boschi dittei schive di nozze
Cintia a’ freni educava; e poi che dome
aveale
a’ cocchi suoi, pasceano immuni 125
da
mortale saetta. Ivi per sorte
vagolando
fuggiasche eran venute
le
avventurose, e corsero ministre
al
viaggio di Venere. Improvvisa
Iri
che segue i Zefiri col volo 130
s’assise
auriga, e drizzò il corso all’istmo
del
Laconio paese. Ancor Citèra
del
golfo intorno non sedea regina:
dove
or miri le vele alte su l’onda,
pendea
negra una selva, ed esiliato 135
n’era
ogni Dio da’ figli della terra
duellanti
a predarsi; e i vincitori
d’umane
carni s’imbandian convito.
Videro
il cocchio e misero un ruggito,
palleggiando
la clava. Al petto strinse 140
sotto
al suo manto accolte, le tremanti
sue
giovinette, e: Ti sommergi, o selva!
Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali
forse
eran tutti i primi avi dell’uomo!
Quindi
in noi serpe, ahi miseri, un natìo 145
delirar
di battaglia; e se pietose
nel
placano le Dee, spesso riarde
ostentando
trofeo l’ossa fraterne.
Ch’io
non le veggia almeno or che in Italia
fra
le messi biancheggiano insepolte! 150
Ma chi de’ Numi
esercitava impero
su
gli uomini ferini, e quai ministri
aveva
in terra il primo dì che al mondo
le
belle Dive Citerea concesse?
Alta
ed orrenda n’è la storia; e noi 155
quaggiù
fra le terrene ombre vaganti
dalla
fama n’udiam timido avviso.
Abbellitela or voi, Grazie, che siete
presenti
a tutto, e Dee tutto sapete.
Quando i pianeti dispensò agli Dei 160
Giove
padre, il più splendido ei s’elesse,
e
toccò in sorte a Citerea il più bello,
e
l’altissimo a Pallade, e le genti
di
que’ mondi beate abitatrici
sentìr
l’imperio del lor proprio Nume. 165
Ma senza Nume rimanea negletto
il
picciol globo della terra, e nati
alle
prede i suoi figli ed alla guerra,
e
dopo breve dì sacri alla morte.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. .
Il bel cocchio vegnente, e il doloroso 170
premio
de’ lor vicini arti più miti
persuase
a’ Laconi. Eran da prima
per
l’intentata selva e l’oceàno
dalla
Grecia divisi; e quando eretta
agli
ospitali Numi ebbero un’ara, 175
vider
tosto le pompe e le amorose
gare
e i regi conviti; e d’ogni parte
correan
d’Asia i guerrieri e i prenci argivi
alla
reggia di Leda. Ah non ti fossi
irato
Amor! e ben di te sovente 180
io
mi dorrò, da che le Grazie affliggi.
Per te all’arti eleganti ed a’ felici
ozi,
per te lascivi affetti, e molli
ozi,
e spergiuri a’ Greci; e poi la dura
vita,
e nude a sudar nella palestra 185
[sottentrar] le fanciulle onde salvarsi
Amor
da te. Ma quando eri per anche
delle
Grazie non invido fratello
Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo
cinto
d’armonïosi antri a’ delfini, 190
qui
Sparta e le fluenti dell’Eurota
grate
a’ cigni; e Messene offria securi
ne’
suoi boschetti alle tortore i nidi;
qui
d’Augìa ’l pelaghetto, inviolato
al
pescator, da che di mirti ombrato 195
era
lavacro al bel corpo di Leda
e
della sua figlia divina. E Amicle
terra
di fiori non bastava ai serti
delle
vergini spose; dal paese
venian
cantando i giovani alle nozze. 200
Non de’ destrieri nitidi l’amore
li
rattenne, non Laa che fra tre monti
ama
le caccie e i riti di Dïana,
né
la Maremma Elea ricca di pesce.
E
non lunge è Brisea, donde il propinquo 205
Taigeto intese strepitar l’arcano
tripudio
e i riti, onde il femmineo coro
placò
Lieo, e intercedean le Grazie.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . . .
Ma dove, o caste Dee,
ditemi dove
la
prima ara vi piacque, onde se invano 210
or
la chieggo alla terra, almen l’antica
religïone
del bel loco io senta.
Tutte velate, procedendo
all’alta
Dorio
che di lontan gli Arcadi vede,
le
Dive mie vennero a Trio: l’Alfeo 215
arretrò
l’onda, e die’ a’ lor passi il guado
che
anc’oggi il pellegrin varca ed adora.
Fe’ manifesta quel portento a’ Greci
la
Deità; sentirono da lunge
odorosa
spirar l’aura celeste. 220
De’ Beoti al confin siede Aspledone:
città
che l’aureo sol veste di luce
quando
riede all’occaso; ivi non lunge
sta
sull’immensa minïèa pianura
la
beata Orcomèno, ove il primiero, 225
dalle
ninfe alternato e da’ garzoni,
amabil
inno udirono le Grazie.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. .
Così cantaro; e Citerea svelossi;
e
quanti allor garzoni e giovinette
vider
la Deità furon beati, 230
e
di Driadi col nome e di Silvani
fur
compagni di Febo. Oggi le umane
orme
evitando, e de’ poeti il volgo,
che
con la lira inesperta a sé li chiama,
invisibili
e muti per le selve 235
vagano.
Come quando esce un’Erinne
a
gioir delle terre arse dal verno,
maligna,
e lava le sua membra a’ fonti
dell’Islanda
esecrati, ove più tristi
fuman
sulfuree l’acque; o a groelandi 240
laghi,
lambiti di [sulfuree] vampe,
la
teda alluma, e al ciel sereno aspira;
finge
perfida pria roseo splendore,
e
lei deluse appellano col vago
nome
di boreale alba le genti; 245
quella
scorre, le nuvole in Chimere
orrende,
e in imminenti armi converte
fiammeggianti;
e calar senti per l’aura
dal
muto nembo l’aquile agitate,
che
veggion nel lor regno angui, e sedenti 250
leoni,
e ulular l’ombre de’ lupi.
Innondati di sangue errano al guardo
delle
città i pianeti, e van raggiando
timidamente
per l’aereo caos;
tutta
d’incendio la celeste volta 255
s’infiamma,
e sotto a quell’infausta luce
rosseggia
immensa l’iperborea terra.
Quinci l’invida Dea gl’inseminati
campi
mira, e dal gelo l’oceàno
a’
nocchieri conteso; ed oggi forse 260
per
la Scizia calpesta armi e vessilli,
e
d’itali guerrier corpi incompianti.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. .
