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Erodoto STORIE INDICE Libro I Erodoto di Alicarnasso
espone qui il risultato delle sue ricerche storiche; lo scopo è di
impedire che avvenimenti determinati dall'azione degli uomini finiscano per
sbiadire col tempo, di impedire che perdano la dovuta risonanza imprese
grandi e degne di ammirazione realizzate dai Greci come dai barbari; fra
l'altro anche la ragione per cui vennero a guerra tra loro. 1) I dotti persiani affermano che i responsabili della
rivalità furono i Fenici. Costoro giunsero in queste nostre acque
provenienti dal mare detto Eritreo; insediatisi nella regione che abitano
tutt’oggi, subito, con lunghi viaggi di navigazione, presero a fare commercio
in vari paesi di prodotti egiziani ed assiri, e si spinsero fino ad Argo. A
quell'epoca Argo era da ogni punto di vista la città più
importante fra quante sorgevano nel territorio oggi chiamato Grecia. I Fenici
arrivarono ad Argo e vi misero in vendita le loro mercanzie. Quattro o cinque
giorni dopo il loro arrivo, ormai quasi esaurite le merci, scesero sulla riva
del mare diverse donne, tra le quali si trovava la figlia del re Inaco: si
chiamava Io, anche i Greci concordano su questo punto. Secondo i dotti
persiani, mentre le donne si trattenevano accanto alla poppa della nave, per
acquistare i prodotti che più desideravano, i marinai si
incoraggiarono a vicenda e si avventarono su di loro: molte riuscirono a
fuggire, ma non Io, che fu catturata insieme con altre; risaliti sulle navi,
i Fenici si allontanarono, facendo rotta verso l'Egitto. 2) Secondo i Persiani Io giunse in Egitto così e non
come narrano i Greci; e questo episodio avrebbe segnato
l'inizio dei misfatti. In seguito alcuni Greci (essi non sono in grado di precisarne
la provenienza), spintisi fino a Tiro, in Fenicia, vi rapirono la figlia del
re, Europa; è possibile che costoro fossero di Creta. E fino a qui la
situazione era in perfetta parità, ma poi i Greci si resero
responsabili di una seconda colpa: navigarono con una lunga nave fino ad Ea e
alle rive del fiume Fasi, nella Colchide, e là, compiuta la missione
per cui erano venuti, rapirono Medea, la figlia del re dei Colchi; questi
mandò in Grecia un araldo a reclamare la restituzione della figlia e a
chiedere giustizia del rapimento, ma i Greci risposero che i barbari non
avevano dato soddisfazione del ratto dell'argiva Io e che quindi per parte
loro avrebbero fatto altrettanto. 3) Narrano che nella generazione successiva
Alessandro, figlio di Priamo, a conoscenza di quei fatti, volle procurarsi
moglie in Grecia per mezzo di un rapimento; era assolutamente convinto che
non ne avrebbe mai dovuto rendere conto ai Greci perché questi in precedenza
non lo avevano fatto nei confronti dei barbari. E così, quando ebbe
rapito Elena, i Greci decisero per prima cosa di inviare messaggeri a
chiedere la sua restituzione e a pretendere giustizia del rapimento; di
fronte a tale istanza i barbari rinfacciarono loro il ratto di Medea: non era
accettabile che proprio i Greci, rei di non avere pagato il proprio delitto e
di non avere provveduto a nessuna restituzione malgrado le richieste,
pretendessero ora di ottenere giustizia dagli altri. 4) Comunque, fino a quel momento, fra Greci e barbari
non c'era stato altro che una serie di reciproci rapimenti; a partire da
allora invece i maggiori colpevoli sarebbero diventati i Greci: essi infatti
cominciarono a inviare eserciti in Asia prima che i Persiani in Europa. Ora,
i barbari ritengono che rapire donne sia azione da delinquenti, ma che
preoccuparsi di vendicare delitti del genere sia pensiero da dissennati:
l'unico atteggiamento degno di un saggio è non tenere il minimo conto
di donne rapite, perché è evidente che non le si potrebbe rapire se
non fossero consenzienti. Secondo i Persiani gli abitanti dell'Asia non si
curano minimamente delle donne rapite; i Greci invece per una sola donna di
Sparta radunarono un grande esercito, si spinsero fino in Asia e abbatterono
la potenza di Priamo; da allora e per sempre i Persiani avrebbero guardato
con ostilità a tutto ciò che è greco. In effetti essi
considerano loro proprietà l'Asia e le genti barbare che vi abitano e
ben separate, a sé stanti, l'Europa e il mondo greco. 5) Insomma i Persiani descrivono così la
dinamica degli eventi: fanno risalire alla distruzione di Ilio l'origine
dell'odio che nutrono per i Greci. Però, a proposito di Io, i Fenici
non concordano con i Persiani; secondo la loro versione essi condussero
sì Io in Egitto, ma non dopo averla rapita, bensì perché lei
ancora in Argo aveva avuto una relazione con il timoniere della nave;
accortasi di essere rimasta incinta, per la vergogna aveva preferito partire
con i Fenici, per non doverlo confessare ai propri genitori. Ecco dunque le
versioni dei Persiani e dei Fenici; quanto a me, riguardo a tali fatti, non
mi azzardo a dire che sono avvenuti in un modo o in un altro; io so invece
chi fu il primo a rendersi responsabile di ingiustizie nei confronti dei
Greci e quando avrò chiarito di costui procederò nel racconto.
Verrò a parlare di varie città, ma senza distinguere fra grandi
e piccole: il fatto è che alcune erano importanti
nell'antichità e poi, in gran parte, sono decadute, altre, notevoli ai
miei tempi, prima invece erano insignificanti; io, ben consapevole che la
condizione umana non è mai stabile e immutabile, le ricorderò
senza fare distinzioni. 6) Creso era di stirpe lidia e figlio di Aliatte; era
re delle popolazioni al di qua di quel fiume Alis che, scorrendo da sud fra i
Siri e i Paflagoni, procede verso settentrione fino al Ponto Eusino. Creso,
per primo fra i barbari di cui abbiamo notizia, sottomise alcune città
greche al pagamento di un tributo, mentre di altre cercava di acquistarsi
l'amicizia: le vittime furono gli Ioni, gli Eoli e i Dori d'Asia, i
privilegiati furono gli Spartani. Prima del regno di Creso tutti i Greci
erano indipendenti: anche all'epoca dell'invasione della Ionia ad opera di un
esercito di Cimmeri, alquanto prima del regno di Creso, non si erano avute
sottomissioni di città, bensì soltanto scorrerie e saccheggi ai
loro danni. 7) In Lidia il potere apparteneva agli Eraclidi;
pervenne alla famiglia di Creso, ai Mermnadi, come ora vi narro. A Sardi il
re era Candaule, dai Greci chiamato Mirsilo, discendente di un figlio di
Eracle, Alceo. Il primo dei discendenti di Eracle a divenire re di Sardi era
stato Agrone, che era figlio di Nino il quale a sua volta era figlio di Belo
e nipote di Alceo; l'ultimo fu Candaule, figlio di Mirso. Quanti avevano
regnato sul paese prima di Agrone erano discendenti di Lido, figlio di Atis;
da Lido presero nome i Lidi, prima chiamati Meoni. Gli Eraclidi, progenie di
Eracle e di una schiava di Iardano, ottennero il potere in affidamento dai
discendenti di Lido in base a un oracolo e lo esercitarono per ventidue
generazioni, vale a dire per 505 anni, trasmettendoselo di padre in figlio
fino a Candaule figlio di Mirso. 8) Questo Candaule era molto innamorato della propria
moglie e perciò era convinto che fosse di gran lunga la più
bella donna del mondo. Con una simile convinzione, poiché era solito
confidarsi anche sugli argomenti più delicati con un certo Gige, una
guardia del corpo, suo favorito, figlio di Dascilo, finì in
particolare per esaltargli l'aspetto fisico della moglie. Ma era fatale che a
Candaule ne derivasse un grave danno: poco tempo dopo disse a Gige:
"Gige, ho l'impressione che tu non mi credi quando ti parlo del corpo di
mia moglie; succede certo che gli uomini abbiano le orecchie più
incredule degli occhi, ma allora fai in modo di vederla nuda". Ma Gige
protestando gli rispose: "Signore, ma che razza di discorso insano mi
fai? Mi ordini di guardare nuda la mia padrona? Quando una donna si spoglia
dei vestiti si spoglia anche del pudore; i buoni precetti sono ormai un patrimonio
antico dell'umanità e da essi bisogna imparare: uno dice che si deve
guardare solo ciò che ci appartiene. Io crederò che lei
è la più bella donna del mondo e ti prego di non chiedermi
assurdità". 9) Insomma, rispondendo così, opponeva il suo rifiuto:
temeva che da quella situazione gli potesse derivare qualche guaio. Ma
Candaule insistette: "Coraggio, Gige, non avere paura di me, come se ti
facessi un simile discorso per metterti alla prova, né di mia moglie, che per
opera sua ti possa accadere qualcosa di male; tanto per cominciare io
studierò la maniera che lei non si accorga di essere osservata da te.
Ecco, ti metterò dietro la porta spalancata della stanza in cui
dormiamo; più tardi, quando io sarò entrato, anche mia moglie
verrà, per mettersi a letto. Vicino alla porta c'è una sedia su
cui lei, spogliandosi, appoggerà le vesti, una per una; e così
potrai guardartela in tutta tranquillità; ma quando lei si
sposterà dalla sedia verso il letto, dandoti la schiena, allora esci
dalla stanza, ma fai attenzione che lei non ti veda". 10) Non avendo via di scampo, Gige era pronto a obbedire.
Candaule, quando gli parve ora di andare a dormire, condusse Gige nella sua
camera; subito dopo comparve anche la moglie: Gige la osservò mentre
entrava e posava i propri vestiti. Appena la donna si voltò per
avvicinarsi al letto, dandogli le spalle, Gige uscì dal nascondiglio e
si allontanò; lei lo scorse mentre usciva, ma, pur avendo compreso il
misfatto del marito, invece di gridare per la vergogna, finse di non essersi
accorta di niente, con l'intenzione però di vendicarsi di Candaule.
Bisogna sapere che presso i Lidi, come presso quasi tutti gli altri barbari,
è grande motivo di vergogna persino che sia visto nudo un uomo. 11) Sul momento non lasciò trasparire nulla e rimase
tranquilla; ma non appena fu giorno diede istruzioni ai servi che vedeva a sé
più fedeli e mandò a chiamare Gige. Gige credeva che lei
ignorasse l'accaduto e si presentò subito: era abituato anche prima ad
accorrere ogni volta che la regina lo chiamava. Quando lo ebbe davanti, la
donna gli disse: "Ora tu, caro Gige, hai di fronte a te due strade e io
ti concedo di scegliere quale preferisci percorrere: o uccidi Candaule e
ottieni me e il regno dei Lidi, oppure è necessario che tu muoia
subito, così non sarai più costretto a vedere ciò che
non devi per obbedire a tutti gli ordini del tuo padrone. Non ci sono
alternative: o muore il responsabile di tutte queste macchinazioni o muori tu
che mi hai vista nuda e che hai compiuto azioni così poco lecite".
Gige dapprima rimase sbalordito dalle parole della regina, poi
supplicò per un po' di non costringerlo a compiere una simile scelta;
ma non riuscì a persuaderla, anzi si rese conto senza più dubbi
di trovarsi di fronte all'ineluttabile: uccidere il proprio padrone o venire
ucciso lui stesso da altri, e scelse la propria salvezza. Rivolgendosi alla
donna le chiese: "Poiché mi costringi a uccidere il mio padrone contro
la mia volontà, voglio almeno sapere in che modo lo aggrediremo".
E lei gli rispose: "L'aggressione avverrà esattamente dallo
stesso luogo dal quale lui mi ha mostrata nuda e il colpo si farà
mentre dorme". 12) Studiarono i particolari del piano e appena scese la
notte Gige seguì la donna nella camera da letto: gli era stato
impedito di allontanarsi e non aveva nessuna possibilità di sottrarsi
a quel compito: era inevitabile la morte sua o di Candaule. La regina lo
nascose dietro la stessa porta dopo avergli consegnato un pugnale. Più
tardi, quando Candaule si addormentò, Gige uscì dal suo
nascondiglio, lo uccise ed ebbe così insieme la donna e il regno.
Archiloco di Paro, vissuto nella stessa epoca, menzionò Gige in un suo
trimetro giambico. 13) Ottenne il regno e vide consolidato il suo potere grazie
all'oracolo di Delfi, perché quando già i Lidi, considerando la
gravità dell'assassinio di Candaule, erano in armi, i partigiani di
Gige e gli altri Lidi vennero a un accordo: se l'oracolo lo avesse designato
re dei Lidi, allora Gige avrebbe regnato, in caso contrario avrebbe restituito
il potere agli Eraclidi. L'oracolo gli fu favorevole e così Gige fu
re. La Pizia vaticinò che gli Eraclidi si sarebbero rivalsi sul quinto
discendente di Gige, ma di questa profezia i Lidi e i loro sovrani non si
curarono più fino a quando non si compì. 14)Ecco insomma come i Mermnadi avevano conquistato il
potere, sottraendolo agli Eraclidi. Gige, quando fu re, inviò
rilevanti offerte a Delfi, in pratica la maggior parte di tutte le offerte in
argento che vi si trovano; e oltre all'argento dedicò anche oro in grande
quantità, fra cui è degna di menzione una serie di sei crateri
d'oro: oggi si trovano nel tesoro dei Corinzi e raggiungono un peso di trenta
talenti. Però a dire il vero il tesoro non appartiene allo stato di
Corinto, bensì a Cipselo figlio di Eezione. Gige fu il primo barbaro
di cui abbiamo notizia a inviare offerte a Delfi dopo Mida, figlio di Gordio,
re di Frigia. Mida aveva consacrato il trono regale da cui amministrava la
giustizia, un oggetto che merita di essere visto: questo trono si trova dove
sono collocati anche i crateri di Gige. Gli abitanti di Delfi chiamano
"Gigade", dal nome del donatore, l'oro e l'argento offerti da Gige.
Quando ebbe il potere, anch'egli inviò spedizioni militari contro
Mileto e Smirne, ed espugnò la città di Colofone, ma non ci fu
nessuna altra impresa durante i 38 anni del suo regno, e anche di questa
basterà aver fatto menzione. 15)Mi limiterò a menzionare soltanto anche Ardi,
figlio di Gige, che regnò dopo il padre: costui espugnò Priene
e organizzò una spedizione contro Mileto; fu durante il suo regno che
i Cimmeri, muovendo dalle loro sedi a causa della pressione di nomadi Sciti,
si spostarono in Asia e occuparono tutta Sardi a eccezione dell'acropoli. 16)Dopo i 49 anni del regno di Ardi sul trono salì
suo figlio Sadiatte, che regnò per 12 anni. Il figlio di Sadiatte,
Aliatte, combatté poi una guerra contro Ciassare, il discendente di Deioce, e
contro i Medi, scacciò i Cimmeri dall'Asia, prese Smirne, colonia di
Colofone e assalì pure Clazomene: da questo conflitto non uscì
proprio come aveva sperato, anzi con insuccessi non indifferenti. Però
mentre fu al potere realizzò altre imprese degne di essere ricordate. 17)Combatté contro i Milesi una guerra ereditata dal padre,
guidando le manovre di offesa e stringendo l'assedio nella maniera seguente:
mandava all'attacco l'esercito ogni volta che in quella terra i prodotti
erano giunti a maturazione; le operazioni si svolgevano al suono di zampogne,
di pettidi e di flauti acuti e gravi. Quando entrava nei territori di Mileto
non abbatteva o incendiava le case che si trovavano nei campi; non ne forzava
neppure le porte, le lasciava intatte in tutta la contrada; gli alberi e i
frutti della terra li faceva distruggere e poi si ritirava. Il fatto è
che i Milesi erano padroni del mare, sicché non era possibile per un esercito
stringerli d'assedio. Il re lidio non abbatteva le costruzioni affinché i
Milesi muovendo da esse potessero coltivare e lavorare la terra e lui, grazie
al lavoro di quelli, avesse qualcosa da depredare durante le sue incursioni. 18)Con questo sistema la guerra durò undici anni,
durante i quali i Milesi subirono due gravi sconfitte, a Limeneo nel loro
territorio e nella piana del Meandro. Per sei anni su undici a capo dei Lidi
era stato ancora il figlio di Ardi Sadiatte: era stato lui a suo tempo a
invadere con le sue truppe il paese di Mileto, ed era stato anche il
responsabile dell'inizio della guerra. Nei successivi cinque anni a
combattere fu Aliatte figlio di Sadiatte il quale, come ho già spiegato,
ereditò dal padre il conflitto e lo diresse con particolare energia.
Nessuna popolazione della Ionia aiutò i Milesi a sostenere il peso di
quella guerra tranne i soli abitanti di Chio, che vennero in loro soccorso
per ricambiare un analogo favore: infatti in tempi precedenti Mileto aveva
condiviso con Chio i disagi della guerra contro Eritrei. 19)Al dodicesimo anno, mentre il raccolto veniva dato alle
fiamme dall'esercito, si verificò questo fatto: quando le messi
presero a bruciare, il fuoco, spinto dal vento, raggiunse il tempio di Atena
Assesia: il tempio si incendiò e rimase completamente distrutto dalle
fiamme, cosa alla quale sul momento nessuno fece caso. Ma dopo il ritorno a
Sardi dell'esercito, Aliatte si ammalò; e siccome la malattia non
guariva, inviò a Delfi degli incaricati, vuoi per suggerimento di
qualcuno vuoi avendo deciso da solo di interrogare il dio sulla natura del
proprio male. E agli inviati la Pizia rispose che non avrebbe emesso alcun
responso se prima non avessero ricostruito il tempio di Atena che avevano
incendiato ad Asseso nel territorio di Mileto. 20)Io sono a conoscenza di questi particolari perché mi sono
stati raccontati a Delfi, ma i Milesi aggiungono che Periandro, figlio di
Cipselo, legato da strettissimi vincoli di ospitalità con l'allora re
di Mileto Trasibulo, quando venne a conoscenza dell'oracolo dato ad Aliatte,
tramite un messaggero lo riferì a Trasibulo affinché, saputolo prima,
potesse regolarsi di conseguenza. 21) Così andarono le cose secondo il racconto dei Milesi.
Quando Aliatte ricevette il responso, subito inviò a Mileto un araldo,
intenzionato a stipulare una tregua con Trasibulo e con i Milesi per tutto il
tempo necessario alla edificazione del santuario. Così, mentre
l'inviato era in viaggio verso Mileto, Trasibulo, ormai al corrente di ogni
cosa e in grado di prevedere le mosse di Aliatte, preparò la seguente
messinscena: fece raccogliere nella piazza principale tutte quante le riserve
alimentari della città, pubbliche e private, e ordinò ai
cittadini di attendere il suo segnale e poi di abbandonarsi a bevute e a
bagordi collettivi. 22)Trasibulo dava queste disposizioni affinché l'araldo di
Sardi tornasse a riferire ad Aliatte di aver visto grandi cumuli di vivande
ammonticchiate e uomini dediti a festeggiamenti. Come appunto avvenne:
l'araldo vide quello spettacolo, riferì a Trasibulo il messaggio del
re lidio e ritornò a Sardi; e, secondo le informazioni che ho
ricevuto, fu proprio quella la causa della ricomposizione del conflitto. In
realtà Aliatte sperava che Mileto fosse ormai in preda a una dura
carestia e la cittadinanza ridotta all'estremo limite di sopportazione:
invece udì dall'araldo ritornato da Mileto esattamente il contrario di
ciò che si aspettava. In seguito stipularono una pace stringendo fra
loro vincoli di ospitalità e di alleanza; Aliatte fece costruire ad
Asseso non uno ma due templi dedicati ad Atena e guarì della sua
malattia. Questo accadde ad Aliatte durante la guerra contro Trasibulo e
Mileto. 23) Periandro, quello che aveva informato Trasibulo del
responso, era figlio di Cipselo e signore di Corinto; gli abitanti di Corinto
narrano (e i Lesbi concordano con loro) che durante la sua vita si
verificò un evento portentoso, l'arrivo al Tenaro di Arione di
Metimna, in groppa a un delfino. Arione fu il più grande citaredo
dell'epoca, il primo uomo a nostra conoscenza a comporre un ditirambo, a
dargli nome e a farlo eseguire in Corinto. 24) Ebbene si narra che Arione, il quale trascorreva accanto a
Periandro la maggior parte del suo tempo, aveva provato grande desiderio di
compiere un viaggio per mare fino in Italia e in Sicilia; là si era
arricchito, poi aveva deciso di ritornare a Corinto. Quando dunque si
trattò di ripartire da Taranto, poiché non si fidava di nessuno
più che dei Corinzi, noleggiò una nave di Corinto; ma quando
furono in mare aperto gli uomini dell'equipaggio tramarono di sbarazzarsi di
Arione e di impossessarsi delle sue ricchezze. Arione se ne accorse e cominciò
a supplicarli: era disposto a cedere i suoi averi, ma chiedeva salva la vita;
tuttavia non riuscì a convincerli, anzi i marinai gli ingiunsero di
togliersi la vita così da ottenere sepoltura nella terra oppure di
gettarsi in mare al più presto. Arione, vistosi ormai senza scampo,
chiese il permesso, poiché avevano deciso così, di cantare in piedi
fra i banchi dei rematori in completa tenuta di scena: promise di togliersi
la vita al termine del canto. I marinai, piacevolmente attirati dall'idea di
ascoltare il miglior cantore del mondo, si ritirarono da poppa verso il
centro della nave. Arione indossò i suoi costumi di scena, prese la
cetra ed eseguì un canto a tono elevato, stando in piedi tra i banchi
dei rematori; alla fine del canto si gettò in mare così
com'era, con tutto il costume. Sempre secondo il racconto i marinai fecero
poi rotta verso Corinto mentre Arione fu raccolto da un delfino e trasportato
fino al Tenaro; qui toccò terra e da qui si diresse verso Corinto,
ancora in tenuta di scena; quando vi giunse narrò tutto l'accaduto a
Periandro, il quale, alquanto incredulo, decise di trattenere Arione sotto
sorveglianza e di concentrare la sua attenzione sull'equipaggio della nave.
Così, quando i marinai furono a disposizione, li fece chiamare e
chiese loro se potevano dargli notizie di Arione; essi risposero che si
trovava vivo e vegeto in Italia, che lo avevano lasciato a Taranto in piena e
felice attività; ma Arione si mostrò davanti a loro, ancora
vestito come quando era saltato dalla nave, e quelli, sbigottiti e ormai
scoperti, non poterono più negare. Questo raccontano i Corinzi e i
Lesbi; inoltre sul Tenaro si trova una statua votiva di bronzo di Arione, non
grande, che rappresenta un uomo in groppa a un delfino. 25) Aliatte, il re di Lidia che aveva portato a termine la
guerra contro Mileto, morì assai più tardi, dopo 57 anni di
regno. Guarito dalla malattia, aveva consacrato a Delfi, secondo nella sua
famiglia, un grande cratere d'argento e un sottocratere di ferro saldato,
oggetto che merita di essere visto più di tutti gli ex-voto di Delfi;
è opera di Glauco di Chio che fu l'unico artista a scoprire la tecnica
di saldatura del ferro. 26) Alla morte di Aliatte gli succedette nel regno il figlio
Creso che all'epoca aveva 35 anni; egli assalì per primi tra i Greci
gli Efesini. In quella circostanza gli Efesini, assediati dall'esercito di
Creso, affidarono la città ad Artemide legando una fune dal tempio
fino alle mura. Fra la parte antica della città, che era quella allora
assediata, e il tempio ci sono sette stadi. Gli Efesini furono solo i primi
perché poi in seguito Creso aggredì una per una tutte le città
degli Ioni e degli Eoli, prendendo a pretesto le colpe più svariate,
muovendo accuse gravi quando poteva trovarne di gravi, ma anche adducendo
ragioni di poco conto. 27) Dopo aver costretto tutti i Greci d'Asia al pagamento di
un tributo, progettò di far costruire delle navi e di assalire gli
abitanti delle isole. Si racconta che, quando ormai tutto era pronto alla
costruzione delle navi, giunse a Sardi Biante di Priene (secondo altri era
Pittaco di Mitilene): e costui riuscì a fare interrompere i lavori
dando a Creso, che gli chiedeva se ci fossero novità dalla Grecia, la
seguente risposta: "Signore, gli abitanti delle isole stanno facendo
incetta di cavalli per organizzare una spedizione contro Sardi e contro di
te". Creso, credendo che stesse parlando seriamente, esclamò:
"Magari gli dei glielo mettessero in testa a quegli isolani di venire
contro i figli dei Lidi con la cavalleria!" E l'altro replicò:
"Mio re, vedo che ti auguri ardentemente di ricevere sul continente
degli isolani trasformati in cavalieri, ed è una speranza ben logica;
ma poi, cos'altro credi che si augurino gli isolani, da quando hanno saputo
che stai facendo costruire navi per assalirli, se non di ricevere i Lidi sul
mare, dove potrebbero farti pagare la schiavitù in cui tieni i Greci
del continente?" Raccontano che a Creso piacque molto questa conclusione
e poiché gli parve molto pertinente si persuase a interrompere la costruzione
delle navi. Fu così che strinse un patto di buon vicinato con gli Ioni
residenti nelle isole. 28)Col passare del tempo quasi tutte le popolazioni
stanziate al di qua del fiume Alis furono sottomesse: Creso assoggettò
al suo dominio, tranne Cilici e Lici, tutte le altre genti: Lidi, Frigi,
Misi, Mariandini, Calibi, Paflagoni, Traci (Tini e Bitini), Cari, Ioni, Dori,
Eoli e Panfili. 29) Creso li sottomise e ne annesse i territori al regno dei
Lidi; così in una Sardi all'apice dello splendore giunsero in seguito
tutti i sapienti di Grecia dell'epoca, uno dopo l'altro, e tra gli altri
Solone di Atene. Solone formulò le leggi per i propri concittadini, su
loro richiesta, e poi soggiornò fuori della patria per dieci anni,
partito col pretesto di un viaggio conoscitivo, ma in realtà per non
essere costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva promulgato; perché
gli Ateniesi, da soli, non erano in condizione di farlo: solenni giuramenti
li vincolavano per dieci anni a valersi delle norme stabilite da Solone. 30) Per tale ragione e anche per il suo viaggio, Solone
rimase all'estero, recandosi in Egitto presso Amasi e, appunto, a Sardi
presso Creso. Al suo arrivo fu ospitato da Creso nella reggia: due o tre
giorni dopo, per ordine del re, alcuni servitori lo condussero a visitare i
tesori e gli mostrarono quanto vi era di straordinario e di sontuoso. Creso
aspettò che Solone avesse osservato e considerato tutto per bene e
poi, al momento giusto, gli chiese: "Ospite ateniese, ai nostri orecchi
è giunta la tua fama, che è grande sia a causa della tua
sapienza sia per i tuoi viaggi, dato che per amore di conoscenza hai visitato
molta parte del mondo: perciò ora m'ha preso un grande desiderio di
chiederti se tu hai mai conosciuto qualcuno che fosse veramente il più
felice di tutti. Faceva questa domanda perché riteneva di essere lui l'uomo
più ricco, ma Solone, evitando l'adulazione e badando alla
verità, rispose: "Certamente, signore, Tello di Atene".
Creso rimase sbalordito da questa risposta e lo incalzò con un'altra domanda:
"E in base a quale criterio giudichi Tello l'uomo più
felice?" E Solone spiegò: "Tello in un periodo di
prosperità per la sua patria ebbe dei figli sani e intelligenti e
tutti questi figli gli diedero dei nipoti che crebbero tutti; lui stesso poi,
secondo il nostro giudizio già così fortunato in vita, ha avuto
la fine più splendida: durante una battaglia combattuta a Eleusi dagli
Ateniesi contro una città confinante, accorso in aiuto, mise in fuga i
nemici e morì gloriosamente; e gli Ateniesi gli celebrarono un
funerale di stato nel punto esatto in cui era caduto e gli resero grandissimi
onori". 31) Quando Solone gli ebbe presentato la storia di
Tello, così ricca di eventi fortunati, Creso gli domandò chi
avesse conosciuto come secondo dopo Tello, convinto di avere almeno il
secondo posto. Ma Solone disse: "Cleobi e Bitone, entrambi di Argo, i
quali ebbero sempre di che vivere e oltre a ciò una notevole forza
fisica, sicché tutti e due riportarono vittorie nelle gare atletiche; di loro
tra l'altro si racconta il seguente episodio: ad Argo c'era una festa
dedicata a Era e i due dovevano assolutamente portare la madre al tempio con
un carro, ma i buoi non giungevano in tempo dai campi; allora, per non
arrivare in ritardo, i due giovani sistemarono i gioghi sulle proprie spalle,
tirarono il carro, sul quale viaggiava la madre, e arrivarono fino al tempio
dopo un tragitto di 45 stadi. Al loro gesto, ammirato da tutta la popolazione
riunita per la festa, seguì una fine nobilissima: con loro il dio
volle mostrare quanto, per un uomo, essere morto sia meglio che vivere.
Intorno ai due giovani gli uomini di Argo ne lodavano la forza, mentre le
donne si complimentavano con la madre che aveva avuto due figli come quelli;
e la madre, oltremodo felice dell'impresa e della grande reputazione
derivatane, si fermò in piedi di fronte all'immagine della dea e la
pregò di concedere a Cleobi e a Bitone, i suoi due figli che l'avevano
tanto onorata, la sorte migliore che possa toccare a un essere umano. Dopo
questa preghiera i giovani celebrarono i sacrifici e il banchetto e poi si
fermarono a dormire lì nel tempio; e l'indomani non si svegliarono
più: furono colti così dalla morte. Gli Argivi li ritrassero in
due statue che consacrarono a Delfi, come si fa con gli uomini più
illustri". 32) A quei due dunque Solone assegnava il secondo posto nella
graduatoria della felicità; Creso si irritò e gli disse:
"Ospite ateniese, la nostra felicità l'hai svalutata al punto da
non ritenerci neppure pari a cittadini qualunque?" E Solone rispose:
"Creso tu interroghi sulla condizione umana un uomo che sa quanto
l'atteggiamento divino sia pieno di invidia e pronto a sconvolgere ogni cosa.
In un lungo arco di tempo si ha occasione di vedere molte cose che nessuno
desidera e molte bisogna subirle. Supponiamo che la vita di un uomo duri
settanta anni; settanta anni da soli, senza considerare il mese intercalare,
fanno 25.200 giorni; se poi vuoi che un anno ogni due si allunghi di un mese
per evitare che le stagioni risultino sfasate, visto che in settanta anni i
mesi intercalari sono 35, i giorni da aggiungere risultano 1050. Ebbene, di
tutti i giorni che formano quei settanta anni, cioè di ben 26.250
giorni, non uno solo vede lo stesso evento di un altro. E così, Creso,
tutto per l'uomo è provvisorio. Vedo bene che tu sei ricchissimo e re
di molte genti, ma ciò che mi hai chiesto io non posso attribuirlo a
te prima di aver saputo se hai concluso felicemente la tua vita. Chi è
molto ricco non è affatto più felice di chi vive alla giornata,
se il suo destino non lo accompagna a morire serenamente ancora nella sua
prosperità. Infatti molti uomini, pur essendo straricchi, non sono
felici, molti invece, che vivono una vita modesta, possono dirsi davvero
fortunati. Chi è molto ricco ma infelice è superiore soltanto
in due cose a chi è fortunato, ma quest'ultimo rispetto a chi è
ricco è superiore da molti punti di vista. Il primo può
realizzare un proprio desiderio e sopportare una grave sciagura più
facilmente, ma il secondo gli è superiore perché, anche se non
è in grado come lui di sopportare sciagure e soddisfare desideri, da
questi però la sua buona sorte lo tiene lontano; e non ha imperfezioni
fisiche, non ha malattie e non subisce disgrazie, ha bei figli e un aspetto
sempre sereno. E se oltre a tutto questo avrà anche una buona morte,
allora è proprio lui quello che tu cerchi, quello degno di essere
chiamato felice. Ma prima che sia morto bisogna sempre evitare di dirlo
felice, soltanto "fortunato". Certo, che un uomo riunisca tutte le
suddette fortune, non è possibile, così come nessun paese
provvede da solo a tutti i suoi fabbisogni: se qualcosa produce, di altro
è carente, cosicché migliore è il paese che produce più
beni. Allo stesso modo non c'è essere umano che sia sufficiente a se
stesso: possiede qualcosa ma altro gli manca; chi viva, continuamente avendo
più beni, e poi concluda la sua vita dolcemente, ecco, signore, per me
costui ha diritto di portare quel nome. Di ogni cosa bisogna indagare la
fine. A molti il dio ha fatto intravedere la felicità e poi ne ha
capovolto i destini, radicalmente". 33) Creso non rimase per niente soddisfatto di questa
spiegazione; non tenne Solone nella minima considerazione e lo
congedò; considerava senz'altro un ignorante chi trascurava i beni
presenti e di ogni cosa esortava a osservare la fine. 34) Dopo la partenza di Solone Creso subì la vendetta
del dio: la subì, per quanto si può indovinare, perché aveva
creduto di essere l'uomo più felice del mondo. Non era trascorso molto
tempo quando nel sonno ebbe un sogno rivelatore: sognò le sventure che
sarebbero poi effettivamente capitate a suo figlio. Creso aveva due figli,
uno dei quali menomato (era muto), mentre l'altro, di nome Atis, primeggiava
fra i suoi coetanei in ogni attività; il sogno indicò a Creso
chiaramente che Atis sarebbe morto colpito da una punta di ferro. Al
risveglio, quando si rese conto del contenuto del sogno, ne provò
orrore; allora fece prendere moglie al figlio e siccome prima era abituato a
guidare l'esercito lidio, non lo inviò più in nessun luogo per
incarichi di questo tipo. Frecce, giavellotti e tutti quegli strumenti che si
usano per combattere, li fece asportare dalle sale degli uomini e ammucchiare
nelle stanze delle donne, perché nessuno di essi, rimanendo appeso alle pareti,
potesse cadere accidentalmente sul figlio. 35) Quando il figlio era impegnato nelle nozze, giunse a
Sardi uno sventurato di nazionalità frigia e di stirpe reale, le cui
mani erano impure. Costui si presentò alla reggia di Creso e chiese di
ottenere la purificazione secondo le norme locali, e Creso lo
purificò. Il rituale di purificazione dei Lidi è pressoché
identico a quello dei Greci. Compiuti gli atti rituali, Creso gli chiese chi
fosse e da dove venisse: "Straniero, chi sei? Da quale parte della Frigia
sei venuto a rifugiarti presso il mio focolare? Quale uomo o quale donna hai
ucciso?" E quello rispose: "Signore, io sono nipote di Mida e
figlio di Gordio, il mio nome è Adrasto; sono qui perché senza volerlo
ho ucciso mio fratello e perché sono stato scacciato da mio padre e privato
di ogni cosa". Al che Creso disse: "Si dà il caso che tu sia
discendente di persone legate a noi da vincoli di amicizia; e fra amici
pertanto tu sei arrivato. Se rimani con noi non ti mancherà nulla e se
vivrai di buon cuore questa tua disgrazia, avrai molto da guadagnarci". 36) E così Adrasto soggiornava presso Creso quando
comparve sul monte Olimpo di Misia un grosso esemplare di cinghiale che
muovendo dalla montagna distruggeva le coltivazioni dei Misi; più di
una volta i Misi avevano organizzato battute di caccia, senza però
riuscire ad arrecargli alcun danno, subendone anzi da lui. Infine dei
messaggeri Misi si recarono da Creso e gli dissero: "O re, nella nostra
regione è comparso un gigantesco cinghiale che ci distrugge le
coltivazioni; e noi, con tutto l'impegno che ci mettiamo, non riusciamo ad
abbatterlo. Perciò ora ti preghiamo di mandare tuo figlio insieme con
giovani scelti e cani, così potremo allontanarlo dai nostri
territori". Queste erano le loro richieste, ma Creso, memore del sogno,
rispose: "Quanto a mio figlio non se ne parla nemmeno: non lo posso
mandare con voi perché si è appena sposato e ora ha da pensare a ben
altro. Manderò invece uomini scelti e ogni sorta di equipaggiamento utile
alla caccia, e ordinerò agli uomini della spedizione di garantire
tutto il loro impegno nell'aiutarvi a scacciare il cinghiale dal vostro
paese". 37) Ma mentre i Misi erano soddisfatti della risposta
ricevuta, si fece avanti il figlio di Creso, che aveva udito le richieste dei
Misi; visto che suo padre si era rifiutato di inviarlo con loro, il giovane
gli disse: "Padre, una volta per noi l'aspirazione più bella e
più nobile consisteva nel meritarsi gloria in guerra o nella caccia,
ma ora tu mi vieti entrambe le attività; eppure non hai certamente
scorto in me qualche segno di vigliaccheria o di paura. Con quale faccia ora
devo mostrarmi fra la gente andando e venendo attraverso la città? Che
opinione avranno di me i cittadini, e mia moglie, che mi ha appena sposato?
Con quale marito crederà di convivere? Adesso perciò o tu mi
lasci partecipare alla caccia, oppure mi dai una spiegazione sufficiente a
convincermi che è meglio non farlo". 38)E Creso rispose: "Figlio mio, io non agisco
così perché abbia scorto in te vigliaccheria o qualche altra cosa
spiacevole; ma una visione apparsami nel sonno mi disse che tu avresti avuto
una vita breve, che saresti morto colpito da una punta di ferro.
Perciò dopo il sogno affrettai le tue nozze e perciò ora non
invio te per l'impresa che ho accettato: agisco con cautela per vedere se in
qualche modo, finché sono vivo, riesco a sottrarti alla morte. Il destino
vuole che tu sia il mio unico figlio: l'altro infatti, che è menomato,
non lo considero tale". 39) E il giovane gli rispose: "Ti capisco, padre, e
capisco le precauzioni che hai nei miei riguardi dopo un simile sogno. Ma di
questo sogno ti è sfuggito un particolare ed è giusto che io te
lo faccia notare. Dal tuo racconto risulta che il sogno ti annunciava la mia
morte come causata da una punta di ferro: e quali mani possiede un cinghiale?
Quale punta di ferro di cui tu possa avere paura? Se ti avesse annunciato la
mia morte come provocata da una zanna o da qualcosa del genere, allora
sarebbe stato tuo dovere agire come agisci, ma ha parlato di una punta. E
allora, visto che non si tratta di andare a combattere contro dei guerrieri,
lasciami partire". 40) E Creso concluse: "Figlio mio, si può dire
che nell'interpretare il mio sogno tu batti le mie capacità di
giudizio: e io, in quanto sconfitto da te, cambio parere e ti lascio
partecipare alla caccia". 41) Detto ciò, Creso fece chiamare il frigio Adrasto
al quale, quando lo ebbe davanti, pronunciò il seguente discorso:
"Adrasto, - disse - tu eri stato colpito da una dolorosa disgrazia, che
non ti rimprovero, e io ti ho purificato e accolto nella mia casa dove ora ti
ospito offrendoti ogni mezzo di sussistenza; adesso dunque, visto che per
primo ti ho concesso enormi favori, tu sei in debito verso di me di favori
uguali; io desidero che tu vegli su mio figlio che sta partendo per una
battuta di caccia, che lungo la strada non vi si parino davanti pericolosi
ladroni armati di cattive intenzioni. Oltre tutto non puoi esimerti dal
recarti là dove tu possa segnalarti con qualche bella impresa:
così facevano i tuoi antenati, senza contare che le tue forze te lo
consentono ampiamente". 42) E Adrasto gli rispose: "Sovrano, se non me lo
chiedessi tu, io non parteciperei a una simile impresa, perché non è
decoroso per me, con la disgrazia che ho avuto, accompagnarmi a giovani della
mia età dalla vita felice: non è quanto io voglio, anzi ne
farei volentieri a meno. Ma ora, poiché sei tu a spingermi e verso di te io
devo mostrarmi cortese, in debito come sono di enormi favori, ora sono
disposto a farlo; tuo figlio, che affidi alla mia sorveglianza, per quanto
dipende da me fai pure conto di vederlo tornare sano e salvo". 43) Quando Adrasto ebbe dato a Creso la sua risposta, la
spedizione partì, con ampio seguito di giovani scelti e di cani da
caccia. Giunsero al monte Olimpo e cominciarono a cercare il cinghiale;
trovatolo lo circondarono e presero a scagliargli addosso i loro giavellotti:
a questo punto l'ospite, proprio quello purificato da Creso, Adrasto, nel
tentativo di centrare il cinghiale finì per sbagliarlo colpendo invece
il figlio di Creso. Questi, trafitto dalla punta, dimostrò l'esattezza
profetica del sogno. Qualcuno corse ad annunciare a Creso l'accaduto: come
giunse a Sardi gli raccontò della battuta di caccia e della disgrazia
del figlio. 44) Creso, sconvolto dalla morte del figlio, fu ancora
più dispiaciuto per il fatto che a ucciderlo era stato l'uomo da lui
purificato da un omicidio. Prostrato dalla sciagura, invocava con rabbia Zeus
Purificatore, chiamandolo a testimone di ciò che aveva sofferto per
mano del suo ospite, e lo invocava come protettore del focolare e
dell'amicizia, sempre lo stesso dio ma con attributi diversi: in quanto
protettore del focolare perché, avendo accolto nella propria casa lo
straniero, senza saperlo aveva dato da mangiare all'uccisore di suo figlio,
in quanto protettore dell'amicizia perché lo aveva inviato come difensore e
se lo ritrovava ora odiosissimo nemico. 45) Più tardi tornarono i Lidi portando il cadavere e
dietro li seguiva il responsabile della disgrazia: Adrasto, in piedi di
fronte al cadavere, si consegnava a Creso protendendo le mani, invitandolo a
immolarlo sul corpo del figlio; ricordava la precedente sventura e sosteneva
di non avere più diritto di vivere dato che aveva rovinato chi a suo
tempo si era fatto suo benefattore. Creso, nonostante il grande dolore per la
disgrazia abbattutasi sulla sua famiglia, udendo queste parole ebbe
compassione di Adrasto e gli disse: "Ho già da parte tua ogni
soddisfazione visto che tu stesso ti assegni la morte come punizione. Tu non
hai colpa di questa sciagura se non in quanto ne sei stato strumento
involontario: il responsabile forse è un dio, che già da tempo
mi aveva preannunciato quanto sarebbe accaduto". Poi Creso diede al figlio
degna sepoltura; Adrasto, discendente di Gordio e di Mida, uccisore del
proprio fratello e uccisore di chi da quell'omicidio lo aveva purificato,
riconoscendo di essere l'uomo più sciagurato del mondo, attese che
tutti si fossero allontanati dal sepolcro e lì, proprio sulla tomba,
si tolse la vita. 46) Creso, rimasto privo del figlio, per due anni mantenne un
lutto strettissimo. Più tardi la caduta di Astiage figlio di Ciassare
e l'assunzione del potere da parte di Ciro, figlio di Cambise, con la
conseguente crescita della potenza persiana, distolsero Creso dal suo dolore
e determinarono in lui la preoccupazione insistente di frenare, se possibile,
l'espansione della potenza dei Persiani prima che divenissero troppo
influenti. Con questa idea decise subito di mettere alla prova gli oracoli
greci e l'oracolo di Libia inviando corrieri un po' ovunque: a Delfi, ad Abe
nella Focide, a Dodona; altri furono mandati ai santuari di Anfiarao e di
Trofonio, altri ancora presso i sacerdoti Branchidi, nel territorio di
Mileto. Tanti furono gli oracoli greci che Creso mandò a consultare;
in Libia inviò un'altra delegazione a interrogare l'indovino di
Ammone. In tal modo Creso voleva verificare le conoscenze degli oracoli: se
avesse riscontrato che conoscevano la verità, avrebbe inviato nuovi
corrieri per chiedere se poteva intraprendere spedizioni militari contro la
Persia. 47) Ai Lidi spediti a saggiare gli oracoli diede le seguenti
istruzioni: dovevano tenere il conto esatto dei giorni trascorsi dopo la loro
partenza da Sardi; al centesimo giorno dovevano consultare gli oracoli
chiedendo loro che cosa stesse facendo in quel momento il re dei Lidi Creso,
figlio di Aliatte; dovevano trascrivere parola per parola il responso degli
indovini e tornare a riferirlo. Nessuno sa dire quali furono le risposte
degli altri oracoli, ma a Delfi, non appena i Lidi furono entrati nel
santuario ed ebbero consultato il dio formulando la domanda prescritta, la
Pizia diede in versi esametri la seguente rispose:…. “Io della spiaggia
conosco le arene e il volume del mare, Il sordomuto comprendo e se pure non
parli l’intendo. Di tartaruga dal cuoio robusto un odore mi giunge, Cotta nel
bronzo insieme con pezzi di carne di agnello: Bronzo v’è sotto
disteso, ed essa di bronzo vestita.”… ( Io so quanti sono i granelli
di sabbia e so le dimensioni del mare, io intendo chi è muto e ascolto
anche chi non ha voce. Fino a me giunge l'odore di una testuggine dal duro
guscio che sta cuocendo nel rame insieme con carni di agnello: c'è
bronzo sotto di lei e bronzo sopra). 48) I Lidi trascrissero il responso della Pizia e partirono
per tornare a Sardi. Quando anche gli altri inviati furono presenti, tutti
con il loro responso, Creso aprì gli scritti, uno per uno, e ne
esaminò il contenuto: nessuno degli altri gli parve soddisfacente, ma
quando apprese il responso proveniente da Delfi subito lo accolse con
devozione, e ritenne quello di Delfi l'unico vero oracolo, poiché aveva
scoperto ciò che lui stava facendo. Infatti, dopo aver inviato i suoi
messi presso gli oracoli, aveva tenuto d'occhio con la massima cura la data
prestabilita, preparando il suo piano: pensò qualcosa che fosse
impossibile indovinare o prendere in considerazione: uccise una testuggine e
un agnello e li cucinò personalmente in un lebète di bronzo
chiusa da un coperchio, pure di bronzo. 49) Tale dunque fu il responso che Creso ricevette da Delfi.
Quanto all'indovino di Anfiarao non sono in grado di dire quale risposta
diede ai Lidi, quando ebbero esaurito il consueto rituale intorno al
santuario: nemmeno il testo di questo oracolo ci viene tramandato, ma posso
dire che Creso giudicò di avere ricevuto un vaticinio veritiero. 50) Dopodiché Creso cercava di procurarsi il favore del dio
di Delfi con offerte imponenti: immolò 3000 capi di bestiame di tutte
le specie adatte al sacrificio, ammassò una gigantesca pira sulla
quale bruciò lettighe rivestite d'oro e d'argento, boccette d'oro,
vesti di porpora e tuniche, sperando di guadagnarsi maggiormente il favore
del dio con simili offerte. E a tutti i Lidi ordinò di sacrificare
quanto ciascuno potesse. Al termine dei sacrifici fece fondere un enorme
quantitativo d'oro e ne ricavò dei mezzi mattoni lunghi sei palmi,
larghi tre e spessi uno: erano 117 di numero, di cui quattro di oro puro,
ciascuno del peso di due talenti e mezzo, mentre gli altri mezzi mattoni
pesavano due talenti essendo costituiti da oro bianco. Fece fondere in oro
puro anche la statua di un leone, pesante dieci talenti. Questo leone, quando
ci fu l'incendio del tempio di Delfi, cadde dai mattoni, sui quali era
appunto collocato: ora si trova nel tesoro di Corinto e pesa sei talenti e
mezzo, perché tre talenti e mezzo si fusero e andarono perduti. 51) Appena pronti tali oggetti, Creso li spedì a
Delfi; e vi aggiunse due crateri di grandi dimensioni, uno d'oro e uno
d'argento; quello d'oro fu posto a destra di chi entra nel tempio e quello
d'argento a sinistra, ma anch'essi vennero dislocati altrove all'epoca
dell'incendio del santuario. Ora quello d'oro si trova nel tesoro dei
Clazomeni e ha un peso di otto talenti e mezzo e dodici mine, quello
d'argento in un angolo del pronao e ha una capacità di 600 anfore:
ancora lo usano a Delfi durante le feste delle Teofanie. I Delfi dicono che
è opera di Teodoro di Samo, un parere che condivido, perché non è
certamente un oggetto fabbricabile da chiunque. Spedì anche quattro
orci d'argento, ora nel tesoro dei Corinzi, e offrì due vasi per
l'acqua lustrale, uno d'oro e uno d'argento; su quello d'oro c'è una
iscrizione che ne attribuisce l'offerta agli Spartani, ma è un falso:
l'oggetto è proprio di Creso e la scritta è dovuta a uno di
Delfi che voleva ingraziarsi gli Spartani: io ne conosco il nome, ma non lo
menzionerò. Dono degli Spartani è il fanciullo dalla cui mano
scorre l'acqua, ma certamente non lo sono i due vasi lustrali. Assieme a
questi Creso consacrò altri oggetti senza contrassegni e due catini
rotondi d'argento e, ancora, una statua d'oro alta tre cubiti, che
rappresenta una donna, anzi più precisamente la fornaia di Creso,
secondo quanto si dice a Delfi. E inoltre Creso offrì le collane e le
cinture della moglie. 52) Questo è quanto inviò a Delfi. Invece ad
Anfiarao, di cui aveva appreso il valore e la sorte sventurata,
consacrò uno scudo interamente d'oro e una solida lancia, essa pure
d'oro massiccio tanto nell'asta come nelle punte. All'epoca della mia visita
entrambi gli oggetti si trovavano ancora a Tebe, e esattamente nel tempio di
Apollo Ismenio. 53) Ai Lidi incaricati di portare i doni ai santuari Creso
ordinò di chiedere agli oracoli se convenisse muovere guerra ai
Persiani e se fosse il caso di aggregarsi qualche esercito amico. I Lidi,
giunti a destinazione, consacrarono le offerte e interrogarono gli oracoli:
"Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni, convinto che questi sono gli
unici veri oracoli al mondo, vi destina questi doni degni dei vostri
vaticini, e vi chiede se gli conviene muovere guerra contro i Persiani e se
è il caso di aggregarsi qualche esercito alleato". Alle loro
domande entrambi gli oracoli diedero identica risposta, preannunciando a
Creso che, se avesse mosso guerra ai Persiani, avrebbe rovesciato un grande
regno; e gli consigliarono di trovare quali fossero i Greci più
potenti e di assicurarsene l'amicizia. 54)Venuto a conoscenza dei responsi, Creso se ne compiacque
molto: tutto preso dalla speranza di abbattere il regno di Ciro, inviò
a Pito una ulteriore delegazione: si informò quanti fossero i Delfi di
numero e a ciascuno di loro donò due stateri d'oro. In cambio i Delfi
concedettero a Creso e ai Lidi il diritto di precedenza nella consultazione
dell'oracolo, l'esenzione dai tributi, il diritto di seggio privilegiato
negli spettacoli e la possibilità, per sempre, a ogni Lido che lo
desiderasse di diventare cittadino di Delfi. 55) Dopo quei doni Creso si rivolse al santuario per la terza
volta: da quando ne aveva riconosciuto la veridicità abusava
dell'oracolo. Questa volta chiese se il suo regno sarebbe durato a lungo e la
Pizia gli diede il seguente responso: ….”Quando dei Medi re un mulo
divenga, tu allor lungo l’Ermo, Ricco di ciottoli, fuggi, re Lidio dai
piè delicati; non rimaner, per vergogna di agire da vile fuggendo”….(Quando
un mulo sarà divenuto re dei Medi, allora, o Lidio dal piede delicato,
lungo l'Ermo ghiaioso fuggi e non fermarti, e non avere vergogna di essere
vile). 56)Quando gli giunsero tali parole Creso ne gioì
molto più che di tutte le precedenti: non si aspettava certo che un
mulo venisse mai a regnare sui Medi al posto di un uomo e quindi né la sua,
né la sovranità dei suoi discendenti avrebbero avuto mai fine. Poi si
preoccupò di scoprire quali erano i Greci da farsi amici in quanto
più potenti, e a forza di indagini risultò che Spartani e
Ateniesi prevalevano nettamente all'interno dei loro gruppi etnici, rispettivamente
il dorico e lo ionico. Erano in effetti i due popoli preminenti: l'uno di
antica origine pelasgica, l'altro di origine ellenica; gli Ateniesi non si
erano mai mossi dai territori che occupavano, gli altri avevano compiuto
numerosi spostamenti: al tempo del re Deucalione abitavano la Ftiotide, al
tempo di Doro figlio di Elleno la regione detta Estiotide alle falde
dell'Ossa e dell'Olimpo; cacciati dalla Estiotide ad opera dei Cadmei si
erano stanziati a Pindo con il nome di Macedni. Da lì ancora si trasferirono
nella Driopide e infine dalla Driopide passarono nel Peloponneso, dove
assunsero il nome di Dori. 57) Quale lingua parlassero i Pelasgi non sono in grado di
dirlo con esattezza: se è indispensabile fornire qualche indicazione,
basandosi sulle popolazioni pelasgiche superstiti, sia quelle insediate oggi
nella città di Crestona a nord dei Tirreni e già limitrofe
degli attuali Dori nella regione adesso chiamata Tessagliotide, sia quelle
che nell'Ellesponto avevano colonizzato Placia e Scilace e avevano condiviso
il territorio con gli Ateniesi, o sulle città un tempo pelasgiche ma
che poi avevano mutato nome, ebbene, deducendo su queste basi, bisogna
concludere che i Pelasgi parlavano una lingua barbara. Se dunque i Pelasgi
erano di lingua barbara, allora gli Attici, Pelasgi di stirpe, una volta
divenuti Greci dovettero anche cambiare il modo di esprimersi. Infatti,
bisogna aggiungere che gli abitanti di Crestona e di Placia parlano due
idiomi assolutamente diversi dagli idiomi dei popoli circostanti, ma molto
simili fra loro, dimostrando così di avere conservato l'originaria
impronta linguistica anche dopo esser immigrati nei rispettivi nuovi
territori. 58) A me risulta che il gruppo degli Elleni fin dalla sua
origine abbia sempre parlato la stessa lingua: staccatisi dai Pelasgi, erano
deboli e poco numerosi, ma poi, estendendo il proprio dominio, crebbero fino
all'attuale moltitudine di popolazioni, grazie ai continui apporti di
Pelasgi, soprattutto, e di altre etnie barbare. Al confronto mi pare senz'altro
che nessun popolo pelasgico, restando barbaro, abbia mai compiuto progressi
considerevoli. 59) Di quelle due genti Creso venne a sapere che una, la
attica, era retta e tenuta divisa dal figlio di Ippocrate, Pisistrato, allora
tiranno di Atene. A Ippocrate era capitato un evento assolutamente
prodigioso: si trovava ad Olimpia, come privato cittadino, per assistere ai
Giochi e aveva appena terminato un sacrificio quando i lebeti, che erano
lì pronti, pieni di acqua e di carni, presero improvvisamente a
bollire senza fuoco e a traboccare. Lì accanto per caso c'era Chilone
di Sparta; egli, osservato il prodigio, rivolse a Ippocrate i seguenti
consigli: per prima cosa non sposare una donna in grado di procreare, se
invece aveva già moglie ripudiarla e rinnegare il proprio figlio se
era già venuto al mondo. Ma non pare proprio che Ippocrate abbia
voluto seguire le indicazioni di Chilone: e così più tardi
nacque Pisistrato. Gli Ateniesi della costa e gli Ateniesi dell'interno, i
primi capitanati da Megacle figlio di Alcmeone, i secondi da Licurgo figlio
di Aristolaide, erano in conflitto fra di loro: Pisistrato mirando al potere
assoluto diede vita a una terza fazione: riunì un certo numero di
sediziosi, si autodichiarò fittiziamente capo degli Ateniesi delle
montagne ed escogitò il seguente stratagemma. Ferì se stesso e
le proprie mule e poi spinse il carro nella piazza centrale fingendo di
essere sfuggito a un agguato di nemici che, a sentire lui, avrebbero avuto la
chiara intenzione di ucciderlo mentre si recava in un suo campo; chiese
pertanto che il popolo gli assegnasse un corpo di guardia, anche in
considerazione dei suoi meriti precedenti, quando, stratega all'epoca della
guerra contro i Megaresi, aveva conquistato il porto di Nisea e realizzato
altre grandi imprese. Il popolo ateniese si lasciò ingannare e gli
concedette di scegliere fra i cittadini un certo numero di uomini, i quali
diventarono i lancieri privati di Pisistrato, o meglio i suoi
"mazzieri", visto che lo scortavano armati di mazze di legno.
Questo corpo di guardia contribuì al colpo di stato di Pisistrato
occupando l'acropoli. Da allora Pisistrato governò su Atene senza
riformare le cariche dello stato esistenti e senza modificare le leggi: resse
la città amministrandola con oculatezza sulla base degli ordinamenti
già in vigore. 60) Non molto tempo dopo i partigiani di Megacle e quelli di
Licurgo si misero d'accordo e lo cacciarono dalla città. Così
andarono le cose la prima volta che Pisistrato ebbe in mano sua Atene: perse
il potere prima che si radicasse saldamente. Ma tra coloro che lo avevano
scacciato rinacquero i contrasti e Megacle, messo in difficoltà dai
tumulti, finì col mandare un messaggero a Pisistrato offrendogli il
potere assoluto a patto che sposasse sua figlia. Pisistrato accettò la
proposta e fu d'accordo sulle condizioni; per il suo rientro in Atene
ricorsero a un espediente che io trovo assolutamente ridicolo, visto che i
Greci fin dall'antichità sono sempre stati ritenuti più accorti
dei barbari e meno inclini alla stoltezza e alla dabbenaggine, e tanto
più se in quella circostanza attuarono effettivamente un simile
disegno in barba agli Ateniesi, che fra i Greci passano per essere i
più intelligenti. Nel demo di Peania viveva una donna, di nome Fia,
alta quattro cubiti meno tre dita e per il resto piuttosto bella. Vestirono
questa donna di una armatura completa, la fecero salire su di un carro, le
insegnarono come atteggiarsi per ottenere il più nobile effetto e la
guidarono in città facendosi precedere da alcuni araldi, i quali,
giunti in Atene, secondo le istruzioni ricevute andavano ripetendo il
seguente proclama: "Ateniesi, accogliete di buon grado Pisistrato: Atena
in persona, onorandolo sopra tutti gli uomini, lo riconduce sulla acropoli a
lei dedicata". Facevano questo annuncio percorrendo la città e
ben presto la voce si sparse fino ai demi: "Atena riconduce
Pisistrato"; e in città, credendo che Fia fosse la dea in
persona, a lei, che era una semplice donna, si rivolsero con devozione; e accolsero
Pisistrato. 61) Riavuto il potere nel modo ora esposto, Pisistrato
rispettò l'accordo preso con Megacle e ne sposò la figlia; ma
poiché aveva già dei figli adulti e correva fama che sugli Alcmeonidi
pesasse la maledizione divina, non volendo avere prole dalla nuova moglie,
non si univa con lei come vuole natura. La donna, lì per lì,
tenne nascosta la cosa, ma poi, che glielo avessero chiesto o meno, ne
parlò alla madre; e questa lo riferì al marito. Il fatto fu
considerato un terribile affronto da parte di Pisistrato: in preda all'ira
com'era, Megacle si riconciliò con quelli della sua fazione.
Pisistrato, informato di quanto si stava concretizzando ai suoi danni, non
esitò ad allontanarsi dal paese: si rifugiò a Eretria e
lì studiò la situazione insieme coi figli. Prevalse il parere
di Ippia, di tentare la riconquista del potere, e allora cominciarono a
sollecitare doni dalle città che in qualche modo erano obbligate nei
loro confronti. E fra le tante città che fornirono ingenti somme di
denaro i Tebani superarono tutti con il loro contributo. Insomma, per farla
breve, venne il momento in cui tutto era pronto per il rientro in Atene: dal
Peloponneso erano arrivati dei mercenari argivi, e un uomo di Nasso, di nome
Ligdami, giunse di sua iniziativa, ben fornito di uomini e mezzi, e
offrì i suoi servigi. 62) Muovendo da Eretria fecero ritorno in Attica, a distanza
di oltre dieci anni dalla loro fuga. In Attica il primo luogo che occuparono
fu Maratona; mentre stavano lì accampati si unirono a loro dei ribelli
provenienti dalla città, e altri ne affluivano dai demi: tutta gente
che abbracciava la tirannide preferendola alla libertà. Costoro quindi
si andavano radunando: gli Ateniesi rimasti in città, finché
Pisistrato raccoglieva finanziamenti e poi per tutto il tempo che si trattenne
a Maratona, non si preoccuparono minimamente; ma quando seppero che stava
marciando da Maratona su Atene allora finalmente scesero in campo contro di
lui. Mentre l'esercito cittadino marciava incontro agli assalitori,
Pisistrato e i suoi si erano mossi da Maratona e avanzavano verso la
città; convergendo finirono perciò per incontrarsi nel demo di
Pallene, all'altezza del tempio di Atena Pallenide, e lì i due
eserciti si schierarono uno di fronte all'altro. In quel momento, spinto da
ispirazione divina, si presentò a Pisistrato l'indovino Anfilito di
Acarnania, gli si avvicinò e pronunciò la seguente profezia in
esametri:…”Ecco, la rete è gettata, distesa è la rete nel
mare. Vi si precipiteranno ora i tonni al chiaror della luna”… (La rete
è stata lanciata, le sue maglie si sono distese, i tonni vi
irromperanno dentro in una notte di luna). 63) Così vaticinava sotto l'ispirazione del dio e
Pisistrato comprendendo la profezia dichiarò di accoglierla e
guidò in campo l'esercito. Nel frattempo gli Ateniesi della
città avevano pensato bene di mangiare e, dopo, si erano messi chi a
giocare a dadi, chi a dormire. Pisistrato e i suoi piombarono su di loro e li
volsero in fuga. Mentre essi fuggivano Pisistrato trovò la maniera
più saggia per impedire che gli Ateniesi si raccogliessero ancora, e
anzi per tenerli dispersi. Fece montare a cavallo i suoi figli e li
mandò avanti: essi, raggiungendo i fuggitivi, parlavano loro secondo
le disposizioni di Pisistrato, esortandoli uno per uno a non avere paura e a
tornare ciascuno alle proprie occupazioni. 64)Gli Ateniesi si lasciarono persuadere e così
Pisistrato per la terza volta fu padrone di Atene; questa volta rese
più saldo il proprio potere grazie alle molte guardie e agli ingenti
contributi in denaro, che gli provenivano tanto dall'Attica come dal fiume
Strimone. Inoltre prese in ostaggio i figli degli Ateniesi che erano rimasti
a combattere senza darsi subito alla fuga e li tenne sequestrati a Nasso
(perché Pisistrato aveva sottomesso anche Nasso e l'aveva affidata a
Ligdami). Poi obbedendo agli oracoli purificò l'isola di Delo, in
questo modo: fece disseppellire e trasportare in un'altra parte dell'isola
tutti i resti umani che si trovavano in zone visibili dal santuario. E
così Pisistrato fu signore di Atene; ma vari Ateniesi erano caduti
nella battaglia e altri avevano seguito gli Alcmeonidi in esilio lontano
dalla loro patria. 65) Questa era la situazione in Atene all'epoca in cui Creso
raccoglieva le sue informazioni; dal canto loro gli Spartani erano appena
usciti da un periodo di grosse difficoltà e stavano ormai prevalendo
nella guerra contro Tegea. Effettivamente nel periodo in cui a Sparta
regnarono Leonte ed Egesicle, gli Spartani, che avevano risolto a proprio
favore gli altri conflitti, non riuscivano a superare l'ostacolo di Tegea. In
epoca ancora precedente a questi avvenimenti erano, si può dire, i
più arretrati in tutta la Grecia in fatto di legislazione interna ed
erano isolati dal punto di vista internazionale. Il progresso verso un buon
ordinamento legislativo avvenne nel modo che ora vi narro. Una volta
all'oracolo di Delfi si recò Licurgo, uno degli Spartiati più
in vista; non appena fu entrato nel sacrario la Pizia così
parlò:…Giungi al mio tempio opulento, Licurgo, da Zeus bene amato,
Come da tutti i celesti Dei ch’hanno magione in Olimpo. Come dovrò
proclamarti- se umana o divina natura- Esito: ma ti ritengo piuttosto divino,
Licurgo”… (Licurgo, tu vieni al mio tempio opulento tu, caro a Zeus e a
quanti abitano le dimore dell'Olimpo. Sono in dubbio se dichiararti dio o
essere umano ma penso piuttosto che tu sei un dio, Licurgo). Alcuni
aggiungono che la Pizia gli suggerì anche l'attuale costituzione degli
Spartiati, ma a quanto raccontano gli Spartani stessi, Licurgo la introdusse
derivandola da quella di Creta al tempo in cui lui era tutore di suo nipote,
il re di Sparta Leobote. Non appena assunse la tutela provvide a riformare
tutte le leggi e vigilò che non si verificassero violazioni. In
seguito Licurgo fissò gli ordinamenti militari: corpi speciali
dell'esercito, unità di trenta uomini, mense comuni, e istituì,
inoltre, le cariche di eforo e di geronte. 66) Con simili riforme gli Spartani ottennero una buona
legislazione; e alla morte di Licurgo gli dedicarono un santuario che
è tuttora molto venerato. Poiché risiedono in un buon territorio e
costituiscono una massa non indifferente di uomini, ebbero un rapido sviluppo
e raggiunsero un notevole grado di prosperità. Al punto che non si
accontentarono più di vivere in pace, ma, presumendo di essere
più forti degli Arcadi, consultarono l'oracolo di Delfi sull'Arcadia
intera: e la Pizia diede loro il seguente responso:…” Tu mi domandi
l’Arcadia: gran cosa: non te la concedo. Molti mortali ci sono in Arcadia,
che mangiano ghiande, E ti terranno lontano. Ma io non t’invidio conquista.
Voglio a te dare Tegea percossa dai pie’, per la danza; e la sua bella
pianura tu misurerai con la fune.”…. (Mi chiedi l'Arcadia? Chiedi molto:
non te la concederò. In Arcadia ci sono molti uomini che si nutrono di
ghiande i quali vi respingeranno; ma non voglio opporti solo un rifiuto: ti
concederò Tegea, battuta dai piedi, per ballare, e la sua bella
pianura, da misurare con la fune). Appresa la risposta gli Spartani si
tennero lontani da tutti gli altri Arcadi, ma intrapresero una spedizione
militare contro Tegea; e avevano tanta fiducia nell'ambiguo responso che
portarono con sé anche le catene, per essere pronti a rendere schiavi i
Tegeati. Ma quando furono sconfitti nella battaglia, quanti di loro rimasero
prigionieri furono costretti a lavorare la terra della pianura di Tegea dopo
aver misurato con la fune la parte spettante a ciascuno e incatenati con gli
stessi ceppi che si erano portati dietro. Questi ceppi, gli stessi che
servirono a incatenarli, li ho visti io, ancora intatti, a Tegea, appesi
tutto intorno al tempio di Atena Alea. 67) Durante questo primo conflitto gli Spartani continuarono
ad avere la peggio negli scontri contro i Tegeati, ma al tempo di Creso e del
regno spartano di Anassandride e di Aristone, gli Spartiati ormai avevano
acquistato una sicura superiorità bellica, ed ecco come. Visto che in
guerra risultavano sempre inferiori ai Tegeati, inviarono a Delfi una
delegazione a chiedere quale dio dovessero propiziarsi per prevalere nella
guerra contro Tegea. La Pizia rispose che ci sarebbero riusciti quando
avessero traslato nella loro città le ossa di Oreste figlio di
Agamennone. Ma poiché non erano capaci di scoprire il luogo in cui Oreste era
stato seppellito, mandarono di nuovo a chiedere al dio dove esattamente
giacesse Oreste. E agli inviati la Pizia diede la seguente risposta: …”V’è
nell’Arcadia Tegea, cittade ch’è sita in pianura; Ivi due venti pur
soffiano: necessità li costringe. Ivi a percossa percossa risponde, e
sul male è un malanno. L’Agamennonide qui la frugifera terra
rinchiude. Questi portandoti in patria sarai di Tegea il patrono.”…(In
Arcadia c'è una città, Tegea, in una aperta regione: dove
soffiano due venti sotto dura costrizione, dove c'è colpo e ciò
che respinge il colpo, dove male giace su male, lì la terra,
generatrice di vita, racchiude il figlio di Agamennone. Quando lo avrai con
te sarai signore di Tegea). Anche dopo aver ricevuto questa risposta, gli
Spartani non riuscivano affatto a scoprire il luogo in questione, pur
cercandolo dovunque; finché lo trovò un certo Lica, uno degli
Spartiati che possono onorarsi del titolo di Agatoergi. Gli Agatoergi sono
quei cinque cittadini di anno in anno più anziani fra coloro che si
congedano dalla cavalleria: essi per tutto l'anno in cui escono dalle file
dei cavalieri hanno l'obbligo di non rimanere inattivi e di accettare
missioni all'estero per conto dello stato. 68)Ricopriva dunque questo incarico Lica quando, grazie ad
un colpo di fortuna e alla sua intelligenza, trovò a Tegea la tomba di
Oreste. Esistevano allora libere relazioni fra Sparta e Tegea; Lica, entrato
in una fucina, se ne stava ad osservare ammirato la lavorazione del ferro. Il
fabbro si accorse del suo stupore e interrompendo il proprio lavoro gli
disse: "Ospite spartano, sono sicuro che rimarresti a bocca aperta se
vedessi quello che ho visto io, dal momento che guardi con tanta meraviglia
battere il ferro. Devi sapere che io volevo costruire un pozzo nel mio
cortile e scavando ho urtato in una bara lunga sette cubiti. Non potendo
credere che fossero mai esistiti uomini più alti degli attuali, la
scoperchiai e vidi un cadavere lungo quanto la bara. Lo misurai e lo
seppellii di nuovo". Il fabbro gli raccontava quanto aveva visto e Lica
riflettendoci ne arguì che quel morto fosse Oreste; lo deduceva dal
testo dell'oracolo, interpretato così: nei due mantici del fabbro, che
aveva sott'occhio, riconobbe i venti, nel martello e nell'incudine il colpo e
ciò che respinge il colpo, nel ferro battuto il male che giace sul male,
interpretando in base al principio che il ferro sia stato scoperto per il
male dell'uomo. Avendo compreso l'enigma, fece ritorno a Sparta e
riferì ai suoi concittadini come stavano le cose. Essi lo accusarono
di propagazione di notizie false e lo bandirono dalla città. Lica
tornò a Tegea e narrando al fabbro quanto gli era accaduto
cercò, ma senza successo, di prendere in affitto da lui quel cortile.
Col tempo riuscì a convincerlo e vi si poté installare; allora
disseppellì la bara, raccolse le ossa di Oreste e con esse
rientrò a Sparta. E da quel momento, ogni volta che avevano luogo
degli scontri con i Tegeati, gli Spartani avevano sempre la meglio. E ormai
essi avevano sottomesso anche la maggior parte del Peloponneso. 69) Creso, venuto a conoscenza di tutti questi fatti,
inviò a Sparta dei messaggeri, latori di doni e di una richiesta di
alleanza e bene istruiti sulle parole da riferire. Quando arrivarono a Sparta
essi dichiararono: "È stato Creso, re dei Lidi e di altre popolazioni,
a mandarci qui, affidandoci questo messaggio: "Spartani, il dio mi ha
ordinato per bocca di un oracolo di rendermi amico il popolo greco, e io so
che voi siete i primi della Grecia: pertanto obbedendo alla parola del dio a
voi rivolgo il mio appello, desideroso di diventare vostro amico e alleato,
senza inganni, senza secondi fini". E fu quanto i messaggeri di Creso
riferirono da parte del loro re; gli Spartani, a cui era noto il responso in
questione, furono molto lieti della venuta dei Lidi e strinsero vincoli giurati
di amicizia e di alleanza militare. Del resto erano legati da alcuni benefici
ricevuti da Creso in tempi precedenti: a Sardi gli Spartani avevano mandato a
comprare dell'oro, di cui intendevano servirsi per la fabbricazione della
statua di Apollo che ora si trova sul Tornace, in Laconia, e Creso, benché
fossero disposti a pagarlo, gliene aveva offerto in dono. 70) Per questi motivi gli Spartani accettarono il patto di
alleanza e anche perché li aveva scelti come alleati anteponendoli a tutti
gli altri Greci. E oltre a dichiararsi disponibili a ogni appello fecero
fabbricare un cratere di bronzo, decorato con figure lungo il bordo esterno e
tanto grande da avere una capacità di 300 anfore: lo donarono a Creso
intendendo così contraccambiarlo. Questo cratere non arrivò mai
a Sardi, fatto di cui si danno due diverse spiegazioni: gli Spartani
sostengono che quando il cratere durante il viaggio verso Sardi venne a
trovarsi all'altezza dell'isola di Samo, gli abitanti di Samo, informati, li
assalirono con lunghe navi da battaglia e se ne impadronirono; invece i Sami
raccontano che gli Spartani incaricati del trasporto avevano ritardato,
sicché poi, quando giunse la notizia della caduta di Sardi e della cattura di
Creso, decisero di cedere l'oggetto in Samo: lo acquistarono dei privati
cittadini per offrirlo al tempio di Era; poi, forse, gli stessi che lo
avevano venduto, una volta tornati a Sparta, raccontarono di essere stati
depredati dai Sami. Così andarono le cose a proposito del cratere. 71)Dal canto suo Creso, fraintendendo il senso dell'oracolo,
organizzava una invasione della Cappadocia, convinto di abbattere Ciro e la
potenza persiana. Mentre Creso si preparava a marciare contro i Persiani, un
lido di nome Sandani che già in occasioni precedenti aveva dimostrato
di essere un saggio, ma che dopo il parere espresso in questa circostanza si
guadagnò la massima reputazione in Lidia, diede a Creso il seguente
consiglio: "Mio re, - gli disse - tu stai facendo preparativi per
combattere contro uomini che portano brache di cuoio e di cuoio anche il
resto dei loro vestiti, che si cibano non di ciò che vogliono ma di
ciò che hanno, perché la loro terra è avara; inoltre non
toccano vino, ma bevono solo acqua, non hanno fichi da mangiare e nient'altro
di buono. Insomma se li batti cosa potrai ricavare da loro, visto che non
possiedono nulla? Se invece rimani sconfitto, pensa a quanti beni perdi! Se
faranno tanto di gustare le nostre risorse, se le terranno strette e noi non
potremo mai più liberarci dei Persiani. Per me io ringrazio gli
dèi che non mettono in mente ai Persiani di muovere guerra ai
Lidi". Pur con questi argomenti non riusciva a persuadere Creso. In
effetti i Persiani prima di sottomettere la Lidia non possedevano nulla di
delicato e di buono. 72) Gli abitanti della Cappadocia dai Greci sono chiamati
Siri. Questi Siri prima del dominio persiano erano stati sudditi dei Medi;
allora lo erano di Ciro. Il confine tra il regno dei Medi e quello dei Lidi
correva lungo il fiume Alis, il quale scende dal monte Armeno attraverso la
Cilicia e poi, proseguendo nel suo corso, ha sulla riva destra i Matieni e
sulla sinistra i Frigi; più avanti risale verso nord e separa i Siri
della Cappadocia, sulla destra, dai Paflagoni, sulla sinistra. In tal modo il
fiume Alis delimita quasi tutta l'Asia inferiore, a partire dal mare che
fronteggia l'isola di Cipro fino al Ponto Eusino; questa zona è un po'
come una strozzatura dell'intero continente: un corriere equipaggiato alla
leggera impiega cinque giorni a percorrerla. 73) Creso decise di aggredire la Cappadocia per varie
ragioni, un po' per desiderio di nuove terre da annettere ai propri
possedimenti, ma soprattutto perché aveva fiducia nell'oracolo e voleva
vendicare Astiage contro Ciro. Bisogna sapere che Ciro figlio di Cambise
aveva rovesciato dal trono e teneva imprigionato Astiage, figlio di Ciassare
e cognato di Creso nonché re dei Medi; cognato di Creso lo era divenuto come
sto per raccontare. In seguito a una sedizione una tribù di nomadi
Sciti era penetrata nel territorio dei Medi; a quell'epoca re dei Medi era il
nipote di Deioce e figlio di Fraorte Ciassare il quale in un primo momento
aveva trattato con riguardo questi Sciti, considerandoli supplici; li teneva
in tanta considerazione che affidò loro alcuni giovani perché ne
imparassero la lingua e la tecnica di tiro con l'arco. Passò del
tempo; gli Sciti andavano regolarmente a caccia, e ne tornavano regolarmente
con qualche preda, ma una volta accadde che non riuscirono a prendere nulla;
vedendoli tornare a mani vuote Ciassare, che era, e lo dimostrò,
eccessivamente collerico, si rivolse loro piuttosto duramente, finendo per
offenderli. Vistisi oltraggiati in quel modo da Ciassare e convinti di non
esserselo meritato, gli Sciti decisero di tagliare a pezzi uno dei giovani
affidati alle loro cure, di cucinarne le carni come di solito preparavano la
selvaggina e di servirle a Ciassare come se fosse cacciagione; dopo di che
sarebbero riparati in tutta fretta a Sardi presso il re Aliatte figlio di
Sadiatte. E così avvenne: Ciassare e i suoi compagni di tavola
mangiarono quelle carni e gli Sciti, autori del misfatto, si fecero supplici
di Aliatte. 74) Dopo qualche tempo, dato che Aliatte si rifiutava
di soddisfare le richieste di Ciassare di consegnare gli Sciti, fra Lidi e
Medi scoppiò una guerra, lunga cinque anni, nei quali varie volte i
Medi sconfissero i Lidi e varie volte i Lidi sconfissero i Medi; in quella
guerra ebbe luogo anche una battaglia notturna. Mantennero un sostanziale
equilibrio fino alla fine del conflitto, al sesto anno di lotta, quando,
durante una battaglia, nell'infuriare degli scontri, improvvisamente il
giorno si fece notte. Questa trasformazione del giorno era stata
preannunciata agli Ioni da Talete di Mileto, che aveva previsto come scadenza
proprio l'anno in cui il fenomeno si verificò. Lidi e Medi, quando
videro le tenebre sostituirsi alla luce, smisero di combattere e si
affrettarono entrambi a stipulare un trattato di pace. I mediatori
dell'accordo furono Siennesi di Cilicia e Labineto di Babilonia. Costoro
sollecitarono anche un giuramento solenne e combinarono un matrimonio
incrociato: stabilirono che Aliatte concedesse sua figlia Arieni al figlio di
Ciassare Astiage, perché se non ci sono solidi legami di parentela i
trattati, di solito, non durano. Presso questi popoli il rituale del
giuramento è identico a quello greco: in più si praticano una
incisione sulla pelle del braccio e si succhiano a vicenda un po' di sangue. 75) Ciro, per una ragione che esporrò più
avanti, aveva spodestato e teneva prigioniero Astiage, che era suo nonno
materno: è quanto Creso gli rimproverava allorché mandò a
interrogare l'oracolo sulla possibilità di attaccare la Persia;
ottenuto l'ambiguo responso, si illuse di avere l'oracolo dalla propria parte
e si mosse contro il territorio persiano. Quando giunse sulla riva del fiume
Alis, io credo che fece passare dall'altra parte le sue truppe servendosi dei
ponti allora esistenti; ma una versione dei fatti molto diffusa fra i Greci
vuole attribuire il merito dell'attraversamento a Talete di Mileto. Si dice
infatti che Talete si trovasse lì nell'esercito nel momento in cui
Creso era in grave difficoltà non sapendo come traghettare i suoi
soldati (perché a quell'epoca non sarebbero esistiti ponti sull'Alis); allora
pare che Talete sia riuscito a far scorrere anche sul lato destro
dell'esercito quel fiume che prima avevano solo sulla sinistra, e ci
riuscì nella maniera seguente. Ordinò di scavare un
profondissimo canale semicircolare che iniziava a monte dell'accampamento; lo
scopo era quello di incanalare le acque e di farle scorrere alle spalle
dell'esercito accampato, per poi farle rifluire nel vecchio letto una volta
superato l'accampamento; così il fiume fu diviso in due rami che
divennero immediatamente guadabili. C'è persino chi sostiene che
l'antico letto fu del tutto prosciugato, un'ipotesi per me del tutto
inaccettabile: come avrebbero potuto in tal caso attraversare il canale al
ritorno? 76) Creso dunque attraversò il fiume con le sue
truppe e si spinse in quella parte della Cappadocia che viene chiamata
Pteria; la Pteria è la regione che si estende grosso modo a sud della
città di Sinope sul Ponto Eusino ed è la zona più
fortificata del paese; qui si accampò cominciando a devastare i
possedimenti dei Siri. Espugnò la città di Pteria e ne ridusse
in schiavitù gli abitanti, occupò tutte le località
circostanti e si accanì a saccheggiare quella regione, che non aveva
nessuna colpa verso di lui. Ciro si diresse contro Creso dopo aver radunato
l'esercito e prese con sé tutte le popolazioni che lo separavano
dall'invasore. Prima di muovere le sue truppe aveva inviato araldi alle
città della Ionia nel tentativo di sollevarle contro Creso; ma gli
Ioni non si erano lasciati convincere. Ciro raggiunse Creso e pose il proprio
accampamento di fronte al suo: qui, nella regione di Pteria misurarono le
rispettive forze. Ci fu una terribile battaglia, con numerosi caduti da
entrambe le parti, che si interruppe al sopraggiungere della notte senza che
uno dei due eserciti fosse riuscito a prevalere. 77) Tanto fu l'impegno profuso da tutti i combattenti.
Creso, insoddisfatto della consistenza numerica del proprio esercito (le
truppe che avevano combattuto erano assai inferiori a quelle di Ciro), a
causa di tale sua insoddisfazione e visto che il giorno dopo Ciro non
arrischiava un altro assalto, tornò precipitosamente a Sardi con
l'intenzione di chiamare in suo aiuto gli Egiziani (aveva stretto una
alleanza pure con il re egiziano Amasi ancora prima che con gli Spartani); di
far accorrere anche i Babilonesi (anche con loro aveva stipulato un trattato
di alleanza militare; a quell'epoca il re di Babilonia era Labineto); di
notificare agli Spartani la scadenza entro la quale presentarsi; contava di
riunire gli alleati e radunare il proprio esercito, di lasciar passare
l'inverno e di marciare contro i Persiani all'inizio della primavera. Con
questo piano in mente, appena giunse a Sardi inviò araldi ai diversi
alleati per avvisarli che il raduno era fissato a Sardi di lì a quattro
mesi. L'esercito di cui già disponeva e che si era battuto contro i
Persiani, ed era composto di mercenari, lo congedò tutto e
lasciò che si sciogliesse: non avrebbe mai immaginato che Ciro, dopo
aver sostenuto una battaglia dall'esito così equilibrato, si sarebbe
spinto fino a Sardi. 78) Mentre Ciro meditava questo suo piano, i sobborghi
di Sardi furono invasi dai serpenti; e, al loro apparire, i cavalli,
abbandonati i pascoli consueti, accorsero a divorarli. Creso vedendo
ciò pensò che si trattasse, come in effetti era, di un
presagio; subito inviò degli incaricati ai Telmessi, i famosi
indovini. Gli inviati di Creso giunsero a destinazione e appresero il
significato del prodigio ma non riuscirono a informarne il re: prima che
potessero imbarcarsi per ritornare a Sardi, Creso era stato fatto
prigioniero. I Telmessi avevano sentenziato che Creso doveva attendersi
l'invasione del proprio paese da parte di un esercito straniero il quale
avrebbe assoggettato la popolazione locale: spiegavano che il serpente era il
figlio della terra e che il cavallo rappresentava il nemico straniero. I
Telmessi diedero questa risposta quando Creso era già stato catturato
ma quando ancora non potevano essere al corrente di ciò che era
accaduto a lui personalmente e alla città di Sardi. 79)
Non appena Creso si fu messo sulla
via del ritorno, dopo la battaglia svoltasi nella Pteria, Ciro intuì
che Creso, dopo essersi ritirato, avrebbe sciolto l'esercito; riflettendo
trovò che la cosa fondamentale a quel punto era avanzare su Sardi con
la massima celerità possibile, prima che le forze dei Lidi si
radunassero una seconda volta. Prese questa decisione e agì con
rapidità: spinse le sue truppe in Lidia e in pratica fu lui stesso ad
annunciare a Creso il proprio arrivo. Allora Creso, benché messo in grave
difficoltà dal corso degli eventi, così diversi da come se li
era prospettati, tuttavia guidò i suoi Lidi alla battaglia. A
quell'epoca non esisteva in Asia un popolo più valoroso e più
forte dei Lidi: combattevano da cavallo, armati di lunghe lance ed erano
tutti eccellenti cavalieri. 80)
Si fronteggiarono nella pianura
antistante la città di Sardi, una pianura ampia e sgombra: attraverso
di essa scorrono l'Illo e altri torrenti immettendosi nel fiume principale,
l'Ermo, che nasce da un monte sacro alla Gran Madre di Dindimo e sfocia poi
in mare presso la città di Focea. Ciro, quando vide i Lidi schierati
per la battaglia, ebbe paura della loro cavalleria e dietro suggerimento del
Medo Arpago operò come segue: radunò tutti i cammelli al
seguito del suo esercito per il trasporto di vettovagliamenti e salmerie, li
sbarazzò del carico e li fece montare da soldati equipaggiati da
cavalieri; al termine di tali preparativi, ordinò a questi soldati di
marciare in testa all'esercito contro la cavalleria di Creso; ordinò
poi alla fanteria di avanzare dietro ai cammelli e infine alle spalle dei
fanti schierò l'intera sua cavalleria. Quando tutti furono al loro
posto, diede l'ordine di massacrare senza pietà ogni Lidio che
trovassero sulla loro strada, ma di non uccidere Creso, anche se avesse
tentato di resistere alla cattura. Queste furono le sue disposizioni: i
cammelli li schierò di fronte alla cavalleria nemica perché i cavalli hanno
un grande terrore dei cammelli, non riescono a sopportarne la vista e neppure
a sentirne l'odore. Appunto per ciò aveva escogitato questo astuto
espediente, per impedire a Creso di utilizzare la cavalleria, con la quale
invece il re lidio contava di coprirsi di gloria. In effetti quando avvenne
lo scontro, non appena ebbero fiutato e visto i cammelli, i cavalli
retrocedettero, e Creso vide andare in fumo così tutte le sue
speranze. I Lidi tuttavia non si persero di coraggio per questo, anzi, come
si resero conto di ciò che stava accadendo, balzarono di sella e si
gettarono come fanti contro i Persiani. Alla fine, dopo molte perdite da
entrambe le parti, i Lidi presero la fuga: si asserragliarono dentro le mura
della città, dove furono assediati dai Persiani. 81)
I Persiani dunque posero il loro
assedio; e Creso, credendo che tale situazione si sarebbe protratta a lungo,
cominciò a fare uscire dei messaggeri dalla cinta delle mura
inviandoli ai propri alleati. I messaggeri precedenti portavano la richiesta
di concentrare gli aiuti a Sardi entro un termine di quattro mesi, questi
invece furono mandati a sollecitare soccorsi con la massima urgenza, visto
che Creso si trovava già assediato. 82)
Fra le varie città alleate
a cui mandò i suoi messaggi, c'era ovviamente anche Sparta. Proprio in
quel periodo gli Spartani avevano una contesa aperta con Argo a proposito di
una regione chiamata Tirea: gli Spartani avevano sottratto la Tirea al
dominio di Argo e la tenevano in loro potere. Il fatto è che tutta la
regione a ovest di Argo fino al capo Malea, tanto la parte continentale
quanto Citera e le altre isole, era in mano degli Argivi. Gli Argivi
accorsero a difesa del territorio che veniva loro sottratto: allora
concordarono, dopo varie trattative, di far combattere trecento soldati per
parte e di assegnare la regione ai vincitori. Il grosso dei due eserciti
doveva ritirarsi nelle rispettive sedi e non assistere al combattimento per
evitare che una delle due parti, vedendo i propri campioni in
difficoltà, accorresse in loro aiuto. Stretto questo patto, si
ritirarono; i due gruppi di soldati scelti rimasero sul campo e diedero
inizio allo scontro. Si batterono con pari successo, finché, di seicento che
erano, rimasero in tre: per gli Argivi Alcenore e Cromio, per gli Spartani
Otriade. Al calar della notte sopravvivevano solo questi tre. I due Argivi,
ritenendosi vincitori, tornarono di corsa ad Argo, invece lo Spartano Otriade
spogliò delle armi i cadaveri argivi, le trasportò nel proprio
campo e continuò ad occupare il suo posto di combattimento. Il giorno
dopo vennero i due eserciti per informarsi sull'esito della lotta e a quel
punto entrambi si dichiararono vincitori: gli Argivi sostenendo di essere
rimasti in numero superiore, gli Spartani facendo notare che gli avversari
erano fuggiti mentre il loro campione era rimasto sul campo e aveva spogliato
i cadaveri nemici; insomma, litigando vennero alle mani e ingaggiarono una
vera e propria battaglia che fu vinta dagli Spartani dopo grandi perdite da
entrambe le parti. A partire da quel momento gli Argivi, che per un ben saldo
costume portavano i capelli molto lunghi, si rasarono il capo e stabilirono
per legge, con minaccia di maledizione, che nessun Argivo si lasciasse mai
più crescere i capelli e che le donne non portassero mai più
ornamenti d'oro, fino a quando non avessero riconquistato Tirea. Invece gli
Spartani introdussero una norma del tutto contraria: essi, che non avevano
mai portato i capelli lunghi, da quel momento se li lasciarono crescere. E si
racconta che Otriade, l'unico superstite dei trecento, vergognandosi di
ritornare a Sparta mentre tutti i suoi compagni erano morti, si sia tolto la
vita ancora lì, nella Tirea. 83)
Questa era la situazione degli Spartani
quando giunse l'araldo di Sardi a richiedere soccorsi per Creso assediato.
Nonostante tutto essi, come ebbero udito l'araldo, si mossero per organizzare
i soccorsi. Quando ormai avevano terminato i preparativi e le navi erano
pronte a salpare, giunse un secondo messaggio ad annunciare che le
fortificazioni dei Lidi erano state espugnate e che Creso era stato fatto
prigioniero. Gli Spartani, profondamente addolorati per l'accaduto,
desistettero dalla spedizione. 84)
Ecco come i Persiani espugnarono
Sardi: Creso subiva ormai l'assedio da quattordici giorni, quando Ciro
mandò dei cavalieri attraverso le file del proprio esercito a
diffondere un annuncio: prometteva un grosso premio a chi avesse scavalcato
per primo le mura nemiche. In seguito, dopo tanti inutili tentativi, quando
tutti gli altri ormai avevano rinunciato, ci provò un Mardo, di nome
Ireade, scalando quella parte dell'acropoli dove non era stata posta alcuna
sentinella proprio perché non si temeva che da lì potesse venire
conquistata; infatti su quel lato la rocca scende giù a picco e si
presenta inespugnabile. Quello era anche l'unico lato intorno al quale
l'antico re di Sardi Melete non aveva fatto passare il leone natogli dalla
sua concubina, allorquando i Telmessi avevano sentenziato che Sardi non
sarebbe mai caduta se il leone avesse compiuto il giro delle mura; Melete lo
aveva condotto intorno alle fortificazioni in ogni punto in cui l'acropoli si
prestava a un assalto, ma aveva escluso proprio quello in quanto scosceso e
quindi, come credeva, inespugnabile: si tratta del lato della città
che guarda verso il Tmolo. Ebbene il Mardo Ireade il giorno prima aveva
scorto un Lidio scendere da questa parte dell'acropoli per recuperare un elmo
rotolato dall'alto; notato il fatto, non se l'era scordato. Allora diede
personalmente la scalata e altri Persiani lo seguirono; quando furono saliti
in tanti, Sardi fu presa e l'intera città messa a sacco. 85)
Ed ecco cosa accadde a Creso
personalmente: come ho già una volta ricordato aveva un figlio che era
ben dotato per il resto, ma muto. Al tempo delle sue passate fortune Creso
aveva fatto di tutto per lui e fra gli altri tentativi escogitati aveva anche
mandato a interrogare in proposito l'oracolo di Delfi. E la Pizia così
gli aveva risposto:…”Stirpe di Lidi, su molti regnante, stoltissimo Creso,
Mal tu desideri udir per le case la voce bramata, Della parola del figlio:
molto peggio è per te non udirla. Giorno fatale sarà, quando
udrai la sua prima parola.”… (Tu, che sei di stirpe lidia e re di molti
popoli, stoltissimo Creso, non augurarti di udire in casa tua la
desideratissima voce di tuo figlio. Sarebbe molto meglio che ciò non
accadesse. Parlerà per la prima volta in un giorno di sventura).
Effettivamente quando le mura furono espugnate, un Persiano che non lo aveva
riconosciuto stava aggredendo Creso per ucciderlo; Creso dal canto suo, pur
vedendosi assalito, non se ne curò: nella sciagura che ormai gli era
toccata non gli importava di morire sotto i colpi. Ma suo figlio, il muto,
quando vide che il Persiano lo stava aggredendo, per la paura e per il dolore
sciolse la voce e gridò: "Uomo, non uccidere Creso!". Questa
fu la prima volta; poi conservò la favella per tutta la vita. 86)
I Persiani occuparono Sardi e
fecero prigioniero Creso al quattordicesimo anno del suo regno e al
quattordicesimo giorno di assedio: Creso, come aveva previsto l'oracolo, pose
fine a un grande regno, il proprio. Quando i Persiani lo catturarono, lo
condussero davanti a Ciro; Ciro ordinò di erigere una grande pira e vi
fece salire Creso legato in catene e con lui quattordici giovani Lidi; la sua
intenzione era di consacrare queste primizie a qualche dio o forse voleva
sciogliere un voto; o forse addirittura, avendo sentito parlare della
devozione di Creso, lo destinò al rogo curioso di vedere se qualche
dio lo avrebbe salvato dal bruciare vivo. Così agiva Ciro; ma a Creso,
ormai in piedi sopra la pira, nonostante la drammaticità del momento,
venne in mente il detto di Solone: "Nessuno che sia vivo è
felice"; e gli parvero parole ispirate da un dio. Con questo pensiero,
sospirando e gemendo, dopo un lungo silenzio, pronunciò tre volte il
nome di Solone. Ciro lo udì e ordinò agli interpreti di
chiedere a Creso chi stesse invocando; essi gli si avvicinarono e lo
interrogarono. Creso dapprima evitò di rispondere alle domande, poi,
cedendo alle insistenze rispose: "Uno che avrei dato molto denaro perché
fosse venuto a parlare con tutti i re". Ma poiché queste parole
suonavano incomprensibili, gli chiesero ulteriori spiegazioni. Visto che
continuavano a infastidirlo con le loro insistenze, raccontò come una
volta si fosse recato da lui Solone di Atene e dopo aver visto le sue
ricchezze le avesse disprezzate; ne riferì anche le affermazioni e
narrò come poi tutto si fosse svolto secondo le parole che Solone
aveva rivolto non soltanto a lui, Creso, ma a tutto il genere umano e
specialmente a quanti a loro proprio giudizio si ritengono felici. Mentre
Creso raccontava questi fatti, la pira, a cui era stato appiccato il fuoco,
bruciava ormai tutto intorno. Ciro udì dagli interpreti il racconto di
Creso e cambiò parere: pensò che lui, semplice essere umano,
stava mandando al rogo, ancora vivo, un altro essere umano, che non gli era
stato inferiore per fortune terrene; inoltre gli venne timore di una vendetta
divina, al pensiero che nella condizione dell'uomo non vi è nulla di
stabile e sicuro, e ordinò di spegnere al più presto il fuoco
ormai divampante e di far scendere Creso e i suoi compagni. Ma nonostante
tutti i tentativi non riuscivano ad avere ragione delle fiamme. 87)
I Lidi raccontano che a questo
punto Creso, resosi conto del cambiamento avvenuto in Ciro e vedendo che
tutti si sforzavano di domare il fuoco e non ci riuscivano, invocò ad
alta voce Apollo, supplicandolo di stargli accanto e di salvarlo dalla
sventura in cui si trovava, se mai una delle sue offerte gli era riuscita
gradita. Invocava il dio fra le lacrime quando all'improvviso il cielo, prima
sereno e privo di vento, si annuvolò, scoppiò un temporale e
cadde un violentissimo acquazzone che spense completamente le fiamme. Allora
Ciro, resosi conto che Creso era un uomo giusto e caro agli dei, lo fece
scendere dal rogo e gli chiese: "Creso, quale uomo ti convinse a
marciare contro le mie terre, a essermi nemico invece che amico?" E
Creso rispose: "Sovrano, ho agito così per la tua felicità
e per la mia rovina: di tutto questo il colpevole fu il dio dei Greci, che mi
esortò alla guerra. Perché nessuno è così folle da
preferire la guerra alla pace: in pace i figli seppelliscono i padri, in
guerra sono i padri a seppellire i figli. Ma piaceva forse a un dio che le
cose andassero come sono andate". 88)
Così Creso rispose. Ciro lo
liberò dalle catene e lo fece sedere al suo fianco trattandolo con
molti riguardi: Ciro lo guardava con una sorta di ammirazione e così
quelli del suo seguito. Dal canto suo Creso rifletteva in silenzio, ma a un
certo punto si sollevò e, vedendo che i Persiani stavano devastando la
città dei Lidi, disse: "Signore, nella situazione in cui mi trovo
posso dirti quello che penso o devo tacere?" Ciro lo invitò a
dire senza timori ciò che voleva e allora Creso gli domandò:
"Che cosa sta facendo tutta questa gente con tanto ardore?" Ciro
rispose: "Saccheggia la tua città, si spartisce le tue
ricchezze". Ma Creso ribatté: "No, non sta saccheggiando la mia
città né le mie ricchezze, perché queste cose non appartengono più
a me; quelli si stanno portando via la roba tua". 89)
Ciro fu molto colpito dalle parole
di Creso; allontanò i presenti e gli chiese come interpretasse quanto
stava succedendo; e Creso rispose: "Visto che gli dei mi hanno dato a te
come schiavo, mi pare giusto, se vedo più in là di te,
informartene. I Persiani, oltre a essere tracotanti per natura, sono poveri;
se tu dunque permetti loro di rapinare e ammassare grandi ricchezze,
attenditi pure che uno di loro, quello divenuto più ricco, si ribelli
contro di te. Ecco dunque, se convieni con me su quello che ti dico, come
dovresti agire: disponi a guardia di tutte le porte della città degli
uomini fidati i quali, sequestrando il bottino a chi esce, dichiarino che
è assolutamente indispensabile offrirne a Zeus la decima parte.
Così non se la prenderanno con te se gli sottrai con la forza la preda
di guerra e anzi, riconoscendo che ti comporti giustamente, vi rinunceranno
volentieri". 90)
Ciro fu quanto mai lieto di udire
questo consiglio, che gli parve ottimo; lo approvò senz'altro e quando
ebbe dato alle sue guardie le istruzioni suggerite da Creso, si rivolse
ancora a lui e gli disse: "Creso, visto che sei disposto ad agire e a
parlare con la nobiltà di un re, chiedimi pure un dono, quello che
vuoi, subito". Creso replicò: "Signore, mi farai un
grandissimo favore se mi permetti di mandare queste catene al dio dei Greci,
il dio da me più onorato, e di chiedergli se è sua abitudine
ingannare chi si comporta bene verso di lui". Ciro gli domandò il
motivo di questa preghiera, che rimproveri avesse da muovere al dio, e Creso
gli raccontò ogni cosa, risalendo al suo antico progetto e alle
risposte degli oracoli: narrò in particolare delle proprie offerte
votive e di come avesse mosso guerra ai Persiani spintovi dall'oracolo.
Concluse il discorso pregando nuovamente che gli fosse concesso di rivolgere
al dio il suo biasimo. Ciro scoppiò a ridere e disse: "Non solo
questo tu otterrai da me, ma qualunque altra cosa di cui tu senta la necessità,
in qualunque occasione". Udito ciò, Creso mandò a Delfi
dei Lidi con l'ordine di posare le catene sulla soglia del tempio e di
chiedere al dio se non si vergognasse di aver spinto Creso con i suoi
responsi a muovere guerra ai Persiani con la promessa che avrebbe abbattuto
l'impero di Ciro; dovevano poi mostrare le catene e dichiarare che erano le
primizie ricavate da tale impero; e inoltre dovevano chiedere se è
abitudine degli dei Greci essere ingrati. 91)
Ai Lidi che, giunti a Delfi, la
interrogavano secondo le istruzioni ricevute, si dice che la Pizia abbia
risposto così: "Neppure un dio può sfuggire al destino
stabilito. Creso ha scontato la colpa del suo quinto ascendente, che era una
semplice guardia del corpo degli Eraclidi e che, rendendosi complice della
macchinazione di una donna, uccise il proprio padrone e si appropriò
della sua autorità, senza averne alcun diritto. Il Lossia ha fatto il
possibile perché la caduta di Sardi avvenisse sotto i figli di Creso e non
durante il suo regno, ma non è stato in grado di stornare le Moire;
quanto esse gli hanno concesso, il Lossia lo ha compiuto come un dono per
Creso: per tre anni ha differito la presa di Sardi; lo sappia, Creso, di
essere stato imprigionato con tre anni di ritardo sul tempo stabilito; e
un'altra volta lo ha soccorso quando già si trovava sul rogo. Quanto
all'oracolo, Creso muove rimproveri ingiusti. Perché il Lossia gli aveva
predetto che, se avesse marciato contro i Persiani, avrebbe distrutto un
grande dominio. Di fronte a questo responso se voleva prendere una decisione
saggia doveva mandare a chiedere ancora se il dio intendeva il dominio suo o
quello di Ciro. Non ha afferrato le parole del dio né chiesto ulteriori
spiegazioni; dunque, consideri se stesso responsabile di quanto è accaduto.
E infine consultando l'oracolo non comprese neppure le parole del dio sul
mulo: questo mulo era proprio Ciro. Ciro è nato, infatti, da due
persone di diversa nazionalità, di più nobile origine la madre,
di condizioni più modeste il padre; lei della Media e figlia di
Astiage, re dei Medi, lui Persiano, suddito dei Medi: benché le fosse in
tutto inferiore, sposò la sua padrona". Questa fu la risposta
della Pizia ai Lidi; essi la riportarono a Sardi e la riferirono a Creso, il
quale, quando l'ebbe appresa, riconobbe che la colpa era sua e non del dio. 92)
Questa è la storia del
regno di Creso e del primo assoggettamento della Ionia. Esistono in Grecia
anche molti altri doni di Creso, non solo quelli già elencati: a Tebe,
in Beozia, un tripode d'oro, dedicato ad Apollo Ismenio, a Efeso le vacche
d'oro e la maggior parte delle colonne, a Delfi, nel tempio di Atena Pronaa,
un grande scudo d'oro. Questi doni si conservano ancora ai miei tempi, altri
sono andati perduti. E sono venuto a sapere che gli oggetti dedicati da Creso
nel santuario dei Branchidi di Mileto sono pari, per quantità e
qualità, a quelli di Delfi. Le offerte a Delfi e al tempio di Anfiarao
erano costituite da oggetti suoi personali, derivanti dal patrimonio paterno;
tutte le altre provenivano dal patrimonio di un nemico, il quale, prima che
Creso salisse al potere, gli si era opposto caldeggiando l'ascesa al trono di
Pantaleonte. Pantaleonte era figlio di Aliatte e fratello di Creso, ma non
per parte di madre: Creso era figlio di Aliatte e di una donna caria,
Pantaleonte di una donna ionica. Creso, quando ottenne il potere per
conferimento paterno, uccise il suo oppositore facendolo torturare a morte; i
suoi beni poi in base a un voto precedente li dedicò nel modo che si
è detto nei templi sopra indicati. E con questo sia chiuso il discorso
sulle offerte votive di Creso. 93)
A differenza di altri paesi, la
Lidia non offre molte meraviglie da descrivere, ad eccezione delle pagliuzze
d'oro che vengono trasportate giù dal monte Tmolo. Possiede un'unica
costruzione veramente gigantesca, la più grande del mondo dopo i
monumenti dell'Egitto e della Babilonia: vi si trova la tomba di Aliatte,
padre di Creso, il cui basamento è costituito da enormi blocchi di
pietra; il resto è un gran tumulo di terra. Contribuirono a erigerla i
mercanti della città, gli artigiani e le ragazze con i proventi della
prostituzione. Sulla sommità del sepolcro ancora ai miei tempi
correvano cinque pilastrini sui quali erano state incise iscrizioni per
ricordare il lavoro dovuto a ciascuna categoria: da una adeguata valutazione
risultava chiaro che il contributo delle ragazze era il maggiore. Bisogna
sapere che tutte le figlie del popolo dei Lidi esercitano la prostituzione,
mettendo così insieme la propria dote, e lo fanno fino al momento di
sposarsi: e sono loro stesse a procurarsi il marito. Il perimetro del
sepolcro misura sei stadi e due pletri, mentre la sua larghezza è di
tredici pletri. Immediatamente accanto all'edificio si stende un vasto lago
detto Lago di Gige, che i Lidi sostengono essere perenne. E questo è
quanto. 94)
Le usanze dei Lidi sono molto
simili a quelle dei Greci, se si eccettua il fatto che prostituiscono le
figlie. Per quanto ne sappiamo furono i primi uomini a fare uso di monete
d'oro e d'argento coniate e i primi anche a esercitare il commercio al
minuto. Secondo i Lidi anche i giochi praticati oggi dai Greci e dai Lidi
sarebbero una loro invenzione: sostengono di averli escogitati all'epoca in
cui colonizzarono la Tirrenia; ma ecco in proposito la loro versione. Sotto
il regno di Atis figlio di Mane si era abbattuta su tutta la Lidia una
terribile carestia: per un po' i Lidi avevano resistito, ma poi, visto che la
carestia non aveva fine, cercarono di ingannare la fame inventando una serie
di espedienti. E appunto allora sarebbero stati ideati i dadi, gli astragali,
la palla e tutti gli altri tipi di gioco, tranne i "sassolini";
solo l'invenzione dei "sassolini" non si attribuiscono i Lidi. Ed
ecco come fronteggiavano la fame con le loro scoperte: un giorno lo
trascorrevano interamente a giocare per non sentire il desiderio di mangiare,
il successivo lasciavano perdere i divertimenti e si cibavano. Tirarono
avanti con questo sistema di vita per ben diciotto anni. Ma poiché la
carestia non terminava e anzi la situazione si faceva sempre più
grave, allora il re dei Lidi divise in due parti l'intera popolazione e
affidò al sorteggio di decidere quale dovesse restare e quale dovesse
emigrare dal paese; alla parte cui sarebbe toccato restare assegnò se
stesso come re e a quella che sarebbe partita suo figlio, che si chiamava
Tirreno. I Lidi designati dalla sorte a emigrare scesero fino a Smirne,
costruirono una flotta e su di essa caricarono quanto possedevano di valore:
salparono poi alla ricerca di una terra che procurasse loro i mezzi per
vivere; oltrepassarono numerosi paesi finché giunsero fra gli Umbri: qui
fondarono delle città e qui abitano a tuttoggi. E cambiarono anche il
loro nome assumendo quello del figlio del re, che li aveva guidati: da
allora, dal suo nome si chiamarono Tirreni. I Lidi rimasti in patria caddero
poi sotto il dominio dei Persiani. 95)
A questo punto la narrazione esige
che si indaghi sulla figura di Ciro, il re che rovesciò il dominio di
Creso, e sui Persiani, per spiegare in che modo arrivarono alla conquista
dell'Asia intera. Fonderò il mio resoconto sulla base di quanto
raccontano alcuni Persiani, quelli che non intendono magnificare la storia di
Ciro, ma semplicemente attenersi alla realtà dei fatti; volendo sarei
in grado di riferire altre tre versioni su Ciro. Ormai da 520 anni gli Assiri
dominavano sulla parte settentrionale dell'Asia, quando i Medi, per primi,
cominciarono a ribellarsi; e in qualche modo essi, battendosi contro gli
Assiri per l'indipendenza, si mostrarono ben valorosi: riuscirono a
scrollarsi di dosso la schiavitù e a ottenere la libertà. Dopo
di che altre popolazioni seguirono l'esempio dei Medi. 96)
Ma quando tutti i popoli del
continente furono indipendenti, caddero nuovamente sotto un unico dominio. Ed
ecco come. Viveva tra i Medi un uomo molto saggio, che si chiamava Deioce e
che era figlio di Fraorte. Questo Deioce fu preso dal desiderio del potere
assoluto e agì come segue. I Medi risiedevano in villaggi sparsi; nel
proprio villaggio Deioce si segnalò, più di quanto già
non fosse stimato, praticando la giustizia con sempre maggiore impegno; e
agiva così mentre in tutta la Media quasi non esisteva il rispetto
delle leggi e benché sapesse che l'ingiusto è ostile a chi è
giusto. I Medi di quel villaggio in considerazione della sua condotta lo
scelsero come loro giudice. Lui per la verità era probo e giusto
perché aspirava al potere. In questo modo ottenne una notevole stima da parte
dei suoi concittadini, cosicché, quando negli altri villaggi si sparse la
voce che Deioce era l'unico retto nell'amministrare la giustizia, tutti
quanti, prima abituati ad avere a che fare con sentenze inique, appena intesero
di Deioce, furono ben lieti di accorrere da lui per dirimere le loro
questioni; alla fine non si rivolgevano più a nessun altro. 97)
La folla cresceva col passare dei
giorni perché si sapeva che i processi avevano l'esito dovuto; Deioce, resosi
conto di tenere ormai in pugno l'intera situazione, rifiutò di sedersi
sullo scranno dove sino ad allora si era installato per dirimere le cause; e
dichiarò che non avrebbe più emesso sentenze: non era
vantaggioso per i suoi affari occuparsi delle questioni altrui e fare il
giudice per tutta la giornata. Così, quando ruberie e
illegalità nei vari villaggi furono ancora più frequenti di
prima, i Medi si riunirono in assemblea e discussero fra di loro, parlando
della situazione presente (a parlare, io credo, furono soprattutto gli amici
di Deioce): "Nelle condizioni attuali il nostro paese non è
abitabile. Nominiamo re uno di noi; il paese sarà regolato da buone
leggi e noi potremo dedicarci ai nostri affari senza i rischi dovuti al
disordine pubblico". E con questi ragionamenti si convinsero a darsi un
re. 98)
Quando si trattò di
proporre candidati per il trono, Deioce subito venne candidato e decantato da
tutti, finché decisero di eleggerlo. Deioce pretese che gli edificassero un
palazzo degno della sua condizione di re e che gli conferissero un potere
effettivo assegnandogli una scorta. E i Medi obbedirono: gli costruirono una
reggia grande e solida nel punto del paese da lui indicato e gli consentirono
di scegliersi fra tutti i Medi un corpo di guardia. Una volta assunto il
potere Deioce costrinse i Medi a costruire una città e a occuparsi
soprattutto di quella trascurando gli altri villaggi. Anche allora i Medi
obbedirono e innalzarono una grande e ben munita fortezza, che oggi si chiama
Ecbatana, costituita da una serie di mura concentriche. Essa è
studiata in modo tale che ogni giro di mura superi il precedente solo per
l'altezza dei bastioni. In certo qual modo anche la natura del luogo, che
è collinoso, contribuì a una simile realizzazione, ma molto di
più agirono le precise intenzioni dei costruttori. In tutto le mura di
cinta sono sette: l'ultima racchiude la reggia e i tesori; la più
ampia si estende all'incirca quanto il perimetro di Atene. I bastioni del primo
giro sono bianchi, quelli del secondo neri; sono rosso porpora al terzo,
azzurri al quarto e rosso arancio al quinto; i bastioni delle prime cinque
cerchie sono stati tinti con sostanze coloranti, invece le ultime due hanno
bastioni rivestiti rispettivamente di argento e d'oro. 99)
Queste opere murarie Deioce le
faceva costruire per sé e intorno alla propria reggia; al resto del popolo
ordinò di abitare all'esterno delle mura. Ultimati i lavori, Deioce
stabilì, e fu il primo a farlo, il seguente regolamento: a nessuno era
consentito presentarsi direttamente al re, ogni comunicazione doveva avvenire
tramite araldi, il re non poteva essere visto da nessuno; inoltre era vietato
a tutti, come atto indecoroso, anche ridere e sputare in sua presenza.
Cercava di rendere solenne tutto ciò che lo circondava, affinché i
suoi antichi compagni, cresciuti con lui e non certo a lui inferiori per
capacità personali o per nobiltà di nascita, non finissero,
vedendolo, per irritarsi contro di lui e non gli cospirassero contro; anzi
non vedendolo lo avrebbero sempre considerato diverso da loro. 100)
Dopo aver introdotto queste norme
di comportamento ed essersi rafforzato con l'esercizio del potere, fu poi un
inflessibile guardiano della giustizia. Gli facevano pervenire per iscritto i
termini di una questione, all'interno della reggia, e Deioce da lì
giudicava le cause che gli venivano sottoposte ed emetteva le sue sentenze.
Così si regolava per i processi, ma prese anche altri provvedimenti:
se veniva a sapere che qualcuno aveva violato le leggi, lo convocava e gli
infliggeva una pena commisurata alla colpa commessa; a tale scopo aveva
osservatori e informatori sparsi in tutta la regione da lui governata. 101)
Deioce unificò e
governò soltanto il popolo dei Medi, il quale si compone di varie
tribù: Busi, Paretaceni, Strucati, Arizanti, Budi, Magi. Queste sono
le tribù dei Medi. 102)
Figlio di Deioce era Fraorte, il
quale alla morte del padre (avvenuta dopo un regno durato 53 anni)
ereditò il potere. Quando lo ebbe nelle sue mani non si
accontentò di regnare soltanto sui Medi, anzi compì una
spedizione militare contro i Persiani che furono i primi a subire il suo attacco
e i primi a diventare sudditi dei Medi. In seguito, disponendo di queste due
popolazioni, forti entrambe, intraprese la conquista dell'Asia intera,
avanzando da una nazione all'altra, fino a che entrò in guerra con gli
Assiri, o meglio con quelle genti assire che abitavano Ninive e che una volta
avevano avuto il dominio su tutti: a quell'epoca invece erano isolate in
seguito alla defezione dei loro alleati, ma godevano pur sempre di una ottima
situazione interna. Nel corso di quella spedizione Fraorte perì, dopo
22 anni di regno, e con lui fu distrutta la maggior parte dell'esercito. 103)
Deceduto Fraorte gli successe
Ciassare, figlio suo e nipote di Deioce. Si racconta che Ciassare fosse ancor
più valoroso, e molto, dei suoi antenati. Fu anche il primo a dividere
in corpi le truppe dell'Asia e a schierare separatamente i soldati armati di
lancia, quelli armati di arco e i cavalieri; prima di lui stavano tutti
mescolati in grande confusione. Era lui quello che combatteva contro i Lidi
quando durante la battaglia il giorno si oscurò per farsi notte e fu
lui a unificare sotto il proprio scettro tutta l'Asia al di là del
fiume Alis. Raccolse tutte le forze di cui era a capo e marciò contro
Ninive con l'intenzione di vendicare il padre e di distruggere la città.
Aveva sconfitto in battaglia gli Assiri e stava assediando Ninive quando
sopraggiunse un grosso esercito di Sciti, guidato dal re degli Sciti Madie,
figlio di Protothie; essi erano penetrati in Asia dopo aver scacciato
dall'Europa i Cimmeri e si erano spinti fino alla regione dei Medi proprio
inseguendo i Cimmeri in fuga. 104)
Un corriere equipaggiato alla
leggera impiega trenta giorni di cammino per arrivare dalla palude Meotide al
fiume Fasi e alla Colchide; poi dalla Colchide non occorre molto tempo per
trasferirsi nella terra dei Medi: solo una popolazione si frappone fra i due
territori, i Saspiri, superati i quali si è subito nella Media.
Comunque gli Sciti non penetrarono da quella parte, ma seguirono un percorso
più settentrionale e assai più lungo, tenendosi sulla sinistra
della catena del Caucaso. I Medi si scontrarono con gli Sciti, ma furono
sconfitti in battaglia e persero la loro egemonia: gli Sciti occuparono tutta
l'Asia. 105)
Da lì si diressero verso
l'Egitto, ma quando giunsero nella Siria Palestina il re d'Egitto Psammetico
andò loro incontro e con donativi e suppliche li distolse
dall'avanzare più oltre. Essi poi, durante la loro ritirata, toccarono
la città di Ascalona, in Siria, e mentre la maggior parte di loro
proseguì senza causare danni, alcuni, rimasti indietro, saccheggiarono
il tempio di Afrodite Urania. Questo santuario, a quanto risulta dalle
informazioni che ho ricevuto, è il più antico di tutti quelli
dedicati ad Afrodite; anche il tempio di Cipro trasse origine da lì,
come raccontano gli abitanti stessi dell'isola, e quello di Citera l'hanno
costruito dei Fenici che erano per l'appunto nativi della Palestina. Sugli
Sciti che saccheggiarono il tempio di Ascalona e sui loro discendenti la dea
scatenò la 'malattia femminile': sono gli Sciti stessi a dare questa
spiegazione per la loro malattia, e del resto chi si reca in Scizia
può constatare in che stato si trovino coloro che gli Sciti chiamano
"Enarei". 106)
Gli Sciti furono padroni dell'Asia
per 28 anni e ridussero tutto in uno stato disastroso con le loro violenze e
la loro incuria. Da un lato esigevano dai singoli i tributi che avevano ad
essi imposto, dall'altro, indipendentemente dai tributi, percorrevano il
paese saccheggiando tutto quello che trovavano. Ciassare e i Medi riuscirono
a eliminarne un gran numero ospitandoli e facendoli ubriacare; in tal modo i
Medi riottennero il loro predominio, assoggettarono le stesse popolazioni di
prima ed espugnarono Ninive (in che modo lo spiegherò in un'altra
parte del mio racconto), sottomettendo tutta l'Assiria a eccezione del
territorio di Babilonia. 107)
Più tardi Ciassare
morì, dopo quaranta anni di regno, compresi quelli del predominio scita.
Nel regno gli succedette il figlio Astiage. Astiage ebbe una figlia che
chiamò Mandane; e una volta sognò che Mandane orinava con tanta
abbondanza da sommergere la sua città e inondare l'Asia intera.
Sottopose questa visione all'attenzione di quei Magi che interpretano i sogni
e si spaventò molto quando essi gli spiegarono ogni particolare.
Più avanti, quando Mandane fu in età da marito, non volle
concederla in moglie a nessun pretendente medo, per degno che fosse: per la
paura, sempre viva in lui, di quel sogno, la diede a un Persiano, che si
chiamava Cambise: lo trovava di buona casata, di carattere tranquillo e lo
giudicava molto al di sotto di un Medo di normale condizione. 108)
Durante il primo anno di
matrimonio di Cambise e Mandane, Astiage ebbe una seconda visione:
sognò che dal sesso della figlia nasceva una vite e che la vite
copriva l'Asia intera. Dopo questa visione e consultati gli interpreti, fece
venire dalla Persia sua figlia, che era vicina al momento del parto, e quando
arrivò la mise sotto sorveglianza, intenzionato a eliminare il bambino
che lei avrebbe partorito. Perché i Magi interpreti dei sogni gli avevano
spiegato, in base alla visione, che il figlio di Mandane avrebbe regnato al
posto suo. Perciò Astiage prese tutte le precauzioni e quando Ciro
nacque chiamò Arpago, un parente, il più fedele dei Medi e suo
uomo di fiducia in ogni circostanza, e gli disse: "Arpago, bada di
eseguire con grande attenzione l'incarico che ora ti affido e di non
ingannarmi; se abbracci la causa di altri col tempo te ne dovrai pentire.
Prendi il bambino partorito da Mandane, portalo a casa tua e uccidilo; poi fa
sparire il cadavere come preferisci". E Arpago rispose: "Mio re, tu
non vedesti mai nulla in me, io credo, che non ti fosse gradito e anche in
avvenire starò bene attento a non commettere mai alcuna mancanza nei
tuoi confronti. E se ora vuoi che questo sia fatto, è mio dovere per
quanto dipende da me, servirti pienamente". 109)
Dopo questa risposta gli fu
consegnato il bambino, già avvolto nei panni funebri; Arpago si
avviò verso casa piangendo. Quando vi giunse riferì a sua
moglie tutte le parole di Astiage, ed essa gli chiese: "E tu ora che
cosa hai intenzione di fare?" Le rispose: "Non certo di obbedire
agli ordini di Astiage, neppure se sragionerà o se impazzirà
peggio di quanto già ora deliri: non mi associerò al suo
disegno e non eseguirò per lui un simile delitto. Non ucciderò
il bambino per molte ragioni, perché è mio parente e perché Astiage
è vecchio e non ha figli maschi; se dopo la morte di questo bambino il
potere passerà a Mandane, di cui ora lui fa uccidere il figlio
servendosi di me, cos'altro dovrò aspettarmi se non il più
grave dei pericoli? Per la mia incolumità è necessario che
questo bambino muoia, ma a ucciderlo dovrà essere uno di Astiage e non
uno dei miei". 110)
Disse così e immediatamente
inviò un messo a un mandriano di Astiage che a quanto sapeva si
trovava nei pascoli più adatti al suo disegno, su montagne popolate da
numerose bestie feroci: si chiamava Mitradate e viveva con una donna, sua
compagna di schiavitù, che si chiamava Spaco e il cui nome in greco
suonerebbe Cino, dato che i Medi chiamano "spaco" appunto il cane. Le
falde dei monti su cui questo mandriano pascolava il suo bestiame si trovano
a nord di Ecbatana in direzione del Ponto Eusino; infatti la Media in questa
direzione, verso i Saspiri, è assai montuosa, elevata e coperta di
boscaglie, mentre il resto del paese è tutto pianeggiante. Il bovaro,
dunque, convocato, si presentò con sollecitudine e Arpago gli disse:
"Astiage ti ordina di prendere questo bambino e di andarlo a esporre sul
più solitario dei monti affinché muoia al più presto. E mi ha
ordinato di avvisarti che se non lo uccidi e in qualche maniera lo risparmi
ti farà morire tra i più terribili supplizi. Io ho il compito
di controllare che il bambino venga esposto". 111)
Udito ciò il mandriano
prese il bambino, se ne tornò indietro per la stessa strada e giunse
al suo casolare. Per l'appunto anche sua moglie era in attesa di partorire un
figlio da un giorno all'altro e, forse per opera di un dio, lo diede alla
luce durante il viaggio in città del marito. Erano preoccupati entrambi,
l'uno per l'altro, lui in apprensione per il parto della moglie, e lei perché
non era cosa abituale che Arpago mandasse a chiamare suo marito. Quando lui
ritornò, fu la moglie, come se avesse disperato di rivederlo, a
chiedergli per prima per quale ragione Arpago lo avesse chiamato con tanta
fretta. E lui rispose: "Moglie mia, sono andato in città e ho
visto e udito cose che vorrei non aver visto e che non fossero mai accadute
ai nostri padroni: tutta la casa di Arpago era in preda al pianto e io vi
entrai sconvolto. Appena dentro ti vedo un neonato, lì in terra, che
si agita e piange con indosso un vestitino ricamato e ornamenti d'oro. Arpago
come mi vede mi ordina di prendere il bambino, di portarlo via con me e di
andarlo poi a esporre sulle montagne più infestate dalle fiere,
dicendo che questi sono ordini di Astiage e aggiungendo molte minacce nel
caso io non li esegua. E io l'ho preso con me credendo che fosse figlio di
qualche servo. Non potevo immaginare da chi era nato. Ma mi sembravano un po'
strani quegli ornamenti d'oro e quei tessuti preziosi e il pianto generale
che regnava nella casa di Arpago. Più avanti lungo la strada vengo a
sapere tutta la verità dal servo incaricato di accompagnarmi fuori le
mura e di consegnarmi il neonato: è il bambino di Mandane, la figlia
di Astiage, e di Cambise, figlio di Ciro, e Astiage ordina di ucciderlo! Ora
eccolo qua". 112)
Il mandriano diceva queste parole
e intanto svolgeva il fagotto per mostrare il bambino. Quando lei vide il
neonato così sano e bello, scoppiò a piangere e afferrando le
ginocchia del marito lo scongiurava di non esporlo, in nessuna maniera. Ma
lui sosteneva di non poter fare altrimenti; sarebbero venuti degli spioni di
Arpago a controllare, e lui sarebbe stato condannato a una morte orribile se
non avesse eseguito gli ordini. Non riuscendo a persuadere il marito la donna
tentò una seconda strada e gli disse: "Visto che non riesco a
persuaderti a non esporlo, tu almeno fai come ti dico io, se proprio è
assolutamente inevitabile che la si veda esposta, questa creatura: devi
sapere che anch'io ho partorito, ma ho dato alla luce un bambino morto;
prendilo ed esponilo e noi invece alleviamoci il nipotino di Astiage come se
fosse nostro. In questo modo non si accorgeranno della tua colpa verso i
padroni e noi non avremo preso una brutta decisione: il nostro bambino morto
avrà una sepoltura da re e l'altro non perderà la vita". 113)
Al mandriano parve assai saggia in
quella circostanza la proposta della moglie e immediatamente la mise in
opera. Affidò alla moglie il bambino che aveva portato con sé per
ucciderlo, quindi prese il cadaverino del proprio figlio e lo pose nel cesto
dentro cui aveva trasportato l'altro; lo vestì con gli arredi regali,
lo portò sul più solitario dei monti e ve lo lasciò. Due
giorni dopo l'esposizione del bambino, il mandriano tornò in
città dopo aver lasciato lassù di guardia uno dei suoi
aiutanti; si recò in casa di Arpago e si dichiarò pronto a
mostrare il corpo senza vita del neonato. Arpago mandò le più
fedeli delle sue guardie del corpo a constatare per lui il fatto: ma quello
che seppellirono fu il figlioletto del mandriano. E così mentre l'uno
fu seppellito, la moglie del pastore tenne con sé l'altro, che più
tardi fu chiamato Ciro e lo allevò, dandogli un altro nome e non
quello di Ciro. 114)
Quando il ragazzo aveva dieci anni
si verificò un episodio che rivelò la sua identità:
giocava nel villaggio dove erano anche gli stazzi del bestiame, giocava per
strada con dei coetanei; e giocando i bambini lo avevano eletto loro re, lui
che per tutti era "il figlio del mandriano". E lui distribuiva le
mansioni: voi dovete costruirmi un palazzo, voi essere le mie guardie; tu
sarai "l'occhio del re", a te tocca l'incarico di portare i
messaggi: insomma a ognuno assegnava il suo compito. Ma uno dei bambini che
giocavano con lui era il figlio di Artembare, uomo di grande prestigio fra i
Medi, e non volle obbedire agli ordini di Ciro; allora Ciro comandò agli
altri ragazzi di arrestarlo e, quando essi ebbero obbedito, punì assai
duramente il ribelle facendolo fustigare. Appena lasciato libero, il ragazzo,
ancora più infuriato al pensiero di aver subito un trattamento indegno
della sua condizione, si recò in città a lamentarsi col padre
dell'affronto ricevuto da Ciro, naturalmente non parlando di Ciro (non poteva
essere questo il nome) ma del "figlio del mandriano" di Astiage.
Artembare, adirato com'era, si recò da Astiage conducendo con sé il
figlioletto e si lamentò di aver subito dei mostruosi oltraggi:
"Signore, - disse - ecco la violenza insolente che abbiamo patito da
parte di un tuo servo, dal figlio di un bovaro"; e mostrava la schiena
del figlio. 115)
Astiage udì e vide; e
desiderando vendicare il bambino per riguardo ad Artembare, fece chiamare il
mandriano e il suo ragazzo. Quando furono entrambi presenti, Astiage,
guardando in faccia Ciro, disse: "Dunque tu, che sei figlio di un
pover'uomo, hai osato trattare così ignominiosamente il figlio di un
uomo che è il primo nella mia corte?" E il ragazzo rispose:
"Signore, quello che gli ho fatto è stato secondo giustizia: i
ragazzi del villaggio, lui compreso, mentre giocavamo mi elessero loro re
ritenendomi il più adatto a questo titolo. Ora, tutti gli altri
bambini eseguivano i miei ordini, lui invece non li voleva ascoltare e non ne
teneva il minimo conto, fino a quando ha avuto la giusta punizione. Se
dunque, per questo, mi merito un castigo, sono qui a tua disposizione". 116)
Mentre il bambino dava questa
risposta poco per volta Astiage lo riconosceva: gli pareva che i lineamenti
del viso fossero molto simili ai propri, troppo libero il tono della
risposta; e anche l'epoca dell'esposizione corrispondeva all'età del
ragazzo. Impressionato da questi particolari, per un po' rimase senza parola;
poi, ripresosi a stento, aprì bocca per congedare Artembare e per
poter interrogare da solo a solo il mandriano: "Artembare - disse -
agirò in maniera che tu e tuo figlio non possiate lamentarvi".
Mandò via Artembare e diede ordine ai servi di condurre Ciro in
un'altra stanza. Quando il mandriano rimase solo, Astiage gli chiese dove
avesse trovato quel bambino e chi glielo avesse consegnato. Rispose che era
figlio suo e che la donna che lo aveva dato alla luce viveva ancora con lui.
Ma Astiage ribatté che non era una buona idea quella di candidarsi ad atroci
supplizi, e intanto faceva cenno alle guardie di arrestarlo; mentre veniva
condotto alla tortura confessò ogni cosa. A cominciare dall'inizio
raccontò tutto per filo e per segno e giunse infine a pregare e a
implorare il perdono. 117)
Dopo che il mandriano gli ebbe
rivelato la verità, Astiage non si curò più di lui:
ormai era enormemente adirato con Arpago e ordinò alle sue guardie di
andarlo a chiamare. Quando Arpago fu al suo cospetto, Astiage gli chiese:
"Arpago, che sorte hai riservato al bambino che ti consegnai, e che era
nato da mia figlia?" E Arpago, vedendo lì nella sala il mandriano,
non tentò più la via della menzogna, per non correre il rischio
di venire smentito e disse: "Mio re, appena ebbi in mano il bambino
studiai come regolarmi secondo la tua volontà e nello stesso tempo non
risultare colpevole verso di te, non essere un omicida agli occhi di tua
figlia e ai tuoi. Decisi di agire così: chiamai il mandriano qui
presente e gli consegnai il neonato, dicendogli che eri tu a ordinare di
ucciderlo; e con queste parole io non mentivo perché proprio tu avevi dato
quelle disposizioni. Glielo consegnai precisando che doveva esporlo su di un
monte deserto e restare lì di guardia fino a quando fosse morto, e
aggiunsi le più varie minacce nel caso che non eseguisse gli ordini.
Quest'uomo eseguì quanto gli era stato comandato e il bambino
morì, allora io mandai i più fedeli dei miei eunuchi e
attraverso di loro constatai l'accaduto e feci seppellire il neonato. Ecco
come andarono le cose, mio signore, e questa è la sorte che
toccò al bambino". 118)
Arpago quindi disse tutta la
verità e Astiage, nascondendo la rabbia che lo divorava per quanto era
successo, per prima cosa ripeté ad Arpago la versione dei fatti come l'aveva
appresa dal mandriano; poi alla fine del racconto disse che il bambino era
vivo e che era bene che tutto fosse finito così. "Ero molto
addolorato - disse - al pensiero di ciò che avevo fatto a questo
bambino e mi pesava il rancore di mia figlia. Ora visto che tutto è
andato per il meglio, manda qui tuo figlio presso il ragazzo appena arrivato
e poi, visto che ho intenzione di offrire un sacrificio di ringraziamento per
l'avvenuta salvezza agli dei cui spetta questo onore, vieni a cena da
me". 119)
Udito ciò Arpago si
prosternò e si avviò verso casa contento che la sua colpa
avesse avuto un esito positivo e di essere stato invitato a cena con tanti
buoni auspici. Appena entrò in casa si affrettò a inviare a
corte il proprio unico figlio, che aveva circa tredici anni, ordinandogli di
andare da Astiage e di fare tutto quello che lui comandasse. Poi, tutto
lieto, andò a raccontare alla moglie quanto era accaduto. Ma Astiage,
quando il figlio di Arpago fu da lui, lo uccise, lo squartò in tanti
pezzi e ne fece cucinare le carni una parte lessate e una parte arrosto e le
tenne pronte. Venne l'ora della cena: si presentarono tutti i convitati fra i
quali Arpago. Davanti agli altri e allo stesso Astiage furono imbandite mense
ricolme di carne di montone, invece ad Arpago furono servite tutte le carni
del figlio, tranne la testa e le mani e i piedi, che stavano a parte celate
in un canestro. Quando Arpago si sentì sazio di cibo, Astiage gli
domandò se le portate erano state di suo gusto e Arpago rispose che
gli erano piaciute molto; allora dei servi, precedentemente istruiti, gli
misero davanti la testa, le mani e i piedi del ragazzo ancora coperte e
standogli di fronte lo invitarono a scoperchiare il piatto e a servirsi
liberamente. Arpago obbedì, scoperchiò il piatto, vide i resti
del figlio: li vide, ma rimase impassibile e riuscì a dominarsi.
Astiage gli chiese se riconosceva l'animale delle cui carni si era cibato e
lui rispose che lo riconosceva e che per lui andava bene ogni cosa che il re
facesse. Dopo aver così risposto, raccolse i resti delle carni e se ne
tornò a casa. E lì, credo, li ricompose e seppellì. 120)
E questa fu la punizione che
Astiage inflisse ad Arpago. Nei confronti di Ciro, rifletté un po' e poi
mandò a chiamare gli stessi Magi che a suo tempo gli avevano
interpretato il sogno; quando furono davanti a lui, Astiage chiese loro di
ripetergli la spiegazione della visione, ed essi ribadirono che il bambino
era destinato a regnare se fosse rimasto in vita e non fosse morto prima. Il
re ribatté: "Il bambino c'è ed è vivo e mentre viveva in
campagna i bambini del suo villaggio lo hanno eletto re: lui si è
comportato esattamente come un vero sovrano: ha creato guardie del corpo,
custodi delle porte, messaggeri e tutto il resto, e ha regnato. E ora tutto
questo, secondo voi, a che cosa porta?" I Magi risposero: "Se il
ragazzo è vivo e ha regnato senza un disegno predisposto, allora per
quanto lo riguarda puoi stare tranquillo e rallegrarti: non regnerà
una seconda volta. Infatti è già successo che alcuni dei nostri
vaticinii si siano risolti in poca cosa e che il contenuto dei sogni abbia
perso ogni sua consistenza". E Astiage concluse: "Anch'io, Magi,
sono quasi del tutto convinto che il sogno si è già realizzato:
questo bambino ha già ricevuto il titolo di re, e dunque non
rappresenta più per me un pericolo. Tuttavia esaminate per bene la
questione e aiutatemi a prendere una decisione che garantisca la massima
sicurezza per la mia casa e per voi stessi". Al che i Magi risposero:
"Sovrano, anche per noi è molto importante che il potere rimanga
ben saldo nelle tue mani, perché se passa a questo ragazzo, che è
Persiano, cade nelle mani di un'altra nazione e noi che, siamo Medi,
diventeremo schiavi e non godremo del minimo prestigio presso i Persiani,
essendo stranieri. Se invece rimani re tu, che sei nostro concittadino, abbiamo
anche noi la nostra parte di potere e riceviamo da te grandi onori.
Perciò è assolutamente nostro interesse vegliare su di te e sul
tuo regno; e ora, se vedessimo qualche motivo per avere paura, te ne
avviseremmo senz'altro. Ma ora, poiché il sogno si è risolto in una
cosa da nulla, da parte nostra abbiamo fiducia e ti consigliamo di fare
altrettanto. Questo ragazzo mandalo lontano dai tuoi occhi, fra i Persiani,
dai suoi genitori". 121)
Astiage fu lieto di udire questo
consiglio, fece chiamare Ciro e gli disse: "Ragazzo, io sono stato
ingiusto con te a causa di un sogno risultato vano, e tu sei vivo perché
così ha voluto il tuo destino. Ora sii contento di andare fra i
Persiani; io ti farò scortare fino là. Là troverai un
padre e una madre ben diversi da Mitradate, il bovaro, e da sua moglie".
122)
Così disse e congedò
Ciro. Ad accogliere Ciro di ritorno nella casa di Cambise c'erano i suoi
genitori i quali, quando seppero chi era, lo salutarono con grande affetto, perché
lo credevano morto subito a suo tempo; e continuavano a chiedergli come fosse
riuscito a salvarsi. E lui raccontò che fino a poco prima era vissuto
nell'errore ignorando ogni cosa e che solo lungo il viaggio era venuto a
conoscenza di tutte le sue vicissitudini; si era sempre creduto figlio di un
mandriano di Astiage, invece, dopo la partenza da Ecbatana, aveva appreso
tutta la verità dai suoi accompagnatori. Raccontò di essere
stato allevato dalla moglie del mandriano e non smetteva di profondersi in
lodi nei suoi confronti: e in tutti i suoi discorsi non parlava che di Cino.
I genitori tennero a mente questo nome e, per dare agli occhi dei Persiani
una coloritura miracolosa alla avvenuta salvezza del fanciullo, misero in
giro la voce che Ciro, esposto, era stato allevato da una cagna. Di qui ebbe
origine questa leggenda. 123)
Poi Ciro si fece adulto ed era il
più coraggioso fra i suoi coetanei e il più benvoluto. Arpago
faceva di tutto per ingraziarselo mandandogli doni, desideroso com'era di
vendicarsi di Astiage: non vedeva come da solo, essendo un comune cittadino,
avrebbe potuto vendicarsi, ma vedeva Ciro crescere e cercava di farselo
alleato, paragonando i gravi torti da entrambi subiti. Già prima si
era dato da fare in questo senso: sfruttando il comportamento odioso di
Astiage nei confronti dei Medi, Arpago, avvicinando ciascuno dei maggiorenti
medi, tentava di convincerli che occorreva deporre Astiage e offrire il regno
a Ciro. Compiute queste manovre, quando si sentì pronto, Arpago volle
esporre il suo piano a Ciro, il quale però viveva in Persia; le strade
erano sotto controllo e perciò, in mancanza di altre soluzioni,
ricorse a un espediente. Si servì di una lepre alla quale aprì
il ventre senza rovinarne il pelo, ma lasciandolo intatto; nel ventre nascose
un messaggio in cui descriveva il suo piano; ricucì il ventre della
lepre che consegnò, insieme con una rete, come se fosse un cacciatore,
al più fidato dei suoi servitori; lo inviò in Persia con
l'ordine di consegnare la lepre a Ciro personalmente e di invitarlo a
sventrare la bestia di sua mano e quando nessuno fosse presente. 124)
Così dunque fu fatto e
Ciro, avuta la lepre, la squarciò; vi trovò dentro la lettera,
la prese e la lesse. Il contenuto del messaggio suonava così:
"Figlio di Cambise, gli dei ti guardano con favore, altrimenti non
saresti mai giunto a tanta fortuna; e allora vendicati di Astiage, il tuo
assassino: se fosse dipeso dai suoi desideri tu saresti morto, se sei vivo lo
devi agli dei e a me. Credo che tu sia a conoscenza ormai da un pezzo di
quello che hanno fatto a te e di quello che ho subito io da parte di Astiage,
per non averti ucciso ma consegnato al mandriano. Tu dunque, se mi darai
ascolto, potrai regnare su tutta la terra su cui ora regna Astiage. Convinci
i Persiani a ribellarsi e marcia contro la Media. E se io sarò
nominato da Astiage generale in capo contro di te, tutto ciò che
vorrai è già tuo. E così sarà pure se viene designato
un altro dei Medi più illustri. Essi saranno i primi a ribellarsi ad
Astiage e a passare dalla tua parte e faranno di tutto per abbatterlo.
Considera che tutto qui è pronto e agisci, ma agisci in fretta". 125)
Apprese queste notizie, Ciro
pensò al modo più accorto per convincere i Persiani alla
rivolta e riflettendo trovò il più opportuno e lo mise in
opera: scrisse quanto serviva al suo scopo in una lettera e convocò
una assemblea dei Persiani. Quindi aprì la lettera e scorrendola
dichiarò che Astiage lo nominava capo dei Persiani: "Ora,
Persiani, - disse - vi invito a presentarvi qui ciascuno con una falce".
Proprio questo fu l'ordine di Ciro. Le tribù persiane sono numerose;
Ciro convocò e indusse a ribellarsi ai Medi solo quelle a cui fanno
capo poi tutti i Persiani: Pasargadi, Marafi e Maspi. Fra questi i più
nobili sono i Pasargadi, ai quali appartiene anche la famiglia degli
Achemenidi, da dove provengono i re discendenti di Perseo. Altri Persiani
sono i Pantialei, i Derusiei, i Germani; si tratta di tribù tutte dedite
all'agricoltura, le rimanenti invece sono nomadi: i Dai, i Mardi, i Dropici,
i Sagarti. 126)
Quando furono tutti presenti con
in mano la falce, allora Ciro ordinò loro di andare a falciare prima
di sera un terreno che si trovava lì in Persia, tutto coperto di
sterpi ed esteso per un quadrato di 18 o 20 stadi di lato. I Persiani
compirono la fatica ordinata e Ciro diede loro una seconda disposizione:
dovevano presentarsi la mattina seguente dopo aver fatto il bagno. Nel
frattempo Ciro radunò tutte le greggi di capre e di pecore e tutte le
mandrie di suo padre, le fece macellare e cucinare, pronto ad ospitare la
massa di Persiani, e vi aggiunse vino e cibarie, tra i più squisiti.
La mattina dopo Ciro sistemò su di un prato i Persiani venuti e
offrì loro un grande banchetto. Quando ebbero finito di mangiare Ciro
domandò se preferivano il trattamento attuale o quello del giorno
prima. Ed essi risposero che c'era una gran bella differenza: il giorno prima
gli erano toccati solo guai, al presente invece solo cose belle. Ciro colse
al volo queste parole e, manifestando la sua intenzione, disse:
"Persiani, dipende proprio da voi: se volete darmi ascolto vi attendono
questi e molti altri piaceri e non conoscerete più fatiche da schiavi;
se invece non volete obbedirmi vi attendono innumerevoli fatiche pari a
quella di ieri. Seguite me, dunque, e sarete liberi. Io credo di essere nato
col divino soccorso della sorte per condurre con le mie mani questa impresa e
ritengo che voi siate uomini per nulla inferiori ai Medi, né in guerra né in
nessun altro campo. Questa è la realtà dei fatti e ora voi
ribellatevi contro Astiage al più presto". 127)
I Persiani, avendo trovato un
capo, furono ben lieti di lottare per la libertà: già da tempo
non tolleravano più di essere comandati dai Medi. Astiage, come seppe
dei preparativi di Ciro, mandò un messaggero a convocarlo, ma Ciro
ordinò al messaggero di riferire ad Astiage che sarebbe arrivato da
lui prima di quando Astiage stesso avrebbe desiderato. Udita tale risposta,
Astiage mise in armi tutti i Medi e nominò loro comandante Arpago,
dimenticando, quasi fosse accecato da un dio, tutto il male che gli aveva
fatto. Quando i Medi scesero in campo e si scontrarono con i Persiani, alcuni
di loro combatterono, quanti non erano a parte della congiura, altri
passarono dalla parte dei Persiani, i più scelsero la strada della
viltà e si dispersero. 128)
Non appena Astiage venne a sapere
che l'esercito medo si era vergognosamente dissolto, esclamò con tono
di minaccia per Ciro: "Nonostante tutto Ciro non potrà
rallegrarsene!" Disse così e per prima cosa fece impalare quei
Magi interpreti di sogni che gli avevano consigliato di risparmiare Ciro, poi
armò tutti i Medi rimasti in città, giovani e vecchi. Li
guidò fuori delle mura e con loro attaccò i Persiani, ma fu
sconfitto: Astiage stesso fu catturato e perse i Medi che aveva fatto
scendere in campo. 129)
Allora Arpago piazzatosi di fronte
ad Astiage, ormai prigioniero, lo derideva e lo beffeggiava, con parole che
potessero ferirgli il cuore: in particolare, in cambio del banchetto che gli
aveva offerto con le carni del figlio, gli chiedeva come trovasse la
schiavitù dopo essere stato re. Astiage guardandolo in faccia gli
domandò se considerava opera sua l'impresa di Ciro; al che Arpago
rispose che era stato lui a scrivere a Ciro, e che quindi riteneva a ragione
opera sua quell'impresa. Allora Astiage gli dimostrò a rigor di logica
che era l'uomo più imbecille e più colpevole del mondo: il
più imbecille perché potendo diventare re lui stesso, se tutto davvero
era accaduto grazie a lui, aveva rimesso il potere nelle mani di un altro; e
il più colpevole perché a causa di una cena aveva reso schiavi i Medi:
se proprio doveva affidare a qualcun altro il regno e non tenerlo nelle
proprie mani sarebbe stato più giusto trasmetterlo a un Medo e non a
un Persiano; ora invece i Medi senza averne alcuna colpa da padroni erano
diventati schiavi, mentre i Persiani, che prima erano schiavi dei Medi, erano
diventati ora i loro padroni. 130)
Astiage dunque fu spodestato dal
trono dopo 35 anni di regno e i Medi, a causa della sua crudeltà,
piegarono il capo davanti ai Persiani; essi avevano mantenuto per 128 anni la
sovranità sui territori asiatici dell'alto corso dell'Alis meno il
periodo del predominio scita. Molto più tardi si pentirono del loro
antico comportamento e insorsero contro Dario; ma dopo essersi ribellati,
conobbero la sconfitta sul campo e vennero nuovamente assoggettati. I
Persiani e Ciro, sollevatisi contro i Medi al tempo di Astiage, furono da
allora i padroni dell'Asia. Ciro non si accanì ulteriormente contro
Astiage e lo tenne presso di sé fino a quando morì. Così Ciro
nacque e fu allevato e così ottenne il regno: in seguito, come ho
già raccontato, sottomise Creso, che aveva dato lui l'avvio alle
ingiustizie; e quando lo ebbe sottomesso estese la propria egemonia su tutta
l'Asia. 131)
Io so per averlo constatato di
persona che presso i Persiani sono in vigore le seguenti usanze: non è
loro consuetudine erigere statue degli dei o templi o altari e anzi accusano
di stoltezza quanti lo fanno; a mio parere ciò si spiega perché non
hanno mai pensato, come i Greci, che gli dei abbiano figura umana. Essi di
solito offrono sacrifici a Zeus salendo sulle montagne più alte; e
chiamano Zeus l'intera volta del cielo. Sacrificano al sole, alla luna, alla
terra, al fuoco, all'acqua e ai venti. Queste sono le sole divinità cui
dedicano offerte fin dalle origini; più tardi hanno appreso dagli
Assiri e dagli Arabi a compiere sacrifici anche a Urania. Gli Assiri chiamano
questa dea Afrodite Militta, gli Arabi la chiamano Alilàt e i Persiani
Mitra. 132)
Ed ecco come si svolge presso i
Persiani il rito di sacrificio agli dei or ora ricordati: quando devono fare
la loro offerta non costruiscono altari e non accendono il fuoco; non
praticano la libagione, non usano flauti, né bende sacre né grani d'orzo
salati. Chi voglia compiere sacrifici a uno di quegli dei conduce la vittima
in un luogo puro, si lega intorno alla tiara una coroncina, di mirto per lo
più, e invoca il dio. Non è lecito pregando chiedere vantaggi
per sé personalmente: chi invoca del bene lo fa per tutti i Persiani e per il
re; lui stesso ovviamente risulta compreso fra tutti i Persiani. Quando poi
ha tagliato a pezzetti le carni della vittima e le ha bollite, le depone
tutte su un tappeto d'erba la più tenera possibile (per lo più
trifoglio) da lui precedentemente preparato; dopo che le ha ben sistemate, un
Mago lì presente canta una teogonia, come essi stessi definiscono la
formula dell'invocazione; si noti che essi non compiono mai un sacrificio se
non è presente un Mago. Il sacrificante si trattiene un po' di tempo:
quindi si riporta via le carni che usa poi come meglio gli aggrada. 133)
Fra tutti i giorni dell'anno
è loro costume onorare particolarmente quello del compleanno: in
questa circostanza ritengono giusto mangiare con più abbondanza che
negli altri giorni: i più benestanti si fanno servire un vitello, un
cavallo, un cammello e un asino cotti al forno tutti interi: i poveri,
invece, si cucinano animali domestici di taglia minore. In generale non hanno
molti piatti principali, ma usano molto i contorni, distribuiti per tutto il
pasto; per questo i Persiani dicono che i Greci hanno ancora appetito quando
smettono di mangiare, perché non si fanno servire dopo il pranzo nessuna
leccornia: altrimenti, aggiungono, non smetterebbero di mangiare. Per il vino
i Persiani hanno una vera passione. A loro è vietato vomitare e
orinare di fronte ad altri; e rispettano accuratamente questa norma, ma hanno
l'abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza;
le decisioni eventualmente prese vengono riproposte il giorno seguente, da
sobri, dal padrone della casa in cui si trovano a discutere: se le approvano
anche da sobri le confermano altrimenti le lasciano cadere. Se la prima
decisione avviene quando sono lucidi, la ridiscutono da ubriachi. 134)
Quando due Persiani si incontrano
per strada allora si può stabilire se sono di pari condizione: infatti
in questo caso invece di salutarsi, si baciano sulla bocca; se però
uno dei due è di condizione appena inferiore, si baciano sulle guance;
se il divario di rango è notevole allora l'inferiore si getta ai piedi
dell'altro e si prosterna. Dopo se stessi, fra tutti stimano in primo luogo i
popoli insediati più vicini a loro, poi quelli subito oltre e così
via, proporzionando la stima alla distanza: si considerano da ogni punto di
vista gli uomini migliori, mentre gli altri, pensano, si attengono alla
virtù in misura inversamente proporzionale: e perciò quelli che
abitano più lontano da loro sarebbero i peggiori. All'epoca della
sovranità dei Medi esisteva un criterio gerarchico fra le varie
popolazioni: i Medi dominavano su tutti i popoli e in particolare sui
più vicini; questi a loro volta sui propri confinanti e così
via; è lo stesso criterio in base al quale i Persiani attribuiscono la
loro stima: ogni popolazione prevaleva sull'altra dominandola ed esercitando
su di essa un diritto di tutela. 135)
Quello persiano è il popolo
più di ogni altro disposto ad accogliere usanze straniere: tanto
è vero che indossano vestiti medi, trovandoli più belli dei
propri, e in guerra portano corazze egiziane. Quando vengono a sapere di
qualche usanza piacevole, da qualunque parte provenga, subito la adottano:
per esempio hanno imparato dai Greci a praticare l'amore con gli adolescenti.
Ogni Persiano può sposare legalmente molte donne e ancora più
numerose sono le concubine che si procura. 136)
Dimostra una autentica
virtù virile chi, oltre ad essere un buon combattente, mette al mondo
molti figli. Annualmente il re invia un premio a chi ne ha messi al mondo di
più; si ritiene che il numero sia forza. Ai loro bambini, da quando
hanno cinque anni fino ai venti, insegnano tre sole cose: cavalcare, tirare
con l'arco e dire la verità. Prima dei cinque anni il bambino non si
presenta mai al cospetto del padre ma vive assieme alle donne. Fanno questo
perché, se il bambino muore nel periodo dell'allevamento, il padre non ne
debba soffrire. 137)
Io approvo questa usanza e ne
approvo anche un'altra: per una sola colpa neppure il re può mettere a
morte qualcuno; e nessun altro Persiano può recare un danno
irreparabile a uno dei suoi schiavi per una sola colpa; solo quando si
è ben riflettuto e si è stabilito che i torti sono più
numerosi e più rilevanti dei servigi, allora si lascia libero campo
alla collera. Sostengono che nessuno ancora ha ucciso il proprio padre o la
propria madre: esaminando tutti i casi di questo tipo già verificatisi,
si giungerebbe inevitabilmente a concludere che gli assassini erano figli
supposti o adulterini; essi ritengono inverosimile che un autentico genitore
possa morire per mano del proprio figlio. 138)
Presso i Persiani delle cose che
non è lecito fare non è lecito neppure parlare. La cosa
più vergognosa è considerata la menzogna; secondariamente avere
debiti, e ciò per molte e svariate ragioni ma soprattutto perché chi
ha un debito, dicono, necessariamente si troverà anche a mentire. Il
cittadino colpito dalla lebbra o dal morbo bianco si tiene lontano dalla
città ed evita il contatto con gli altri Persiani. Secondo loro soffre
di queste malattie chi ha commesso una colpa nei confronti del Sole.
Scacciano dal paese ogni straniero affetto da tali piaghe e molti pure le
colombe bianche, adducendo la medesima ragione. Evitano di orinare e di
sputare in un fiume e neppure vi si sciacquano le mani o permettono che un
altro lo faccia; per i fiumi hanno un enorme rispetto religioso. 139)
Ed ecco un'altra
particolarità, sfuggita agli stessi Persiani ma non a noi: i loro
nomi, che sono adeguati alle qualità fisiche e a una idea di
magnificenza, finiscono tutti con la stessa lettera, quella chiamata
"san" dai Dori e "sigma" dagli Ioni. Se si indaga in
questo senso, si trova che i nomi dei Persiani terminano tutti nella stessa
maniera, senza eccezioni. 140)
Tutte queste notizie posso
fornirle con assoluta sicurezza, perché mi derivano da personale esperienza.
Invece quanto si dice circa il trattamento dei cadaveri è avvolto in
un alone di mistero e non è certo: pare che il cadavere di un Persiano
non venga seppellito prima di essere stato straziato da un cane o da un
uccello; so con certezza che almeno i Magi si comportano così, perché
lo fanno apertamente. Comunque i Persiani cospargono di cera il cadavere e lo
inumano. I Magi sono molto diversi dagli altri uomini e in particolare dai
sacerdoti egiziani; questi infatti ritengono empietà uccidere degli
esseri viventi, tranne quelli destinati al sacrificio rituale, invece i Magi
uccidono con le loro mani qualsiasi animale tranne il cane e l'uomo e lo
fanno con grande impegno eliminando indistintamente formiche e serpenti e
altri animali terrestri o volatili. Ma lasciamo pure questa usanza come stava
quando ebbe origine e riprendiamo il filo del nostro racconto. 141)
Gli Ioni e gli Eoli, non appena i
Lidi furono sottomessi dai Persiani, mandarono a Sardi dei messaggeri, presso
Ciro: desideravano essere sudditi di Ciro alle stesse condizioni di cui
godevano sotto Creso. Ciro ascoltò le loro proposte; poi
cominciò a raccontare un aneddoto: narrò di un suonatore di
flauto che aveva visto in mare dei pesci e che suonava il suo flauto convinto
di attirarli verso la terra ferma: deluso nelle sue speranze prese una rete,
la lanciò, trascinò a riva una grande quantità di pesci;
e guardandoli guizzare disse loro: "Smettetela di danzare: quando io
suonavo il flauto non siete mica voluti uscir fuori a ballare!" Ciro
raccontò questo aneddoto agli Ioni e agli Eoli perché gli Ioni, tempo
prima, invitati da Ciro a ribellarsi contro Creso, non lo avevano ascoltato,
mentre allora, a cose fatte, erano pronti a seguirlo. Chiaramente Ciro
rispose in questo modo perché serbava rancore. Quando gli Ioni udirono la
risposta riferita nelle varie città, tutti fortificarono le proprie
mura e si riunirono a Panionio; tutti tranne i Milesi, i soli con cui Ciro
aveva stipulato un accordo alle stesse condizioni di Creso. Gli altri decisero
di comune accordo di mandare messaggeri a Sparta con una richiesta di
soccorso. 142)
Questi Ioni, quelli a cui
appartiene il Panionio, di tutti gli uomini a nostra conoscenza sono quelli
che hanno edificato le loro città nei luoghi migliori del mondo per
bellezza di cielo e condizioni climatiche; a nord e a sud della Ionia , come
a oriente e a occidente, la situazione è assai differente: più
a nord c'è la morsa del freddo e della pioggia, più a sud del
caldo e della siccità. Questi Ioni non parlano la stessa lingua,
bensì quattro varietà di dialetto. Mileto è la
città più meridionale, poi vengono Miunte e Priene: tutte si
trovano nella Caria e adoperano lo stesso dialetto. In Lidia si trovano
Efeso, Colofone, Lebedo, Teo, Clazomene e Focea, che non si servono dello
stesso dialetto delle città sopra nominate, ma che usano fra loro la
stessa parlata. Restano ancora tre città ioniche, di cui due situate
su isole, Samo e Chio, e la terza, Eritre, sul continente. A Chio e a Eritre
parlano lo stesso dialetto, i Sami invece ne usano uno proprio. Ed ecco
quindi i quattro diversi caratteri linguistici. 143)
Fra gli Ioni i Milesi non avevano
motivo di preoccupazione grazie all'accordo stipulato con Ciro e quelli delle
isole stavano tranquilli perché i Fenici non erano sudditi dei Persiani e
perché i Persiani non erano marinai. Gli Ioni d'Asia si separarono dagli
altri Ioni per una semplice ragione; se già tutta la gente greca era
in una condizione di debolezza, gli Ioni costituivano, fra tutti, il gruppo
più debole e il meno importante: e infatti, se si esclude Atene, non
c'era nessuna città degna di nota. Perciò gli altri di quel
ceppo e gli Ateniesi non gradivano l'appellativo di Ioni e cercavano di
evitarlo; e mi pare che ancora adesso molti di loro si vergognino di tale
denominazione. Invece queste dodici città ne erano orgogliose e si
costruirono un santuario riservato a loro che chiamarono Pan-Ionio; e
decisero di non consentire l'accesso al tempio a nessuna altra gente ionica
(del resto mai nessuno chiese di accedervi, ad eccezione degli abitanti di
Smirne). 144)
Allo stesso modo i Dori
dell'attuale territorio della Pentapoli, lo stesso che una volta si chiamava
Esapoli, si guardano bene dall'accettare nel loro santuario Triopico gli
altri Dori confinanti, anzi da sempre escludono da ogni partecipazione al
tempio anche quelli di loro che ne abbiano violato le regole. Ai giochi in
onore di Apollo Triopio avevano posto anticamente come premio per i vincitori
dei tripodi di bronzo, che però non potevano essere portati via da chi
se li fosse guadagnati, ma dovevano essere dedicati al dio, lì sul
posto. Una volta accadde che un uomo di Alicarnasso, di nome Agasicle, dopo
aver vinto non rispettò la norma: si portò via il tripode e lo
fissò al muro di casa sua. Per questa ragione le cinque città,
cioè Lindo, Ialiso, Camiro, Cos, e Cnido, vietarono l'accesso al
tempio a tutti gli abitanti di Alicarnasso, sesta città dell'Esapoli.
Tale fu il castigo che imposero loro. 145)
A mio parere gli Ioni formarono
dodici città e non vollero aggiungerne altre perché anche prima,
quando vivevano nel Peloponneso, erano divisi in dodici regioni, esattamente
come adesso il territorio degli Achei, che a suo tempo scacciarono gli Ioni,
è suddiviso in dodici parti: Pellene è la prima, a partire da
Sicione, poi Egira ed Ege, in cui scorre il Crati, dal flusso perenne e dal
quale ha preso nome l'omonimo fiume italiano, poi Bura ed Elice, in cui
ripararono gli Ioni sconfitti in battaglia dagli Achei; poi ancora Egio,
Ripe, Patre, Fare, Oleno, in cui scorre il grande fiume Piro, nonché Dime e
Tritea, l'unica città situata nell'interno. Questi sono i dodici
distretti degli Achei, che una volta appartenevano agli Ioni. 146)
Ed ecco perché anche gli Ioni
d'Asia costruirono dodici città: è una grande sciocchezza
definire costoro più Ioni degli altri Ioni o di nascita più
elevata: una parte non piccola di loro sono Abanti, provenienti dall'Eubea,
che non hanno niente a che vedere con gli Ioni, neppure per il nome; e
inoltre a loro si sono mescolati dei Mini di Orcomeno, dei Cadmei, dei
Driopi, dei Focesi dissidenti; e Molossi, Pelasgi d'Arcadia, Dori di Epidauro
e molte altre popolazioni. Quelli partiti dal Pritaneo di Atene, che
ritenevano di essere i più nobili fra gli Ioni, non portarono con sé
le donne nella nuova colonia, ma si procurarono mogli in Caria, uccidendone i
padri. A causa di questo delitto tali donne si imposero come regola con tanto
di giuramento, e la trasmisero alle figlie, di non mangiare mai in compagnia
dei mariti e di non chiamarli mai per nome; e ciò perché avevano
ucciso i loro padri e mariti e figli e, dopo, se le erano sposate. Questo
è quanto avvenne a Mileto. 147)
Come re una parte degli Ioni
d'Asia si scelse i Lici discendenti di Glauco figlio di Ippoloco, una parte i
Cauconi di Pilo discendenti di Codro figlio di Melanto, e altri si scelsero
re di entrambe le stirpi. E visto che sono tanto affezionati al loro nome,
più di tutti gli altri Ioni, consideriamoli dunque gli Ioni puri. In
realtà sono Ioni tutti quelli che vengono da Atene e che celebrano la
festa delle Apaturie; la celebrano tutti tranne gli abitanti di Efeso e di
Colofone, gli unici a non celebrarla col pretesto di un omicidio. 148)
Il Panionio è un luogo
sacro di Micale, rivolto verso nord e dedicato per comune accordo dagli Ioni
a Posidone Eliconio. Micale è un promontorio del continente che si
stende verso occidente in direzione dell'isola di Samo, sul quale gli Ioni
delle varie città si radunavano per celebrare la loro festa, chiamata
Panionie. Non solo le feste degli Ioni, ma proprio tutte le feste della
Grecia intera hanno un nome terminante con la medesima lettera, come succede
per i nomi dei Persiani. 149)
Queste sono le città
ioniche; le eoliche sono Cuma, detta anche Friconide, Larissa, Neontichos,
Temno, Cilla, Nozio, Egiroessa, Pitane, Egee, Mirina, Grinia: ecco le undici
antiche città eoliche; un'altra loro città, Smirne, fu staccata
ad opera degli Ioni; infatti erano dodici anche gli insediamenti eolici sul
continente. Gli Eoli si trovarono a colonizzare una regione ancora più
fertile di quella degli Ioni, ma che quanto a clima non regge il paragone. 150)
Gli Eoli persero Smirne
così. Avevano accolto a Smirne dei cittadini di Colofone sconfitti in
una lotta intestina e perciò messi al bando dalla patria. Più
tardi i profughi di Colofone aspettarono che gli abitanti di Smirne
celebrassero fuori delle mura una festa in onore di Dioniso e, chiudendone le
porte, si impadronirono della città. Poiché tutti gli Eoli erano
accorsi a difendere gli interessi degli abitanti di Smirne, vennero a un
accordo: gli Eoli avrebbero abbandonato la città se gli Ioni avessero
restituito almeno le loro masserizie. Così fu fatto: le altre undici
città si divisero gli ex abitanti di Smirne, conferendo loro la piena
cittadinanza. 151)
Queste insomma sono le
città eoliche continentali, eccetto quelle situate sull'Ida, che vanno
considerate a parte. Di quante si trovano nelle isole cinque si dividono il
territorio di Lesbo (la sesta città abitata di Lesbo, Arisba, la
ridussero in schiavitù i Metimni, benché fossero del medesimo sangue);
a Tenedo vi è una sola città, una sola anche nelle cosiddette
Cento Isole. Gli abitanti di Lesbo e di Tenedo non avevano nulla da temere,
esattamente come le popolazioni ioniche delle isole. Alle altre città
eoliche piacque di seguire la sorte degli Ioni, dovunque questi le avessero
condotte. 152)
I messi degli Ioni e degli Eoli
quando giunsero a Sparta (tutto fu fatto in gran fretta) scelsero a parlare
per tutti il rappresentante di Focea, il cui nome era Pitermo. Costui
indossò una veste di porpora affinché gli Spartiati, informati del
particolare, accorressero in numero maggiore; davanti a loro parlò a
lungo, chiedendo aiuto per gli Ioni. Ma gli Spartani non gli diedero retta e
decisero di non inviare soccorsi agli Ioni. I messaggeri degli Ioni si
ritirarono. Gli Spartani, dopo averli allontanati, inviarono tuttavia degli
uomini, su di una pentecontere, immagino come osservatori delle vicende di
Ciro e della Ionia. Arrivati a Focea, da lì questi uomini inviarono a
Sardi il più stimato di loro, che si chiamava Lacrine, perché
riferisse a Ciro un messaggio degli Spartani: Ciro non doveva toccare nessuna
città della Grecia, perché essi non l'avrebbero tollerato. 153)
Si dice che quando l'araldo ebbe
riferito il suo messaggio Ciro chiese ai Greci che erano presenti che uomini
fossero e quanti questi Spartani per mandargli un simile avvertimento;
ottenuta risposta, si rivolse all'ambasciatore degli Spartiati: "Io non
ho mai avuto paura di gente che nella propria città, al centro, ha
riservato uno spazio, in cui riunirsi per ingannarsi a vicenda con dei
giuramenti. Questa gente, se resto vivo e in buona salute, non avrà da
ciarlare delle disgrazie degli Ioni, ma delle proprie". Ciro pronunciò
queste parole sprezzanti nei confronti di tutti i Greci perché essi compiono
i loro acquisti e le loro vendite sulla piazza principale adibita a mercato;
invece i Persiani non hanno l'abitudine di servirsi di piazze per il mercato,
anzi non hanno mercati del tutto. In seguito Ciro affidò Sardi al
Persiano Tabalo, e al Lido Pattia il compito di trasportare l'oro di Creso e
dei Lidi; poi partì alla volta di Ecbatana, portando con sé Creso e
quasi senza più tener conto, inizialmente, dell'esistenza degli Ioni.
Aveva problemi con Babilonia, i Battri, i Saci e gli Egiziani: contro costoro
decise di guidare personalmente l'esercito, contro gli Ioni invece di inviare
un altro generale. 154) Appena Ciro si fu
allontanato da Sardi, Pattia sollevò i Lidi contro Tabalo e contro di
lui: scese verso il mare e, visto che disponeva di tutto l'oro di Sardi,
assoldò mercenari e convinse le popolazioni della costa a schierarsi
con lui. Poi mosse il suo esercito contro Sardi e strinse d'assedio Tabalo
che si asserragliò sull'acropoli. 155)
Ciro apprese questi fatti mentre
era in viaggio e disse a Creso: "Creso, come andranno a finire tutte
queste faccende? I Lidi a quanto pare non smetteranno di procurarmi e di
procurarsi dei problemi. Mi chiedo se non sarebbe molto meglio ridurli
definitivamente in schiavitù: io ho l'impressione di essermi
comportato come uno che abbia ucciso il padre e risparmiato i figli. Perché
ho catturato e mi porto via te, che sei più che un padre per i Lidi, e
la città l'ho rimessa nelle loro stesse mani; e poi mi meraviglio se
mi si ribellano". Ciro diceva quanto pensava e Creso, temendo che
volesse distruggere Sardi, gli rispose: "Sire, il tuo discorso è
logico, però non abbandonarti assolutamente all'ira, non distruggere una
antica città che non ha alcuna colpa delle vicende passate e presenti;
tutto quanto è accaduto in passato fu opera mia e con la mia persona
ne sconto la pena. Ciò che accade ora è colpa di Pattia, a cui
tu hai affidato Sardi, e sia lui, allora, a pagarne le conseguenze. Perdona i
Lidi e fai in modo che non possano più ribellarsi e costituire un
pericolo per te. Mandagli l'ordine di non tenere armi da guerra, imponigli di
indossare tuniche sotto le vesti normali e di calzare coturni; invitali a insegnare
ai loro figli a suonare la cetra e gli altri strumenti musicali e a fare i
mercanti. In questo modo, Signore, tu li vedrai presto trasformati da uomini
in donne e non dovrai più temere una loro ribellione". 156)
Creso suggeriva queste misure
perché le trovava per i Lidi preferibili al rischio di essere venduti come
schiavi; sapeva bene che senza proporre un valido rimedio non avrebbe
dissuaso Ciro dalla sua idea; e aveva paura che i Lidi, quand'anche
l'avessero scampata per il momento, prima o poi segnassero la propria
condanna ribellandosi ai Persiani. Ciro soddisfatto dei suggerimenti
lasciò cadere la sua ira e disse a Creso che lo aveva convinto.