E giunte
le
Dive appiè de’ monti, alla sdegnosa
Diana
Iride il cocchio e mansuete 265
le
cerve addusse, amabil dono, in Creta.
Cintia
fu sempre delle Grazie amica,
e
ognor con esse fu tutela al core
dell’ingenue
fanciulle ed agl’infanti.
E
solette radean lievi le falde 270
dell’Ida
irriguo di sorgenti; e quando
fur
più al Cielo propinque, ove una luce
rosea
le vette al sacro monte asperge,
e
donde sembran tutte auree le stelle,
alle
vergini sue che la seguieno 275
mandò
in core la Dea queste parole:
-
Assai beato, o giovinette, è il regno
de’
Celesti ov’io riedo; a la infelice
Terra ed a’ figli suoi voi rimanete
confortatrici;
sol per voi sovr’essa 280
ogni
lor dono pioveranno i Numi.
E
se vindici sien più che clementi,
allor
fra’ nembi e i fulmini del Padre,
vi
guiderò a placarli. Al partir mio
tale
udirete un’armonia dall’alto, 285
che
diffusa da voi farà più liete
le
nate a delirar vite mortali,
più
deste all’Arti e men tremanti al grido
che
le promette a morte. Ospizio amico
talor
sienvi gli Elisi; e sorridete 290
a’
vati, se cogliean puri l’alloro,
ed
a’ prenci indulgenti, ed alle pie
giovani
madri che a straniero latte
non
concedean gl’infanti, e alle donzelle
che
occulto amor trasse innocenti al rogo, 295
e
a’ giovinetti per la patria estinti.
Siate immortali, eternamente belle! -
Più
non parlava, ma spargea co’ raggi
de
le pupille sue sopra le figlie
eterno
il lume della fresca aurora, 300
e
si partiva: e la seguian cogli occhi
di
lagrime soffusi, e lei da l’alto
vedean
conversa, e questa voce udiro:
-
Daranno a voi dolor novello i Fati
e
gioia eterna. - E sparve; e trasvolando 305
due
primi cieli, s’avvolgea nel puro
lume
dell’astro suo. L’udì Armonia
e
giubilando l’etere commosse.
Chè quando Citerea torna a’ beati
cori,
Armonia su per le vie stellate 310
move
plauso alla Dea pel cui favore
temprò
un dì l’universo . . .
. . .
. .
Come nel chiostro vergine romita,
se
gli azzurri del cielo, e la splendente
Luna,
e il silenzio delle stelle adora, 315
sente
il Nume, ed al cembalo s’asside,
e
del piè e delle dita e dell’errante
estro
e degli occhi vigili alle note
sollecita
il suo cembalo ispirata,
ma
se improvvise rimembranze Amore 320
in
cor le manda, scorrono più lente
sovra
i tasti le dita, e d’improvviso
quella
soave melodia che posa
secreta
ne’ vocali alvei del legno,
flebile
e lenta all’aure s’aggira; 325
così
l’alta armonia che . . .
. . .
discorreva
da’ Cieli . . .
. . .
. .
Udiro intente
le
Grazie; e in cor quell’armonia fatale
albergàro,
e correan su per la terra 330
a
spirarla a’ mortali. E da quel giorno
dolce
ei sentian per l’anima un incanto,
lucido
in mente ogni pensiero, e quanto
udian
essi o vedean vago e diverso
dilettava
i lor occhi, e ad imitarlo 335
prendean
industri e divenia più bello.
Quando l’Ore e le Grazie di soave
luce
diversa coloriano i campi,
e
gli augelletti le seguiano e lieto
facean
tenore al gemere del rivo 340
e
de’ boschetti al fremito, il mortale
emulò
que’ colori; e mentre il mare
fra
i nembi, o l’agitò Marte fra l’armi,
mirò
il fonte, i boschetti, udì gli augelli
pinti,
e godea della pace de’ campi. 345
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . . .
E l’arte
agevolmente,
all’armonia che udiva,
diede
eleganza alla materia; il bronzo
quasi
foglia arrendevole d’acànto
ghirlandò
le colonne; e ornato e legge 350
ebber
travi e macigni, e gìan concordi
curvati
in arco aereo imitanti
il
firmamento. Ma più assai felice
tu
che primiero la tua donna in marmo
effigïasti:
Amor da prima in core 355
t’infiammò
del desìo che disvelata
volea
bellezza, e profanata agli occhi
degli
uomini. Ma venner teco assise
le
Grazie, e tal diffusero venendo
avvenenza
in quel volto e leggiadrìa 360
per
quelle forme, col molle concento
sì
gentili spirarono gli affetti
della
giovine nuda; e non l’amica
ma
venerasti Citerea nel marmo.
E non che ornar di canto, e chi può tutte 365
ridir
l’opre de’ Numi? Impazïente
il
vagante inno mio fugge ove incontri
grazïose
le menti ad ascoltarlo;
pur
non so dirvi, o belle suore, addio,
e
mi detta più alteri inni il pensiero. 370
Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato
ah
da gran giorni omai profughe in terra
alla
Grecia vi tolse, e se l’Italia
che
v’è patria seconda i doni vostri
misera
ostenta e il vostro nume oblia? 375
Pur molti ingenui de’ suoi figli ancora
a
voi tendon le palme. Io finché viva
ombra
daranno a Bellosguardo i lauri,
ne
farò tetto all’ara vostra, e offerta
di
quanti pomi educa l’anno, e quante 380
fragranze
ama destar l’alba d’aprile,
e
il fonte e queste pure aure e i cipressi
e
segreto il mio pianto e la sdegnosa
lira,
e i silenzi vi fien sacri e l’arti.
Fra
l’arti io coronato e fra le Muse, 385
alla
patria dirò come indulgenti
tornate
ospiti a lei, sì che più grata
in
più splendida reggia e con solenni
pompe
v’onori: udrà come redenta
fu
due volte per voi, quando la fiamma 390
pose
Vesta sul Tebro e poi Minerva
diede
a Flora per voi l’attico ulivo.
Venite, o Dee, spirate Dee, spandete
la
Deità materna, e novamente
deriveranno
l’armonia gl’ingegni 395
dall’Olimpo
in Italia: e da voi solo,
né
dar premio potete altro più bello,
sol
da voi chiederem, Grazie, un sorriso.