Convocò il Medo Mazare e lo incaricò di ordinare ai Lidi quanto
gli aveva indicato Creso: e in più gli ingiunse di ridurre in
schiavitù quanti altri avevano marciato su Sardi con i Lidi e di
condurre davanti a lui Pattia, a ogni costo, e vivo. 157)
Ciro diede queste disposizioni
mentre era in viaggio; quindi ripartì verso le sedi persiane; Pattia,
informato che non lontano c'era un esercito in marcia contro di lui,
atterrito, corse a rifugiarsi a Cuma. Mazare il Medo spinse contro Sardi
tutta la parte dell'esercito di Ciro di cui disponeva e, non trovandovi più
gli uomini di Pattia, per prima cosa costrinse i Lidi a eseguire gli ordini
di Ciro; e fu proprio in seguito a queste imposizioni che i Lidi cambiarono
completamente il loro sistema di vita. Poi Mazare inviò messaggeri a
Cuma con l'ordine di consegnare Pattia; i cittadini di Cuma stabilirono di
rimettersi, per consiglio, al dio dei Branchidi; là esisteva da lungo
tempo un oracolo al quale tutti gli Ioni e gli Eoli erano soliti ricorrere:
questo luogo si trova nel territorio di Mileto sopra il porto di Panormo. 158)
Gli abitanti di Cuma mandarono i
loro incaricati presso i Branchidi e chiesero come avrebbero dovuto regolarsi
nei confronti di Pattia per fare cosa gradita agli dei; questo chiedevano, e
il responso fu di consegnare Pattia ai Persiani. Quando la risposta del dio
fu riferita ai Cumani, essi si apprestarono alla estradizione. Già il
popolo si era deciso in tal senso, quando uno dei più ragguardevoli
cittadini, Aristodico figlio di Eraclide, non credendo al responso e convinto
che gli incaricati non dicessero la verità, trattenne i Cumani dal
farlo fino a quando altri messi, tra cui lo stesso Aristodico, non fossero
andati una seconda volta a consultare il dio sulla sorte di Pattia. 159)
Quando poi questa delegazione
giunse presso i Branchidi, fu Aristodico fra tutti a interrogare l'oracolo,
dicendo: "Signore, presso di noi venne il lido Pattia, come supplice,
fuggendo la morte violenta che gli riservavano i Persiani; ora essi lo
reclamano ordinando ai Cumani di consegnarlo. E noi, pur temendo la potenza
persiana, non abbiamo osato consegnarlo fino a quando non fosse fermamente
chiaro il tuo responso su ciò che dobbiamo fare". Questa fu la
sua domanda; e il dio diede nuovamente la stessa risposta, esortandoli a consegnare
Pattia ai Persiani. Di fronte a queste parole Aristodico agì come
aveva premeditato: girando intorno al tempio, scacciò i passeri e
tutte le altre specie di uccelli che vi avevano nidificato. E mentre lui
faceva così dai penetrali del tempio, si dice, si levò una voce
all'indirizzo di Aristodico: "Come osi fare questo, - diceva - maledetto
sacrilego? Scacci i miei supplici dal mio tempio?" Aristodico, per nulla
turbato, rispose: "Signore, e così tu assicuri il tuo aiuto ai
supplici tuoi, e poi ordini ai Cumani di consegnare il loro?" E
l'oracolo ribatté: "Sì lo ordino, perché voi, comportandovi da
empi, possiate andare in rovina più presto: così non verrete
più qui in futuro a chiedere all'oracolo se sia il caso di consegnare
dei supplici". 160) Questa risposta fu riportata ai Cumani; quando la
conobbero, essi decisero di mandare Pattia a Mitilene, non volendo né
riconsegnarlo, e quindi rovinarsi, né tenerlo presso di loro, e quindi subire
un assedio. Mazare mandò dei messaggi agli abitanti di Mitilene, i
quali si dichiararono pronti a consegnare Pattia in cambio di un adeguato
riscatto; non so precisarne con esattezza l'entità, perché poi la cosa
andò in fumo. Infatti, appena i Cumani appresero le intenzioni dei
Mitilenesi, mandarono subito una imbarcazione a Lesbo e trasferirono Pattia a
Chio. Là a consegnarlo furono gli abitanti dell'isola che lo
strapparono via dal tempio di Atena protettrice della città: ottennero
in compenso il territorio di Atarneo, che si trova nella Misia, di fronte a
Lesbo. I Persiani, dopo aver ricevuto Pattia, lo tenevano sotto sorveglianza
con il proposito di consegnarlo a Ciro. Per un periodo di tempo non breve
nessun cittadino di Chio offrì ad alcun dio grani d'orzo di Atarneo né
preparò focacce col frumento proveniente da là: tutti i
prodotti di quella regione erano esclusi da qualsiasi sacro rito. 161)
E così i Chii consegnarono
Pattia; Mazare più tardi marciò contro le popolazioni che
avevano partecipato all'assedio di Tabalo: ridusse in schiavitù la
cittadinanza di Priene e percorse l'intera pianura del Meandro abbandonandola
ai saccheggi del suo esercito, e lo stesso fece con Magnesia. Subito dopo
cadde ammalato e morì. 162)
Gli succedette alla guida
dell'esercito Arpago, anche lui Medo, quello stesso Arpago che il re dei Medi
Astiage aveva invitato all'orribile banchetto e che poi aveva aiutato Ciro a
impadronirsi del regno. Costui, nominato da Ciro comandante dell'esercito,
quando arrivò nella Ionia, cominciò a espugnare le città
servendosi di terrapieni: ogni volta, infatti, costringeva i nemici dentro le
loro mura, faceva ammassare enormi quantitativi di terra contro gli spalti e
poi li assaltava. 163)
La prima città della Ionia
di cui si impadronì fu Focea. Questi Focei furono i primi Greci a
compiere lunghe navigazioni: furono loro a scoprire l'Adriatico, la Tirrenia,
l'Iberia e la regione di Tartesso: non navigavano con grandi navi da carico
ma con delle penteconteri. Giunti a Tartesso strinsero amicizia con il re
locale, che si chiamava Argantonio e che fu signore di Tartesso per ottanta
anni, vivendo in tutto per 120 anni. I Focesi divennero così amici
suoi che egli li invitò prima ad abbandonare la Ionia e a stabilirsi
nel suo paese, ovunque volessero; in seguito, non essendo riuscito a
convincerli e avendo saputo com'era cresciuta la potenza dei Medi,
regalò denaro ai Focesi perché potessero munire di fortificazioni la
loro città; e il regalo fu molto generoso, tanto è vero che il
perimetro delle mura di Focea si sviluppa per non pochi stadi; ed esse sono
tutte costituite da grandi blocchi di pietra ben connessi tra loro. 164)
Fu così che i Focei
costruirono le loro mura; Arpago fece avanzare il suo esercito e pose l'assedio;
ma gli sarebbe bastato, proclamò, che i Focei abbattessero anche uno
soltanto dei bastioni del muro e consacrassero anche una sola casa. I Focei,
non tollerando la schiavitù, dissero che volevano discutere tra loro
per un giorno; poi avrebbero dato la risposta; per l'intanto invitarono
Arpago a ritirare l'esercito da sotto le mura per il periodo di tempo in cui
deliberavano. Arpago rispose di sapere bene quanto stavano per fare: tuttavia
avrebbe permesso loro di consultarsi. E dunque mentre Arpago portava il suo
esercito lontano dalle mura, i Focesi misero in mare delle penteconteri, vi
imbarcarono le donne, i bambini e tutte le loro masserizie e vi aggiunsero le
statue e le offerte votive che poterono trarre dai templi: a eccezione degli
oggetti in bronzo e in pietra e dei dipinti caricarono tutto il resto, si
imbarcarono sulle navi e fecero rotta alla volta di Chio. I Persiani
occuparono una Focea completamente deserta. 165)
I Focei pensavano di acquistare le
isole chiamate Enusse ma i Chii non gliele vollero vendere per paura che
diventassero un emporio e che la loro isola venisse tagliata fuori dai
commerci; di conseguenza si diressero a Cirno. Nell'isola di Cirno venti anni
prima in base ad un oracolo avevano fondato una città chiamata Alalia.
A quell'epoca ormai Argantonio era morto. Nel dirigersi verso Cirno, in un
primo momento, fecero una puntata fino a Focea dove uccisero la guarnigione
persiana a cui Arpago aveva affidato il presidio della città; poi,
compiuta questa impresa, pronunciarono durissime maledizioni contro chi di
loro avesse abbandonato la spedizione. Inoltre gettarono in mare un blocco
rovente di ferro e giurarono che non avrebbero fatto ritorno a Focea prima
che questo blocco di ferro fosse riemerso a galla. Ma mentre puntavano su
Cirno più di metà di loro fu presa dalla nostalgia e dal
rimpianto della città e delle abitudini del loro paese; e così
violarono i giuramenti e tornarono indietro voltando la prua verso Focea.
Quelli che rispettarono il giuramento proseguirono il viaggio prendendo il
largo dalle isole Enusse. 166)
Giunti a Cirno, per cinque anni
coabitarono con le genti che vi erano arrivate prima di loro e vi edificarono
dei templi. Ma visto che derubavano e depredavano tutte le popolazioni
limitrofe, Tirreni e Cartaginesi di comune accordo mossero contro di loro,
entrambi con una flotta di sessanta navi. Anche i Focesi equipaggiarono delle
imbarcazioni, in numero di sessanta, e affrontarono la flotta avversaria
nelle acque del mare chiamato di Sardegna. Si scontrarono in una battaglia
navale e ai Focesi toccò una vittoria cadmea; infatti delle loro navi
quaranta furono affondate e le restanti venti risultarono inutilizzabili,
avendo i rostri torti all'indietro. Allora navigarono fino ad Alalia,
imbarcarono le donne, i bambini e tutto ciò che le navi potevano
trasportare e abbandonarono Cirno dirigendosi verso Reggio. 167)
I Cartaginesi e i Tirreni si spartirono
gli uomini delle navi affondate: gli abitanti di Agilla, ai quali
toccò il gruppo più numeroso, li condussero fuori città
e li lapidarono. Più tardi ad Agilla ogni essere che passava accanto
al luogo in cui giacevano i Focei lapidati diventava deforme, storpio o paralitico,
fossero pecore o bestie da soma o uomini, senza distinzione. Allora gli
Agillei, desiderosi di rimediare alla propria colpa, si rivolsero all'oracolo
di Delfi. E la Pizia impose loro un obbligo che adempiono ancora oggi:
infatti offrono imponenti sacrifici e bandiscono giochi ginnici ed equestri
in onore dei morti. Ed ecco cosa toccò a questi Focei; quelli invece
fuggiti verso Reggio, muovendo di là si impadronirono di una
città nella terra di Enotria, città oggi chiamata Iela; essi la
colonizzarono dopo aver appreso da un uomo di Posidonia che la Pizia
ordinando loro di "edificare a Cirno" non intendeva riferirsi
all'isola, bensì all'eroe. 168)
Così dunque andarono le
cose riguardo la città ionica di Focea. Vicende molto simili toccarono
anche agli abitanti di Teo. Infatti, quando Arpago espugnò le mura di
Teo col sistema del terrapieno, si imbarcarono tutti sulle loro navi e si
allontanarono facendo rotta verso la Tracia; qui colonizzarono la
città di Abdera. Prima di loro Abdera era stata colonizzata da Timesio
di Clazomene, ma senza trarne vantaggi perché i Traci lo avevano cacciato:
ora è onorato come eroe dai cittadini di Teo stanziatisi ad Abdera. 169)
Focei e Tei furono i soli fra gli
Ioni ad abbandonare la loro patria non potendo tollerare la schiavitù;
gli altri Ioni, eccetto gli abitanti di Mileto, combatterono contro Arpago,
come gli Ioni poi emigrati, e dimostrarono il loro valore battendosi ciascuno
per la propria patria; ma, sconfitti e catturati, restarono ciascuno nel
proprio paese obbedendo agli ordini che ricevevano. Invece i Milesi, come ho
già ricordato, avevano stretto un patto giurato con Ciro e vissero in
pace. Così, per la seconda volta, la Ionia fu asservita. Non appena
Arpago si fu impadronito della Ionia continentale, gli Ioni delle isole,
terrorizzati da quegli avvenimenti, si consegnarono nelle mani di Ciro. 170)
Nonostante le loro
avversità gli Ioni si radunavano ugualmente al Panionio e io so che
una volta Biante di Priene espose a tutti un vantaggiosissimo progetto, che
avrebbe consentito loro, se lo avessero seguito, di raggiungere il più
alto grado di benessere fra i Greci: li esortava a salpare, tutti uniti in
un'unica flotta, via dalla Ionia, a raggiungere la Sardegna e a fondarvi un'unica
città di tutti gli Ioni; in questo modo, liberati dalla
schiavitù, avrebbero vissuto felicemente, insediati nella più
grande di tutte le isole e dominando su altre popolazioni. Invece, se fossero
rimasti nella Ionia, non vedeva più - diceva - speranza di libertà.
Questa fu l'idea di Biante di Priene anche se esposta agli Ioni ormai dopo la
loro disfatta. Ma prima della disfatta, sarebbe risultata utile anche l'idea
di Talete di Mileto, la cui famiglia era di antica origine fenicia: aveva
suggerito di istituire un Consiglio della Ionia, di dargli sede a Teo (visto
che Teo si trova nel centro della Ionia), e che le altre città, pur
restando abitate, venissero considerate alla stregua di demi. Tali progetti
Biante e Talete esposero agli Ioni. 171)
Arpago dopo aver sottomesso la
Ionia compì una spedizione contro la Caria, la Caunia e la Licia,
conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Di questi popoli i Cari erano giunti in
continente provenienti dalle isole: anticamente erano stati sudditi di Minosse
e col nome di Lelegi avevano abitato le isole: non erano costretti a pagare
alcun tributo, per quanto indietro nel tempo io possa risalire con le mie
informazioni; però, ogni volta che Minosse lo richiedeva, gli
fornivano gli equipaggi per le navi. E dal momento che Minosse aveva
sottomesso una regione assai ampia e aveva fortuna in guerra, il popolo dei
Cari era quello tenuto, allora, in maggior prestigio fra tutti. Ai Cari vanno
attribuite tre invenzioni di cui poi si servirono i Greci: per primi insegnarono
a fissare dei pennacchi sugli elmi, scolpirono figure sui loro scudi e
applicarono all'interno di questi delle imbracciature. Fino ad allora i
soldati che abitualmente si armavano di scudo lo reggevano senza
imbracciature, muovendolo per mezzo di cinghie di cuoio portate intorno al
collo e alla spalla sinistra. In seguito, molto tempo dopo, i Cari furono
scacciati dalle isole ad opera dei Dori e degli Ioni e così giunsero
nel continente. Questo è quanto dei Cari raccontano i Cretesi; ma dal
canto loro i Cari non sono d'accordo in proposito: essi ritengono di essere
originari del continente e di avere avuto sempre il medesimo nome di adesso.
Esibiscono come prova l'antico tempio di Zeus Cario a Milasa che appartiene
anche ai Misi e ai Lidi, in quanto parenti dei Cari; perché Lido e Miso,
dicono, erano fratelli di Caro. Misi e Lidi accedono a questo santuario
mentre tutte le popolazioni d'altra origine etnica, pur avendo adottato la
lingua dei Cari, ne sono escluse. 172)
A me pare che autoctone siano le
popolazioni della Caunia, le quali invece sostengono di provenire da Creta. I
Cauni assunsero la lingua dei Cari (o i Cari quella dei Cauni, non saprei
dirlo con esattezza), ma le loro usanze sono assai diverse da quelle degli
altri popoli, Cari compresi. Il loro massimo divertimento consiste
nell'andare a bere in compagnia: lo fanno a gruppi secondo l'età e
l'amicizia, uomini, donne, bambini. Poiché avevano edificato santuari di
divinità straniere, più tardi, quando cambiarono parere e decisero
di venerare soltanto gli dei dei loro padri, tutti i Cauni adulti si armarono
e si diressero in corteo sino ai confini di Calinda, percuotendo l'aria con
le lance e dicendo che stavano scacciando gli dei stranieri. 173)
Queste sono le loro usanze; quanto
ai Lici, essi sono nativi di Creta; anticamente l'intera isola di Creta era
occupata da popolazioni barbare. A Creta scoppiò una contesa per il
regno fra Sarpedonte e Minosse, figli di Europa; qundo riuscì a
prevalere nella lotta per il potere Minosse scacciò Sarpedonte e i
suoi partigiani. Allontanati dal loro paese essi giunsero in Asia nella
regione Miliade: infatti la regione ora abitata dai Lici anticamente era la
Miliade, e i suoi abitanti a quell'epoca si chiamavano Solimi. Fino a quando
Sarpedonte fu il loro re essi conservarono l'antico nome di Termili, col
quale tuttora i Lici vengono chiamati dalle popolazioni confinanti. Ma quando
da Atene giunse fra i Termili, presso Sarpedonte, Lico figlio di Pandione,
scacciato anche lui dal fratello Egeo, col tempo, dal nome di Lico, essi
furono detti Lici. Hanno usanze in parte cretesi in parte carie; ce
n'è una sola tipicamente loro e che non ha assolutamente uguali presso
altri popoli: derivano il nome dalla madre e non dal padre: quando uno chiede
a un altro come si chiami, quello si qualifica col matronimico e precisa la
sua genealogia secondo la linea materna. E se una donna con piena
cittadinanza s'unisce a uno schiavo, i suoi figli sono considerati di alto
lignaggio. Se invece è un uomo ad avere una moglie straniera o una
concubina, fosse pure il più illustre dei cittadini, i suoi figli non
godono del minimo diritto. 174)
I Cari furono asserviti da Arpago
senza aver compiuto alcuna impresa significativa, né i Cari, dico, né tutti
quei Greci che abitano nel loro paese. In effetti anche altre popolazioni vi
sono insediate, per esempio i coloni spartani di Cnido: il loro paese, che si
chiama Triopio, si protende tutto sul mare a partire dal Chersoneso Bibassio:
l'intero territorio, eccetto una piccola parte, è circondato dalle
acque ed è compreso tra il golfo Ceramico a nord e il mare di Sime e
di Rodi a sud: in quel tratto, che misura in larghezza circa cinque stadi, i
cittadini di Cnido volevano scavare un canale al tempo in cui Arpago
sottometteva la Ionia; l'intenzione era di trasformare in isola il loro
paese, tutto compreso al di qua dell'istmo: infatti l'istmo che volevano
tagliare segna proprio la linea di confine tra la Cnidia e il continente. Gli
Cnidi lavoravano con grande impiego di braccia, ma visto che rompendo la
roccia gli operai si ferivano più del normale (e quindi forse per
opera di un dio) in tutte le parti del corpo e specialmente agli occhi,
inviarono degli incaricati a Delfi per chiedere cosa li avversava. E la
Pizia, come essi raccontano, vaticinò come segue in trimetri
giambici:…”Oh non scavate e non munite l’istmo! Non volle fare Zeus di
Cnido un’isola.”… (Non fortificate l'istmo e non scavate un canale. Zeus
avrebbe fatto un'isola se l'avesse voluto). Considerato il responso della
Pizia, gli Cnidi interruppero lo scavo e senza colpo ferire si consegnarono
nelle mani di Arpago, che stava avanzando in forze contro di loro. 175)
Sopra Alicarnasso, nell'interno,
abitavano i Pedasei, alla cui sacerdotessa di Atena cresce una lunghissima
barba ogni volta che a loro o ai loro confinanti sta per accadere qualcosa di
spiacevole: tre volte questo fenomeno si è già verificato.
Unici in tutto il territorio della Caria essi si opposero ad Arpago per
qualche tempo e lo misero in grave difficoltà fortificando il monte
chiamato Lide. Col tempo i Pedasei furono spazzati via. 176)
I Lici, quando Arpago spinse il
suo esercito nella pianura di Xanto, gli uscirono incontro e pur combattendo
in netta inferiorità numerica compirono prodigi di valore; sconfitti,
si asserragliarono nella loro città, radunarono sull'acropoli le
mogli, i figli, i loro beni, i servi e vi appiccarono il fuoco perché
bruciasse tutta. Dopo di che si vincolarono con un giuramento terribile, e
uscirono dalla città lanciandosi contro i nemici: gli Xanti morirono
tutti con le armi in pugno. La maggior parte degli attuali abitanti di Xanto
che ora sostengono di essere Lici sono in realtà forestieri, tranne
ottanta famiglie; queste ottanta famiglie in quella circostanza erano
casualmente lontane dalla città e poterono salvarsi. Fu così
che Arpago occupò Xanto; e in maniera molto simile occupò anche
Cauno, visto che anche i Cauni seguirono per lo più l'esempio dei
Lici. 177)
Le regioni costiere dell'Asia le
mise a ferro e fuoco Arpago; le regioni più interne invece fu Ciro in
persona a devastarle, sottomettendo ogni popolazione, nessuna esclusa. Noi ne
trascureremo la maggior parte per ricordare soltanto quelle che gli diedero
più filo da torcere e che sono le più degne di memoria. 178)
Ciro, una volta impadronitosi di
tutto il continente, si rivolse contro gli Assiri. Nell'Assiria ci sono
certamente molte grandi città, ma la più rinomata e insieme la
più potente, quella dove era stata stabilita la reggia dopo la caduta
di Ninive, era Babilonia; Babilonia è così fatta: giace in una
grande pianura e ha forma quadrangolare e ogni lato è lungo 120 stadi
cosicché il perimetro della città misura in tutto 480 stadi. E se tale
è già l'estensione di Babilonia, la sua bella struttura, poi,
non ha rivali tra le altre città a noi note. Tanto per cominciare la
circonda un fossato largo e profondo, colmo d'acqua, e il muro di cinta, poi,
è spesso cinquanta cubiti reali e alto duecento. Il braccio reale
è tre dita più lungo del braccio ordinario. 179)
A tutto ciò bisogna poi
aggiungere quale uso fu fatto della terra scavata dal fossato e in che modo
fu realizzato il muro. Con la terra estratta dallo scavo fabbricarono
mattoni, che, appena furono in numero sufficiente, fecero cuocere nelle
fornaci; usando bitume caldo come malta e inserendo dei graticci di canne
ogni trenta file di mattoni costruirono prima gli argini del fossato e poi il
muro stesso, con la medesima tecnica. Sulla sommità del muro, lungo
gli spalti, alzarono costruzioni a un solo piano, rivolte l'una verso
l'altra; fra di esse lasciarono uno spazio sufficiente al passaggio di un
carro trainato da quattro cavalli. Nel giro del muro sono inserite cento
porte, interamente di bronzo, stipiti e architravi compresi. A otto giorni di
viaggio da Babilonia c'è un'altra città, chiamata Is e
attraversata da un fiume non grande, esso pure chiamato Is, e affluente dell'Eufrate.
L'Is insieme con le acque trascina dei grumi di bitume; da lì fu
portato a Babilonia il bitume per le mura. 180)
E così fu fortificata
Babilonia. La città è divisa in due settori separati da un
fiume, l'Eufrate; l'Eufrate discende dai monti Armeni, ampio, profondo,
rapido e va poi a sfociare nel mare Eritreo. Dalle due parti i bracci del
muro si spingono fino al fiume: a questa altezza si piegano a gomito e
procedono lungo la corrente formando su entrambe le rive dell'Eufrate argini
di mattoni cotti. La città in sé, ricca di case a tre o quattro piani,
è attraversata da strade rettilinee, tutte, comprese le trasversali
che portano al fiume; all'altezza di ciascuna strada nell'argine che
costeggia il fiume aprirono delle porticine, in numero pari alle viuzze.
Anche queste porte erano di bronzo e immettevano direttamente sul fiume. 181)
Questo muro è una specie di
corazza: al suo interno se ne trova un secondo, poco meno robusto del
precedente, ma alquanto più stretto. Al centro dei due settori della
città furono eretti due edifici fortificati: da una parte la reggia
munita di un ampio e robusto muro di cinta, dall'altra il santuario di Zeus
Belo con le porte di bronzo, di forma quadrata con ogni lato pari a due
stadi, esistente ancora ai miei tempi. Al centro del santuario si trova una
solida torre, lunga e larga uno stadio: sulla prima torre ne è stata
alzata una seconda, sulla seconda una terza e così via fino a un
totale di otto torri; per accedere alle torri è stata costruita una
scala a chiocciola che corre tutto intorno all'esterno dell'edificio. A
metà della scala c'è un pianerottolo con dei sedili per
riposarsi, sui quali quanti salgono possono sedersi a riprendere fiato. Sopra
l'ultima torre si trova un grande tempio; al suo interno è collocato
un ampio letto ben fornito di cuscini con accanto una tavola d'oro. Dentro
non c'è assolutamente alcuna statua; e nessun essere umano vi passa la
notte se non una sola donna babilonese che il dio abbia scelto fra tutte,
come dicono i Caldei, cioè i sacerdoti di questa divinità. 182)
Sempre costoro aggiungono, ma io
non ci credo, che il dio in persona viene nel tempio a riposarsi su quel
letto; tutto accadrebbe esattamente come a Tebe d'Egitto, secondo quanto
asseriscono gli Egiziani (anche là infatti una donna dorme nel tempio
di Zeus Tebano; e anche di costei come della donna babilonese si dice che non
ha rapporti con alcun uomo) e così farebbe pure la profetessa del dio
a Patara in Licia, quando c'è: lì l'oracolo non è sempre
attivo, ma quando c'è allora di notte la sacerdotessa viene chiusa col
dio nel tempio. 183)
Nel grande santuario di Babilonia,
in basso, si trova un altro tempio, in cui sono collocate una grande statua
di Zeus assiso, in oro, e accanto una grande tavola d'oro; e d'oro sono
altresì il basamento e il trono. A sentire i Caldei per la loro
fabbricazione sarebbero stati impiegati 800 talenti d'oro. All'esterno di
questo tempio c'è un altare d'oro: e c'è anche un secondo
altare, grande, sul quale vengono offerte in sacrificio le vittime adulte:
infatti sull'altare d'oro è consentito sacrificare esclusivamente
animali da latte; sempre sull'altare più grande i Caldei bruciano ogni
anno mille talenti d'incenso, quando celebrano la festa del dio. Nell'area
del santuario a quell'epoca si trovava anche una statua d'oro massiccio alta
dodici cubiti; io personalmente non l'ho vista, riferisco quanto affermano i
Caldei. Dario figlio di Istaspe che pure l'avrebbe voluta, non si
sentì di portarsi via questa statua: fu suo figlio Serse ad
asportarla, arrivando a uccidere il sacerdote che cercava di proibirgliene la
rimozione. E questo è l'arredamento del santuario; dentro poi vi sono
anche molte offerte di privati. 184)
Molti, credo, furono i sovrani di
Babilonia (e di essi farò menzione nei miei Racconti Assiri) che
attesero alla edificazione delle mura e del santuario, e fra essi anche due
donne; una si chiamava Semiramide e visse cinque generazioni prima della
successiva: costei fece erigere nella pianura argini che meritano di essere
visti; prima regolarmente il fiume allagava le campagne. 185)
La seconda delle due regine si
chiamava Nitocri: dotata di maggior lungimiranza della sovrana che l'aveva
preceduta sul trono, lasciò sì i monumenti che
descriverò più avanti, ma in più, vedendo la potenza dei
Medi ormai grande e inquieta, forte delle città già annesse,
tra cui anche Ninive, prendeva contro di loro tutte le precauzioni in suo
potere. Cominciò occupandosi dell'Eufrate, il fiume che attraversa
Babilonia; aveva andamento rettilineo, ma lei, facendo scavare dei canali
lungo tutto il suo corso, lo rese tanto tortuoso che ora esso tocca
addirittura tre volte un villaggio dell'Assiria. Questo villaggio si chiama Ardericca:
quanti viaggiano dal nostro mare verso Babilonia discendendo l'Eufrate,
costeggiano Ardericca per ben tre volte nell'arco di tre giorni. Nitocri
dunque attuò quest'opera grandiosa; inoltre fece costruire su entrambe
le sponde del fiume degli argini che lasciano stupefatti tanto sono spessi e
alti. Abbastanza a monte di Babilonia, poi, fece scavare l'invaso per un
lago, non molto discosto dal fiume, scendendo in profondità fino a
trovare l'acqua e ampliandolo in estensione per un perimetro di 420 stadi;
utilizzò il materiale estratto dallo scavo ammucchiandolo lungo le
rive del fiume. Quando il bacino fu pronto vi costruì intorno un
parapetto con pietre precedentemente trasportate sul luogo. Realizzò
tutto questo, la tortuosa canalizzazione del fiume e la trasformazione
dell'invaso in palude, affinché il fiume, deviato in molti meandri, scorresse
più lentamente, la navigazione verso Babilonia risultasse tortuosa e
una volta finita la navigazione si dovesse ancora percorrere il lungo
perimetro della palude. Eseguì tali lavori nella parte del paese dove
c'erano le vie d'accesso e le strade più brevi provenienti dalla
Media, per impedire ai Medi di frequentare Babilonia e di ottenere
informazioni sulla sua situazione. 186)
Con le opere di scavo
realizzò queste costruzioni; e ne ricavò un vantaggio
ulteriore. Dal momento che la città è divisa in due settori
separati dal fiume, all'epoca dei re precedenti chi voleva recarsi da un
settore all'altro della città era costretto ad attraversare il fiume
con una imbarcazione, una cosa, mi pare, assai fastidiosa. Nitocri vi pose
rimedio e approfittando dello scavo per il bacino poté trasmettere ai posteri
un altro grande ricordo del proprio operato: fece tagliare immense lastre di
pietra che furono pronte quando anche il bacino era stato ultimato; allora
deviò l'intera corrente del fiume nell'invaso preparato, e mentre
questo si riempiva e quindi l'antico letto si prosciugava, rivestì di
mattoni cotti, con la stessa tecnica usata per le mura, le sponde del fiume
all'interno della città e il fondo delle strade che dalle porticine
conducono al fiume; poi quasi esattamente nel centro della città con
le pietre di riporto dello scavo costruì un ponte, legando le pietre
con barre di ferro e di piombo. Di giorno vi faceva stendere sopra una
passerella di tronchi di legno squadrati, su cui i Babilonesi transitavano;
di notte la passerella veniva tolta, perché non andassero in giro a derubarsi
da una parte all'altra. Quando l'invaso colmato dalle acque del fiume era
ormai diventato uno stagno e i lavori intorno al ponte erano terminati,
ricondusse l'Eufrate dalla palude nel suo antico alveo; in questo modo lo
scavo, divenuto palude, apparve in tutta la sua utilità e intanto i
cittadini ebbero un ponte. 187)
Questa stessa regina
escogitò anche un bell'inganno: ordinò che si allestisse la sua
tomba a mezz'aria, cioè sopra la porta più frequentata della
città; e su di essa fece incidere una iscrizione che diceva: "Se
uno dei re di Babilonia miei successori, si troverà a corto di denaro,
apra la tomba e prenda tutte le ricchezze che vuole: la apra soltanto se ha
davvero bisogno di denaro, e per nessuna altra ragione, o non ne avrà
alcun vantaggio". Questa tomba rimase intatta finché il regno non venne
nelle mani di Dario; a Dario sembrava assurdo non potersi servire di quella
porta e non toccare le ricchezze ivi giacenti quando persino l'iscrizione
invitava a prenderle. Non si serviva della porta perché se l'avesse
attraversata si sarebbe trovato il cadavere sopra la testa. Dario fece aprire
la tomba ma ricchezze non ne trovò, solo il cadavere e una scritta che
diceva: "se tu non fossi insaziabile di denaro e ignobilmente avido, non
violeresti le tombe dei defunti". Ecco, come si narra, che genere di donna
fu questa regina. 188)
Ciro combatté contro il figlio di
Nitocri, che portava lo stesso nome di suo padre, Labineto, e regnava
sull'Assiria. Il grande re persiano compì la sua spedizione militare
ben fornito di vettovaglie e di bestiame persiano; tra l'altro aveva con sé
persino acqua del Coaspe, il fiume che scorre vicino a Susa: un re persiano
beve solo acqua di questo fiume e di nessun altro. Perciò molti carri
a quattro ruote trainati da mule seguono sempre il re, dovunque vada, carichi
di acqua bollita del Coaspe contenuta in recipienti d'argento. 189)
Ciro nella sua marcia verso
Babilonia giunse a un certo momento al fiume Ginde. Il Ginde ha le sue
sorgenti sui monti dei Matieni, attraversa il paese dei Dardani e poi va ad
affluire in un altro fiume, il Tigri, il quale a sua volta scorre presso la
città di Opis e sfocia nel Mare Eritreo. Dunque, mentre Ciro tentava
di attraversare il Ginde, che è navigabile, uno dei suoi sacri cavalli
bianchi entrò impetuosamente nel fiume tentando di guadarlo, ma la
corrente lo travolse sott'acqua e lo trascinò via. Ciro si
infuriò nei confronti del fiume, autore di un simile oltraggio, lo
minacciò di renderlo tanto debole che in seguito anche le donne avrebbero
potuto guadarlo facilmente, senza bagnarsi neppure le ginocchia. Pronunciata
la minaccia trascurò la spedizione contro Babilonia e divise il suo
esercito in due parti: su ciascun lato del Ginde disegnò con delle
corde tese in linea retta il tracciato di 180 canali rivolti in ogni
direzione, distribuì i suoi uomini sulle due rive del fiume e
ordinò di cominciare lo scavo. Poiché la manodopera era assai numerosa
l'impresa fu condotta a termine, tuttavia passarono l'estate intera a scavare
in quella zona. 190)
Consumata la sua vendetta
disperdendo il corso del Ginde in 360 canali, Ciro al sorgere della primavera
successiva si spinse contro Babilonia. I Babilonesi lo attesero schierati
fuori della città; quando nella sua marcia fu vicino a Babilonia, lo
assalirono, ma poi, sconfitti nella battaglia, ripiegarono dentro la rocca.
Poiché da tempo sapevano che Ciro non era tipo da starsene tranquillo e anzi
lo vedevano aggredire senza distinzioni qualunque popolo, si erano premuniti
raccogliendo viveri per molti anni. Così non si preoccupavano
minimamente dell'assedio, mentre Ciro era in grave difficoltà: il
tempo passava senza che la situazione registrasse per lui alcun progresso. 191)
Infine, vuoi che qualcuno lo avesse
consigliato in tal senso, vedendolo in difficoltà, vuoi che lui stesso
si fosse reso conto del da farsi, prese una decisione: schierò il suo
esercito all'imboccatura del fiume, cioè nel punto in cui esso entra
in Babilonia e dispose altri uomini al capo opposto della città, dove
il fiume esce dal centro abitato e ordinò ai soldati di attendere che
la corrente fosse divenuta guadabile e poi di entrare in città per
quella via. Dopo aver schierato le sue truppe e impartiti i relativi ordini,
condusse via con sé gli uomini meno adatti al combattimento. Giunse fino al
bacino artificiale e lì ripeté l'operazione compiuta a suo tempo dalla
regina Nitocri per il fiume e lo stagno: per mezzo di un canale deviò
il fiume nella palude; in tal modo al ritirarsi delle acque il letto del
fiume divenne percorribile. Quando ciò accadde i Persiani che erano
stati opportunamente schierati lungo il corso dell'Eufrate poterono penetrare
in città per questa via: il livello del fiume si era abbassato al
punto che l'acqua arrivava appena a metà coscia. Se i Babilonesi
avessero avuto notizia delle manovre di Ciro o se ne fossero accorti,
avrebbero consentito ai Persiani di penetrare in città per poi
massacrarli; infatti, sbarrando tutte le porte che danno sul fiume e salendo
sugli spalti che corrono lungo le rive, li avrebbero presi come in una nassa.
E invece i Persiani piombarono loro addosso all'improvviso. A causa
dell'estensione di Babilonia, come raccontano i suoi stessi abitanti, quando
già i quartieri periferici della città erano stati espugnati,
ancora i Babilonesi residenti nel centro non se ne erano accorti; e anzi,
dato che per combinazione era un giorno di festa, in quel momento erano
dediti a danze e divertimenti; fino a quando, naturalmente, non si resero conto
esattamente della situazione. In tal modo Babilonia fu espugnata, allora, per
la prima volta. 192)
Mostrerò con molti
argomenti quanto siano immense le risorse della Babilonia e già con
una semplice considerazione. Il grande re ha suddiviso l'intero territorio
del suo dominio in varie zone che provvedono a turno, indipendentemente dai
tributi annuali, al mantenimento suo e del suo esercito. Ebbene, per quattro
mesi, sui dodici che compongono un anno, è la Babilonia a provvedere,
per gli altri otto tutto il resto dell'Asia; ciò vuol dire che
l'Assiria assomma la terza parte delle risorse dell'Asia intera. E il
governatorato di questa regione, o satrapia, come lo chiamano i Persiani,
è fra tutti di gran lunga il più potente; tanto è vero
che a Tritantecme figlio di Artabazo, che aveva ricevuto dal re questo
territorio, affluiva una rendita quotidiana di una artaba di argento
(l'artaba è l'unità di misura persiana, corrispondente a un
medimno e tre chenici attici); e possedeva privatamente, senza tener conto
dei cavalli da guerra, 800 stalloni e 16.000 femmine per la riproduzione,
poiché ogni stallone montava venti cavalle. Inoltre allevava un tale numero
di cani d'India che quattro grandi villaggi della pianura erano incaricati
del loro mantenimento, e non pagavano altro tributo che questo. Tale era
l'appannaggio del governatore di Babilonia. 193)
Però la terra degli Assiri
riceve poca pioggia, appena sufficiente a far spuntare la radice del
frumento; è poi grazie alla irrigazione che le messi crescono e il
grano giunge a maturazione, non però come avviene in Egitto, dove il
fiume stesso straripa nelle campagne, bensì grazie al lavoro manuale e
all'uso di mazzacavalli. In effetti la Babilonia, come l'Egitto, è
interamente attraversata da canali, il più grande dei quali,
navigabile, si sviluppa in direzione sud-est a partire dall'Eufrate
immettendosi nell'altro fiume, il Tigri; lungo il Tigri sorgeva la
città di Ninive. Fra tutte le regioni a nostra conoscenza questa è
certamente la più indicata per la produzione del frutto di Demetra,
tanto è vero che non si tenta nemmeno di far crescere altri tipi di
piante, né fichi, né viti, né olivi; è talmente adatta alla coltura
dei cereali che in media frutta 200 se si semina 1 e quando rende al massimo
delle proprie possibilità frutta persino 300. In quella terra le
foglie del grano e dell'orzo raggiungono tranquillamente una larghezza di
quattro dita. Quanto all'altezza raggiunta dalle piante del miglio e del
sesamo, anche se la conosco eviterò di segnalarla: so bene che a chi
non è mai stato nella Babilonia sembrano del tutto incredibili anche i
dati che ho esposto sui cereali. Non usano olio di oliva ma estraggono olio
dal sesamo. In tutta la pianura crescono spontaneamente le palme, quasi tutte
fruttifere; da esse ricavano cibi solidi, vino e miele; curano queste palme
come si fa con i fichi, in particolare quelle che i Greci chiamerebbero
"maschio": ne legano i frutti intorno alle palme da datteri
affinché lo pseno penetrando nei datteri li porti a maturazione e il frutto
della palma non vada perduto; infatti le palme "maschio" portano
nei loro datteri lo pseno esattamente come i fichi selvatici. 194)
Ma ora parlerò di quella
che a mio parere costituisce la meraviglia più grande di Babilonia,
dopo la città naturalmente: possiedono imbarcazioni, di forma
circolare e interamente di cuoio, che arrivano fino a Babilonia scendendo
lungo la corrente del fiume. Nella regione d'Armenia, a nord dell'Assiria,
essi fabbricano lo scafo con vimini tagliati opportunamente e vi distendono
intorno delle pelli per ricoprirle, come un impiantito; non differenziano la
poppa e non modellano una prua più stretta: le fanno invece rotonde
come uno scudo; poi ricoprono di canne tutta l'imbarcazione, la riempiono di
mercanzie e lasciano che sia il fiume a portarla; per lo più imbarcano
recipienti fenici colmi di vino. Con due pertiche due uomini in piedi ne
governano la direzione: mentre uno tira verso di sé la pertica l'altro la
spinge in fuori. Imbarcazioni di questo tipo ne costruiscono di molto grandi
e di piccole: le più grandi hanno una stazza di 5000 talenti. Su ogni
battello viaggia un asino vivo, sulle barche più grandi ve n'è
più d'uno; una volta arrivati a Babilonia scendendo lungo la corrente
e, smerciato il carico, vendono lo scafo e tutte le canne al miglior
offerente; le pelli invece le caricano sull'asino e se ne ritornano in
Armenia. Infatti in nessun modo è possibile risalire il fiume in
battello per via della corrente troppo forte; e questo è anche il
motivo per cui non costruiscono imbarcazioni di legno bensì di pelli.
Quando con i loro asini sono nuovamente tornati in Armenia si costruiscono
altre imbarcazioni nella stessa maniera. Tali sono i loro mezzi per la navigazione
fluviale. 195)
Come indumenti adoperano una tunica di
lino lunga fino ai piedi sulla quale indossano un'altra tunica di lana e una
mantellina bianca, gettata intorno alle spalle. Ai piedi portano calzature
locali simili ai sandali che si usano in Beozia. Portano capelli lunghi e se
li legano con nastri; si profumano tutto il corpo. Ciascuno di loro ha un
anello con sigillo e un bastone lavorato a mano; il pomo di ciascun bastone
è scolpito in forma di mela, di rosa, di giglio, di aquila o d'altro;
non è loro abitudine portare un bastone senza un contrassegno. Questo
per quanto riguarda l'abbigliamento. 196)
Veniamo adesso alle loro leggi.
Ecco secondo me la più saggia (in uso, a quanto apprendo, anche fra i
Veneti di Illiria). Una volta all'anno, in ogni villaggio si faceva
così: conducevano in un unico luogo, allo scopo di riunirle tutte, le
ragazze che si trovassero in età da marito e intorno ad esse si
radunava una folla di uomini. Poi un araldo le faceva alzare in piedi, una
per una, e le vendeva: cominciava dalla più bella, poi, quando questa
aveva trovato un generoso compratore, metteva all'asta la seconda per
bellezza. La vendita si faceva a scopo matrimoniale. I Babilonesi benestanti
in età da prendere moglie superandosi a vicenda con le offerte si
acquistavano le più graziose; invece gli aspiranti mariti del popolo,
che non badavano all'estetica, si prendevano le ragazze più brutte e
una somma di denaro. Infatti quando il banditore aveva terminato di vendere
le più belle, faceva alzare la più brutta oppure una storpia,
se c'era, e la offriva a chi accettasse di sposarla con il compenso
più basso; finché la ragazza veniva aggiudicata a chi s'accontentava
della somma minore. Il denaro derivava dalla vendita delle ragazze avvenenti:
in questo modo erano le belle ad accasare le brutte e le menomate. Nessuno
aveva il diritto di dare la propria figlia in moglie a chi volesse lui e
senza garanzie non era possibile portarsi via la ragazza comprata;
l'acquirente doveva prima fornire garanzie che avrebbe sposato effettivamente
la ragazza, poi poteva condurla con sé; se poi non andavano d'accordo, il
denaro doveva per legge essere restituito. Chiunque volesse partecipare
all'asta poteva farlo, anche venendo da un altro villaggio. Questa era dunque
la loro tradizione più bella; ora però non è più
in vigore e hanno studiato un nuovo sistema (per non danneggiare le loro
donne e per impedire che vengano condotte in un altro paese). Da quando la
conquista di Babilonia ha ridotto male e rovinato i suoi abitanti, tutti i
popolani, che non hanno di che vivere, prostituiscono le figlie. 197)
Ed ecco l'usanza in vigore presso
di loro seconda per saggezza: non avendo medici portano sulla pubblica piazza
i loro infermi. Chi si avvicina al malato esprime un parere sulla sua
malattia, se per caso ha avuto gli stessi sintomi o se ha saputo di qualcuno
che li abbia avuti. Dunque si accostano per dar consigli e ciascuno esorta a
fare ciò che lui stesso ha fatto o visto fare a un altro per guarire
da una analoga affezione. Non è consentito passare oltre in silenzio
senza chiedere all'infermo di quale malattia soffra. 198)
Seppelliscono i morti nel miele; i
lamenti funebri sono assai simili a quelli in uso in Egitto. Ogni volta che
un Babilonese ha fatto l'amore con la propria moglie, brucia delle sostanze
aromatiche e si siede accanto al fumo; la stessa cosa, separatamente, fa
anche la donna. All'alba entrambi provvedono a lavarsi e non toccano nessun
vaso se prima non si sono lavati. Identica cosa fanno anche gli Arabi. 199)
Ed ecco la peggiore delle usanze
babilonesi. Ogni donna di quel paese deve sedere nel tempio di Afrodite una
volta nella sua vita e fare l'amore con uno straniero. Molte, sentendosi
superiori per la loro ricchezza, sdegnano di mescolarsi con le altre e si
fanno trasportare sopra un carro coperto fino al tempio e lì si
fermano, con un gran seguito di servitù. La maggior parte invece si
comporta come segue: nel recinto sacro di Afrodite siedono in molte con una
corona di corda intorno alla testa, alcune arrivano, altre se ne vanno; con
delle funi tese fra le donne si ottengono dei corridoi rivolti in tutte le
direzioni: gli stranieri passano attraverso di essi e fanno la loro scelta.
Una donna che si sia lì seduta non se ne torna a casa se prima uno
straniero qualsiasi non le ha gettato in grembo del denaro e non ha fatto
l'amore con lei all'interno del tempio; gettando il denaro deve pronunciare
una formula: "Invoco la dea Militta". Con il nome di Militta gli
Assiri chiamano Afrodite. L'ammontare pecuniario è quello che è
e non sarà rifiutato: non è lecito perché tale denaro diventa
sacro. La donna segue il primo che glielo getti e non respinge nessuno. Dopo
aver fatto l'amore, e aver soddisfatto così la dea, fa ritorno a casa
e da questo momento non le si potrà offrire tanto da poterla
possedere. Le donne avvenenti e di alta statura se ne vanno rapidamente, ma
quelle brutte rimangono lì molto tempo senza poter adempiere l'usanza;
e alcune rimangono ad aspettare persino per tre o quattro anni. Una usanza
assai simile esiste anche in qualche parte dell'isola di Cipro. 200)
E questi sono i costumi dei
Babilonesi. Fra loro vi sono tre tribù che si nutrono esclusivamente
di pesce, opportunamente seccato al sole dopo la pesca, preparandolo
così: lo gettano in un mortaio, lo sminuzzano con il pestello e lo
passano al setaccio; poi lo mangiano preparandolo come pastone o cuocendolo
al forno, come fosse pane, secondo i gusti. 201)
Quando Ciro ebbe sottomesso anche
questo popolo, fu preso dal desiderio di ridurre in suo potere i Massageti. I
Massageti hanno fama di essere un popolo grande e valoroso: le loro sedi si
trovano a est, dove sorge il sole, al di là del fiume Arasse, di
fronte agli Issedoni; c'è chi sostiene che questo popolo sia di razza
scita. 202)
Quanto all'Arasse ora lo si dice
più grande ora più piccolo dell'Istro. Si racconta anche che in
mezzo al fiume ci sono numerose isole estese quasi quanto Lesbo: su di esse
vivrebbero uomini che d'estate si cibano di radici di ogni tipo estraendole
dalla terra e d'inverno di frutti staccati dagli alberi e messi in serbo nel
periodo della maturazione; e pare che essi abbiano trovato altre piante il
cui frutto possiede strane proprietà: quando si riuniscono in gruppi
in uno stesso luogo e accendono i falò, vi siedono attorno e gettano
nel fuoco questi frutti, aspirando i vapori che se ne sprigionano; con tali
effluvi si ubriacano esattamente come i Greci con il vino: e più
frutti gettano nel fuoco più si inebriano, fino al punto di alzarsi
per danzare e di mettersi a cantare. Tale sarebbe, a quanto si racconta, il
loro modo di vivere. Il fiume Arasse scorre dal paese dei Matieni, come pure
il Ginde (quello disperso da Ciro in 360 canali), e riversa poi le sue acque
in quaranta ramificazioni, le quali tutte, tranne una, sfociano in stagni e
paludi; qui vivono, a quanto si dice, uomini che si cibano di pesci crudi e
che si vestono normalmente con pelli di foca. L'unico ramo dell'Arasse a
scorrere libero e aperto sfocia nel Mar Caspio. Il Caspio è un mare a
sé senza alcuna comunicazione con l"altro mare'; effettivamente le acque
percorse dalle navi greche, quelle situate al di là delle colonne
d'Ercole, dette Atlantico, e il Mare Eritreo, formano un unico mare. 203)
Le acque del Caspio formano un
secondo mare a parte, lungo quindici giorni di navigazione a remi e largo
otto, nel tratto di maggiore larghezza. Sulla riva occidentale si stende il
Caucaso, il complesso montuoso più vasto e più elevato del
mondo. Nella zona del Caucaso abitano numerose popolazioni di tutte le razze,
che vivono per lo più di frutti selvatici. Da quelle parti, si dice,
esisterebbero piante dalle cui foglie triturate e mescolate con acqua
ottengono una tintura per disegnare figure sulle loro vesti; e queste figure
non sbiadiscono affatto, si consumano con il resto della stoffa come se vi
fossero state intessute fin dall'origine. Pare che fra queste genti gli
accoppiamenti avvengano davanti a tutti come fra gli animali. 204)
Dicevamo che il Caucaso delimita
la parte occidentale del mare Caspio; invece procedendo verso est, verso il
sorgere del sole, si estende una pianura immensa, a perdita d'occhio; una
parte non piccola di questa sconfinata pianura è abitata dai
Massageti, contro i quali appunto Ciro era ansioso di marciare. Molte e
importanti ragioni lo spingevano e lo sollecitavano in tal senso: prima di
tutto la sua nascita, la convinzione di essere qualcosa di più che un
uomo, in secondo luogo la sua buona sorte, quale si era rivelata nelle guerre
precedenti: dovunque infatti avesse diretto le sue truppe, nessuna
popolazione era riuscita a trovare scampo. 205)
Sui Massageti, da quando le era
morto il marito, regnava una donna, di nome Tomiri. Ciro le mandò un
messaggio in cui la chiedeva in matrimonio dicendo di volerla per moglie; ma
Tomiri, comprendendo che lui non aspirava tanto alla sua mano quanto al regno
dei Massageti, rifiutò i suoi approcci. Allora Ciro, visto che con
l'astuzia non aveva ottenuto alcun risultato, si spinse fino all'Arasse e
dichiarò apertamente guerra ai Massageti; gettò dei ponti fra le
due rive del fiume per il passaggio dell'esercito e costruì torri di
difesa sulle imbarcazioni che attraversavano il fiume. 206)
Mentre era impegnato in questi
lavori, la regina Tomiri gli inviò un araldo con il seguente
messaggio: "O re dei Medi, smettila con gli sforzi che stai compiendo:
tu non sai se l'impresa ti riuscirà felice. Desisti, regna sui tuoi
territori e lascia che noi regniamo sui nostri sudditi. Ma so già che
non vorrai accettare i miei suggerimenti e anzi tutto vorrai fuorché startene
in pace. Perciò, se davvero aspiri tanto a misurarti con i Massageti,
lascia perdere il ponte sul fiume, che ti costa tanta fatica; passa pure nel
nostro territorio, le nostre truppe si ritireranno a tre giorni di cammino
dal fiume. Se invece preferisci essere tu ad accogliere noi nel vostro paese,
allora fai tu le stesse cose". Sentita questa proposta, Ciro
convocò i Persiani più autorevoli e quando li ebbe radunati
espose i termini della questione, chiedendo consiglio sul da farsi. E i pareri
di tutti concordemente lo esortarono a ricevere Tomiri e il suo esercito sul
suolo persiano. 207)
Ma Creso il Lido, presente alla
discussione, criticò questo parere ed espose la sua opinione, che era
esattamente opposta: "Signore, - disse - già altre volte ti ho
promesso, poiché Zeus mi ha dato nelle tue mani, che mi sarei impegnato a
fondo per scongiurare qualunque sciagura io vedessi incombere sulla tua casa.
Le mie sventure personali, così spiacevoli, mi hanno insegnato molto.
Ora, se tu credi di essere immortale e di comandare a un esercito immortale,
non ha senso che io ti esponga il mio parere; ma se riconosci di essere un
uomo anche tu e di comandare ad altri uomini, sappi prima di tutto che le
vicende umane sono una ruota, che gira e non permette che siano sempre gli
stessi a godere di buona fortuna. Circa la presente questione io la penso al
contrario di costoro: se decideremo di ricevere i nemici in territorio
persiano tu corri un bel rischio: se rimani sconfitto perdi tutto il tuo
regno perché è chiaro che i Massageti, vincendo, non torneranno
più indietro ma avanzeranno contro i tuoi domini. Invece se li batti,
non vinci tanto quanto vinceresti se trovandoti già in casa loro
potessi inseguire i Massageti in fuga. La conseguenza infatti sarebbe uguale
ma contraria alla precedente: se sconfiggi tu i nemici, sarai tu a puntare
dritto sul dominio di Tomiri. Inoltre, indipendentemente da quanto ti ho
già esposto, mi pare vergognoso e intollerabile che Ciro, il figlio di
Cambise, ceda a una donna e si ritiri. Pertanto il mio parere è di
passare il fiume e avanzare di quanto i nemici arretreranno; e là
tentare di sconfiggerli con la seguente tattica. A quanto mi risulta i
Massageti non hanno mai gustato i piaceri persiani e non hanno mai provato
grandi delizie. Per uomini così dunque facciamo a pezzi bestiame in
abbondanza, cuciniamolo e prepariamo un banchetto nel nostro campo: e
aggiungiamo generosamente grandi orci di vino puro e cibarie d'ogni sorta;
dopo di che si lascino sul posto i contingenti meno validi e gli altri si
ritirino nuovamente verso il fiume. E vedrai, se non mi inganno, che i
Massageti a vedere tutto quel ben di dio vi si getteranno sopra e a quel
punto a noi non resterà che compiere notevoli gesta". 208)
Questi furono gli opposti pareri;
Ciro trascurò il primo e accettò il suggerimento di Creso:
avvisò la regina Tomiri di ritirare le sue truppe, perché sarebbe
stato lui ad attraversare il fiume. Ed essa si ritirò come aveva
promesso. Ciro affidò Creso nelle mani di suo figlio Cambise, erede
designato del regno, con molte esortazioni a onorarlo e a trattarlo
degnamente, nel caso la spedizione contro i Massageti non avesse buon esito.
Con queste raccomandazioni li rimandò in Persia, poi passò il
fiume con il suo esercito. 209)
La notte successiva al passaggio
dell'Arasse, mentre dormiva nella terra dei Massageti, ebbe un sogno: nel
sonno gli parve che il figlio maggiore di Istaspe avesse due ali sulle
spalle: con una gettava ombra sull'Asia, con l'altra sull'Europa. Il maggiore
dei figli di Istaspe, figlio di Arsame, della famiglia degli Achemenidi, era
Dario, che allora aveva circa vent'anni e per questo, non avendo l'età
per combattere, era stato lasciato in Persia. Ciro si svegliò, e
rifletteva sul sogno; e poiché gli sembrava una visione importante,
mandò a chiamare Istaspe, lo prese da parte e gli disse:
"Istaspe, tuo figlio è stato sorpreso a complottare contro di me
e il mio potere. Come mai lo so con certezza, ora te lo spiego. Gli dei hanno
cura di me e mi preannunciano tutto ciò che mi minaccia; ebbene la
notte scorsa dormendo ho visto in sogno il maggiore dei tuoi figli avere
sulle spalle due ali e con una gettare ombra sull'Asia, con l'altra
sull'Europa. Non c'è altra spiegazione per questo sogno, se non che
tuo figlio sta tramando contro di me. Pertanto ti ordino di rientrare
immediatamente in Persia; e bada di sottoporre tuo figlio al mio giudizio,
quando avrò assoggettata questa terra e sarò di ritorno in
Persia". 210)
Ciro parlò così
convinto che Dario stesse cospirando contro di lui, mentre il dio voleva
soltanto rivelargli che doveva morire lì, in quel paese, e che il suo
potere sarebbe finito nelle mani di Dario. Istaspe gli rispose: "O re,
io mi auguro che non sia nato un Persiano che complotta contro di te, ma se
esiste, allora muoia al più presto! Tu, da schiavi che eravamo, ci hai
resi liberi, tu ci hai reso da servi signori. Se un sogno ti annuncia che mio
figlio sta preparando una ribellione contro di te, sarò io stesso a
consegnarlo nelle tue mani, perché tu ne faccia quello che vorrai". Dopo
questa risposta Istaspe riattraversò l'Arasse e tornò in Persia
per tenere suo figlio Dario a disposizione di Ciro. 211)
Ciro avanzò oltre il fiume
per circa una giornata di cammino e mise in pratica i suggerimenti di Creso.
Poi indietreggiò verso l'Arasse con le truppe più valide
lasciando sul posto i meno adatti a combattere. Allora un terzo dell'esercito
massageta sopraggiunse e sterminò, nonostante la loro resistenza, i
soldati lasciati sul posto da Ciro; ma, come videro le mense imbandite,
appena spazzati via i nemici, si sdraiarono a banchettare: infine, rimpinzati
di cibo e di vino si addormentarono. Sopraggiunsero i Persiani e uccisero
molti di loro, e ancor più ne presero prigionieri incluso il figlio
della regina Tomiri, che comandava l'esercito dei Massageti e si chiamava
Spargapise. 212)
Quando la regina seppe quanto era
accaduto all'esercito e a suo figlio, mandò un araldo a Ciro col seguente
messaggio: "Ciro, insaziabile di sangue, non esaltarti per ciò
che è avvenuto, se col frutto della vite, riempiendovi del quale anche
voi impazzite, fino al punto che il vino scendendo nel vostro corpo vi fa
salire alla bocca sconce parole, non esaltarti se con l'inganno di questo
veleno hai sconfitto mio figlio, e non in battaglia misurando le vostre
forze. Io ora ti do un buon consiglio e tu seguilo: restituiscimi mio figlio
e potrai andartene dal mio paese senza pagare per l'oltraggio inflitto a un terzo
del mio esercito; altrimenti, lo giuro sul sole, signore dei Massageti,
benché tu ne sia avido, ti sazierò di sangue!" 213)
Queste parole furono riferite a
Ciro, ma lui non le prese in considerazione. Il figlio della regina Tomiri, Spargapise,
quando svanirono i fumi del vino e si rese conto della sua sciagurata
situazione, pregò Ciro di essere liberato dalle catene e l'ottenne, ma
come fu sciolto e padrone delle sue mani si suicidò. Così
morì Spargapise. 214)
E Tomiri, poiché Ciro non le aveva
prestato ascolto, raccolse tutte le sue truppe e lo attaccò. Io
ritengo questa battaglia la più dura di quante i barbari abbiano mai
combattuto fra loro. Ed ecco come si svolse secondo le mie informazioni. In un
primo momento si tennero a distanza e si lanciarono frecce, poi, terminate le
frecce, si gettarono gli uni contro gli altri brandendo lance e spade. Per
lungo tempo si protrasse lo scontro senza che una delle due parti accennasse
a fuggire; infine prevalsero i Massageti. La maggior parte dell'esercito
persiano fu distrutto e sul campo cadde Ciro stesso. Aveva regnato
complessivamente per 29 anni. Tomiri riempì un otre di sangue umano e
fece cercare fra i cadaveri dei Persiani il cadavere di Ciro; quando lo trovò
immerse la sua testa nell'otre e mentre così infieriva su di lui,
disse: "Tu hai ucciso me, anche se sono viva e ti ho sconfitto,
sopprimendo con l'inganno mio figlio; ora io ti sazierò di sangue,
esattamente come ti avevo minacciato". Fra le tante versioni correnti
sulla morte di Ciro questa che ho raccontato mi pare la più degna di
fede. 215)
I Massageti hanno un modo di
vestire e un regime di vita simili a quelli degli Sciti. Combattono a cavallo
o a piedi (sono esperti in entrambi i campi), sono arcieri e lancieri;
abitualmente hanno pure una scure bipenne. Per ogni cosa adoperano oro e
bronzo: usano il bronzo per le punte delle lance e delle frecce e per le
bipenni, mentre si ornano d'oro l'elmo, la cintura e le tracolle; allo stesso
modo corazzano con il bronzo il petto dei cavalli mentre ne rivestono di oro
le briglie, il morso e le borchie. Non si servono assolutamente di ferro e di
argento perché nel loro paese non se ne trova. Mentre abbondano l'oro e il
bronzo. 216)
Ed ecco le loro usanze: ciascuno
sposa una donna ma le donne poi sono in comune per tutti. I Greci sostengono
che sono gli Sciti a comportarsi così, ma non è vero: non sono
gli Sciti bensì i Massageti; ogni Massageta che desideri una donna
appende una faretra al suo carro e fa tranquillamente l'amore con lei. Essi
non hanno prefissato un limite alla loro vita, però quando uno
è divenuto assai vecchio, tutti i suoi parenti si riuniscono, lo
uccidono insieme con altri animali domestici, ne fanno cuocere le carni e se
lo mangiano. E questa è considerata da loro la fine più bella;
non si cibano invece di chi muore per malattia, anzi lo seppelliscono,
considerando una disgrazia che non sia giunto all'età di essere
sacrificato. Non praticano l'agricoltura ma vivono di allevamento e di pesca,
pesci ne trovano tanti nel fiume Arasse. Sono bevitori di latte. Venerano il
sole quale unico dio e gli sacrificano cavalli in base alla seguente
considerazione: al più veloce di tutti gli dei offrono il più
veloce degli esseri mortali. Libro II 1 1) Morto Ciro,gli successe nel regno Cambise, figlio di
Ciro, e di Cassandane, una figlia di Farnaspe. Aveva Ciro tenuto un gran
lutto per costei, che gli era premorta, e aveva anche imposto a tutti i suoi sudditi
di imitarlo. 2) Figlio di Ciro e di questa donna, Cambise considerava suoi
servi ereditati gli Ioni e gli Eoli. E fece una spedizione contro l'Egitto,
prendendo per soldati, tra gli altri sudditi anche Elleni a lui sottoposti. 2 1) Prima del regno di Psammetico gli Egiziani si
credevano gli uomini più antichi. Da quando però Psammetico,
divenuto re, volle sapere chi fossero gli uomini più antichi, cedono
questo primato ai Frigi, ma lo pretendono poi su tutti gli altri. 2) Nonostante
le sue ricerche Psammetico non riusciva a scoprire quale fosse il popolo
più antico, e adotto questo mezzo. Prese dai primi venuti due neonati,
e li consegnò a un pastore perchè li portasse presso le greggi
e li allevasse come segue. Gl'ingiunse che nessuno emettesse lor
davanti alcuna voce, e che se ne stessero appartati in dimora solitaria, che
portasse loro delle capre, a ore stabilite, li saziasse di latte, e accudisse
al resto. 3) Così Psammetico fece, ed ingiunse, per sentire come
prorompesse la prima voce dei bambini, quando si fossero liberati dai
balbettii indistinti. Ed il suo desiderio fu soddisfatto. Quando dopo due
anni di questa condotta, il pastore aprì la porta ed entrò,
ambedue i bambini accorsero supplici, e pronunziarono tendendo le mani la
parola becos. 4) Le prime volte che sentì questa parola il pastore
rimase muto; ma poichè, venendo egli spesso a curarli,, essa veniva
frequentemente pronunziata, lo riferì alla fine al padrone, e
ricevutone l'ordine, condusse i bambini alla sua presenza. Psammetico sentì
personalmente, s'informò se qualche popolo chiamasse qualche oggetto
becos e alla sua inchiesta risultò che i Frigi chiamavano con
tal voce il pane. 5) Così che gli Egiziani si trassero indietro e da
questo fatto dedussero che i Frigi fossero più antichi di loro. Sono
notizie che ho raccolto da un sacerdote di Efesto a Menfi. Gli Elleni invece
fra molte altre sciocchezze raccontano che Psammetico abbia tagliato a delle
donne la lingua, e abbia quindi fatto vivere i bambini presso di loro. 3 1) Ecco quanto si diceva sull'allevamento di questi
bambini. Ma a Menfi ho raccolto, conversando con i sacerdoti di Efesto, ancor
altre notizie. Per i qual dati del resto mi diressi anche a Tebe e ad
Eliopoli, per accertarmi se concordassero con ciò che si diceva a Menfi;
visto che gli Eliopoliti passano per gli Egiziani più dotti. 2) Ma non
sono disposto a riferire il contenuto sacro dei racconti che ho udito, tranne
i soli nomi degli Dei, perchè ritengo che tutti gli uomini ne sappiano
in proposito ugualmente 3) e la menzione che farò di essi la
introdurrò se vi sarò costretto dal contesto. 4 1) Per quanto riguarda gli argomenti umani mi dicevano i
sacerdoti, tutti d'accordo fra loro, che gli Egiziani erano stati i primi del
mondo a scoprire il giro dell'anno, distinguendo il complesso delle stagioni,
che chiude il periodo di un anno, in dodici parti; distinzione che dicevano
tratta dall'osservazione degli astri, e il calcolo è più
saggio, a mio giudizio, di quello degli Elleni. Gli Elleni inseriscono, per
far tornare il conto delle stagioni, un mese intercalare ogni due anni,
invece gli Egiziani calcolano ogni mese di trenta giorni aggiungendo ogni
anno cinque giorni, e il giro delle stagioni torna esattamente. 2) Dicevano i
sacerdoti che le denominazioni dei dodici Dei erano stati gli Egiziani i
primi a metterle in uso; dai quali gli Elleni le avevano derivate; e che
erano stati gli Egiziani i primi ad assegnare altari, statue e templi agli
Dei, e a scolpire figure in pietra. E della maggior parte di queste asserzioni
esibivano prove concrete. Aggiunsero che fu Min il primo uomo che abbia
regnato in Egitto. 3) Sotto costui, dicevano che l'Egitto era , tranne il
distretto di Tebe, una palude, e non ne emergeva, della regione oggi sita a
settentrione del lago di Meri, per giungere al quale s'impiegano dal mare
sette giorni di navigazione lungo il fiume, nessuna parte. 5 1) E ciò che dicevano del loro paese a me parve
esatto. basta infatti vedere, non occorre esserne informati prima,
perchè a una persona che capisce risulti chiaro che quella parte
dell'Egitto verso cui si dirigono i naviganti ellenici, è un'aggiunta
di territorio fatta agli Egiziani, un dono del fiume. E il paese posto ancor
più a mezzogiorno di quel lago per tre giorni di navigazione, paese al
quale i sacerdoti non avevano per nulla estesa la loro asserzione, ha pur
esso tale carattere. 2) Com'è costituito il suolo dell'Egitto?
Anzitutto quando ancora non si è arrivati, a distanza di un giorno di
navigazione dalla costa, se getti lo scandaglio ritirerai del fango e
constaterai la profondità di undici orge, il che dimostra come la
terra venga trasportata fino a tale distanza. 6 1) E parliamo dell'Egitto vero e proprio. Le sue coste
si prolungano, secondo la nostra delimitazione dell'Egitto dal seno Plintinete
al lago Serbonide fiancheggiato dal monte Casio, per sessanta scheni;
partendo dal lago si raggiungono sessanta scheni. 2) Chi ha poca terra misura
il terreno a orge, chi ne ha di più la misura a stadi, a parasanghe
quelli che posseggono molta terra, e a scheni chi possiede immense distese.
La parasanga corrisponde a trenta stadi, e ogni scheno, che è misura
egiziana, a sessanta stadi. Sicchè le coste dell'Egitto misurerebbero
tremila e seicento stadi. 7 1) Dalla costa poi fino a Eliopoli nell'interno dell'Egitto
è un'ampia regione, tutto pianura irrigua e melma. E per chi s'interna
dal mare la via verso Eliopoli è simile in lunghezza alla via che
dall'altare dei dodici Dei ad Atene conduce a Pisa, al tempio di Zeus
Olimpio. 2) Se la si calcola, la differenza fra questi due percorsi risulta
piccola, non più di quindici stadi: essi sono della stessa lunghezza.
Al percorso da Pisa ad Atene mancano quindici stadi per essere di mille e
cinquecento, che è appunto la distanza dal mare di Eliopoli. 8 1) Invece per chi s'interna da Eliopoli l'Egitto
è angusto. Da una parte si stende la catena montuosa dell'Arabia che
corre dall'Orsa a mezzogiorno e a noto e che prosegue ininterrotta verso
l'interno fino al Mare così detto Rosso, ed è qui che si
trovano le cave di pietra tagliate per le piramidi di Menfi, presso le quali
la catena s'interrompe piegando verso la regione che ho detto, del Mar Rosso,
e dove la catena Araba raggiunge la sua massima lunghezza essa si estende ,
da quanto ho appreso, per due mesi di marcia da oriente ad occidente, e le
sue estrema parti orientali producono incenso. 2) Tale è dunque
l'aspetto di questa catena. E un'altra catena, egiziana, dove si trovano le
piramidi, si estende rocciosa e coperta di sabbia, dalla parte della Libia;
essa scorre nella stessa direzione del ramo della catena araba che si estende
verso mezzogiorno.3) Sicchè a partire da Eliopoli il paese d'Egitto
non occupa più, nella sua larghezza, una gran distesa; ma quello che
è l'Egitto, terra in pianura, si restringe per quattro giorni di
navigazione a monte, e nel punto più angusto non mi parve che ci
fossero dalla catena araba a quella detta di Libia più di duecento
stadi. Dopo di che l'Egitto torna ad allargarsi. 9 1) Così configurata è questa regione. Da
Eliopoli aTebe poi ci sono nove giorni di navigazione a monte: un percorso di
quattromila ottocento sessanta stadi, che corrispondono ad ottantuno scheni.
2) E qui diamo tutte insieme le misure dell'Egitto in stadi. La costa
egiziana è, come ho gia indicato, di tremila e seicento stadi, ed ora
indicherò quanto c'è dal mare per risalire fino a Tebe: sono
seimila e centoventi stadi. E da Tebe alla città chiamata Elefantina
ci sono mille e ottocento stadi. 10 1) La maggior parte dunque di questa regione di cui ho
parlato sembrava anche a me, così come dicevano i sacerdoti, una
contrada recente dell'Egitto, perchè l'intervallo fra i monti dei
quali ho fatto menzione, siti a settentrione della città di Menfi, mi
pareva che dovesse essere stato una volta un braccio di mare, come , se
queste piccole località si possono paragonare a vaste contrade, le
regioni di Ilio, di Teutrania, di Efeso, e della pianura del Meandro. 2) Ma
nessuno dei fiumi che hanno colmato queste regioni può per volume
d'acqua essere paragonato ad una sola delle bocche del Nilo, che sono cinque.
3) E ci sono anche altri fiumi che senza avere la portata del Nilo hanno
prodotto grandi effetti, fiumi dei quali potrei indicare i nomi: per esempio
specialmente l' Acheloo, il quale traversando l' Acarnania e sfociando nel
mare ha gia unito al continente metà delle isole Echinadi. 11 1) E c'è nella terra d'Arabia, non lungi
dall'Egitto, un golfo che s'interna dal mare così detto Rosso, e che
è lungo e largo come vi dirò: 2) quanto al percorso in
lunghezza s'impiegano per traversarlo a cominciare dalla sua estremità
interna fino al mare aperto, quaranta giorni procedendo a remi; e quanto
all'ampiezza c'è dove il golfo è più largo, mezza
giornata di navigazione. E vi ha luogo ogni giorno il flusso e il riflusso.
3) E appunto io ritengo che anche l'Egitto sia stato in altri tempi un golfo
di tal genere. Un golfo che s'inoltrava dal Mare Settentrionale verso
l'Etiopia come l'altro corre dal Mare Meridionale verso la Siria, e si
sarebbero reciprocamente forati nel fondo se per una sottile striscia di
terra non fossero corsi paralleli. 4) Se dunque il Nilo vorrà deviare
il suo letto verso questo golfo d'Arabia, che cosa potrebbe impedire che,
versandovisi il fiume, il golfo si colmi in uno spazio, mettiamo di ventimila
anni? Per conto mio penso che si colmerebbe anche in diecimila anni. Come
dunque non ci sarebbe con un fiume così grande e così attivo
colmato nel tempo trascorso prima della mia nascita un golfo anche molto
più grande di questo? 12 1) Io quindi credo a chi mi spiega così il
costituirsi dell'Egitto, e ne sono personalmente convintissimo; perchè
vedo che l'Egitto forma una prominenza dal continente, che sui suoi monti
appaiono conchiglie, che sul suolo compaiono efflorescenze saline, tanto che
anche le piramidi ne sono danneggiate, che solo sul monte al di la di Menfi
si trova della sabbia , 2) e che inoltre la terra dell'Egitto non somiglia a
quella dell'Arabia confinante, nè della Libia, anzi neppure a quella
della Siria, giacchè la zona costiera dell'Arabia è abitata dai
Siri, ma è nera e friabile, perchè costituita di melma e di
terreno alluvionale che il fiume trasporta dall'Etiopia. 3) E noi sappiamo
che il suolo della Libia è rossiccio e sabbioso, e quello dell'Arabia
e della Siria argilloso e roccioso. 13 1) E un'altra prova mi fornirono i sacerdoti sulla
costituzione del paese. Mi raccontarono che al tempo del re Meri, bastava che
il Nilo salisse di otto braccia per irrigare l'Egitto a valle di Menfi. E
quando i sacerdoti mi fornirono quest'informazione, non erano ancora, dalla
morte di Meri, trascorsi novecento anni. Ora invece il fiume non inonda il
paese se non sale di almeno quindici o sedici braccia. 2) Ed io ritengo che,
se il suolo continuerà ad elevarsi in questa proporzione e ad
aumentare in modo analogo, gli Egiziani che abitano tutta la regione a valle
del lago di Meri, incluso il cosiddetto delta, verranno a mancare delle
inondazioni del Nilo e saranno irrimediabilmente condannati a quella sorte
che essi prevedevano per gli Elleni. 3) Avendo sentito che tutto il paese
degli Elleni è bagnato dalla pioggia ma non irigato da fiumi, essi
ebbero a dichiarare che un giorno gli Elleni sarebbero stati delusi nella
loro così fiduciosa attesa e tormantati dalla carestia; volendo con
questo linguaggio significare che se il Dio si fosse rifiutato di mandar loro
la pioggia e si fosse ostinato a far perdurare la siccità, non
disponendo di alcun'altra risorsa di acqua che di quella di Zeus, gli Elleni
sarebbero morti di fame. 14 1) Giusta questa riflessione degli Egiziani sulla
condizione degli Elleni; ma dirò adesso come stanno le cose per gli
Egiziani stessi. Se il suolo del paese a valle di Menfi, quello che va
elevandosi, dovesse acquistare in altezza in proporzione del passato,
sarà fatale che gli Egiziani che abitano quella regione soffrano la
fame, dato che sul loro paese non pioverà, e che il fiume non
potrà inondare i campi. 2) Per ora invece raccolgono i frutti della
terra con minor fatica di tutti gli altri uomini e del resto degli Egiziani;
perchè non si travagliano ad aprire i solchi con l'aratro o a
sarchiare, nè in alcun'altra fatica che il resto degli uomini compie
per le messi; il fiume viene da se ad irrigare i campi, li irriga, se ne
ritrae, e ognuno semina il proprio campo, vi immette i maiali, e quando il
seme ne è stato calpestato non gli resta che attendere la mietitura.
Fa trebbiare il grano dai maiali, e lo mette in serbo. 15 1) Gli Ioni ritengono che l'Egitto sia costituito dal
solo delta, affermano che la sua costa va dalla così dette Vedetta di Perseo
fino alle saline del Pelusio, lungo un percorso di quaranta scheni, e dicono
che l'Egitto si stende dal mare verso l'interno fino alla città di
Cercasoro , dove il Nilo di divide in due braccia, verso Pelusio e verso
Canopo, e il resto dell'Egitto sostengono che appartiene alla Libia e
all'Arabia. M se volessimo seguire questo modo di vedere, potremmo provare
che in un tempo anteriore gli Egiziani erano senza terra. 2) <infatti il
loro Delta, l'affermano gli stessi Egiziani ed io ne sono convinto, è formato
da terreno alluvionale, ed è per così dire venuto di recente
alla luce. Se dunque nemmeno esisteva una terra Egiziana, perchè si
sarebbero dati da fare per sostenere la loro convinzione di essere il popolo
più antico del mondo? Nè sarebbe occorso che ricorressero
all'esperimento dei fanciulli, per vedere quale ne sarebbe stato il primo
linguaggio. 3) Invece io penso che gli Egiziani non siano sorti insieme con
la contrada che gli Ioni chiamano Delta, ma siano esistiti da sempre, da
quando sorse il genere umano, e che durante lo sviluppo della regione molti
di loro siano rimasti man mano indietro, mentre molti altri andavano
scendendo col fiume. Sicchè anticamente veniva chiamato Egitto il
territorio di Tebe, il cui perimetro misura seimila e centoventi stadi. 16 1) Se dunque il nostro modo di vedere è giusto ,
è errata l'opinione degli Ioni sull'Egitto. Ma anche se in questo
argomento il parere degli Ioni è esatto, io dimostro che gli Elleni e
gli Ioni stessi fanno male i conti, quando dicono che tutta la terra si
divide in tre parti, Europa, Asia e Libia. 2) Dovrebbero aggiungere una
quarta parte, il Delta dell'Egitto, dato che esso non si aggrega nè
all'Asia nè alla Libia; perchè non certo il Nilo separa secondo
questo ragionamento l'Asia dalla Libia, esso che si divide al vertice del
Delta; il quale Delta si verrebbe quindi a trovare fra l'Asia e la Libia. 17 1) Ma lasciamo stare l'opinione degli Ioni; noi
sosteniamo questo: che l'Egitto e tutta la terra abitata dagli Egiziani, come
la Cilicia è quella abitata dai Cilici e l'Assiria quella abitata
dagli Assiri; e non conosciamo fra l'Asia e la Libia altro vero confine che
quello dell'Egitto. 2) Se noi seguiamo il modo di vedere degli Elleni,
riterremo che tutto l'Egitto, a cominciare dalle Cateratte e dalla
città di Elefantina, sia diviso in due parti e partecipi dei due nomi,
perchè una metà apparterrebbe alla Libia e l'altra all'Asia. 3)
Infatti a cominciare dalle cateratte il Nilo divide, fino al mare l'Egitto
per metà. Esso scorre, fino alla città di Cercasoro, in un solo
letto, ma dopo questa città si divide in tre rami: 4) uno verso
oriente, che si chiama la foce di Pelusio, e un altro verso occidente, che
porta nome di foce di Canopo. E passiamo adesso al ramo dritto del Nilo.
Provenendo dall'interno il fiume giunge al vertice del Delta, a partire dal
quale divide il Delta a metà e sbocca nel mare, con una foce che non
è la più scarsa di volume d'acqua nè la meno famosa, che
si chiama la Sebennitica. 5) E altre due foci si diramano dalla Sebennitica
al mare, che portano i nomi, l'una di foce Saitica e l'altra di foce
Mendesia. La Bolbitina e la Bucolica non sono naturali ma artificiali. 18) 1 La mia opinione, che la grandezza dell’Egitto
corrisponda alle indicazioni che ho date, è confermata dall’oracolo di
cui ebbi notizia quando la mia opinione s’era già formata. 2 Le
popolazioni delle città di Marea e di Api, abitanti le zone
dell’Egitto limitrofe alla Libia, non tolleravano, convinte di essere libiche
e non egizie, le prescrizioni sacre; non volevano astenersi dalla carne di
vacca; e mandarono ad interrogare l’oracolo di Ammone, dichiarando di non
avere nulla in comune con gli Egiziani. Abitavano fuori del Delta e parlavano
la stessa lingua; sicchè volevano mangiare di tutto. 3 Ma ciò
non fu loro accordato dal Dio:”Egitto è la regione irrigata dalle
inondazioni del Nilo, Egiziani sono quelli che abitano a valle della
città di Elefantina e che bevono l’acqua di questo fiume”.Così
fu loro risposto. E nelle sue piene il Nilo inonda non soltanto il Delta, ma
anche -per due giorni di marcia dalle due parti, dove più dove meno-
delle località che si dice appartengano alla Libia e all’Arabia. 19) 1 Sulla natura del fiume non ho potuto raccogliere
nessuna delucidazione, nè dai sacerdoti nè da alcun’altra
persona. 2 Eppure avrei sentito volentieri perchè la piena del Nilo
duri 100 giorni a cominciare dal solstizio d’estate, e perchè,
raggiunto il termine di questo periodo, il fiume si ritiri, abbassi il
livello delle acque, e per tutto l’inverno fino al nuovo solstizio d’estate
rimanga in magra. 3 Ma non c’è stato un Egiziano dal quale sia
riuscito a raccogliere alcuna spiegazione su questi fenomeni, quando chiedevo
perchè il Nilo abbia la facoltà di comportarsi al contrario
degli altri fiumi. Li interrogavo per sapere ciò che ho detto, e
perchè dal Nilo soltanto, fra tutti i fiumi, non spirino brezze. 20) 1 Ma certi Elleni, per farsi fama di dotti, hanno
enunciato sul variare delle acque del Nilo tre spiegazioni, di due delle
quali non ritengo che valga la pena far menzione, tranne che per
un’indicazione sommaria. 2 Secondo la prima di esse,le piene del fiume
dipendono dai venti Etesi, che impedirebbero al Nilo di riversarsi nel mare.
Ma spesso gli Etesi non soffiano affatto, e il comportamento del Nilo non
cambia. 3 Inoltre , se la causa fosse degli Etesi, bisognerebbe che tutti gli
altri fiumi che scorrono in senso a loro contrario si comportassero in modo
analogo ed identico al Nilo; e tanto più in quanto, essendo più
piccoli, la loro corrente è più debole; mentre molti fiumi
della Siria e della Libia si comportano in maniera del tutto diversa. 21) La seconda spiegazione è meno scientifica della
precedente e ad esporla più strana. Il Nilo subirebbe questi fenomeni
perchè deriva dall’Oceano, il quale Oceano circonderebbe tutta la
Terra. 22) La terza spiegazione poi, che è di gran lunga la
più speciosa,,e anche la più falsa di tutte. Che valore
può infatti avere l’affermazione per cui il Nilo - il quale sbocca
nell’Egitto venendo dalla Libia attraverso l’Etiopia ! - proverrebbe dalla
fusine delle nevi? 2 Come può trarre origine dalle nevi se scende
dalle regioni più calde verso altre più temperate? Basta sapere
ragionare su questi argomenti perchè molte prove ci convincano che
tale provenienza è persino inverosimile, per il Nilo. La prima e
più soddisfacente è quella dei venti: i quali spirano
caldi dalla sua regione di origine. 3 La seconda è costituita
dal fatto che in quella contrada non cade mai pioggia nè si forma
ghiaccio.( La pioggia è, dentro cinque giorni da una nevicata,
inevitabile; quindi se lì nevicasse pioverebbe.) La terza prova
è il colorito degli uomini, che è, a causa del clima
torrido,nero. 4 I nibbi e le rondini rimangono in quei luoghi tutto l’anno,
senza abbandonarli; e le gru, fuggendo l’inverno della Scizia, vi si recano
per svernarvi. se , invece per quanto poco, vi nevicasse, è
irrefutabilmente provato che non avrebbe, in questa regione attraversata dal
corso del Nilo e da cui esso prende origine, nessuno di questi fenomeni. 23) Chi poi ha parlato dell’Oceano si riferisce ad una
causa ignota e toglie ogni possibilità di esame. Io non conosco
l’esistenza di alcun fiume Oceano, e credo che questo nome sia un’invenzione
di Omero o di qualcuno dei poeti precedenti, che l’hanno introdotto nella
loro poesia. 24) 1 Che se, dopo la critica delle spiegazioni messe innanzi
da altri, devo esprimere la mia opinione su questa astrusa questione,
dirò da che cosa secondo me dipende il fatto che la piena del Nilo abbia
luogo in estate. Durante la stagione invernale le tempeste scacciano il sole
dal suo corso abituale, ed esso percorre l’interno della Libia. 2 E se mi si
chiede la spiegazione più concisa non ho nient’altro da aggiungere. E’
infatti naturale che la contrada a cui questo Dio è più vicino
e che egli attraversa sia più sitibonda, e che le correnti dei suoi
fiumi si inaridiscono. 25) 1 Ma se mi si chiede una spiegazione in più ampia
sono pronto a darla. Percorrendo l’interno della Libia produce il Sole i seguenti
effetti. Giacchè l’aria di questa contrada rimane perpetuamente
serena, e la terra vi è calda e senza venti freddi, il Sole vi
provoca, nel percorrerla, quegli effetti che suole produrre d’estate quando
passa a metà del cielo: 2 trae a sè l’acqua e, dopo averla
attratta, la restituisce nella zona più interna, dove i venti ne
raccolgono, disperdono e sciolgono i vapori. Si spiega così benissimo
che i venti che spirano da questa regione, il noto e il lips, siano di gran
lunga i più piovosi fra tutti. 3 Ma io credo che il sole neppure
restituisca tutta l’acqua che volta per volta assorbe dal Nilo, e che
una parte di essa rimanga intorno a lui. Quando poi l’inverno si
mitiga, il sole torna di nuovo a metà del cielo, 4 e da questo momento
assorbe ugualmente da tutti i fiumi, i quali sono finora stati in piena,
avendo ricevuto molta acqua piovana, ed essendo la terra umida di
pioggia e solcata da canali, ma d’estate non hanno forza perchè
vengono a mancar loro le piogge e sono assorbiti dal sole. 5 Invece il Nilo,
che d’inverno non riceve piogge ed è assorbito dal sole, è
l’unico fiume che in questa stagione corra naturalmente molto più
basso del livello normale che non d’estate; perchè d’estate è
assorbito non diversamente da tutti gli altri corsi d’acqua, mentre
d’inverno è l’unico ad essere assorbito. 26) 1 Sicchè io mi son convinto che questi fenomeni
dipendono dal Sole. Da quello stesso sole che è pure secondo me la
causa per cui l’aria, bruciata durante il suo percorso,è, in quella
contrada, asciutta. Regna così nell’interno della Libia un’estate
perpetua. 2 Ma se mutasse il corso delle stagioni, e in quella zona del cielo
dove ora c’è borea e l’inverno stessero noto e il mezzogiorno, e dove
ora si trova noto ci fosse borea, se le cose stesero così, il sole
scacciato da mezzo al cielo dall’inverno e da borea, percorrerebbe, come ora
percorre l’interno della Libia, l’interno dell’Europa, l’attraverserebbe
tutta e credo che produrrebbe sull’Istro quegli effetti che ora produce sul
Nilo. 27) Per il fatto che dal Nilo non spirano brezze,
è mia opinione che da contrade molto calde non se ne levi alcuna. Le
brezze spirano di solito da una regione fredda. 28) 1 Ma lasciamo queste cose come sono e come sono sempre
state. Nessuno degli Egiziani, dei Libi e degli Elleni che hanno parlato con
me ha sostenuto di conoscere le sorgenti del Nilo, tranne il sovraintendente
al tesoro sacro di Atena, la città egiziana di Sais. 2 Il quale
affermava di essere esattamente informato, ma a me fece l’impressione che
scherzasse. Diceva che c’erano due monti, con le vette terminanti in punta,
siti tra la città di Siene nella Tebaide, ed Elefantina; e che questi
monti portavano i nomi l’uno di Crofi e l’altro di Mofi. 3 Le sorgenti del
Nilo sarebbero senza fondo e proromperebbero fra questi monti; e metà
delle acque scorrerebbero verso l’Egitto e il vento di borea, l’altra
metà verso l’Etiopia e il noto. 4 Le sorgenti sarebbero senza fondo:
cosa che sarebbe risultata da un esperimento del re Psammetico. Il quale avrebbe
fatto intrecciare una fune di molte migliaia di orge, l’avrebbe calata in
quel punto, ed essa non sarebbe giunta al fondo. 5 Secondo me il racconto di
questo sovraintendente dimostra, se egli diceva ciò che riteneva vero,
che in quel punto hanno luogo forti vortici e un riflusso, e che lo
scandaglio gettato non può, per l’urto dell’acqua contro i monti,
toccare il fondo. 29) 1 Da nessun altro son riuscito ad apprendere
alcunchè. Ma dirò quanto ho saputo e fin dove ho potuto sapere.
Fino alla città di Elefantina sono giunto con i miei occhi; da essa in
poi ho attinto notizie per sentito dire. 2 Risalendo dalla città di
Elefantina il paese è ripido. Si deve avanzare legando il vascello ai
due lati, come un bue; se si libera la forza della corrente se lo porta via
d’impeto. In questa regione si naviga per quattro giorni. E il Nilo vi
è sinuoso come il Meandro. 3 Si deve navigare in questa maniera per
dodici scheni, e si arriva in una pianura unita dove il Nilo circonda
un’isola che si chiama Tachompso. 4 Da Elefantina in su abitano ormai Etiopi,
come anche su metà dell’isola, sull’altra metà della quale
abitano Egiziani. All’isola è contiguo un gran lago, intorno al quale,
abitano etiopi nomadi. Lo si attraversa e si riprende il corso del Nilo, che
sbocca in questo lago. 5 E poi si sbarca, e si fa una marcia di quaranta
giorni lungo il fiume; perchè dal Nilo sporgano scogli acuti e vi
affiorano molte rocce, attraverso le quali è impossibile navigare. 6
Si percorre, nei quaranta giorni che ho detto, questa regione, e si torna ad
imbarcarsi in un altro vascello per un’altra navigazione di dodici giorni,
dopo i quali si arriva in una grande città che porta il nome di Meroe.
Si dice ch’essa sia la metropoli di tutti gli Etiopi. 7 I soli dei adorati
dai suoi abitanti sono Zeus e Dioniso, che sono tenuti in grande onore. E
presso di loro sorge un oracolo di Zeus. Muovono in guerra quando e dove lo
comandano i vaticini di questo Dio. 30) 1 Navigando da questa città si arriva presso i
Disertori, in altrettanto tempo quanto se ne è impiegato da
Elefantina alla metropoli degli Etiopi. Questi Disertori si chiamano
Asmach, parola che tradotta nella lingua degli Elleni significa “quelli
che stanno alla sinistra del re”. 2 Questi Egiziani della casta dei guerrieri
erano duecentoquarantamila, e passarono agli Etiopi per il motivo che sto per
dire. Al tempo del re Psammetico vi era nella città di
Elefantina di fronte agli Etiopi una guarnigione, una seconda a Dafne nel
Pelusio, una terza di fronte agli Arabi e agli Assiri, e una quarta a Marea,
di fronte alla Libia. 3 E ancora ai miei tempi e sotto i Persiani le
guarnigioni erano così disposte, come sotto Psammetico. C’è
infatti ad Elefantina e a Dafne un presidio Persiano. Quegli Egiziani erano
stati di guarnigione per tre anni, e nessuno veniva a dar loro il cambio. Si
consultarono, si ribellarono tutti di comune accordo a Psammetico, e
marciarono verso l’Etiopia. 4 Psammetico ne fu informato e li inseguì;
li raggiunse e li pregò insistentemente per dissuaderli dall’abbandonare
gli Dei patrii, i figli e le donne. Ma si dice che uno gli abbia risposto,
mostrandogli i genitali, che con quelli avrebbero avuto ovunque i figli e le
donne. 5 Giunsero in Etiopia e si consegnarono al re degli Etiopi. Il
quale,essendo in conflitto con un gruppo di Etiopi, li ricambiò
invitandoli a scacciarli e ad occupare il territorio. E questi Egiziani si
insediarono nel suolo degli Etiopi, i quali ne assimilarono i costumi e
divennero più civili. 31) Sicchè il corso del Nilo è conosciuto,
oltre i confini dell’Egitto, per quattro mesi di navigazione e di marcia. In
realtà risulta, a conti fatti, che tanti sono i mesi che s’impiegano
per un viaggio da Elefantina a questi Disertori. E il corso del fiume procede
da occidente. Ma da da qui in poi non si possono più avere notizie
esatte, essendo la regione, per il grande calore deserta. 32 1) Ma dirò ciò che ho sentito da uomini di
Cirene. Dicevano di essersi recati all’oracolo di Ammone e di essere venuti a
colloquio con il re degli Ammoni Etearco. Discorrendo, la conversazione era
caduta sul Nilo, e nel fatto che nessuno ne conosceva le sorgenti. Allora
Etearco avrebbe detto che erano venuti da lui dei Nasamoni, 2) popolazione
della Libia che abita la Sirte e un breve tratto più a oriente. 3) Che
erano giunti e che, richiesti se fossero in grado di allargare le sue
cognizioni sui deserti della Libia, avrebbero risposto che c’erano stati
presso di loro giovani sfrenati, figli di alti personaggi, i quali divenuti
adulti, avrebbero, fra le altre stravaganze, tratti a sorte cinque di loro
per esplorare i deserti della Libia e tentare di scoprire qualche cosa di
più delle più lontane scoperte già fatte. 4) La costa
della Libia lungo il mare settentrionale, cominciando dall’Egitto fino al
capo Soloento che segna la fine della Libia, è tutta occupata da
libici, anzi da molte popolazioni libiche, tranne le località abitate
da elleni e fenici. Ma al di là della costa e delle popolazioni della
zona marittima della Libia è piena di belve. E al di là della
zona delle belve c’è sabbia, terribile siccità e deserto
assoluto. 5) Questi giovani mandati dai loro coetanei percorsero, ben forniti
di acqua e di viveri, il paese abitato, lo attraversarono, e giunti alla zona
della belve; usciti dalla quale s’inoltrarono nel deserto seguendo la via
verso il vento zefiro; 6) Percorsero per molti giorni un lungo tratto di
paese sabbioso, e finalmente videro degli alberi che sorgevano in una
pianura; vi si avvicinarono, e cominciarono a raccogliere i frutti che quegli
alberi portavano; ma mentre li raccoglievano furono assaliti da uomini di
piccola statura, al di sotto della normale, che li presero e li trassero con
se. I nasamoni non capivano nulla della loro lingua, e neppure quelli che li
traevano con se capivano i Nasamoni. 7) Furono condotti attraverso paludi
vastissime, le attraversarono, e giunsero in una città dove tutti
erano di statura eguale a quella dei loro rapitori e di pelle nera. E
scorreva lungo la città da occidente verso il sol levante un gran
fiume, nel quale si vedevano coccodrilli. 33 1) Non prolungherò oltre il racconto dell’ammonio
Etearco. Aggiungo solo che egli asseriva che i Nasamoni, per detto dei
Cirenei, fossero rimpatriati, e che gli uomini presso i quali essi sarebbero
giunti fossero tutti stregoni. 2) Questo fiume che scorreva presso la
città anche Etearco congetturava che fosse il Nilo; ed è
ragionevole pensarlo e crederlo. Proviene infatti il Nilo dalla Libia, da
esso divisa a metà; e, per quanto i congetturo deducendo ciò
che non si conosce da ciò che tutti sanno, la distanza tra la sua foce
e l’origine è la stessa che per l’Istro. 3) Infatti il coro del fiume
Istro, che comincia dai Celti e dalla città di Pirene, divide l’Europa
nel mezzo. ( I Celti si trovanofuori delle colonne D’Eracle, e confinano con
i Cinesii, l’ultima popolazione europea verso occidente. 4) Attraversa,
l’istro, tutta l’Europa, e sbocca nelle acque del Mare Ospitale, dove i
coloni Milesi hanno la città di Istria. 34 1) Sicchè attraversando paesi abitati, questo
fiume è conosciuto da molti, mentre delle sorgenti del Nilo nessuno sa
dare notizia, perchè la Libia, da esso percorsa, è inabitata e
deserta. Ho parlato del corso del Nilo fino al limite che le mie ricerche
hanno potuto raggiungere. Esso sbocca nell’Egitto, e l’Egitto e sito
pressappoco rimpetto alla Cicilia Montuosa, 2) dalla quale a Sinope sul Mare
Ospitale ci sono per un uomo svelto in linea dritta cinque giorni di cammino;
e Sinope è sita dirimpetto alla foce dell’Istro. Sicchè ritengo
che il Nilo, il quale attraversa tutta la Libia, abbia una corso uguale
all’Istro. 35 1) Passo invece a parlare diffusamente dell'Egitto
perché, rispetto a ogni altro paese, è quello che racchiude in sé
più meraviglie e che presenta più opere di una
grandiosità indescrivibile: ecco perché se ne discorrerà
più a lungo.1) Gli Egiziani oltre a vivere in un clima diverso dal
nostro e ad avere un fiume di natura differente da tutti gli altri fiumi,
possiedono anche usanze e leggi quasi sempre opposte a quelle degli altri
popoli: presso di loro sono le donne a frequentare i mercati e a praticare la
compravendita, mentre gli uomini restano a casa a lavorare al telaio; e se in
tutto il resto del mondo per tessere si spinge la trama verso l'alto, gli Egiziani
la spingono verso il basso. Gli uomini portano i pesi sulla testa, le donne
li reggono sulle spalle. 3) Le donne orinano d'in piedi, gli uomini
accovacciati; inoltre fanno i loro bisogni dentro casa e consumano i pasti
per la strada, sostenendo che alle necessità sconvenienti bisogna
provvedere in luoghi appartati, a quelle che non lo sono, invece, davanti a
tutti. 4) Nessuna donna svolge funzioni sacerdotali né per divinità
maschili né per divinità femminili: per gli uni e per le altre il
compito spetta agli uomini. I figli maschi non hanno alcun obbligo di
mantenere i genitori se non lo desiderano, ma per le figlie l'obbligo
è ineludibile anche se non vogliono. 36 1) Negli altri paesi i sacerdoti degli dei portano i
capelli lunghi, invece in Egitto se li radono. E se presso gli altri popoli,
in caso di lutto, i più colpiti, di regola, si radono il capo, gli
Egiziani, quando qualcuno muore, si lasciano crescere i capelli e la barba
che prima si radevano. 2) Gli altri uomini vivono ben separati dagli animali,
in Egitto si abita insieme con loro. Gli altri si nutrono di grano e orzo, in
Egitto chi si nutre di questi prodotti si attira il massimo biasimo: essi si
preparano cibi a base di "olira", che alcuni chiamano
"zeia". 3) Impastano la farina con i piedi mentre lavorano il fango
con le mani [e ammucchiano il letame]. Gli Egiziani si fanno circoncidere,
mentre le altre genti, a eccezione di quanti hanno appreso da loro tale
pratica, lasciano i propri genitali come sono. Ogni uomo possiede due vestiti;
le donne ne possiedono uno solo. 4) Gli altri legano gli anelli delle vele e
le sartie all'esterno, gli Egiziani all'interno. I Greci scrivono e fanno di
conto coi sassolini da sinistra a destra, gli Egiziani da destra a sinistra,
e ciò facendo sostengono di procedere nel verso giusto, mentre i Greci
scriverebbero a rovescio. Possiedono due sistemi di scrittura che chiamano
"sacra" e "demotica". 37 1) Sono straordinariamente devoti, più di
tutti gli uomini e si attengono alle seguenti prescrizioni: bevono in tazze
di bronzo, che sfregano ben bene ogni giorno, tutti, senza eccezioni; 2)
indossano vesti di lino sempre lavate di fresco, e nel lavarle mettono molta
cura. E si circoncidono per ragioni igieniche, anteponendo l'igiene al decoro
personale. Ogni due giorni i sacerdoti si radono tutto il corpo per non avere
addosso pidocchi o sudiciume di qualunque genere mentre servono gli dei: i
sacerdoti 3) indossano solo vesti di lino e calzano solo sandali di papiro:
non possono portare indumenti o calzari di materiale diverso. Si lavano con
acqua fredda due volte al giorno e due volte ogni notte e si attengono a vari
altri cerimoniali: ne hanno a migliaia, si fa per dire. 4) Ma la loro
condizione comporta anche privilegi non indifferenti; per esempio non consumano
e non spendono il loro patrimonio privato: gli vengono cotti pani sacri e
quotidianamente ricevono ciascuno una grande quantità di carni bovine
e di oca; e gli si offre anche vino d'uva; di pesci però non possono
cibarsi. 5) Gli Egiziani non seminano assolutamente fave nel loro paese, e
quelle che crescono spontaneamente non le mangiano né crude né cotte: i
sacerdoti non ne tollerano neppure la vista considerandole un legume impuro.
Non c'è un solo sacerdote per ciascuna divinità, ma molti e uno
di loro funge da sommo sacerdote; e quando ne muore uno gli succede il
figlio. 38 1) Considerano gli Egiziani,sacri ad Epafo i buoi e
perciò li selezionano con cura: se vedono in un bue anche un solo pelo
nero lo ritengono impuro.2) Uno dei sacerdoti è preposto a
compiere questa ispezione: esamina l'animale facendolo stare in piedi e steso
sul dorso e gli osserva anche la lingua accertandone la purezza sulla base di
certi indizi prestabiliti di cui parlerò in un'altra occasione;
esamina anche i peli della coda per vedere se sono cresciuti normalmente. 3)
Se il bue risulta completamente privo di impurità, il sacerdote lo
contrassegna legandogli un foglio di papiro intorno alle corna; sul papiro
applica creta da sigilli; vi appone il marchio e l'animale viene portato via.
Per chiunque sacrifichi un bue privo di marchio è prevista la morte
come punizione. Questo per quanto riguarda la cernita del bestiame; il
sacrificio poi si svolge così. 39 1) Conducono la bestia marchiata presso l'altare
designato per il rito e accendono il fuoco; versano quindi libagioni di vino
sulla vittima e la sgozzano sull'altare invocando il dio, e dopo averla
sgozzata le tagliano la testa. 2) Il corpo lo scuoiano, la testa invece, dopo
averle scagliato contro numerose maledizioni, la portano via: dove c'è
un mercato e tra la popolazione si trovino commercianti greci, allora la
portano al mercato e la vendono, dove non ci sono Greci la gettano nel fiume.
3) Nel maledire le teste di bue pregano che se una sciagura sta per
sopravvenire sui sacrificanti o sull'Egitto intero, si scarichi invece su
quella testa. 4) Quanto alle teste degli animali sacrificati e alla libagione
di vino tutti gli Egiziani osservano lo stesso rituale, identico, per tutti i
sacrifici; in conseguenza proprio di tale usanza, nessun Egiziano si
ciberebbe mai della testa di alcun animale 40 1) Invece l'estrazione delle viscere della vittima e il
modo di bruciarle differiscono a seconda dei sacrifici. E ora vengo a parlare
della dea che essi considerano più importante, in onore della quale
celebrano la festa più importante.2) Dopo aver scuoiato il bue,
pronunciano le preghiere rituali e lo sventrano togliendo tutti gli intestini
ma lasciando nella carcassa i visceri e il grasso; tagliano poi le zampe, la
punta dei lombi, le spalle e il collo. 3) Quindi riempiono ciò che
resta del bue con pani di farina pura, miele, uva secca, fichi, incenso,
mirra e altre sostanze aromatiche, e così riempito lo bruciano in
sacrificio versandovi sopra olio in abbondanza. Prima del sacrificio osservano
il digiuno; e mentre le vittime bruciano tutti si battono il petto; quando
hanno smesso di battersi il petto, si preparano un banchetto con le parti
rimaste della vittima. 41 1) Tutti gli Egiziani sacrificano i buoi maschi e i
vitelli che risultano puri, ma non possono toccare le mucche in quanto sacre
a Iside. 2) E infatti la statua di Iside rappresenta una donna con corna
bovine, proprio come i Greci raffigurano Io; assolutamente non c'è
animale domestico venerato dagli Egiziani più delle femmine dei
bovini. 3) Per questo motivo mai nessun Egiziano, uomo o donna, accetterebbe
di baciare un Greco sulla bocca, né mai userebbe il coltello, lo spiedo o la
pentola di un Greco, e neppure assaggerebbe la carne di un bue puro tagliato
con un coltello greco.4) Quando un bovino muore, gli danno sepoltura
nel modo seguente: le mucche le gettano nel fiume, i buoi li seppelliscono
ciascuno nel proprio sobborgo, lasciando spuntare dal suolo a mo' di
indicazione un corno della bestia o anche entrambi. Si attende che l'animale
si sia decomposto e al momento stabilito in ogni città arriva una
barca dall'isola chiamata Prosopitide.5) L'isola si trova nel Delta:
nel suo perimetro, di nove scheni, si trovano varie altre città, ma
quella da cui vengono le imbarcazioni a caricare le ossa dei buoi si chiama
Atarbechi; qui ha sede un tempio sacro ad Afrodite.6) Da Atarbechi
partono in molti verso differenti città: dissotterrano le ossa, le
portano via e le seppelliscono in un unico luogo. E così seppelliscono
anche gli altri animali che muoiono; anche per essi vige l'identica legge:
non li possono uccidere. 42 1) Quanti hanno eretto un tempio a Zeus Tebano, o sono
del distretto di Tebe, sacrificano capre evitando di toccare le pecore. 2) In
effetti gli Egiziani non venerano tutti ugualmente gli stessi dei, tranne
Iside e Osiride, che dicono corrispondere a Dioniso: queste due
divinità le venerano proprio tutti. Quanti hanno un santuario di
Mendes o fanno parte del distretto Mendesio si astengono dal sacrificare
caprini e uccidono solo ovini. 3) I Tebani e chi ha appreso da loro ad
astenersi dalle pecore dicono che tale regola venne imposta loro per la
seguente ragione. Eracle, raccontano, fu preso da un gran desiderio di vedere
Zeus, ma Zeus non voleva essere visto da lui; poiché Eracle insisteva Zeus
dovette ricorrere ad un artificio: 4) scuoiò un montone e gli
tagliò la testa; poi si mostrò a Eracle tenendo la testa del
montone davanti alla propria e indossandone la pelle. Ecco perché gli Egiziani
rappresentano Zeus nelle statue con la testa di montone; e come gli Egiziani
fanno gli Ammoni, che sono coloni egiziani ed etiopici e la cui lingua
è una via di mezzo tra l'egiziano e l'etiope. 5) A mio parere gli
Ammoni derivarono dal dio egizio anche il loro nome, dato che gli Egiziani
chiamano Ammone Zeus. Dunque per questo motivo i Tebani non sacrificano i
montoni, anzi li ritengono animali sacri. 6) Però c'è un
giorno, nell'anno, durante la festa di Zeus, in cui uccidono un montone, lo
scuoiano e con la sua pelle rivestono nella stessa maniera la statua di Zeus;
accanto ad essa trasportano una statua di Eracle; dopodiché tutti gli addetti
al tempio si battono il petto in segno di lutto per il montone e lo
seppelliscono in una fossa (barca) consacrata. 43 1) A proposito di Eracle ho sentito raccontare che
è una delle dodici divinità. Dell'altro Eracle, quello
conosciuto dai Greci, in nessuna parte dell'Egitto ho potuto avere
notizie.2) Che non siano stati gli Egiziani a prendere il nome di
Eracle dai Greci, ma piuttosto i Greci dagli Egiziani, e precisamente quei
Greci che chiamarono Eracle il figlio di Anfitrione, molti indizi me lo
provano e il seguente in particolare: Anfitrione e Alcmena, i genitori
dell'Eracle greco, avevano antenati originari dell'Egitto. Del resto gli
Egiziani dichiarano di non conoscere i nomi né di Posidone né dei Dioscuri, e
non li annoverano fra le restanti divinità. 3) Ora, se gli Egiziani
avessero adottato dai Greci un personaggio divino, si sarebbero ricordati di
questi in misura non minore, ma maggiore, se è vero che anche allora
erano dediti alla navigazione ed esistevano dei marinai Greci; così
almeno mi aspetterei e questo il mio ragionamento richiede. Insomma non
Eracle bensì queste altre figure divine gli Egiziani avrebbero dovuto
derivare dai Greci.4) L'Eracle egiziano è certamente un dio
antico; come essi stessi raccontano fra il regno di Amasi e l'epoca in cui
gli originari otto dei diventarono dodici (Eracle secondo loro era uno di
questi dodici) son passati 17.000 anni. 44 1) Io poi, volendo conoscere le cose con chiarezza
da chi era in grado di dirmele, mi recai per mare fino a Tiro, in Fenicia;
avevo saputo che là si trovava un tempio sacro a Eracle, 2) e lo vidi,
riccamente adorno di molti e vari doni votivi; e fra l'altro c'erano due
colonnine, una d'oro puro, l'altra di smeraldo che nella notte riluceva
grandemente. Conversando con i sacerdoti del dio domandai da quanto tempo
fosse stato costruito il tempio, 3) e così constatai che neanche nel
caso loro c'era concordanza con i Greci: mi risposero infatti che il tempio
risaliva all'epoca della fondazione di Tiro, e che Tiro era abitata da 2300
anni. A Tiro vidi anche un altro tempio di Eracle, detto di Eracle Tasio, 4)
perciò visitai anche Taso e vi trovai un santuario di Eracle edificato
dai Fenici che, andando per mare alla ricerca di Europa, fondarono Taso; e
tutto ciò era accaduto almeno cinque generazioni prima che in Grecia
nascesse l'Eracle figlio di Anfitrione. 5) Le indagini dimostrano dunque, con
evidenza, che Eracle è un dio molto antico. Per conto mio
l'atteggiamento più corretto lo mostrano quei Greci che hanno
edificato santuari dedicati a due Eracle, a uno sotto l'appellativo di
Olimpio offrendo sacrifici come a un dio immortale, all'altro rendendo onori
come a un eroe. 45 1) Sono molte e varie le cose che i Greci
raccontano con assoluta superficialità, fra le quali una sciocca
storia riguardante un viaggio di Eracle in Egitto; qui gli Egiziani dopo
avergli legato intorno alla testa le sacre bende lo avrebbero condotto in
processione per immolarlo a Zeus; lui per un po' sarebbe rimasto tranquillo,
ma poi, quando cominciarono presso l'altare i riti per il suo olocausto, fece
ricorso alla forza e uccise tutti gli Egiziani. 2) A me pare che i Greci
narrando questa favoletta dimostrino di ignorare assolutamente l'indole e le
usanze egiziane. Infatti, gente per cui costituisce empietà persino
immolare animali, tranne ovini, buoi, vitelli, e purché siano puri, e oche,
come potrebbe, gente così, compiere sacrifici umani? 3) E come
avrebbe potuto Eracle, da solo, e per di più da semplice mortale, a
sentir loro, uccidere decine di migliaia di Egiziani? A noi che abbiamo speso
così tante parole su tali argomenti gli dei e gli eroi concedano il
loro favore. 46 1) Ma ecco perché i Mendesi, Egiziani da noi già
nominati, non sacrificano né i maschi né le femmine delle capre: essi
annoverano Pan fra le otto divinità, e dicono che queste otto
divinità esistevano prima dei dodici dei, 2) e gli artisti nelle
loro pitture e nelle loro sculture rappresentano Pan come fanno i Greci, con
volto di capra e zampe di capro; non perché lo credano fatto così,
anzi lo ritengono simile agli altri dei, ma per una ragione che ora non mi fa
piacere riferire. 3) I Mendesi venerano tutti i caprini, gli esemplari
femmina e ancora di più i maschi, i cui guardiani ricevono onori
maggiori; tra gli animali ce n'è uno particolarmente venerato alla cui
morte nel nomo di Mendes si proclama un lutto generale. 4) Tra l'altro capro
e Pan, in egiziano si dicono "mendes". E ai miei tempi in questo
distretto avvenne un fatto straordinario: pubblicamente una donna si
accoppiava con un capro, alla luce del sole, dico, davanti a tutti. 47 1) Gli Egiziani considerano il maiale un animale
immondo; già uno, se fa tanto di sfiorare un maiale passandogli
accanto, va subito a immergersi nel fiume, così com'è, con
tutti i vestiti indosso; i guardiani di maiali, poi, anche se egiziani di
nascita, sono gli unici a non poter entrare in alcun santuario egiziano; e
nessuno desidera concedere per sposa sua figlia a uno di loro, o prendere in
moglie la figlia di un porcaro, tanto che i porcari finiscono per celebrare
matrimoni solo all'interno del gruppo. 2) Gli Egiziani non ritengono lecito
offrire suini a dei che non siano Selene e Dioniso; a tali divinità
sacrificano maiali, nello stesso periodo, nello stesso plenilunio, e ne
mangiano le carni. Sul motivo per cui nelle altre feste si astengono con
orrore dai maiali, e in questa invece ne sacrificano, gli Egiziani narrano una
leggenda: io la conosco ma non mi sembra molto decorosa da riferire. 3)
L'offerta del maiale alla dea Selene avviene nel modo seguente: una volta
ucciso l'animale, si prendono insieme la punta della coda, la milza e
l'omento, li si ricopre per bene col grasso ventrale della vittima e li si
brucia; delle altre carni ci si ciba nel giorno di plenilunio, lo stesso in
cui il rito ha luogo: in giorni diversi non le si assaggerebbe nemmeno. I
poveri, non avendo altre risorse, impastano focacce in forma di maiale, le fanno
cuocere e poi le "sacrificano". 48 1) Invece in onore di Dioniso, la vigilia della festa,
ciascuno sgozza un porcellino davanti alla propria porta e lo consegna allo
stesso porcaro che glielo aveva venduto perché se lo porti via. 2) Per il resto,
a parte l'assenza di cori, la festa dedicata dagli Egiziani a Dioniso
è pressoché identica a quella dei Greci. Al posto dei falli hanno
inventato statuette mosse da fili, alte circa un cubito che le donne portano
in giro per i villaggi; ogni marionetta è fornita di un pene
oscillante, lungo quasi quanto il resto del corpo. In testa alla processione
va un suonatore di flauto, le donne lo seguono inneggiando a Dioniso. 3) Una
leggenda sacra spiega per quale ragione il fallo è così
sproporzionato e perché nelle statuette è l'unica parte dotata di
movimento. 49 1) Io credo che già Melampo figlio di
Amiteone non ignorasse questo rito sacrificale, anzi ne avesse esperienza
diretta. Effettivamente fu Melampo a introdurre fra i Greci la
divinità di Dioniso, i sacrifici relativi, e la processione dei falli;
o meglio, egli non rivelò tutto in una volta tale culto: i sapienti
venuti dopo di lui ampliarono le sue rivelazioni. Fu però Melampo a
introdurre la processione del fallo in onore di Dioniso, ed è dopo averlo
appreso da lui che i Greci fanno quello che fanno. 2) Io credo insomma che
Melampo, certamente persona di grande sapienza, si procurò
capacità divinatorie e introdusse in Grecia parecchi culti conosciuti
in Egitto, tra cui in particolare quello di Dioniso, operando in essi poche
modifiche. Non posso ammettere che il rito egiziano coincida fortuitamente
con quello greco: in questo caso il rito greco sarebbe conforme ai costumi
greci e non di recente introduzione; 3) né posso ammettere che gli Egiziani abbiano
derivato dai Greci questa o altre usanze. A me pare altamente probabile che
Melampo abbia appreso il culto di Dioniso da Cadmo di Tiro e dai suoi
compagni, giunti dalla Fenicia nel paese oggi chiamato Beozia. 50 1) Dall'Egitto vennero in Grecia quasi tutte le
divinità. Di una loro origine barbara io sono convinto perché
così risulta dalle mie ricerche; e penso a una provenienza soprattutto
egiziana. 2) Infatti a eccezione di Posidone e dei Dioscuri, come ho
già avuto modo di dire, nonché di Era, di Estia, di Temi, delle Cariti
e delle Nereidi, le altre divinità sono tutte presenti da sempre in
quel paese, fra gli Egiziani: riporto quanto essi stessi dichiarano. Quanto
alle divinità che sostengono di non conoscere io credo che tutte siano
espressione dei Pelasgi, tranne Posidone. Conobbero questo dio dai Libici;
infatti nessun popolo conosce Posidone fin dalle origini tranne i Libici, che
da sempre lo onorano. Quanto al culto degli Eroi, esso è del tutto
estraneo alle consuetudini egiziane. 51 1) Tutto questo dunque i Greci accolsero dagli Egiziani,
e altro ancora che dirò più avanti; ma l'uso di fabbricare le
statue di Ermes con il pene ritto non deriva dagli Egiziani bensì dai
Pelasgi: i primi ad adottarlo fra i Greci furono gli Ateniesi, e da loro lo
impararono gli altri. 2) Infatti, quando ormai gli Ateniesi si erano del
tutto ellenizzati, nel loro paese vennero ad abitare dei Pelasgi; che
è anche la ragione per cui costoro cominciarono a essere considerati
Greci. Chi è iniziato ai misteri dei Cabiri, misteri che i Samotraci
celebrano dopo averli acquisiti dai Pelasgi, sa ciò che dico. 3) In
effetti i Pelasgi venuti a coabitare con gli Ateniesi si stanziarono poi in
Samotracia e da loro i Samotraci appresero tali misteri. 4) Insomma gli Ateniesi
furono i primi Greci a raffigurare nelle statue Ermes con il membro ritto
perché lo avevano imparato dai Pelasgi. In proposito i Pelasgi composero un
sacro racconto divulgato durante i misteri di Samotracia. 53 1) Da chi sia nato ciascuno degli dei, oppure se siano
sempre esistiti tutti e quale aspetto avessero, non era noto fino a poco
tempo fa, fino a ieri, se così si può dire. 2) Io credo che
Omero ed Esiodo siano più vecchi di me di 400 anni e non oltre: e
furono proprio questi poeti a fissare per i Greci la teogonia, ad assegnare i
nomi agli dei, a distribuire prerogative e attività, a dare chiare
indicazioni sul loro aspetto; 3) i poeti che hanno fama di essere vissuti
prima di loro io li credo invece posteriori. Di quanto qui sopra esposto, le
prime informazioni provengono dalle sacerdotesse di Dodona, ciò che si
riferisce a Omero e a Esiodo è opinione mia. 54 1) A proposito dei due oracoli, quello greco di
Dodona e quello libico di Zeus Ammone, gli Egiziani narrano una storia. I
sacerdoti di Zeus Tebano mi raccontarono di due donne, due sacerdotesse,
rapite da Tebe ad opera di Fenici: una di loro, come avevano appreso
più tardi, era stata venduta in Libia, l'altra in Grecia; a queste
donne risalirebbe la fondazione degli oracoli esistenti fra i suddetti
popoli. 2) Io domandai ai sacerdoti da dove attingessero notizie così
precise sugli avvenimenti ed essi mi risposero che avevano cercato a lungo
quelle donne senza riuscire a trovarle; solo più tardi, aggiunsero,
avevano ottenuto su di loro le informazioni a me riferite. 55 1) Questo è quanto seppi dai sacerdoti di
Tebe. La versione delle indovine di Dodona è differente: secondo loro
due colombe nere volarono via da Tebe d'Egitto e giunsero l'una in Libia,
l'altra a Dodona. 2) Quest'ultima, appollaiata su di una quercia, con voce
umana avrebbe proclamato che si doveva fondare in quel luogo un oracolo di
Zeus; la gente di Dodona, ritenendo di origine divina un simile annuncio, si
comportò di conseguenza. 3) La colomba direttasi in Libia, narrano,
avrebbe ordinato ai Libici di fondare l'oracolo di Ammone, che è
anch'esso di Zeus. Questo mi raccontarono le sacerdotesse di Dodona, che si
chiamavano Promenia, la più anziana, Timarete, la seconda, e Nicandre,
la più giovane; e con la loro versione concordano anche gli altri
abitanti di Dodona addetti al santuario. La mia opinione al riguardo è
la seguente. 56 1) Se veramente i Fenici rapirono le sacerdotesse e
le vendettero, l'una in Libia e la seconda in Grecia, io credo che
quest'ultima fu venduta nel paese dei Tesproti, nell'attuale Grecia, che
allora si chiamava Pelasgia; 2) lì visse come schiava, poi, sotto una
quercia cresciuta spontaneamente, fondò un santuario di Zeus; era
logico che lei, già sacerdotessa di Zeus a Tebe, volesse perpetuarne
il ricordo anche là dov'era giunta. Più avanti, quando
imparò la lingua greca, diede inizio alle attività dell'oracolo.
3) Fu lei a raccontare di una sua sorella venduta in Libia dagli stessi
Fenici che avevano venduto lei. 57 1) A mio avviso i Dodonesi hanno chiamato colombe
le due donne perché erano barbare e perciò a loro sembravano emettere
suoni simili al canto degli uccelli, 2) e aggiungono che la colomba prese a
parlare con favella umana col passare del tempo, cioè quando la donna
cominciò a esprimersi in maniera comprensibile: finché si serviva di
un idioma barbaro sembrava a tutti che emettesse una specie di verso da
uccello; come avrebbe potuto una colomba parlare con voce umana? Descrivendo
poi la colomba come nera di colore, indicano che la donna proveniva
dall'Egitto. Guarda caso l'arte mantica praticata a Tebe d'Egitto e quella
praticata a Dodona sono assai simili fra loro. E anche la divinazione
mediante l'esame delle vittime sacrificate proviene dall'Egitto. 58 1) Gli Egiziani sono stati i primi al mondo a
istituire feste collettive, processioni e cortei religiosi; i Greci hanno
imparato da loro e ne abbiamo una prova: le solennità egiziane
risultano celebrate da molto tempo, quelle greche hanno avuto inizio di
recente. 59 1) Le feste collettive gli Egiziani non le
celebrano una sola volta all'anno, ma in continuazione: la principale, e
seguita con maggiore partecipazione, è dedicata ad Artemide, nella
città di Bubasti; la seconda ha luogo a Busiride ed è dedicata
a Iside; 2) in questa città, situata in Egitto nel bel mezzo del
Delta, si trova un grandissimo santuario di Iside, la dea che in greco si
chiama Demetra. 3) La terza festa è per Atena, nella città di
Sais, la quarta a Eliopoli, per il dio Elio, la quinta a Buto in onore di
Leto; la sesta è dedicata ad Ares e ha luogo nella città di
Papremi. 60 1) Ecco che cosa fanno quando si recano a Bubasti:
viaggiano sul fiume, uomini e donne insieme, una gran folla di entrambi i
sessi sopra ogni imbarcazione; alcune donne hanno dei crotali e li fanno
risuonare, alcuni uomini suonano il flauto per tutto il tragitto; gli altri,
uomini e donne, cantano e battono le mani; 2) quando giungono all'altezza di
un'altra città, accostano a riva e si comportano così: alcune
continuano a fare ciò che ho detto, altre a gran voce dileggiano le
donne del posto, altre danzano, altre ancora si alzano in piedi e si tirano su
la veste. Così in ogni città che incontrino lungo il fiume. 3)
Una volta arrivati a Bubasti, celebrano la festa offrendo imponenti
sacrifici; in questa ricorrenza si consuma più vino d'uva che in tutto
il resto dell'anno. Vi accorrono, a quanto sostengono i locali, fino a
settecentomila persone fra uomini e donne, senza contare i bambini. 61 1) Così a Bubasti; a Busiride quando
celebrano la festa di Iside tutto si svolge come ho già ricordato
prima. Dopo il sacrificio uomini e donne si battono tutti il petto, e sono
svariate decine di migliaia di persone: ma dire in onore di chi si battono il
petto sarebbe empio da parte mia. 2) Tutti i Cari che vivono in Egitto si
spingono molto più in là: con dei coltelli si infliggono ferite
sulla fronte, e da questo si capisce che non sono Egiziani, ma stranieri. 62 1) A Sais, quando si riuniscono per i riti
sacrificali, una determinata notte ciascuno accende molte lampade intorno
alla propria casa, all'aperto; le lampade sono delle ciotoline piene di sale
e di olio, sulla cui superficie galleggia il lucignolo e brucia per tutta la
notte; sicché la festa è detta "dei lumi accesi". 2) Gli
Egiziani che non si recano a questo raduno festivo aspettano la notte del
sacrificio e accendono a loro volta, tutti, le lucerne; e in tal modo non
solo a Sais si accendono lucerne, ma nell'intero Egitto. Si tramanda un
racconto sacro che spiega per quale motivo la notte in questione ha ricevuto
luce e venerazione. 63 1) Quelli che si recano a Eliopoli e a Buto
compiono soltanto dei sacrifici. Invece a Papremi hanno luogo sacrifici e
riti sacri come altrove: al tramonto del sole, mentre pochi sacerdoti si
occupano della statua del dio, i più, invece, attendono in piedi
all'ingresso del tempio armati di mazze di legno; altri uomini, oltre un
migliaio di persone che compiono un voto, se ne stanno tutti insieme in un
gruppo a parte, anch'essi armati di mazze. 2) La statua del dio, contenuta
dentro una specie di piccolo tabernacolo di legno ornato d'oro, era stata
trasportata, la vigilia della festa, in una diversa dimora sacra. I pochi
sacerdoti rimasti accanto ad essa tirano un carretto a quattro ruote, che
porta il tabernacolo con dentro la statua stessa, ma i sacerdoti in piedi
vicino all'ingresso non la lasciano entrare: allora il gruppo delle persone
impegnate a soddisfare il voto prende le difese del dio randellando i
sacerdoti; questi a loro volta reagiscono. 3) Insomma si scatena una violenta
rissa a colpi di bastone: si fracassano la testa e secondo me molti ci
lasciano la pelle in seguito alle ferite riportate; gli Egiziani comunque
escludono categoricamente che sia mai morto qualcuno. 4) Gli abitanti di
Papremi dicono di aver introdotto tale festa per il seguente motivo. Abitava
un tempo nel santuario la madre di Ares; Ares che era stato allevato altrove,
divenuto adulto, venne a Papremi per congiungersi con lei; ma i servitori
della madre non lo avevano mai visto prima di allora, perciò non gli
consentirono l'ingresso e lo mandarono via; Ares raccolse uomini da un'altra
città e usando le cattive maniere nei confronti dei servitori poté
entrare da sua madre. Da tale episodio, dicono, avrebbe tratto origine
l'usanza della bastonatura durante la festa in onore di Ares. 64 1) Gli Egiziani furono i primi a prescrivere di non
unirsi a donne nei santuari, e di non entrarvi, se si fossero uniti, senza
essersi lavati. Quasi tutti gli altri uomini, all’infuori degli Egiziani e
degli Elleni, si uniscono a donne nei santuari, e quando si levano dal loro
letto entrano in un santuario senza essersi lavati. Ritengono che per gli
uomini sia come per gli animali. 2) Vedono che gli animali e le diverse
specie di uccelli si accoppiano nei templi degli Dei e nei recinti sacri, e
pensano che, se ciò spiacesse alle divinità, nemmeno gli animali
si comporterebbero così. Da simili considerazioni deriva una condotta
che io disapprovo. 65 1) Invece gli Egiziani, scrupolosissimi nelle altre
prescrizioni sacre, lo sono anche in questa. 2) Benchè confini con la
Libia . l’Egitto non è ricco di animali; e quelli che ci sono son
tutti ritenuti sacri; gli uni vivono con gli uomini, altri no. Ma se dicessi
perchè sono consacrati agli Dei verrei aparlare di argomenti
religiosi, mentre io evito accuratissimamente di trattarne e ciò che,
sfiorandoli, ne ho detto, l’ho detto perchè non potevo farne a meno.
3) Per gli animali c’è questa istituzione. Sono designati fra gli
Egiziani, per il mantenimento di ogni specie di bestie, dei guardiani di ambo
i sessi: onore che si trasmette di padre in figlio. 4) E gli abitanti delle città
adempiono con loro, caso per caso, i seguenti voti che, per l’avvenuta
guarigione di figli, essi fanno alla divinità cui l’animale è
sacro. Radono ai fanciulli o tutta o la metà o la terza parte della
testa, mettono in una bilancia una quantità d’argento corrispondente
ai capelli, e l’argento che fa inclinare la bilancia viene consegnato alla
guardiana degli animali, la quale per questo compenso fa a pezzi dei pesci
per darli da mangiare alle bestie. 5) Questo è stabilito per il loro
mantenimento. Se poi una delle bestie viene uccisa accade questo: se
volontariamente, c’è la pena di morte; se involontariamente, si paga
una multa stabilita dai sacerdoti. Ma chi volontariamente o involontariamente
uccide un ibis o uno sparviero non può sfuggire alla morte. 66 1) Gli animali che vivono con l’uomo sono numerosi in
Egitto; ma lo sarebbero ancora molto di più se ai gatti non capitasse
quanto segue. Le femmine quando hanno partorito non si recano più dai
maschi; i quali le cercano senza però ottenere di unirsi a loro; 2) ed
ecco il rimedio che questi escogitano per questo inconveniente. Uccidono i
figli che rapiscono e sottraggono alle femmine. Li uccidono non li mangiano.
E quelle prive dei figli e desiderose di averne per questo desiderio si
recano dai maschi, perchè è un animale che ama aver figli. 3)
Quando poi scoppia un incendio i gatti sono presi da un istinto
soprannaturale. Gli Egiziani, disposti ad intervalli, fanno loro la guardia,
senza curarsi di spegnere il fuoco; ma essi s’insinuano in mezzo, balzano al
di sopra e si lanciano nelle fiamme. 4) E per questo gli Egiziani si mettono
in grave lutto. Nelle case dove un gatto muore di morte naturale tutti quelli
che l’abitano si radono soltanto le sopracciglia; dove muore un cane si
radono la testa e tutto il corpo. 67 1) I gatti morti vengono trasportati nella città
di Bubasti in camere sacre, dove li seppelliscono imbalsamati. I cani ogni
popolazione li seppellisce nella propria città dentro bare sacre. E
nello stesso modo dei cani vengono sepolti gli icneumoni. I toporagni e gli
sparvieri vengono portati nella città di Buto; gl’ibis nella
città di Ermes, 2) Gli orsi che sono rari, e i lupi che non sono molto
più grandi della volpi, vengono seppelliti nei luoghi dove sono
trovati morti. 68 1) Ecco le caratteristiche del coccodrillo. Durante i 4
mesi di pieno inverno non mangia niente. e’ un quadrupede, ma vive sia sulla
terraferma, sia nelle acque tranquille. Depone e cova le uova a terra, e
trascorre all’asciutto la maggior parte del giorno; ma la notte intera nel
fiume, perchè l’acqua è più calda dell’aria libera e
della rugiada. 2) Di tutti gli esseri mortali che noi conosciamo è
quello che dalle più piccole dimensioni arriva alle più vaste.
Le sue uova non sono molto più grandi di quelle d’oca e il piccolo
è in proporzione all’uovo, ma sviluppandosi arriva persino a
diciassette cubiti e anche di più. 3) Gli occhi sono come quelli del
maiale; ha i denti grandi e zanne sporgenti proporzionate al corpo. E’
l’unico animale che non abbia lingua; e non muove la mascella
inferiore; è unico anche in questo: accosta la mascella
superiore all’inferiore. 4) Ha unghie forti e la pelle coperta di squame,
impenetrabile sul dorso. Nell’acqua non ci vede, ma nell’aria aperta è
di acutissima vista. Vivendo nell’acqua, ha la bocca tutta piena di
sanguisughe. Gli altri uccelli e animali lo fuggono, ma col trochilo vive in
pace, per i servigi che ne riceve. 5) Il coccodrillo esce dall’acqua sulla
terra e apre la bocca, suole in genere tenerle aperta verso zefiro, e il trochilo
v’entra dentro a divorargli le sanguisughe. Il coccodrillo è lieto di
questo servizio, e non gli fa nessun male. 69 1) Per certi Egiziani i coccodrilli sono sacri; per
altri no, e li trattano invece da nemici. 2) Gli abitanti della regione di
Tebe e del lago di Meri li considerano assolutamente sacri. In ciascuna delle
due regioni scelgono fra tutti un coccodrillo, e lo allevano addomesticato e
alla mano; gli mettono alle orecchie pendenti di pietra liquida e d’oro, e
bracciali alle zampe anteriori; gli offrono gli alimenti prescritti e
vittime, e lo trattano in vita come meglio possono, morto lo seppelliscono
imbalsamato in una bara sacra. 3) Invece gli abitanti della regione di
Elefantina non ritengono i coccodrilli animali sacri, tutt’altro e li mangiano.
Gli Egiziani non li chiamano coccodrilli, li chiamano champse. Questo
nome di coccodrilli è degli Ioni, i quali li trovano simili ai krokodili
(lucertole) che si vedono da loro sui muri a secco 70 1) A queste bestie si da la caccia in parecchi e diversi
modi. Descrivo quella che a me sembra più degna di essere riferita. Si
mette come esca a d un amo la schiena di un maiale, e lo si cala in mezzo al
fiume; sull’orlo del quale l’uomo tiene un porcellino vivo, e lo batte. 2) Il
coccodrillo sente i grugniti, si dirige verso di essi, incontra la schiena
del maiale e la inghiotte; e gli uomini lo tirano. Viene tratto a terra, e
per prima cosa il cacciatore gli tura subito gli occhi con del fango.
Ciò fatto se ne impadronisce con grande facilità; se no, dura
fatica. 71 1) Il cavallo di fiume, che nel distretto di Papremi
è sacro, per gli altri Egiziani non lo è. Ecco le
caratteristiche del suo aspetto. E’ un quadrupede con i piedi forcuti come il
bue, camuso, e con una criniera di cavallo. Presenta zanne sporgenti; e ha la
coda e il nitrito del cavallo. Ha la pelle così spessa che la si
dissecca e se ne fanno aste per giavellotti. 72 1) Vi sono anche lontre, nel fiume, e sono ritenute
sacre. Tra i pesci considerano ugualmente sacri quello chiamato lepidoto, e
l’anguilla, dei quali dicono che sono sacri al Nilo; e tra gli uccelli le
ochevolpi. 73 1) C’è anche un altro uccello sacro, che ha il
nome di fenice. Io non l’ho visto se non dipinto; e infatti raramente viene in
Egitto: ogni 500 anni , a detta degli Eliopoliti; 2) e dicono che viene
quando gli muore il padre. Se somiglia alla sua immagine dipinta le sue
dimensioni e il suo aspetto sono come dirò. Ha le ali in parte color
d’oro, in parte rosse; per linea e per grandezza lo si può dire
somigliantissimo all’aquila. 3) E si racconta di lui quest’impresa, alla
quale per conto mio non credo. Dicono che si parta dall’Arabia; che, avvolto
in un letto di mirra, trasporterebbe il padre nel santuario del sole, e che
ivi lo seppellisca. Ecco come lo trasporterebbe. 4) Foggerebbe prima un uovo
di mirra, così grande da poterlo portare, e ne tenterebbe il
trasporto. Fatto il tentativo, vuoterebbe l’uovo per riporvi il padre, e
coprirebbe con altra mirra il posto per dove avrebbe, dopo vuotato
l’uovo, introdotto il padre: il quale posto dentro, ristabilirebbe il peso
originario; e, copertolo, lo trasporterebbe in Egitto al santuario del Sole.
Così dicono che faccia quest’uccello. 74 1) Ci sono , nei dintorni di Tebe, serpenti sacri
assolutamente innocui per l’uomo. Sono piccoli, e portano due corna, che
nascono dal sommo della testa. Vengono seppelliti, quando muoiono nel
santuario di Zeus, perchè sono ritenuti sacri a questo Dio. 75 1) C’è una regione dell’Arabia sita all’incirca
presso la città di Buto; io mi ci son recato per informarmi dei
serpenti alati. Ci andai, e vidi, in una quantità indescrivibile, ossa
e spine dorsali di serpenti. V’erano mucchi di spine dorsali; molti mucchi:
grandi, meno grandi, e ancora più piccoli. 2) E descrivo ora questa
regione cosparsa delle spine dorsali. E’ un passo stretto che dai monti
sbocca in una gran pianura, la quale si riattacca alla pianura egiziana. 3)
Dicono che al comparire della primavera i serpenti alati spicchino il volo
dall’Arabia verso l’Egitto, e che gli uccelli ibis andando loro incontro a
questo passo non permettano ai serpenti l’entrata nel paese, e li uccidono.
4) Dicono gli Arabi che gli Egiziani onorano molto l’ibis per questo suo
merito, e anche gli Egiziani confermano di onorare per tale ragione questi
uccelli. 76 1) Aspetto dell’ibis. E’ tutto completamente nero; ha le
gambe della gru e il becco assai ricurvo; e le sue dimensioni sono quelle del
francolino. E’ questo l’aspetto dell’ibis nero, che combatte contro i serpenti.
Ed ecco l’aspetto dell’ibis che più frequentemente la gente si trova
fra i piedi, perchè ce ne sono due specie. 2) Il capo e tutta la gola
sono nudi; le penne bianche, (tranne quelle del corpo, del collo, delle
estremità delle ali e della coda: parti che sono tutte assolutamente
nere); le gambe e il becco sono simili a quelli dell’altro ibis. 3) La forma
del serpente è come quella delle bisce d’acqua; porta ali non piumate,
pressappoco identiche a quelle del pipistrello. E basta per gli animali sacri.
77 1) Quanto poi alla popolazione umana, gli abitanti
dell’Egitto seminato, coltivando più di tutti i popoli il ricordo del
passato, sono gli uomini di gran lunga più dotti di cui io sia giunto
a fare esperienza. 2) Ecco il loro regime di vita. Si purgano ogni mese per
tre giorni di seguito e si curano la salute con emetici e lavaggi,
perchè ritengono che tutte le malattie derivino dai cibi con cui ci si
nutre. 3) Del resto sono gli Egiziani, dopo i Libici, la gente più
sana del mondo; secondo me in grazia del clima, perchè non ci sono
trapassi di stagione. Sono i cambiamenti che per lo più sviluppano le
malattie, qualsiasi cambiamento, e specialmente quelli di stagione. 4) I pani
che mangiano sono di olira che essi chiamano cillesti. E bevono
un vino fatto con l’orzo, perchè nel loro paese non ci sono vigne.
Mangiano i pesci o crudi, seccati al sole, o salati traendoli dalla salamoia.
5) Quanto agli uccelli mangiano crude la quaglie, le anatre e gli uccelletti
minuti. E tutte le altre specie, tutti gli altri uccelli o pesci di cui
dispongono li mangiano arrostiti o bolliti. 78 1) Nelle riunioni dei ricchi Egiziani, alla fine del
pranzo un uomo porta in giro un morto scolpito in legno dentro la bara,
scolpito e dipinto con grandissima rassomiglianza, della dimensione
complessiva di circa uno o due cubiti; lo mostra a ciascuno dei convitati e
dice:” Guarda questo, e bevi e godi, da morto sarai così”. 79 1) Così fanno nei conviti. Si tengono agli usi
aviti, e non importano alcuna novità. tra i loro costumi notevoli
c’è pure il fatto che conoscono un solo canto, il Lino, che è
cantato nella fenicia, a Cipro e altrove. 2) E’ vero che il nome cambia
secondo i popoli, ma si è d’accordo nel ritenere che l’eroe sia quello
stesso che gli Elleni cantano sotto il nome di Lino. Sicchè tra i
molti argomenti di meraviglia che mi offre l’Egitto c’è anche questo
Lino, da dove ne avranno tratta conoscenza? Che cantino sempre questo
personaggio non c’è dubbio. In Egiziano il nome di Lino è Manero.
3) Alcuni Egiziani mi dissero che egli fu il figlio unico del primo re
d’Egitto, il quale sarebbe morto prematuramente, e gli egiziani lo
onorerebbero con questi canti funebri. E mi dissero che questo sia stato il
primo e l’unico loro tipo di melodia. 80 1) Ed ora un uso egiziano che coincide con un uso
ellenico, ma praticato dai soli Lacedemoni. In Egitto se dei giovani
incontrano degli anziani cedono il passo e si fanno da parte, e se
sopraggiungono uomini anziani si alzano dal seggio. 2) Ecco invece un uso che
non trova riscontro in alcuna consuetudine ellenica: per la
strada gli egiziani non si rivolgono parole di saluto, fanno una riverenza,
abbassando la mano fino al ginocchio. 81 1) Indossano tuniche di lino che chiamano calasiri,
con frange intorno alle gambe, e portano su di esse, gettati sulle spalle,
mantelli bianchi di lana. Ma non introducono roba di lana nei santuari, e non
vi si avvolgono nella sepoltura: cose vietate dalla loro religione. 2)
Coincide quest’uso con le prescrizioni dette orfiche e bacchiche, ma in realtà
egiziane e importate da Pitagora, anche agli iniziati a questi misteri
è interdetto farsi seppellire con vesti di lana. E c’è a questo
proposito un racconto sacro. 82 1) Ed ecco alcune scoperte degli egiziani, a quale
divinità sia sacro ogni mese ed ogni giorno, e l’arte di stabilire
secondo il giorno della nascita, quali saranno gli avvenimenti di ciascuno,
la sua vita e la sua fine. Scoperta di cui hanno fatto uso gli Elleni che
hanno coltivato la poesia. 2) Hanno scoperto gli egiziani un maggior numero
di presagi di tutti gli altri uomini. Quando ha luogo un prodigio, essi
osservano e mettono per iscritto ciò che avviene dopo, e se si ripete
qualche cosa che ricordi questo prodigio ritengono che gli avvenimenti
seguenti saranno analoghi 83 1) Dirò come è praticata la divinazione in
Egitto: quest’arte non è competenza di alcun uomo, ma di certe
divinità. V’è un oracolo di Eracle, uno di Apollo, uno di
Atena, uno di Artemide, uno di Zeus; ma in maggior onore è tenuto
quello di Leto nella città di Buto. L’arte divinatoria non è
del resto dappertutto la stessa, varia secondo il Dio o la Dea. 84 1) In Egitto la medicina è divisa così:
ogni medico non cura parecchie malattie, ne cura una sola. E il paese
è pieno di medici: degli occhi, della testa, dei denti, della regione
addominale, delle malattie di localizzazione incerta. 85 1) Lamenti funebri e funerali. Quando in una casa viene
a mancare qualcuno di riguardo, tutte le persone di sesso femminile si
coprono la testa ed anche il viso di fango; lasciano il morto nella casa, e
si aggirano per la città percuotendosi, con una cintura alla vita e i
seni scoperti; e con loro tutte le donne del parentado. 2) Gli uomini si
percuotono con una cintura alla vita. Compiono questo rito, e portano il cadavere
a imbalsamare. 86 1) C’è gente che attende a questo lavoro e
professa quest’arte. 2) Viene portato un cadavere, e costoro presentano
modelli di mummie in legno, dipinte al naturale. E dicono che
l’imbalsamazione più accurata sia quella di colui di cui uno scrupolo
religioso mi vieta di fare il nome in tale circostanza. Poi mostrano il
secondo tipo, inferiore a questo e meno costoso, e il terzo che è il
più a buon mercato. Danno questa spiegazione, e chiedono ai clienti
secondo quale tipo vogliono imbalsamato il loro morto. 3) I clienti si
mettono daccordo per un prezzo e si ritirano. Nell’officina restano gli
artigiani e se si tratta del tipo di imbalsamazione più accurata vi
attendono come segue. Estraggono anzitutto con un ferro ricurvo il cervello dalle
narici, in parte così, in parte introducendovi dei farmaci. 4) Poi con
una pietra etiopica tagliente, praticano un’incisione all’inguine; tirano
fuori senz’altro tutti gl’intestini; trattili fuori, li nettano per bene con
vino di palma, e li tornano a pulire con polvere di aromi. 5) Quindi
riempiono il ventre di pura mirra tritata, di cannella e di altri aromi,
tranne l’incenso, e richiudono cucendo. E dopo salano il corpo immergendolo
nel salnitro per settanta giorni: non devono lasciarlo nel sale per un periodo
più lungo. 6) Trascorsi settanta giorni lavano il morto e spalmandolo
di gomma, che gli egiziani usano in genere invece della colla, avvolgono il
corpo con fasce tagliate in tela di bisso. 7) Quindi i parenti ritirano la
mummia, fanno fare una scultura di legno in forma umana, e v’includono il
morto. Ve lo rinchiudono, e lo tengono gelosamente in una camera funeraria
ponendolo ritto contro la parete. 87 1) E’ questa la maniera più costosa d’imbalsamare
i morti. Per chi invece, ad evitare forti spese, vuole il trattamento medio,
si procede così. 2) Riempiono senz’altro, con siringhe, senza
praticarvi incisioni nè toglierne gli intestini, il ventre del morto
di olio di cedro: iniettando il liquido, cui si impedisce di tornare
indietro, dalla parte posteriore; si immette per il numero di giorni
prescritto, il corpo nel sale. E l’ultimo giorno si fa uscire dal ventre
l’olio di cedro che vi era stato prima immesso: 3) il quale ha tale efficacia
da trasportare con se gli intestini e i visceri disciolti. Le carni invece
sono corrose dal salnitro. Sicchè restano del morto la pelle e le
ossa. Ciò fatto, gl’imbalsamatori non hanno che da consegnare il
morto; ed il loro lavoro è finito. 88 1) E passiamo al terzo tipo d’imbalsamazione, che si
applica ai meno abbienti. Si purificano gli intestini con la syrmania,
si mette per i soliti settanta giorni il corpo nel sale, poi senz’altro lo si
consegna e porta via. 89 1) Le mogli dei personaggi in vista non vengono date
subito dopo la morte ad imbalsamare, e neppure le donne di grande bellezza e
maggior considerazione; le quali solo dopo due o tre giorni vengono
consegnate agli imbalsamatori. 2) E ciò per impedire che vengano
violate. Si dice che un imbalsamatore sia stato sorpreso mentre si univa ad
una donna morta di recente, e che sia stato denunciato dal compagno. 90 1) Se si trova un uomo, non importa se egiziano o
straniero, rapito da un coccodrillo o ucciso dal fiume stesso, gli abitanti
della città sul territorio della quale viene gettato sono
assolutamente tenuti ad imbarsamarlo, ad acconciarlo nel miglior modo, e a
seppellirlo in bare sacre. 2) E nessuno, sia parente o amico, ha diritto di
toccarlo; tranne i sacerdoti del Nilo, i quali lo seppelliscono con le
proprie mani, essendo esso ritenuto qualche cosa di più che il
cadavere di un uomo. 91 1)Gli egiziani rifuggono dall’adottare usi ellenici e,
per dire tutto in breve, gli usi di qualsiasi popolo. Questa è la
regola. Ma c’è Chemis, una grande città del distretto tebano
presso Neapoli. 2) E c’è in essa un santuario quadrangolare di Perseo
figlio di Danae, intorno al quale sorgono delle palme. I propilei del
santuario sono di pietra, assai grandi; e s’ergono, lì presso due
grandi statue di pietra. In questo recinto c’è, dentro, un tempio,
dove sorge una statua di Perseo. 3) I Chemmiti dicono che Perseo appare
spesso nel loro paese, e spesso dentro il santuario, e che allora vi si trova
un sandalo usato, che è della lunghezza di due braccia, all’apparire
del quale tutto l’Egitto gode di prosperità. 4) Così affermano;
e in onore di Perseo hanno adottato un uso ellenico, hanno istituito i
giuochi ginnici che abbracciano ogni genere di gara, offrendo come premi
animali, tuniche e pelli. 5) Chiesi loro perchè Perseo voglia apparire
a loro soli, e perchè si siano, con l’istituire dei giuochi ginnici,
distinti dagli altri egiziani. Mi risposero che Perseo è oriundo della
loro città, perchè Danao e Linceo, che salparono per l’ellade,
sarebbero stati Chemmiti; e mi fecero tutta la genealogia da questi fino a
Perseo. 6) Dissero che quest’ultimo, giunto in Egitto per il motivo addotto
anche dagli Elleni, per riportare cioè alla Libia la testa della
Gorgone, si sarebbe recato anche da loro, e avrebbe riconosciuto tutti i suoi
parenti; e che quando giunse in Egitto conosceva bene il nome di Chemmi, che
aveva appreso dalla madre. E mi dissero che per ordine suo celebravano in suo
onore giuochi ginnici. 92 1) Tutti questi usi appartengono agli egiziani che
abitano al di là delle paludi. E gli stessi usi degli altri egiziani adottano
quelli che risiedono nelle regioni delle paludi; ognuno di loro per esempio,
convive con una sola moglie, come gli Elleni. Ma per mantenersi a buon
mercato hanno escogitato altri mezzi. 2) Quando il fiume è in piena e
le pianure diventano un mare, nasce in grande quantità nell’acqua una
specie di giglio, che gli egiziani chiamano loto. Lo raccolgono, lo seccano
al sole, e ne pestano la parte interna simile alla testa di un papavero, di
cui fanno pani che cuociono al fuoco. 3) Ed è mangereccia anche la
radice, di questo loto: di un gradevole sapore dolce, rotonda, e di grandezza
come una mela. 4) C’è poi un’altra specie di giglio, simile alla rosa,
che anch’esso nasce nel fiume. Il suo frutto si trova su uno stelo che nasce
dalla radice accanto allo stelo principale, ed è similissimo a un favo
di vespe. Vi si trovano molti grani da mangiare, grossi come il nocciolo di
un olivo, e che si mangiano sia freschi che secchi. 5) Il papiro, che d’anno
in anno si sviluppa, annualmente, viene strappato dalle paludi; e poi ne
tagliano le parti superiori, che adoperano per altri usi o che vendono; e
mangiano la pare inferiore rimasta, lunga circa un braccio. Quelli che
vogliono ricavare dal papiro un cibo squisito lo mangiano dopo averlo immerso
in un recipiente caldissimo. Alcuni di questi egiziani vivono di solo pesce.
Lo prendono, lo vuotano, lo seccano al sole, e lo mangiano secco. 93 1) E’ difficile trovare nelle acque del fiume i pesci
che vanno a frotta. Crescono negli stagni, e fanno così: quando li
prende brama della fecondazione nuotano in frotta verso il mare; i maschi in
testa, spargono il seme; e le femmine dietro lo inghiottono e ne vengono
fecondate. 2) Quando queste sono ingravidate nel mare, i pesci rimontano,
ogni gruppo indietro alla sede abituale. Ma non più i maschi sono alla
testa; la direzione passa alla femmine. Le quali nuotano a schiera in testa,
e fanno ciò che facevano i maschi. Spargono le uova a piccoli gruppi
di grani, mentre i maschi dietro le divorano, 3) e questi grani sono pesci. Dai
grani superstiti, non divorati, nasce la nuova generazione. I pesci che
vengono presi mentre nuotano verso il mare appaiono consunti nella parte
sinistra del capo, quelli presi mentre rimontano sono consunti a destra. 4) E
ciò avviene loro perchè discendono al mare tenendosi alla riva
sinistra, e risalgono indietro a contatto della stessa riva, aderendo e
sfiorandola quanto più possono, affinchè la corrente non li
faccia deviare. 5) All’inizio della piena del Nilo cominciano a riempirsi per
prime le parti basse del paese e gli stagni lungo il fiume, perchè
l’acqua filtra dal fiume; e appena queste zone si riempiono pullulano di
piccoli pesci. 6) Da dove è verosimile che essi nascono? io credo di
intuirlo. Quando il Nilo si ritira, i pesci, deposte le uva nel fango, si
ritirano insieme con le ultime acque; e quando, compiutosi il periodo
fluviale, l’anno dopo ritorna l’acqua, tutti i pesci nascono da queste uova.
E questo è quanto riguarda i pesci. 94 1) Gli egiziani che abitano la regione delle paludi usano
un olio estratto dal frutto del ricino; gli egiziani lo chiamano kiki. E
lo preparano come segue. Seminano questo ricino, che nel paese degli elleni
cresce selvaggio, spontaneamente, lungo le rive dei fiumi e degli stagni. 2)
E questa pianta seminata in Egitto produce un frutto abbondante ma di cattivo
odore. Gli egiziani lo raccolgono, lo fanno a pezzi e lo spremono, o lo
cuociono dopo averlo arrostito, e raccolgono il succo che ne esce. E’ un
liquido grasso, per le lucerne non meno adatto dell’olio di uliva; ma di
odore sgradito. 95 1) Contro le zanzare, che sono in grande abbondanza, gli
egiziani adottano questo rimedio. Gli abitanti al di là delle paludi
ricorrono alle torri e per dormire salgono su di esse: perchè, a causa
dei venti, le zanzare non riescono a volare in alto. 2) Gli abitanti della
paludi adottano, invece delle torri quest’altro rimedio. Possiede ognuno una
rete con la quale di giorno prende i pesci; e di notte l’usa così: la
dispone intorno al letto su cui riposa, vi si introduce, e dorme al sicuro.
3) Le zanzare, se uno dorme in un mantello o un panno di lino, forano e
mordono; invece la rete le arresta senz’altro. 96 1) I battelli egiziani per il trasporto delle merci sono
costruiti in legno di acacia: un albero di aspetto similissimo al loto di
Cirene, e da cui goccia della gomma. Tagliano da questa acacia pezzi di legno
di circa due braccia, che mettono insieme come mattoni, costruiscono il
battello come segue. 2) Collegano i pezzi di legno, di due cubiti, con lunghi
e frequenti cavicchi; e quando hanno costruito in questo modo vi tendono
sopra delle traverse. Nessun uso di tavole laterali. Turano le commessure
interne on papiro; 3) e apprestano un solo timone, che passa attraverso la
carena. Per l’albero adoperano l’acacia e per le vele il papiro, Questi
battelli non possono risalire il fiume se non domina un forte vento, e
vengono tirati da terra. Invece in discesa ecco come vanno. 4) C’è un
graticcio costruito di tamarisco, tenuto insieme da una stuoia di canne, e una
pietra forata del peso di circa due talenti. La tavola vien gettata, legata a
una fune, avanti al battello, che il fiume la porti - alla superficie-, e
dietro, con un’altra fune, la pietra. 5) La tavola sotto l’urto della
corrente cammina veloce trascinando la baris tal nome hanno appunto
questi battelli, e la pietra, trascinata dietro e stando sul fondo de fiume,
mantiene diritto il corso della navigazione. Gli egiziani hanno una grande
quantità di questi battelli, di cui alcuni trasportano molte migliaia
di talenti. 97 1) Quando il Nilo ha inondato il paese, al di sopra
delle acque si vedono solo le città, simili pressappoco alle isole del
mar Egeo: giacchè tutto il resto dell’Egitto diventa un mare, e
solamente le città ne emergono. Sicchè i traghetti, quando
avviene l’inondazione, non si svolgono più lungo i bracci del fiume,
ma tagliando in mezzo la pianura. 2) E per risalire da Naucrati a Menfi il
percorso passa proprio dalle piramidi, deviando dalla via solita, che passa
per il vertice del Delta e per la città di Cercasoro. E se dal mare e
da Canopo ci si reca a Naucrati navigando attraverso la pianura, si arriva
alla città di Antilla e a quella chiamata di Arcandro. 98 1) Una di queste, Antilla, è una città
considerevole, ed è prescelta per fornire le calzature alla moglie del
re di volta in volta regnante in Egitto: ciò che avviene da quando
l’Egitto è sotto i Persiani. 2) L’altra città a me pare che,
essendo essa chiamata la città di Arcandro, tragga il nome dal genero
di Danao, Arcandro figlio di Ftio figlio di Acheo. Ma potrebbe esserci un
altro Acandro. Certo il nome non è egiziano. 99 1) Finora ho esposto i risultati di quanto ho visto,
riflettuto, e appreso con le mie ricerche. Passerò adesso ad esporre
quello che gli egiziani raccontano, secondo ciò che ho udito; e vi
aggiungerò qualche cosa che ho visto direttamente. 2) Di Min, il primo
re dell’Egitto, i sacerdoti mi dicevano che protesse Menfi con una diga. Il
fiume scorreva lungo tutta la catena sabbiosa che è dalla parte della
Libia; e Min creò con un argine, a circa cento stadi oltre Menfi, quel
gomito a mezzogiorno prosciugando il letto antico, e avviò il fiume
tra le due catene di monti. 3) E ancor oggi questo gomito del Nilo
così deviato è sotto l’accurata sorveglianza dei Persiani, che
ogni anno lo rinforzano perchè, se in questo punto il fiume dovesse
rompere e straripare, tutta Menfi rischierebbe di venire sommersa. 4) Quando
Min che fu il primo re, ebbe prosciugato la regione da cui deviò il
Nilo, vi fondò la città che è ora chiamata Menfi, e che
si trova già nella parte stretta dell’Egitto. A settentrione e a
occidente ricavò dal fiume un lago; invece a oriente la cinge il Nilo
stesso; e vi fondò il santuario di Efesto, che è grande e
degnissimo di fama. 100 1) Dopo di lui i sacerdoti mi elencarono da un libro i
nomi di altri trecentotrenta re. E in tante generazioni c’erano diciotto
Etiopi, e una donna indigena; gli altri erano uomini ed egiziani. 2) La donna
che regnò aveva lo stesso nome della regina babilonese, Nicotri. Della
quale dicevano che per vendicare il fratello, l’avevano ucciso gli egiziani
su cui regnava, e così, dopo averlo ucciso,avevano rimesso a lei il
regno, per vendicarlo aveva con un inganno ammazzato molti egiziani. 3)
Costruì una vastissima sala sotterranea, e finse di inaugurarla; ma
era un tranello. Invitò quegli egiziani che sapeva maggiormente
responsabili dell’uccisione, e offrì un banchetto a molta gente; ma
durante il convito lanciò contro di loro la corrente del fiume,
immessa in un largo condotto segreto. 4) Questo dicevano di lei. Ma poi per
sfuggire alla vendetta, si sarebbe, dopo il fatto, gettata in una stanza
piena di cenere ardente. 101 1) Gli altri re di cui non raccontavano alcuna gesta,
dicevano che non si erano affatto distinti, tranne unicamente l’ultimo, Meri
2) Il quale avrebbe, per suo ricordo, edificato i propilei di Efesto volti a
settentrione, avrebbe scavato un lago di cui più in là
indicherò in stadi il perimetro, e vi avrebbe costruito delle
piramidi, delle cui dimensioni farò cenno assieme con quelle del lago.
Sarebbero queste le sue opere. Di nessun altro dicono che abbia compiuto
alcunchè. 102 1) Io dunque li tralascerò per menzionare invece
il re salito al potere dopo di loro, che si chiamava Sesostri. 2) Di Sesostri
i sacerdoti mi raccontarono che per primo si mosse con una flotta di lunghe
navi dal Golfo d'Arabia per soggiogare le popolazioni insediate lungo le
coste del Mare Eritreo; avanzò con le sue navi finché raggiunse un
braccio di mare non più navigabile a causa dei bassi fondali. 3) Se ne
tornò allora di là in Egitto, dove, secondo il racconto dei
sacerdoti, raccolse un numeroso esercito e marciò attraverso il
continente, sottomettendo ogni popolazione che gli si parava sul cammino. 4)
Quando si imbatteva in popoli valorosi e particolarmente attaccati alla
propria libertà, sul posto lasciava delle stele con iscrizioni che
ricordavano il suo nome, la sua patria e come li avesse soggiogati con il suo
esercito; 5) quando si vedeva consegnare le città senza combattere e
prontamente, incideva sulle stele lo stesso discorso riservato ai popoli
valorosi, ma vi aggiungeva l'immagine degli organi sessuali femminili;
intendeva così rendere chiaro che quelle erano genti imbelli. 103 1) Così facendo attraversò l'intero continente,
poi passò dall'Asia in Europa e assoggettò gli Sciti e i Traci.
Queste mi sembrano le regioni estreme toccate dall'esercito egiziano: in
effetti nel paese degli Sciti e dei Traci si vedono ancora erette delle stele
commemorative, che spingendosi oltre non si vedono più. 2) Di
là ritirandosi tornò indietro e raggiunse il fiume Fasi dove
non saprei dire con certezza se fu il re Sesostri personalmente a distaccare
una parte del suo esercito e a lasciarla sul posto per colonizzare la
regione, oppure se alcuni soldati decisero di stabilirsi nei dintorni del
Fasi, stanchi di girovagare con il loro re. 104 1) È chiaro comunque che gli abitanti della
Colchide sono di origine egiziana: io lo avevo pensato prima ancora di
sentirlo dire da altri. E come mi venne in testa l'idea, condussi un'indagine
fra le due popolazioni; ne risultò che i Colchi conservavano memoria
degli Egiziani più che gli Egiziani dei Colchi; ma gli Egiziani
ritenevano, così dissero, che i Colchi discendessero da una parte
dall'esercito di Sesostri. 2) Io me ne ero già accorto per conto mio:
i Colchi hanno la pelle scura e i capelli crespi (cosa che, per la
verità, non permette di trarre nessuna conclusione certa, dal momento
che anche altre popolazioni presentano queste caratteristiche); ma decisiva
mi era parsa la constatazione che Colchi, Egiziani ed Etiopi sono gli unici
popoli a praticare la circoncisione fin dalle origini. 3) Gli stessi Fenici e
i Siri della Palestina ammettono di averla derivata dagli Egiziani; i Siri
del fiume Termodonte e del Partenio e i Macroni loro confinanti dichiarano di
avere appreso tale uso dai Colchi e di recente. Questi sono i soli popoli a
praticare la circoncisione e tutti chiaramente rifacendosi agli Egiziani. 4)
Fra Egiziani ed Etiopi non saprei dire chi abbia imparato da chi, perché in
entrambi i casi si tratta evidentemente di una istituzione antica. Ma del
fatto che tutti gli altri l'abbiano appresa per aver avuto frequenti
relazioni con l'Egitto, io possiedo una prova decisiva: tutti i Fenici che
hanno contatti con la Grecia non seguono più le usanze egiziane e non
circoncidono più i loro figli. 105 1) E già che ci siamo citerò un
ulteriore particolare che avvicina i Colchi agli Egiziani: sono i soli due
popoli a lavorare il lino nella stessa maniera. E nell'insieme il loro
sistema di vita, come le loro lingue, si assomigliano. Il lino dei Colchi dai
Greci è chiamato "sardonico", mentre quello proveniente
dall'Egitto è detto "egiziano". 106 1) La maggior parte delle stele fatte erigere dal
re dell'Egitto Sesostri non sopravvive più ai nostri occhi, ma nella
Siria Palestina io stesso ne ho viste di superstiti, con le iscrizioni
suddette, e i genitali femminili. 2) Nella Ionia restano anche due
bassorilievi raffiguranti Sesostri, scolpiti nella roccia, uno sulla strada
che porta da Efeso a Focea l'altro sulla strada da Sardi a Smirne; 3) in
entrambi i posti è raffigurato un uomo alto quattro cubiti e mezzo che
stringe nella mano destra una lancia e nella sinistra un arco e che porta così
ripartito anche il resto dell'abbigliamento, metà egiziano e
metà etiopico: 4) una iscrizione in geroglifici egiziani è
incisa sul suo petto, da una spalla all'altra, e dice: "Io con queste
mie spalle mi sono conquistato questo paese"; chi sia e da dove venga il
personaggio in questione l'iscrizione qui non lo spiega, l'ha indicato
altrove. 5) Alcuni di quelli che l'hanno vista avanzano l'ipotesi che
l'immagine raffiguri Memnone, ma sono molto lontani dalla verità. 107 1) Come raccontavano i sacerdoti, l'egiziano Sesostri,
mentre ritornava in Egitto conducendo con sé molti prigionieri appartenenti
alle popolazioni da lui sottomesse, si trovò a un certo punto del
cammino a Dafne Pelusica, dove suo fratello (era il fratello a cui Sesostri
aveva affidato il governo temporaneo dell'Egitto) invitò lui e i figli
a un banchetto e poi fece ammassare cataste di legna intorno alla casa e vi
appiccò il fuoco. 2) Come se ne accorse, Sesostri si consigliò
con la moglie (l'aveva infatti con sé) ed essa gli suggerì di gettare
due dei loro figli (che erano sei in tutto) sulle cataste incendiate e di
mettersi in salvo camminando sui loro corpi come su di un ponte; così
fece Sesostri: due figli dunque morirono tra le fiamme, mentre gli altri si
salvarono con il padre. 108 1) Sesostri tornò in Egitto e vendicatosi del
fratello, ecco poi come utilizzò la massa di individui che aveva
condotta con sé dai paesi sottomessi: 2) li adibì al traino di quelle
pietre di dimensioni spropositate che furono trasportate fino al tempio di
Efesto sotto il suo regno; e li obbligò a scavare tutti i canali oggi
esistenti in Egitto; contro il loro volere trasformarono così
l'Egitto, prima interamente percorribile a cavallo o con carri, in un paese
tutto diverso. 3) Da allora infatti l'Egitto, pur essendo del tutto
pianeggiante, è diventato intransitabile per chi proceda a cavallo o
con un carro, e ciò proprio per via dei canali, numerosi e rivolti in
ogni direzione. 4) Ma ecco la ragione per cui il re fece tagliare con canali
il territorio: tutti gli Egiziani residenti in città lontane dal
fiume, nell'interno, ogni volta che cessava la piena del Nilo, rimanevano
privi di acqua e si servivano perciò di acque salmastre che
attingevano dai pozzi; ecco perché l'Egitto fu solcato da canali. 109 1) I sacerdoti mi dissero che Sesostri
ripartì il territorio fra tutti gli Egiziani, assegnando a ciascuno un
lotto di forma quadrangolare di uguali dimensioni: poi si garantì le
entrate fissando un tributo da pagarsi con cadenza annuale. 2) Se a qualcuno
il fiume sottraeva una parte del lotto, c'era la possibilità di
segnalare l'accaduto presentandosi al re in persona: questi inviava dei
tecnici a verificare e a misurare con esattezza la diminuzione di terreno,
affinché il proprietario potesse per il futuro pagare il tributo in giusta
proporzione. 3) Scoperta, mi pare, per questa ragione, la geometria
passò poi dall'Egitto in Grecia. La meridiana, lo gnomone e la
suddivisione della giornata in dodici parti i Greci li hanno appresi invece
dai Babilonesi. 110 1) Sesostri fu l'unico re egiziano a regnare anche
sull'Etiopia; in ricordo di sé lasciò davanti al tempio di Efesto due
grandi statue di pietra di trenta cubiti, raffiguranti lui e la moglie, e
altre quattro dei figli, di venti cubiti ciascuna. 2) Molto tempo più
tardi il sacerdote di Efesto non permise a Dario il Persiano di erigere
accanto a esse una sua statua; negava che Dario avesse compiuto imprese pari
a quelle di Sesostri, l'Egiziano: Sesostri aveva sottomesso non meno
popolazioni di Dario, ma in più anche gli Sciti che Dario invece non
era stato capace di assoggettare, 3) pertanto non sarebbe stato giusto
collocare di fronte ai monumenti dedicati a Sesostri la statua di uno che non
aveva superato le sue imprese. E pare che Dario, di fronte a questa
argomentazione, lo abbia perdonato. 111 1) I sacerdoti mi raccontavano che, morto Sesostri,
ricevette il regno suo figlio Ferone; e che questi non compì alcuna
impresa militare: gli capitò anzi di diventare cieco per la ragione
che ora esporrò. Una volta il fiume si ingrossò fino a
raggiungere una altezza di 18 cubiti, tanto da sommergere le coltivazioni e,
levatosi un forte vento improvviso, il fiume divenne agitato; 2) pare allora
che il re con un gesto avventato ed esecrando, impugnata una lancia, l'abbia
scagliata fra i gorghi del fiume; subito dopo cadde ammalato e diventò
cieco. Tale rimase per dieci anni; all'undicesimo gli pervenne un oracolo
dalla città di Buto: il tempo della punizione era terminato e avrebbe
riavuto la vista lavandosi gli occhi con l'orina di una donna che avesse
avuto rapporti soltanto col proprio marito e non avesse mai conosciuto altri
uomini. 3) Il re provò prima con sua moglie, poi, dato che restava
cieco, con molte altre donne, una dietro l'altra. Quando riebbe la vista,
radunò in una sola città, ora chiamata (Zolla Rossa)
Eritrebolo, le donne con cui aveva fatto la prova, fuorché quella con la cui
orina s'era lavato quando aveva recuperato la vista; dopo averle radunate le
fece bruciare tutte, insieme con la città. 4) La donna poi con la cui
orina s'era lavato riacquistando la vista, se la tenne come moglie. Una volta
guarito dalla malattia agli occhi, consacrò vari ex-voto in tutti i
principali santuari: il più considerevole è quello dedicato nel
santuario di Elio, davvero degno di ammirazione: due obelischi di pietra,
monolitici entrambi, alti ciascuno cento cubiti e larghi otto. 112 1) A Ferone succedette nel regno, raccontavano, un
uomo di Menfi, il cui nome greco è Proteo; a Menfi esiste un suo
santuario molto bello e ottimamente arredato, situato a sud del tempio di
Efesto. 2) Intorno al santuario abitano dei Fenici di Tiro; e tutta insieme
questa località è denominata Campo dei Tiri. Nel santuario di
Proteo sorge un tempio detto di Afrodite Straniera: io credo che sia un
tempio di Elena figlia di Tindaro, sia perché ho udito raccontare che Elena
soggiornò presso Proteo, sia perché lo chiamano di Afrodite Straniera;
e in nessuno dei templi a lei dedicati, per tanti che siano, Afrodite viene
detta "Straniera". 113 1) Interrogati da me in proposito, i sacerdoti mi
raccontarono, su Elena, che le cose erano andate così: dopo aver
rapito Elena da Sparta, Alessandro fece rotta verso il proprio paese, ma,
giunto nel Mare Egeo, i venti contrari lo spinsero fino al Mare d'Egitto; di
qui (i venti non cessavano) arrivò in Egitto e precisamente alla foce
di quel ramo del Nilo oggi chiamato Canobico e alle Tarichee (Saline). 2)
C'era sulla spiaggia, e c'è ancora, un tempio di Eracle: chi vi si
rifugia, di chiunque sia servo, se si fa imprimere il santo marchio
(Stigmate) consacrando se stesso al dio, non può più essere
toccato; tale regola si è conservata identica dalle origini fino ai
giorni nostri. 3) Insomma alcuni servi infidi di Alessandro, venuti a sapere
della norma in vigore nel tempio, sedutisi come supplici del dio denunciarono
Alessandro: con l'intenzione di rovinarlo raccontarono tutta la storia di
Elena e il torto commesso ai danni di Menelao. Pronunciarono le loro accuse
di fronte ai sacerdoti e di fronte al guardiano del ramo Canobico, che si
chiamava Toni. 114 1) Toni udì le accuse e subito, con la massima
sollecitudine, inviò a Menfi un messaggio indirizzato a Proteo, che
diceva così: 2) "È giunto uno straniero di stirpe Teucra,
autore in Grecia di una azione nefanda: ha sedotto la moglie del suo ospite e
ora è qui, con lei, e con ingenti ricchezze, trascinato nel tuo paese
dalla forza dei venti. Dobbiamo lasciarlo andare impunito oppure requisirgli
quanto si è portato dietro fino a qui?". 3) Proteo inviò
una risposta di questo tenore: "Quell'uomo, chiunque sia, che ha agito
da empio nei confronti del suo ospite, prendetelo e portatelo davanti a me.
Voglio proprio vedere che cosa mai potrà dire". 115 1) Appresa la risposta, Toni cattura Alessandro e
gli sequestra le navi, quindi lo conduce a Menfi insieme con Elena e con i
tesori, e assieme anche ai supplici. 2) Quando ebbe tutti di fronte a sé,
Proteo chiese ad Alessandro chi fosse e da quali mari venisse; quello gli
elencò i suoi antenati, disse il nome della sua patria e spiegò
la rotta seguita dalle sue navi. 3) Poi il re gli chiese dove avesse preso
Elena e, poiché Alessandro divagava nel discorso e non diceva la
verità, i servi che si erano fatti supplici lo accusarono denunciando
per filo e per segno il suo misfatto. 4) Per ultimo parlò Proteo:
"Quanto a me, - disse - se non considerassi fondamentale non uccidere
nessuno degli stranieri che arrivano nel mio paese trascinati dai venti, io
prenderei vendetta su di te per il Greco; tu sei un miserabile: dopo aver
ricevuto i doni di ospitalità hai compiuto una azione così
empia! Accostarsi alla moglie dell'ospite! E questo ancora non ti è
bastato: l'hai istigata alla fuga e te la sei portata via, l'hai rapita. 5)
Ma neppure questo ti è bastato: hai saccheggiato la casa del tuo
ospite prima di partire. 6) Ora dunque, anche se mi guardo bene dall'uccidere
uno straniero, non per questo ti lascerò condurre via la donna e le
ricchezze: le terrò in custodia per l'ospite greco, fino a quando lui
stesso vorrà venirsele a riprendere. Quanto a te e ai tuoi compagni di
viaggio vi concedo tre giorni per lasciare il mio paese e trasferirvi
altrove, altrimenti vi tratteremo come nemici".