INNO
SECONDO
VESTA
I
Tre vaghissime donne a cui le trecce
infiora
di felici itale rose
giovinezza,
e per cui splende più bello
sul
lor sembiante il giorno, all’ara vostra
sacerdotesse,
o care Grazie, io guido. 5
Qui e voi che Marte non rapì alle madri
correte,
e voi che muti impallidite
nel
penetrale della Dea pensosa,
giovinetti
d’Esperia. Era più lieta
Urania
un dì, quando le Grazie a lei 10
il
gran peplo fregiavano. Con esse
qui
Galileo sedeva a spïar l’astro
della
lor regina; e il disvïava
col
notturno rumor l’acqua remota,
che
sotto a’ pioppi delle rive d’Arno 15
furtiva
e argentea gli volava al guardo.
Qui
a lui l’alba, la luna e il sol mostrava,
gareggiando
di tinte, or le severe
nubi
su la cerulea alpe sedenti,
or
il piano che fugge alle tirrene 20
Nereidi, immensa di città e di selve
scena
e di templi e d’arator beati,
or
cento colli, onde Appennin corona
d’ulivi
e d’antri e di marmoree ville
l’elegante
città, dove con Flora 25
le
Grazie han serti e amabile idïoma.
Date principio, o giovinetti, al rito,
e
da’ festoni della sacra soglia
dilungate
i profani. Ite, insolenti
genii
d’Amore, e voi livido coro 30
di
Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.
Qui né oscena malìa, né plauso infido
può,
né dardo attoscato: oltre quest’ara,
cari
al volgo e a’ tiranni, ite, profani.
Dolce alle Grazie è la virginea voce 35
e
la timida offerta: uscite or voi
dalle
stanze materne ove solinghe
Amor
v’insidia, o donzellette, uscite:
gioia
promette e manda pianto Amore.
Qui
su l’ara le rose e le colombe 40
deponete,
e tre calici spumanti
di
latte inghirlandato; e fin che il rito
v’appelli
al canto, tacite sedete:
sacro
è il silenzio a’ vati, e vi fa belle
più
del sorriso. 45
E tu che ardisci in terra
vestir
d’eterna giovinezza il marmo,
or
l’armonia della bellezza, il vivo
spirar
de’ vezzi nelle tre ministre,
che
all’arpa io guido agl’inni e alle carole, 50
vedrai
qui al certo; e tu potrai lasciarle
immortali
fra noi, pria che all’Eliso
su
l’ali occulte fuggano degli anni.
Leggiadramente d’un ornato ostello,
che
a lei d’Arno futura abitatrice 55
i
pennelli posando edificava
il
bel fabbro d’Urbino, esce la prima
vaga
mortale, e siede all’ara; e il bisso
liberale
acconsente ogni contorno
di
sue forme eleganti; e fra il candore 60
delle
dita s’avvivano le rose,
mentre
accanto al suo petto agita l’arpa.
Scoppian dall’inquïete aeree fila,
quasi
raggi di sol rotti dal nembo,
gioia
insieme e pietà, poi che sonanti 65
rimembran
come il ciel l’uomo concesse
alle
gioie e agli affanni onde gli sia
librato
e vario di sua vita il volo,
e
come alla virtù guidi il dolore,
e
il sorriso e il sospiro errin sul labbro 70
delle
Grazie, e a chi son fauste e presenti,
dolce
in core ei s’allegri e dolce gema.
Pari un concento, se pur vera è fama,
un
dì Aspasia tessea lungo l’Ilisso:
era
allor delle Dee sacerdotessa, 75
e
intento al suono Socrate libava
sorridente
a quell’ara, e col pensiero
quasi
a’ sereni dell’Olimpo alzossi.
Quinci
il veglio mirò volgersi obliqua,
affrettando
or la via su per le nubi, 80
or
ne’ gorghi letèi precipitarsi
di
Fortuna la rapida quadriga
da’
viventi inseguita; e quel pietoso
gridò
invano dall’alto: A cieca duce
siete
seguaci, o miseri! e vi scorge 85
dove
in bando è pietà, dove il Tonante
più
adirate le folgori abbandona
su
la timida terra. O nati al pianto
e
alla fatica, se virtù vi è guida,
dalla
fonte del duol sorge il conforto. 90
Ah ma nemico è un altro Dio di pace,
più
che Fortuna, e gl’innocenti assale.
Ve’
come l’arpa di costei sen duole!
Duolsi che a tante verginette il seno
sfiori,
e di pianto alle carole in mezzo, 95
invidïoso
Amor bagni i lor occhi.
Per sé gode frattanto ella che amore
per
sé l’altera giovane non teme.
Ben l’ode e su l’ardenti ali s’affretta
alle
vendette il Nume: e a quelle note 100
a
un tratto l’inclemente arco gli cade.
E i montanini Zefiri fuggiaschi
docili
al suono aleggiano più ratti
dalle
linfe di Fiesole e dai cedri,
a
rallegrare le giunchiglie ond’ella 105
oggi,
o Grazie, per voi l’arpa inghirlanda,
e
a voi quest’inno mio guida più caro.
Già del piè delle dita e
dell’errante
estro,
e degli occhi vigili alle corde
ispirata
sollecita le note 110
che
pingon come l’armonia diè moto
agli
astri, all’onda eterea e alla natante
terra
per l’oceàno, e come franse
l’uniforme
creato in mille volti
co’
raggi e l’ombre e il ricongiunse in uno, 115
e
i suoni all’aere, e diè i colori al sole,
e
l’alterno continüo tenore
alla
fortuna agitatrice e al tempo;
sì
che le cose dissonanti insieme
rendan
concento d’armonia divina 120
e
innalzino le menti oltre la terra.
Come quando più gaio Euro provòca
sull’alba
il queto Lario, e a quel sussurro
canta
il nocchiero e allegransi i propinqui
lïuti,
e molle il fläuto si duole 125
d’innamorati
giovani e di ninfe
su
le gondole erranti; e dalle sponde
risponde
il pastorel con la sua piva:
per
entro i colli rintronano i corni
terror
del cavrïol, mentre in cadenza 130
di
Lecco il malleo domator del bronzo
tuona
dagli antri ardenti; stupefatto
perde
le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell’arpa diffuso erra il concento
per
la nostra convalle; e mentre posa 135
la
sonatrice, ancora odono i colli.
Or le recate, o vergini, i canestri
e
le rose e gli allori a cui materni
nell’ombrifero
Pitti irrigatori
fur
gli etruschi Silvani, a far più vago 140
il
giovin seno alle mortali etrusche,
emule
d’avvenenza e di ghirlande;
soave
affanno al pellegrin se innoltra
improvviso
ne’ lucidi teatri,
e
quell’intenta voluttà del canto 145
ed
errare un desio dolce d’amore
mira
ne’ vólti femminili, e l’aura
pregna
di fiori gli confonde il core.
Recate insieme, o vergini, le conche
dell’alabastro,
provvido di fresca 150
linfa
e di vita, ahi breve! a’ montanini
gelsomini,
e alla mammola dogliosa
di
non morir sul seno alla fuggiasca
ninfa
di Pratolino, o sospirata
dal
solitario venticel notturno. 155
Date il rustico giglio, e se men alte
ha
le forme fraterne, il manto veste
degli
amaranti invïolato: unite
aurei
giacinti e azzurri alle giunchiglie
di
Bellosguardo che all’amante suo 160
coglie
Pomona, e a’ garofani alteri
della
prole diversa e delle pompe,
e
a’ fiori che dagli orti dell’Aurora
novella
preda a’ nostri liti addussero
vittorïosi
i Zefiri su l’ale, 165
e
or fra’ cedri al suo talamo imminenti
d’ospite
amore e di tepori industri
questa
gentil sacerdotessa edùca.
Spira soave e armonïoso agli occhi
quanto
all’anima il suon, splendono i serti 170
che
di tanti color mesce e d’odori;
ma
il fior che altero del lor nome han fatto
dodici
Dei ne scevra, e il dona all’ara
pur
sorridendo; e in cor tacita prega:
che
di quei fiori ond’è nudrice, e l’arpa 175
ne
incorona per voi, ven piaccia alcuno
inserir,
belle Dee, nella ghirlanda
la
quale ogni anno il dì sesto d’aprile
delle
rose di lagrime innaffiate
in
val di Sorga, o belle Dee, tessete 180
a
recarle alla madre.
II
Ora Polinnia alata Dea che molte
Lire
a un tempo percote, e più d’ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
anche
le lodi de’ suoi fiori; or quando 185
la
bella donna, delle Dee seconda
sacerdotessa,
vien recando un favo.
Nostro e disdetto alle altre genti è il
rito
per
memoria de’ favi, onde in Italia
con
perenne ronzìo fanno tesoro 190
divine
api alle Grazie: e chi ne assaggia
parla
caro alla patria. Ah voi narrate
come
aveste quel dono! E chi la fama
a
noi fra l’ombre della terra erranti
può
abbellir se non voi, Grazie, che siete 195
presenti
a tutto, e Dee tutto sapete?
Quattro volte l’Aurora era salita
su
l’orïente a riveder le Grazie,
dacchè
nacquero al mondo; e Giano antico,
padre
d’Italia, e l’adriaca Anfitrite 200
inviavan
lor doni, e un drappelletto
di
Naiadi e fanciulle eridanine,
e
quante i pomi d’Anïene e i fonti
godean
d’Arno e di Tebro, e quante avea
Ninfe
il mar d’Aretusa; e le guidavi 205
tu,
più che giglio nivea Galatea.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . . .
E
cantar Febo pieno d’inni un carme.
Vaticinò, com’ei lo spirto, e varia
daranno
ai vati l’armonia del plettro
le
sue liete sorelle, e Amore il pianto 210
che
lusinghi a pietà l’alme gentili,
e
il giovine Lïeo scevra d’acerbe
cure
la vita, e Pallade i consigli,
Giove la gloria, e tutti i Numi eterno
poscia
l’alloro; ma le Grazie il mèle 215
persüadente
grazïosi affetti,
onde
pia con gli Dei torni la terra.
E cantando vedea lieto agitarsi
esalando
profumi, il verdeggiante
bosco
d’Olimpo, e rifiorir le rose, 220
e
[scorrere] di nèttare i torrenti,
e
risplendere il cielo, e delle Dive
raggiar
più bella l’immortal bellezza;
però
che il Padre sorrideva, e inerme
a
piè del trono l’aquila s’assise. 225
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
Inaccessa agli Dei splende una fiamma
solitaria
nell’ultimo de’ cieli,
per
proprio foco eterna; unico Nume
la
veneranda Deità di Vesta
vi
s’appressa, e deriva indi una pura 230
luce
che, mista allo splendor del sole,
tinge
gli aerei campi di zaffiro,
e
i mari, allor che ondeggiano al tranquillo
spirto
del vento facili a’ nocchieri,
e
di chiaror dolcissimo consola 235
con
quel lume le notti, e a qual più s’apre
modesto
fiore a decorar la terra
molli
tinte comparte, invidïate
dalla
rosa superba.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . . .
Dite, o garzoni, a chi mortale, e voi, 240
donzelle,
dite a qual fanciulla un giorno
più
di quel mèl le Dee furon cortesi.
N’ebbe primiero un cieco; e sullo scudo
di
Vulcano mirò moversi il mondo,
e
l’alto Ilio dirùto, e per l’ignoto 245
pelago
la solinga itaca vela,
e
tutto Olimpo gli s’aprì alla mente
e
Cipria vide e delle Grazie il cinto.
Ma quando quel sapor venne a Corinna
sul
labbro, vinse tra l’elèe quadrighe 250
di
Pindaro i destrier, benché Elicona
li
dissetasse, e li pascea di foco
Eolo,
e prenunzia un’aquila correva,
e
de’ suoi freni li adornava il Sole.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
Di
quel mèl la fragranza errò improvvisa 255
sul
talamo all’eolïa fanciulla,
e
il cor dal petto le balzò e la lira
ed
aggiogando i passeri, scendea
Venere dall’Olimpo, e delle sue
ambrosie
dita le tergeva il pianto. 260
Indarno Imetto
le
richiama dal dì che a fior dell’onda
ergea,
beate volatrici, il coro
eliconio
seguieno, obbedïenti
all’elegia
del fuggitivo Apollo. 265
Però che quando su la Grecia inerte
Marte
sfrenò le tartare cavalle
depredatrici,
e coronò la schiatta
barbara
d’Ottomano, allor l’Italia
fu
giardino alle Muse, e qui lo stuolo 270
fabro
dell’aureo mèl pose a sua prole
il
felice alvear. Né le Febee
api
(sebben le altre api abbia crudeli)
fuggono
i lai della invisibil Ninfa,
che
ognor delusa d’amorosa speme, 275
pur
geme per le quete aure diffusa,
e
il suo altero nemico ama e richiama;
tanta
dolcezza infusero le Grazie,
per
pietà della Ninfa, alle sue voci,
che
le lor api immemori dell’opra, 280
ozïose
in Italia odono l’eco
che
al par de’ carmi fe’ dolce la rima.