Ove di pepli istoriati un serbo
Teneva,
lavor delle fenice donne
Che Paride, solcando il vasto mare,
Da Sidon conducea, quando la figlia
Di
Tindaro rapio. 4) Ma ne parla anche in questi
versi dell’Odissea :
Tali possenti farmachi benigni
Elena possedea, figlia di Giove,
a cui li die’ l’egizia Polidamna
Moglie di Tono, fertile la terra
ivi produce farmachi infiniti,
salutiferi alcuni, altri letali. 5) E dice ancora Menelao a
Telemaco:
Nell’Egitto, sebbene il mio ritorno
pur sospirassi, mi tenean gli Dei,
chè non avevo in loro onor compiute
scelte ecatombi. [dov'erano i mantelli ricamati,
opera di quelle donne di Sidone che Alessandro stesso, simile a un dio, da
Sidone aveva portato con sé navigando sull'ampia distesa del mare, proprio
nel viaggio in cui condusse la nobile Elena. [E ne parla anche nell'Odissea,
come segue: La figlia di Zeus possedeva queste pozioni sapienti ottimi
farmaci che le aveva fornito Polidamna, la moglie di Toni, in Egitto,
là dove una fertile terra produce erbe medicinali, in gran numero, le
buone mescolate alle velenose. E ancora ecco le parole rivolte da Menelao a
Telemaco: In Egitto gli dei mi trattennero, benché fossi impaziente di
navigare fin qui, perché non gli avevo offerto perfette ecatombi.] 6) In
questi versi Omero fa capire di essere a conoscenza del viaggio in Egitto di
Alessandro: infatti la Siria confina con l'Egitto e i Fenici, a cui
appartiene Sidone, vivono nella Siria 117 1) E sulla base di questi versi e di questa indicazione
di luogo si capisce altresì, con evidenza ancora maggiore, che i Canti
Cipri non sono di Omero, bensì di un altro poeta; infatti in essi si
dice che Alessandro giunse a Ilio con Elena, proveniente da Sparta, nello
spazio di tre giorni, avendo trovato venti favorevoli e mare calmo; invece
nell'Iliade si parla di un lungo girovagare insieme con lei. E qui si chiuda
il discorso su Omero e sui Canti Cipri. 118 1) Domandai ai sacerdoti se ciò che i Greci
raccontano delle vicende di Ilio è falso o no, ed essi mi risposero
citando quanto, a sentir loro, avevano appreso da Menelao in persona: 2) dopo
il ratto di Elena, dissero, un grande esercito greco aveva raggiunto la terra
dei Teucri, in aiuto di Menelao; una volta sbarcato e accampato l'esercito,
furono mandati a Ilio dei messaggeri, tra i quali lo stesso Menelao; 3) essi
entrarono nelle mura della città, reclamarono la restituzione di Elena
e delle ricchezze che Alessandro aveva sottratto e si era portato via, e
chiesero soddisfazione per i torti subiti. Ma i Troiani risposero allora come
avrebbero sempre risposto anche in seguito, giurando e non giurando che Elena
e i tesori non si trovavano lì bensì in Egitto; e non era
giusto, dicevano, che dovessero rendere conto loro di quanto era in mano di
Proteo, il re egiziano. 4) I Greci, convinti di essere presi in giro,
strinsero d'assedio la città, finché non la conquistarono; quando poi,
espugnate le mura, non trovarono traccia di Elena e continuarono a sentirsi
ripetere lo stesso discorso, allora ci credettero, e i Greci inviarono presso
Proteo Menelao in persona. 119 1) Menelao giunse in Egitto, risalì il fiume
fino a Menfi, dove spiegò esattamente quanto era accaduto: allora
ricevette grandi doni ospitali e poté riprendersi Elena, sana e salva, nonché
tutte le sue ricchezze. 2) Però Menelao, pur avendo ottenuto
ciò si comportò da uomo ingiusto nei confronti degli Egiziani:
le avverse condizioni del tempo gli impedivano di partire, mentre era
già pronto a salpare; dato che il ritardo si protraeva, tramò
una azione esecranda: 3) prese due bambini, figli di gente del luogo, e li
usò come vittime per un sacrificio; in seguito, quando si
scoprì che aveva commesso tale delitto, fuggì con le sue navi
in direzione della Libia, odiato e inseguito. Dove poi si sia diretto gli
Egiziani non erano in grado di dirlo; di una parte dei fatti ammettevano di
avere informazioni indirette, ma di quanto era successo nel loro paese
vantavano una sicura conoscenza. 120 1) Questo mi narrarono i sacerdoti egiziani; quanto
a me sono d'accordo sulle notizie relative a Elena, sulla base di alcune
considerazioni: se Elena si fosse trovata a Ilio l'avrebbero certamente
riconsegnata ai Greci con o senza il consenso di Alessandro. 2) Senza dubbio
Priamo e gli altri suoi parenti non sarebbero stati così dementi da
voler rischiare la propria esistenza e quella dei loro figli nonché la
sopravvivenza dell'intera città, solo perché Alessandro potesse
starsene con Elena. 3) E anche ammesso che nei primi tempi la pensassero
così, dopo che negli scontri con i Greci erano caduti molti Troiani e
non c'era battaglia in cui non morissero almeno due o tre figli dello stesso
Priamo, o magari anche di più, a basarsi sul racconto dei poemi epici,
io voglio credere che, in circostanze del genere, anche se fosse stato lui in
persona a vivere con Elena, Priamo l'avrebbe restituita pur di liberarsi di
tutte le sventure che lo affliggevano. 4) Né il regno era destinato a passare
nelle mani di Alessandro; se Priamo era vecchio non toccava lo stesso a lui
governare il paese: dopo la morte di Priamo il successore designato era
Ettore, più anziano e più valoroso di Paride: e a lui non si
addiceva certo rimettersi alle decisioni del fratello, che era nel torto; e
tanto più quando, a causa sua, grandissime disgrazie stavano cadendo
su di lui personalmente e su tutti gli altri Troiani. In realtà essi
non erano in condizione di restituire Elena e i Greci non credevano ai
Troiani benché dicessero la verità; anche perché, e questa è
una mia interpretazione, così il dio aveva disposto le cose: che
perendo tutti miseramente dimostrassero al mondo come a colpe grandi
rispondano grandi castighi da parte degli dei. Questa almeno è la mia
opinione. 121 1) I sacerdoti mi dissero che a Proteo succedette
nel regno Rampsinito, il quale lasciò a ricordo di sé i propilei
occidentali del tempio di Efesto; davanti ai propilei eresse due statue, alte
25 cubiti: gli Egiziani chiamano "estate" quella posta più a
nord e "inverno" quella più a sud; adorano e colmano di
onori la statua "estate" , mentre fanno tutto il contrario nei
confronti della statua "inverno". A 1) Rampsinito dispose di una enorme quantità
di denaro, quale nessuno dei re venuto dopo di lui riuscì mai a
superare e anzi neppure a uguagliare. Volendo conservare in un luogo sicuro
tanta ricchezza, fece costruire una stanza di pietra che aveva una delle
pareti confinante con l'esterno della reggia; ma il costruttore tramando
insidie escogitò un suo piano: sistemò una delle pietre in modo
che fosse facilmente estraibile dal muro, sia da due che da una sola persona.
2) Quando la camera fu pronta, il re vi depositò le sue ricchezze.
Tempo dopo il costruttore, ormai in punto di morte, chiamò i suoi
figli (erano due) e raccontò come, pensando al loro futuro, a procurar
loro un'esistenza agiata, fosse ricorso a un'astuzia nel costruire la stanza
del tesoro reale. Spiegò con chiarezza il sistema per rimuovere la
pietra e ne diede le esatte misure, aggiungendo che se avessero seguito
esattamente le sue istruzioni sarebbero diventati custodi dei beni del re. 3)
Quindi morì e i suoi figli non rimandarono a lungo l'impresa: una
notte si avvicinarono alla reggia, individuarono la pietra nell'edificio, la
spostarono facilmente e fecero man bassa delle ricchezze. B 1) Il re, quando gli capitò di aprire il
tesoro, si stupì di vedere gli orci non più colmi di tesori; né
sapeva chi incolpare dato che i sigilli erano intatti e la stanza ben chiusa.
Ma quando due o tre volte ancora a entrare nella stanza le ricchezze
apparivano sempre di meno (infatti i ladri non smettevano di venire a
rubare), ecco come agì: ordinò di preparare delle trappole e di
disporle fra gli orci contenenti i suoi averi. 2) Vennero di nuovo i ladri,
come le altre volte, e uno di loro si introdusse nel tesoro; ma non appena si
accostò ad un orcio subito rimase preso nella trappola; si rese conto
del guaio in cui si trovava, chiamò il fratello, gli spiegò la
situazione e lo esortò a entrare al più presto e a tagliargli
la testa: non voleva, una volta visto e riconosciuto, coinvolgere nella
rovina anche il fratello. Questi comprese la bontà della proposta, si
convinse e la mise in opera. Poi ricollocò al suo posto la pietra e
tornò a casa, portando con sé la testa del fratello. C 1) Quando fu giorno, il re entrò nella
stanza e rimase sbalordito a vedere il cadavere decapitato del ladro bloccato
nella trappola e la camera intatta, senza alcuna via di entrata o di uscita.
Incapace di trovare una spiegazione, agì come segue: fece appendere al
muro del palazzo il corpo del ladro e vi mise a guardia degli uomini con
l'ordine di arrestare e condurre di fronte al re chiunque vedessero piangere
o disperarsi. 2) La madre non riuscì a tollerare che il corpo restasse
appeso e parlò con il figlio superstite, ordinandogli di studiare la
maniera, in qualche modo, di slegare il corpo del fratello e di portarlo via;
se non l'avesse fatto minacciava di andare dal re a denunciarlo quale
possessore delle ricchezze. D 1) Il figlio superstite vistosi così
minacciato e incapace, nonostante i molti tentativi, di far cambiare parere a
sua madre, ricorse a uno stratagemma. Tenne pronti degli asini, e avendo
riempito di vino degli otri li caricò sugli asini che poi spinse
davanti a sé; quando fu vicino ai guardiani del cadavere appeso, tirando due
o tre cinghie degli otri ne sciolse la legatura;2) il vino si versava e
lui allora si batteva la testa, lamentandosi a gran voce, fingendo di non
sapere verso quale asino volgersi per primo; le sentinelle, visto scorrere
tutto quel vino, si precipitarono in strada portando recipienti e
raccoglievano il vino versato, considerandola una gran fortuna. Quello
cominciò a litigare aspramente con tutti loro, simulando rabbia; ma
poi, poco per volta, 3) calmato dalle sentinelle, finse di mettersi il cuore
in pace e di deporre la sua ira; infine spinse lui stesso gli asini fuori di
strada per risistemare il carico; 4) cominciarono a chiacchierare, a
scherzare, a ridere finché il ladro regalò ai guardiani uno degli
otri; ed essi, così come erano, si sdraiarono pensando solo a bere,
invitarono con loro il ladro e lo esortarono a fermarsi per bere tutti in
compagnia; il giovane obbedì e rimase con loro; 5) visto poi che tra
una bevuta e l'altra lo trattavano con grande familiarità,
offrì loro anche un altro otre: a forza di generose libagioni le
sentinelle si ubriacarono completamente e, vinte dal sonno, si addormentarono
proprio là dove bevevano. 6) Il ladro, non appena fu notte inoltrata,
slegò il corpo del fratello e a maggior scorno delle guardie rase loro
la guancia destra; caricò il cadavere sugli asini e li spinse verso
casa: aveva perfettamente eseguito gli ordini della madre. E 1) Il re, quando gli comunicarono che il cadavere
del ladro era stato trafugato, si adirò moltissimo e volendo a ogni
costo scoprire l'autore di tutte quelle astuzie fece una cosa che a me sembra
incredibile: 2) mise sua figlia in un postribolo ordinandole di accettare
qualunque uomo senza eccezioni, ma di costringerli tutti, prima di
concedersi, a raccontarle l'azione più astuta e scellerata che mai
avessero commesso in vita loro; doveva trattenere e non lasciare uscire
più dalla casa la persona che le avesse narrato i fatti relativi a
quel furto. 3) La ragazza seguì i comandi del padre, ma il ladro,
venuto a sapere lo scopo della cosa e volendo superare il re in astuzia, fece
così: 4) recise un braccio all'altezza della spalla al cadavere di un
individuo morto da poco e tenendolo nascosto sotto il mantello si recò
dalla figlia del re; interrogato come gli altri, narrò di aver
compiuto l'impresa più empia quando aveva decapitato il fratello
impigliato in una trappola nella stanza del tesoro reale, e la più
astuta quando aveva ubriacato le sentinelle e slegato il cadavere appeso del
fratello. 5) Come lo udì la ragazza gli si accostò, ma il ladro
nel buio le porse il braccio del morto: lei lo ghermì e lo tenne
stretto credendo di aver afferrato la mano del ladro, il quale invece
lasciandole il braccio fuggì tranquillamente attraverso la porta. F 1) Quando tutto ciò gli fu riferito, il re rimase
impressionato dalla scaltrezza e dal coraggio dimostrati dallo sconosciuto;
infine inviò messaggi in ogni città promettendo
l'impunità e anche ricchi doni se si fosse presentato al suo cospetto:
2) il ladro credette alla parola del re e venne da lui. Rampsinito, pieno di
ammirazione, gli diede sua figlia in moglie giudicandolo l'uomo più
intelligente della terra: perché gli Egiziani a suo parere erano superiori a
tutti gli altri uomini, e lui era il primo degli Egiziani. 122 1) Narrato questo episodio, i sacerdoti mi dissero
che Rampsinito era disceso vivo nel luogo detto Ade dai Greci, dove avrebbe
giocato a dadi con Demetra, ora vincendo ora perdendo; poi sarebbe ricomparso
sulla terra portando con sé come dono della dea un asciugamano d'oro. 2) Dopo
la discesa agli inferi di Rampsinito o meglio dopo il suo ritorno, sempre
secondo i sacerdoti, gli Egiziani indissero una grande festa, che so
celebrata ancora ai giorni nostri, anche se non sono in grado di confermarne
l'origine. 3) Il giorno stesso della festa i sacerdoti intessono un mantello,
poi con una benda coprono gli occhi di uno di loro e quindi lo conducono,
vestito di quel mantello, sulla strada che porta al tempio di Demetra; poi se
ne tornano via; il sacerdote, con gli occhi bendati, viene guidato da due
lupi, dicono, fino al tempio di Demetra, lontano dalla città venti stadi;
gli stessi lupi lo riaccompagnerebbero indietro dal tempio fino al punto di
prima. 123 1) Accetti pure questi racconti egiziani chi li
giudica credibili; quanto a me il mio unico scopo in tutta la mia opera
è di registrare, come l'ho udito, quello che ciascuno racconta. 2) A
sentire gli Egiziani i re dell'oltretomba sono Demetra e Dioniso. E gli
Egiziani furono i primi a sostenere che l'anima è immortale e che
trasmigra, perito il corpo, in un altro essere vivente, che sta nascendo a
sua volta; dopo essere passata attraverso tutti gli animali terrestri e
acquatici, e alati, l'anima trasmigrerebbe nuovamente nel corpo di un uomo:
il ciclo si compierebbe nell'arco di tremila anni. 3) Questa teoria fu poi
ripresa da alcuni Greci, in varie epoche, come se si fosse trattato di una
loro scoperta: io ne conosco i nomi, ma non li scrivo. 124 1) I sacerdoti,dicevano che fino al re Rampsinito c’era
stato in Egitto un ordine perfetto e grande prosperità. Mentre Cheope,
il suo successore, l’avrebbe ridotto alla più squallida miseria.
Anzitutto, dicono chiuse tutti i santuari e proibì i sacrifici; quindi
impose a tutti gli Egiziani di lavorare per lui. 2) Agli uni impose di
trascinare pietre fino al Nilo dalle cave dei monti Arabi, ed ad altri di
ricevere le pietre che avevano passato il fiume su battelli, e di trascinarle
fino ai monti chiamati Libici. 3) Ogni trimestre lavoravano a turno centomila
uomini. E il popolo si logorò dieci anni per costruire la strada sulla
quale venivano trascinate le pietre. Un’opera che è a parer mio, non
di troppo inferiore alla piramide: 4) giacché la sua lunghezza è di
cinque stadi, la larghezza di dieci orge, l’altezza della scarpata raggiunge
, dove tocca il massimo, le otto orge. La strada è fatta di pietra
levigata e con figure incise. Occorsero dunque per essa, e per le camere
sotterranee nella collina su cui sorgono le piramidi, quei dieci anni. Il Re
costruì le camere, destinate alla sua sepoltura, in un’isola, ch’egli
creò col condurre dal Nilo fin là un canale. 5) Per la
costruzione della Piramide occorsero vent’anni. Essa è quadrata..
Presenta da tutti i lati una faccia di otto plettri, un’altezza uguale.E’ di
pietre levigate e perfettamente connesse, di cui nessuna misura meno di
trenta piedi. 125 1) Questa piramide fu costruita a gradini, chiamati merli
o altarini. 2) E quando si giunse al tal punto della costruzione, le
rimanenti pietre furono sollevate con macchine fatte di legni corti. Venivano
sollevate da terra sul primo ordine, 3) da dove venivano tratte sul secondo
ordine e su un’altra macchina. 4) Le macchine erano altrettante quanti erano
gli ordini dei gradini. O forse la stessa, unica e maneggevole, veniva,
tolta la pietra, spostata su ogni ordine. Voglio esporre tutte e due le
ipotesi come vengono presentate. 5) Sicché furono terminate prima le parti
più alte, poi quelle più vicine ad esse, e per ultime quelle
che toccano il suolo, le più basse. 6) Un’iscrizione egiziana sulla
piramide fa sapere quanto si è speso in syrmaia, in cipolle e in agli
per i lavoranti. E se ben ricordo quello che mi diceva l’interprete
leggendo l’iscrizione, furono pagati mille e seicento talenti d’argento. 7)
Se ciò corrisponde a verità, quanto è verosimile si sia
versato ancora per gli strumenti di ferro con i quali si lavorava, e per il
cibo e le vesti dei lavoranti? Perché ho gia detto il tempo che fu impiegato
per edificare queste opere. E per tagliare le pietre, trasportarle, e fare lo
scavo sotto terra, dovette occorrere, a mio parere, un altro non indifferente
lasso di tempo. 126 1) Cheope giunse, dicono, a tanta malvagità che,
occorrendogli denaro, mise sua figlia in un lupanare, con l’ordine di
raccogliere una determinata somma, che non mi è stata precisata. Ella
eseguì l’ordine del padre; ma volle pure ella lasciare un suo ricordo,
e a ogni visita chiedeva che le si donasse una pietra. 2) I sacerdoti mi
dissero che con queste pietre fu costruita la piramide che sorge in mezzo
alle tre dinanzi alla grande piramide, e di cui ogni faccia misura un plettro
e mezzo. 127 1) Gli Egiziani mi dissero che Cheope regnò
sull'Egitto per cinquanta anni; alla sua morte il potere passò nelle
mani del fratello Chefren. Chefren si comportò esattamente come il suo
predecessore: fra l'altro si fece costruire anche lui una piramide, ma non
delle dimensioni di quella di Cheope (noi l'abbiamo personalmente misurata):
2) non possiede vani sotterranei e non c'è un canale che porti fino ad
essa le acque del Nilo come accade per l'altra piramide; il Nilo infatti
attraverso un condotto artificiale circonda un isolotto dove pare che Cheope
sia seppellito. 3) Dopo aver costruito il primo ripiano in granito etiopico
di vari colori, eresse la propria piramide accanto all'altra, la grande, ma
restando quaranta piedi di meno in altezza. Sorgono entrambe sullo stesso colle,
alto all'incirca un centinaio di piedi. 128 1) Mi dissero che Chefren regnò per 56 anni.
E calcolano così a 106 gli anni di totale miseria per gli Egiziani:
inoltre per tutto questo periodo i templi che erano stati chiusi non vennero
mai riaperti. Gli Egiziani non amano ricordare il nome di questi due re,
tanto è l'odio che nutrono verso di loro; persino le piramidi le
chiamano dal nome del pastore Filiti, che all'epoca faceva pascolare le sue
greggi da quelle parti. 129 1) Dopo Chefren regnò sull'Egitto Micerino,
figlio di Cheope; a Micerino non piaceva l'operato del padre: allora
riaprì i templi e consentì al popolo, ormai ridotto alla
estrema miseria, di tornare ai propri lavori e alle proprie pratiche
religiose; inoltre dirimeva le cause con senso di giustizia più forte
di tutti i re precedenti. 2) Per questa sua attività gli Egiziani
lodano Micerino più di tutti i re succedutisi sul trono fino ad oggi;
in effetti, oltre a emettere sempre eccellenti sentenze, donava denaro proprio
a chi risultasse insoddisfatto della sua decisione, per placarne il
risentimento. 3) A Micerino, re mite nei confronti dei sudditi e che si
comportava come ho detto, capitarono una serie di sventure: la prima fu la
morte dell'unica sua figlia. Profondamente addolorato dalla sciagura che gli
era piombata addosso, volle seppellire la figlia in una maniera assolutamente
eccezionale: fece costruire una vacca di legno, cava, la fece rivestire
interamente d'oro e vi introdusse la salma della figlia. 130 1) Questa vacca non fu poi calata nella terra, ma
lasciata a Sais dentro la reggia in una stanza decorata, dove era visibile
ancora ai miei tempi; tutti i giorni vi bruciano aromi di ogni genere, e ogni
notte, vi arde una lampada costantemente accesa. 2) In un'altra stanza, a poca
distanza dalla vacca, si trovano le statue delle concubine di Micerino,
così perlomeno dicevano i sacerdoti della città di Sais. Ci
sono infatti alcune enormi statue di legno, una ventina circa, raffiguranti
dei nudi femminili; nulla posso dire circa la loro identità, oltre a
ciò che si racconta. 131 1) Alcuni narrano a proposito della vacca e delle
statue la seguente leggenda: Micerino si innamorò della figlia e la
costrinse a unirsi con lui; 2) dicono inoltre che subito dopo, per il dolore,
la ragazza si impiccò; mentre il padre provvedeva a seppellirla nella
vacca, la madre fece tagliare le mani alle ancelle che avevano consegnato sua
figlia nelle mani del padre; e ora appunto le statue di queste ancelle
avrebbero patito la punizione subita da loro vive. 3) Ma a mio parere dicono
delle sciocchezze, sia nel resto sia nel dettaglio delle mani delle statue;
ho potuto constatare personalmente che si sono staccate a causa dell'azione
del tempo: erano ancora visibili all'epoca della mia visita, per terra, ai
piedi delle statue. 132 1) Il corpo della vacca è coperto da un
tessuto di porpora da cui spuntano il collo e la testa, chiaramente rivestiti
di uno spesso strato d'oro: in mezzo alle corna è effigiato in oro il
disco del sole.2) La vacca non è dritta in piedi ma giace sulle
ginocchia: le sue dimensioni sono quelle di un grosso esemplare vivo. Una
volta all'anno viene portata fuori dalla stanza, nei giorni in cui gli
Egiziani si battono il petto in onore del dio che preferisco non nominare in
questo momento; 3) allora portano alla luce del sole anche la vacca: sembra
sia stata la ragazza stessa, in punto di morte, a chiedere al padre di vedere
il sole una volta all'anno. 133 1) Dopo la scomparsa della figlia, un'altra sventura
colpì il re: un oracolo proveniente dalla città di Buto gli
predisse solo sei anni di vita: sarebbe morto nel settimo. 2) Molto
contrariato il re inviò all'oracolo un messaggio di biasimo per il
dio: suo padre e suo zio, - così rinfacciava Micerino all'oracolo -
erano vissuti molto a lungo benché avessero chiuso i templi, si fossero
scordati degli dei e avessero fatto morire la gente, mentre lui, che si era
comportato devotamente, presto avrebbe dovuto morire. 3) E dall'oracolo gli
venne un secondo responso; proprio per questo gli era stata accorciata
l'esistenza: non aveva agito come doveva, perché bisognava che l'Egitto
patisse sciagure per 150 anni. I suoi due predecessori lo avevano capito, lui
invece no. 4) Udito ciò Micerino, a cui il destino pareva ormai
segnato, si fece fabbricare molte lampade: ogni volta che scendeva la notte
le accendeva e si abbandonava al bere e alle baldorie, senza smettere né di
giorno né di notte, vagando tra i boschi o le paludi e ovunque accertasse
l'esistenza di luoghi di divertimento. 5) Voleva così dimostrare che
l'oracolo mentiva e aumentarsi da sei a dodici gli anni di vita, trasformando
le notti in giorni. 134 1) Anche questo re lasciò una piramide,
molto più piccola di quella del padre: misura su ciascun lato tre pletri
meno venti piedi, ha base di forma quadrangolare ed è per metà
in pietra etiopica. Alcuni Greci attribuiscono questa piramide a Rodopi, la
cortigiana, ma non è vero: 2) costoro secondo me parlano senza neppure
sapere chi era Rodopi, altrimenti non potrebbero attribuirle la costruzione
di una piramide come quella che costa migliaia di talenti, una cifra per
così dire incalcolabile; 3) inoltre Rodopi godette il massimo
splendore all'epoca del re Amasi e non sotto il regno di Micerino, vale a dire
parecchi anni dopo i re che lasciarono queste piramidi; Rodopi era di stirpe
tracia, schiava di Iadmone di Samo, figlio di Efestopoli, e compagna di
schiavitù di Esopo, il favolista. Anche Esopo infatti fu schiavo di
Iadmone; lo dimostra senz'altro il fatto seguente: 4) quando già varie
volte i cittadini di Delfi in seguito a un oracolo avevano diffuso un bando,
cercando chi volesse riscuotere il compenso dovuto per la vita di Esopo, fu
un Iadmone, nipote appunto di quel Iadmone, a farsi avanti, non altri;
ciò dimostra che Esopo era appartenuto a Iadmone. 135 1) Rodopi giunse in Egitto al seguito di Xanto di
Samo, vi giunse per esercitarvi l'antica professione, e vi fu riscattata per
una somma enorme da un uomo di Mitilene, Carasso, figlio di Scamandronimo e fratello
della poetessa Saffo. 2) Divenuta in tal modo libera, Rodopi rimase in Egitto
e siccome era molto attraente riuscì ad arricchirsi, ma quanto basta
per essere una Rodopi, non certo per permettersi una piramide come quella. 3)
Ancora oggi chiunque lo voglia può valutare coi propri occhi la decima
dei suoi averi, e non è proprio il caso di attribuirle spropositate
ricchezze. Infatti Rodopi volle lasciare in Grecia memoria di sé ordinando
che le venissero allestiti oggetti mai escogitati per una offerta a un
tempio; e volle dedicarli a Delfi a ricordo di sé. 4) Con la decima parte dei
suoi averi fece fondere numerosi spiedi di ferro, da bue, quanti ne
consentiva quella somma, e li mandò a Delfi. Ancora oggi essi si
trovano accatastati dietro l'altare donato dagli abitanti di Chio, di fronte
alla cella del tempio. 5) Generalmente le grandi prostitute di Naucrati sono
molto attraenti: già Rodopi, la pro tagonista del nostro discorso,
divenne tanto famosa che tutti i Greci ne conobbero il nome; più
tardi, dopo di lei divenne celebre in tutta la Grecia una certa Archidice,
anche se costituì meno argomento di conversazione. 6) Quanto a
Carasso, dopo aver riscattato Rodopi, tornò a Mitilene, e Saffo lo
rimproverò duramente in un carme. Ma su Rodopi ormai ho terminato. 136 1) I sacerdoti raccontavano ancora che dopo Micerino
divenne re Asichi; Asichi eresse i propilei orientali del tempio di Efesto,
che sono di gran lunga i più belli e imponenti. Tutti i propilei
presentano bassorilievi e infinite meraviglie architettoniche, ma quelli li
superano largamente. 2) Sotto il regno di Asichi, narravano, essendo scarsa
la circolazione di denaro, fu promulgata per gli Egiziani una legge in base
alla quale era consentito ricevere un prestito a chi desse in pegno il cadavere
del padre. A tale legge se ne aggiunse poi un'altra: il creditore poteva
diventare proprietario dell'intera tomba del debitore, il quale appunto, se
aveva concesso quel tipo di garanzia e rifiutava poi di restituire il
prestito, come sanzione perdeva il diritto di essere seppellito, dopo morto,
nella tomba di famiglia o in un'altra qualunque; né poteva dar sepoltura ad
alcuno dei suoi. 3) Asichi, volendo superare tutti i re suoi predecessori sul
trono dell'Egitto, lasciò in ricordo di sé una piramide di mattoni,
sulla quale campeggiava una lapide con incise queste parole: "Non
disprezzarmi a confronto con le piramidi di pietra: io sono superiore ad esse
quanto Zeus è superiore agli altri dei, perché hanno immerso una
pertica nel lago e con il fango ad essa rimasto attaccato hanno fatto dei
mattoni e così mi hanno costruito". Queste furono tutte le
imprese di Asichi. 137 1) Dopo di lui salì al trono un cieco della
città di Anisi, che si chiamava a sua volta Anisi. Sotto questo
sovrano mosse contro l'Egitto un forte contingente di Etiopi guidati dal re
Sabacos. 2) Allora il cieco Anisi fuggì in direzione delle paludi;
l'Etiope regnò sull'Egitto per cinquanta anni durante i quali si
regolò come segue: 3) quando un Egiziano commetteva qualche crimine,
non voleva mandarlo a morte, ma gli assegnava una pena proporzionata alla
gravità del reato, imponendo a ciascun colpevole di compiere lavori di
terrazzamento nella sua città natale. E in tal modo le città
divennero ancora più alte; 4) i primi lavori di questo tipo si erano
avuti all'epoca del re Sesostri, in seguito allo scavo dei canali, per la
seconda volta si fecero durante il regno dell'Etiope; e le città
furono elevate di molto. 5) Fra le tante città egiziane che vennero
rialzate quella a mio parere dove i terrazzamenti furono più cospicui
fu Bubasti, dove sorge anche il notevolissimo tempio della dea Bubasti:
esistono certamente altri santuari più grandi di questo, ma nessuno
è altrettanto bello da visitare. La dea Bubasti è l'equivalente
della dea greca Artemide 138 1) Il suo santuario si presenta così:
all'infuori della strada di accesso tutto il resto è un'isola: in
effetti dal Nilo due canali si spingono paralleli fino all'ingresso del
tempio dove divergono per scorrere intorno al santuario uno da una parte, uno
dall'altra; ciascuno dei canali è largo 100 piedi ed è
ombreggiato da file di alberi. 2) I propilei raggiungono le dieci orgie in
altezza e sono ornati di figure scolpite alte sei piedi, degne di essere
ricordate. Il tempio, trovandosi nel centro della città, è
visibile in basso da qualunque punto circostante, perché mentre la
città è stata rialzata con terrapieni, il tempio invece non
è mai stato toccato da quando fu costruito; e quindi risulta in bella
vista. 3) Lo circonda un muro di cinta ornato di bassorilievi al cui interno
si trova un boschetto di altissimi alberi intorno alla grande cella dove
è racchiusa la statua della dea; in lunghezza e in larghezza il
santuario misura uno stadio. 4) Davanti all'ingresso c'è una strada
lastricata di pietra, lunga circa tre stadi e larga circa quattro pletri:
attraversa la piazza della città e procede verso oriente. Su entrambi
i lati della strada, che porta al tempio di Ermes, crescono alberi che si
levano fino al cielo. Così è il tempio di Bubasti. 139 1) Ecco come i sacerdoti raccontavano la definitiva
partenza dell'Etiope; fu una vera e propria fuga dovuta a una visione
apparsagli in sogno: 2) aveva sognato che un uomo, accanto a lui, gli
consigliava di radunare tutti insieme i sacerdoti egiziani e di farli
tagliare a metà. Avuta questa visione dichiarò che a suo parere
gli dei gli offrivano un pretesto perché si macchiasse di empietà e
venisse a patire sventure da parte degli dei e degli uomini; perciò
non avrebbe obbedito; tanto più che era arrivato il tempo, predettogli
da un oracolo, di ritirarsi dopo aver regnato sull'Egitto. 3) Infatti quando
ancora stava in Etiopia gli oracoli consultati abitualmente dagli Etiopi gli
avevano profetizzato cinquanta anni di regno sull'Egitto. Siccome dunque questo
tempo era trascorso e dato che il sogno notturno lo aveva sconvolto, Sabacos
di sua spontanea volontà si ritirò dall'Egitto. 141 1) Dopo Anisi salì al trono un sacerdote del
tempio di Efesto, di nome Setone; costui non aveva nessuna considerazione per
la classe dei guerrieri egiziani anzi li disprezzava, pensando forse di non
dover mai avere bisogno di loro; fra le altre angherie che impose loro li
privò dei terreni: sotto i re precedenti a ciascun guerriero era stato
assegnato un lotto di dodici "arure". 2) Più tardi, quando
il re d'Arabia e d'Assiria Sennacherib mosse con un grande esercito contro
l'Egitto, i guerrieri egiziani non vollero accorrere a difesa del paese. 3)
Allora il re sacerdote, ormai in una grave situazione, entrò nella
sala del tempio a lamentarsi, di fronte alla statua del dio, delle sciagure
che rischiava di subire; mentre si lamentava si addormentò e
sognò che il dio, standogli accanto, lo rincuorasse: non gli sarebbe
successo nulla di spiacevole se avesse affrontato l'esercito arabo, perché il
dio in persona gli avrebbe mandato dei soccorsi. 4) Fiducioso in quanto aveva
sognato prese con sé tutti gli Egiziani disposti a seguirlo e si
accampò presso Pelusio (dove appunto si trovano le vie di accesso
all'Egitto). Nessun guerriero lo aveva seguito, soltanto bottegai, artigiani
e mercanti. 5) Quando sopraggiunsero, i nemici subirono, di notte,
un'invasione di topi di campagna che rosicchiarono le loro faretre e gli
archi e le cinghie degli scudi, sicché il giorno dopo, inermi ormai, si
diedero alla fuga e caddero in gran numero. 6) E oggi nel tempio di Efesto si
trova una statua in pietra raffigurante questo sacerdote con in mano un topo,
e con un'iscrizione che dice: "Guardate me e siate devoti agli
dei". 142 1) Fino a questo punto della mia storia mi hanno
raccontato gli Egiziani ed i loro sacerdoti. Essi mi dimostrarono che, dal
loro primo re fino a questo sacerdote di Efesto, che regnò per ultimo,
corsero trecentoquarantuno generazioni, e che in questo periodo vissero
altrettanti grandi sacerdoti e re. 2) Trecento generazioni in linea maschile
portano a diecimila anni, perché tre di queste generazioni coprono cento
anni; e le rimanenti quarantuno generazioni che si aggiungevano alle trecento
danno mille e trecentoquarant’anni. 3) Così essi venivano a dire che
in undicimila e trecentoquarant’anni non c’era stato nessun Dio in forma
umana. Non solo. Ma negavano che alcunché di simile fosse avvenuto prima e dopo
fra i re che continuarono a susseguirsi in Egitto. 4) Aggiunsero che durante
questo periodo il sole cambiò quattro volte il suo oriente: levandosi
due volte dove ora tramonta e tramontando due dove ora sorge, senza che
nell’Egitto avvenisse alcun mutamento, né nella vita agricola, né nei sui
fenomeni fluviali,né per le malattie, né per le morti. 143 1) Quando lo scrittore Ecateo espose a Tebe la sua
genealogia, ricollegando la sua stirpe ad un Dio come sedicesima generazione,
i sacerdoti di Zeus fecero con lui come più tardi fecero con me, ma io
non esponevo la mia personale genealogia. 2) M’introdussero nell’interno del
tempio, che è vasto; e mi mostrarono, enumerandole, ingenti statue di
legno in quel numero che ho detto. Perché ogni gran sacerdote fa nella sua
vita erigere qui la propria immagine. 3) Mostrando ed enumerando i sacerdoti
mi fecero vedere che ciascuno era figlio di un padre compreso nella serie; e
percorsero tutte le statue, cominciando dal morto più recente, fino a
che non le mostrarono tutte. 4) Ad Ecateo che aveva esposto la propria
genealogia e che si ricollegava da un Dio nella sedicesima generazione,
avevano essi con questa enumerazione opposta un’altra genealogia, respingendo
la sua affermazione che da un Dio fosse nato un uomo. Gli opposero questa
genealogia come segue. Gli affermarono che ciascuna delle statue colossali
rappresentava un piromis nato da un piromis , e dimostrarono questa
discendenza da piromis a piromis per tutte le trecentoquarantacinque statue,
senza collegarle né a un Dio né a un Eroe. Piromis corrisponde al valent’uomo
della lingua ellenica. 144 1) Così fecero vedere che tutti coloro che erano
rappresentati dalle immagini erano siffatti, e assi diversi dagli Dei; 2)
mentre prima di questi uomini quelli che regnavano in Egitto erano Dei che
vivevano insieme agli uomini, ed era sempre uno di loro che deteneva il
potere. Avrebbe regnato per ultimo, sul paese, Horo figlio di Osiride, che
gli Elleni chiamavano Apollo. Egli avrebbe, dopo aver deposto Tifone, regnato
per ultimo sull’Egitto. Osiride corrisponde in lingua greca a Dioniso. 145 1) Fra i Greci gli dei più recenti sono ritenuti
Eracle, Dioniso e Pan, invece fra gli Egiziani Pan è il più
antico e appartiene al novero degli otto indicati come primi dei; Eracle
invece è fra i secondi dei, detti i dodici, e Dioniso in quella terza
serie originata dai dodici. 2) Già ho precisato quanti anni, secondo
gli Egiziani, siano trascorsi dall'epoca di Eracle a quella del re Amasi; da
Pan dicono siano stati di più, da Dioniso meno, e calcolano 15.000
anni da lui fino al regno di Amasi. 3) Gli Egiziani si dichiarano sicuri di
queste informazioni, perché tengono costantemente il conto degli anni e lo
registrano per iscritto. 4) E dunque, dall'epoca del Dioniso che si dice sia
nato da Semele, figlia di Cadmo, fino ai nostri giorni sarebbero trascorsi
non più di 1000 [e 600] anni, da quella dell'Eracle figlio di Alcmena,
circa 900, e dal Pan figlio di Penelope (nato appunto da Ermes e da Penelope,
come asseriscono i Greci) fino a oggi meno anni di quelli che ci separano
dalla guerra di Troia, ossia circa 800 anni. 146 1) Ciascuno accolga pure delle due la versione che gli
pare più convincente, io per me la mia opinione al riguardo l'ho
già espressa. Se questi due individui, il Dioniso figlio di Semele e
il Pan figlio di Penelope, fossero nati e invecchiati in Grecia come accadde
per Eracle figlio di Anfitrione, allora li si potrebbe ugualmente ritenere
degli esseri umani omonimi di divinità sorte ben prima di loro: 2) ma
i Greci narrano che questo Dioniso, appena concepito, fu cucito da Zeus in
una sua coscia e portato a Nisa, cioè oltre l'Egitto, in Etiopia;
quanto a Pan, poi, i Greci non sanno proprio dire dove sia andato a finire
dopo essere venuto al mondo. A me perciò sembra chiaro che i Greci
conobbero Dioniso e Pan più tardi degli altri dei e poi attribuirono
la loro nascita all'epoca in cui ne avevano sentito parlare per la prima
volta. 147 1) Tutto ciò che precede è di fonte
egiziana. Ora invece passo a esporre i racconti egiziani che concordano con
notizie di altra provenienza sempre a proposito di questo paese; e vi
aggiungerò anche qualche cosa constatata da me personalmente. 2) Gli
Egiziani, dopo il regno del sacerdote di Efesto, acquistarono la libertà;
ma non erano assolutamente in grado di vivere neppure per breve tempo senza
un sovrano, sicché insediarono dodici re, uno per ciascuna delle parti in cui
avevano diviso l'intero territorio egiziano. 3) Essi si legarono fra loro per
mezzo di matrimoni e regnarono, attenendosi a queste norme: non si sarebbero
sopraffatti a vicenda, non avrebbero aspirato a possedere ciascuno qualcosa
più dell'altro, e insomma sarebbero rimasti amici in tutto e per
tutto. 4) Stabilirono le regole suddette e ad esse si attennero strettamente,
perché appena insediati al potere gli era pervenuto un vaticinio: chi fra
loro avesse libato con una coppa di bronzo dentro il tempio di Efesto sarebbe
diventato re di tutto quanto il paese; bisogna sapere che essi si riunivano
in tutti i santuari. 148 1) A ricordo di sé decisero di lasciare un unico
monumento in comune e fecero costruire il labirinto che si trova a sud del
lago di Meride, all'altezza della cosiddetta città di
"Coccodrilli". Io l'ho visto con i miei occhi ed è al di
sopra di ogni possibilità di descrizione: 2) anche a pensare di
descrivere una per una tutte le mura e le costruzioni dei Greci, queste
apparirebbero pur sempre inferiori, per lavoro e denaro occorsi, a questo
labirinto. Certamente è notevole anche il tempio di Efeso, o quello di
Samo; 3) già le piramidi andavano oltre ogni descrizione e ciascuna di
loro era capace di reggere il paragone con molte e anche imponenti opere
greche; ma il labirinto davvero supera le piramidi. 4) Esso si compone di
dodici cortili coperti, contigui, con le porte opposte tra loro, sei rivolte
verso nord e sei verso sud; un unico muro di cinta li separa dall'esterno.
All'interno, su due piani, uno sotterraneo, l'altro superiore, si stendono
3000 stanze, 1500 per piano; 5) le stanze del piano superiore le ho visitate
e percorse personalmente, quindi posso parlarne per conoscenza diretta; su
quelle sotterranee ho avuto solamente informazioni: gli addetti egiziani si
rifiutarono di mostrarmele sostenendo che vi si trovano le sepolture dei re
che furono i primi costruttori del labirinto e dei coccodrilli sacri. 6)
Pertanto posso parlare del piano inferiore solo basandomi su quanto mi hanno
riferito; ma al piano superiore ho visto opere che travalicano i limiti
dell'umano: le porte che collegano le varie stanze e le svariatissime
tortuosità attraverso i cortili mi lasciarono a bocca aperta: passavo
dal cortile alle stanze e dalle stanze ai porticati e dai porticati ad altre
stanze e da esse ad altri cortili: 7) il soffitto di tutte queste costruzioni
è di pietra come pure le pareti, ma le pareti sono ricche di
bassorilievi; ogni cortile è circondato da colonne di pietra bianca
che si armonizzano alla perfezione. Vicino all'angolo dove termina il
labirinto si innalza una piramide, quaranta orgie di base, che reca scolpite
figure di grandi proporzioni; la via di accesso alla piramide è
sotterranea. 149 Benché il labirinto sia già straordinario
ancora più meravigliati lascia il lago cosiddetto di Meride, presso il
quale il labirinto è stato costruito; il perimetro del lago misura
3600 stadi, vale a dire sessanta scheni, una lunghezza pari all'intero
sviluppo costiero egiziano; il lago si estende nel senso della lunghezza in
direzione nord-sud e nel punto di massima profondità raggiunge le
cinquanta orgie. 2) Che si tratti di un bacino artificiale, opera di scavo,
lo rivela il lago stesso: nel bel mezzo infatti vi sorgono due piramidi alte
ciascuna cinquanta orgie sul livello dell'acqua; e altrettanto misura la
parte sommersa. Sopra entrambe le piramidi c'è un colosso di pietra
seduto sul trono. 3) In questo modo l'altezza delle piramidi raggiunge le
cento orgie; cento orgie corrispondono esattamente a uno stadio di sei
pletri, visto che ogni orgia è pari a quattro cubiti o a sei piedi;
piede e cubito corrispondono rispettivamente a quattro e sei palmi. 4)
L'acqua del lago non è di sorgente (quella zona del paese è
terribilmente arida) ma vi è stata portata dal Nilo mediante un
canale: per sei mesi all'anno l'acqua scorre verso il lago, per gli altri sei
rifluisce nel letto del Nilo. 5) Quando le acque defluiscono dal lago allora,
in quei sei mesi, la pesca frutta alla reggia un talento d'argento al giorno;
quando invece vi affluisce frutta soltanto venti mine. 150 1) Gli abitanti del luogo dicevano anche che il lago
è collegato con il golfo della Sirte in Libia per mezzo di un canale
sotterraneo; il lato occidentale del lago si protende verso ovest
nell'interno lungo la catena montuosa che sta sopra Menfi. 2) Poiché non
riuscivo a vedere dove mai fosse stata accumulata la terra dello scavo, e la
cosa mi aveva incuriosito, chiesi a quelli che abitavano nei dintorni del
lago dove si trovasse la terra scavata. Essi mi spiegarono dove era stata
trasportata e mi convinsero facilmente; sapevo infatti, perché l'avevo sentito
raccontare, che anche a Ninive, città degli Assiri, era avvenuto
qualcosa di simile. 3) Infatti dei ladri avevano concepito il progetto di
rubare l'immenso tesoro, custodito in camere sotterranee, del re di Ninive
Sardanapalo: essi, cominciando dalla loro casa e calcolando con precisione le
distanze fino alla reggia, scavarono sottoterra una galleria e ogni notte
andavano a scaricare la terra rimossa nel Tigri, che scorre a poca distanza
da Ninive, finché non ebbero eseguito il loro piano. 4) Un lavoro del genere,
a quanto mi dissero, fu compiuto anche per lo scavo del lago egiziano, con la
sola differenza che non fu realizzato di notte bensì alla luce del
sole: gli Egiziani trasportarono il materiale estratto dallo scavo fino al
Nilo che, ricevendolo, avrebbe pensato a disperderlo. Così fu
realizzato, pare, l'invaso del lago. 151 1) I dodici re esercitarono il potere comportandosi
con giustizia; passato un certo tempo, una volta si riunirono per un
sacrificio nel tempio di Efesto; nell'ultimo giorno della festa quando
stavano per libare il sommo sacerdote, nel dare loro le coppe d'oro usate di
solito per le libagioni, ne sbagliò il numero, distribuendone undici
invece di dodici. 2) Psammetico era l'ultimo della fila: rimasto senza coppa,
si sfilò l'elmo di bronzo, lo porse e con esso libò. Anche gli
altri re, tutti, portavano un elmo, e lo avevano allora in testa; 3)
Psammetico non porse il suo con l'intenzione di ingannare gli altri. Ed essi,
quando ebbero collegato mentalmente il gesto di Psammetico con l'oracolo che
era stato loro vaticinato (chi di loro avesse libato con una coppa di bronzo
sarebbe diventato sovrano unico dell'intero Egitto), benché memori della
profezia, non ritennero giusto uccidere Psammetico: si resero conto,
interrogandolo a fondo, che non aveva agito con premeditazione, perciò
decisero di privarlo della maggior parte del suo potere e di esiliarlo nelle
paludi, col divieto di allontanarsi da lì e di avere contatti con il
restante territorio egiziano 152 1) Questo Psammetico, in precedenza, era stato
già una volta cacciato in esilio dal re Etiope Sabacos, che gli aveva
ucciso il padre Necos; allora era riparato in Siria; poi, quando l'Etiope,
dopo il sogno, si ritirò, gli Egiziani del nomo di Sais lo
ricondussero in patria; 2) più tardi, mentre era re, per la seconda
volta e per colpa dell'elmo gli altri undici sovrani lo costrinsero in
esilio, nelle paludi. 3) Si ritenne vittima di un sopruso da parte dei suoi
colleghi e pensò di vendicarsi di quanti lo avevano bandito. Mandò
una delegazione a Buto all'oracolo di Latona, che per gli Egiziani è
l'oracolo più veritiero, e ottenne un responso in base al quale la sua
vendetta sarebbe venuta dal mare, quando fossero apparsi degli uomini di
bronzo. 4) Davvero lui non poteva credere che mai sarebbero accorsi in suo
aiuto degli uomini di bronzo, ma, non molto tempo dopo, il destino volle che
degli Ioni e dei Cari, salpati per fare della pirateria, fossero gettati
sulle coste dell'Egitto; costoro sbarcarono a terra indossando armature di bronzo
e qualcuno corse nelle paludi ad avvisare Psammetico: poiché non aveva mai
visto prima degli uomini con armature di bronzo, il messaggero riferì
che dal mare erano venuti uomini di bronzo a depredare la campagna. 5)
Psammetico comprese che l'oracolo si stava avverando: trattò da amici
gli Ioni e i Cari e con grandi promesse li convinse a schierarsi con lui;
poi, un po' col favore degli Egiziani disposti ad aiutarlo, un po' col
soccorso di questi alleati, detronizzò i re avversari 153 1) Divenuto padrone di tutto quanto l'Egitto,
Psammetico fece costruire in onore di Efesto i propilei meridionali a Menfi e
di fronte ai propilei edificò per Api il cortile in cui Api viene
nutrito quando si manifesti; il cortile è contornato da colonne e ricco
di bassorilievi; non sono però propriamente colonne quelle che reggono
il tetto, ma piuttosto colossali statue di dodici cubiti. Api corrisponde in
lingua greca a Epafo. 154 1) Agli Ioni e ai Cari che lo avevano aiutato
Psammetico concesse di abitare due territori situati uno di fronte all'altro,
separati dal Nilo, che presero il nome di "Accampamenti".
Assegnò i territori e mantenne anche tutte le altre promesse. 2)
Inoltre affidò loro dei ragazzi egiziani perché imparassero la lingua
greca; da questi ragazzi che appresero allora il greco discendono tutti gli
attuali interpreti in Egitto. 3) Ioni e Cari abitarono assai a lungo in
questi territori situati lungo la costa un po' al disotto di Bubasti, presso
la foce del Nilo detta Pelusio. Più tardi il re Amasi li tolse da quei
territori e li trasferì a Menfi facendosene un corpo di guardia
personale in luogo degli Egiziani. 4) Costoro si stabilirono in Egitto e
proprio grazie ai contatti intervenuti con essi noi Greci possiamo avere una
esatta conoscenza delle cose d'Egitto, a partire dal regno di Psammetico in
poi; Ioni e Cari furono i primi alloglotti a stabilirsi in Egitto. Nei luoghi
da cui poi furono trasferiti a Menfi, ancora all'epoca della mia visita erano
rimasti gli scivoli per calare in acqua le imbarcazioni e i ruderi delle
abitazioni. E così Psammetico divenne padrone dell'Egitto. 155 1) Varie volte ho fatto menzione dell'oracolo
egiziano e ora bisogna che ne parli: è davvero un argomento degno di
essere toccato. Questo oracolo [egiziano] è sacro a Latona: sorge in
una grande città che si incontra risalendo il Nilo dal mare sul ramo
detto Sebennitico. 2) Il nome della città sede dell'oracolo è
Buto, come già precedentemente ho ricordato; a Buto si trova anche un
santuario di Apollo e di Artemide. Il tempio di Latona, sede dell'oracolo,
è veramente imponente: i suoi propilei raggiungono un'altezza di dieci
orgie; 3) ma dirò quella che fra tutte le cose visibili mi
procurò il maggior stupore: nell'area sacra a Latona c'è un
tempio costituito da pareti monolitiche, identiche in lunghezza e in altezza;
ogni spigolo misura quaranta cubiti; il tetto è formato da un'unica
lastra di pietra con un aggetto di quattro cubiti. 156 1) Questo tempio è per me fra tutte le cose
visibili nell'area del santuario la più stupefacente. La seconda
meraviglia è l'isola detta di Chemmi: 2) essa è situata in un
lago vasto e profondo, non lontano dal santuario di Buto, e a sentire gli
Egiziani sarebbe un'isola galleggiante. Personalmente io non l'ho mai vista
navigare né mai spostarsi minimamente e nel ricevere l'informazione mi ha
lasciato molto perplesso la possibilità che esistano isole natanti. 3)
Comunque nell'isola sorge un grande tempio di Apollo con tre altari; su di
essa crescono numerose palme e anche molte altre specie di alberi, da frutta
e non da frutta. 4) Gli Egiziani quando dicono che questa isola galleggia
aggiungono anche un racconto: narrano che Latona, una delle prime otto
divinità, abitava nella città di Buto, dove ora si trova il suo
santuario: su quest'isola che prima era fissa ricevette in custodia Apollo
dalle mani di Iside e ve lo tenne in salvo; lo nascondeva insomma nell'isola
che ora ha fama di essere galleggiante, quando giunse Tifone che cercava
ovunque pur di trovare il figlio di Osiride. 5) Essi sostengono che Apollo e
Artemide sono figli di Iside e di Dioniso e che Latona fu la loro nutrice e
salvatrice. In egiziano Apollo corrisponde a Horo, Demetra a Iside e Artemide
a Bubasti. 6) Da questa leggenda e non da altre Eschilo figlio di Euforione
trasse quanto vengo a dire, distinguendosi dai poeti suoi predecessori: fece
che Artemide fosse figlia di Demetra. Ecco perché l'isola sarebbe divenuta
galleggiante. Così almeno raccontano gli Egiziani. 157 1) Psammetico regnò sull'Egitto per 54 anni,
29 dei quali li trascorse accampato in assedio della grande città di
Azoto in Siria, finché non l'ebbe espugnata; Azoto, fra tutte le città
a nostra conoscenza fu quella che resistette più a lungo a un assedio.
158 1) Psammetico ebbe un figlio, Necos, che regnò
sull'Egitto: costui per primo iniziò lo scavo del canale che si
immette nel Mare Eritreo; il canale fu poi scavato in un secondo tempo dal
Persiano Dario. È lungo quattro giorni di navigazione e fu realizzato
talmente largo da consentire il passaggio contemporaneo a due triremi
procedenti a remi. 2) Il canale riceve l'acqua del Nilo; la riceve
esattamente poco a sud di Bubasti non lontano dalla città araba di
Patumo, e poi va a sfociare nel Mare Eritreo. Lo scavo cominciò nella
piana d'Egitto dalla parte dell'Arabia; appena un po' al di sopra di essa
inizia la catena montuosa che si sviluppa di fronte a Menfi, dove si trovano
le cave di pietra. 3) Il canale passa per lungo tratto alle falde di questa
catena montuosa e si allunga da ovest a est, quindi si spinge verso le gole;
dalle montagne piega poi verso il vento Noto, andando a sfociare nel Golfo
d'Arabia. 4) Dove la distanza è minore e la via è più
breve per passare dal mare settentrionale a quello meridionale, detto anche
Eritreo, vale a dire dal monte Casio che segna il confine fra l'Egitto e la
Siria, fino al Golfo di Arabia, ci sono ‹esattamente› mille stadi. 5) Mille
stadi in linea d'aria, ma in realtà il canale è alquanto
tortuoso e quindi molto più lungo. Nei lavori di scavo, avvenuti sotto
il regno di Necos, perirono 120.000 Egiziani. Necos poi interruppe a
metà i lavori: un oracolo gli impedì di continuare avvisandolo
che stava lavorando a vantaggio del barbaro. Gli Egiziani chiamano barbari
tutti quelli che non parlano la loro lingua. 159 1) Abbandonato il taglio del canale, Necos si volse ad
alcune spedizioni militari: triremi furono costruite sul mare settentrionale
e altre sul Mare Eritreo nel Golfo di Arabia: ancora ne sono visibili gli
scivoli di varo. 2) Le navi venivano utilizzate in caso di necessità;
con i Siri Necos combatté sulla terra ferma a Magdolo, dove risultò
vincitore; dopo questo scontro conquistò Caditi, grande città
della Siria. 3) Allora dedicò ad Apollo la veste da lui indossata
mentre compiva quelle imprese, inviandola al tempio dei Branchidi di Mileto.
Dopo sedici anni in tutto di regno Necos morì lasciando il potere al
figlio Psammi. 160 1) Mentre Psammi regnava sull'Egitto vennero
messaggeri da Elea che esaltavano i Giochi di Olimpia come i più belli
e i meglio regolati del mondo, convinti che neppure gli Egiziani, cioè
gli uomini più sapienti della terra, avrebbero mai saputo escogitare
qualcosa di simile. 2) Quando gli Elei giunti in Egitto ebbero esposta la
ragione del loro arrivo, allora il re convocò gli Egiziani che passavano
per i più sapienti; essi si riunirono e si informarono dagli Elei,
minutamente, sul regolamento dei Giochi e delle gare; gli Elei esposero ogni
dettaglio e dichiararono di essere venuti in Egitto per sapere se lì
erano capaci di studiare un sistema più equo. 3) Gli Egiziani si
consultarono fra loro e infine domandarono agli Elei se i loro concittadini
prendevano parte alle competizioni; ed essi risposero che era consentito di
gareggiare a chiunque lo desiderasse, fosse Eleo o di un'altra regione della Grecia,
senza discriminazioni. 4) Allora gli Egiziani ribatterono che così
facendo gli Elei avevano commesso una assoluta ingiustizia: non c'era infatti
modo di evitare che favorissero un loro concittadino a danno dei forestieri.
Se davvero volevano fissare delle regole eque e per questo motivo erano
venuti in Egitto, li esortavano a indire Giochi riservati ai soli stranieri e
a non permettere ad alcun cittadino di Elea di gareggiare. Questi furono i
suggerimenti dati dagli Egiziani agli Elei. 161 1) Psammi regnò solamente per sei anni; fece
in tempo a combattere contro l'Etiopia e subito dopo morì; gli
succedette suo figlio Aprieo 2) il quale, dopo il bisnonno Psammetico, fu il
più fortunato in confronto ai sovrani suoi predecessori: regnò
per 25 anni durante i quali mosse con le sue truppe contro Sidone e combatté
per mare contro il re di Tiro. 3) Ma era destino che facesse una brutta fine;
nei Racconti libici ne esporrò diffusamente la ragione, qui la
riassumerò per sommi capi. 4) Aprieo inviò un grande esercito
contro i Cirenei e subì una grave sconfitta; gravissima: gli Egiziani
gliela rimproverarono al punto da ribellarsi contro di lui; erano convinti
che Aprieo li avesse consapevolmente inviati verso una prevedibile sciagura
perché avvenisse una strage di Egiziani e lui potesse regnare con maggiore
sicurezza sui sudditi restanti. Furiosi i sopravvissuti e gli amici degli
scomparsi gli si ribellarono apertamente. 162 1) Informato della cosa Aprieo inviò presso di
loro Amasi perché con le sue parole li placasse. Amasi giunse presso i
ribelli e cercava di dissuaderli dai loro propositi, ma poi, mentre parlava,
un Egiziano, che era in piedi dietro di lui, gli pose sul capo un elmo e
asserì che con questo gesto lo designava re. 2) Il gesto non dovette
andare troppo contro la volontà di Amasi a giudicare dal suo
successivo comportamento: quando gli Egiziani lo ebbero eletto loro sovrano,
si preparò alla guerra contro Aprieo. 3) Informato di ciò,
Aprieo inviò ad Amasi un uomo del suo seguito che godeva di un certo
prestigio fra gli Egiziani: a Patarbemi, così si chiamava,
ordinò di condurgli Amasi vivo. Patarbemi raggiunse Amasi e lo
invitò a seguirlo, ma Amasi, per tutta risposta, si sollevò
leggermente sulla sella (per caso era a cavallo), tirò un peto e
invitò Patarbemi a riportare quello a Aprieo. 4) Ciononostante
Patarbemi insisteva nell'invitarlo a presentarsi al re che lo chiamava. Amasi
gli rispose che era esattamente quanto già da tempo si preparava a
fare: e Aprieo, aggiunse, non sarebbe stato scontento di lui, perché con sé
avrebbe condotto molti altri. 5) Patarbemi comprese il senso
dell'affermazione e, vedendolo ormai pronto alla spedizione, decise di
tornare dal re in gran fretta per comunicargli al più presto quanto
stava accadendo. Ma quando tornò dal re senza Amasi, Aprieo senza
concedergli di fornire spiegazioni e in preda all'ira, ordinò che gli
fossero tagliate le orecchie e il naso. Gli altri Egiziani rimasti fedeli ad
Aprieo, vedendo il più ragguardevole di loro trattato così
sconciamente, senza por tempo in mezzo passarono dall'altra parte e si
consegnarono ad Amasi. 163 1) Appreso anche questo, Aprieo armò i
mercenari e mosse contro gli Egiziani. Aveva con sé, come mercenari, 30.000
uomini fra Cari e Ioni. La sua reggia si trovava a Sais, era molto grande e
degna di essere vista. Così Aprieo e i suoi marciarono contro gli
Egiziani e Amasi e i suoi contro i mercenari; entrambi raggiunsero la
città di Momenfi e si prepararono allo scontro. 164 1) In Egitto la popolazione è divisa in sette
classi: sacerdoti, guerrieri, bovari, porcari, commercianti, interpreti,
piloti. Tante sono le classi egiziane, che prendono nome dai mestieri. 2)
Comunque i guerrieri sono anche detti Calasiri e Ermotibi e appartengono ai
seguenti nomoi; tutto l'Egitto infatti è diviso in nómoi. 165 1) Ecco i distretti degli Ermotibi: Busirite,
Saite, Chemmite, Papremite, Isola di Prosopitide e a metà del
distretto di Nato; provenienti da queste località gli Ermotibi nel
momento di massima crescita raggiunsero il numero di 160.000. Nessuno di loro
ha mai imparato altra professione: si dedicano solo alla guerra. 166 1) Ed ecco i distretti dei Calasiri: Tebano,
Bubastite, Aftite, Tanite, Mendesio, Sebennite, Atribite, Farbetite, Tmuite,
Onufite, Anisio, Miecforite: quest'ultimo occupa un'isola di fronte alla
città di Bubasti; 2) provenienti dunque da queste località i
Calasiri nel momento di massima crescita raggiunsero il numero di 250.000;
neppure costoro possono praticare altre professioni, ma coltivano solo l'arte
della guerra e se la trasmettono di padre in figlio. 167 1) Non sono in grado di giudicare con certezza se
anche questo uso i Greci lo hanno imparato dagli Egiziani; vedo che pure
Traci, Sciti, Persiani, Lidi e quasi tutte le popolazioni barbare hanno minor
considerazione per i cittadini che apprendano un mestiere e per i loro figli,
mentre ritengono nobili le persone libere da lavori manuali e in modo
particolare quanti attendono alle attività militari. 2) Comunque
è un modo di pensare ben appreso dai Greci tutti: più degli
altri dagli Spartani e meno degli altri dai Corinzi, che non disprezzano
affatto gli artigiani. 168 1) I soli guerrieri fruivano, con i sacerdoti, di
determinati vantaggi: dodici arure di terreno scelto, esenti da tasse.
L'arura è una estensione quadrata di cento cubiti egiziani su ogni
lato; il cubito egiziano per l'appunto coincide con quello di Samo. 2)
Accanto a tale privilegio generale esistevano prerogative particolari concesse
a turno e mai alle stesse persone: ogni anno 10.000 Calasiri e altrettanti
Ermotibi prestavano servizio come guardie del re; oltre alle arure,
ricevevano giornalmente cinque mine di grano abbrustolito a testa, due mine
di carne bovina e quattro aristeri di vino; tanto elargivano alle guardie in
servizio. 169 1) Quando dunque, nella loro marcia di avvicinamento,
Aprieo con i mercenari e Amasi alla testa di tutti gli Egiziani, raggiunsero
la città di Momenfi, si accese lo scontro: si batterono bene gli
stranieri, ma erano molto inferiori per numero e perciò rimasero
sconfitti. 2) Aprieo, si racconta, credeva che nessuno, neppure un dio,
potesse porre fine al suo potere, tanto gli sembrava saldamente radicato. E
invece, venuto a battaglia, fu sconfitto, fatto prigioniero e condotto nella
città di Sais, nella sua dimora di un tempo, divenuta ormai la reggia
di Amasi. 3) Per un certo periodo Amasi lo ospitò nella reggia,
trattandolo con onore; ma infine, biasimato dagli Egiziani, tacciato di
ingiustizia perché ospitava il loro e suo massimo nemico, decise di
consegnare Aprieo agli Egiziani. Essi lo impiccarono e quindi lo seppellirono
nella tomba di famiglia, 4) che si trova nel tempio di Atena, proprio accanto
al sacrario, a sinistra per chi entra. I cittadini di Sais seppellivano nel
tempio di Atena tutti i re originari del loro distretto: 5) così vi si
trova pure la tomba di Amasi, ma più discosta dal sacrario rispetto
alle tombe di Aprieo e dei suoi antenati, e precisamente nel cortile del
santuario; consiste di un lungo porticato di pietra, ornato di colonne a
forma di palmizi e di ogni altra decorazione di lusso; all'interno del
porticato vi sono due grandi portali, in mezzo ad essi è collocato il
monumento funebre. 170 1) Sempre lì a Sais nel santuario di Atena si
trova anche la tomba di colui che ora sarebbe empietà nominare; giace
nella parte posteriore del santuario lungo il muro di cinta. 2) Sempre
nell'area del tempio si ergono grandi obelischi di pietra; accanto vi
è un laghetto, ornato da un parapetto di pietra e perfettamente
circolare, vasto, come mi parve, quanto il cosiddetto lago
"rotondo" di Delo. 171 1) In questo laghetto si svolgono di notte le sacre
rappresentazioni delle vicende di lui; gli Egiziani le chiamano
"misteri": io so come si svolgono in ogni particolare, ma
conserverò un religioso silenzio. 2) E mi guarderò anche dal
parlare dei misteri di Demetra, che i Greci chiamano Tesmoforie, se non per
quanto mi sia lecito dire: 3) furono le figlie di Danao a introdurre in
Grecia questa cerimonia originaria dell'Egitto, insegnandola alle donne
pelasgiche; poi, quando l'intero Peloponneso fu sconvolto dai Dori, il rito
scomparve; solo gli Arcadi, unici superstiti delle popolazioni del
Peloponneso, unici non dispersi, lo tennero in vita. 172 1) Detronizzato Aprieo, governò Amasi,
originario del nomo di Sais e più precisamente della città di
Siuf. 2) In un primo momento gli Egiziani disprezzavano Amasi e non lo
stimavano affatto, in quanto era del popolo e non di una casata illustre; ma
poi Amasi, con accortezza e prudenza, riuscì a guadagnarsi il loro
favore. 3) Possedeva una enorme quantità di oggetti preziosi: fra gli
altri un bacile d'oro nel quale lui e tutti i suoi invitati erano soliti
lavarsi i piedi in ogni circostanza; egli lo ridusse a pezzi per ricavarne la
statua di un dio, collocata poi nel punto più adatto della
città; e gli Egiziani vi si affollavano attorno con grande
venerazione; 4) Amasi, informato del comportamento dei suoi sudditi, li
convocò e rivelò loro che l'immagine era stata fabbricata con
un bacile e che ora gli Egiziani veneravano con profonda devozione un oggetto
in cui si erano lavati i piedi e avevano vomitato e orinato. 5)
Seguitò dicendo che lui si era trovato in una situazione paragonabile
a quella del catino: se prima era uno del popolo ora invece era il loro
sovrano e perciò li esortava a rispettarlo e a onorarlo. In questo
modo si guadagnò la stima degli Egiziani, che accettarono di essere
suoi sudditi. 173 1) Amasi sbrigava i suoi affari come segue:
dall'alba fino a quando la piazza del mercato è affollata, si occupava
delle questioni che gli venivano sottoposte, dopo di che beveva, beffava i
suoi convitati, era frivolo e allegro. 2) Rammaricandosi per questo, gli
amici lo ammonivano: "Sovrano, - gli dicevano - tu non agisci bene, ti
comporti con troppa leggerezza. Dovresti startene seduto dignitosamente su un
venerabile trono per tutto il giorno e affrontare questioni serie; in questo
modo gli Egiziani saprebbero di essere governati da un uomo importante e tu
avresti una fama maggiore. La tua attuale condotta, invece, non è
affatto regale". 3) Ma lui una volta rispose: "Chi possiede un arco
lo tende quando deve usarlo e dopo lo lascia allentato; questo perché se
restasse continuamente in tensione l'arco si spezzerebbe, e quindi gli
arcieri, al momento buono, non potrebbero più servirsene. 4) Identica
è la condizione dell'uomo: uno che vuole essere sempre serio e non si
lascia andare ogni tanto allo scherzo senza nemmeno accorgersene diventerebbe
pazzo o stupido. Io ne sono convinto e perciò divido il mio tempo fra
serietà e scherzo". Così Amasi rispose ai suoi amici.
174 1) Si dice che Amasi, anche da privato cittadino,
abbia sempre amato bere e divertirsi; e che non fosse mai stato un individuo
severo. Se bevendo e divertendosi gli veniva a mancare il necessario, andava
in giro a rubacchiare. Quanti lo accusavano di possedere qualche loro bene,
se lui si ostinava a negare, lo conducevano spesso di fronte all'oracolo del
luogo dove si trovavano. Spesso fu dichiarato colpevole dai responsi, ma
spesso veniva assolto. 2) Una volta salito al trono si comportò come
segue: non si dette cura alcuna dei templi degli dei che lo avevano assolto
dall'accusa di essere un ladro; non concesse denaro per restaurarli né li frequentava
per compiere sacrifici; riteneva quegli dei indegni di considerazione, perché
possedevano oracoli menzogneri; aveva invece molto riguardo per quelli che lo
avevano condannato come ladro, stimando che fossero autentici dei e
possedessero oracoli non menzogneri. 175 1) In onore di Atena a Sais costruì dei
propilei stupendi, superiori a tutti gli altri per altezza e grandezza nonché
per le dimensioni e la qualità delle pietre impiegate; inoltre
offrì come dono votivo statue colossali e sfingi maschili, di grandi
proporzioni e si procurò altri blocchi di pietra enormi per opere di
restauro. 2) Alcune di queste pietre le fece venire dalle cave esistenti
all'altezza di Menfi, altre, le più smisurate, dalla città di
Elefantina, che dista da Sais una ventina di giorni di navigazione. 3) E
ancora, e ciò suscita in me la maggiore meraviglia, fece venire da
Elefantina una costruzione monolitica, impiegando per il trasporto tre anni e
duemila operai, tutti appartenenti alla casta dei "piloti". La
larghezza di questa costruzione esternamente è di circa venti cubiti:
quattordici ne misura in larghezza e otto in altezza. 4) Tali sono le sue
dimensioni esterne; all'interno la lunghezza è di diciotto cubiti e un
pigone, "la larghezza di dodici cubiti" e l'altezza di cinque
cubiti. Questa costruzione sorge presso l'ingresso del santuario. 5) Non lo
portarono dentro l'area sacra, si dice, per questa ragione: stavano trainando
l'edificio quando il direttore dei lavori emise un sospiro a causa della
fatica e del tempo occorsi per un simile lavoro; allora Amasi, facendosi
scrupolo, non consentì che lo si trasportasse più oltre. Altri
invece raccontano che uno degli operai che manovravano le leve morì
schiacciato: per questo motivo quindi non lo avrebbero più portato dentro.
176 1) Amasi dedicò in tutti gli altri celebri
santuari opere sempre degne di essere viste per la loro imponenza; e fra le
altre un colosso che giace supino a Menfi di fronte al tempio di Efesto,
lungo ben 75 piedi. Sul medesimo piedistallo, ai lati del colosso maggiore,
si ergono altre due statue in pietra etiopica, ciascuna delle quali è
alta venti piedi. 2) Anche a Sais esiste un colosso simile, cioè
giacente alla maniera di quello di Menfi. Fu poi ancora Amasi a far costruire
a Menfi il tempio di Iside, un tempio assai grande e che assolutamente merita
una visita. 177 1) Sotto il regno di Amasi, si racconta, l'Egitto
godette di una grandissima prosperità: le piene del fiume
gratificarono sempre la terra e i raccolti gli uomini: le città abitate
in Egitto erano allora circa 20.000. 2) Fu Amasi a stabilire per gli Egiziani
la legge per cui ognuno doveva ogni anno dimostrare di cosa vivesse; e per
quanti eludevano quest'obbligo o non dimostravano di vivere onestamente era
prevista la pena di morte. L'Ateniese Solone prese in Egitto questa norma e
la introdusse ad Atene; e vi è tuttora in vigore, trattandosi di una
legge ineccepibile. 178 1) Divenuto molto amico dei Greci, Amasi fece varie
concessioni ad alcune popolazioni greche: in particolare permise a chi si
recava in Egitto di risiedere a Naucrati; a chi non intendeva abitarvi, ma vi
giungeva in viaggio, offrì delle aree per la edificazione di altari e
templi per gli dei; 2) fra queste l'area sacra più grande, più
rinomata e più frequentata si chiama Ellenio; la allestirono insieme
varie città: le ioniche Chio, Teo, Focea, Clazomene, le doriche Rodi,
Cnido, Alicarnasso, e Faselide, e la sola Mitilene per gli Eoli. 3) Le
città alle quali appartiene il santuario sono le stesse che forniscono
i sopraintendenti al mercato. Tutte le altre città che rivendicano una
partecipazione lo fanno senza averne diritto. Gli abitanti di Egina per conto
loro si costruirono un tempio di Zeus, e i Sami uno dedicato a Era, un altro
ancora i Milesii ad Apollo. 179 1) L'unico grande antico emporio, e non ve n'erano
altri in Egitto, era Naucrati. Se qualcuno approdava a una foce del Nilo
diversa, doveva giurare di esservi arrivato per sbaglio, e dopo aver giurato
doveva subito dirigersi verso il Nilo di Canobo; se i venti contrari
impedivano di prendere il mare, allora bisognava trasportare le mercanzie
attraverso l'intero Delta a bordo di barche egiziane, finché non si giungeva
a Naucrati; di tale privilegio godeva Naucrati. 180 1) Quando gli Anfizioni appaltarono per trecento
talenti la costruzione dell'attuale tempio di Delfi (il precedente era stato
distrutto da un incendio scoppiato per cause naturali), i cittadini di Delfi
dovettero pagare la quarta parte del prezzo di appalto. 2) Allora si recarono
in varie città per raccogliere fondi e così facendo non fu
certo dall'Egitto che ricavarono la somma minore. Amasi infatti regalò
loro mille talenti di allume e i Greci residenti in Egitto versarono venti
mine. 181 1) Amasi firmò un trattato di amicizia e di
alleanza militare con gli abitanti di Cirene. Anzi decise persino di prendere
moglie in quella città, vuoi per il desiderio di avere una donna greca
vuoi come segno di amicizia nei confronti dei Cirenei: 2) secondo alcuni
sposò la figlia di Batto figlio di Arcesilao, secondo altri una certa
Ladice figlia di Critobulo, un cittadino ragguardevole. Ora, accadeva che
quando Amasi andava a letto con lei non era capace di fare l'amore, cosa che
gli riusciva invece con le altre donne: 3) il fatto si ripeté varie volte
sicché Amasi disse a Ladice: "Moglie mia, tu mi hai stregato e
perciò non hai nessuna possibilità di sfuggire alla sorte
peggiore mai toccata a una donna". 4) Ladice negava, ma senza arrivare a
calmare il marito; perciò pregò fra sé Afrodite, promettendole
di inviarle una statua a Cirene se la notte seguente Amasi fosse riuscito a
fare l'amore con lei; che era, poi, l'unico rimedio al male. Dopo tale
preghiera immediatamente Amasi riuscì a possederla e da allora tutte
le volte che l'andava a trovare si univa con lei; e dopo la amò molto.
5) Ladice sciolse poi il voto alla dea facendo fabbricare una statua e
inviandola a Cirene; la statua esiste ancora oggi e si trova all'esterno
delle mura di Cirene. Quanto a Ladice, quando Cambise divenne il padrone dell'Egitto
e seppe di lei chi fosse, la rimandò a Cirene sana e salva. 182 1) Amasi consacrò offerte anche in Grecia: a
Cirene una statua d'oro, raffigurante Atena, e un proprio ritratto; a Lindo due
statue di pietra dedicate ad Atena e una corazza di lino che merita di essere
vista; ad Era in Samo due sue statue in legno che ancora ai miei tempi erano
collocate nel tempio grande, subito dietro le porte. 2) A Samo
consacrò le sue offerte a causa dei vincoli di ospitalità
esistenti fra lui e Policrate figlio di Eace; a Lindo non per legami di
ospitalità (non ne aveva), ma perché secondo la leggenda il tempio era
stato costruito dalle figlie di Danao, colà approdate durante la loro
fuga dai figli di Egitto. Questi furono i suoi doni votivi. Amasi fu il primo
al mondo a conquistare l'isola di Cipro e a costringerla al pagamento di un
tributo. Libro III Contro questo Amasi muoveva
guerra Cambise, figlio di Ciro, alla testa di contingenti di varia provenienza,
tra cui anche Greci della Ionia e dell'Eolia. La causa della guerra fu la
seguente: Cambise aveva inviato in Egitto un araldo per avere in moglie la
figlia di Amasi, su consiglio di un Egiziano, il quale agì come
agì per un antico rancore nei confronti di Amasi. A suo tempo,
infatti, Ciro aveva mandato a chiedere al re egiziano un medico degli occhi,
il migliore dell'Egitto, e Amasi aveva scelto proprio lui fra tutti i medici
del paese e lo aveva spedito in Persia strappandolo alla moglie e ai figli.
L'Egiziano, pieno di rancore, istigava Cambise con inviti pressanti a
domandare in sposa la figlia di Amasi, perché questi soffrisse a concederla o
si attirasse l'odio di Cambise rifiutandosi di farlo. Amasi, preoccupato e
timoroso della potenza persiana, non si risolveva né ad accettare né a
rifiutare la proposta: sapeva perfettamente che Cambise avrebbe trattato sua
figlia da concubina e non da moglie. Alla fine, dopo lunga riflessione,
decise di comportarsi così: viveva ancora, unica sopravvissuta della
famiglia, una figlia del re precedente Aprieo, assai alta e bella, che si
chiamava Niteti; Amasi la fece vestire con sfarzo e adornare d'oro e la
inviò in Persia come se fosse sua figlia. Più tardi, siccome
Cambise la salutava sempre chiamandola con il nome del padre, questa ragazza
gli disse: "Signore, tu non lo sai, ma sei stato ingannato da Amasi: lui
mi ha agghindata da regina e mi ha mandato qui da te, fingendo di consegnarti
sua figlia; in realtà io sono figlia di Aprieo, l'antico signore di Amasi,
che Amasi e gli Egiziani detronizzarono e uccisero". Tale discorso e la
colpa che rivelava indussero Cambise figlio di Ciro a muovere contro l'Egitto
con la rabbia nel cuore.
11) Quando i Persiani, attraversato il deserto, erano ormai
alle frontiere dell'Egitto pronti ad attaccare, i mercenari d'Egitto, Greci e
Cari, pieni di rancore verso Fane perché aveva guidato sull'Egitto un
esercito straniero, progettarono una terribile vendetta contro di lui. In
Egitto erano rimasti i figli di Fane e li portarono nell'accampamento; quindi
posero un grande vaso nello spazio fra i due eserciti nemici e perciò
sotto gli occhi del padre; poi vi condussero i bambini e uno per uno li sgozzarono
sopra il vaso, dentro il quale, terminata la strage, versarono vino e acqua;
così tutti i mercenari bevvero il sangue dei ragazzi prima di
attaccare battaglia. Lo scontro fu durissimo e molti combattenti, di entrambi
gli eserciti, caddero sul campo, ma alla fine furono gli Egiziani a
ritirarsi.
80) Quando il tumulto si placò e furono trascorsi
cinque giorni, gli autori della ribellione ai Magi si consultarono sulla
situazione nel suo insieme; in quella circostanza furono pronunciati discorsi
che suonano forse incredibili alle orecchie di qualche Greco, ma che furono
davvero pronunciati. Il parere di Otane era di rimettere il potere a tutti i
Persiani: egli disse: "Secondo me non deve più essere un monarca
a governarci: si tratta di un sistema né piacevole né valido. Voi avete pur
visto l'arroganza di Cambise sin dove si è spinta e avete sperimentato
anche quella del Mago. Come potrebbe essere una cosa conveniente la
sovranità di una sola persona a cui è lecito agire come vuole
senza doverne rendere conto a nessuno? Anche l'uomo migliore del mondo, una
volta che avesse in mano tanta autorità, si troverebbe al di fuori del
modo comune di pensare. Le fortune a sua disposizione producono in lui
protervia, e in ogni uomo c'è già innata sin da subito
l'invidia: se possiede questi due vizi, li possiede tutti. Molte azioni
nefande le compie perché è gonfio di arroganza e molte perché è
pieno di invidia. Eppure un re, che possiede ogni bene, non dovrebbe
conoscere l'invidia; e invece germoglia in lui malanimo verso i suoi
cittadini: invidia i migliori finché sono ancora in vita, si compiace dei
cittadini peggiori, nessuno è più disposto di lui ad accogliere
calunnie. La cosa più assurda è che se lo ammiri con
moderazione, se ne adonta perché non si sente abbastanza riverito, e se lo
riverisci molto, se ne adonta perché si sente adulato. Ma la cosa più
grave è questa: sconvolge le patrie tradizioni, violenta le donne,
manda a morte senza processi. Invece il governo del popolo comporta
già il nome più bello che esista: "parità di
diritti". E poi non c'è nulla di ciò che fa un monarca; le
cariche pubbliche si sorteggiano, c'è un rendiconto per le
magistrature ricoperte, tutte le decisioni sono demandate a un collettivo.
Pertanto il mio parere è di abbandonare il regime monarchico e di
innalzare il popolo al potere: perché la massa è tutto".
Libro IV 1)Dopo la presa di Babilonia Dario mosse personalmente
contro gli Sciti. L'Asia fiorente di uomini e le grandi ricchezze che gli
affluivano suscitarono in Dario il desiderio di vendicarsi degli Sciti, in
quanto per primi, attaccato il paese dei Medi e sconfitto in battaglia chi ad
essi si opponeva, avevano dato inizio all'ingiustizia. In effetti, come
già prima ho ricordato, gli Sciti dominarono per ventotto anni la
parte settentrionale dell'Asia: gettatisi all'inseguimento dei Cimmeri,
irruppero nell'Asia mettendo fine al dominio dei Medi, che ne erano signori
prima dell'arrivo degli Sciti. Quando poi gli Sciti, rimasti per ventotto
anni fuori della patria, tornarono, così tanto tempo dopo, a casa
loro, li attendeva un'impresa ardua quanto la conquista della Media:
trovarono ad accoglierli un esercito non indifferente. Era accaduto che le
loro mogli, prolungandosi l'assenza dei mariti, s'erano messe con gli
schiavi. 2) Gli schiavi, gli Sciti li accecano tutti per la preparazione
del latte che bevono; essa avviene così: prendono dei tubi ossei,
somigliantissimi a flauti, li introducono nei genitali delle cavalle e vi
soffiano dentro con la bocca, e mentre alcuni soffiano altri mungono.
Procedono in tal modo, dicono, perché le vene della cavalla, grazie al
soffio, si inturgidiscono e le poppe si abbassano. Quando hanno munto il
latte, lo versano in panciuti vasi di legno e lo fanno agitare dai ciechi,
disposti tutto intorno ai vasi: scremano la parte superiore e la considerano
più pregiata, mentre apprezzano meno la parte che resta in basso. Per
questo gli Sciti accecano chiunque catturino; in effetti non sono
agricoltori, ma nomadi. 3) Da questi loro schiavi, dunque, e dalle loro mogli,
nacque una generazione di giovani, i quali, appresa la propria origine, si
opposero agli Sciti che rimpatriavano dalla Media. Per prima cosa cercarono
di isolare il paese scavando un ampio fossato che si estendeva dai monti del
Tauro fino alla palude Meotide, là dove è più ampia;
poi, schierandosi di fronte agli Sciti che tentavano di fare irruzione,
ingaggiavano battaglia. Si scontrarono varie volte e gli Sciti non riuscivano
a prevalere con le armi; allora uno di loro disse: "Che stiamo facendo,
amici! Se combattiamo contro i nostri schiavi, assottigliamo le nostre file
facendoci uccidere, e uccidendo loro diminuiamo il numero dei nostri futuri
sudditi. Per me bisogna mettere via lance e archi; ciascuno deve prendere la
frusta del cavallo e spingersi più vicino a loro; finché ci vedevano con
le armi si credevano uguali a noi e di uguale nascita, ma quando, anziché con
le armi, ci vedranno con la frusta, capiranno che sono nostri schiavi e,
riconoscendolo, non opporranno resistenza". 4) Udito il consiglio, gli Sciti lo misero in pratica; e i
loro nemici, sbalorditi da quanto avveniva, si dimenticarono della battaglia
e si diedero alla fuga. Così gli Sciti dominarono l'Asia e poi,
cacciati via dai Medi, rientrarono, come ho detto, nel loro paese. Ed ecco
perché Dario, volendo vendicarsi, raccolse un esercito contro di loro. 5) A sentire gli Sciti, il loro sarebbe fra tutti il popolo
più recente e avrebbe avuto origine come segue. In quella regione,
allora desertica, nacque un primo uomo, che si chiamava Targitao; padre e
madre di questo Targitao, dicono (per conto mio non è credibile, ma
insomma così dicono), sarebbero stati Zeus e la figlia del fiume
Boristene. Nato dunque da tali genitori, Targitao ebbe tre figli, Lipossai,
Arpossai e Colassai, il più giovane dei tre. Durante il loro regno sul
suolo della Scizia caddero dal cielo degli oggetti d'oro, un aratro, col suo
giogo, un'ascia bipenne e una coppa. Il più vecchio dei fratelli li
vide per primo e subito si avvicinò per afferrarli; ma mentre si
avvicinava l'oro divenne infuocato. Egli allora si ritrasse e si fece sotto
il secondo fratello, ma l'oro di nuovo reagì come prima. L'oro
arroventandosi si difese dai primi due, ma al sopraggiungere del terzo
fratello, il più giovane, smise di essere incandescente, e lui poté portarselo
a casa. Al che i due fratelli maggiori di comune accordo cedettero al
più giovane l'intero regno. 6) Da Lipossai sarebbe nata la tribù scita detta
degli Aucati, da Arpossai, il fratello di mezzo, i Catìari e i Traspi,
dal più giovane la stirpe dei re, i Paralati; tutti insieme si
chiamano Scoloti, dal nome del re, ma i Greci li chiamarono Sciti. 7) Così gli Sciti narrano la propria origine; quanto
agli anni trascorsi complessivamente dal primo re Targitao sino all'invasione
di Dario, dicono che siano mille e non uno di più. I re custodiscono
l'oro sacro con la massima cura e ogni anno lo venerano con grandi sacrifici
propiziatori. Se durante la festa uno dei custodi dell'oro si addormenta
all'aperto, costui, dicono gli Sciti, non arriva alla fine dell'anno; perciò
gli regalano tanta terra quanta riesca a percorrerne in un giorno a cavallo.
Essendo il paese sterminato, Colassai lo spartì in tre regni fra i
propri figli, assegnando un territorio maggiore al regno in cui viene
custodito l'oro. I territori situati verso nord oltre le estreme regioni
abitate della Scizia non si possono né vedere né attraversare più di
tanto, si dice, perché vi cadono piume: il suolo e l'aria ne sarebbero pieni,
e le piume appunto impedirebbero la visuale. 8) Questo raccontano gli Sciti su di sé e sui territori
settentrionali; ecco invece cosa narrano i Greci residenti sul Ponto. Eracle,
spingendo i buoi di Gerione, sarebbe giunto nella terra ora occupata dagli
Sciti, allora desertica. Gerione risiedeva lontano dal Ponto, abitava nell'isola
detta dai Greci Eritia, al di là delle colonne d'Eracle, di fronte a
Cadice, nell'Oceano. L'Oceano, dicono i Greci, ha origine nell'estremo
oriente dove sorge il sole e scorre tutto intorno alla terra (così
dicono, ma non sanno dimostrarlo concretamente). Da là giunse Eracle
nel paese detto Scizia: sorpreso dall'inverno e dal gelo, si avvolse nella
sua pelle di leone e si addormentò; e nel frattempo, per sorte divina,
le cavalle, quelle staccate dal suo carro, sparirono mentre pascolavano.
9) Appena sveglio, Eracle si mise a cercarle, percorrendo
in lungo e in largo tutto il paese, finché giunse nella regione cosiddetta di
Ilea. Qui, in una grotta, trovò una creatura dalla duplice natura,
mezza donna e mezza serpente, donna dai glutei in su e rettile in giù.