Quell’angelette scesero da prima
ove
assai preda di torrenti al mare
porta
Eridàno. Ivi la fata Alcina 285
di
lor sorti presàga avea disperso
molti
agresti amaranti; e lungo il fiume
gran
ciel prendea con negre ombre un’incolta
selva
di lauri: su’ lor tronchi Atlante
di
Ruggiero scrivea gli avi e le imprese, 290
e
di spettri guerrier muta una schiera
e
donne innamorate ivan col mago,
aspettando
il cantor; e questi i favi
vide
quivi deposti, e si mietea
tutti
gli allori; ma de’ fior d’Alcina 295
più
grazïoso distillava il mèle,
e
il libò solo un lepido poeta,
che
insiem narrò d’Angelica gli affanni.
Ma non men cara l’api amano l’ombra
del
sublime cipresso, ove appendea 300
la
sua cetra Torquato, allor che ardendo
forsennato
egli errò per le foreste
"sì che insieme movea pietate e riso
"nelle
gentili Ninfe e ne’ pastori:
"né
già cose scrivea degne di riso 305
"se
ben cose facea degne di riso".
...Deh! perché torse
i
suoi passi da voi, liete in udirlo
cantar
o Erminia, e il pio sepolcro e l’armi?
Né
disdegno di voi, ma più fatale 310
Nume
alla reggia il risospinse e al pianto.
...A tal ventura
fur
destinate le gentili alate
che
riposâr sull’Eridano il volo.
Mentre
nel Lilibeo mare la fata 315
dava
promesse, e l’attendea cortese
a
quante all’Adria indi posaro il volo
angiolette
Febee, l’altro drappello
che,
per antico amor Flora seguendo,
tendea
per le tirrene aure il suo corso, 320
trovò
simile a Cerere una donna
su
la foce dell’Arno; e l’attendeva
portando
in man purpurei gigli e frondi
fresche
d’ulivo. Avea riposo al fianco
un’etrusca
colonna, a sé dinanzi 325
di
favi desïoso un alveare.
Molte intorno a’ suoi piè verdi le spighe
spuntavano,
e perìan molte immature
fra
gli emuli papaveri; mal nota,
benché
fosse divina, era l’Ancella 330
alle
pecchie immortali. Essa agli Dei
non
tornò mai, da che scendea ne’ primi
dì
noiosi dell’uomo; e il riconforta
ma
le presenti ore gl’invola; ha nome
Speranza
e men infida ama i coloni. 335
Già negli ultimi cieli iva compiendo
il
settimo de’ grandi anni Saturno
col
suo pianeta, da che a noi la Donna
precorrendo
le Muse era tornata
per
consiglio di Pallade, a recarne 340
l’ara
fatale ove scolpite in oro
le
brevi rifulgean libere leggi,
madri
dell’arti onde fu bella Atene.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
Ecco prostrata una foresta, e fianchi
rudi
d’alpe, e masse ferree immani 345
al
braccio de’ Ciclòpi, a fondar tempio
che
ceda tardo a’ muti urti del tempo.
E al suono che invisibili spandeano
le
Grazie intorno, assunsero nell’opra
nuova
speme i viventi: e l’Architetto 350
meravigliando
della sua fatica,
quasi
nubi lievissime, di terra
ferro
e abeti vedea sorgere e marmi,
a
le sue leggi arrendevoli, e posarsi
convessi
in arco aereo imitanti 355
il
firmamento. Attonite le Muse
come
vennero poscia alla divina
mole
il guardo levando, indarno altrove
col
memore pensier ivan cercando
se
altrove Palla, . . .
. . .
. . .
. . . . 360
o
quando in Grecia di celeste acànto
ghirlandò
le colonne, o quando in Roma
gli
archi adornava a ritornar vittrice
trïonfando
con candide cavalle,
miracolo
sì fatto avesse all’arti 365
mai
suggerito. Quando poi la Speme
veleggiando
su l’Arno in una nave
l’api
recò e l’ancora là dove
sorger
poscia dovea delle bell’arti
sovra
mille colonne una gentile 370
reggia
alle Muse, . . . corser l’api
a
un’indistinta di novelle piante
soavità
che intorno al tempio oliva.
Un mirto
che
suo dall’alto Beatrice ammira, 375
venerando
slpendeva; e dalla cima
battea
le penne un Genio disdegnoso
che
il passato esplorando e l’avvenire
cieli
e abissi cercava, e popolato
d’anime
in mezzo a tutte l’acque un monte; 380
poi,
tornando, spargea folgori e lieti
raggi,
e speme e terrore e pentimento
ne’
mortali; e verissime sciagure
all’Italia
cantava.
Appresso al mirto 385
fiorian
le rose che le Grazie ogni anno
ne’
colli euganei van cogliendo, e un serto
molle
di pianto il dì sesto d’aprile
ne
recano alla Madre. A queste intorno
dolcemente
ronzarono, e sentiro 390
come
forse d’Eliso era venuto
ad
innestare il cespo ei che più ch’altri
libò
il mèl sacro su l’Imetto, e primo
fe’
del celeste amor celebre il rito.
Pur con molti frutteti e con l’orezzo 395
le
sviò de’ quercioli una valletta
dove
le Ninfe alle mie Dee seguaci
non
son Genii mentiti.
Io dal mio poggio
quando
tacciono i venti fra le torri 400
della
vaga Firenze, odo un Silvano
ospite
ignoto a’ taciti eremiti
del
vicino Oliveto: ei sul meriggio
fa
sua casa un frascato, e a suon d’avena
le
pecorelle sue chiama alla fonte. 405
Chiama
due brune giovani la sera,
né
piegar erba mi parean ballando.
Esso mena la danza. N’eran molte
sotto
l’alpe di Fiesole a una valle
che
da sei montagnette ond’è ricinta 410
scende
a sembianza di teatro acheo.
Affrico allegro ruscelletto accorse
a’
lor prieghi dal monte, e fe’ la valle
limpida
d’un freschissimo laghetto.
Nulla
per anco delle Ninfe inteso 415
avea
Fiammetta allor ch’ivi a diporto
novellando
d’amori e cortesie
con
le amiche sedeva, o s’immergea,
te,
Amor, fuggendo e tu ve la spïavi,
dentro
le cristalline onde più bella. 420
Fur poi svelati in que’ diporti i vaghi
misteri,
e Dïoneo re del drappello
le
Grazie afflisse. Perseguì i colombi
che
stavan su le dense ali sospesi
a
guardia d’una grotta: invan gementi 425
sotto
il flagel del mirto onde gl’incalza
gli
fan ombra dattorno, e gli fan prieghi
che
non s’accosti; sanguinanti e inermi
sgombran
con penne trepidanti al cielo.
Dalla
grotta i recessi empie la luna, 430
e
fra un mucchio di gigli addormentata
svela
a un Fauno confusa una Napea.