Eracle guardandola pieno di stupore le chiese se avesse visto in giro, da
qualche parte, delle cavalle. Gli rispose che erano in mano sua, le cavalle,
e che non gliele avrebbe ridate se prima non faceva l'amore con lei: un
prezzo che Eracle accettò. Ma lei, poi, differiva la restituzione
delle cavalle desiderando starsene con Eracle il più a lungo
possibile, mentre lui voleva riprenderle e andarsene; infine lei gliele rese
e disse: "Io ti ho salvato queste cavalle, giunte fino a qui, e tu mi hai
dato il compenso: da te ho concepito tre figli. Spetta a te ora indicarmi
come agire una volta che siano adulti: li tengo qui (perché io sono la regina
di questa regione) o li mando da te?". Così gli chiedeva ed
Eracle le rispose: "Quando ti accorgi che i ragazzi sono divenuti ormai
uomini, regolati come ti dico e non sbaglierai: se ne vedi uno capace di
tendere quest'arco così e di legarsi la cintura come faccio io,
insedialo in questo paese: chi invece non riesce a compiere le azioni che
dico, mandalo via. Agendo così tu stessa ne sarai felice e avrai
realizzato il compito che ti affido". 10) Eracle dunque, dopo aver teso uno degli archi (fino ad
allora ne portava due) e mostrato come si doveva allacciare la cintura,
consegnò alla donna l'arco e la cintura, che portava una coppa d'oro
allacciata alla fibbia; dopodiché si allontanò. La donna, quando i
suoi figli divennero adulti, impose loro i nomi di Agatirso al primo, Gelono
al secondo, Scita al più giovane; poi, memore delle raccomandazioni di
Eracle, eseguì quanto lui le aveva prescritto. E così due dei
suoi figli, Agatirso e Gelono, non risultando capaci di superare la prova
stabilita, se ne andarono via dal paese, scacciati dalla madre; il più
giovane invece, Scita, avendola portata a compimento, vi rimase. Da Scita
figlio di Eracle, raccontano, discesero tutti i re succedutisi sul trono di
Scizia, e a quella antica coppa risale l'attuale uso scita di portare una
coppa appesa alla cintura. Questo dunque aveva compiuto per Scita sua madre.
Così raccontano i Greci residenti sul Ponto. 11) Esiste ancora un'altra versione, a cui mi sento molto
incline, che narra così. Gli Sciti nomadi che vivevano in Asia,
premuti in guerra dai Massageti, attraversarono il fiume Arasse e si
trasferirono nel territorio dei Cimmeri (e infatti il paese attualmente
occupato dagli Sciti si dice appartenesse un tempo ai Cimmeri). Vedendo
giungere gli Sciti, i Cimmeri si consultarono sul da farsi, visto che in
arrivo si profilava un esercito immenso: si contrapposero così due
pareri, vigorosamente sostenuti entrambi, più forte però quello
dei re. Il popolo riteneva che fosse il caso di ritirarsi e di non rischiare
contro una massa del genere, i re invece volevano battersi fino all'ultimo
contro gli invasori per la loro terra. Nessuno era disposto a cedere, né il
popolo ai sovrani né i sovrani al popolo; infine i sudditi decisero di
andarsene, abbandonando il paese agli invasori senza combattere, i re invece
preferirono giacere uccisi in patria che fuggire insieme con gli altri:
pensavano ai privilegi di cui avevano sempre goduto e ai mali che
prevedibilmente avrebbero patito in esilio, lontano dalla patria. Presa
questa risoluzione, i re si divisero dunque in due gruppi ugualmente numerosi
e si affrontarono. Il popolo dei Cimmeri seppellì poi tutti i caduti,
periti l'uno per mano dell'altro, presso il fiume Tira (il tumulo è
tutt'oggi visibile); e dopo averli seppelliti in tal modo, i Cimmeri uscirono
dal paese. Gli Sciti sopraggiunsero e conquistarono una regione ormai
deserta. 12) E ancora oggi in Scizia ci sono le Mura Cimmerie e il
varco Cimmerio, una regione si chiama Cimmeria, e c'è il cosiddetto
Bosforo Cimmerio. Ed è chiaro che i Cimmeri, fuggendo in Asia davanti
agli Sciti, colonizzarono la penisoletta su cui ora sorge la greca
città di Sinope. Ed è anche chiaro che gli Sciti,
nell'inseguirli, penetrarono nel paese dei Medi, sbagliando direzione. In
effetti i Cimmeri in fuga si tennero costantemente lungo la costa, mentre gli
Sciti, passando sulla sinistra del Caucaso, li inseguirono fin dentro il
paese dei Medi, che invasero: avevano deviato piegando verso l'interno. E
questa è la terza versione: la raccontano tanto i Greci come i
barbari. 13) Aristea, un uomo di Proconneso, figlio di Caistrobio,
scrisse in un suo poema epico di essere giunto, posseduto da Febo, fino agli
Issedoni; a nord degli Issedoni, disse, abitano gli Arimaspi che hanno un
occhio solo, più in là dei quali vivono i grifoni custodi
dell'oro; oltre i grifoni e fino al mare gli Iperborei. Questi popoli, tranne
gli Iperborei, avrebbero premuto sui loro confinanti, a partire dagli
Arimaspi: gli Issedoni furono spinti fuori del loro paese dagli Arimaspi, gli
Sciti dagli Issedoni, e i Cimmeri, stanziati lungo le coste del mare
meridionale, abbandonarono la loro terra scacciati dagli Sciti. Insomma,
neppure Aristea è d'accordo con gli Sciti sulla storia di questa
regione. 14) Di dov'era nativo Aristea, l'autore di queste notizie,
l'ho detto; ora invece riferirò quanto su di lui udivo raccontare a
Proconneso e a Cizico. Narrano infatti che Aristea, il quale per
nobiltà di natali non era inferiore a nessuno nella sua città,
entrò un giorno in una lavanderia di Proconneso e vi morì; il
lavandaio chiuse il negozio e si avviò per avvertire i parenti del
defunto. Si sparse per la città la voce che Aristea era morto, ma
giunse a contraddirla un uomo di Cizico, proveniente da Artace, il quale
sosteneva di averlo incontrato che si dirigeva a Cizico e di aver
chiacchierato con lui. E mentre costui ribadiva con ostinazione il suo
discorso, i parenti del defunto già erano sulla porta della lavanderia
con il necessario per rimuovere il cadavere. Aprirono la porta della stanza,
ma di Aristea non c'era traccia, né vivo né morto. Sei anni dopo riapparve a
Proconneso e vi compose il poema ora intitolato dai Greci Canti arimaspi:
dopo averlo composto sparì una seconda volta. 15) Così si racconta in queste due città, ecco
invece cosa so essere capitato agli abitanti di Metaponto in Italia, 240 anni
dopo la seconda scomparsa di Aristea, secondo quanto ho scoperto con le mie
ricerche a Metaponto e a Proconneso. I Metapontini affermano che Aristea in
persona apparve nel loro paese, ordinò di edificare un altare ad
Apollo e di erigergli accanto una statua con la scritta "Aristea di
Proconneso"; spiegò che essi erano gli unici Italioti presso i
quali fosse venuto Apollo e che lui stesso lo aveva seguito: ora era Aristea,
allora, quando accompagnava il dio, era un corvo. Detto ciò sarebbe
scomparso. I Metapontini, a quanto asseriscono, inviarono una delegazione a
Delfi per interrogare il dio sul significato di quell'apparizione, e la Pizia
li avrebbe esortati a obbedire al fantasma, perché obbedendo si sarebbero
trovati meglio. Essi accettarono il responso ed eseguirono quanto prescritto.
E oggi proprio accanto al monumento di Apollo si erge una statua intitolata
ad Aristea, circondata da piante di alloro; il monumento di Apollo si trova
nella piazza. E questo basti sul conto di Aristea. 16) Quanto al paese da cui è partito il mio discorso,
nessuno sa con certezza cosa vi sia al suo nord: in effetti non ho mai potuto
raccogliere notizie da qualcuno che si dichiarasse testimone oculare di tali
contrade. E nemmeno quell'Aristea da me ricordato poco fa, neppure lui
affermò nel suo poema di essere andato oltre gli Issedoni: delle
regioni ulteriori parlava per sentito dire, e indicava negli Issedoni le sue
fonti. Ebbene, quanto noi con certezza siamo stati in grado di apprendere
grazie alle nostre fonti, spingendoci avanti il più possibile, ora qui
sarà esposto. 17) Muovendo dal porto dei Boristeniti (che si trova giusto
a metà dell'intera costa scitica), muovendo da qui si incontrano per
primi i Callippidi, che sono Greco-Sciti, e più a nord un altro
popolo, i così chiamati Alizoni. Alizoni e Callippidi praticano le
stesse usanze degli Sciti, ma seminano grano, cipolle, aglio, lenticchie e
miglio, e se ne cibano. Oltre gli Alizoni vivono gli Sciti aratori, che
seminano il grano pure loro, ma non per cibarsene, bensì per venderlo;
oltre gli Sciti aratori si trovano i Neuri; a nord dei Neuri, per quanto ne
sappiamo, non ci vive uomo. 18) Queste popolazioni sono stanziate lungo il fiume Ipani a
ovest del Boristene. Attraversato il Boristene, la prima regione che si
incontra, partendo dal mare, è l'Ilea; oltre l'Ilea, nell'interno,
dimorano gli Sciti agricoltori, quelli che i Greci residenti sul fiume Ipani
chiamano Boristeniti (mentre a se stessi danno il nome di Olbiopoliti).
Questi Sciti agricoltori abitano un territorio che si estende verso est per
tre giorni di cammino fino al fiume chiamato Panticape e verso nord per
undici giorni di navigazione a risalire il Boristene. A settentrione di
questi Sciti il territorio è per ampio tratto disabitato; poi dopo il
deserto vivono gli Androfagi, una stirpe a sé, estranea al gruppo degli
Sciti. Ancora più a nord ormai è deserto pieno e, per quanto ne
sappiamo, non vi è stanziato nessun popolo. 19) Proseguendo, a est degli Sciti agricoltori, oltre il
Panticape, si è ormai nel paese degli Sciti nomadi che non arano e non
seminano un bel niente. L'intera Scizia a eccezione dell'Ilea è
spoglia di alberi. I nomadi occupano un territorio che si estende per
quattordici giorni di viaggio in direzione est fino al fiume Gerro. 20) Al di là del Gerro ci sono i territori cosiddetti
"regi": vi abitano gli Sciti più nobili e più
numerosi, che giudicano come loro schiavi gli altri Sciti; essi si spingono
verso sud fino alla regione del Tauro, verso est fino al fosso scavato a suo
tempo dai figli degli schiavi ciechi e fino al porto cosiddetto di Cremni,
sulla palude Meotide; parte di loro arrivano fino al fiume Tanai. A nord
degli Sciti reali vivono i Melancleni; oltre i Melancleni ci sono paludi e la
zona, per quanto ne sappiamo, è affatto priva di uomini. 21) Passato il Tanai, non è più Scizia: la
prima delle porzioni territoriali abitate appartiene ai Sauromati, stanziati
a partire dal recesso della palude Meotide e in direzione nord per quindici
giorni di viaggio: una regione del tutto spoglia di alberi sia coltivati sia
selvatici. Al di sopra dei Sauromati la seconda porzione di territorio
è dei Budini, che abitano una terra ricoperta interamente di alberi
d'ogni specie. 22) Oltre i Budini, verso nord, dapprima c'è un
deserto, per sette giorni di viaggio; dopo la zona desertica, piegando
alquanto verso oriente, ci sono i Tissageti, popolazione numerosa ed
etnicamente distinta; vivono di caccia. Di seguito, negli stessi territori,
sono stanziati i così chiamati Iurci, che vivono anch'essi di caccia,
nel modo seguente. Si appostano in agguato sopra gli alberi (che sono
numerosissimi in tutta la regione): ciascun cacciatore ha pronto un cavallo,
a cui ha insegnato ad acquattarsi sul ventre per dare meno nell'occhio, e un
cane; quando avvista la preda dall'alto dell'albero, le scaglia addosso una
freccia, poi balza giù sul cavallo e la insegue, mentre il cane la
bracca. Oltre gli Iurci, verso occidente, vivono altri Sciti, che si
ribellarono agli Sciti regi e vennero così a stabilirsi in questa regione.
23) Fino a questi Sciti tutta la regione fin qui descritta
è pianeggiante e fertile: più avanti si fa pietrosa e aspra.
Superata anche la zona pietrosa, un'ampia regione ai piedi di alte montagne
è abitata da uomini che, si dice, sono tutti calvi dalla nascita,
uomini e donne indistintamente, hanno il naso schiacciato e il mento largo,
parlano una lingua tutta propria ma si vestono come gli Sciti, e vivono dei
frutti degli alberi. Pontico si chiama l'albero del cui prodotto si cibano,
ha le dimensioni di una pianta di fico, più o meno, e produce un
frutto grande come una fava e che ha il nocciolo; quando è maturo lo
filtrano attraverso panni e ne cola un succo denso e scuro, che chiamano
"aschi"; se lo sorseggiano e se lo bevono mescolato col latte; di
ciò che resta del frutto spremuto fanno delle schiacciate e se le
mangiano. Animali non ne allevano molti perché non vi sono buoni pascoli.
Ognuno abita sotto una pianta: d'inverno ne avvolge le fronde in un feltro
bianco impermeabile, d'estate ne fa a meno. Nessuno commette soprusi nei loro
confronti, perché sono considerati uomini sacri, né essi si fabbricano armi
da guerra. Sono loro a dirimere le controversie che sorgono fra i popoli
confinanti e d'altra parte ogni esule che si rifugi presso di loro non
subisce torti da nessuno. Si chiamano Argippei. 24) Fino a tali uomini calvi, dunque, il paese e le genti al
di qua sono ampiamente noti; infatti alcuni Sciti si spingono fino a loro e
non è difficile ricavarne informazioni; come pure si ricavano dai Greci
del porto di Boristene e degli altri empori del Ponto. Gli Sciti che arrivano
sino agli Argippei negoziano in sette lingue per mezzo di altrettanti
interpreti. 25) Se fino a costoro il paese è conosciuto, sui
territori a nord degli uomini calvi nessuno è in grado di riferire con
esattezza. La regione è tagliata fuori da alte montagne invalicabili,
che nessuno oltrepassa. Da parte loro gli uomini calvi raccontano, ma non mi
pare credibile, che sulle montagne abitano uomini con zampe di capra, oltre i
quali vivono altri uomini che dormono per sei mesi consecutivi: ma questo
proprio non lo accetto assolutamente. A est dei calvi si sa con certezza che
vivono gli Issedoni, ma delle regioni più settentrionali, a nord tanto
dei calvi che degli Issedoni, non si sa nulla, se non quanto questi stessi
popoli raccontano. 26) Ecco dunque quanto si narra sulle usanze degli Issedoni.
Quando a un uomo muore il padre, tutti i parenti gli portano animali da
allevamento: li sacrificano, ne tagliano le carni e vi aggiungono anche,
tagliato a pezzi, il cadavere del padre dell'ospite; mescolano assieme tutte
le carni e banchettano. La testa del morto, però, la radono, la
puliscono, la indorano e poi la trattano come una immagine sacra, offrendole
annualmente grandi sacrifici. Il figlio onora il padre così, come i
Greci commemorano i defunti. Inoltre hanno anch'essi fama di essere giusti: e
le donne fra loro godono degli stessi poteri degli uomini. 27) Anche sugli Issedoni, dunque, siamo informati.
Più oltre verso nord sono gli Issedoni a parlare dell'esistenza di
uomini muniti di un solo occhio e di grifi custodi dell'oro: gli Sciti lo
riferiscono avendolo udito dagli Issedoni, e noi, che lo abbiamo appreso
dagli Sciti, chiamiamo quegli uomini, con voce scita, "Arimaspi":
in lingua scita àrima vuol dire "uno" e spu
"occhio". 28) Tutta la regione qui menzionata soffre di inverni molto
rigidi, e per otto mesi vi regna un freddo addirittura insopportabile; in tal
periodo versando a terra dell'acqua non produrrai fango: il fango lo formerai
accendendo un fuoco. Si gela il mare e tutto il Bosforo Cimmerio e sul
lastrone di ghiaccio gli Sciti residenti al di qua del fossato si mettono in
marcia e si spingono oltre con i loro carri, verso il paese dei Sindi.
L'inverno si mantiene così per otto mesi; e per i quattro mesi
restanti la temperatura è ancora fredda. È un tipo di inverno
diverso da tutti gli inverni degli altri paesi: non ci sono piogge degne di
nota nella stagione in cui ci se le aspetterebbe, mentre d'estate non smette
mai di piovere; i tuoni, assenti quando altrove si fanno sentire, sono
fittissimi in estate. Un tuono che si produca d'inverno è accolto con
stupore, come un prodigio; lo stesso se si verifica un terremoto, d'inverno
come d'estate, in Scizia è considerato un prodigio. I cavalli riescono
a sopportare un simile inverno, ma i muli non ce la fanno assolutamente, e
neppure gli asini, mentre in altri paesi i cavalli nel gelo muoiono per
assideramento e invece asini e muli resistono. 29) Secondo me è questa la ragione per cui in quel
paese la razza di buoi "senza corna" è, appunto, priva di
esse; me ne dà una prova anche un verso di Omero, dall'Odissea:
"... e la Libia, dove presto agli agnelli spuntano le corna", molto
esatto: nei paesi caldi le corna crescono rapidamente. Invece nei paesi a
clima rigido le corna o crescono poco o non spuntano affatto. 30) Ecco dunque cosa accade lassù per il freddo. Ma
io mi meraviglio proprio (e lo dico perché ormai la mia opera è andata
a cercarsele fin dall'inizio le digressioni), mi meraviglio che in tutta la
regione dell'Elide non possano nascere muli: perché il paese non è
freddo né ci sono altre cause palesi. Gli Elei, dal canto loro, affermano che
da loro non nascono muli per una maledizione. Così quando è il
momento di far accoppiare le cavalle, le portano nei paesi vicini, lì
le fanno montare dagli asini finché si ingravidano, dopodiché se le riportano
indietro. 31) Quanto alle piume di cui l'aria secondo gli Sciti
sarebbe piena e che impedirebbero sia di inoltrarsi nel paese sia di spingere
lo sguardo nell'interno, la mia opinione è la seguente: a nord di
queste regioni nevica in continuazione, un po' meno d'estate che d'inverno
ovviamente. Ora, chi ha già visto da vicino la neve cadere fitta
fitta, sa cosa voglio dire: i fiocchi di neve sono simili a piume. E poiché
l'inverno là è quello che è, le regioni settentrionali
di questo continente non sono abitabili. Credo dunque che gli Sciti e i loro
vicini descrivano la neve come piume per paragone. E questo basti sulle
regioni dette le più remote del mondo. 32) Degli Iperborei non discorrono né gli Sciti né gli altri
abitanti di questo continente, se non gli Issedoni. Ma io credo che anch'essi
non dicano niente, altrimenti ne parlerebbero pure gli Sciti, come parlano
degli uomini con un occhio solo. Si fa menzione degli Iperborei in Esiodo e
anche in Omero, negli Epigoni, ammesso che Omero abbia effettivamente
composto tale poema. 33) Le notizie di gran lunga più sostanziose sul
conto degli Iperborei le forniscono i Deli: essi affermano che offerte sacre,
avvolte in paglia di grano, provenienti dagli Iperborei arrivano nelle mani
degli Sciti e dagli Sciti via via passano di gente in gente fino a giungere
nel lontanissimo occidente, fino all'Adriatico. Da qui vengono inviate verso
sud: i primi Greci a riceverle sono quelli di Dodona, da dove poi scendono al
Golfo Maliaco per essere traghettate in Eubea; di città in
città giungono a Caristo; Andro viene saltata: i Caristi le recapitano
direttamente a Teno, e infine i Teni a Delo. Così dunque arrivano a
Delo le sacre offerte, ma in un primo tempo gli Iperborei mandarono a
portarle due ragazze, di nome, secondo i Deli, Iperoche e Laodice. Insieme
con loro, per proteggerle, gli Iperborei inviarono cinque concittadini come
accompagnatori: oggi si chiamano Perferei e a Delo godono di grandi
privilegi. Ma poiché i delegati non rientrarono in patria, gli Iperborei,
ritenendo grave la possibilità di non più rivedere le persone
di volta in volta inviate, portarono le loro offerte ai confini, le
consegnarono ai popoli limitrofi avvolte in paglia di grano, pregandoli di
farle proseguire ulteriormente. Spedite in tal modo, narrano, le offerte
giungono a Delo. Io so di un sistema di offerta molto simile in uso fra le
donne della Tracia e della Peonia: quando sacrificano ad Artemide regina, non
compiono i riti se non hanno paglia di grano. 34) Che facciano questo lo so. In onore delle vergini degli
Iperborei che andarono a Delo e vi morirono si recidono i capelli sia le
ragazze sia i ragazzi di Delo: le ragazze si tagliano un ricciolo prima delle
nozze, lo avvolgono intorno a un fuso e lo depongono sopra la tomba (la tomba
si trova all'interno del santuario di Artemide, sulla sinistra, e sopra vi è
cresciuto un olivo); tutti i ragazzi di Delo legano un loro ricciolo intorno
a un ciuffo d'erba e lo depongono anch'essi sulla tomba. 35) Tali dunque le onoranze che ricevono dagli abitanti di
Delo. Sempre i Deli raccontano che anche Arge e Opi, due vergini iperboree,
giunsero a Delo viaggiando attraverso le stesse genti su menzionate e ben
prima di Iperoche e Laodice. Ma mentre queste ultime vennero a portare a
Ilitia il tributo che gli Iperborei si erano imposto per rendere grazie del
rapido parto, Arge e Opi sarebbero venute insieme con le dee in persona; e
dicono che a esse altre onoranze furono tributate a Delo: per loro infatti le
donne raccolgono denaro invocandone i nomi nel carme composto per l'occasione
da Olene di Licia; dalle donne di Delo le isolane e le donne ioniche hanno
imparato a celebrare negli inni Opi e Arge e a fare la questua (Olene venne
dalla Licia e compose anche gli altri antichi inni che si cantano a Delo); e
quando le cosce delle vittime bruciano sull'altare, la cenere residua viene
utilizzata per essere sparsa sulla tomba di Opi e di Arge. La tomba si trova
nel retro del santuario, verso est, proprio accanto al cenacolo dei Cei.
36) E questo sia sufficiente sul conto degli Iperborei. Né
sto qui a raccontare la storia di Abari, il quale si dice fosse un Iperboreo,
che avrebbe portato la sua freccia in giro per il mondo senza mai toccare
cibo. Se esistono degli uomini iperboreali allora esistono anche gli
iperaustrali. Rido quando vedo che molti hanno disegnato la mappa della terra,
ma che nessuno ne ha dato una spiegazione ragionevole: raffigurano un Oceano
che scorre intorno alla terra, tonda come se l'avessero fatta col compasso, e
disegnano l'Asia grande come l'Europa. Ora in poche parole spiegherò
io quanto è vasto ciascun continente e quali contorni presenta.
37) Il territorio dei Persiani si estende fino al mare
meridionale, il cosiddetto Eritreo; sopra di loro verso nord sono stanziati i
Medi, oltre i Medi i Saspiri e al di là dei Saspiri i Colchi sulle
rive del mare settentrionale, dove sfocia il fiume Fasi. Questi quattro
popoli occupano la regione fra i due mari. 38) Da qui, in direzione ovest, si dipartono dall'Asia e si
inoltrano nel mare due penisole, che ora descriverò. La prima si
allunga in mare, a nord, a cominciare dal Fasi lungo il Ponto e l'Ellesponto
fino al capo Sigeo nella Troade, e a sud si protende in mare, questa stessa
penisola, dal golfo di Miriando, adiacente alla Fenicia, fino al promontorio
Triopico. In questa penisola sono stanziati trenta popoli. 39) Tale è la prima penisola; la seconda si estende
verso il mare Eritreo a partire dalla Persia, comprende in successione il
territorio persiano, l'Assiria e l'Arabia; l'Arabia termina, ma solo per
convenzione, nel Golfo Arabico, nel quale Dario fece sfociare un canale
proveniente dal Nilo. Dalla Persia alla Fenicia la regione si presenta
pianeggiante e ampia; dalla Fenicia la penisola si protende nel mare a noi
vicino lungo la Siria Palestina e l'Egitto, dove termina; tre soli popoli
vivono in questa regione. 40) Ecco dunque i territori asiatici occidentali a partire
dalla Persia; i paesi oltre la Persia, la Media, la Saspiria e la Colchide,
verso est, verso i primi raggi del sole, corrono da una parte lungo il mare
Eritreo e dall'altra, a nord, lungo il Mar Caspio e il fiume Arasse, che
scorre verso il levarsi del sole. L'Asia è abitata fino all'India: da
qui in poi, verso oriente, nessuno ci vive e nessuno sa dire come sia.
41) Tali sono la forma e l'estensione dell'Asia. La Libia
appartiene alla seconda penisola (la Libia infatti succede immediatamente
all'Egitto); all'altezza dell'Egitto tale penisola si fa ben stretta. Dal
nostro mare al mare Eritreo ci sono centomila orgie, vale a dire un migliaio
di stadi; dopo tale istmo la penisola, che ora si chiama Libia, torna ad
essere assai ampia. 42) Mi meraviglio dunque di quanti separano con tanto di
confini Libia, Asia ed Europa. Le differenze non sono da poco: in lunghezza
l'Europa si sviluppa lungo Asia e Libia insieme, in larghezza non mi pare
neppure paragonabile. La Libia in effetti si rivela essere interamente
circondata dal mare, fuorché nel tratto di confine con Asia. Per quanto ne
sappiamo il primo ad averlo dimostrato fu il re d'Egitto Neco: interrotto lo
scavo del canale che dal Nilo porta al Golfo Arabico, egli inviò dei
Fenici su delle navi con l'incarico di attraversare le Colonne d'Eracle sulla
via del ritorno, fino a giungere nel mare settentrionale e così in
Egitto. I Fenici, pertanto, partiti dal Mare Eritreo, navigavano nel mare
meridionale; ogni volta che veniva l'autunno, approdavano, in qualunque punto
della Libia fossero giunti, seminavano e aspettavano il tempo della
mietitura. Dopo aver raccolto il grano, ripartivano, cosicché al terzo anno
dopo due trascorsi in viaggio doppiarono le Colonne d'Eracle e giunsero in
Egitto. E raccontarono anche particolari attendibili per qualcun altro ma non
per me, per esempio che nel circumnavigare la Libia si erano trovati il sole
sulla destra. 43) Così si riconobbe la prima volta com'è la
Libia; poi sono i Cartaginesi a dirlo, in quanto l'Achemenide Sataspe, figlio
di Teaspe, non circumnavigò la Libia, benché fosse stato inviato con
tale compito: ebbe paura della lunghezza della navigazione e della solitudine
e tornò indietro, senza portare a termine la prova che sua madre gli
aveva imposto. Sataspe aveva violentato una ragazza, figlia di Zopiro figlio
di Megabisso; quando poi per la sua colpa stava per venire impalato per
ordine di re Serse, sua madre, sorella di Dario, intercedette per lui,
affermando che gli avrebbe imposto una punizione ancora maggiore: lo avrebbe
costretto a navigare intorno alla Libia fino a tornare, ultimato il giro, nel
Golfo Arabico. A queste condizioni Serse si dichiarò d'accordo, sicché
Sataspe venne in Egitto, prese con sé navi e marinai egiziani e salpò
alla volta delle Colonne d'Eracle; le varcò, doppiò il capo
estremo della Libia, che si chiama Solunte, e diresse la rotta verso sud,
percorrendo in molti mesi un lungo tratto di mare; ma gli restava pur sempre
il tratto maggiore, voltò la prua e se ne tornò in Egitto. Da
qui si recò presso re Serse e gli raccontò che nel punto
più lontano raggiunto avevano costeggiato un paese abitato da piccoli
uomini vestiti con foglie di palma, i quali, tutte le volte che accostavano a
riva, fuggivano verso le montagne abbandonando i loro villaggi; essi vi erano
entrati senza danneggiarli, limitandosi a catturarvi qualche animale. Per
giustificare il mancato periplo della Libia spiegò che l'imbarcazione
non era più in grado di proseguire, ma si era bloccata. Serse non
riconobbe come vere le sue parole e lo fece impalare, eseguendo l'antica
sentenza, perché non aveva comunque compiuto la prova stabilita. Un eunuco di
questo Sataspe scappò via a Samo appena apprese la morte del padrone;
si portò via grandi ricchezze che poi finirono nelle mani di un uomo
di Samo: io ne conosco il nome, ma preferisco non menzionarlo. 44) La maggior parte dell'Asia fu esplorata all'epoca di
Dario, il quale, desiderando sapere dove andasse a sfociare in mare il fiume
Indo, che è uno dei due soli fiumi al mondo popolati da coccodrilli,
inviò su navi persone di cui si fidava che gli avrebbero riferito la
verità, fra le quali Scilace di Carianda. Essi salparono dalla città
di Caspatiro e dalla terra dei Patti navigando sul fiume in direzione est,
verso il levar del sole, fino al mare; per mare poi puntarono verso occidente
e dopo ventinove mesi giunsero nella stessa regione da cui il re egiziano
aveva spedito a circumnavigare la Libia i Fenici di cui ho già detto.
Dopo il loro periplo, Dario sottomise gli Indiani e cominciò a
servirsi di questo mare. E così si è accertato che l'Asia, a
eccezione delle regioni più orientali, è per il resto simile
alla Libia. 45) L'Europa, invece, è rimasta evidentemente
sconosciuta a tutti: si ignora se a est e a nord sia circondata dal mare; si
sa però la sua lunghezza, che è pari a quella degli altri due
continenti insieme. Non riesco a comprendere perché per una terra sola ci
siano tre nomi diversi, derivati da donne, e perché le furono imposti come
confini i fiumi Nilo d'Egitto e Fasi di Colchide (altri indicano il Tanai
della Meotide e il guado dei Cimmeri); né sono riuscito a sapere chi abbia
fissato questi confini e da dove ricavò i nomi. Molti Greci affermano
che la Libia è così chiamata dal nome di una donna del luogo; a
sua volta Asia sarebbe stato il nome della moglie di Prometeo. L'appellativo
Asia per altro se lo rivendicano i Lidi sostenendo che deriva da Asio figlio
di Coti figlio di Mane, e non dall'Asia di Prometeo; da questo Asio avrebbe
preso nome anche la tribù Asia, a Sardi. Quanto all'Europa, come
nessuno sa se è circondata dal mare, così nessuno sa né da dove
abbia preso il suo nome né chi sia stato a imporglielo, a meno di sostenere
che lo ricavò da Europa di Tiro; prima dunque non avrebbe avuto nome,
come gli altri continenti. Ma Europa sicuramente era di origine asiatica e
non giunse mai nel nostro continente, quello ora detto Europa dai Greci: si
limitò a passare dalla Fenicia a Creta, e da Creta in Licia. E qui si
arresti il mio discorso: noi ci serviremo dei nomi tradizionali. 46) Il Ponto Eusino, verso cui Dario muoveva le sue truppe,
è la regione che presenta, fra tutte, le popolazioni più
ignoranti, escludendo gli Sciti: in effetti nell'ambito del Ponto non
sapremmo segnalare per sapienza nessun popolo, se non gli Sciti, né
conosciamo alcun uomo di dottrina, se non Anacarsi. La sola ottima trovata,
in campo umano, la più astuta a nostra conoscenza, è dovuta
alla stirpe degli Sciti; nient'altro suscita la mia ammirazione. La
grandissima trovata è che nessuno, se li assale, può più
sfuggire loro e nessuno è in grado di sorprenderli, se non vogliono
farsi trovare: essi non si costruiscono né mura né città e le case se
le trascinano dietro, tirano con l'arco da cavallo, non vivono di agricoltura
ma di allevamento, dimorano su carri; come potrebbero non essere invincibili,
inattaccabili? E questo l'hanno ottenuto grazie al terreno favorevole e alla
presenza di fiumi che si rivelano loro alleati; 47) la regione infatti è pianeggiante, erbosa e ricca
di acqua, attraversata da fiumi che sono poco meno numerosi dei canali
dell'Egitto. Ora menzionerò i fiumi più rinomati e navigabili dal
mare verso l'interno: l'Istro, con le sue cinque bocche, il Tira, l'Ipani, il
Boristene, il Panticape, l'Ipaciri, il Gerro e il Tanai; ed ecco come si
presenta il loro corso. 48) L'Istro, il maggiore dei fiumi che conosciamo, ha sempre
la stessa portata, d'estate come d'inverno; e scorrendo per primo da
occidente tra i fiumi della Scizia è anche il più imponente,
perché anche altri corsi d'acqua si versano in lui. Di questi fiumi, dunque,
che lo ingrossano, cinque passano attraverso la Scizia: gli Sciti li chiamano
Porata (ma i Greci Pireto), Tiaranto, Araro, Napari e Ordesso. Il primo da me
nominato, il Pireto, è grande e mescola le sue acque all'Istro verso
oriente, il secondo, il Tiaranto, più verso occidente ed è
più piccolo; l'Araro, il Napari e l'Ordesso si gettano nell'Istro
scorrendo in mezzo agli altri due. Questi fiumi lo ingrossano e sono fiumi
della Scizia, il Mari invece sfocia nell'Istro provenendo dal paese degli
Agatirsi. 49) Dalle vette dell'Emo scendono in direzione nord altri
tre affluenti dell'Istro, e cioè l'Atlante, l'Aura e il Tibisi;
attraverso la Tracia e i Traci Crobizi scorrono l'Atri, il Noe e l'Artane e
si immettono nell'Istro. Dal paese dei Peoni e dal monte Rodope il fiume Scio
si getta nell'Istro dividendo a metà il monte Emo. Dal paese degli
Illiri scende verso nord il fiume Angro che irrompe nella Pianura Triballica
e nel fiume Brongo, e il Brongo nell'Istro: così l'Istro riceve
entrambi questi due notevoli corsi d'acqua. Dalla regione a nord degli Umbri
si gettano nell'Istro procedendo anch'essi verso settentrione i fiumi Carpi e
Alpi. L'Istro in effetti attraversa tutta l'Europa a cominciare dal paese dei
Celti, che sono gli ultimi abitanti dell'Europa verso occidente prima dei
Cineti; scorrendo attraverso l'Europa, l'Istro va a finire nella pianura
della Scizia. 50) In tal modo, cioè col concorso degli affluenti
nominati e di molti altri, l'Istro diventa il più grande dei fiumi,
giacché, a confrontare le singole portate d'acqua, al Nilo spetta il primato
di volume: nel Nilo nessun fiume confluisce, nessun corso d'acqua vi sfocia e
contribuisce a ingrossarlo. L'Istro ha sempre identica portata, d'estate e
d'inverno, e la ragione a mio parere è la seguente: d'inverno è
come è, un po' maggiore di quanto comporta la sua natura; in effetti
d'inverno queste regioni sono bagnate ben poco dalla pioggia, per lo
più si coprono di neve. D'estate la neve caduta nell'inverno,
copiosissima, si scioglie e affluisce da ogni parte nell'Istro; lo ingrossa,
dunque, la neve, ma anche continue e violente piogge; perché d'estate piove.
Il sole fa evaporare verso di sé tanta più acqua d'estate che in
inverno, quanto maggiori d'estate rispetto all'inverno sono le acque che si
mescolano all'Istro. I due contrari fenomeni si compensano a vicenda, e
l'Istro appare sempre uguale a se stesso. 51) L'Istro è solo uno dei fiumi della Scizia; dopo
l'Istro c'è il Tira, proveniente dalle regioni settentrionali: ha
origine da un grande lago che segna il confine fra la Scizia e la terra dei
Neuri. Alla sua foce sorge un insediamento di Greci, i cosiddetti Tiriti.
52) L'Ipani, terzo fiume, viene dalla Scizia, da un grande
lago sulle cui rive vivono bianchi cavalli selvaggi; questo lago si chiama a
buon diritto Madre dell'Ipani. Dal lago e per cinque giorni di navigazione
l'Ipani scorre poco profondo e la sua acqua è dolce, ma da lì,
e per quattro giorni verso la foce, l'acqua si fa terribilmente amara: vi
confluisce infatti un ruscello amaro, ma così amaro che, pur essendo
piccolissimo, rovina tutto l'Ipani, che è un fiume grande come pochi.
La sorgente si trova al confine fra gli Sciti aratori e gli Alizoni. Il nome
della sorgente e della località da cui scaturisce è Esampeo in
lingua scita e le Sacre Vie in lingua greca. All'altezza degli Alizoni il Tira
e l'Ipani si accostano, oltre divergono e scorrono ampiamente distanziati.
53) Il quarto fiume è il Boristene, il maggiore fra
questi dopo l'Istro e il più utile, a nostro giudizio, non solo fra i
fiumi della Scizia, ma in assoluto, secondo solo al Nilo dell'Egitto; al Nilo
in effetti non si può paragonare alcun fiume, ma dei restanti il
Boristene è il più utile: offre al bestiame pascoli bellissimi
e assai curati, pesci particolarmente buoni in gran quantità, ha
un'acqua gradevolissima a bersi, scorre puro in mezzo a corsi d'acqua
limacciosi; sulle sue rive le messi sono splendide e dove il terreno non
è coltivato cresce un'erba foltissima. Alla sua foce si cristallizzano
spontaneamente mucchi di sale senza fine, fornisce pesci enormi privi di
lische, adatti alla conservazione sotto sale, che si chiamano
"storioni", e molte altre autentiche meraviglie ittiche. Fino al
paese di Gerro, distante quaranta giorni di navigazione, si sa che proviene
da nord, più oltre non c'è essere umano che sappia dire per che
regioni scorra: evidentemente fluisce attraverso un deserto verso il paese
degli Sciti agricoltori. Questi Sciti abitano attorno alle sue rive per un
tratto pari a dieci giorni di navigazione. Il Boristene è l'unico
fiume, col Nilo, di cui non so indicare le sorgenti; del resto nessun Greco
credo lo sappia. Il Boristene in un tratto ormai non lontano dal mare riceve
le acque dell'Ipani, che sfocia nella medesima palude. La zona compresa tra i
due fiumi, un vero cuneo di terra, è detta Promontorio di Ippolao; vi
sorge un tempio di Demetra; oltre il santuario, sull'Ipani, abitano i
Boristeniti. 54) Tali sono le notizie su questi fiumi; il quinto fiume,
poi, si chiama Panticape: proviene anch'esso da nord e da un lago; fra il
corso suo e quello del Boristene vivono gli Sciti agricoltori; sbocca
nell'Ilea, oltrepassata la quale confluisce nel Boristene. 55) Il sesto è l'Ipaciri, che ha origine da un lago e
attraversa nel mezzo gli Sciti nomadi e sfocia presso la città di
Carcinitide, chiudendo sulla sua destra l'Ilea e il cosiddetto Corso
d'Achille. 56) Settimo è il fiume Gerro, che si divide dal
Boristene proprio nel punto fino al quale si spinge la nostra conoscenza del
Boristene: la regione in cui si separa si chiama Gerro, come il fiume stesso.
Prosegue poi verso il mare segnando il confine fra la regione degli Sciti
nomadi e il paese degli Sciti regi; si immette nell'Ipaciri. 57) Ottavo è il fiume Tanai: ha origine da un lago e
va a sfociare in un lago ancora più grande, la Palude Meotide, che separa
gli Sciti regi dai Sauromati. Nel Tanai si getta un altro corso d'acqua,
l'Irgi. 58) Tali sono dunque i fiumi famosi di cui godono gli Sciti.
Per il bestiame il foraggio che cresce nella Scizia è il più
attivo a produrre bile fra tutte le erbe a nostra conoscenza; ci si
può rendere conto che è così sventrando gli animali.
59) Le risorse fondamentali gli Sciti le hanno dunque
facilmente a disposizione; per il resto ecco le loro consuetudini. Venerano
soltanto le seguenti divinità: Estia, principalmente, poi Zeus e la
Terra, che ritengono moglie di Zeus, poi Apollo, Afrodite Urania, Eracle e
Ares. Questi sono gli dèi di tutti gli Sciti; gli Sciti regi compiono
sacrifici anche in onore di Posidone. In lingua scita Estia si chiama Tabitì,
Zeus (a mio parere il nome è appropriatissimo) è detto Papeo;
Terra si dice Apì, Apollo Getosiro, Afrodite Urania Argímpasa e
Posidone Tagimasáda. Di regola non edificano né statue, né altari, né templi,
se non ad Ares: per Ares è un'usanza normale. 60) La tecnica sacrificale è identica per tutte le
cerimonie ed è la seguente: la vittima sta in piedi con le zampe
anteriori legate, il sacrificante si pone dietro la bestia e la fa cadere
dando uno strappo all'estremità della corda; mentre l'animale cade il
sacrificante invoca il dio cui il sacrificio è destinato, poi passa un
laccio intorno al collo dell'animale, vi introduce un bastone e lo gira fino
a strozzare la vittima; fuoco, offerta di primizie e libagioni non ce ne
sono. Dopo averla strozzata e scuoiata si accinge a cuocerla. 61) E poiché la Scizia è terribilmente povera di
legname ecco quale sistema di cottura hanno escogitato. Quando scuoiano la
bestia, separano la carne dalle ossa e la gettano, se ce l'hanno, in lebeti
di fabbricazione locale, molto simili ai crateri di Lesbo, ma assai
più grandi. Qui dentro la cuociono accendendovi sotto il fuoco con le
ossa delle vittime. Se non hanno un lebete a disposizione, alcuni introducono
tutte le carni nel ventre della vittima, vi aggiungono acqua e le mettono ad arrostire
sul fuoco d'ossa. Le ossa bruciano benissimo e le pance contengono
agevolmente le carni disossate; in questo modo un bue basterà a
cuocere se stesso e così ogni altro capo di bestiame. Quando le carni
sono cotte il sacrificante sceglie come primizie pezzi di carne e di
interiora e le scaglia davanti a sé. Sacrificano anche altre specie di
animali e soprattutto cavalli. 62) Agli altri dèi offrono sacrifici così e
con questi animali, ad Ares invece come segue: nei vari distretti di ciascuno
dei regni hanno un santuario di Ares fatto così: vengono accatastate
fascine di legna per tre stadi in lunghezza e altrettanti in larghezza;
l'altezza è inferiore. Sopra la catasta si costruisce un piano
quadrangolare scosceso su tre lati e accessibile dal quarto. Ogni anno vi
ammassano sopra centocinquanta carri di legna, dato che le intemperie
riducono di volta in volta il materiale. Su questo cumulo in ogni distretto
viene piantata una spada antica di ferro, a mo' di immagine di Ares, e a
questa spada offrono annuali sacrifici di bestiame e di cavalli in maggior
numero che non agli altri dèi. I nemici catturati vivi li uccidono in
ragione di uno su cento, non come fanno con gli animali, ma in un altro modo:
gli versano del vino sulla testa e li sgozzano sopra un vaso; portano poi
tale recipiente in cima alla catasta di legna e versano il sangue sulla
spada. Il sangue lo portano di sopra, sotto invece accanto al santuario
compiono un altro rito: tagliano la spalla destra e il braccio delle vittime
e li scagliano in aria, poi, quando hanno finito con le altre vittime se ne
vanno; il braccio resta lì dove cade, lontano dal cadavere. 63) Tali sono dunque i loro riti sacrificali. Maiali non ne
usano per niente, e nemmeno ne vogliono allevare nel loro paese. 64) Ecco poi come si regolano per la guerra. Quando uno
Scita ha abbattuto il primo nemico, ne beve il sangue: di tutti quelli che ha
ucciso in battaglia porta la testa al re, perché se si presenta con delle
teste partecipa alla spartizione del bottino eventualmente conquistato,
altrimenti no. Effettuano così lo scalpo: incidono la pelle tutto
intorno alla testa all'altezza delle orecchie, la afferrano e la strappano
via; poi con una costola di bue ciascuno la scarnifica e la rende morbida con
le sue mani; dopo la concia se la tiene come se fosse una pezzuola: la
appende ai finimenti del proprio cavallo e se ne vanta, perché chi possiede
più pezzuole è considerato il più valoroso. Non pochi
con questi scalpi si fanno persino dei mantelli da indossare, cucendoli
assieme come fossero casacche da pastori. Molti poi asportano la pelle della
mano destra ai cadaveri dei nemici, con tutte le unghie, e ne fanno coperchi
per le faretre. La pelle umana risultava appunto spessa e lucida, la
più lucida forse, per bianchezza, fra tutte le pelli. Molti scorticano
addirittura interi uomini, ne tendono la pelle fra dei legni e la portano in
giro a cavallo. 65) Tali sono dunque le loro consuetudini. Le teste poi, non
di tutti, ma quelle dei peggiori nemici, le trattano così: segano la
calotta cranica sotto le sopracciglia e la ripuliscono; poi, se uno è
povero si limita a rivestirla esternamente con pelle di bue non conciata e se
ne serve così come tazza, se invece è ricco, oltre alla pelle
di bue esterna, la riveste d'oro internamente. Fa così anche con i
familiari, se sia sorta una lite, chi riesca a prevalere in giudizio davanti
al re. E quando uno riceve degli ospiti un po' importanti, gli mostra queste
teste e gli spiega che si tratta di parenti che gli hanno portato guerra e
sui quali lui ha trionfato: e ne parla come di una autentica impresa
valorosa. 66) Una volta all'anno, ogni anno, ciascun governatore di
distretto nella propria provincia mescola vino e acqua in un cratere; a tale
cratere attingono tutti gli Sciti che abbiano ucciso dei nemici. Gli Sciti
che non l'abbiano fatto non possono assaggiare questo vino e stanno seduti in
disparte disprezzati: il che per loro è un'orrenda vergogna; gli
Sciti, poi, che hanno ucciso parecchi nemici bevono contemporaneamente con due
coppe. 67) Fra gli Sciti ci sono molti indovini che si servono per
i loro vaticini di numerose verghe di salice: portano dei grossi fasci di
verghe e li appoggiano per terra, li sciolgono e posando le verghe una per
una profetizzano; sempre profetizzando raccolgono ancora i fuscelli e di
nuovo li posano uno per uno. Questa è l'arte divinatoria ricevuta dai
loro padri; gli Enarei invece, gli androgini, fanno risalire agli
insegnamenti di Afrodite la loro tecnica di divinazione, che si fa con la
corteccia di tiglio: tagliano in tre striscioline la corteccia del tiglio,
poi pronunciano l'oracolo intrecciandole e slegandole dalle dita. 68) Quando il re degli Sciti si ammala, manda a chiamare i
tre indovini più rinomati, i quali danno il loro responso nel modo
suddetto; per lo più essi affermano che il tale o il tal altro (e
indicano le persone a cui si riferiscono) ha spergiurato in nome del focolare
reale. In effetti è consuetudine degli Sciti, quando vogliono fare il
giuramento più solenne, giurare sul focolare reale. Subito l'individuo
dichiarato spergiuro viene catturato e condotto dagli indovini; quando
è davanti a loro lo accusano: dalla divinazione, affermano, risulta
che lui ha spergiurato sul focolare reale e che per questa regione il re
è malato. Quello nega, sostenendo di non aver spergiurato e protesta.
Visto che nega, il re manda a chiamare altri indovini, in numero doppio; se
anche questi osservando il rituale divinatorio lo riconoscono colpevole di
spergiuro, immediatamente gli si taglia la testa: e i suoi beni se li
spartiscono a sorte i primi indovini; se invece gli indovini sopraggiunti lo
scagionano dall'accusa, si chiamano altri indovini e poi altri ancora; se la
maggior parte di loro è per l'innocenza, tocca ai primi indovini di
essere mandati a morte. 69) E li uccidono così: caricano di fascine un carro
e vi aggiogano dei buoi, incatenano gli indovini per i piedi e gli legano le
mani dietro la schiena, li imbavagliano e li costringono in mezzo alla legna;
appiccano fuoco ai sarmenti e lasciano andare i buoi, dopo averli così
terrorizzati. Molti buoi finiscono carbonizzati insieme con gli indovini,
molti, anche mezzo bruciacchiati, riescono a scampare quando il timone del
carro sia stato ridotto in cenere dalle fiamme. Anche per altre colpe
spediscono al rogo gli indovini nel modo suddetto, e li chiamano
pseudoindovini. Se è il re a mandarli a morte non ne risparmia nemmeno
i figli: i maschi li uccide tutti, alle femmine invece non torce un capello.
70) Ecco come si comportano gli Sciti quando giurano:
versano del vino in una grande coppa di terracotta e vi aggiungono un po' di
sangue delle persone che stringono il patto; a tale scopo si colpiscono con
una lesina o si praticano col coltello una piccola incisione superficiale;
poi immergono nella coppa una spada, delle frecce, un'ascia e un giavellotto.
Fatto ciò, pronunciano molte preghiere rituali e vuotano, bevendo, la
coppa, sia quelli che stringono il patto sia i più autorevoli del loro
seguito. 71) Le tombe dei re si trovano fra i Gerri, nel punto
estremo fino a cui il Boristene è navigabile. Là, quando gli
muore il re, scavano una enorme fossa di forma quadrata; dopo che la fossa
è pronta, prendono il corpo del re (tutto cosparso di cera, col ventre
che è stato aperto e ripulito, riempito di cipero in polvere, di
aromi, di semi d'apio e di aneto e poi di nuovo ricucito) e su di un carro lo
trasportano presso un altro popolo. Quelli che ricevono il cadavere
trasportato si comportano esattamente come gli Sciti regi: si recidono un
pezzo di orecchio, si radono i capelli tutto intorno alla testa, si
tagliuzzano le braccia, si graffiano la fronte e il naso, si trafiggono con
frecce la mano sinistra. Di là portano sul carro il cadavere del re
presso un altro popolo a loro sottomesso; li seguono gli abitanti della prima
regione in cui erano giunti. Quando hanno fatto il giro di tutti i popoli,
portando il cadavere, si trovano fra i Gerri, gli ultimi fra i popoli loro
soggetti, nel luogo delle sepolture. Depongono il morto nella camera sepolcrale
sopra un pagliericcio e piantano lance ai due lati del cadavere; sopra le
lance appoggiano dei legni, poi ricoprono con stuoie l'impalcatura
così ottenuta; nell'ampio spazio libero della camera seppelliscono una
delle concubine del re dopo averla strangolata, nonché un coppiere, un cuoco,
uno scudiero, un servo, un messaggero, e cavalli, una scelta di tutti gli
altri beni e coppe d'oro; d'argento niente e neppure di bronzo. Dopodiché
tutti si affannano a innalzare un grande tumulo, impegnandosi al massimo, in
gara, per farlo il più alto possibile. 72) Ed ecco ancora cosa fanno quando è trascorso un
anno: prendono i più adatti di tutti i servi rimasti (che sono Sciti
di nascita, perché servi divengono solo gli Sciti a cui il re lo ordina; non
ci sono da loro servi comperati) e ne strangolano una cinquantina; ammazzano
anche cinquanta cavalli di gran pregio: ne svuotano il ventre, lo purificano,
lo riempiono di paglia e lo ricuciono. Fissano poi su due paletti una mezza
ruota rovesciata, l'altra mezza ruota su altri due paletti e ne piantano in
terra tanti così in tale modo; poi infilano grossi pali dentro i
cavalli nel senso della lunghezza fino alla gola e li appoggiano sulle ruote.
Le prime mezze ruote sostengono le spalle dei cavalli le mezze ruote
posteriori reggono le pance all'altezza delle cosce; le zampe restano
penzolanti da entrambe le parti. Mettono morsi e redini ai cavalli, tendono
le redini in avanti e le legano a dei pioli. Su ciascun cavallo issano
ciascuno dei cinquanta giovani strangolati: li issano così dopo
avergli infilato lungo la colonna vertebrale, fino alla gola, un bastone la
cui parte inferiore conficcano in un foro praticato nell'altro palo, quello
che attraversa il cavallo. Sistemano questi cavalieri tutto intorno alla tomba
del re e poi si allontanano. 73) Ecco dunque come seppelliscono i re; quando muoiono gli
altri Sciti, i loro parenti più stretti li trasportano, stesi su
carri, in giro dagli amici: ciascuno degli amici, accogliendo il corteo,
allestisce un banchetto per gli accompagnatori e imbandisce anche per il
morto parte di tutto ciò che offre agli altri. I semplici cittadini
vengono trasportati così per quaranta giorni, poi li si seppellisce.
Dopo i funerali gli Sciti si purificano come segue: si ungono la testa e poi
se la insaponano e la lavano; per il resto del corpo procedono in questo
modo: fissano a terra tre bastoni in piedi uno contro l'altro, vi stendono
sopra coperte di lana, le serrano il più stretto possibile, poi in un
catino piazzato in mezzo alle pertiche e sotto le coperte gettano pietre
arroventate dal fuoco. 74) Nel loro paese cresce la canapa, pianta molto simile al
lino, ma più grossa e più alta; caratteristiche che la rendono assai
superiore. Cresce spontanea o coltivata e da essa i Traci ricavano anche dei
tessuti molto simili a quelli di lino: e se uno non è molto esperto
non riesce a distinguere se sono di lino o di canapa; chi non ha mai visto la
canapa, poi, crederà senz'altro che il vestito sia di lino. 75) Dunque gli Sciti prendono i semi di canapa, si infilano
sotto la tenda fatta di coperte e li gettano sulle pietre roventi; i semi
gettati bruciano producendo un fumo che nessun bagno a vapore greco potrebbe
superare. Gli Sciti urlano di gioia per il fumo che sostituisce per loro il
bagno; in effetti non si lavano il corpo con acqua. Le loro donne per esempio
pestano legno di cipresso, di cedro e pezzetti di incenso su una pietra
scabra, vi versano su acqua, poi si spalmano l'intruglio, una sostanza
grassa, sul corpo e sul viso: e non solo gli resta addosso il profumo
dell'impasto, ma quando se lo tolgono, il giorno dopo, hanno la pelle pura e
luminosa. 76) Anche gli Sciti evitano assolutamente di adottare usanze
straniere, di qualunque altro popolo e in modo particolare dei Greci; prova
ne furono le vicende di Anacarsi e dopo di lui, ancora, di Scile. Anacarsi,
dopo aver visitato gran parte del mondo dando prova ovunque della sua
saggezza, stava rientrando in patria e, navigando attraverso l'Ellesponto,
approdò a Cizico; a Cizico trovò gli abitanti intenti a
celebrare con straordinaria magnificenza una festa in onore della Madre degli
dèi; Anacarsi promise solennemente alla dea, se tornava a casa sano e
salvo, di offrirle sacrifici come li aveva visti fare dai Ciziceni e di
istituire una notte di veglia. Quando arrivò in Scizia, si
inoltrò nella cosiddetta Ilea (una regione situata presso il Corso
d'Achille, interamente ricoperta di alberi di ogni specie) e vi compì
tutto il rituale festivo della dea, con tanto di timpano e sacre immagini
appese al collo. E uno Scita che lo aveva osservato mentre eseguiva tale
rituale andò a riferirlo al re Saulio; il re accorse di persona e,
appena vide Anacarsi e cosa faceva, lo uccise subito con una freccia. E oggi
se uno pone domande su Anacarsi, gli Sciti negano di conoscerlo, solo perché
se ne andò in Grecia, fuori del suo paese, e adottò usanze
straniere. Come ho appreso da Timne, uomo di fiducia di Ariapite, Anacarsi
era zio paterno del re scita Idantirsi e figlio di Gnuro figlio di Lico a sua
volta figlio di Spargapite. Se dunque Anacarsi apparteneva a questa famiglia,
sappia di essere morto per mano del fratello: Idantirsi infatti era figlio di
Saulio e fu Saulio a uccidere Anacarsi. 77) Per la verità io ho udito anche un'altra
versione, raccontata dai Peloponnesiaci, secondo la quale Anacarsi, inviato
dal re degli Sciti, divenne "discepolo" della Grecia; al suo
ritorno avrebbe spiegato a chi lo aveva mandato in Grecia che tutti i Greci
erano impegnatissimi a studiare ogni tipo di scienza, a eccezione degli
Spartani, i quali peraltro erano gli unici con cui si potesse scambiare un
discorso intelligente. Ma questo racconto è stato inventato di sana
pianta dai Greci stessi, e Anacarsi realmente fu ucciso come poco sopra
è stato detto. 78) Anacarsi insomma trovò la fine che trovò
per aver accettato usanze straniere e fraternizzato con i Greci. Molti anni
più tardi Scile figlio di Ariapite subì una sorte del tutto analoga.
Scile era uno dei tanti figli del re scita Ariapite: era nato non da una
donna del posto, bensì da una Istriana, che gli insegnò
personalmente il greco, a parlarlo, a leggerlo e a scriverlo. Molto tempo
più tardi Ariapite morì in un agguato tesogli da Spargapite, re
degli Agatirsi, e Scile ereditò il regno e la moglie di suo padre, che
si chiamava Opea; Opea era una cittadina scita che ad Ariapite aveva dato un
figlio, Orico. Regnando sugli Sciti Scile non si adattava affatto al sistema
di vita degli Sciti, ma inclinava assai più volentieri alle abitudini
elleniche a causa dell'educazione ricevuta, ed ecco come si comportava.
Quando conduceva l'esercito scita verso la città dei Boristeniti
(questi Boristeniti si autodichiarano coloni di Mileto), appena giunto nel
loro territorio, Scile abbandonava i soldati nei dintorni della città;
lui entrava oltre le mura e ne faceva chiudere le porte, smetteva la veste
scita e indossava un costume greco: così vestito si intratteneva nella
piazza del mercato senza scorta di dorifori o di alcun altro (le guardie
vegliavano alle porte che nessuno Scita lo vedesse abbigliato da Greco). In
tutto e per tutto si comportava come un vero Greco e offriva anche sacrifici
agli dèi secondo il rituale ellenico. Passato un mese, o anche
più, si rivestiva da Scita e se ne andava. Agiva così spesso: a
Boristene si costruì un palazzo e vi installò una donna del
luogo, che aveva sposato. 79) Ma era destino che le cose gli andassero male, ed ecco
quale ne fu il motivo scatenante. Scile desiderò ardentemente essere
iniziato ai misteri di Dioniso Bacco: ma quando stava già per ricevere
l'iniziazione, si verificò un prodigio eccezionale. Nella città
dei Boristeniti possedeva una vasta, lussuosa dimora, come ho ricordato poco
fa, intorno alla quale erano installate sfingi e grifoni di marmo bianco. Su
questo palazzo il dio scagliò un fulmine. Il palazzo andò
completamente distrutto dalle fiamme, ma nondimeno Scile portò a
termine l'iniziazione. Gli Sciti biasimano assai i Greci per i loro riti
bacchici: secondo loro non è normale inventare un dio che porta gli
uomini alla pazzia. Quando Scile fu iniziato a Bacco, uno dei Boristeniti si
premurò di andare dagli Sciti a dire: "Voi ci prendete in giro,
Sciti, per i nostri baccanali e perché il dio si impossessa di noi; ora
questo demone si è impossessato anche del vostro re, che adesso
baccheggia e folleggia per opera del dio. Se non mi credete, venite con me e
ve lo mostrerò". Lo seguirono i maggiorenti Sciti: il Boristenita
li guidò e di nascosto li fece salire su di una torre. Passò
nei pressi Scile nel tiaso e gli Sciti lo videro, invasato da Bacco: la
considerarono una sciagura terribile e tornarono a riferire alle truppe
quanto avevano visto. 80) Quando poi Scile fece ritorno nelle proprie sedi, gli
Sciti s'erano già scelti come capo Octamasade, fratello suo, nato
dalla figlia di Tereo, e gli si ribellarono. Scile, appena ebbe inteso cosa
si tramava contro di lui e per quale ragione, se ne fuggì in Tracia.
Octamasade lo venne a sapere e marciò in armi contro la Tracia. Sul
fiume Istro si trovò di fronte i Traci, e già stavano per
scontrarsi, quando Sitalce mandò a dire a Octamasade quanto segue:
"Che ragione abbiamo per misurarci l'uno con l'altro? Tu sei figlio di
mia sorella e hai nelle tue mani mio fratello. Tu restituiscimi mio fratello
e io ti consegnerò il tuo Scile. Non mettiamo a repentaglio i nostri
eserciti". Questo gli diceva Sitalce per mezzo di un araldo; in effetti
presso Octamasade si trovava un fratello di Sitalce, come rifugiato.
Octamasade approvò la proposta: consegnò il proprio zio materno
a Sitalce e si prese il fratello Scile. Sitalce, quando ricevette il
fratello, se lo portò via, Octamasade invece a Scile fece tagliare la
testa lì sul posto. Tanto dunque rispettano gli Sciti le proprie
costumanze e tanto puniscono quelli che adottano usanze straniere. 81) Quanto al numero degli Sciti non sono stato in grado di
ottenere informazioni sicure, ho udito anzi versioni assai differenti: e in
effetti li dicevano troppi o troppo pochi, per un popolo come gli Sciti. Ma
ecco quanto ho constatato di persona. Tra i fiumi Boristene e Ipani
c'è una regione, che si chiama Esampeo e ho menzionato anche un po'
fa, dicendo che vi zampilla una sorgente amara, la cui acqua affluendo nell'Ipani
lo rende imbevibile. In questa regione c'è un vaso di bronzo sei volte
più grande del cratere dedicato agli dèi da Pausania figlio di
Cleombroto all'imboccatura del Ponto. Per chi non lo avesse mai visto
fornisco le seguenti indicazioni: il vaso degli Sciti contiene facilmente
seicento anfore e il suo spessore è di sei dita. La gente del luogo mi
diceva che tale recipiente fu fabbricato con punte di frecce; un loro re, che
si chiamava Arianta, volendo conoscere il numero degli Sciti, ordinò a
tutti di portare ciascuno una punta di freccia; per chi non l'avesse fatto
minacciava la morte. Fu portato dunque un enorme quantitativo di punte di
freccia e il re decise di ricavarne un monumento per i posteri: con le frecce
venne fabbricato il vaso di bronzo e lo si consacrò nell'Esampeo.
Questo è quanto ho udito raccontare circa il numero degli Sciti. 82) Il paese in sé non presenta particolari meraviglie, se
si escludono i fiumi, che sono davvero molto grandi e numerosi. Ma escludendo
i fiumi e la vastità della pianura la cosa più degna di
meraviglia è la seguente: impressa su di una roccia ti mostrano l'orma
di Eracle, che è in tutto e per tutto simile alla pianta di un piede
umano, ma è lunga due cubiti e si trova presso il fiume Tira. Questo
è tutto e ora tornerò al racconto che avevo cominciato a
esporre. 83) Mentre Dario si preparava a combattere contro gli Sciti
e inviava vari messaggeri per impartire gli ordini qui di procurare fanteria,
là navi, e là di aggiogare le rive del Bosforo Tracico, Artabano,
figlio di Istaspe e fratello di Dario, lo pregava di non guidare
assolutamente una spedizione contro gli Sciti, dei quali sottolineava
l'inafferrabilità. Ma poiché nonostante gli ottimi consigli non
riusciva a convincerlo, rinunciò, e Dario, ultimati i preparativi,
mosse il suo esercito da Susa. 84) A quel punto un Persiano, Eobazo, che aveva tre figli e
tutti e tre in procinto di partire per la spedizione, pregò Dario di
lasciargliene uno in patria. E Dario gli rispose, come si risponde a un amico
che avanza una richiesta moderata, che glieli avrebbe lasciati tutti. Eobazo
era molto contento, pensando che i figli venissero dispensati dagli obblighi
militari, ma Dario ordinò agli addetti a simili incombenze di uccidere
tutti i figli di Eobazo. Ed essi furono lasciati dove si trovavano, sgozzati.
85) Dario, partito da Susa, giunse nella Calcedonia, sul
Bosforo, dove a mo' di giogo era stato gettato il ponte; da lì,
imbarcatosi sulle navi, raggiunse le cosiddette rocce Cianee, che a sentire i
Greci un tempo erano erranti; qui si sedette su di un promontorio a
contemplare il Ponto, un panorama degno davvero di essere ammirato. In
effetti il Ponto è il più stupendo di tutti i mari esistenti,
lungo undicimila e cento stadi, e largo, nel punto di maggiore ampiezza,
tremilatrecento. L'imboccatura di questo mare è larga quattro stadi;
120 invece è lungo lo stretto formato dall'imboccatura, chiamato
Bosforo, sul quale fu gettato il ponte. Il Bosforo si protende nella
Propontide; la Propontide, larga 500 stadi e lunga 1400, immette
nell'Ellesponto, largo solamente sette stadi e lungo 400. L'Ellesponto si
apre su di un'ampia distesa marina, il Mare Egeo. 86) Le misure sono state calcolate così: una nave in
una intera giornata di navigazione può percorrere al massimo 70.000
orgie, e altre 60.000 di notte. Ebbene dal Bosforo al fiume Fasi (cioè
fra i punti estremi del Ponto nel senso della lunghezza) ci sono nove giorni
e otto notti di navigazione: vale a dire 1.110.000 orgie, che fanno 11.100
stadi. Dal paese dei Sindi fino alla Temiscira sul fiume Termodonte
(cioè nel punto di maggiore larghezza del Ponto) ci sono tre giorni e
due notti di navigazione, vale a dire 330.000 orgie che fanno 3.300 stadi.
Ecco dunque le misure del Ponto, del Bosforo e dell'Ellesponto, calcolate da
me come ho detto; vi è poi un lago comunicante con il Ponto, di
dimensioni non molto inferiori, che si chiama Meotide e che dà origine
al Ponto. 87) Dario, dopo aver contemplato tale mare, tornò
indietro fino al ponte, che era stato progettato da Mandrocle di Samo. Dopo
aver contemplato anche il Bosforo, eresse colà due colonne di marmo
bianco, con inciso, nell'una in caratteri assiri nell'altra in caratteri
greci, l'elenco di tutte le popolazioni da lui guidate fino lì; e
guidava tutte le genti su cui comandava: senza contare la flotta, aveva con
sé 700.000 uomini, cavalieri compresi, e le navi radunate erano 600. Queste
due colonne, in seguito, se le portarono in città gli abitanti di
Bisanzio e le utilizzarono nella costruzione dell'altare di Artemide Ortosia,
a eccezione di un blocco soltanto, che fu abbandonato presso il tempio di
Dioniso a Bisanzio: è tutto ricoperto da un'iscrizione in caratteri
assiri. Il punto esatto del Bosforo in cui re Dario gettò il ponte,
per quanto posso congetturare, si trova a metà strada fra Bisanzio e
il santuario posto all'imboccatura dello stretto. 88) Dario poi, soddisfatto del ponte di barche, donò
al suo progettista, Mandrocle di Samo, dieci regali di ogni genere. Grazie a
essi Mandrocle, come primizia da offrire agli dèi, commissionò
un quadro raffigurante tutto il lavoro impiegato per la costruzione del ponte
sul Bosforo, con Dario seduto in prima fila e l'esercito nell'atto di
attraversarlo, e dopo averlo fatto dipingere lo dedicò nel tempio di Era,
accompagnato da questa iscrizione:....”Poi che sui flutti pescosi del
Bosforo un ponte costrusse, Volle Mandrocle alla Diva questo ricordo
offerire. Ei s’acquistò una corona per sè, per i Sami la
gloria, Del suo re Dario il comando con precisione eseguendo”....( Dopo
aver unito il Bosforo pescoso, Mandrocle dedicò a Era questo ricordo
del ponte. Sul proprio capo ha posto una corona, e gloria ai cittadini di
Samo realizzando la volontà del re Dario). 89) Questo fu il ricordo lasciato dal costruttore del ponte.
Ricompensato Mandrocle, Dario passò in Europa; aveva ordinato agli
Ioni di navigare sul Ponto fino al fiume Istro, una volta sull'Istro di
aspettarlo lì e intanto di unire con un ponte le due rive del fiume.
In effetti la flotta la guidavano Ioni, Eoli e abitanti dell'Ellesponto. Le
navi, superate le rocce Cianee, navigarono dritte verso l'Istro; risalirono
il fiume per due giorni di navigazione fino allo stretto a partire dal quale
si divide in varie bocche e lì prepararono il passaggio. Dario, attraversato
il Bosforo sul ponte di barche, si inoltrò nella Tracia, poi, giunto
alle sorgenti del fiume Tearo, vi si accampò per tre giorni. 90) Le popolazioni che abitano sulle sue rive sostengono che
il Tearo, ricco di virtù curative, sia ottimo in particolare per
guarire uomini e cavalli dalla scabbia. Le sue sorgenti sono ben 38, tutte
zampillanti dalla medesima roccia; e alcune sono fredde altre calde. Per
raggiungerle la strada è ugualmente lunga sia che si parta dalla
città di Ereo presso Perinto sia da Apollonia sul Ponto Eusino: due
giorni di viaggio. Il fiume Tearo confluisce nel Contadesdo, il Contadesdo
nell'Agriane e l'Agriane nell'Ebro, il quale sfocia in mare presso la
città di Eno. 91) Insomma, giunto sul Tearo e posto l'accampamento, Dario,
soddisfatto del fiume, eresse anche lì una colonna, su cui aveva
comandato di incidere la seguente iscrizione: "Le sorgenti del fiume
Tearo forniscono l'acqua migliore e più bella di tutti i fiumi; e a
esse, guidando un esercito contro gli Sciti, giunse il migliore e il
più bello di tutti gli uomini, Dario di Istaspe, re di Persia e
dell'intero continente". Queste le parole fatte incidere lì.
92) Lasciato il Tearo, Dario arrivò a un altro fiume,
che si chiama Artesco e scorre attraverso il paese degli Odrisi. Ecco cosa
fece quando giunse a questo fiume. Indicò un determinato luogo al suo
esercito e dispose che ogni soldato, passandogli vicino, gettasse una pietra
nel punto indicato. L'esercito eseguì l'ordine, sicché, quando Dario
guidò oltre le sue truppe, sul posto lasciò giganteschi mucchi
di pietre. 93) Prima di toccare l'Istro sconfisse come primo popolo i
Geti, che si ritengono immortali. Infatti i Traci che vivono sul promontorio
Salmidesso sopra le città di Apollonia e Mesambria, i cosiddetti
Scirmiadi e Nipsei, si erano arresi a Dario senza combattere. I Geti invece
optarono per la follia e furono subito ridotti in schiavitù, benché
fossero i più valorosi e i più giusti fra i Traci. 94) Essi si ritengono immortali in questo senso: sono convinti
che lo scomparso non muoia propriamente, bensì raggiunga il dio
Salmossi. Altri Geti questo stesso dio lo chiamano Gebeleizi. Ogni quattro
anni mandano uno di loro, tratto a sorte, a portare un messaggio a Salmossi,
secondo le necessità del momento. E lo mandano così: tre Geti
hanno l'incarico di tenere tre giavellotti, altri afferrano per le mani e per
i piedi il messaggero designato, lo fanno roteare a mezz'aria e lo scagliano
sulle lance. Se muore trafitto, ritengono che il dio sia propizio; se non
muore, accusano il messaggero, sostenendo che è un uomo malvagio, e
quindi ne inviano un altro; l'incarico glielo affidano mentre è ancora
vivo. Questi stessi Traci di fronte a un tuono o a un fulmine, scagliano in
cielo una freccia pronunciando minacce contro Salmossi, perché credono che
non esista altro dio se non il loro. 95) Come ho appreso dai Greci residenti sul Ponto e
sull'Ellesponto, questo Salmossi era un uomo che sarebbe stato schiavo a
Samo, schiavo di Pitagora figlio di Mnesarco. Poi, divenuto libero, si
sarebbe assai arricchito e avrebbe fatto ritorno, da ricco, nel proprio
paese. Poiché i Traci conducevano una vita grama e stupida, Salmossi, che
conosceva il sistema di vita degli Ioni e abitudini più progredite di
quelle tracie (avrebbe frequentato i Greci, e fra i Greci Pitagora, che non
era certo il savio più scadente), fece costruire un salone, in cui
ospitava i cittadini più ragguardevoli; fra un banchetto e l'altro
insegnava che né lui né i suoi convitati né i loro discendenti sarebbero
morti, ma avrebbero raggiunto un luogo dove sarebbero rimasti per sempre a
godere di ogni bene. Mentre così operava e diceva, si costruiva una
stanza sotterranea. E quando la stanza fu ultimata, Salmossi scomparve alla
vista dei Traci: scese nella dimora sotterranea e vi abitò per tre
anni. I suoi ospiti ne sentivano la mancanza e lo piangevano per morto; ma
egli dopo tre anni si mostrò ai Traci e in tal modo i suoi
insegnamenti risultarono credibili. 96) Questo si racconta che abbia fatto Salmossi. Io questa
storia della camera sotterranea non la rifiuto, ma neppure ci credo troppo;
penso comunque che questo Salmossi sia vissuto molti anni prima di Pitagora.
Se sia stato un uomo e se ora sia un dio locale per i Geti, chiudiamo qui la
questione. 97) I Geti insomma, con tutte le loro convinzioni, furono
sconfitti dai Persiani e subito si aggregarono al resto della truppa. Come
Dario giunse all'Istro, e con lui l'esercito di terra, e quando tutti lo
ebbero attraversato, Dario ordinò agli Ioni di smontare il ponte di
barche e di seguirlo sulla terra ferma con tutti gli uomini della flotta.
Quando già gli Ioni stavano per obbedire e smontare il ponte, Coe
figlio di Erxandro, stratego dei Mitilenesi, chiese a Dario se gli faceva
piacere ascoltare un parere da parte di chi volesse esporlo e gli disse:
"Ora tu ti appresti a marciare attraverso un paese in cui non si
vedrà terreno coltivato o città abitata; lascia dunque in piedi
questo ponte e lascia a presidiarlo quelli che l'hanno costruito. Se troviamo
gli Sciti e le cose vanno nel modo voluto, avremo una via di ritorno, se
invece non riusciamo a trovarli, avremo per lo meno una via di ritorno
sicura: io non temo affatto che noi saremo sconfitti in battaglia, ma ho
paura piuttosto, se non riusciamo a trovarli, di dover patire assai vagando
senza costrutto. Qualcuno potrebbe obiettare che ti parlo nel mio interesse,
per restare qui; ma io voglio semplicemente esporre in pubblico la proposta
più vantaggiosa per te che ho saputo trovare; quanto a me ti
seguirò e davvero non vorrei essere lasciato qui". Dario fu assai
contento di questo suggerimento e così rispose a Coe: "Straniero
di Lesbo, quando sarò tornato sano e salvo nel mio palazzo, presentati
da me, assolutamente, perché io possa ricambiare il tuo eccellente consiglio
in modo eccellente e concreto". 98) Detto ciò, fece 60 nodi a una striscia di cuoio,
convocò a rapporto i tiranni degli Ioni e disse loro: "Ioni, gli
ordini relativi al ponte che vi avevo impartito vanno modificati; prendete
questa cinghia e regolatevi come vi dico: a partire dal momento in cui mi
vedete avanzare contro gli Sciti, a partire esattamente da quel momento,
sciogliete un nodo ogni giorno che passa; se in questo arco di tempo io non
sono di nuovo qui e i giorni superano il numero dei nodi, salpate e tornate
nel vostro paese. Ma fino ad allora, dato che ho cambiato idea, sorvegliate
il ponte di barche, mettete tutto il vostro impegno nel conservarlo e
custodirlo. Così facendo mi renderete un servigio assai gradito".
Così parlò Dario; poi si mise in marcia. 99) La Tracia si estende sul mare come propaggine della
Scizia: oltre il golfo formato dalla Tracia ci si trova subito in Scizia; vi
sbocca il fiume Istro dopo aver piegato il suo corso in direzione del vento
di Euro. Passo ora a descrivere, partendo dall'Istro, la regione costiera,
per dare indicazioni sulle dimensioni della Scizia. Oltre l'Istro si è
già nella Scizia antica, volta verso il sud e il vento Noto fino alla
città detta Carcinitide. Il territorio contiguo si affaccia sullo
stesso mare ed è montuoso fino al Ponto: lo abitano i Tauri, fino al
Chersoneso cosiddetto "roccioso", che si estende verso il mare in
direzione del vento di levante. E infatti sono due i tratti di confine
scitico che corrono lungo il mare, a sud e a est, proprio come avviene in
Attica; e in un certo senso si potrebbe dire che i Tauri vivono nella Scizia
come nell'Attica un eventuale popolo distinto dagli Ateniesi che abitasse il
Capo Sunio nel suo tratto più proteso sul mare, dal demo di Torico a quello
di Anaflisto; il paragone vale, naturalmente, con le debite proporzioni. Tale
è il territorio dei Tauri. Per chi non abbia mai navigato lungo tali
coste dell'Attica, mi spiegherò con un altro esempio: sarebbe come se
un popolo distinto dagli Iapigi tagliasse fuori una parte della Iapigia,
partendo da Brindisi fino a Taranto, e abitasse il promontorio. Ho fatto due
esempi, ma potrei citare molti altri territori cui la Tauride somiglia. 100) Al di là della Tauride, vivono gli Sciti, al di
sopra dei Tauri e lungo il mare orientale, come pure a ovest del Bosforo
Cimmerio e della Palude Meotide sino al fiume Tanai, che sfocia in una
insenatura di questo lago. A partire poi dall'Istro la Scizia superiore,
verso l'interno, è delimitata prima dagli Agatirsi, poi dai Neuri,
dagli Androfagi e infine dai Melancleni. 101) Insomma la Scizia ha la forma di un quadrato, con due
lati prospicienti il mare, sicché le sue dimensioni sono uguali, tanto nell'interno
quanto lungo la costa: dall'Istro al Boristene dieci giorni di viaggio, dal
Boristene alla Palude Meotide altri dieci; e venti giorni dal mare verso
l'interno fino al paese dei Melancleni, che abitano sopra gli Sciti. Una
giornata di viaggio la calcolo di circa duecento stadi: in tal modo i lati
trasversali della Scizia dovrebbero misurare 4000 stadi e altrettanti anche i
lati perpendicolari alla costa verso l'interno. Tale è dunque
l'ampiezza di questo paese. 102) Gli Sciti, rendendosi conto che da soli non potevano
respingere in campo aperto l'esercito di Dario, inviarono messaggeri alle
popolazioni confinanti, i cui re, a loro volta riunitisi, discutevano sul da
farsi, vista l'entità dell'esercito invasore: erano convenuti i re dei
Tauri, degli Agatirsi, dei Neuri, degli Androfagi, dei Melancleni, dei
Geloni, dei Budini e dei Sauromati. 103) Fra queste popolazioni i Tauri hanno le seguenti
abitudini: sacrificano alla vergine i naufraghi e i Greci catturati anche al
largo; fanno così: cominciato il rito di consacrazione, colpiscono la
vittima sulla testa con un bastone. Secondo alcuni gettano poi il corpo della
vittima giù da una rupe (in effetti il santuario sorge su di una rupe)
e ne piantano la testa su di un palo. Altri concordano sul trattamento
riservato alla testa, ma sostengono che il corpo non viene scagliato
giù dalla rupe bensì seppellito nella terra. Sono i Tauri
stessi ad affermare che la divinità a cui offrono questi sacrifici
è Ifigenia, la figlia di Agamennone. Ecco come si comportano con i
nemici presi prigionieri: gli tagliano la testa e se la portano ciascuno a
casa propria, poi la piantano su di un lungo bastone e la sistemano sul tetto
della casa, bene in vista, per lo più sopra il comignolo; tali trofei,
dicono, vengono innalzati come custodi di tutta la casa. I Tauri vivono di
saccheggio e di guerra. 104) Gli Agatirsi amano molto il lusso e spesso portano
ornamenti d'oro; con le donne si uniscono comunitariamente per essere tutti
fratelli tra loro e per impedire l'esistenza di invidie e odi reciproci,
essendo tutti parenti. Per gli altri costumi si avvicinano ai
Traci.
105) I Neuri possiedono usi sciti. Una generazione prima
della spedizione di Dario dovettero abbandonare l'intera regione a causa dei
serpenti. In effetti la loro terra era già ben ricca di serpenti, ma
ancora di più ne scesero dal nord, dalle zone desertiche; finché i
Neuri, duramente infastiditi, andarono ad abitare con i Budini lasciando il
loro paese. Non è escluso che questi uomini siano degli stregoni: in
effetti gli Sciti e i Greci residenti in Scizia raccontano che una volta
all'anno ciascuno dei Neuri si trasforma in lupo per pochi giorni, poi di
nuovo riprende il proprio aspetto. Di questa storia non riescono davvero a
convincermi, nondimeno la raccontano, e giurano di dire la verità.
106) Gli Androfagi possiedono i costumi più selvaggi
al mondo: non praticano la giustizia, non possiedono alcuna legge. Sono
nomadi, si vestono alla maniera degli Sciti, ma parlano una lingua propria e
sono gli unici fra queste popolazioni a cibarsi di carne umana. 107) I Melancleni si vestono tutti di nero, che è poi
la spiegazione del loro nome, e seguono le consuetudini degli Sciti. 108) I Budini, popolo grande e numeroso, hanno tutti gli
occhiazzurri e i capelli rossi. C'è nel loro paese una città di
legno, che si chiama Gelono: il muro di cinta misura su ogni lato trenta
stadi, è alto e interamente di legno, e di legno sono pure le case e i
santuari; in questa città si trovano infatti santuari di
divinità greche, abbelliti alla maniera greca con statue, altari e
templi di legno; ogni due anni celebrano feste in onore di Dioniso e riti
bacchici. In effetti i Geloni anticamente erano Greci che, respinti dai loro empori,
erano andati a stabilirsi fra i Budini. E parlano una lingua che è un
misto di greco e di scita. 109) I Budini non parlano la stessa lingua dei Geloni, e
neppure il sistema di vita è lo stesso; perché i Budini sono una
popolazione autoctona, nomade, e, unici in tutta la regione, si nutrono di
pinoli, mentre i Geloni lavorano la terra, si cibano di frumento, possiedono
orti, si distinguono sia per l'aspetto fisico sia per il colore della pelle.
Dai Greci anche i Budini vengono chiamati Geloni, ma si tratta di un errore.
Il loro paese è interamente ricoperto di boschi di ogni specie; nella
maggiore di queste selve c'è un lago vasto e profondo, circondato da
paludi e canneti. Nel lago si catturano lontre e castori e altri animali dal
muso quadrato, le cui pelli vengono cucite insieme a formare pellicce, mentre
i testicoli risultano utili per curare le malattie dell'utero. 110) Ed ecco quanto si racconta dei Sauromati. Quando i Greci
combatterono contro le Amazzoni (gli Sciti chiamano le Amazzoni Oiorpata, nome
che in greco significa "quelle che uccidono i maschi": oior vuol
dire "maschio" e pata "uccidere"), si dice che, dopo aver
vinto la battaglia del Termodonte, i Greci rientravano allora con la flotta,
conducendo su tre navi tutte le Amazzoni che erano riusciti a catturare; ma
esse in mare aperto assalirono gli uomini e li sterminarono. Non conoscevano
però le navi e non sapevano come governare il timone, manovrare le
vele e i remi; così, dopo aver trucidato tutti i maschi, procedevano
alla deriva, in balia delle onde e del vento, finché non giunsero alla Palude
Meotide e precisamente a Cremni; Cremni appartiene al paese degli Sciti
liberi. Qui le Amazzoni sbarcarono e si avviarono verso il territorio
abitato. Subito si imbatterono in una mandria di cavalli, che rubarono; una
volta a cavallo presero a razziare i beni degli Sciti. 111) Gli Sciti non riuscivano a capire la faccenda: non
conoscevano né la lingua né l'abbigliamento né la razza delle Amazzoni, pieni
di stupore si chiedevano da dove mai fossero usciti quei tipi; credevano che
fossero maschi in giovanissima età, e ingaggiarono battaglia con loro.
Poi, dopo la battaglia, gli Sciti si impadronirono dei cadaveri e si
accorsero così che si trattava di donne. Si consultarono sul da farsi
e decisero di smettere assolutamente di ucciderle e di mandare da quelle
donne i loro ragazzi più giovani, tanti quante calcolavano che fossero
esse. I giovani dovevano accamparsi vicino alle Amazzoni e comportarsi
esattamente come le Amazzoni; se esse li attaccavano non dovevano battersi,
ma fuggire; quando l'inseguimento fosse cessato, dovevano tornare ad
accamparsi vicino a loro. Escogitarono tale tattica gli Sciti, perché
desideravano avere figli da quelle donne. 112) I giovani inviati eseguirono gli ordini ricevuti. Quando
le Amazzoni compresero che erano venuti senza intenzioni ostili, li
lasciarono in pace: e giorno dopo giorno un accampamento si accostava sempre
di più all'altro. Essi non possedevano nulla, come le Amazzoni, tranne
le armi e i cavalli; e vivevano allo stesso modo delle donne, di caccia e di
rapina. 113) Verso mezzogiorno le Amazzoni si disperdevano, da sole
oppure in coppia, allontanandosi le une dalle altre per soddisfare i propri
bisogni. Quando se ne accorsero, anche gli Sciti presero a fare lo stesso, e
qualcuno riuscì ad avvicinare una di queste Amazzoni isolate, che non
lo respinse, permettendogli anzi di intrattenersi con lei. Non potendo
parlargli, dato che non si comprendevano, gli fece capire a gesti di tornare
il giorno dopo in quello stesso luogo e di portare con sé anche un altro,
indicando di venire in due; anche lei avrebbe portato una compagna. Il
giovane tornò al proprio campo e raccontò agli altri
l'accaduto; il giorno dopo tornò nel posto indicato conducendo con sé
un compagno e trovò la prima Amazzone ad aspettarlo con una seconda.
Gli altri giovani, quando vennero a saperlo, si ammansirono a loro volta le
Amazzoni restanti. 114) In seguito unirono gli accampamenti e abitarono
insieme,ciascuno con la donna a cui si era unito la prima volta. I mariti non
furono capaci di imparare la lingua delle mogli, ma le mogli compresero il
linguaggio dei mariti. Quando riuscirono a capirsi fra di loro, gli uomini
dissero alle Amazzoni: "Noi abbiamo genitori e anche dei beni; smettiamola
dunque di condurre questo genere di vita e torniamo a vivere con tutta la
gente; come mogli avremo voi e non altre". Ma esse a tale proposta
risposero: "Noi non potremmo abitare insieme con le vostre donne: le
nostre usanze e le loro sono ben differenti; noi tiriamo con l'arco,
scagliamo lance, andiamo a cavallo e non abbiamo mai imparato i lavori
femminili; invece le vostre donne delle cose che abbiamo detto non ne fanno
nessuna: attendono invece ai lavori femminili restando sui carri, a caccia
non ci vanno, non si muovono mai. Non potremmo andare d'accordo con loro.