Gioì il protervo dell’esempio, e spera
allettarne
Fiammetta; e pregò tutti
allor
d’aita i Satiri canuti, 435
e
quante emule ninfe eran da’ giochi
e
da’ misteri escluse: e quegli arguti
ozïando
ogni notte a Dïoneo
di
scherzi e d’antri e talami di fiori
ridissero
novelle. Or vive un libro 440
dettato
dagli Dei; ma sfortunata
la
damigella che mai tocchi il libro!
Tosto smarrita del natìo pudore
avrà
la rosa; né il rossore ad arte
può
innamorar chi sol le Grazie ha in core. 445
O giovinette Dee, gioia dell’inno,
per
voi la bella donna i riti vostri
imìta
e le terrene api lusinga
nel
felsineo pendio d’onde il pastore
mira
Astrea che or del ciel gode e de’ tardi 450
alberghi
di Nereo; d’indiche piante
e
di catalpe onde i suoi Lari ombreggia
sedi
appresta e sollazzi alle vaganti
schiere,
o le accoglie ne’ fecondi orezzi
d’armonïoso
speco invïolate 455
dal
gelo e dall’estiva ira e da’ nembi.
La bella donna di sua mano i lattei
calici
del limone, e la pudica
delle
vïole, e il timo amor dell’api,
innaffia,
e il fior delle rugiade invoca 460
dalle
stelle tranquille, e impetra i favi
che
vi consacra e in cor tacita prega.
Con lei pregate, donzellette, e meco
voi,
garzoni, miratela. Il segreto
sospiro,
il riso del suo labbro, il dolce 465
foco
esultante nelle sue pupille
faccianvi
accorti di che preghi, e come
l’ascoltino
le Dee. E certo impetra
che
delle Dee l’amabile consiglio
da
lei s’adempia. I preghi che dal Cielo 470
per
pietà de’ mortali han le divine
vergini
caste, non a voi li danno,
giovani
vati e artefici eleganti,
bensì
a qual più gentil donna le imìta.
A
lei correte, e di soavi affetti 475
ispiratrici
e immagini leggiadre
sentirete
le Grazie. Ah vi rimembri
che
inverecondo le spaventa Amore!
III
Torna deh! torna al suon, donna dell’arpa;
guarda
la tua bella compagna; e viene 480
ultima
al rito a tesser danze all’ara.
Pur la città cui Pale empie di paschi
con
l’urne industri tanta valle, e pingui
di
mille pioppe aerëe al sussurro,
ombrano
i buoi le chiuse, or la richiama 485
alle
feste notturne e fra quegli orti
freschi
di frondi e intorno aurei di cocchi
lungo
i rivi d’Olona. E già tornava
questa
gentile al suo molle paese;
così
imminente omai freme Bellona 490
che
al Tebro, all’Arno, ov’è più sacra Italia,
non
un’ara trovò, dove alle Grazie
rendere
il voto d’una regia sposa.
Ma
udì ’l canto, udì l’arpa; e a noi si volse
agile
come in cielo Ebe succinta. 495
Sostien del braccio un giovinetto cigno,
e
togliesi di fronte una catena
vaga
di perle a cingerne l’augello.
Quei lento al collo suo del flessuoso
collo
s’attorce, e di lei sente a ciocche 500
neri
su le sue lattee piume i crini
scorrer
disciolti, e più lieto la mira
mentr’ella
scioglie a questi detti il labbro:
Grata agli Dei del reduce marito
da’ fiumi algenti ov’hanno patria i cigni, 505
alle virginee Deità consacra
l’alta
Regina mia candido un cigno
Accogliete, o garzoni, e su le chiare
acque
vaganti intorno all’ara e al bosco
deponete
l’augello, e sia del nostro 510
fonte
signor; e i suoi atti venusti
gli
rendan l’onde e il suo candore, e goda
di
sé, quasi dicendo a chi lo mira,
simbol
son io della beltà. Sfrondate
ilari
carolando, o verginette, 515
il
mirteto e i rosai lungo i meandri
del
ruscello, versate sul ruscello,
versateli,
e al fuggente nuotatore
che
veleggia con pure ali di neve,
fate
inciampi di fiori, e qual più ameno 520
fiore
a voi sceglia col puniceo rostro,
vel
ponete nel seno. A quanti alati
godon
l’erbe del par l’aere e i laghi
amabil
sire è il cigno, e con l’impero
modesto
delle grazie i suoi vassalli 525
regge,
ed agli altri volator sorride,
e
lieto le sdegnose aquile ammira.
Sovra l’òmero suo guizzan securi
gli
argentei pesci, ed ospite leale
il
vagheggiano, s’ei visita all’alba 530
le
lor ime correnti, desïoso
di
più freschi lavacri, onde rifulga
sovra
le piume sue nitido il sole.
Fioritelo
di gigli.
Al
vago rito 535
Donna
l’invia, che nella villa amena
de’
tigli (amabil pianta, e a’ molli orezzi
propizia,
e al santo coniugale amore)
nudrialo
afflitta; e a lei dal pelaghetto
lieto
accorrea, agitandole l’acque 540
sotto
i lauri tranquille. O di clementi
virtù
ornamento nella reggia insùbre!
Finché piacque agli Dei, o agl’infelici
cara
tutela, e di tre regie Grazie
genitrice
gentil, bella fra tutte 545
figlie
di regi, e agl’Immortali amica!
Tutto il Cielo t’udìa quando al marito
guerreggiante
a impedir l’Elba ai nemici
pregavi
lenta l’invisibil Parca
che
accompagna gli Eroi, vaticinando 550
l’inno
funereo e l’alto avello e l’armi
più
terse e giunti alla quadriga i bianchi
destrieri
eterni a correre l’Eliso.
Ma come Marte, quando entro le navi
rispingeva
gli Achei, vide sul vallo 555
fra
un turbine di dardi Aiace solo,
fumar
di sangue; e ove dirùto il muro
dava
più varco a’ Teucri, ivi attraverso
piantarsi;
e al suon de’ brandi, onde intronato
avea
l’elmo e lo scudo, i vincitori 560
impäurir
del grido; e rincalzarli
fra
le dardanie faci arso e splendente;
scagliar
rotta la spada, e trarsi l’elmo
e
fulminar immobile col guardo
Ettore,
che perplesso ivi si tenne: 565
tal
dell’Ausonio Re l’inclito alunno
fra
il lutto e il tempestar lungo di Borea
si
fe’ vallo dell’Elba, e minacciando
il
trïonfo indugiava e le rapine
dello
Scita ramingo oltre la Neva. 570
Quinci
indignato il sol torce il suo carro,
quando
Orïone predator dell’Austro
sovra
l’Orsa precipita e abbandona
corrucciosi
i suoi turbini e il terrore
sul
deserto de’ ghiacci orridi, d’alto 575
silenzio
e d’ossa e armate esuli larve.
Sdegnan chi a’ fasti di fortuna applaude
le
Dive mie, e sol fan bello il lauro
quando
Sventura ne corona i prenci.
Ma
più alle Dive mie piace quel carme 580
che
d’egregia beltà l’alma e le forme
con
la pittrice melodia ravviva.
Spesso per l’altre età, se l’idïoma
d’Italia
correrà puro a’ nepoti,
(è
vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie!) 585
tento
ritrar ne’ versi miei la sacra
danzatrice,
men bella allor che siede,
men
di te bella, o gentil sonatrice,
men
amabil di te quando favelli,
o
nutrice dell’api. Ma se danza, 590
vedila!
tutta l’armonia del suono
scorre
dal suo bel corpo, dal sorriso
della
sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
manda
agli sguardi venustà improvvisa.
E
chi pinger la può? Mentre a ritrarla 595
pongo
industre lo sguardo, ecco m’elude,
e
le carole che lente disegna
affretta
rapidissima, e s’invola
sorvolando
su’ fiori; appena veggio
il
vel fuggente biancheggiar fra’ mirti. 600
INNO TERZO
PALLADE
I
Pari al numero lor volino gl’inni
alle
vergini sante, armonïosi
del
peregrino suono uno e diverso
di
tre favelle. Intento odi, Canova;
ch’io
mi veggio d’intorno errar l’incenso, 5
qual
si spandea sull’are a’ versi arcani
d’Anfïone:
presente ecco il nitrito
de’
corsieri dircèi; benché Ippocrene
li
dissetasse, e li pascea dell’aure
Eolo,
e prenunzia un’aquila volava, 10
e
de’ suoi freni li adornava il Sole,
pur
que’ vaganti Pindaro contenne
presso
il Cefiso, ed adorò le Grazie.
Fanciulle, udite, udite: un lazio Carme
vien
danzando imenei dall’isoletta 15
di
Sirmïone per l’argenteo Garda
sonante
con altera onda marina,
da
che le nozze di Pelèo, cantate
nella
reggia del mar, l’aureo Catullo
al
suo Garda cantò. Sacri poeti, 20
a
me date voi l’arte, a me de’ vostri
idïomi
gli spirti, e co’ toscani
modi
seguaci adornerò più ardito
le
note istorie, e quelle onde a me solo
siete
cortesi allor che dagli antiqui 25
sepolcri
m’apparite, illuminando
d’elisia
luce i solitari campi
ove
l’errante Fantasia mi porta
a
discernere il vero. Or ne preceda
Clio,
la più casta delle Muse, e chiami 30
consolatrici
sue meco le Grazie.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
Come se a’ raggi d’Espero amorosi
fuor
d’una mìrtea macchia escon secrete
le
tortorelle mormorando a’ baci,
guata
dall’ombra l’upupa e sen duole, 35
fuggono
quelle impaurite al bosco;
così
le Grazie si fuggian tremando.
Fu lor ventura che Minerva allora
risaliva
que’ balzi, al bellicoso
Scita
togliendo il nume suo. Di stragi 40
su’
canuti, e di vergini rapite,
stolto!
il trionfo profanò che in guerra
giusta
il favore della Dea gli porse.
Delle Grazie s’avvide e della fuga
immantinente,
e dietro ad un’opaca 45
rupe
il cocchio lasciava, e le sue quattro
leonine
poledre; ivi lo scudo
depose,
e la fatale ègida, e l’elmo,
e
inerme agli occhi delle Grazie apparve.
-
Scendete, disse, o vergini, scendete 50
al
mar, e venerate ivi la Madre;
e
dolce un lutto per Orfeo nel core
vi
manderà, che obblierete il vostro
terror,
tanto ch’io rieda a offrirvi un dono,
né
più vi offenda Amore. - E tosto al corso 55
diè
la quadriga, e la rattenne a un’alta
reggia
che al par d’Atene ebbe già cara;
or
questa sola ha in pregio, or quando i Fati
non
lasciano ad Atene altro che il nome.
II
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
E
a me un avviso Eufrosine, cantando, 60
porge,
un avviso che da Febo un giorno
sotto
le palme di Cirene apprese.
Innamorato, nel pierio fonte
guardò
Tiresia giovinetto i fulvi
capei
di Palla, liberi dall’elmo, 65
coprir
le rosee disarmate spalle;
sentì
l’aura celeste, e mirò l’onde
lambir
a gara della Diva il piede,
e
spruzzar riverenti e paurose
la
sudata cervice e il casto petto, 70
che
i lunghi crin discorrenti dal collo
coprian,
siccome li moveano l’aure.
Ma né più rimirò dalle natìe
cime
eliconie il cocchio aureo del Sole,
né
per la coronèa selva di pioppi 75
guidò
a’ ludi i garzoni, o alle carole
l’anfïonie
fanciulle; e i capri e i cervi
tenean
securi le beote valli,
chè
non più il dardo suo dritto fischiava,
però
che la divina ira di Palla 80
al
cacciator col cenno onnipotente
avvinse
i lumi di perpetua notte.
Tal destino è ne’ fati. Ahi! senza pianto
l’uomo
non vede la beltà celeste.
III
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . . .
Isola è in mezzo all’oceàn, là dove 85
sorge
più curvo agli astri; immensa terra,
come
è grido vetusto, un dì beata
d’eterne
messi e di mortali altrice.
Invan
la chiede all’onde oggi il nocchiero,
or
i nostri invocando or dell’avverso 90
polo
gli astri; e se illuso è dal desio,
mira
albeggiar i suoi monti da lunge,
e
affretta i venti, e per l’antica fama
Atlantide l’appella. Ma da Febo
detta
è Palladio Ciel, che da la santa 95
Palla
Minerva agli abitanti irata,
cui
il ricco suolo e gl’imenei lascivi
fean
pigri all’arti e sconoscenti a Giove,
dentro
l’Asia gli espulse, e l’aurea terra
cinse
di ciel pervio soltanto ai Numi. 100
Onde, qualvolta per desìo di stragi
si
fan guerra i mortali, e alla divina
libertà
danno impuri ostie di sangue;
o
danno a prezzo anima e brandi all’ire
di
tiranni stranieri, o a fera impresa 105
seguon
avido re che ad innocenti
popoli
appresta ceppi e lutto a’ suoi;
allor
concede le Gorgòni a Marte
Pallade, e sola tien l’asta paterna
con
che i regi precorre alla difesa 110
delle
leggi e dell’are, e per cui splende
a’
magnanimi eroi sacro il trionfo.