Perciò se volete tenerci come mogli e mostrarvi giusti, andate dai
vostri genitori, prendete la parte dei beni che vi spetta e tornate qui;
dopodiché ce ne vivremo per conto nostro". 115) I giovani si convinsero e agirono così; quando
ebbero ottenuta la parte dei beni loro spettante e furono tornati dalle
Amazzoni, le donne dissero ancora: "Noi abbiamo paura, anzi terrore, di
dover vivere in questo paese, dopo avervi sottratto ai vostri padri e dopo i
molti danni arrecati ai vostri territori. Voi ci ritenete degne di esservi
mogli, ecco allora come dobbiamo fare, noi e voi insieme: allontaniamoci da
questo paese, andiamo ad abitare al di là del Tanai". 116) E anche in questo i giovani obbedirono. Attraversato il
Tanai, si avviarono in direzione del levare del sole per tre giorni di
viaggio a partire dal Tanai, poi dalla Palude Meotide per altri tre giorni si
diressero verso nord. Quando giunsero nella località dove tutt'oggi
dimorano, vi si insediarono. E da allora le donne dei Sauromati vivono
secondo le antiche abitudini: vanno a caccia a cavallo, assieme ai mariti e
anche senza di loro, vanno in guerra e sono abbigliate esattamente come i
maschi. 117) I Sauromati parlano la lingua degli Sciti, ma con
qualche errore, fin da principio, perché le Amazzoni non l'avevano imparata
bene. Ed ecco cosa è stabilito per le nozze: nessuna fanciulla
può sposarsi se non ha prima ucciso un uomo in guerra. Alcune di loro,
non riuscendo a soddisfare tale compito, muoiono vecchie senza essersi
sposate. 118) Giunti dai sovrani, riuniti, dei popoli ora elencati, i
messaggeri sciti presero la parola spiegando che il re persiano, dopo aver
sottomesso tutti i paesi dell'altro continente, aveva gettato un giogo sul
collo del Bosforo ed era passato nel loro continente. Dopodiché aveva
soggiogato i Traci e gettato un ponte sul fiume Istro, desiderando fare suoi
anche tutti questi territori. "Voi", dissero, "non statevene
da parte tranquilli, non permettete la nostra distruzione: uniamo i nostri
intenti e affrontiamo l'invasore. Pensate di non farlo? Noi, se ci
schiacciano, o abbandoniamo il nostro paese oppure vi resteremo, ma venendo a
patti col nemico. Che altro dovremmo fare, se non intendete aiutarci? Ma la
vostra sorte, in questo caso, non sarà certo migliore: perché il re
persiano è qui contro di voi non meno che contro di noi, e non si
accontenterà di avere sottomesso noi, non vi risparmierà di
certo. E ve ne portiamo una solida prova. Se il Persiano si fosse mosso solo
contro di noi, nel desiderio di vendicarsi della antica schiavitù,
avrebbe dovuto attaccare unicamente il nostro territorio e tenersi lontano
dagli altri: sarebbe stata la dimostrazione agli occhi di tutti che l'attacco
era diretto contro gli Sciti e non contro gli altri. Invece, da quando
è passato in questo continente, sta sottomettendo tutte le popolazioni
che incontra sulla sua strada. Ha già assoggettato i Traci e, in
particolare, i Geti, che sono nostri confinanti". 119) Di fronte a questo messaggio degli Sciti i re
intervenuti dalle varie popolazioni si consultarono fra loro, e le opinioni
risultarono divergenti. I re dei Geloni, dei Budini e dei Sauromati la
pensavano allo stesso modo e promisero agli Sciti di aiutarli, invece i re
degli Agatirsi, dei Neuri e degli Androfagi, nonché quelli dei Melancleni e
dei Tauri, risposero agli Sciti quanto segue: "Se non foste stati voi
per primi ad agir male nei confronti dei Persiani e a cominciare la guerra,
ora le vostre parole, la vostra richiesta, ci sembrerebbero giuste e
prestandovi ascolto condivideremmo il vostro destino. Ma si dà il caso
che voi abbiate invaso la Persia senza di noi e dominato sui Persiani per
tutto il tempo che il dio vi ha concesso; ora i Persiani, e li ridesta il medesimo
dio, vi restituiscono la cortesia. Per parte nostra, noi non ci siamo
macchiati di torto allora, contro questi uomini, e neppure adesso lo faremo
per primi. Se il re persiano assalirà anche il nostro paese, dando lui
inizio all'ingiustizia, noi certo non subiremo passivamente. Ma fino a quel
momento saremo spettatori, in tranquilla attesa; a dire il vero siamo
convinti che i Persiani non sono qui per combattere contro di noi, ma solo
contro quanti a suo tempo si macchiarono di colpe". 120) Tale risposta fu riferita agli Sciti; come l'ebbero
appresa,essi decisero di non ingaggiare mai battaglia in campo aperto, dato
che questi alleati gli venivano a mancare; decisero invece di dividersi in
due gruppi e di arretrare, di ritirarsi lentamente e progressivamente,
interrando i pozzi e le sorgenti presso cui passavano e distruggendo la
vegetazione che cresceva dalla terra. A uno dei due contingenti, a quello
guidato dal re Scopasi, si sarebbero aggregati i Sauromati; insieme, se i
Persiani si fossero diretti verso di loro, avrebbero dovuto ritirarsi,
fuggendo dritti verso il Tanai lungo la Palude Meotide; quando poi i Persiani
fossero tornati indietro, avrebbero dovuto inseguirli e incalzarli. Questo
contingente comprendeva solo una delle tre parti del regno ed era assegnato
al settore che ho detto. Le altre due parti, al comando di Idantirsi, la
maggiore, e di Tassaci, la terza, si sarebbero unite, accogliendo anche i
Geloni e i Budini, e ritirate a loro volta, precedendo di un giorno di
cammino i Persiani, sottraendosi al contatto e mettendo così in
esecuzione il piano prestabilito. Innanzitutto dovevano ripiegare in
direzione dei paesi che avevano rifiutato l'alleanza, per coinvolgere anche
loro nel conflitto. Non avevano voluto spontaneamente entrare in guerra
contro i Persiani? Ce li avrebbero spinti contro la loro volontà. Poi
dovevano retrocedere verso la Scizia e passare al contrattacco se,
consultandosi, lo avessero ritenuto opportuno. 121) Con tale piano di guerra gli Sciti affrontarono
l'esercito di Dario, mandando in avanscoperta i migliori cavalieri. E fecero
partire intanto sia i carri, in cui vivono i loro figli e tutte le donne, sia
tutto il bestiame, a eccezione di quanto bastava per il loro sostentamento
(solo questi animali trattennero), con l'ordine di procedere sempre in
direzione nord. 122) Mentre carri e bestiame erano in viaggio, le avanguardie
degli Sciti avvistarono i Persiani a tre giorni di distanza dall'Istro;
avvistatili si accamparono a un giorno di cammino da loro cominciando a
distruggere tutti i prodotti della terra. I Persiani, come videro apparire la
cavalleria degli Sciti, le si slanciarono contro, sulle tracce dei cavalli in
continuo ripiegamento; e finirono per dargli la caccia dritti verso levante e
verso il fiume Tanai (era il primo dei due gruppi di Sciti quello che
attaccavano). Gli Sciti attraversarono il Tanai e così fecero i
Persiani, che erano alle loro calcagna, finché, oltrepassato il paese dei
Sauromati, non giunsero in quello dei Budini. 123) Durante il tempo in cui avanzavano in Scizia e nel
territorio dei Sauromati, i Persiani non avevano nulla da saccheggiare, dato
che la terra era incolta; una volta entrati nel paese dei Budini, vi
trovarono la città dalle mura di legno, svuotata completamente e
abbandonata dai Budini, e la diedero alle fiamme. Fatto ciò,
proseguirono, sempre tallonando gli Sciti, finché, percorso tutto il paese,
giunsero nel deserto. Questo deserto è totalmente disabitato: si
estende a nord del territorio dei Budini per ben sette giornate di cammino.
Oltre il deserto vivono i Tissageti, dal cui paese provengono quattro grandi
fiumi che scorrono attraverso il paese dei Meoti per andare a sfociare nel
lago cosiddetto Meotide; si tratta del Lico, dell'Oaro, del Tanai e del Sirgi.
124) Ebbene, quando Dario giunse nel deserto, fermò la
sua corsa e fece accampare l'esercito sulle rive dell'Oaro; quindi
ordinò la costruzione di otto grandi fortezze, dislocate a uguale
distanza l'una dall'altra (circa sessanta stadi), le cui rovine esistevano
ancora ai miei tempi. Mentre egli attendeva a questi lavori, gli Sciti in
fuga rientrarono nella Scizia compiendo un largo giro verso nord. Visto che
gli Sciti erano del tutto scomparsi e non si vedevano proprio più,
Dario lasciò le fortezze, costruite a metà, e arretrò
verso ovest; credeva che quelli fossero tutti gli Sciti e che stessero
ripiegando verso occidente. 125) Spingendo in gran fretta il suo esercitò
arrivò in Scizia equi subito si imbatté in entrambi i contingenti;
trovatili, si gettò al loro inseguimento, ma essi si tenevano
costantemente a una giornata di distanza. Dario non cessava di incalzarli e
gli Sciti, secondo il loro piano, si ritiravano in direzione dei popoli che
avevano rifiutato l'alleanza, cominciando dal paese dei Melancleni. Sciti e
Persiani vi penetrarono e lo sconvolsero, poi gli Sciti guidarono i Persiani
verso il territorio degli Androfagi; messolo sottosopra, condussero i
Persiani nella terra dei Neuri, vi portarono la rovina e andarono poi verso
gli Agatirsi. Gli Agatirsi, vedendo che anche i loro vicini scappavano a
causa degli Sciti e subivano gravi danni, prima che piombassero nel loro
territorio, inviarono agli Sciti un araldo con l'intimazione di non
oltrepassare i loro confini; se avessero tentato di farlo, avvertivano, per
prima cosa avrebbero dovuto combattere contro di loro. Lanciato
l'avvertimento, gli Agatirsi accorsero a presidiare i confini, bene
intenzionati a difendersi dagli invasori; invece i Melancleni, gli Androfagi
e i Neuri non avevano impugnato le armi quando Sciti e Persiani insieme
avevano fatto irruzione nel loro paese: dimentichi delle minacce pronunciate,
erano fuggiti uno dopo l'altro disordinatamente verso il nord, verso il
deserto. Gli Sciti, dopo l'intimazione degli Agatirsi, rinunciarono a
penetrare nelle loro contrade e dal paese dei Neuri attirarono i Persiani nel
proprio. 126) Visto che la faccenda andava per le lunghe e non aveva
l'aria di voler cessare, Dario inviò un cavaliere presso il re degli
Sciti Idantirsi col seguente messaggio: "Sciagurato individuo, perché
continui a fuggire? Davanti a te hai due possibilità. Se ti ritieni
capace di opporti alla mia potenza, fermati, smetti di vagare qua e là
e combatti; se invece ti riconosci inferiore, allora cessa comunque di correre,
porta in dono al tuo signore terra e acqua e vieni a colloquio con me".
127) Al che il re degli Sciti Idantirsi rispose: "Per
me, Persiano,le cose stanno così: io prima d'ora non sono mai fuggito
per paura davanti a nessuno e nemmeno adesso sto scappando davanti a te. E
attualmente non faccio niente di diverso da quanto faccio di solito anche in
tempo di pace. E ti spiego pure per quale motivo non mi misuro subito con te:
noi non possediamo città, né terre coltivate per cui correre a scontrarci
in battaglia nel timore che vengano espugnate o devastate. Se proprio
è necessario arrivare rapidamente a tanto, noi abbiamo le tombe dei
nostri antenati. E allora trovàtele, queste tombe, tentate di
devastarle e saprete immediatamente se per esse ci batteremo o meno; prima,
se non ci sembra il caso, rifiuteremo lo scontro. Questo valga per la
battaglia; quanto ai miei padroni io credo di avere come tale soltanto Zeus,
mio antenato, ed Estia, regina degli Sciti. A te, poi, invece di terra e
acqua in dono, ti manderò regali che più ti si addicono; e in
cambio del fatto che hai detto di essere mio padrone, io ti dico di andare in
malora. (E questa è la risposta degli Sciti)". 128) L'araldo partì per portare a Dario il messaggio, ma
intanto i re sciti erano pieni di rabbia per aver udito la parola
"schiavitù". Inviarono dunque il contingente a cui erano
aggregati i Sauromati e di cui era a capo Scopasi con l'ordine di avviare
trattative con gli Ioni che sorvegliavano il ponte sull'Istro. Gli Sciti
rimasti decisero di mettere fine al vagare qua e là dei Persiani e di
attaccarli ogni volta che tentassero di procurarsi vettovaglie. Spiarono
dunque il momento in cui gli uomini di Dario cercavano di fare provviste e
agivano come stabilito. E sempre la cavalleria scita metteva in fuga la
cavalleria persiana: i cavalieri persiani cercavano riparo, a precipizio,
presso la fanteria, che li avrebbe volentieri soccorsi; ma gli Sciti, dopo
aver disperso la cavalleria nemica, si ritiravano per timore dei fanti. Gli
Sciti compivano incursioni del genere anche di notte. 129) Alleati dei Persiani contro gli Sciti che assalivano
l'accampamento di Dario si rivelarono, e dirò una cosa molto
sorprendente, il raglio degli asini e l'aspetto dei muli. In effetti, come
anche sopra ho spiegato, la Scizia non produce né asini né muli; in tutto il
territorio scitico non ci sono neppure un asino e neppure un mulo, a causa
del gran freddo. Insomma gli asini con le loro bizze scompigliavano la
cavalleria degli Sciti; spesso nel bel mezzo di un attacco contro i Persiani,
i cavalli, come udivano gli asini ragliare, si impaurivano, recalcitravano,
attoniti, rizzando le orecchie, sia perché non avevano mai udito prima la
voce degli asini sia perché non ne avevano mai visto l'aspetto; e questo
fatto costituì per i Persiani un piccolo vantaggio bellico. 130) Gli Sciti, quando vedevano i Persiani in preda allo
sconforto, per trattenerli più a lungo in Scizia e perché,
permanendovi, soffrissero per la totale mancanza di risorse, facevano
così. Lasciavano indietro ogni volta delle greggi con qualche pastore
e di nascosto si ritiravano altrove; i Persiani sopraggiunti avrebbero
razziato il bestiame e con ciò ripreso fiducia. 131) La manovra si ripeté più volte; infine Dario non
sapeva più che fare. Allora i re sciti, che se ne accorsero, gli
inviarono un araldo a portargli dei doni: un uccello, un topo, una rana e
cinque frecce. I Persiani interrogarono l'emissario sul significato dei doni,
ma lui rispose di aver solo ricevuto l'ordine di consegnarli e di tornare
indietro al più presto; e invitava i Persiani, se erano sapienti, a
indovinare cosa volessero dire quei regali. Udito ciò, i Persiani si
consultarono fra loro. 132) Il parere di Dario era che gli Sciti in tal modo
mettevano nelle sue mani se stessi, la terra e l'acqua, basandosi sul fatto
che il topo vive sulla terra, nutrendosi come l'uomo, e la rana nell'acqua, e
che l'uccello somiglia molto al cavallo; quanto alle frecce, le interpretava
come una resa dell'esercito. Tale fu l'opinione espressa da Dario; opposto fu
il parere di Gobria, uno dei sette uccisori del Mago; secondo Gobria i doni
volevano dire: "Persiani, se trasformati in uccelli non cercherete
protezione in cielo, o trasformati in topi non vi sprofonderete sotto terra,
o trasformati in rane non andrete a tuffarvi negli stagni, trafitti da queste
frecce non potrete più tornare nel vostro paese". 133) Mentre così i Persiani cercavano di interpretare
quei doni,la frazione dell'esercito scitico precedentemente assegnata a
sorvegliare la Palude Meotide giungeva proprio allora al fiume Istro per
trattare con gli Ioni. Appena arrivati al ponte, gli Sciti tennero questo
discorso: "Ioni, noi veniamo a portarvi la libertà, sempre che
vogliate starci ad ascoltare. Sappiamo che Dario vi ha ordinato di
sorvegliare il ponte per soli sessanta giorni, e di tornare nel vostro paese
se lui non si presenta entro questo termine. Ecco dunque come potrete
regolarvi per essere esenti da colpe ai suoi occhi e ai nostri: restate qui i
giorni stabiliti e poi andatevene". Questi Sciti dunque, quando gli Ioni
ebbero promesso di fare così, si ritirarono in tutta fretta. 134) Invece gli Sciti rimasti indietro attesero che i doni
giungessero a Dario e gli si schierarono di fronte, con la fanteria e la
cavalleria, come per attaccarlo. Ma le file serrate degli Sciti furono
attraversate da una lepre: e ciascuno di loro come la vedeva le dava la
caccia. Visto che gli Sciti rompevano lo schieramento fra urla e clamore,
Dario volle sapere cosa fosse quello scompiglio fra i nemici; ma quando
apprese che essi stavano inseguendo una lepre, si rivolse ai suoi abituali
interlocutori e osservò: "Questi uomini ci disprezzano assai; e
adesso mi sembra che Gobria abbia detto bene circa i doni degli Sciti.
Insomma, visto che ora anch'io la penso così, ci occorre un buon piano
per garantirci una ritirata sicura". Al che Gobria disse: "Mio re,
io già quasi le sapevo, per averne sentito parlare, le
difficoltà che avremmo incontrate con queste genti, e ben di
più me ne sono reso conto qui, vedendo che loro si fanno beffe di noi.
Pertanto ecco cosa ritengo meglio fare: non appena scende la notte,
accendiamo i fuochi come al solito; poi, mentendo a quei soldati che sono
troppo deboli per affrontare un lungo viaggio, impastoiamo tutti gli asini e
allontaniamoci, prima che gli Sciti, marciando dritti sull'Istro, arrivino a
distruggere il ponte, oppure prima che gli Ioni prendano una decisione tale
da rovinarci". 135) Questo fu il parere di Gobria; più tardi, quando
scese lanotte, Dario mise in pratica il suggerimento; i soldati sfiniti dalla
fatica e quelli la cui perdita era meno grave li lasciò in quello
stesso accampamento, con tutti gli asini impastoiati; le ragioni per cui
abbandonò gli asini e gli uomini deboli erano le seguenti: gli asini
perché ragliassero, gli uomini proprio per la loro debolezza; il pretesto
addotto fu che Dario si apprestava ad attaccare gli Sciti col meglio
dell'esercito e loro nel frattempo avrebbero dovuto presidiare l'accampamento.
Impartite tali disposizioni a quelli che lasciava indietro, Dario
ordinò di accendere i fuochi e si allontanò rapidamente in
direzione dell'Istro. Gli asini, isolati dal grosso, ragliavano per questo
ancora più forte, sicché gli Sciti, sentendoli, pensavano che i
Persiani si trovassero sempre lì. 136) Quando fu giorno, gli uomini abbandonati si accorsero di
essere stati traditi da Dario; allora tendevano le mani verso gli Sciti e
cercavano di spiegare la situazione; appena messi al corrente, gli Sciti
raccolsero in fretta le loro forze, il gruppo formato dai due terzi degli
Sciti e quello unito ai Sauromati, ai Budini e ai Geloni, e si gettarono
all'inseguimento dei Persiani puntando verso l'Istro. Dato che l'esercito
persiano era composto di fanti che non conoscevano i percorsi e strade
tracciate non ne esistevano, mentre l'esercito scita era composto di
cavalieri e conosceva bene anche le scorciatoie, finirono per non
incontrarsi: e gli Sciti giunsero al ponte molto prima dei Persiani. Quando seppero
che i Persiani non erano ancora arrivati, dicevano agli Ioni che stavano
sulle navi: "Ioni, i giorni del vostro computo sono trascorsi e voi non
vi comportate giustamente restando ancora qui. Ma visto che prima aspettavate
per paura, adesso smontatelo, su, questo passaggio e andatevene via al
più presto, liberi, felici, grati agli dèi e agli Sciti. Quanto
a colui che prima era il vostro padrone noi lo ridurremo in tale stato che
non farà mai più guerra a nessuno". 137) Di fronte a tale invito gli Ioni presero consiglio.
L'Ateniese Milziade, stratego e tiranno dei Chersonesiti d'Ellesponto, era
dell'idea di obbedire agli Sciti e rendere libera la Ionia. Ma Istieo di
Mileto espresse un parere opposto: in quel momento, sosteneva, ciascuno di
loro era tiranno di una città grazie a Dario; una volta dissolta la
potenza di Dario, lui, Istieo, non sarebbe più stato in condizione di
governare Mileto e lo stesso sarebbe accaduto agli altri: infatti ogni
città avrebbe preferito darsi un regime democratico che non restare
sotto un tiranno. Istieo esponeva la sua opinione e tutti si schierarono con
lui, mentre prima avevano caldeggiato la proposta di Milziade. 138) A votare così, tutte persone che godevano della
considerazione del re, furono i tiranni dei Greci d'Ellesponto Dafni di
Abido, Ippocle di Lampsaco, Erofanto di Pario, Metrodoro di Proconneso,
Aristagora di Cizico e Aristone di Bisanzio: questi erano dell'Ellesponto;
dalla Ionia invece venivano Stratti di Chio, Eace di Samo, Laodamante di
Focea e Istieo di Mileto, l'antagonista di Milziade. Dell'Eolia c'era
soltanto un personaggio famoso, Aristagora di Cuma. 139) Costoro insomma, avendo approvato l'idea di Istieo,
decisero di regolarsi così, a parole e in concreto: di smontare il
ponte dalla parte degli Sciti, ma solo per la lunghezza di un tiro di
freccia, tanto per dare l'impressione di star facendo qualcosa, mentre in
realtà non facevano nulla, e perché gli Sciti non tentassero con la
forza di attraversare il fiume servendosi del ponte; di affermare, mentre
smontavano il ponte dalla parte della Scizia, che si sarebbero comportati
come piaceva agli Sciti. Questo aggiunsero al parere di Istieo, poi agli
Sciti rispose Istieo per tutti: "Sciti", disse, "siete venuti
a portarci ottimi consigli e a tempo debito. Voi ci indicate la migliore via
da seguire e noi vi secondiamo come si deve. Come vedete, stiamo smontando il
passaggio e ce la metteremo tutta, perché vogliamo essere liberi.
Però, mentre noi smontiamo il ponte, per voi è il momento di
cercare quegli altri, di trovarli e di prender vendetta per noi e per voi
stessi, come si son meritato". 140) Per la seconda volta gli Sciti credettero che gli Ioni
dicessero la verità e si gettarono alla ricerca dei Persiani, ma si
sbagliarono completamente sul percorso da quelli seguito. La colpa fu degli
Sciti stessi, che avevano distrutto i pascoli dei cavalli e interrato le
sorgenti in tutta la regione. In effetti, se non lo avessero fatto, avrebbero
avuto la possibilità, volendo, di scovare i Persiani a occhi chiusi;
ora invece le decisioni che avevano creduto buone si rivelarono un errore.
Gli Sciti cercarono i Persiani nel proprio paese attraverso i territori dove
c'erano acqua e foraggio per i cavalli, credendo che anche i Persiani si
ritirassero lungo questo percorso; i Persiani, invece, stettero bene attenti
a seguire le tracce del loro precedente passaggio, ritrovando il guado,
ciò nonostante, a stento. Poiché giunsero di notte e trovarono il
ponte smontato, furono colti da autentico panico all'idea che gli Ioni li
avessero abbandonati. 141)Ma c'era con Dario un uomo, un Egiziano, dotato della
voce più potente del mondo: Dario gli ordinò di piazzarsi sulla
riva dell'Istro e di chiamare a gran voce Istieo di Mileto. Quello
eseguì e Istieo, obbedendo al primo appello, ricollocò tutte le
navi per traghettare l'esercito, ricomponendo il ponte. 142)In tal modo i Persiani trovarono scampo; gli Sciti che li
stavano cercando li mancarono per la seconda volta. E ora giudicano gli Ioni,
in quanto uomini liberi, i più malvagi e vigliacchi del mondo;
altrimenti, valutandoli come schiavi, li dicono fedelissimi ai loro padroni,
molto poco inclini a liberarsene. Tali sono gli insulti che da allora gli
Sciti riservano agli Ioni. 143) Dario marciando attraverso la Tracia giunse a Sesto nel
Chersoneso; di là passò in Asia con le navi, lasciando in
Europa, col grado di stratego, Megabazo, un Persiano; a Megabazo una volta
Dario aveva concesso un riconoscimento grandissimo, pronunciando di fronte ai
Persiani parole assai lusinghiere: Dario stava mangiando delle melagrane, e
aveva appena aperto la prima, quando suo fratello Artabano gli chiese che
cosa avrebbe desiderato possedere che uguagliasse in numero i semi della
melagrana. E Dario rispose che avrebbe preferito avere altrettanti Megabazo
piuttosto che la sottomissione della Grecia. Con tali parole tanto lo aveva
allora onorato fra i Persiani; e in questa circostanza lo lasciò
comandante in capo con un esercito di 80.000 uomini. 144) Megabazo lasciò imperitura memoria di sé presso
gli abitanti dell'Ellesponto grazie a una sua frase: giunto a Bisanzio e
venuto a sapere che i Calcedoni si erano stabiliti in quella regione
diciassette anni prima dei Bizantini, sentenziò che i Calcedoni erano
stati ciechi per altrettanti anni; se non fossero stati ciechi infatti non
avrebbero scelto come loro sede il luogo peggiore, avendo a disposizione il
migliore. Questo Megabazo, lasciato colà come stratego, cercava di
sottomettere tutti gli abitanti dell'Ellesponto che non parteggiavano per i
Persiani. 145) Mentre Megabazo operava in tal senso, contemporaneamente
un'altra grande spedizione armata raggiungeva la Libia, per la ragione che
spiegherò dopo aver premesso le seguenti informazioni. Alcuni
discendenti degli Argonauti, scacciati dai Pelasgi che avevano rapito a
Braurone le donne ateniesi, scacciati cioè da Lemno, si spinsero per
mare verso Sparta, si sistemarono sul Taigeto e accesero dei fuochi. Gli
Spartani li videro e inviarono loro un messaggero, per sapere chi fossero e
da dove venissero; alle domande dell'inviato risposero di essere dei Mini,
discendenti degli eroi che avevano navigato sulla nave Argo; gli Argonauti
erano appunto approdati a Lemno e avevano originato tale schiatta. Gli
Spartani, dopo aver udito della ascendenza dei Mini, mandarono una seconda
volta a chiedere con quali intenzioni fossero venuti nel loro paese e perché
avessero acceso il fuoco; ed essi dichiararono di essere tornati dai loro
antenati perché espulsi da Lemno a opera dei Pelasgi; a sentir loro tale
ritorno era senz'altro legittimo; chiedevano di coabitare con gli Spartani
partecipando delle loro prerogative, in una porzione di territorio assegnata
a sorte. Gli Spartani decisero di accogliere i Mini alle condizioni
desiderate: ad agire così li convinse soprattutto il fatto che alla
spedizione di Argo avevano preso parte i figli di Tindaro. Accolsero i Mini,
gli diedero dei terreni e li distribuirono fra le varie tribù. Essi
ben presto sposarono ragazze del luogo e concessero ad altri come mogli le
donne che si erano portate con sé da Lemno. 146) Ma non passò molto tempo che i Mini cominciarono
a comportarsi in maniera insolente: pretesero di partecipare al regno e
compirono vari altri gesti empi. Finché gli Spartani, avendo deciso di
eliminarli, li catturarono tutti e li gettarono in una prigione. Gli Spartani
eseguono solo di notte le eventuali sentenze capitali, di giorno mai.
L'uccisione era comunque imminente quando le mogli dei Mini, che erano
cittadine di Sparta e figlie degli Spartiati più illustri, chiesero il
permesso di entrare nelle prigioni per parlare ciascuna col proprio marito; e
la richiesta fu accolta nella convinzione che non celasse alcun inganno. Le
donne, come furono dentro, ecco cosa fecero: scambiarono i loro abiti con quelli
dei mariti, sicché i Mini travestiti, fingendosi donne, poterono uscire;
scappati via con quel trucco, si accamparono nuovamente sul monte Taigeto.
147) Proprio in quei giorni, Tera, figlio di Autesione e
nipote di Tisamene che a sua volta era figlio di Tersandro e nipote di
Polinice, partiva da Sparta per andare a fondare una colonia. Questo Tera, di
stirpe cadmea, era zio materno dei figli di Aristodemo, Euristene e Procle.
Finché i nipoti erano bambini, mantenne per loro la reggenza di Sparta, ma
quando furono cresciuti ed ebbero assunto il potere, Tera, che aveva
assaporato il piacere del comando, non tollerò di prendere ordini da
altri: dichiarò che non sarebbe rimasto a Sparta ma si sarebbe messo
in mare per raggiungere gente della sua stirpe. Nell'isola che oggi si chiama
Tera, ma che un tempo era detta Calliste, vivevano alcuni discendenti del
fenicio Membliareo, figlio di Pecile. In effetti all'isola oggi nota come
Tera era approdato il figlio di Agenore Cadmo, alla ricerca di Europa; vi aveva
fatto scalo e, sia che il luogo gli fosse piaciuto sia che altre ragioni lo
invogliassero a farlo, vi aveva lasciato alcuni Fenici, fra cui Membliareo
che apparteneva alla sua famiglia. Costoro abitarono l'isola detta Calliste
per otto generazioni, prima dell'arrivo di Tera proveniente da Sparta.
148) Era verso queste genti che intendeva dirigersi Tera con
una piccola schiera formata fra le varie tribù, per abitare assieme a
loro, non per mandarli via, ma realmente con intenzioni amichevoli. Ebbene, dal
momento che i Mini, scappati dalle prigioni, si erano stabiliti sul Taigeto e
gli Spartani volevano ucciderli, Tera chiese di evitare una strage e si
impegnò personalmente a condurli fuori del paese. Gli Spartani
accettarono la proposta, sicché Tera partì, con tre penteconteri, per
raggiungere i discendenti di Membliareo conducendo con sé anche i Mini; non
tutti però, anzi pochi: i più in effetti si diressero verso i
Paroreati e i Cauconi e li scacciarono dai loro territori, dove poi, divisisi
in sei gruppi, fondarono sei città, Lepreo, Macisto, Frisse, Pirgo,
Epio e Nudio; ma quasi tutte queste città sono state messe a sacco
dagli Elei ai miei tempi. L'isola di Calliste fu poi chiamata Tera dal nome
del suo colonizzatore. 149) Suo figlio però si era rifiutato di partire con
lui; allora Tera affermò che lo avrebbe lasciato "pecora fra i
lupi" e da questa espressione derivò al ragazzo il soprannome di
Eolico, che poi finì per prevalere. Di Eolico fu figlio Egeo, da cui
prende nome la grande tribù spartana degli Egidi. Agli uomini di
questa tribù i figli non sopravvivevano; allora, consigliati da un
oracolo, eressero un tempio dedicato alle Erinni di Laio e di Edipo. In
seguito lo stesso accadde anche a Tera ai discendenti di questi uomini.
150) Sin qui le versioni degli Spartani e dei Terei
coincidono,gli avvenimenti successivi li narrano come segue i soli Terei.
Grinno figlio di Esanio, discendente di Tera e re dell'isola omonima, si
recò a Delfi portando dalla sua città cento buoi da sacrificare;
lo accompagnavano altri concittadini, fra i quali Batto, figlio di
Polimnesto, della stirpe del Minio Eufemo. E mentre Grinno, re dei Terei, la
consultava su altre questioni, la Pizia gli rispose invitandolo a fondare una
città in Libia. E Grinno ribatté: "Signore, io sono un po'
vecchiotto e pesante per muovermi; ordinalo a uno di questi giovani di
intraprendere l'impresa". E mentre rispondeva così indicava
Batto. Questo è quanto accadde allora; più tardi, dopo il loro
ritorno, non tennero più conto del responso: neppure sapevano dove si
trovasse la Libia e non avevano il coraggio di inviare dei coloni senza una
destinazione definita. 151) Per sette anni, a partire da allora, non cadde pioggia
sull'isola di Tera e in quei sette anni tutte le piante dell'isola, tranne
una, seccarono. I Terei consultarono l'oracolo e la Pizia rinfacciò
loro la colonia in Libia. Visto che al loro male non esisteva rimedio,
inviarono a Creta dei messi per scoprire se qualcuno del luogo, nativo di
Creta o straniero residente, fosse mai stato in Libia. Nel compiere il giro
dell'isola i messi giunsero alla città di Itano; qui presero contatto
con un pescatore di porpore, di nome Corobio, il quale dichiarò di
essere giunto in Libia, e precisamente nell'isola di Platea, trascinato dai venti.
I messi lo allettarono con una ricompensa e lo condussero a Tera; da Tera poi
partirono alcuni uomini in esplorazione, non in molti, inizialmente. Quando
Corobio li ebbe condotti nella sunnominata isola di Platea, lo lasciarono
lì, con provviste per un determinato numero di mesi, dirigendosi in
gran fretta verso Tera per riferire sull'isola ai loro concittadini. 152) Ma si assentarono per più tempo di quello
previsto, sicché a Corobio venne a mancare tutto; più tardi una nave
di Samo, in navigazione verso l'Egitto agli ordini di Coleo, fu trascinata
dai venti fino all'isola di Platea. I Sami, appreso da Corobio per filo e per
segno l'accaduto, gli lasciarono provviste per un anno; essi poi salparono
dall'isola decisi a raggiungere l'Egitto, ma venivano portati fuori rotta dal
vento di Levante. E siccome il vento non calava, finirono per attraversare le
Colonne d'Eracle e giungere a Tartesso, con la scorta di un dio. A
quell'epoca l'emporio di Tartesso era vergine, sicché i Sami, al loro
ritorno, ricavarono dalle merci il profitto più elevato fra i Greci di
cui abbiamo notizia precisa; dopo naturalmente Sostrato di Egina figlio di
Laodamante, con il quale nessuno è in grado di gareggiare. Come decima
dei guadagni i Sami prelevarono sei talenti di bronzo e ne fecero un grande
vaso, nella forma di un cratere argolico, con all'esterno teste di grifi in
rilievo a scacchiera. Lo dedicarono nel tempio di Era appoggiandolo su tre
giganti di bronzo alti sette cubiti, inginocchiati. A questa impresa
risalgono i solidissimi vincoli di amicizia che legano Cirenei e Terei ai
cittadini di Samo. 153) Quando i Terei che avevano lasciato Corobio a Platea
giunsero a Tera, proclamarono di aver colonizzato un'isola in Libia. Allora i
Terei decisero di inviare coloni, col criterio di un fratello tirato a sorte
ogni due da tutti i loro distretti che sono sette; e decisero che loro guida,
e anche re, fosse Batto. In tal modo spedirono a Platea due penteconteri.
154) Questo lo raccontano i Terei; circa gli avvenimenti successivi
i Terei concordano senz'altro con i Cirenei; ma i Cirenei riferiscono assai
diversamente le vicende di Batto; ecco la loro versione. In Creta sorge la
città di Oasso; a Oasso visse un re, Etearco, il quale aveva una
figlia, di nome Fronima, che rimase orfana di madre; per lei allora Etearco
decise di risposarsi. Ma la nuova moglie pensò bene di essere a pieno
titolo matrigna di Fronima, procurandole guai e macchinando di tutto contro
di lei: la accusò persino di dissolutezza riuscendo a convincere il
marito che le cose stavano proprio come lei sosteneva. Etearco, messo su
dalla moglie, meditò ai danni della figlia un empio progetto. Si
trovava a Oasso un mercante di Tera, Temisone; Etearco lo ospitò a
pranzo a casa sua e lo impegnò con giuramento a rendergli il servizio
che gli avesse chiesto. Quando ebbe giurato, Etearco condusse da lui la
figlia e gliela consegnò, con l'invito a portarsela via e a gettarla
in mare. Temisone si disgustò per l'inganno del giuramento, sciolse il
rapporto di ospitalità ed ecco che fece: presa con sé la ragazza,
salpò e quando fu al largo, liberandosi dal vincolo del giuramento,
legò la ragazza con delle funi e la lanciò in mare; quindi la
issò a bordo e se ne tornò a Tera. 155) In seguito Fronima se la prese come concubina
Polimnesto, un personaggio autorevole a Tera. Passò del tempo e la
ragazza diede alla luce un figlio impedito nella parola e balbuziente, al
quale, secondo quanto narrano Terei e Cirenei, fu posto nome Batto; io credo
peraltro che avesse un altro nome, mutato poi in Batto, dopo il suo arrivo in
Libia, sulla base dell'oracolo emesso per lui a Delfi e grazie all'onore che
gliene derivò. In effetti i Libici chiamano "batto" il re e
io credo che la Pizia vaticinando gli si sia rivolta in lingua libica perché
sapeva che sarebbe diventato re in Libia. Infatti, quando fu adulto, Batto si
recò a Delfi per consultare l'oracolo a proposito della sua voce, e la
Pizia, interrogata, gli rispose:...”Batto sei quì per la voce; ed
invece a fondarvi colonia, Te nella Libia nutrice di greggi mandar vuole
Febo”....( Batto, sei venuto per la tua voce: ma Febo Apollo, il signore,
ti manda colono nella Libia ricca di greggi). Che è come se in greco
gli avesse detto: "Sovrano, sei venuto per la tua balbuzie". Lui
replicò: "Signore, sono venuto fino a te per interrogarti sulla
mia favella, e tu mi profetizzi l'impossibile, ordinandomi di colonizzare la
Libia! E con quali mezzi, con quali forze?". Ma le sue parole non
persuasero certo l'oracolo a un diverso responso; e visto che otteneva sempre
la stessa risposta Batto piantò lì tutto e fece ritorno a Tera.
156) Da allora a lui personalmente e agli altri cittadini di
Tera tutto andava storto. I Terei, non comprendendo il senso delle loro
sciagure, mandarono a Delfi una delegazione per chiedere lumi sulle presenti
disgrazie; e la Pizia sentenziò che, se avessero colonizzato Cirene in
Libia insieme con Batto, gli sarebbe andata meglio. Allora i Terei spedirono
via Batto con due penteconteri. Gli inviati navigarono fino alla Libia, ma
quando poi, non sapendo che altro fare, tornarono a Tera, i Terei li
respinsero via, non li lasciarono accostare a terra, anzi intimarono loro di
ripartire per la Libia. Essi, costretti a farlo, raggiunsero di nuovo la
Libia e colonizzarono nei suoi pressi un'isola, quella chiamata, come si
è detto, Platea. E si dice che l'isola sia grande come l'attuale
città di Cirene. 157) Per due anni abitarono Platea senza che gliene venisse
alcun vantaggio, finché, lasciato sul posto uno di loro, gli altri si
recarono tutti a Delfi; qui giunti, si rivolsero all'oracolo, dichiarando che
stavano abitando la Libia, ma che, malgrado ciò, non ci avevano
guadagnato nulla. La Pizia a tale protesta rispose:...”Se, non avendola vista,
di me, che la vidi, la Libia, Meglio conosci, ben sei di mirabil acume, e
t’ammiro!”...( Se tu conosci meglio di me la Libia ricca di greggi, e io
ci sono stato, e tu invece no, mi complimento assai per la tua sapienza).
Udito il responso, Batto e suoi tornarono indietro; il dio infatti non li
scioglieva dall'obbligo di fondare una colonia, prima che avessero raggiunto
la Libia vera e propria. Arrivati nell'isola, raccolsero l'uomo che vi
avevano lasciato e andarono a colonizzare un territorio del continente
libico, in faccia a Platea; tale località, attorniata da bellissime
alture boscose e bagnata da un fiume su uno dei lati, si chiama Aziri.
158) Abitarono questo posto per sei anni; al settimo dei
Libici,promettendo loro di accompagnarli in una zona migliore, li convinsero
ad abbandonare Aziri e li guidarono da lì verso occidente. E perché i
Greci non vedessero, attraversandolo, il territorio più bello,
calcolarono i tempi del viaggio in modo da farveli transitare di notte; si
tratta della regione detta di Irasa. Li condussero poi presso una sorgente,
che si afferma sia di Apollo e dissero: "Greci, a voi conviene
stanziarvi qua; qua il cielo è forato". 159) Finché vissero Batto, il fondatore, che regnò per
quaranta anni, e suo figlio Arcesilao, che regnò per sedici, i Cirenei
colà residenti rimasero tanti quanti vi erano stati mandati a fondare
la colonia. Sotto il terzo re, Batto soprannominato Felice, la Pizia con un
responso sollecitò tutti i Greci a imbarcarsi per andare ad abitare
con i Cirenei, in Libia; i Cirenei dal canto loro li attiravano con la
prospettiva di una spartizione delle terre. Ecco le parole dell'oracolo:...”Chi
nella Libia,l’amabil contrada, pervenga in ritardo, Quando spartite le terre
saran, dovrà un giorno pentirsi”....( Chi giunge troppo tardi
nell'amabile Libia, quando la terra è già stata distribuita,
dico che un giorno se ne pentirà). A Cirene dunque convenne una gran
massa di gente, sicché i Libici circostanti e il loro re (che si chiamava
Adicra), vedendosi sottrarre molte terre e sentendosi derubati e oltraggiati
dai Cirenei, mandarono un messaggero in Egitto e si consegnarono al re
egiziano Aprieo; Aprieo raccolse un grosso esercito di Egiziani e lo
inviò contro Cirene. Ma i Cirenei sconfinarono in armi nel territorio
di Irasa dalle parti della sorgente di Teste e si scontrarono con gli
Egiziani, riportando la vittoria. Gli Egiziani, dato che non si erano mai
misurati con i Greci e combattevano con disprezzo della propria vita, furono
massacrati al punto che ben pochi di loro fecero ritorno in Egitto. Ne
seguì che gli Egiziani, rimproverandogli anche questa sconfitta, si
ribellarono ad Aprieo. 160) Figlio di Batto Felice fu Arcesilao il quale, come
divenne re, per prima cosa lottò contro i propri fratelli, finché questi,
lasciando Cirene, se ne andarono altrove in Libia a fondare di propria
iniziativa la città che oggi si chiama, come allora, Barca. E mentre
fondavano Barca sobillavano i Libici contro i Cirenei. Più tardi
Arcesilao marciò contro i Libici che li avevano accolti, gli stessi
appunto che si erano ribellati. I Libici, per paura di Arcesilao, fuggirono
verso le regioni orientali della Libia e Arcesilao li incalzò, finché
non li raggiunse a Leucone di Libia e i Libici non decisero di scendere in
campo. Nello scontro i Libici sbaragliarono i Cirenei, al punto che 7000
soldati di Cirene caddero sul luogo della battaglia. Dopo questa disfatta,
Arcesilao, che stava male e aveva bevuto un farmaco, fu strangolato dal
fratello Learco; Learco a sua volta fu ucciso a tradimento dalla moglie di
Arcesilao, che si chiamava Eryxo. 161) Il regno passò nelle mani di Batto, figlio di
Arcesilao, che era zoppo per una malformazione al piede. I Cirenei, vista la
disgrazia che li aveva colpiti, mandarono a chiedere all'oracolo di Delfi con
quale sistema di governo avrebbero potuto vivere nel modo migliore. La Pizia
li esortò a far venire da Mantinea d'Arcadia un riformatore. I Cirenei
dunque fecero la richiesta e i Mantinei mandarono un uomo fra i più
illustri della città, di nome Demonatte. Arrivato a Cirene, costui
studiò la situazione nei dettagli e istituì tre tribù,
dividendo i cittadini in base al seguente criterio: formò una
tribù con i Terei e i Perieci, una coi Peloponnesiaci e i Cretesi, la
terza con tutti gli isolani; poi riservò al re Batto soltanto le aree
dei santuari e le funzioni religiose, mettendo a disposizione del popolo
tutte le altre prerogative che prima spettavano ai re. 162) Così stavano le cose all'epoca del re Batto, ma
sotto suo figlio Arcesilao si produsse, sul problema delle prerogative, un
grosso rivolgimento. Arcesilao, figlio di Batto lo zoppo e di Feretima,
dichiarò che non si sarebbe attenuto agli ordinamenti di Demonatte di
Mantinea e rivendicò gli stessi privilegi appartenuti ai suoi antenati.
Tentò quindi un colpo di stato, ma fu sconfitto e dovette riparare a
Samo, mentre sua madre si rifugiava a Salamina di Cipro. A quell'epoca a
Salamina comandava Eveltonte, lo stesso Eveltonte che consacrò il
braciere di Delfi che si trova nel tesoro dei Corinzi, mirabile oggetto.
Giunta presso di lui, Feretima chiese un esercito che li scortasse a Cirene.
Eveltonte in realtà era disposto a donarle qualunque cosa tranne un
esercito; Feretima, prendendo quanto le veniva offerto, diceva che anche così
andava bene, ma che sarebbe stato ancora meglio se le avesse dato l'esercito
richiesto. Rispondeva così ogni volta che riceveva un regalo, finché
Eveltonte le inviò in dono un fuso d'oro e una conocchia, con tanto di
lana; di fronte alla consueta risposta di Feretima, Eveltonte replicò
che erano quelli i regali adatti a una donna, altro che eserciti! 163) Nel frattempo Arcesilao, che si trovava a Samo, radunava
uomini col miraggio di una distribuzione delle terre. Raccolto un contingente
notevole, si recò a Delfi a consultare l'oracolo sul suo rientro in
patria. E la Pizia gli rispose: "Con quattro Batti e quattro Arcesilai,
otto generazioni di uomini, il Lossia vi concede di regnare su Cirene:
più di tanto vi esorta a non provarci neppure. Tu, dunque, torna nel
tuo paese, ma stattene calmo. E se trovi il forno pieno di anfore, non le
cuocere, ma falle partire con vento propizio; se accenderai il forno non
entrare nella "cinta dalle acque", altrimenti morirai, tu stesso,
assieme al toro più bello". 164) Tale fu la risposta della Pizia. Arcesilao prese con sé
gliuomini reclutati a Samo e rientrò a Cirene, e quando fu di nuovo
padrone della situazione, si scordò dell'oracolo: cominciò a
vendicarsi dei suoi avversari, che lo avevano costretto all'esilio. Alcuni di
essi si allontanarono senz'altro dal paese, altri furono catturati da
Arcesilao e inviati a Cipro per essere uccisi. Questi ultimi furono
trascinati dai venti nel paese di Cnido, salvati dai locali e spediti a Tera.
Altri Cirenei si rifugiarono su di un'alta torre, proprietà di
Aglomaco; Arcesilao fece ammucchiare intorno alla torre cataste di legna e li
bruciò vivi. Ma quando si rese conto che il suo atto corrispondeva
alle parole dell'oracolo (la Pizia non gli concedeva di cuocere le anfore
trovate nel forno), si escluse volontariamente dalla città dei
Cirenei: temeva la morte preconizzata dal dio ed era convinto che Cirene
fosse il luogo cinto dall'acqua. Aveva per moglie una sua parente, figlia del
re dei Barcei; il re si chiamava Alazir, e presso di lui si trasferì
Arcesilao; ma dei Barcei, assieme ad alcuni esuli di Cirene, quando lo
seppero, lo aspettarono in piazza e lo uccisero, e con lui uccisero anche il
suocero Alazir. Così Arcesilao compì il suo destino: volente o
nolente aveva frainteso le parole dell'oracolo. 165) Sua madre Feretima, finché Arcesilao se ne stava a Barca
autore ormai del proprio male, deteneva personalmente le prerogative del
figlio a Cirene, amministrando tutto il resto e partecipando alle sedute del Consiglio.
Quando seppe che il figlio le era morto a Barca, se ne andò in esilio
in Egitto, dove in effetti a suo credito aveva alcuni servigi resi da
Arcesilao a Cambise figlio di Ciro. Suo figlio era infatti l'Arcesilao che
aveva consegnato Cirene a Cambise e si era autoimposto un tributo. Giunta in
Egitto, Feretima si rivolse come supplice ad Ariande e lo esortò a
vendicarla, sostenendo che il figlio era morto per la sua politica
filopersiana. 166) Ariande era quello stesso che, nominato governatore d'Egitto
da Cambise, più tardi osò paragonarsi a Dario e fece una brutta
fine: infatti, saputo e constatato che Dario desiderava lasciare un ricordo
di sé quale mai nessun re aveva realizzato, volle in questo imitarlo, fino a
quando non ottenne la meritata ricompensa. Dario coniava monete d'oro
purissimo, privo di scorie il più possibile, Ariande, da governatore
dell'Egitto, faceva lo stesso con l'argento: tanto che ancora oggi l'argento
più puro è detto "ariandico". Ma quando Dario lo
venne a sapere, con un diverso pretesto (lo accusò di ribellione) lo
mandò a morte. 167) Nel caso nostro Ariande ebbe pietà di Feretima e
le mise a disposizione l'intero esercito egiziano, fanteria e flotta. Come
comandanti assegnò alla fanteria Amasi, un uomo di Marafi, e alla
flotta Badra, della stirpe dei Pasargadi. Prima però di dare
all'esercito l'ordine di partire, Ariande mandò un ambasciatore a
Barca per sapere chi avesse ucciso Arcesilao; i Barcei si assunsero una
responsabilità collettiva, perché tutti avevano subìto numerosi
torti da Arcesilao. Appreso ciò, Ariande spedì il suo esercito
insieme con Feretima. Questa spiegazione dell'impresa era più che
altro un pretesto; secondo me, l'esercito fu mandato a soggiogare la Libia.
In quel momento delle molte e varie popolazioni libiche esistenti soltanto
poche erano sottomesse al re persiano, le altre di Dario non si curavano
proprio. 168) Ed ecco come sono distribuite nel territorio le
popolazioni libiche. A partire dall'Egitto i primi abitanti della Libia sono
gli Adirmachidi, che hanno usanze per lo più di tipo egiziano, ma
vestono come gli altri Libici. Le loro donne su ciascuna gamba portano un
cerchietto di bronzo; portano capelli lunghi e quando acchiappano un
pidocchio gli danno un morso in cambio dei molti ricevuti e lo gettano via.
Sono gli unici Libici a fare così; e sono anche gli unici a mostrare
al loro re le ragazze vergini che stanno per sposarsi: e quelle che
rispondono ai gusti del re perdono con lui la propria verginità.
Questi Adirmachidi si estendono dall'Egitto fino al porto detto di Plino.
169) Confinano con loro i Giligami, il cui territorio si
estendeverso occidente fino all'isola di Afrodisiade. Fra le due regioni si
situa l'isola di Platea, quella colonizzata dai Cirenei, e sul continente sorgono
il porto di Menelao e la città di Aziri, che fu abitata dai Cirenei. E
da qui si comincia a trovare il silfio: infatti il silfio cresce da Platea
fino all'imboccatura della Sirte. I Giligami possiedono usanze molto simili a
quelle degli altri. 170) A ovest dei Giligami risiedono gli Asbisti, oltre
Cirene,nell'interno; gli Asbisti non arrivano fino al mare: la zona costiera
appartiene ai Cirenei. Fra i Libici essi non sono certo i meno abili
guidatori di quadrighe, anzi, e come leggi prendono a modello, per lo
più, quelle dei Cirenei. 171) A occidente degli Asbisti ci sono gli Auschisi;
risiedono a sud di Barca e raggiungono il mare all'altezza delle Evesperidi.
In mezzo agli Auschisi vivono i Bacali, un piccolo popolo; raggiungono il
mare presso Tauchira, città della Barcea. Hanno le stesse usanze dei
Libici stanziati oltre Cirene. 172) A ovest degli Auschisi abitano i Nasamoni, un popolo
alquanto numeroso: essi d'estate lasciano le greggi sulla costa e si
addentrano nell'interno fino alla località di Augila, per la raccolta
dei datteri; qui le piante crescono in gran numero, rigogliose e tutte
fruttifere. Vanno a caccia di cavallette, le fanno seccare al sole, le
tritano, le mescolano al latte e si bevono il tutto. Normalmente possiedono
ciascuno molte mogli in comune e si uniscono ad esse, un po' come i
Massageti: piantano un bastone davanti alla casa e si congiungono con loro.
La prima volta, quando un Nasamone prende moglie, è usanza che la
sposa passi la prima notte con gli invitati al banchetto, unendosi con tutti;
ognuno di loro, dopo il rapporto, le offre in dono ciò che si era
portato da casa. Giuramenti e divinazione funzionano in questo modo: giurano
su quanti hanno fama di essere stati fra loro giustissimi e valorosissimi,
toccandone le tombe, e divinano il futuro recandosi ai sepolcri dei loro
antenati, recitando preghiere e mettendosi lì a dormire; l'oracolo si
deduce da quanto ciascuno vede in sogno. Ed ecco come si scambiano pegno di
reciproca fedeltà: uno porge da bere dalla propria mano e a sua volta
beve dalla mano dell'altro; se non hanno a disposizione niente di liquido
raccolgono della polvere da terra e la leccano. 173) Limitrofi dei Nasamoni sono gli Psilli, i quali
però perirono tutti come segue. Il vento Noto, a furia di soffiare,
aveva prosciugato le riserve d'acqua, sicché il loro territorio, situato
all'interno della Sirte, era arido; gli Psilli di comune accordo decisero di
marciare in guerra contro il Noto (riferisco ciò che raccontano i
Libici), ma quando furono nel deserto sabbioso le raffiche del Noto li
seppellirono. Dalla loro definitiva scomparsa il territorio appartiene ai
Nasamoni. 174) Oltre i Nasamoni, verso sud, nella zona popolata da
bestieferoci vivono i Garamanti, che evitano ogni essere umano e qualunque
compagnia; non possiedono armi da guerra, né sanno come difendersi. 175) Questi dunque vivono oltre i Nasamoni; lungo la
costa,invece, a ovest, ci sono i Maci, che si tagliano i capelli a cresta,
lasciando crescere la parte centrale della capigliatura e radendosi a zero
sulle due parti laterali; in guerra, per proteggersi il corpo, vestono pelli
di struzzo. Da una altura detta delle Cariti il fiume Cinipe scorre
attraverso il paese e sfocia in mare. Il colle delle Cariti è
ricoperto da una folta boscaglia, mentre tutta la Libia fin qui descritta
è completamente spoglia. Dal mare al colle ci sono venti stadi.
176) Accanto ai Maci vivono i Gindani; le loro donne, intorno
alle caviglie, portano ciascuna svariati anelli di cuoio in gran numero e con
il seguente criterio (così si racconta): una striscia intorno alle
caviglie per ogni uomo con cui si siano unite; e quella che ne ha di
più è stimata la migliore, per essere stata amata dal maggior
numero di uomini. 177) Il tratto di costa che si protende sul mare nel
territorio dei Gindani è abitato dai Lotofagi, che vivono cibandosi
esclusivamente del frutto del loto. Il frutto del loto è grande quanto
una cipolla e ricorda, per la dolcezza, il dattero. I Lotofagi ne ricavano
anche un vino. 178) Accanto ai Lotofagi, lungo la costa, ci sono i Macli;
anch'essi si nutrono con il loto, ma non esclusivamente come i Lotofagi ora
citati. Il loro territorio si estende fino a un grande fiume che si chiama
Tritone e sfocia nella vasta palude Tritonide; nella palude si trova l'isola
detta di Fla, che gli Spartani, così si racconta, dovevano colonizzare
in seguito a un oracolo. 179) E anche un'altra leggenda si racconta: Giasone,
terminata la costruzione della nave Argo sotto il monte Pelio, vi
imbarcò le bestie per un grande sacrificio e un tripode di bronzo; poi
circumnavigò il Peloponneso con l'intenzione di raggiungere Delfi.
Come fu all'altezza del capo Malea si levò un forte vento di nord che
lo trascinò fino in Libia. Prima di scorgere la terraferma finì
fra le secche della palude Tritonide; non sapeva come uscirne, ma gli
apparve, si dice, Tritone. Il dio invitò Giasone a consegnargli il
tripode, con la promessa di mostrargli la via d'uscita e di farli così
ripartire senza danni. Giasone obbedì e Tritone gli mostrò come
navigare fuori dalle secche; poi il dio depose l'oggetto nel proprio
santuario, non senza aver divinato dal tripode e preannunciato a Giasone e ai
suoi tutto il futuro: quando un discendente degli Argonauti si fosse portato
via quel tripode, allora, inevitabilmente, cento città greche
sarebbero state fondate sulle rive della Palude Tritonide. E pare che i
Libici abitanti del luogo, udito ciò, abbiano nascosto il tripode.
180) Accanto ai Macli vivono gli Ausei; Ausei e Macli abitano
intorno alla palude e il fiume Tritone segna il confine fra loro. I Macli si
fanno crescere i capelli lunghi dietro, gli Ausei davanti. Nell'annuale festa
dedicata ad Atena le ragazze degli Ausei si dividono in due gruppi e
combattono fra loro a sassate e a colpi di bastone; dicono di onorare in tal
modo le patrie tradizioni in gloria della divinità locale, che noi
chiamiamo Atena; le ragazze che muoiono per le ferite riportate le chiamano
"false-vergini". Ecco cosa fanno prima di lasciarle combattere: a
spese della comunità adornano una ragazza, di volta in volta la
più bella, con un elmo di Corinto e una armatura completa greca, la
fanno salire su un carro e la conducono in giro per la palude. Con quali armi
ornassero le ragazze prima che i Greci giungessero a stabilirsi fra loro, non
saprei dirlo, suppongo con armi egiziane; in effetti secondo me lo scudo
rotondo e l'elmo sono arrivati in Grecia dall'Egitto. A sentir loro Atena
nacque figlia di Posidone e di Tritonide, la palude, ma poi, avendo qualcosa
da rimproverare al padre, si affidò a Zeus, che l'avrebbe adottata
come figlia propria. Così raccontano. Praticano la comunanza delle
donne, senza matrimoni e accoppiandosi come animali. Quando un bambino di una
donna comincia ad assumere una sua fisionomia, entro tre mesi gli uomini si
riuniscono e lo dichiarano figlio di quello a cui più assomigli.
181) Ecco dunque elencati i Libici nomadi della costa, oltre
iquali, verso l'interno, c'è la Libia popolata da bestie feroci; al di
là di essa comincia un ciglio sabbioso e desertico, che va da Tebe in
Egitto fino alle Colonne d'Eracle. In questa zona, a circa dieci giorni di
cammino l'una dall'altra, si trovano delle collinette ricoperte da
agglomerati di grossi blocchi di sale; proprio dalla cima di queste collinette
scaturisce uno zampillo d'acqua fresca e dolce, nel bel mezzo del sale;
attorno vi abitano uomini che sono gli ultimi oltre la regione delle bestie
feroci, verso il deserto: a partire da Tebe i primi (a dieci giorni di
cammino da Tebe) sono gli Ammoni, padroni del santuario derivato dal
santuario di Zeus a Tebe; infatti anche a Tebe, come ho già
precedentemente ricordato, Zeus viene rappresentato con volto di capro. Gli
Ammoni possiedono anche un'altra sorgente d'acqua, che è tiepida all'alba
e più fresca nell'ora in cui il mercato è più affollato;
a mezzogiorno poi è decisamente fredda: è allora che la usano
per innaffiare gli orti; col declinare del giorno l'acqua perde a poco a poco
la freschezza, finché il sole tramonta e l'acqua è tiepida; poi si
scalda sempre più fino a mezzanotte, quando bolle furiosamente; poi la
mezzanotte passa, si va verso l'aurora e l'acqua di nuovo si raffredda. E per
indicare questa sorgente, la chiamano "fonte del sole". 182) Dopo gli Ammoni, attraverso il ciglio sabbioso, a
distanzadi altri dieci giorni di viaggio, c'è un colle di sale simile
a quello degli Ammoni, con tanto di sorgente, intorno al quale vivono uomini.
Il nome di questa località è Augila. È qui che vengono i
Nasamoni a fare la loro provvista di datteri. 183) Ad altri dieci giorni di cammino da Augila ci sono una
collina di sale, una sorgente e palme da datteri in gran numero, come nelle
altre località; vi abitano uomini che si chiamano Garamanti,
popolazione assai numerosa; riescono a coltivare accumulando terra sopra lo
strato di sale. Da lì la strada più breve conduce presso i
Lotofagi, e sono trenta giorni di viaggio; fra loro si trovano anche i buoi
che pascolano camminando all'indietro; si comportano così per la
seguente ragione: hanno le corna piegate in avanti, e quindi pascolano
retrocedendo perché avanzando le corna si pianterebbero per terra.
Nessun'altra caratteristica li distingue dagli altri buoi a parte il modo di
incedere e la pelle, per spessore e ruvidezza. Questi Garamanti sulle loro
quadrighe danno la caccia agli Etiopi Trogloditi; in effetti gli Etiopi
Trogloditi sono gli uomini più veloci al mondo nella corsa tra quelli
di cui abbiamo sentito parlare. I Trogloditi si cibano di serpenti, lucertole
e altri rettili del genere; parlano una lingua che non somiglia a
nessun'altra, anzi emettono strida assai acute, come i pipistrelli. 184) Ad altri dieci giorni di cammino dai Garamanti ci sono
una collina di sale e una sorgente; attorno vi abitano uomini che si chiamano
Ataranti: che sono gli unici uomini al mondo, a nostra conoscenza, a non
avere nomi personali; tutti assieme si chiamano Ataranti, ma individualmente
non hanno nomi. Maledicono il sole, quando picchia forte, e oltre a maledirlo
pronunciano al suo indirizzo tutte le imprecazioni possibili, perché con il
suo ardore li sfinisce, loro e la loro terra. Dopo dieci ulteriori giorni di
marcia, altra collina di sale, altra sorgente e altri uomini stanziati
intorno a essa. Poco oltre si innalza il monte chiamato Atlante. L'Atlante
è un monte stretto e arrotondato su ogni versante, ma tanto alto che
le sue vette, pare, non si possono nemmeno vedere: non sono mai sgombre di
nubi, né d'estate, né d'inverno; a sentire gli abitanti del luogo, l'Atlante
è la colonna che sorregge la volta celeste. La popolazione ha derivato
il suo nome da quello del monte: si chiamano infatti Atlanti. Affermano di
non cibarsi di alcun animale e di non sognare. 185) Fino agli Atlanti sono in grado di elencare i nomi dei
popoli stanziati nel ciglio sabbioso, oltre non più; ma la zona di
sabbia si estende fino alle colonne d'Eracle e oltre. In tale regione si
trova una miniera di sale ogni dieci giorni di viaggio e uomini stanziati;
tutte queste genti si costruiscono abitazioni con blocchi di sale; si tratta
già di zone della Libia prive di piogge: in effetti i muri fatti di
sale non resterebbero in piedi se vi piovesse. Il sale estratto dal suolo si
presenta di colore bianco o rosso. Al di là di questa striscia di territorio,
verso il sud e l'interno della Libia, il paese è un deserto
senz'acqua, senza animali, senza pioggia e alberi, senza la minima traccia di
umidità. 186) In sostanza fino alla Palude Tritonide i Libici sono
nomadi che si cibano di carne e bevono latte, che si astengono rigidamente
dalle femmine dei bovini, per la stessa ragione degli Egiziani, e che non
allevano maiali. Neanche le donne dei Cirenei considerano lecito mangiare
carne di vacca: se ne astengono in onore dell'Iside egiziana; per questa dea
anzi osservano digiuni e celebrano feste. Le donne di Barca evitano di
consumare carne di vacca e anche carne suina. 187) Tale è dunque la situazione. A ovest della palude
Tritonide i Libici non sono più nomadi, non ne possiedono le usanze, e
non fanno ai loro bambini quanto i nomadi praticano abitualmente. Ecco
infatti cosa fanno i nomadi libici, se proprio tutti non saprei dirlo con
certezza, ma certo parecchi di loro. Quando i loro bambini hanno quattro
anni, con grasso estratto dalla lana di pecora gli cauterizzano le vene sulla
sommità del capo, altri invece le vene delle tempie, allo scopo di
impedire per sempre all'umore flemmatico che scorre giù dalla testa di
nuocere alla salute del ragazzo. E dicono di essere sanissimi grazie a
ciò. Ed effettivamente i Libici sono i più sani fra quanti
uomini conosciamo; che questa ne sia la spiegazione non potrei affermarlo con
certezza, ma è un fatto che sono sanissimi. Nel caso che i bambini,
mentre li cauterizzano, vengano presi da convulsioni, hanno trovato un
rimedio: li salvano aspergendoli con orina di capro. Riferisco quanto
raccontano i Libici. 188) Ecco come i nomadi eseguono i sacrifici: staccano come
primizia l'orecchio della vittima e lo scagliano al di sopra della casa,
fatto ciò torcono il collo all'animale. Sacrificano soltanto al sole e
alla luna; o meglio tutti i Libici al sole e alla luna, quelli che abitano
nei pressi della palude Tritonide ad Atena prima di tutto, poi a Tritone e a
Posidone. 189) La veste e l'egida delle statue di Atena i Greci le
presero dalle donne libiche, tranne pochi particolari (l'abito femminile
libico è di cuoio, le frange che pendono dalle egide sono semplici
strisce e non rappresentano serpenti); per il resto il modello è
rispettato fedelmente. D'altra parte persino il nome rivela la provenienza
libica dell'abbigliamento dei Palladi: le donne di Libia portano intorno alla
veste delle pelli di capra rasate e ornate con frange, tinte di rosso, e da
queste pelli (egee) i Greci derivarono il termine "egida". A mio
avviso anche il grido acuto rituale che accompagna i sacrifici è
originario della Libia: esso è molto in uso fra le donne della Libia,
e con begli effetti. I Greci poi hanno appreso dai Libici ad aggiogare tiri a
quattro cavalli. 190) I nomadi, eccetto i Nasamoni, seppelliscono i defunti
alla maniera dei Greci; i Nasamoni li seppelliscono seduti: e quando qualcuno
sta per esalare l'ultimo respiro, stanno attenti a metterlo seduto, che non
muoia coricato. Le loro abitazioni sono fatte di gambi di asfodelo e di
giunco intrecciati, e sono trasportabili. Tali sono dunque gli usi di queste
genti. 191) A ovest del fiume Tritone, presso gli Ausei, vivono
già de Libici agricoltori, che si chiamano Massi, abituati a possedere
dimore fisse. Essi portano capelli lunghi sul lato destro del capo, mentre
radono il sinistro, e si tingono il corpo col minio. Sostengono di essere
discendenti degli eroi di Troia. Questa zona e la restante Libia occidentale
sono ben più popolate da animali e folte di vegetazione rispetto alla
regione dei nomadi. In effetti la parte orientale della Libia, quella abitata
dai nomadi, si presenta piatta e sabbiosa, fino al fiume Tritone; invece a
partire dal Tritone verso occidente, il paese degli agricoltori è
assai montuoso, boscoso e ricco di fiere. Vi si trovano i serpenti più
grossi e i leoni, gli elefanti; e orsi, aspidi, asini con le corna, i
cinocefali, gli acefali (che hanno gli occhi sul petto, a quanto, almeno,
asseriscono i Libici), gli uomini e le donne selvatici, e molte altre specie
di animali non inventati. 192) Nel paese dei nomadi non si trova alcuno di questi
animali: ci sono invece antilopi, gazzelle, bufali e asini, non gli asini con
le corna, un'altra specie, i "non bevitori" (effettivamente non si
abbeverano), e gli orii, con le cui corna si fabbricano i manici delle cetre
fenicie (si tratta di un animale di taglia bovina); e poi ancora piccole
volpi, iene, istrici, montoni selvatici, dittii, sciacalli, pantere; e borii;
coccodrilli di terra lunghi tre cubiti, molto simili alle lucertole, struzzi
terrestri e piccoli serpentelli, muniti ciascuno di un unico corno. In Libia
insomma vivono questi animali e tutti quelli che si trovano anche altrove,
tranne il cervo e il cinghiale; cervi e cinghiali, in Libia, non ce ne sono
affatto. In Libia esistono tre specie di topi: i cosiddetti dipodi, gli
zegeri (vocabolo della lingua libica, che vale il greco "colline")
e gli echini. Tra il silfio vivono anche le donnole, uguali a quelle di
Tartesso. Ecco dunque gli animali del paese dei Libici nomadi; almeno per
quanto avanti abbiamo potuto spingere le nostre indagini. 193) Accanto ai Maxi della Libia vivono gli Zaueci, le cui
donne guidano i carri in battaglia. 194) Accanto agli Zaueci stanno i Gizanti, presso i quali le
api producono miele in abbondanza (ma ancor più abbondante, si dice,
è il miele prodotto artigianalmente). Tutti costoro si tingono il
corpo col minio e si cibano di carne di scimmia; scimmie ne hanno a iosa a
disposizione, sulle montagne. 195) I Cartaginesi dicono che di fronte ai Gizanti si trova
un'isola, detta Ciraui, lunga 200 stadi e assai stretta, raggiungibile a
piedi dalla terraferma, ricca di ulivi e di vigneti; vi si troverebbe un lago
nel quale le ragazze del luogo, mediante penne di uccelli impeciate,
trarrebbero pagliuzze d'oro dal fango. Non so se questo sia vero, scrivo
quanto si racconta; ma potrebbe anche essere: io stesso ho visto con i miei
occhi a Zacinto trarre della pece dall'acqua di un lago. A Zacinto ci sono
parecchi laghi, il più grande misura settanta piedi su ogni lato ed
è profondo due orgie; immergono in questo lago una pertica che porta
fissato sull'estremità un ramo di mirto, e con questo mirto tirano su
una pece che odora di bitume, ma per il resto è di qualità
migliore della pece di Pieria; la raccolgono versandola in una fossa scavata
accanto al lago; quando ne hanno accumulata parecchia, allora dalla fossa la
travasano nelle anfore. Qualunque cosa cada nel lago passa sotto terra e
ricompare nel mare, che si trova a circa quattro stadi di distanza dal lago.
Sicché anche le notizie provenienti dall'isola situata sulla costa libica
potrebbero rispondere alla realtà. 196) I Cartaginesi affermano l'esistenza di un territorio
libico,con relative popolazioni, anche al di là delle Colonne
d'Eracle; quando si recano presso queste popolazioni con le loro mercanzie le
scaricano sulla spiaggia in bell'ordine, risalgono sulle navi e mandano un
segnale di fumo; gli indigeni vedono il fumo e accorrono verso il mare,
depositano dell'oro in cambio delle merci e quindi si allontanano dalle merci
stesse. I Cartaginesi sbarcano, esaminano l'oro e, se gli sembra adeguato al
valore delle merci, lo prendono e se ne vanno; se invece gli sembra poco,
risalgono sulle navi e aspettano: i locali tornano e aggiungono altro oro
fino a soddisfarli. Nessuno dei due cerca di raggirare l'altro: i Cartaginesi
non toccano l'oro finché non gli sembra adeguato al valore delle merci, e gli
indigeni non toccano le merci prima che gli altri abbiano ritirato l'oro.
197) Queste sono le popolazioni libiche di cui siamo in grado
di indicare il nome. La maggior parte di loro non si è mai data
pensiero del re dei Medi, né allora né adesso. Posso aggiungere riguardo a
questo paese, che lo abitano soltanto quattro gruppi etnici e non uno di
più, per quanto ne sappiamo, di cui due sono autoctoni e due no; gli
autoctoni sono Libici ed Etiopi, stanziati rispettivamente nel nord e nel sud
della Libia, Fenici e Greci invece vi sono immigrati. 198) Secondo me neppure per la qualità dei terreni la
Libia può essere seriamente paragonata all'Asia e all'Europa, fatta
eccezione per la sola regione di Cinipe (lo stesso nome indica il fiume e la
regione); questa è alla pari con le terre più fertili nella produzione
di cereali e non somiglia minimamente al resto della Libia: è una
terra nera attraversata da sorgenti, non ha problemi di arsura né riceve
pioggia in eccesso (in questa parte della Libia, infatti, piove). La
produttività dei terreni è pari a quella della Babilonia. Una
buona terra è pure quella abitata dagli Evesperiti: quando produce al
massimo delle sue possibilità rende cento per uno; ma la regione del
Cinipe rende anche trecento. 199) A sua volta il paese di Cirene, che è abitato da
genti nomadi ed è il tratto più elevato sul livello del mare in
questa parte della Libia, presenta sorprendentemente tre stagioni di
raccolta; i primi a maturare per la mietitura e la vendemmia sono i frutti
della zona costiera; appena questi sono stati raccolti, si presentano maturi
e pronti i frutti della zona intermedia, al di sopra della costa, zona detta
"le alture"; è terminato il raccolto nella fascia intermedia
ed ecco già belli e maturi i prodotti della fascia superiore; insomma
quando è pronto l'ultimo raccolto, il primo è già stato
mangiato e bevuto. In tal modo la stagione di raccolta tiene occupati i
Cirenei per ben otto mesi. E basti quanto si è detto. 200) I Persiani inviati a soccorso di Feretima, partiti
dall'Egitto al comando di Ariande, giunsero a Barca e subito posero l'assedio
alla città, esigendo con vari messaggi la consegna dei responsabili
dell'assassinio di Arcesilao: ma dato che tutta la popolazione vi era
implicata, i Barcei non accettarono trattative. Allora i Persiani assediarono
Barca per nove mesi, scavando gallerie sotterranee che portassero alle mura e
sferrando durissimi assalti. Ma ecco cosa escogitò un fabbro per
individuare le gallerie: portava in giro all'interno delle mura uno scudo di
bronzo e lo appoggiava al suolo della città; dovunque altro lo appoggiasse,
lo scudo suonava sordo, ma sopra le gallerie il bronzo rimbombava. Allora i
Barcei scavavano a loro volta nello stesso punto e massacravano i Persiani
che stavano scavando. Ecco dunque cosa fu inventato contro le gallerie;
quanto agli attacchi diretti, i Barcei li rintuzzavano efficacemente. 201) Siccome le cose andavano per le lunghe e gravi erano le
perdite da entrambe le parti, e in particolare fra i Persiani, il comandante
della fanteria Amasi ideò un piano; avendo compreso che i Barcei non
li si poteva prendere con la forza, ma ingannare sì, agì come
segue: una notte fece scavare una larga fossa, vi stese sopra delle tavole
poco resistenti e sopra le tavole accumulò la terra di riporto, fino a
pareggiarne il livello col terreno circostante. Appena giorno invitò i
Barcei a trattare; essi accolsero con favore l'iniziativa, finché si decise
di stipulare un accordo; e stipularono dunque un accordo di questo tenore (da
notare che giurarono solennemente stando sopra la fossa occultata): che fino
a quando quella terra sarebbe rimasta com'era, il giuramento rimaneva valido
in tutto il paese; i Barcei si dichiaravano pronti a pagare al re di Persia
un tributo adeguato e i Persiani si impegnavano a non mutare l'assetto
politico della città di Barca. Dopo il giuramento i Barcei, fiduciosi
nei patti, uscirono fuori della città e permisero a ogni Persiano che
lo volesse di entrare dentro le mura, e spalancarono tutte le porte. Ma i
Persiani fracassarono il ponte di assi nascosto e piombarono dentro la cinta.
Il tavolato che avevano allestito lo fracassarono per mantenere il
giuramento, avendo promesso ai Barcei che il patto sarebbe restato in vigore
finché quella terra rimaneva nello stato in cui era allora. Una volta
distrutto il tavolato, l'impegno non esisteva più. 202) Feretima, quando i Barcei maggiormente implicati
nell'assassinio di Arcesilao le furono consegnati dai Persiani, ordinò
che venissero impalati tutto attorno alle mura; alle loro mogli fece tagliare
i seni e li appese tutto attorno alle mura. Quanto ai restanti Barcei
invitò i Persiani a spartirseli, a eccezione di quanti erano
discendenti di Batto e non avevano partecipato all'assassinio. A questi
Feretima affidò la città. 203) I Persiani, ridotti in schiavitù gli altri
Barcei, presero la via del ritorno; quando furono all'altezza di Cirene, i
Cirenei per sacro rispetto di un oracolo li lasciarono attraversare la
città. Mentre l'esercito passava in mezzo alla città, il
comandante della flotta Badre premeva perché la si occupasse, ma Amasi, il
comandante della fanteria, non lo permise, sostenendo che Barca era la sola
città greca contro la quale erano stati inviati; più tardi,
quando già l'avevano superata e stavano ormai sul colle di Zeus Liceo,
si pentirono di non essersene impadroniti e tentarono di entrarvi una seconda
volta; ma i Cirenei non glielo permisero. I Persiani, pur senza che nessuno
si opponesse in armi, ebbero paura, si ritirarono di circa sessanta stadi e
si accamparono. Mentre stavano sistemando i bivacchi, giunse a richiamarli in
patria un messaggero inviato da Ariande. Chiesero dunque vettovaglie ai
Cirenei e, ottenutele, le caricarono su e si mossero verso l'Egitto. Da
lì in poi finirono fra i Libici, i quali uccidevano quanti di loro
erano lasciati indietro e i ritardatari per procurarsi vesti ed
equipaggiamento; finché i Persiani giunsero in Egitto. 204) Questa spedizione persiana penetrò in Libia fino
agli Evesperiti. I Barcei fatti schiavi furono deportati dall'Egitto e
consegnati al re di Persia; il re Dario diede loro da abitare un villaggio
della Battriana, a cui essi posero nome Barca; e ancora ai miei tempi
risultava abitato nella Battriana. 205) Neppure Feretima terminò bene i suoi giorni.
Infatti quando ritornò in Egitto, dopo essersi vendicata in Libia sui
cittadini di Barca, morì di mala morte: ancora viva brulicava di
vermi. Perché le vendette degli uomini si attirano l'odio degli dèi,
quando sono eccessive. E tale era stata la vendetta che Feretima moglie di
Batto si era presa sugli abitanti di Barca. Libro V 1)I Persiani lasciati da Dario in Europa agli ordini di
Megabazo sottomisero innanzitutto, fra le popolazioni dell'Ellesponto, i
Perinti, che non volevano essere servi di Dario e che in precedenza avevano
subíto una dura lezione anche da parte dei Peoni. Infatti un oracolo divino
aveva esortato i Peoni dello Strimone a muovere guerra ai Perinti e ad
attaccarli, se i Perinti schierati di fronte a loro li avessero chiamati
gridandone il nome; in caso contrario non dovevano attaccarli. E così
appunto si regolavano i Peoni. Mentri i Perinti erano schierati di fronte a
loro nei sobborghi della città, per sfida ebbe luogo un triplice
duello: opposero un uomo a un uomo, un cavallo a un cavallo, un cane a un
cane. Quando i Perinti, ormai vincitori in due degli scontri, cominciavano a
intonare il peana tutti contenti, i Peoni pensarono che quello appunto
intendeva il responso e si dissero l'un l'altro, immagino: "Forse ora
l'oracolo si avvera, ora tocca a noi!". Insomma i Peoni si scagliarono
contro i Perinti che cantavano il peana e li sconfissero duramente lasciando
pochi superstiti. 2) Ecco cos'era capitato una volta a opera dei Peoni;
allora invece, dato che i Perinti si battevano da valorosi per la
libertà, i Persiani e Megabazo li sopraffecero solo grazie alla
superiorità numerica. Megabazo, dopo la conquista della regione di
Perinto, spinse il suo esercito attraverso la Tracia, assoggettando al
sovrano tutte le città e le genti che vi si trovavano. Questo appunto
gli era stato ordinato da Dario, di sottomettere la Tracia. 3) Il popolo dei Traci è il più numeroso del
mondo, almeno dopo gli Indiani. Se avessero un sovrano unico o la pensassero
allo stesso modo, sarebbero a mio parere invincibili, il popolo più
potente in assoluto. Ma questo in realtà non c'è caso o maniera
che mai si verifichi, e perciò sono deboli. Hanno molti nomi, diversi
da regione a regione, ma tutti hanno usanze assai simili, da ogni punto di
vista, tranne i Geti, i Trausi e quelli che sono stanziati a nord di Crestona.
4) Di costoro, come si comportino i Geti, che si ritengono
immortali, già l'ho detto; i Trausi dal canto loro, mentre per tutto
il resto seguono i costumi degli altri Traci, riguardo a chi nasce e a chi
muore si regolano così: seduti intorno al neonato i parenti piangono e
lamentano i mali che, essendo nato, dovrà subire ed elencano tutte le
possibili sofferenze umane; chi è morto, invece, lo seppelliscono
scherzando e in piena allegria, specificando da quanti mali si è ormai
liberato e come si trovi ormai in uno stato di totale beatitudine. 5) E veniamo alle abitudini di chi abita a nord di
Crestona. Hanno tutti molte mogli; quando uno muore, scoppia una grande
contesa fra le varie consorti (con vivissimo interessamento degli amici) su
quale fosse stata amata di più dal marito. La moglie prescelta e
ritenuta degna di tale onore, fra gli elogi di uomini e donne, viene sgozzata
sulla tomba per mano del suo parente più prossimo e, una volta
sgozzata, riceve sepoltura accanto al marito. Le altre si affliggono molto:
in effetti gliene deriva un biasimo altissimo. 6) Fra gli altri Traci vige la seguente consuetudine:
vendono i figli maschi perché se ne vadano via. Le ragazze non le
sorvegliano, anzi lasciano che facciano l'amore con chi vogliono; ma sulle
mogli vigilano con rigore. Le mogli le comprano a caro prezzo dai genitori.
Avere tatuaggi è considerato segno di nobiltà, non averne
è ignobile; chi non lavora è magnifico, chi lavora la terra
spregevole. L'ideale è vivere di guerra e di rapina. 7) Queste sono le loro abitudini più significative.
Gli unici dèi che venerano sono Ares, Dioniso e Artemide; a differenza
degli altri Traci, i re venerano soprattutto, fra le divinità, Ermes e
giurano solo su di lui; e da Ermes affermano di discendere. 8) Ecco come si svolgono i funerali dei Traci benestanti.
Per tre giorni espongono il cadavere, poi, dopo un compianto preliminare,
sacrificati animali di varie specie, banchettano; poi seppelliscono il morto,
cremandolo o inumandolo; innalzato quindi un tumulo, istituiscono gare di
ogni tipo, nelle quali i massimi premi sono stabiliti, logicamente, per i
combattimenti individuali. Questi sono i funerali fra i Traci. 9) Più oltre, a nord di questo paese, nessuno sa
dire con certezza quali genti abitino; ma già le regioni al di
là dell'Istro si presentano desertiche e sconfinate. I soli uomini, di
cui ho notizie indirette, che risiedono al di là dell'Istro si
chiamano Siginni e vestono abiti di foggia meda. I loro cavalli hanno un
folto pelo in tutto il corpo, con crini lunghi fino a cinque dita; sono
piccoli, hanno il muso corto e non sono adatti a portare uomini in groppa;
però, aggiogati ai carri, sono molto veloci; per questo i locali fanno
un grande uso di carriaggi. I confini di questi Siginni si estendono fino ai
Veneti dell'Adriatico. Dicono di essere coloni medi; come siano divenuti
coloni dei Medi non riesco a immaginarlo, ma tutto è possibile in un
lungo arco di tempo. Siginni di fatto è il termine che presso i Liguri
stanziati sopra Marsiglia designa i commercianti; i Ciprioti chiamano
così le lance. 10) A sentire i Traci, il territorio al di là
dell'Istro è infestato da api; per via delle api non sarebbe possibile
avanzare oltre. Ma dicendo così a me pare che affermino cose poco
verosimili: questi insetti mostrano di non tollerare il freddo, e io ritengo
che le regioni poste sotto l'Orsa siano disabitate proprio a causa del gelo.
Ecco dunque quanto si racconta sul paese di cui Megabazo stava sottomettendo
ai Persiani le zone costiere. 11) Come fu a Sardi, dopo aver attraversato l'Ellesponto,
Dario si ricordò del servigio resogli da Istieo di Mileto e dei
consigli ricevuti da Coe di Mitilene; li convocò a Sardi e concesse
loro diritto di scelta. Istieo, in quanto già tiranno di Mileto, non
desiderava altra tirannide, chiese invece il territorio di Mircino degli
Edoni, dove intendeva fondare una città. Questo scelse Istieo; Coe
invece, che non era tiranno ma un semplice privato, chiese la tirannide di
Mitilene. 12) Entrambi furono accontentati e partirono per le
località prescelte. A Dario, poi, capitò di assistere a una
scena che lo spinse a dar ordine a Megabazo di assoggettare i Peoni e di
trasferirli dall'Asia in Europa. C'erano due Peoni, Pigrete e Mastia, i
quali, dopo il passaggio di Dario in Asia, erano venuti a Sardi indotti dal
desiderio di diventare signori dei Peoni; e si portavano dietro una sorella
di alta statura e di piacevole aspetto. Attesero che Dario andasse ad
assidersi per rendere giustizia nel sobborgo della capitale lidia ed ecco
cosa fecero: vestirono la sorella più splendidamente che poterono e la
mandarono a prendere acqua con un vaso sulla testa mentre intanto tirava con
un braccio un cavallo e filava del lino. La donna passando accanto a Dario ne
attirò l'attenzione: le azioni della donna infatti non erano da
Persiani, né da Lidi, né di alcun altro popolo dell'Asia. Poiché quella donna
lo incuriosiva, Dario ordinò a qualcuna delle sue guardie di andare a
osservare che avrebbe fatto la donna del cavallo. Le guardie la pedinarono, e
lei, giunta al fiume, fece abbeverare il cavallo; poi, abbeveratolo,
riempì d'acqua il vaso e tornò indietro, lungo lo stesso
percorso di prima, reggendo l'orcio sulla testa, tirando col braccio il
cavallo e girando il fuso. 13) Dario, stupito del resoconto degli osservatori e di
ciò che lui stesso aveva visto, ordinò di condurre la donna al
suo cospetto. Al suo arrivo erano presenti anche i due fratelli, i quali non
lontano da lì spiavano gli avvenimenti. Appena Dario chiese di dove
fosse la donna, i giovani dichiararono di essere Peoni e che lei era una loro
sorella. Dario replicò domandando chi fossero mai i Peoni, in quale
parte del mondo vivessero, e che cosa erano venuti a fare, loro due, a Sardi.