Poi
nell’isola sua fugge Minerva,
e
tutte Dee minori, a cui diè giove
d’esserle
care alunne, a ogni gentile 115
studio
ammaestra: e quivi casti i balli,
quivi
son puri i canti, e senza brina
i
fiori e verdi i prati, ed aureo il giorno
sempre,
e stellate e limpide le notti.
Chiamò d’intorno a sé le Dive, e a tutte 120
compartì
l’opre del promesso dono
alle
timide Grazie. Ognuna intenta
agl’imperî
correa: Pallade in mezzo
con
le azzurre pupille amabilmente
signoreggiava
il suo virgineo coro. 125
Attenuando i rai aurei del sole,
volgeano
i fusi nitidi tre nude
Ore,
e del velo distendean l’ordito.
Venner le Parche di purpurei pepli
velate
e il crin di quercia; e di più trame 130
raggianti,
adamantine, al par de l’etre
e
fluide e pervie e intatte mai da Morte,
trame
onde filan degli Dei la vita,
le
tre presàghe riempiean la spola.
Né
men dell’altre innamorata, all’opra 135
Iri scese fra’ Zefiri; e per l’alto
le
vaganti accogliea lucide nubi
guareggianti
di tinte, e sul telaio
pioveale
a Flora a effigïar quel velo;
e
più tinte assumean riso e fragranza 140
e
mille volti dalla man di Flora.
E
tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,
senz’aprir
labbro, ridicendo: "Ahi, quante
gioie
promette, e manda pianto Amore!",
raddensavi
col pettine la tela. 145
E
allor faconde di Talia le corde,
e
Tersicore Dea, che a te dintorno
fea
tripudio di ballo e ti guardava,
eran
conforto a’ tuoi pensieri e a l’opra.
Correa
limpido insiem d’Èrato il canto 150
da
que’ suoni guidato; e come il canto
Flora
intendeva, e sì pingea con l’ago.
Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e
nel mezzo del velo ardita balli,
canti
fra ’l coro delle sue speranze 155
Giovinezza: percote a spessi tocchi
antico
un plettro il Tempo; e la danzante
discende
un clivo onde nessun risale.
Le
Grazie a’ piedi suoi destano fiori,
a
fiorir sue ghirlande: e quando il biondo 160
crin
t’abbandoni e perderai ’l tuo nome,
vivran
que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
l’urna
funerea spireranno odore.
Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;
e
ad un lato del velo Espero sorga 165
dal
lavor di tue dita; escono errando
fra
l’ombre e i raggi fuor d’un mìrteo bosco
due
tortorelle mormorando ai baci;
mirale
occulto un rosignuol, e ascolta
silenzïoso,
e poi canta imenei: 170
fuggono
quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;
e
sul contrario lato erri co’ specchi
dell’alba
il sogno; e mandi a le pupille
sopite
del guerrier miseri i volti 175
de
la madre e del padre allor che all’are
recan
lagrime e voti; e quei si desta,
e
i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e
il destro lembo istorïato esulti 180
d’un
festante convito: il Genio in volta
prime
coroni agli esuli le tazze.
Or
libera è la gioia, ilare il biasmo,
e
candida è la lode. A parte siede
bello
il Silenzio arguto in viso e accenna 185
che
non volino i detti oltre le soglie.
Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;
e
pinta il lembo estremo abbia una donna
che
con l’ombre e i silenzi unica veglia;
nutre
una lampa su la culla, e teme 190
non
i vagiti del suo primo infante
sien
presagi di morte; e in quell’errore
non
manda a tutto il cielo altro che pianti.
Beata! ancor non sa quanto agl’infanti
provido
è il sonno eterno, e que’ vagiti 195
presagi
son di dolorosa vita.
Come d’Èrato al canto ebbe perfetti
Flora
i trapunti, ghirlandò l’Aurora
gli
aerei fluttuanti orli del velo
d’ignote
rose a noi; sol la fragranza, 200
se
vicino è un Iddio, scende alla terra.
E fra l’altre immortali ultima venne
rugiadosa
la bionda Ebe, costretti
in
mille nodi fra le perle i crini,
silenzïosa,
e l’anfora converse: 205
e
dell’altre la vaga opra fatale
rorò
d’ambrosia; e fu quel velo eterno.
Poi su le tre di Citerea Gemelle
tutte
le Dive il diffondeano; ed elle
fra
le fiamme d’amore invano intatte 210
a
rallegrar la terra; e sì velate
apparian
come pria vergini nude.
. .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
. . .
E il velo delle Dee manda improvviso
un
suon, qual di lontana arpa, che scorre
sopra
i vanni de’ Zeffiri soave; 215
qual
venìa dall’Egeo per l’isolette
un’ignota
armonia, poi che al reciso
capo
e al bel crin d’Orfeo la vaga lira
annodaro
scagliandola nell’onde
le
delire Baccanti; e sospirando 220
con
l’Ionio propinquo il sacro Egeo
quell’armonia
serbava, e l’isolette
stupefatte
l’udiro e i continenti.
. .
. . .
. . .
. . .
. . . . .
. . . .
Addio Grazie: son vostri, e non verranno
soli
quest’inni a voi, né il vago rito 225
obblieremo
di Firenze ai poggi
quando
ritorni April. L’arpa dorata
di
novello concento adorneranno,
disegneran
più amabili carole
e
più beato manderanno il carme 230
le
tre avvenenti ancelle vostre all’ara:
e
il fonte, e la frondosa ara e i cipressi,
e
i serti e i favi vi fien sacri, e i cigni
votivi,
e allegri i giovanili canti
e
i sospir delle Ninfe. Intanto, o belle 235
o
dell’arcano vergini custodi
celesti,
un voto del mio core udite.
Date
candidi giorni a lei che sola,
da
che più lieti mi fioriano gli anni,
m’arse
divina d’immortale amore. 240
Sola
vive al cor mio cura soave,
sola
e secreta spargerà le chiome
sovra
il sepolcro mio, quando lontano
non
prescrivano i fati anche il sepolcro.
Vaga
e felice i balli e le fanciulle 245
di
nera treccia insigni e di sen colmo,
sul
molle clivo di Brianza un giorno
guidar
la vidi; oggi le vesti allegre
obliò
lenta e il suo vedovo coro.
E
se alla Luna e all’etere stellato 250
più
azzurro il scintillante Èupili ondeggia,
il
guarda avvolta in lungo velo, e plora
col
rosignuol, finché l’Aurora il chiami
a
men soave tacito lamento.
A
lei da presso il piè volgete, o Grazie, 255
e
nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
occhi
fatali al lor natìo sorriso.