Essi risposero di essere venuti per affidarsi nelle sue mani, che la Peonia
era una regione abitata intorno alle rive dello Strimone, che lo Strimone si
trova non lontano dall'Ellesponto e che i Peoni erano coloni dei Teucri di
Troia. Gli spiegavano ogni cosa per bene, e Dario si informò allora se
in quel paese tutte le donne fossero altrettanto operose. Ed essi si
affrettarono a confermare che le cose stavano così e per questo erano
state fatte. 14) Allora Dario scrisse una lettera a Megabazo, che aveva
lasciato in Tracia a comandare le truppe, ordinandogli di sradicare i Peoni
dalle loro sedi e di condurli da lui, loro con i figli e le mogli. Subito un
cavaliere si precipitò a portare il messaggio fino all'Ellesponto, lo
passò e consegnò la lettera a Megabazo; Megabazo, quando l'ebbe
letta, prese con sé delle guide tracie e marciò contro la Peonia. 15) I Peoni, saputo che i Persiani avanzavano contro di
loro, raccolsero le truppe e uscirono in campo verso il mare, pensando a un
attacco sferrato dai Persiani da quel lato. I Peoni erano pronti a rintuzzare
l'aggressione dell'esercito di Megabazo, ma i Persiani, informati che i Peoni
avevano ammassato le loro forze e presidiavano la via d'accesso costiera,
avvalendosi di guide deviarono su un percorso più interno e, prima che
i Peoni se ne accorgessero, calarono sulle loro città, ormai prive di
uomini validi; piombati su di esse, le conquistarono agevolmente dato che
erano vuote. I Peoni, una volta appreso che le città erano state
occupate, si dispersero subito, se ne tornarono ciascuno a casa propria e si
consegnarono ai Persiani. Così dunque fra le popolazioni della Peonia,
i Siriopeoni, i Peopli e quelli stanziati fino al lago Prasiade furono
strappati dalle loro sedi e deportati in Asia. 16) Invece quelli stanziati intorno al monte Pangeo (e i
Doberi, gli Agriani e gli Odomanti) e al lago stesso di Prasiade non caddero
assolutamente nelle mani di Megabazo. Comunque tentò di sottomettere
anche quelli della palude, che sono sistemati come segue: in mezzo al lago si
innalzano piattaforme di legno fissate sopra lunghi pali; l'unica e angusta
via d'accesso dalla terra ferma è un ponte. I pali destinati a
sorreggere le piattaforme li piantarono anticamente tutti i cittadini
assieme; dopo di allora li erigono in base a questa regola: portandoli dal
monte detto Orbelo, chi si sposa pianta tre pali per ciascuna moglie; va
detto che ogni uomo prende più mogli. Abitano in questo modo: ognuno
sul tavolato dispone di una capanna, dove vive, e di una botola che immette
sul lago attraverso le tavole. I bambini in tenera età li legano per
un piede con una corda per paura che rotolino di sotto. Come mangime ai
cavalli e alle bestie da soma danno del pesce; ce n'è una tale
quantità che, quando sollevano la porta-botola e con una funicella
calano giù nel lago un cestino, tirandolo su, dopo poco tempo, lo
issano colmo di pesci. Ce ne sono di due specie, che chiamano papraci e
tiloni. 17) I Peoni asserviti vennero deportati in Asia; intanto
Megabazo, dopo aver trionfato sui Peoni, mandava come ambasciatori in
Macedonia sette Persiani, i più ragguardevoli nell'esercito dopo di
lui. Essi furono inviati presso Aminta a chiedere terra e acqua per il re
Dario. La via più breve per la Macedonia parte senz'altro dal lago di
Prasiade: subito dopo il lago viene la miniera dalla quale, in tempi
posteriori ai presenti avvenimenti, Alessandro ricavava un talento d'argento
al giorno; dopo la miniera e valicato il monte detto Disoro, si è in
Macedonia. 18) I Persiani inviati da Aminta, appena giunti, si
presentarono al cospetto del sovrano e gli chiesero terra e acqua per re
Dario. E lui non solo le concesse, ma li invitò come ospiti;
allestì un pranzo magnifico e ricevette i Persiani con grande
amicizia. Al termine del pasto, fra una bevuta e l'altra, i Persiani dissero:
"Ospite macedone, da noi in Persia, quando si imbandisce un grande
banchetto, c'è la consuetudine di ammettere a sedere fra i convitati
le concubine e le legittime consorti; tu dunque, visto che ci hai accolti di
buon animo, ci ospiti con lusso e consegni al re Dario terra e acqua,
adeguati alle nostre usanze". Al che Aminta rispose: "Persiani, da
noi invece non si usa così, anzi uomini e donne stanno ben separati;
ma poiché lo desiderate voi, che siete i signori, otterrete anche
questo". Detto ciò, Aminta mandò a chiamare le donne; le
quali, chiamate, si presentarono e si sedettero in fila di fronte ai
Persiani. Allora i Persiani, vedendo donne belle si rivolsero ad Aminta e
dichiararono il suo operato un non senso: era meglio, dicevano, che le donne
non fossero venute, se poi, una volta lì, si sedevano di fronte a loro
e non accanto, una vera e propria tortura per gli occhi. Messo alle strette,
Aminta ordinò alle donne di sedersi accanto ai Persiani. Esse
obbedirono, e i Persiani, pieni di vino com'erano, toccavano loro i seni, e
qualcuno cercava persino di baciarle. 19) Aminta, a tale spettacolo, rimaneva impassibile, anche
se ne soffriva; tanta paura aveva dei Persiani! Ma suo figlio Alessandro, che
era lì e vedeva, giovane e inesperto di guai com'era, non
riuscì più a padroneggiarsi e, al limite della sopportazione,
disse ad Aminta: "Padre, arrenditi alla tua età, vattene, smetti
di bere e di gozzovigliare; resterò io qua a offrire agli ospiti tutto
il necessario". Aminta comprese, a tali parole, che Alessandro si
accingeva a compiere qualche colpo di testa e gli rispose: "Figlio mio,
tu bruci di rabbia e mi pare di capire dal tuo discorso che vuoi allontanarmi
per commettere qualche pazzia; ma io ti prego di lasciare in pace questi
uomini, per non rovinarci tutti; sopporta la vista di quanto accade. Quanto
al tuo consiglio di ritirarmi, ti darò retta". 20) Ma non appena Aminta, dopo questa preghiera, se ne fu
andato, Alessandro si rivolse ai Persiani: "Ospiti, disse, di queste
donne potete disporre come vi pare, e fare l'amore con loro, con tutte o quante
volete. Ce lo indicherete voi; adesso però è quasi ora per voi
di andarvi a coricare e vi vedo già beatamente ubriachi; lasciate
dunque, se non vi dispiace, che queste donne vadano a lavarsi; dopo
torneranno da voi; accoglietele". Detto ciò, Alessandro (i
Persiani approvarono) rimandò le donne nel gineceo, da dove erano
venute, e personalmente vestì con abiti femminili degli uomini glabri,
in numero pari alle donne, li armò di pugnali e li fece entrare;
accompagnandoli dentro dichiarò ai Persiani: "Persiani, mi sembra
che l'ospitalità sia perfetta; a vostra disposizione c'è tutto,
tutto ciò che avevamo e in più quanto siamo stati capaci di
trovare e di offrirvi, e in particolare, cosa straordinaria in assoluto, vi
elargiamo generosamente le nostre madri e sorelle, perché sappiate che vi
sono resi da noi gli onori di cui siete degni e possiate riferire al vostro
sovrano che un Greco, governatore della Macedonia vi ha accolto come si deve
a tavola e a letto". Detto ciò Alessandro sistema accanto a ogni
Persiano un Macedone, travestito da donna: quando i Persiani tentarono di
toccarli, li uccisero. 21) Di tale morte morirono dunque costoro, e poi anche il
loro seguito; infatti avevano con sé carri e servitori e bagaglio in
quantità, di ogni tipo. Uomini e cose, sparì tutto insieme. Non
molto tempo dopo, i Persiani avviarono una grande ricerca di questi uomini e
Alessandro li bloccò con l'astuzia, consegnando molto denaro e la
propria sorella, che si chiamava Gigea. Alessandro mise le cose a tacere
concedendo ciò a Bubare, un Persiano, il capo di quanti indagavano
sugli scomparsi. 22) Così insomma fu soffocata nel silenzio la morte
di quei Persiani. Che questi discendenti di Perdicca siano Greci, come dal canto
loro vanno dichiarando, io per me dunque lo so; che sono Greci lo
dimostrerò anche più avanti nei miei racconti; d'altronde che
la cosa stia così lo riconobbero anche, fra i Greci, i sovrintendenti
agli agoni di Olimpia. Infatti Alessandro aveva deciso di gareggiare e
proprio a tale scopo era sceso in campo. I Greci a lui ostili cercarono di
impedirglielo con la scusa che le gare non erano per atleti barbari, ma per
greci. Ma Alessandro, avendo dimostrato la sua origine argiva, fu giudicato
greco e gareggiò nella corsa dello stadio, dove fu primo a pari
merito. 23) Così più o meno andarono le cose. Megabazo
giunse sull'Ellesponto portando con sé i Peoni; una volta passato sull'altra
sponda, si diresse verso Sardi. Istieo di Mileto già stava fortificando
la località ricevuta in dono da Dario come ricompensa per la custodia
del ponte (tale località, che si chiama Mircino, si trova nei pressi
del fiume Strimone); Megabazo, appreso ciò che Istieo andava facendo,
non appena giunse a Sardi con i Peoni, subito andò a dire a Dario:
"Mio re, che cosa hai combinato a concedere a un Greco temibile e astuto
di fondare in Tracia una città? Eppure sai bene che lì abbonda
il legname per costruire navi e ci sono rematori a iosa e miniere d'argento;
che tutt'attorno risiede una grande massa di Greci e una altrettanto grande
massa di barbari, i quali, una volta avuto un capo, eseguiranno ciò
che lui comanderà di giorno e di notte. Tu dunque impediscigli di
continuare ad agire così, per non trovarti impelagato in una guerra in
casa tua. Convocalo qui con buone maniere e fallo smettere; e quando potrai
disporre di lui, vedi che non possa tornare più fra i Greci". 24) Con questo discorso Megabazo convinse Dario facilmente,
da persona che aveva chiara idea del futuro. Più tardi, per bocca di
un messaggero inviato a Mircino, Dario si espresse così: "Istieo,
il re Dario ti dice: riflettendo io trovo che non ci sia uomo al mondo che
abbia a cuore più di te la mia persona e i miei affari; e questo lo so
per averlo appreso dai fatti e non dalle parole. Ora dunque, poiché ho in
mente grandi progetti, vieni da me assolutamente, perché io te li
comunichi". Istieo, fiducioso in tali parole e allettato dalla
prospettiva di diventare consigliere del re, venne a Sardi. Quando giunse,
Dario gli disse: "Istieo, t'ho mandato a chiamare per questa ragione.
Subito dopo il mio ritorno dalla Scizia, da quando ci siamo visti l'ultima
volta, non ho cercato altro, in così breve tempo, che vederti e
discutere con te, perché so perfettamente che un amico intelligente e fedele
è il bene più prezioso che esista; e sono due qualità
che ho riconosciuto in te, lo posso testimoniare per averle esperimentate
personalmente. E dato che hai fatto benissimo a venire, ecco cosa ti
propongo. Lascia perdere Mileto e la città che hai appena fondato in
Tracia e seguimi a Susa, dividi con me la mia vita, al mio fianco, commensale
e consigliere". 25) Detto questo, Dario nominò Artafrene, suo
fratello per parte di padre, governatore di Sardi; e si mosse verso Susa,
conducendo con sé Istieo e avendo designato Otane a capo dell'esercito della
fascia costiera. Il padre di Otane Sisamne, uno dei giudici reali, era stato
mandato a morte dal re Cambise per aver emesso per denaro una sentenza
ingiusta; Cambise lo aveva fatto scorticare interamente e la sua pelle,
scuoiata e tagliata a strisce, fu distesa sul trono su cui sedeva per
amministrare la giustizia. Dopodiché Cambise in luogo di Sisamne, da lui
fatto uccidere e scorticare, aveva nominato giudice il figlio di Sisamne, con
l'invito a ricordarsi su quale trono sedeva per amministrare la giustizia. 26) Dunque Otane, insediato a suo tempo su tale trono e
succeduto allora a Megabazo nel comando dell'esercito, conquistò
Bisanzio e Calcedonia, si impadronì di Antandro nella regione della
Troade, occupò Lamponio e, con navi ricevute da Lesbo, prese Lemno e
Imbro, in quell'epoca entrambe abitate ancora da Pelasgi. 27) I Lemni si batterono bene e solo col tempo furono
sopraffatti, mentre ancora si difendevano; ai superstiti i Persiani imposero
come governatore Licareto, fratello del Meandrio che fu re di Samo. Licareto
morì mentre era al potere in Lemno... eccone la causa: riduceva in
schiavitù e rovinava un po' tutti, chi con l'accusa di non aver preso
parte alla spedizione contro la Scizia, chi con l'accusa di aver molestato
l'esercito di Dario durante la ritirata dalla Scizia. 28) Tanto aveva realizzato costui nella sua veste di
comandante; in seguito, per un breve periodo, ci fu una pausa nelle
disgrazie, poi, per la seconda volta nuovi guai per gli Ioni cominciarono a
originarsi da Nasso e da Mileto. Nasso da una parte primeggiava fra le isole
per la sua prosperità, dall'altra, in quegli stessi anni, Mileto era
al massimo del suo splendore e, di più, era la vera perla della Ionia,
anche se solo un paio di generazioni prima era stata travagliata da una
sedizione interna, finché i Pari non vi ebbero ricostituito l'ordine. Per la
rappacificazione delle parti, infatti, i Milesi avevano scelto appunto loro
fra tutti i Greci. 29) Ecco come i Pari le riconciliarono: non appena i loro
uomini, i migliori, giunsero a Mileto e ne constatarono le disastrose
condizioni economiche, dissero di voler compiere un giro nella regione.
Così fecero, visitando l'intero territorio di Mileto, e ogni volta che
in quella terra devastata scorgevano un campo ben lavorato, annotavano il
nome del padrone del podere. Percorsero l'intera regione trovandone pochi,
poi, una volta rientrati in città, convocarono l'assemblea e
affidarono il governo dello stato alle persone i cui campi avevano trovato
ben lavorati: dichiararono che a loro parere essi si sarebbero occupati della
cosa pubblica con la stessa cura impiegata per gli affari privati. E imposero
agli altri cittadini di Mileto, prima in continua ribellione, di obbedire a
costoro. 30) Così insomma i Pari avevano riconciliato i
Milesi. Ecco poi come allora da queste città cominciarono a sorgere
guai per la Ionia. Fuggirono da Nasso, perseguitati dal popolo, uomini del
ceto benestante, fuggirono e si recarono a Mileto. Per l'appunto reggeva
Mileto Aristagora, figlio di Molpagora, genero e cugino di Istieo figlio di
Lisagora, quello che Dario tratteneva a Susa. Istieo era tiranno di Mileto e
si trovava a Susa proprio nel periodo in cui giungevano a Mileto i Nassi, già
antichi ospiti di Istieo. I Nassi, una volta arrivati a Mileto, chiesero ad
Aristagora se in qualche modo poteva fornire loro delle truppe con cui
rientrare in patria. E Aristagora, considerando che se fossero rientrati in
patria grazie a lui, avrebbe comandato su Nasso, facendosi forte dei vincoli
di ospitalità di Istieo rivolse loro il seguente discorso: "Io
personalmente non sono in grado di garantirvi una forza tale da farvi
rientrare contro la volontà dei Nassi che tengono la città. Mi
dicono infatti che i Nassi dispongono di un corpo di 8000 uomini e di molte
navi lunghe; ma escogiterò qualcosa con tutta la mia buona
volontà. Ecco come io ragiono. Si dà il caso che Artafrene sia
un mio amico; Artafrene, lo sapete bene, è figlio di Istaspe e
fratello di re Dario, e comanda su tutti gli abitanti della fascia costiera
asiatica, disponendo di un esercito numeroso e di molte navi. Lo ritengo
l'uomo adatto per realizzare quanto desideriamo". Udito ciò, i
Nassi incaricarono Aristagora di agire come meglio poteva; lo invitarono a
promettere doni e il vettovagliamento dell'esercito, a cui avrebbero
provveduto essi stessi, perché nutrivano molte speranze che i Nassi avrebbero
obbedito ai loro ordini appena essi fossero comparsi nelle acque di Nasso;
speravano lo stesso degli altri isolani: in effetti di tutte queste isole
(Cicladi) nessuna era ancora sotto Dario. 31) Aristagora si recò a Sardi e disse ad Artafrene
che Nasso era un'isola non grande, quanto a estensione, però bella e
fertile, e vicina alla Ionia, piena di ricchezze e di schiavi. "Tu
dunque muovi guerra a questo paese, rinsedia in Nasso gli esuli fuoriusciti.
Se lo fai, ho pronto per te molto denaro oltre le somme necessarie per
l'esercito (che giustamente tocca a noi, che vi guidiamo, di pagare); tu
aggiungerai ai domìni del re varie isole, Nasso stessa e quelle
dipendenti da Nasso, Paro e Andro e altre, le così chiamate Cicladi.
Muovendo da quelle basi metterai facilmente le mani sull'Eubea, un'isola
vasta e prospera, non inferiore a Cipro e sicuramente più facile a
prendersi. Ti basteranno cento navi per conquistarle tutte". E Artafrene
gli rispose così: "Tu ti fai per la casa reale promotore di
imprese eccellenti e sei anche buon consigliere in tutto, tranne che per il numero
delle navi. Invece di cento ne avrai pronte duecento all'inizio della
primavera. Ma per questo occorre l'approvazione personale del re". 32) Ascoltata la risposta, Aristagora, tutto soddisfatto, se
ne tornò a Mileto; Artafrene a sua volta, mandò a riferire a
Susa le parole di Aristagora; ricevuta la approvazione personale di Dario,
equipaggiò duecento triremi, allestì un contingente assai
numeroso di Persiani e di vari altri alleati e vi pose a capo Megabate, un
Persiano della famiglia Achemenide, cugino suo e di Dario. Con la figlia di
Megabate, se è vero ciò che si racconta, si fidanzò, in
tempi posteriori, lo spartano Pausania, figlio di Cleombroto, bramoso di
diventare tiranno della Grecia. Affidato il comando a Megabate, Artafrene
spedì l'esercito a raggiungere Aristagora. 33) Megabate prese con sé da Mileto Aristagora, il
contingente della Ionia e i Nassi e navigò apparentemente in direzione
dell'Ellesponto; quando giunse a Chio andò a fermare le navi a
Caucasa, intenzionato a passare da lì a Nasso approfittando del vento
di nord. Ma poiché evidentemente non era destino che i Nassi perissero per
opera di questa spedizione, capitò il seguente fatto. Megabate faceva
il giro dei corpi di guardia delle navi e per combinazione sulla nave di
Mindo nessuno era di sentinella. Megabate considerò grave la cosa e
ordinò alle sue guardie di scovargli il comandante di quella
unità, che si chiamava Scilace, e di legarlo attraverso a un foro del
più basso ordine di remi nella nave, infilandolo con il corpo dentro e
la testa fuori. Mentre Scilace era così imprigionato, qualcuno
andò a informare Aristagora che Megabate aveva ignominiosamente fatto
legare il suo ospite di Mindo; allora Aristagora si presentò dal
Persiano a intercedere, ma, non ottenendo nulla di ciò che chiedeva,
andò lui stesso a liberare Scilace. Messo al corrente, Megabate se la
prese molto a male e andò su tutte le furie con Aristagora, il quale
gli rispose: "Tu cosa c'entri in questo affare? Artafrene non ti ha
inviato perché tu mi obbedissi e navigassi ai miei ordini? Perché ti immischi
in tutto?". Così disse Aristagora. E l'altro, irritato da queste
parole, come scese la notte, mandò a Nasso degli uomini su un battello
per avvertire i Nassi della situazione. 34) In effetti, i Nassi non si aspettavano per nulla che
questa flotta dovesse muovere contro di loro. Quando ne furono avvisati,
subito trasferirono dentro le mura quanto avevano nei campi, fecero provviste
di cibo e di bevande per sostenere un assedio e rinforzarono le mura. Costoro
dunque si preparavano per una guerra imminente, gli altri, una volta
trasferita la flotta da Chio a Nasso, assalirono gente ormai arroccata nelle
sue difese e la assediarono per quattro mesi. Quando i Persiani ebbero
esaurito le scorte con cui erano venuti e molto ebbe sborsato Aristagora in
aggiunta di tasca sua, mentre l'assedio necessitava di ulteriore denaro,
edificarono una fortezza per gli esuli di Nasso e si ritirarono in brutte
condizioni sul continente. 35) Aristagora non era in grado di mantenere la promessa
fatta ad Artafrene; intanto gli pesavano le spese militari che gli si
chiedevano, poi lo spaventavano il cattivo stato dell'esercito e l'aver
litigato con Megabate: pensava che gli avrebbero tolto il governo di Mileto.
In apprensione per ciascuna di queste ragioni, meditava una ribellione; e
proprio in quel momento per combinazione arrivò da Susa, da parte di
Istieo, il messaggero con segni tatuati sul capo che avvertivano Aristagora
di ribellarsi al re. Infatti Istieo, volendo comunicare ad Aristagora
l'ordine di insorgere, non aveva sistema sufficientemente sicuro per
avvisarlo, dato che le strade erano tutte sotto controllo; allora, rasato il
capo al più fidato dei suoi servi, vi tatuò dei segni, attese
che ricrescessero i capelli e appena furono ricresciuti lo mandò a Mileto
con il solo incarico, una volta giuntovi, di invitare Aristagora a radergli i
capelli e a dargli una occhiata sulla testa. Il tatuaggio ordinava, come ho
già detto, la ribellione. Istieo agiva così perché gravemente
tormentato dalla propria segregazione a Susa; se fosse scoppiata una rivolta
aveva certo buone speranze di essere rispedito verso il mare, pensava invece
che se a Mileto non succedeva nulla non vi sarebbe tornato mai più. 36) Istieo, dunque, agitato da questi pensieri, mandava il
messaggero; ad Aristagora accadde che tutti questi eventi coincidessero. Si
consigliava dunque con quelli della sua fazione rivelando la propria idea e
il messaggio ricevuto da parte di Istieo. Tutti gli altri si trovarono
d'accordo con lui e lo esortarono a ribellarsi; invece lo scrittore Ecateo in
un primo momento sconsigliava di far guerra al re dei Persiani, specificando
tutti i popoli su cui Dario comandava e l'entità della sua forza; ma
visto che non riusciva a persuaderli, in un secondo momento propose loro di
impegnarsi per diventare padroni del mare. E disse, continuando, che non lo
vedeva raggiunto questo obiettivo in altro modo (già si sapeva che
militarmente Mileto era debole): ma se avessero prelevato le ricchezze
consacrate nel santuario dei Branchidi da Creso di Lidia, nutriva buone
speranze che avrebbero conseguito il dominio del mare. E così loro
avrebbero potuto usufruire di quel denaro e i nemici non avrebbero potuto
rapinarlo. Si trattava di ricchezze ingenti, come ho chiarito già nel
mio primo libro. L'idea di Ecateo non si impose; si decise comunque di
ribellarsi e che uno di loro si recasse a Miunte presso l'esercito di stanza
là dopo la ritirata da Nasso, e cercasse di catturare gli strateghi
imbarcati sulle navi. 37) A tale scopo fu inviato Ietragora, il quale con
l'inganno fece prigionieri Oliato, figlio di Ibanoli, da Milasa, Istieo,
figlio di Timni, da Termera, Coe, figlio di Erxandro, quello a cui Dario
aveva donato Mitilene, Aristagora, figlio di Eraclide, da Cuma e parecchi
altri. In tal modo Aristagora si era ribellato ormai apertamente e macchinava
ogni sorta di piani contro Dario. Per prima cosa rinunciò, a parole,
alla tirannide e creò a Mileto l'uguaglianza dei diritti, affinché i
Milesi si ribellassero volentieri assieme a lui, poi procedette in modo
identico nel resto della Ionia, scacciandone dei tiranni; altri, e
cioè quelli che aveva catturati sulle navi della spedizione comune
contro Nasso, li consegnò alle città per fare a esse cosa
gradita, precisamente li rimandò ciascuno nella città di
provenienza. 38) I Mitilenesi come ebbero in mano Coe, lo trascinarono
fuori delle mura e lo lapidarono. Invece i Cumani lasciarono libero il loro
tiranno, e così si comportarono quasi tutti gli altri. Insomma per un
certo periodo furono deposti i tiranni nelle città. Poi Aristagora di
Mileto, dopo averne esautorato molti e invitato ogni città a mettere
al loro posto degli strateghi, prese una seconda iniziativa: con una trireme
si recò lui stesso come messaggero a Sparta. In effetti aveva bisogno
di procurarsi una forte alleanza. 39) A Sparta non c'era più a regnare Anassandride
figlio di Leonte, che era morto; Cleomene, figlio di Anassandride, ne aveva
preso il posto, non per merito bensì per diritto ereditario:
Anassandride non aveva avuto figli dalla donna che aveva sposato e che gli
era molto cara, una figlia di sua sorella. Stando così le cose, gli
efori lo convocarono e gli dissero: "Se tu non ti curi di te stesso, non
possiamo però non preoccuparci noi, se la stirpe di Euristene si
spegne. La moglie che hai ora non ti dà figli: e allora ripudiala e
sposane un'altra, e così farai cosa gradita agli Spartiati". Lui
rispose che non ci pensava neppure e che loro non gli davano un bel consiglio
esortandolo a scacciare la moglie che aveva e che era priva di colpe nei suoi
confronti, per prendersene un'altra. 40) Di fronte a tali parole gli efori e i geronti si
consultarono fra di loro e poi avanzarono un'altra proposta ad Anassandride:
"Poiché dunque ti vediamo tanto attaccato alla moglie che hai, ecco cosa
devi fare, e senza obiezioni, se non vuoi che gli Spartiati decidano ben
diversamente sul tuo conto. Non pretendiamo più che tu ripudi tua
moglie, continua a offrirle tutto ciò che le offri adesso, però
sposati anche un'altra, che ti faccia dei figli". Anassandride accolse
il loro suggerimento e in seguito visse con due mogli in due distinte case,
secondo un costume niente affatto spartiata. 41) Non molto dopo, la seconda moglie gli generò il
Cleomene in questione. E mentre costei dava alla luce il successore al trono
per gli Spartiati, anche la prima moglie, sterile fino a quel momento,
chissà come rimase incinta, favorita dalla fortuna. Lei era incinta
davvero, ma i parenti della seconda moglie, saputolo, davano noia, affermando
che si vantava a vanvera per far passare per suoi dei figli altrui. E poiché
ne facevano di tutti i colori e il tempo ormai stringeva, sospettosi
com'erano gli efori sorvegliarono la donna mentre partoriva stando seduti
intorno a lei. Lei diede alla luce Dorieo e poi immediatamente rimase incinta
di Leonida e dopo di lui, subito, di Cleombroto; si dice pure che Leonida e
Cleombroto fossero gemelli. Invece la madre di Cleomene, la seconda moglie,
la figlia di Prinetade figlio di Demarmeno, non riusciva più a procreare.
42) Cleomene, si dice, non era sano di mente, anzi quasi
sulla soglia della pazzia, Dorieo invece primeggiava fra tutti i coetanei ed
era perfettamente convinto che per virtù personali il regno sarebbe
stato suo. Ne era così sicuro che, quando Anassandride morì e
gli Spartani, in base alla legge, proclamarono re il più anziano
Cleomene, Dorieo, assai contrariato e sdegnando di farsi comandare da
Cleomene, chiese agli Spartiati degli uomini e li guidò a fondare una
colonia, senza aver interpellato l'oracolo di Delfi per sapere in quale parte
del mondo andare a fondarla, senza aver compiuto alcuno dei riti
tradizionali. Incapace di sopportare oltre la situazione, diresse le sue navi
verso la Libia; lo guidarono gli uomini di Tera. Giunto al Cinipe colonizzò
una bellissima porzione della Libia sulle rive di un fiume. Due anni dopo fu
scacciato di là dai Macei, dai Libici e dai Cartaginesi e se ne
tornò nel Peloponneso. 43) Qui Anticare, nativo di Eleone, gli consigliò,
sulla base dei vaticinii di Laio, di fondare in Sicilia una Eraclea,
affermando che l'intera regione di Erice apparteneva agli Eraclidi, dato che
Eracle stesso se ne era appropriato. Udito ciò Dorieo andò a
Delfi a chiedere all'oracolo se avrebbe conquistato la terra verso cui stava per
partire: e la Pizia gli rispose di sì. Dorieo prese con sé la gente
che aveva già guidato in Libia e si trasferì sulle coste
dell'Italia. 44) In quel tempo, come raccontano essi stessi, gli abitanti
di Sibari con il loro re Teli si apprestavano a muovere in guerra contro
Crotone; e i Crotoniati, allora, atterriti, chiesero a Dorieo di aiutarli,
ottenendo quanto chiedevano. Dorieo si unì a loro in una spedizione
contro Sibari e la conquistò. Questo secondo i Sibariti avrebbero
fatto Dorieo e i suoi; ma i Crotoniati affermano che nessuno straniero li
aiutò nella guerra contro i Sibariti, tranne il solo Callia, della
stirpe di Iamo, indovino dell'Elide, e costui nel modo seguente: era giunto
presso di loro fuggendo il tiranno di Sibari Teli perché i riti sacrificali
da lui compiuti per la guerra contro Crotone non erano risultati di buon
auspicio. Questa è la loro versione. 45) Entrambe le città adducono delle prove per le
rispettive versioni: i Sibariti un sacro recinto e un tempio che sorge presso
il letto disseccato del Crati, che Dorieo, raccontano, una volta presa la
città, avrebbe eretto per Atena Cratia; ritengono poi testimonianza
decisiva la fine dello stesso Dorieo, morto per essere andato oltre il
responso. Perché, se non avesse fatto nulla di più, limitandosi a
realizzare l'impresa per cui era partito, avrebbe conquistato e si sarebbe
tenuto il territorio di Erice e né lui né il suo esercito sarebbero periti.
Da parte loro i Crotoniati esibiscono a documentazione i molti bei campi
donati a Callia dell'Elide nel territorio di Crotone, che ancora ai tempi
della mia visita appartenevano ai discendenti di Callia, mentre nulla fu dato
a Dorieo e ai suoi discendenti; certamente, se Dorieo li avesse aiutati nella
guerra contro Sibari, avrebbero elargito molti più doni a lui che a
Callia. Ecco quanto entrambi portano rispettivamente a titolo di prova. E
ciascuno aderisca alla versione, fra le due, che più lo convinca. 46) Insieme con Dorieo viaggiarono anche altri coloni
spartiati: Tessalo, Parebate, Celees ed Eurileonte, i quali, arrivati in
Sicilia con tutta la spedizione, morirono vinti in battaglia dai Fenici e dai
Segestani. Fra i coloni il solo Eurileonte sopravvisse alla disfatta.
Raccolti i superstiti della spedizione, occupò Minoa, colonia di
Selinunte, e contribuì a liberare i cittadini di Selinunte dalla
tirannia di Pitagora. Poi, come ebbe rovesciato Pitagora, prese lui a
esercitare un potere tirannico in Selinunte e per un breve periodo
spadroneggiò da solo; poi i cittadini di Selinunte si ribellarono e lo
uccisero, benché avesse cercato rifugio presso l'altare di Zeus Agoreo. 47) Seguì Dorieo e ne condivise la sorte Filippo
figlio di Butacide, uomo di Crotone, il quale era scappato da Crotone dopo
essersi legato formalmente con la figlia di Teli di Sibari, ma poi, ingannato
riguardo le nozze, si era imbarcato per Cirene; da Cirene era partito per
seguire Dorieo con una trireme propria e un equipaggio a sue spese; era uno
che aveva vinto alle Olimpiadi e primeggiava per bellezza fra i Greci del suo
tempo. Proprio per la sua bellezza ottenne dai Segestani cose che nessun
altro ottenne: essi edificarono un sacrario sulla sua tomba e se ne
garantiscono il favore offrendogli dei sacrifici. 48) Tale fu la fine di Dorieo; ma se avesse tollerato la
sovranità di Cleomene e fosse rimasto a Sparta, di Sparta sarebbe
diventato re, perché Cleomene non regnò a lungo, ma morì senza
figli, lasciando solo una figlia, di nome Gorgo. 49) Insomma il tiranno di Mileto Aristagora giunse a Sparta quando
il potere era nelle mani di Cleomene; con lui venne a parlare, come
raccontano gli Spartani, con una tavoletta di bronzo su cui era incisa la
mappa del mondo intero, con tutti i mari e i singoli fiumi. Aristagora,
venuto a colloquio con lui, gli disse: "Cleomene, non meravigliarti
della mia fretta nel venire qui; la situazione è questa: che i figli
degli Ioni siano schiavi invece che liberi è ragione di vergogna e di
grande dolore sia per noi stessi, sia, fra gli altri, soprattutto per voi,
poiché siete a capo della Grecia. Ora, perciò, in nome degli
dèi greci salvate gli Ioni dalla schiavitù; sono uomini del
vostro sangue ed è un'impresa, per voi, di facile riuscita, perché i
barbari non sono forti, mentre voi, in fatto di guerra, siete ai massimi livelli
di valore. Loro combattono così: archi e corte lance e vanno in
battaglia con brache di cuoio e turbanti sulla testa. È dunque facile
sopraffarli. Però gli abitanti di quel continente hanno a disposizione
risorse quante il resto del mondo non possiede, a cominciare dall'oro, e
argento, rame, stoffe variopinte e bestie da soma e schiavi. Tutte cose che
possono essere vostre se lo volete sul serio. Vivono stanziati nell'ordine
che vi dirò, uno di seguito all'altro: accanto agli Ioni ci sono i Lidi,
che abitano una fertile regione e sono ricchi di denaro". Parlava
così segnalando col dito i punti nella mappa della terra che portava
con sé incisa sulla tavola. "Dopo i Lidi", continuò a dire
Aristagora, "ecco i Frigi, verso oriente, i più ricchi di
bestiame e di raccolti che io conosca al mondo. Contigui ai Frigi i
Cappadoci, che noi chiamiamo Siri e ai loro confini i Cilici che si estendono
fino al mare in cui, vedete, giace l'isola di Cipro; i Cilici versano al re
un tributo annuo di cinquecento talenti. Oltre i Cilici ecco gli Armeni:
anch'essi possiedono molto bestiame, e dopo gli Armeni, qui, vivono i
Matieni. Di seguito c'è il paese dei Cissi, nel quale, sul corso del
fiume Coaspe, sorge Susa, eccola, dove il grande re ha la sua residenza; lì
si trovano le camere del tesoro. Una volta conquistata questa città
contenderete tranquillamente a Zeus il primato della ricchezza. Ebbene, oggi
per una regione non certo vasta né così fornita di risorse e dai
confini ristretti vi sentite in dovere di ingaggiare battaglie contro i
Messeni, che vi tengono testa e contro gli Arcadi e gli Argivi: ed essi non
possiedono nulla che si avvicini all'oro e all'argento, beni tanto
desiderabili da indurre anche qualcuno a cadere in battaglia; e quando vi si
offre l'occasione di dominare facilmente l'Asia intera, deciderete
diversamente?". Questo fu il discorso di Aristagora; Cleomene gli
rispose così: "Straniero di Mileto, rimando la risposta di due
giorni". 50) Per quel momento non andarono oltre; quando poi venne il
giorno fissato per la risposta e si presentarono nel luogo precedentemente
stabilito, Cleomene chiese ad Aristagora quanti giorni di viaggio
occorressero per raggiungere il re partendo dal mare degli Ioni. E
Aristagora, che in tutto era abilissimo e in grado di abbindolarlo, in quel
caso sbagliò malamente; non avrebbe dovuto dire la verità, se
voleva davvero portare in Asia gli Spartiati, e invece precisò che il
viaggio verso l'interno richiedeva tre mesi. E Cleomene, troncandogli in
bocca il discorso che Aristagora si apprestava a fare circa l'itinerario,
esclamò: "Straniero di Mileto, vattene via da Sparta prima del
tramonto: non è un discorso accettabile per gli Spartani quello che
fai, se intendi portarli lontano dal mare per tre mesi di cammino!". 51) Cleomene, detto ciò, se ne andò a casa.
Aristagora, preso un ramo d'olivo, si recò alla dimora di Cleomene, vi
entrò in qualità di supplice ed esortò Cleomene a
mandare via la sua creatura e a starlo ad ascoltare; accanto a Cleomene c'era
infatti la sua unica figlia, di nome Gorgo, che poteva avere all'epoca otto o
nove anni. Cleomene lo invitò a dire quello che voleva senza
trattenersi per via della bambina. Allora Aristagora cominciò a
promettergli dieci talenti, se avesse fatto quanto gli chiedeva. Cleomene
scosse la testa e Aristagora proseguì sempre aumentando la cifra fino
a offrire cinquanta talenti; al che la bambina esclamò: "Padre,
lo straniero ti corromperà, se non te ne vai di qui". Allora
Cleomene, orgoglioso dell'ammonimento filiale, si ritirò in un'altra
stanza. Aristagora si allontanò definitivamente da Sparta e non ebbe
occasione di descrivere ulteriormente la strada che conduce al re persiano. 52) Ecco come si presenta questo itinerario. Vi sono ovunque
stazioni reali ed eccellenti ostelli; la strada attraversa sempre regioni
abitate e sicure. Da un capo all'altro della Lidia e della Frigia ci sono
venti stazioni per un totale di 94 parasanghe e mezza. All'uscita della
Frigia c'è il fiume Alis: lo sormontano porte che è inevitabile
varcare per trovarsi, in tal modo, oltre il fiume; sull'Alis c'è un
grande posto di guardia. Chi attraversa la Cappadocia e guada il fiume in
questo punto trova ventotto stazioni per 104 parasanghe fino ai confini della
Cilicia; alle frontiere occorre superare due porte e due fortilizi. Dopodiché
si procede in Cilicia lungo tre stazioni per 15 parasanghe e mezza. La linea
di confine tra la Cilicia e l'Armenia è costituita da un fiume che si
chiama Eufrate, valicabile con traghetto; in Armenia si contano quindici stazioni
di sosta, 56 parasanghe e mezza con un presidio militare. In Armenia scorrono
quattro fiumi navigabili che è assolutamente inevitabile attraversare:
il primo è il Tigri, poi, secondo e terzo, i cosiddetti Zabato, che
non sono in realtà lo stesso fiume né hanno la stessa origine: l'uno,
infatti, scende dal paese degli Armeni, l'altro dal paese dei Matieni. Il
quarto fiume si chiama Gindo ed è quello che un tempo Ciro disperse in
360 canali. Procedendo dall'Armenia alla terra dei Matieni ci sono trentaquattro
stazioni e 137 parasanghe. Di qui ci si trasferisce nella regione Cissia e
dopo undici stazioni e 42 parasanghe e mezza si è sul fiume Coaspe,
pure questo traghettabile, su cui sorge la città di Susa. E
così le stazioni in totale risultano centoundici. Tanti sono i luoghi
di sosta per chi va da Sardi a Susa. 53) Se abbiamo misurato esattamente in parasanghe la strada
e tenendo conto della equivalenza (una parasanga è pari a trenta
stadi), da Sardi alla reggia detta Memnonia risultano esserci 13.500 stadi (450
parasanghe). Percorrendo 150 stadi al giorno occorrono precisamente novanta
giorni. 54) Aveva dunque risposto correttamente Aristagora dicendo
allo Spartano Cleomene che ci vogliono tre mesi di viaggio per raggiungere il
re. Nel caso qualcuno cerchi particolari più esatti
specificherò anche questo: bisogna aggiungere al totale la strada da
Efeso a Sardi. E insomma dichiaro che dal mare dei Greci fino a Susa (detta
appunto città di Memnone) gli stadi sono in tutto 14.040; perché Sardi
dista da Efeso 540 stadi e così il viaggio di tre mesi si allunga di
altri tre giorni. 55) Cacciato via da Sparta, Aristagora si recò ad
Atene; Atene si era liberata dei tiranni come segue. Dopo che Aristogitone e
Armodio, di antica stirpe gefirea, ebbero ucciso Ipparco, figlio di
Pisistrato e fratello del tiranno Ippia, benché avesse visto in sogno una
visione chiarissima (della sua disgrazia), gli Ateniesi per quattro anni si
trovarono sotto un regime non meno tirannico di prima, anzi persino di
più. 57) Ed ecco quale fu la visione notturna di Ipparco. Nella
notte precedente le Panatenee Ipparco sognò un uomo di alta statura,
bello, che gli stava accanto e gli rivolgeva queste parole enigmatiche:...”La
dura sorte, Leone, sopporta con cuore paziente: Tutti gli uomini ingiusti
dovranno pagare la pena”....( Resisti, leone, sopporta con cuore tenace
l'insopportabile; non c'è uomo, se commette ingiustizia, che non
sconterà la sua pena). Non appena si fece giorno Ipparco sottopose
apertamente la visione agli interpreti dei sogni; ma poi, trascurando
l'avvertimento, condusse la processione durante la quale, appunto,
morì. 57) I Gefirei, ai quali appartenevano gli uccisori di
Ipparco, dichiarano di avere antica origine da Eretria; io personalmente ho
scoperto con le mie indagini che erano Fenici, di quelli venuti con Cadmo
nella terra oggi detta Beozia: e vi abitavano nella zona di Tanagra, da loro
ottenuta in sorte. Di là, dopo che i Cadmei erano stati scacciati una
prima volta dagli Argivi, scacciati una seconda volta dai Beoti, si diressero
ad Atene. Gli Ateniesi li accettarono come concittadini a certe condizioni,
imponendo l'esclusione da certi diritti, non molti per altro e che non vale
la pena di riportare. 58) I Fenici venuti assieme a Cadmo, ai quali appartenevano
i Gefirei, dopo essersi stabiliti in questa regione introdussero fra i Greci
molte novità e in particolare l'alfabeto, che prima, secondo me, in
Grecia non esisteva. Inizialmente ricorsero ai caratteri ancora oggi
adoperati dai Fenici; più tardi, col passare del tempo, insieme con i
suoni ne adattarono anche la forma. A quell'epoca intorno a loro abitavano
per lo più Greci della stirpe ionica; costoro accolsero e impararono
dai Fenici la scrittura, e se ne servirono con qualche modifica alle lettere;
usandole le chiamavano fenicie, come era giusto, visto che a inventarle erano
stati i Fenici. Anche i volumi di papiro da un pezzo gli Ioni li chiamano
pelli, perché una volta per penuria di papiro, utilizzavano pelli di capra e
di pecora; ancora oggi, ai tempi miei, molte popolazioni barbare scrivono su
simili membrane. 59) Io stesso ho visto caratteri cadmei nel tempio di Apollo
Ismenio a Tebe in Beozia, incisi su tre tripodi e uguali, in gran parte, ai
caratteri ionici. L'iscrizione su uno dei tripodi dice:...”Anfitrione mi
offrì, di ritorno dai Teleboi”... (Mi consacrò Anfitrione
di ritorno dai Teleboi). Risalirebbe ai tempi di Laio figlio di Labdaco e
nipote di Polidoro, a sua volta figlio di Cadmo. 60) Il secondo tripode dice in versi esametri:,,,”Vinse
fra i pugili Sceo; e me, splendido dono votivo, Volle a te, Apollo che lungi
con l’arco colpisci, sacrare”.... (Sceo mi vinse nella gara del pugilato
e mi consacrò a te, Apollo arciere, che colpisci da lungi, quale
splendido dono). Sceo sarebbe il figlio di Ippoconte, della generazione di
Edipo figlio di Laio, ammesso che sia proprio lui il consacratore e non un
altro con lo stesso nome del figlio di Ippoconte. 61) Il terzo tripode dice, sempre in esametri:,,,”Laodamante
a te, Apollo che sempre colpisci nel segno, mentre era re, questo tripode
splendido offriva, lui
stesso”...
(Laodamante stesso, regnando, consacrò un tripode a te,
Apollo, arciere infallibile, quale splendido dono). Proprio sotto il regno di
Laodamante figlio di Eteocle i Cadmei furono scacciati dagli Argivi e si
portarono presso gli Enchelei, invece i Gefirei, lasciati lì, si
trasferirono ad Atene più tardi, costretti dai Beoti. Ad Atene essi
edificarono santuari nessuno dei quali è in comune con gli Ateniesi; in
particolare, fra quelli nettamente separati, spicca il santuario di Demetra
Achea con i suoi culti misterici. 62) Ho raccontato dunque la visione avuta in sogno da
Ipparco e l'origine dei Gefirei, ai quali appartenevano gli uccisori di
Ipparco; detto ciò, bisogna ancora riprendere il racconto lasciato in
sospeso al suo inizio su come gli Ateniesi si liberarono dei tiranni. Mentre
Ippia comandava gli Ateniesi con ira, per via della morte di Ipparco, gli
Alcmeonidi, ateniesi di stirpe ed esuli a causa dei Pisistratidi, visto che a
loro e agli altri fuorusciti ateniesi la soluzione di forza non dava
risultati, anzi nel tentativo di rientrare e di liberare la città
avevano subito una grave batosta dopo aver munito di mura Leipsidio a nord
del demo di Peonia, gli Alcmeonidi, dunque, che macchinavano ogni piano
possibile contro i Pisistratidi, presero in appalto dagli Anfizioni la
ricostruzione totale del tempio di Delfi, ossia dell'edificio che c'è
oggi ma che allora non esisteva ancora. Siccome erano ben forniti di denaro e
uomini di notevole prestigio fin dalle origini, portarono a termine il tempio
facendolo ancora più bello del progetto; fra l'altro, mentre si era
stabilito di edificarlo in pietra di tufo, eressero la facciata in marmo di
Paro. 63) Raccontano insomma gli Ateniesi che questi uomini,
stabilitisi a Delfi, col loro denaro persuasero la Pizia a invitare gli
Spartiati, tutte le volte che venivano per consultare l'oracolo, o a titolo
privato, o per conto dello stato, a liberare Atene. Gli Spartani, visto che
risultava sempre lo stesso responso, inviarono con un esercito Anchimolio
figlio di Astro, un cittadino assai stimato, a scacciare da Atene i
Pisistratidi; decisero ciò, benché fossero a essi legati da stretti
vincoli di ospitalità, perché ritenevano più importanti i
dettami divini di quelli umani. Mandarono per mare queste truppe. Anchimolio
attraccò al Falero e le fece sbarcare; i Pisistratidi, preavvertiti,
chiesero rinforzi ai Tessali con i quali avevano stipulato un trattato di
alleanza militare. I Tessali, alla loro richiesta, spedirono con decisione
comune mille cavalieri e il loro re Cinea, un uomo Condeo. Quando li ebbero
al loro fianco, i Pisistratidi misero in opera il seguente piano:
disboscarono la piana del Falero, rendendo il terreno adatto ai cavalli, poi
lanciarono contro l'esercito accampato la cavalleria, che piombò sugli
Spartani e ne uccise parecchi, e fra gli altri Anchimolio, costringendo i
superstiti ad asserragliarsi sulle navi. Così andò a finire la
prima spedizione spartana; la tomba di Anchimolio si trova in Attica, ad
Alopece, accanto al tempio di Eracle in Cinosarge. 64) In seguito gli Spartani allestirono e inviarono contro
Atene una spedizione più consistente, a comandare la quale designarono
il re Cleomene figlio di Anassandride, ma non si mossero più per mare
bensì per via di terra. Quando irruppero nella regione dell'Attica,
con loro si scontrò per prima la cavalleria tessala, che in breve
tempo fu volta in fuga; più di quaranta cavalieri caddero morti, i superstiti
ripiegarono, come potevano, direttamente verso la Tessaglia. Cleomene
entrò in città e, assieme agli Ateniesi che volevano essere
liberi, assediò i tiranni asserragliati entro la cinta del Pelargico. 65) E gli Spartani non avrebbero potuto davvero stanarli i
Pisistratidi (non pensavano di porre un assedio e i Pisistratidi erano ben
provvisti di cibo e bevande) e dopo qualche giorno di blocco si sarebbero
ritirati a Sparta; ma si verificò un caso, sfavorevole certo agli uni
ma ben fortunato, un vero alleato, per gli altri: i figli dei Pisistratidi
furono catturati mentre si cercava di farli uscire di nascosto dalla regione.
Quando questo accadde, la situazione dei Pisistratidi si capovolse; in cambio
dei figli si arresero alle condizioni volute dagli Ateniesi, di uscirsene dall'Attica
entro cinque giorni. Poi se ne andarono al Sigeo sul fiume Scamandro, dopo 36
anni di dominio su Atene; per antica origine erano essi di Pilo e discendenti
di Neleo, con la stessa ascendenza, cioè, delle famiglie di Codro e di
Melanto, i quali un tempo, benché fossero stranieri, erano diventati re di
Atene. In ricordo di tali antenati Ippocrate aveva dato a suo figlio il nome
di Pisistrato, ricavandolo dal Pisistrato figlio di Nestore. Così
dunque gli Ateniesi deposero i tiranni; le cose degne di menzione che fecero
o subirono una volta liberi, prima che la Ionia si ribellasse a Dario e che
Aristagora di Mileto venisse ad Atene per chiedere il loro aiuto, le
esporrò ora anzitutto. 66) Atene, che anche prima era una grande città, una
volta sbarazzatasi dei tiranni, divenne ancora più grande. Vi
primeggiavano due uomini: Clistene, della famiglia degli Alcmeonidi, di cui
si racconta che avesse corrotto la Pizia, e Isagora, figlio di Tisandro, di
famiglia ragguardevole, anche se non sono in grado di precisarne gli antenati
(i membri della sua stirpe sacrificano a Zeus Cario). I due lottarono per il
potere; Clistene, che aveva la peggio, si accattivò il favore
popolare. Più tardi Clistene divise gli Ateniesi in dieci
tribù, mentre prima erano quattro, eliminando i vecchi nomi, derivati
dai figli di Ione, ossia Geleonte, Egicoreo, Argade e Oplete, e trovando
altri eroi locali da cui trarne di nuovi; unica eccezione Aiace, che
aggiunse, benché fosse straniero, in quanto vicino e alleato. 67) Con ciò mi sembra che Clistene abbia imitato il
suo nonno materno Clistene, tiranno di Sicione. Quando era in guerra contro
gli Argivi, questo Clistene soppresse a Sicione le competizioni tra i rapsodi
per i poemi omerici, per il fatto che Argivi e Argo vi sono troppo elogiati;
inoltre, poiché proprio nella piazza centrale di Sicione sorgeva, e sorge
ancora, un eroon dedicato ad Adrasto figlio di Talao, a Clistene venne voglia
di espellerlo dal paese, perché Adrasto era Argivo: si recò a Delfi e
chiese all'oracolo se poteva estromettere Adrasto; e la Pizia gli rispose
sentenziando che Adrasto era re dei Sicioni, lui invece il loro lapidatore.
Poiché il dio non lo autorizzava, tornato a casa, meditava un sistema grazie
al quale Adrasto se ne andasse da sé. Quando credette di averlo trovato,
inviò a Tebe di Beozia un messaggio: voleva trasferire a Sicione la
salma di Melanippo figlio di Astaco; e i Tebani acconsentirono. Clistene
portò in patria i resti di Melanippo, gli assegnò un recinto
sacro dentro al Pritaneo e lì lo collocò, nel punto più
difeso. Clistene traslò Melanippo (certo questo va spiegato) in quanto
era nemico giurato di Adrasto: gli aveva ucciso il fratello Meciste e il
genero Tideo. Una volta dedicatogli il recinto, distolse da Adrasto sacrifici
e festeggiamenti e li concesse a Melanippo. I Sicioni erano soliti
solennizzare Adrasto in maniera splendida: infatti il loro paese apparteneva
a Polibo e Adrasto era nipote di Polibo (per parte della figlia), sicché
Polibo, morendo senza figli, gli aveva lasciato il potere. Vari altri onori i
Sicioni tributavano ad Adrasto, in particolare ne celebravano le sventure con
cori tragici, venerando non più Dioniso ma Adrasto. Clistene
restituì i cori a Dioniso, e il resto della cerimonia lo dedicò
a Melanippo. 68) Così aveva agito nei confronti di Adrasto; alle
tribù doriche cambiò i nomi perché non risultassero le stesse
quelle dei Sicioni e quelle degli Argivi. E così facendo finì
pure per gettare nel ridicolo i Sicioni: infatti prese i nomi dal maiale,
dall'asino e dal porcello, vi aggiunse le desinenze e li impose a tutte le
tribù tranne la propria, alla quale diede un nome echeggiante il suo
primeggiare. Essi insomma furono detti Archelai, gli altri Iati, Oneati,
Chereati. Di questi nomi i Sicioni si servirono durante il regno di Clistene
e per sessanta anni ancora dopo la sua morte; poi, di comune accordo, li
cambiarono in Illei, Panfili, Dimanati; per la quarta tribù, inoltre,
ricavarono un nome da Egialo figlio di Adrasto e stabilirono che si chiamasse
Egialea.
69) Questo dunque aveva fatto Clistene di Sicione; Clistene
di Atene a sua volta (era figlio di una figlia del Sicionico e portava lo
stesso nome) imitò il suo omonimo; secondo me anche lui per astio,
contro gli Ioni, affinché le tribù ateniesi non si chiamassero come
quelle ioniche. Non ap pena ebbe attirato dalla sua il popolo ateniese, fino
ad allora assolutamente tenuto da parte, mutò i nomi delle
tribù e ne aumentò il numero. Creò dieci capi di
tribù in luogo dei quattro precedenti e sempre in gruppi di dieci
assegnò i demi alle tribù. Col popolo dalla sua era assai
più forte dei suoi avversari politici. 70) A sua volta Isagora, vedendosi battuto, rispose con la
seguente mossa: chiamò in suo aiuto lo spartano Cleomene, a lui legato
da vincoli di ospitalità fin dall'epoca dell'assedio dei Pisistratidi.
E si accusava pure Cleomene di stretti rapporti con la moglie di Isagora. Per
prima cosa Cleomene, inviando ad Atene un araldo, cercò di far bandire
Clistene assieme a molti altri Ateniesi, definiti da lui "impuri".
Agiva così seguendo le istruzioni di Isagora. In effetti gli
Alcmeonidi e i loro compagni di fazione erano accusati di un delitto a cui
Isagora e così pure i suoi amici erano estranei. Ecco come gli Ateniesi
"impuri" meritarono tale appellativo. 71) Vi era ad Atene Cilone, vincitore dei Giochi Olimpici;
costui alzò la cresta e puntò al potere di tiranno; associatosi
una banda di coetanei tentò di impadronirsi dell'acropoli, ma non
riuscendo nell'impresa andò a sedersi come supplice di fronte alla
statua della dea. I pritani dei naucrari, che allora governavano Atene, li
persuasero a lasciare il tempio garantendo loro salva la vita. E invece
furono uccisi e del delitto furono incolpati gli Alcmeonidi. Tutto questo era
accaduto prima della età di Pisistrato. 72) Quando Cleomene tentò col suo messaggio di far
cacciare Clistene e gli impuri, Clistene si allontanò in segreto; non
di meno più tardi Cleomene si presentò ad Atene con un
contingente non numeroso e, appena giunto, mise al bando come sacrileghe
settecento famiglie ateniesi indicategli da Isagora. Fatto ciò,
tentò come seconda iniziativa di sciogliere il Consiglio e di mettere
le cariche nelle mani di trecento seguaci di Isagora. Ma poiché il Consiglio
si ribellò rifiutandosi di obbedirgli, Cleomene, Isagora e i suoi
occuparono l'acropoli. Gli altri Ateniesi di comune accordo li assediarono
per due giorni; il terzo giorno stipularono una tregua in base alla quale
quelli di loro che erano Spartani potevano ritirarsi dal paese. Si compiva
così per Cleomene la profezia: quando era salito sull'acropoli per
occuparla, si era avviato verso i penetrali del tempio, come per rivolgersi
alla dea; ma la sacerdotessa, balzata dal seggio prima che lui ne varcasse la
soglia, gli aveva gridato: "Straniero di Sparta! Torna indietro, non
entrare nel tempio! Qua dentro ai Dori non è lecito entrare". E
Cleomene le aveva risposto: "Donna, io non sono Doro, ma Acheo!".
Incurante dell'avvertimento del dio tentò l'impresa; e fu espulso, in
quella circostanza, con gli Spartani. Gli altri, gli Ateniesi li misero in
carcere per mandarli a morte; fra loro c'era anche Timesiteo di Delfi, del
quale potrei elencare le eccezionali prodezze di forza e di coraggio. 73) Costoro dunque morirono in catene. Gli Ateniesi in
seguito richiamarono Clistene e le settecento famiglie esiliate da Cleomene;
e inviarono ambasciatori a Sardi, perché desideravano allearsi ai Persiani.
Erano infatti convinti che Cleomene e gli Spartani sarebbero scesi in campo
contro di loro. Quando gli incaricati, giunti a Sardi, ebbero riferito il
messaggio, Artafrene di Istaspe, governatore di Sardi, chiese loro chi
fossero e dove mai abitassero per chiedere di diventare alleati dei Persiani;
udita la risposta, si sbrigò in due parole: se gli Ateniesi
concedevano terra e acqua a re Dario, egli avrebbe stipulata l'alleanza, in
caso contrario li invitava a tornarsene a casa. I messi, autonomamente, si
dichiararono favorevoli, perché volevano stringere l'alleanza. Ma una volta
tornati a casa furono duramente accusati. 74) Cleomene, convinto di essere stato offeso a parole e nei
fatti dagli Ateniesi, arruolava truppe da tutto il Peloponneso, senza
specificarne il perché: era intenzionato a vendicarsi del popolo ateniese e voleva
insediare Isagora, che assieme a lui aveva lasciato l'acropoli, nel ruolo di
tiranno. Cleomene con una spedizione massiccia invase il territorio di
Eleusi, mentre, secondo il piano convenuto, i Beoti conquistavano Enoe e
Isie, i demi più periferici dell'Attica, e i Calcidesi dall'altro lato
attaccavano i territori dell'Attica e li devastavano. Gli Ateniesi, benché
assaliti su due fronti, decisero di pensare più tardi a Beoti e
Calcidesi e impugnarono le armi contro i Peloponnesiaci che occupavano Eleusi.
75) Già gli eserciti si apprestavano a scontrarsi,
quando i Corinzi, resisi conto per primi che non stavano agendo con
giustizia, cambiarono idea e si ritirarono; lo stesso fece poi Demarato
figlio di Aristone, anche lui re degli Spartiati, collega di Cleomene nel
guidare l'esercito da Sparta e mai prima di allora in disaccordo con lui.
Dopo questo episodio di discordia a Sparta si stabilì per legge che i
re non potessero accompagnare tutti e due l'esercito in caso di spedizione
(in effetti fino ad allora lo seguivano assieme): e venendo dispensato dal
comando uno dei re, doveva rimanere in città anche uno dei Tindaridi,
mentre prima anch'essi, entrambi, dopo essere stati invocati, accompagnavano
assieme l'esercito. 76) Allora ad Eleusi gli alleati rimasti, vedendo che i re
spartani non erano d'accordo e che i Corinzi avevano abbandonato lo
schieramento, si ritirarono anch'essi, tornandosene a casa. Questa era la
quarta volta che i Dori entravano in Attica, due volte l'avevano assalita con
intenzioni ostili, altre due per il bene del popolo ateniese: la prima volta
quando avevano anche fondato Megara (questa spedizione potrebbe correttamente
prendere nome dal re di Atene Codro), la seconda e la terza quando si erano
mossi da Sparta per scacciare i Pisistratidi, e la quarta allora, quando
Cleomene invase il territorio di Eleusi alla testa dei Peloponnesiaci; ecco
come in quella quarta occasione i Dori attaccarono Atene. 77) Visto che questo corpo di spedizione si era dissolto in
maniera tanto ingloriosa, allora gli Ateniesi, desiderosi di vendicarsi,
marciarono in primo luogo contro i Calcidesi. I Beoti vennero in soccorso dei
Calcidesi sull'Euripo. Quando gli Ateniesi li videro accorrere in aiuto,
decisero di battersi prima coi Beoti che coi Calcidesi. Vennero a conflitto
con i Beoti e li soverchiarono ampiamente, ne uccisero molti davvero e ne
catturarono vivi settecento. Nello stesso giorno gli Ateniesi, passati in
Eubea, si scontrarono anche con i Calcidesi: sconfissero anche loro e
lasciarono sul posto quattromila cleruchi a spartirsi le terre degli
ippoboti; ippoboti si chiamavano i Calcidesi del ceto benestante. Quanti
furono catturati a Calcide li tennero in carcere assieme ai prigionieri
beoti, in ceppi e catene; col tempo li liberarono per un riscatto di due mine
a testa. I ceppi con cui li avevano incatenati li appesero sull'acropoli; e
c'erano ancora ai miei tempi, appesi alle mura bruciacchiate tutto intorno
dall'esercito medo, di fronte al sacrario che sorge sul lato occidentale. E
consacrarono la decima parte dei riscatti fabbricando una quadriga di bronzo;
essa è posta subito a sinistra di chi entra nei propilei dell'acropoli
e reca la seguente iscrizione:...”Pria con impresa di guerra domatele, i
figli di Atene, Della Beozia e di Calcide incatenaro le genti. Quindi,
fiaccatone in tenebre e ferree ritorte l’orgoglio, Queste cavalle alla Dea,
dopo il riscatto, sacrar”... (Dopo aver domato le genti dei Beoti e dei
Calcidesi in azione di guerra, i figli degli Ateniesi ne spensero l'arroganza
con tetre catene di ferro; come decima offrirono a Pallade queste cavalle). 78) Gli Ateniesi dunque crescevano in potenza; e non sotto
un solo rispetto ma da ogni punto di vista risulta chiaro che l'uguaglianza
di diritti è cosa preziosa, se davvero gli Ateniesi, quando erano in
mano ai tiranni, non furono mai superiori in guerra alle popolazioni
circostanti, mentre poi, sbarazzatisi di loro, divennero di gran lunga i
primi. Risulta quindi chiaro che, da oppressi, si comportavano vilmente di
proposito, pensando che agivano per un padrone, mentre, una volta liberi,
ciascuno per se stesso desiderava adoperarsi fino in fondo. 79) Così andavano le cose ad Atene. I Tebani,
più tardi, ansiosi di vendetta contro gli Ateniesi, inviarono dei
delegati per consultare il dio. La Pizia escluse che potessero ottenere
vendetta da soli e li esortò a riportare le sue parole là dove
risuonano molte voci e a domandare aiuto a chi era loro più vicino. Al
ritorno, gli inviati convocarono una assemblea e riferirono il responso. Una
volta udito il rapporto e saputo dal discorso dei messi che dovevano
rivolgersi a chi era loro più vicino, i Tebani dissero: "Ma
intorno a noi non abitano i Tanagrei, i Coronei e i Tespiesi? Sono gente che
da sempre combatte volentieri assieme a noi e ci aiuta a sostenere il peso
delle guerre. Che bisogno c'è di ricorrere a loro? Guardiamo piuttosto
se è proprio questo il significato dell'oracolo!". 80) Mentre così riflettevano a un tratto uno ebbe
un'idea e disse: "Io credo di capire quello che vuole dirci l'oracolo.
Tebe ed Egina, a quanto si racconta, erano figlie di Asopo. Se sono sorelle,
credo che il dio ci ordini di affiancarci nella vendetta gli Egineti". E
poiché non sembrava manifestarsi opinione migliore di questa, subito
inviarono ambasciatori agli Egineti, sollecitandoli in base all'oracolo,
perché erano i più vicini, a venire in loro aiuto. Ed essi di fronte a
tale invito risposero che avrebbero mandato in soccorso gli Eacidi. 81) I Tebani tentarono l'impresa con l'ausilio degli Eacidi
e furono duramente sconfitti dagli Ateniesi; allora mandarono di nuovo
ambasciatori e restituirono gli Eacidi chiedendo invece uomini. Gli Egineti,
superbi per la propria grande prosperità e memori di un antico odio
verso gli Ateniesi, allora, come volevano i Tebani, portarono contro Atene
una guerra che neppure si erano preoccupati di dichiarare. Mentre gli
Ateniesi premevano sui Beoti, essi raggiunsero l'Attica con navi lunghe:
saccheggiarono Falero da una parte e molti altri demi costieri dall'altra e
così facendo arrecarono ingenti danni agli Ateniesi. 82) Ecco come era nato a suo tempo l'odio che gli Egineti
nutrivano per gli Ateniesi. La terra non dava alcun frutto agli abitanti di
Epidauro; essi su tale carestia consultarono l'oracolo di Delfi e la Pizia
ordinò loro di innalzare statue a Damia e ad Auxesia: erette le
statue, la situazione sarebbe migliorata. Allora gli Epidauri chiesero se
dovevano farle di bronzo, le statue, o di marmo; né in un modo né nell'altro,
replicò la Pizia, ma dovevano fabbricarle con legno di olivo
domestico. Gli Epidauri allora chiesero agli Ateniesi il permesso di tagliare
degli olivi, ritenendo quelli ateniesi i più sacri. Si dice anche che
a quell'epoca non ci fossero olivi in nessun'altra parte del mondo se non ad
Atene. Gli Ateniesi acconsentirono a patto che ogni anno gli Epidauri
tributassero sacrifici ad Atena Poliade e a Eretteo. Gli Epidauri
acconsentirono e ottennero quanto chiedevano: fabbricarono le statue con gli
olivi ateniesi e le eressero. La terra dava frutti ed essi mantenevano la
promessa fatta agli Ateniesi. 83) In quel periodo ancora, come prima, gli Egineti
obbedivano agli Epidauri; fra l'altro andavano a Epidauro per dirimere le
loro cause giudiziarie interne. Ma in seguito si costruirono delle navi e con
avventata condotta si staccarono da Epidauro: essendo ormai ostili compivano
razzie ai loro danni, dato che erano padroni del mare: in particolare gli
sottrassero le statue di Damia e di Auxesia; se le portarono via e le eressero
nell'interno del proprio paese, in una località detta Ea, distante
circa una ventina di stadi dalla città. Le collocarono lì e per
propiziarsene il favore le onoravano con sacrifici e cori femminili mordaci:
a ciascuna delle dee erano stati assegnati dieci coreghi; i cori non
rivolgevano ingiurie contro gli uomini, bensì contro le donne del
luogo. Anche a Epidauro si svolgevano le stesse cerimonie, ma in più
si svolgevano anche riti segreti. 84) Poiché le statue erano state rubate, gli Epidauri
smisero di mantenere la promessa fatta agli Ateniesi. Gli Ateniesi inviarono
messaggeri a manifestare la loro indignazione verso gli Epidauri, i quali
però dimostrarono a fil di logica di non essere in torto nell'agire
così: fin tanto che avevano avuto le statue nel proprio paese, avevano
serbato fede ai patti, ma visto che ne erano stati privati, non toccava
più a loro tributare sacrifici e invitavano, dunque, gli Ateniesi a
rivolgersi in merito agli Egineti che avevano presso di sé le statue. Allora
gli Ateniesi inviarono messi a Egina per esigerne la restituzione; ma gli
Egineti risposero di non aver nulla da discutere con gli Ateniesi. 85) Gli Ateniesi per parte loro raccontano che dopo la
richiesta di restituzione inviarono per conto dello stato dei cittadini su di
una sola trireme, i quali, giunti a Egina, tentarono di svellere dai
piedistalli le statue in questione, in quanto fatte con legno del loro paese,
per portarsele via. Non riuscendo a vincerne la resistenza in questo modo, le
legarono con delle funi e cominciarono a tirare; e mentre tiravano si
sentì un rumore di tuono e ci fu un terremoto; gli uomini della
trireme che tiravano le corde per colpa di questi prodigi uscirono di senno e
per questo si uccisero fra loro come dei nemici; alla fine l'unico superstite
se ne tornò a Falero. 86) Fin qui il racconto degli Ateniesi. Gli Egineti, invece,
sostengono che gli Ateniesi non approdarono con una sola trireme (da una o
poche più di una avrebbero potuto difendersi facilmente, anche se per
caso di navi non ne avessero avute), ma che assalirono con una flotta il loro
paese; e dichiarano di non aver opposto resistenza evitando uno scontro
navale. Non sanno però spiegare esattamente se cedettero riconoscendo
la propria inferiorità in quel campo, oppure con l'intenzione di agire
come poi agirono. Visto che nessuno li affrontava in battaglia, gli Ateniesi
sbarcarono e si diressero verso le statue: non riuscendo a scalzarle dai
basamenti, le legarono con delle corde e tirarono, tirarono, finché le statue
non risposero entrambe nello stesso modo (ma dicono cose che un altro
può credere, forse, non io), e cioè caddero in ginocchio
davanti agli Ateniesi; in tale posizione esse rimangono da allora.
Così dunque si sarebbero comportati gli Ateniesi; dal canto loro gli
Egineti, informati dell'imminente spedizione ateniese, tenevano allerta gli
Argivi. Insomma, gli Ateniesi non erano ancora arrivati a Egina, che
lì già c'erano le truppe alleate di Argo; esse, sbarcate di
nascosto sull'isola da Epidauro, piombarono inaspettatamente sugli Ateniesi
tagliandogli la ritirata verso le navi; a questo punto scoppiò il
tuono e ci fu il terremoto. 87) Raccontano Argivi ed Egineti, e qui gli Ateniesi sono
d'accordo, che un solo superstite poté fare ritorno in Attica; gli Argivi
però lo pretendono scampato al massacro che essi fecero delle truppe
nemiche, invece gli Ateniesi a una strage di natura divina; tuttavia neppure
quest'uno sopravvisse e la sua morte avvenne così. Tornato ad Atene
riferì la tremenda notizia; quando le mogli degli uomini partiti per
Egina la conobbero, non tollerando che solo lui fra tutti si fosse salvato,
lo circondarono: colpendolo con le fibbie del vestito ciascuna gli chiedeva
dove fosse il proprio marito. E così fu ucciso; agli Ateniesi il gesto
delle donne parve più spaventoso ancora della disfatta. Non sapendo in
quale altra maniera punirle, decisero di imporre l'adozione dell'abito di
foggia ionica. Prima di allora infatti le donne di Atene portavano vesti
doriche, molto simili a quelle di Corinto; venne introdotto dunque il chitone
di lino perché non adoperassero fibbie. 88) A dire il vero questo costume non è ionico,
d'origine, ma cario, mentre l'antico abbigliamento femminile greco era
effettivamente quello che oggi diciamo dorico. Di fronte a tali avvenimenti
Argivi ed Egineti stabilirono per legge che le fibbie da loro fossero lunghe
una volta e mezza più di quanto era in uso all'epoca e che nel tempio
delle due dee le donne consacrassero soprattutto fibbie; non vi si doveva
portare alcun prodotto attico, nemmeno un vaso, anzi da allora in poi sarebbe
stata regola bere in ciotoline di fabbricazione locale. Ebbene, le donne di
Egina e di Argo da quel momento fino ai miei tempi per dispetto agli Ateniesi
portavano fibbie più grandi di prima. L'origine dell'odio ateniese per
gli Egineti risale a quanto ho raccontato. 89) Allora appunto, di fronte alla richiesta di soccorso dei
Tebani, gli Egineti, memori dei fatti delle statue, aiutarono volentieri i
Beoti. Gli Egineti saccheggiavano regolarmente le regioni costiere
dell'Attica; agli Ateniesi in procinto di muovere contro di loro venne da
Delfi una profezia: se avessero aspettato trenta anni a partire
dall'ingiustizia commessa dagli Egineti, e avessero scatenato la guerra
contro Egina al trentunesimo, dopo aver dedicato un santuario a Eaco, tutto
sarebbe andato secondo i loro desideri. Se invece li avessero attaccati
subito, avrebbero molto subíto nel frattempo, e arrecato anche molti danni, e
infine avrebbero avuto la meglio. Quando l'oracolo venne riportato agli
Ateniesi e l'ebbero udito, assegnarono a Eaco l'area sacra ancora oggi
esistente nell'agorà, ma non vollero sentir parlare dei trenta anni
necessari di attesa, visti gli oltraggi ricevuti da parte degli Egineti. 90) Mentre si preparavano alla vendetta, venne a ostacolarli
una iniziativa degli Spartani. Gli Spartani, venuti a conoscenza delle
macchinazioni degli Alcmeonidi nei confronti della Pizia e degli intrighi
della Pizia ai danni loro e dei Pisistratidi, ritennero doppiamente grave,
sia di aver scacciato da Atene persone alle quali erano legati da vincoli di
ospitalità, sia che ciononostante gli Ateniesi non gli mostrassero
alcuna riconoscenza. Oltre a ciò a spingerli erano gli oracoli che
prefiguravano ai loro danni molti oltraggi da parte degli Ateniesi; di queste
profezie prima erano all'oscuro, ma allora, dopo che Cleomene le aveva
portate a Sparta, le conobbero nei particolari. Cleomene si era impadronito
di tali oracoli sull'acropoli di Atene; ne erano in possesso i Pisistratidi,
ma quando furono scacciati li lasciarono nel tempio: li avevano abbandonati
lì e se li prese Cleomene. 91) Una volta avute in mano le profezie e vedendo gli
Ateniesi in fase di crescita e niente affatto disposti all'obbedienza, gli
Spartani compresero che la gente di Atene, da libera, avrebbe acquisito un
peso pari al loro, mentre sotto una tirannide sarebbe stata debole e docile;
compreso ciò mandarono a chiamare Ippia figlio di Pisistrato dal Sigeo
d'Ellesponto, (dove si erano rifugiati i Pisistratidi). Quando Ippia,
convocato, fu presente, gli Spartiati fecero venire anche rappresentanti
degli altri alleati e dichiararono: "Alleati, noi ammettiamo di non aver
agito correttamente. Fuorviati da oracoli ambigui, gettammo fuori della loro
patria uomini a noi legati da strettissimi vincoli di ospitalità e
disposti a mantenere Atene sotto di noi; dopodiché affidammo la città
a un popolo privo di gratitudine, che, dopo aver risollevato libero la testa
per merito nostro, inflisse umiliazioni a noi e al nostro re e ci
cacciò via malamente; e ora altamente convinto di sé si ingrandisce,
come ben sanno i popoli confinanti, Beoti e Calcidesi, e presto anche
qualcun'altro si accorgerà dell'errore. Ma giacché ad agire
così abbiamo sbagliato, ora cercheremo di trovare un rimedio assieme a
voi; per questo appunto abbiamo convocato qui Ippia e voialtri, dalle vostre
città, per installarlo di nuovo in Atene di comune accordo e con forze
comuni, per restituirgli ciò che gli abbiamo tolto". 92) Così parlarono gli Spartani, ma la massa degli
alleati non approvò il loro discorso. Gli altri tacevano, Socle di
Corinto invece disse: A) "Non c'è dubbio, il cielo starà
giù sottoterra e la terra per aria, sopra il cielo, gli uomini
andranno a vivere nel mare e i pesci verranno dove prima c'erano gli uomini,
giacché voi, Spartani, abolendo le uguaglianze di diritti, vi apprestate a
instaurare nelle città governi tirannici, i regimi più ingiusti
e sanguinari che esistano in assoluto. Se davvero ritenete una bella cosa che
le città siano così governate, allora cominciate voi a metterlo
al potere a casa vostra, un tiranno, e poi cercate di imporlo agli altri. Ora
invece voi, che non avete esperienza di tiranni e anzi vigilate con molto
rigore che mai non ne spuntino a Sparta, vi comportate molto male nei
confronti dei vostri alleati; se ne aveste avuta esperienza, come noi,
avreste in proposito opinioni ben più savie di questa da avanzare! B) Ecco per esempio qual era il regime politico a Corinto:
una oligarchia; e a governare la città erano i cosiddetti Bacchiadi,
che contraevano matrimoni solo al proprio interno. Anfione, uno di loro,
aveva una figlia storpia, di nome Labda; poiché nessun Bacchiade voleva
sposarla, se la prese Eezione, figlio di Echecrate, nativo del demo di Petra,
peraltro Lapita di origine, discendente di Ceneo. Eezione non riusciva ad
avere figli né da questa donna né da un'altra; partì, quindi, per
Delfi per avere lumi sulla sua capacità di procreare. Mentre entrava
nel tempio, la Pizia lo salutò direttamente con queste parole:...”Eezione,
nessuno t’onora, benchè molto degno. Labda ha nel seno un macigno che
nasce e poi rotola e cade, Sui dominanti Signori, e il catigo sarà di
Corinto”... (Eezione, nessuno ti rende onore, benché tu ne sia assai
degno. Labda è incinta e partorirà un macigno; cadrà su
chi ha il potere e punirà Corinto). La profezia resa a Eezione giunse
in qualche modo alle orecchie dei Bacchiadi; essi non erano riusciti a
interpretare il precedente responso relativo a Corinto, che veniva a
coincidere con quello di Eezione e diceva:...”Gravida un’aquila è
sopra le rocce: sarà d’un leone la madre: Forte, crudivoro; e a molti
costui scioglierà le ginocchia, Ben riflettete su questo, o Corinzi
che presso Corinto Ricca di colli abitate, e la bella
fontana Pirene!”.... (Un'aquila è gravida sulle pietre, e
darà alla luce un leone feroce carnivoro: a molti fiaccherà le
ginocchia. Pensateci bene, Corinzi, che abitate intorno alla bella Pirene e
alla ripida Corinto). C) Il responso precedentemente dato ai Bacchiadi era
oscuro, ma quando appresero quello ricevuto da Eezione, subito capirono anche
il primo, che gli si accordava. Ma poi, benché avessero compreso pure questo,
se ne stettero quieti, con l'intenzione di eliminare il figlio che doveva
nascere a Eezione. Appena sua moglie ebbe partorito, mandarono dieci di loro
nel demo in cui viveva Eezione per uccidere il neonato. Giunti a Petra,
costoro si presentarono nella dimora di Eezione e chiesero del bambino.
Labda, ignorando le ragioni della loro venuta e credendo che lo volessero
vedere per amicizia verso il padre, lo andò a prendere e lo diede in
braccio a uno di loro. Essi strada facendo avevano deciso che il primo ad
avere in mano il bambino doveva scaraventarlo per terra. Ma quando la donna
lo portò e lo diede a loro, per sorte divina il neonato sorrise
all'uomo che l'aveva ricevuto; e questi ci pensò e gli pianse il cuore
all'idea di ucciderlo: mosso a compassione, lo porse al secondo e il secondo
al terzo; e così il bambino passò fra le braccia di tutti e
dieci senza che nessuno si decidesse ad ammazzarlo. Restituirono l'infante
alla madre e uscirono; fermatisi sulla soglia, cominciarono ad accusarsi a
vicenda, rimproverando soprattutto al primo che l'aveva avuto in mano di non
aver agito come convenuto, finché, trascorso del tempo, non decisero di
entrare di nuovo e di assassinarlo tutti assieme. D) Ma era ormai destino che dal figlio di Eezione
germogliassero sciagure per Corinto. Infatti Labda, stando proprio accanto
alla porta, udì i loro discorsi; nel terrore che, cambiata idea,
prendessero un'altra volta il bambino e lo uccidessero, lo andò a
nascondere in quello che le parve il luogo più impensabile, in una
cassa, sapendo che se fossero tornati indietro per cercarlo avrebbero frugato
dappertutto. E così fu. Entrarono e perquisirono, ma, visto che il
bambino era sparito, decisero di andarsene e di riferire a chi li aveva
mandati di essersi attenuti fedelmente agli ordini. Così raccontarono
al loro ritorno. E) Poi il figlio di Eezione crebbe: per essere scampato a
questo pericolo, fu chiamato Cipselo, dal nome della cassetta. Ormai adulto,
Cipselo, consultando a Delfi l'oracolo, ricevette un responso
indiscutibilmente propizio, fidando nel quale attaccò Corinto e se ne
impadronì. Il testo dell'oracolo diceva:...”Cipselo d’Eezione, re
della gloriosa Corinto, Ei con i figli; ma più nol saranno poi i
nati dai figli”.... (Beato quest'uomo che scende nella mia dimora,
Cipselo di Eezione, re della gloriosa Corinto, lui e i suoi figli, non
però i figli dei figli). Questa era stata la profezia; e, divenuto
tiranno, ecco che uomo fu Cipselo: esiliò molti Corinzi, a molti
sottrasse i beni, a molti di più ancora la vita. F) Dopo trenta anni di regno compì felicemente il
corso della sua esistenza e gli successe al potere il figlio Periandro.
Periandro all'inizio era più mite del padre, ma, dopo essere entrato
in rapporto, per mezzo di ambascerie, con il tiranno di Mileto Trasibulo,
divenne ancora più sanguinario di Cipselo. Infatti aveva inviato a Trasibulo
un araldo per chiedergli quale era il metodo di governo più sicuro da
adottare per reggere la città nel modo migliore. Trasibulo condusse
l'incaricato di Periandro fuori della città ed entrò in un
campo coltivato: camminando in mezzo alle messi, lo interrogava e
reinterrogava sul motivo della sua venuta da Corinto e nel contempo recideva
tutte le spighe che vedeva più alte delle altre, le recideva e le
gettava per terra, finché così facendo non ebbe distrutto la parte
più bella e rigogliosa delle messi. Traversato il campo,
congedò l'araldo senza avergli dato alcun consiglio. Al ritorno a
Corinto del suo incaricato, Periandro era impaziente di udire la risposta;
l'araldo invece gli riferì che Trasibulo non gli aveva suggerito
nulla; e aggiunse di stupirsi che lo avesse mandato da un uomo simile, un
demente, uno che si autodanneggiava: e raccontava quanto aveva visto fare da
Trasibulo. G) Ma Periandro comprese la faccenda; sicuro che Trasibulo
gli consigliava di eliminare i cittadini più eminenti, a questo punto
mostrò ai Corinzi l'intera sua malvagità. Gli assassinii e le
persecuzioni non eseguiti da Cipselo, Periandro li condusse a termine; in un
solo giorno Periandro spogliò dei loro abiti tutte le donne di Corinto
in onore di sua moglie Melissa. Aveva infatti inviato dei messi presso i
Tesprozi, sul fiume Acheronte per consultare l'oracolo dei morti circa un
deposito lasciato da un ospite; e Melissa era apparsa dichiarando di non
voler indicare né specificare il luogo in cui esso giaceva, perché era nuda e
aveva freddo. Dalle vesti seppellite con lei non traeva alcun giovamento
perché non erano state bruciate; per testimoniare la verità delle sue
parole aggiunse che Periandro aveva introdotto i suoi pani in un forno
freddo. Non appena queste parole furono riportate e riferite a Periandro (e
la prova gli risultava credibile, visto che s'era unito a Melissa ormai
cadavere), immediatamente dopo l'ambasceria, diffuse un proclama: tutte le
donne di Corinto dovevano radunarsi al tempio di Era. Esse vi andarono con
gli abiti più eleganti, come si va a una festa, lui invece vi aveva
appostato i suoi armigeri e le costrinse tutte a spogliarsi, senza
distinzioni, padrone e serve; ammassò le vesti in una fossa e le
bruciò invocando Melissa. Fatto ciò, mandò una seconda
volta a consultare l'oracolo e l'ombra di Melissa gli indicò dove
aveva messo il deposito dell'ospite. Eccovi qua un esempio di tirannide,
Spartani, ecco di che azioni è capace. E una improvvisa meraviglia ci
ha preso, noi Corinzi, e grande, nel vedere che mandavate a chiamare Ippia, e
adesso ci meravigliamo ancora di più per le vostre parole; e vi
scongiuriamo, chiamando a testimoni gli dèi della Grecia, di non
instaurare tirannidi nelle città. Non vi fermerete? Cercherete lo
stesso, contro giustizia, di riportare Ippia ad Atene? Sappiate che i Corinzi
non sono affatto d'accordo con voi". 93) Così parlò Socle, ambasciatore di Corinto.
Ippia, invocando le stesse divinità nominate da Socle, gli rispose che
senza dubbio i Corinzi più di tutti gli altri avrebbero rimpianto i
Pisistratidi quando fossero venuti i giorni in cui era destino patire a causa
di Atene. Ippia gli rispose così da uomo che conosceva gli oracoli con
maggiore esattezza fra tutti. I rimanenti alleati erano rimasti zitti fino ad
allora, ma, dopo aver udito Socle parlare liberamente, ruppero il silenzio
aderendo tutti all'opinione espressa dal Corinzio. E scongiurarono gli
Spartani di non rivoluzionare nulla nelle città della Grecia. 94) In tal modo l'iniziativa fu bloccata. A Ippia, mentre
partiva, il Macedone Aminta offrì Antemunte; i Tessali gli avevano
offerto Iolco; ma Ippia le rifiutò entrambe e se ne tornò
indietro al Sigeo, che Pisistrato aveva strappato con le armi ai Mitilenesi.
Pisistrato dopo essersene impadronito, vi aveva insediato come tiranno
Egesistrato, suo figlio bastardo, nato da una donna di Argo, il quale non
riusciva a conservare pacificamente quanto aveva ricevuto da Pisistrato.
Mitilenesi e Ateniesi, muovendo dalla città di Achilleo, gli facevano
spesso guerra, i primi perché rivendicavano la regione, gli Ateniesi non
certo perché riconoscessero tale diritto; anzi dimostravano a fil di logica
che gli Eoli non avevano diritti sulla regione di Ilio più di loro e
di tutti quegli altri Greci che avevano aiutato Menelao a vendicare il
rapimento di Elena. 95) Durante questi conflitti era successo un po' di tutto
nelle battaglie: una volta il poeta Alceo nel bel mezzo di una mischia in cui
gli Ateniesi stavano prevalendo si mise in salvo con la fuga; gli Ateniesi si
impadronirono delle sue armi e le appesero nel tempio di Atena al Sigeo. Su
questa vicenda Alceo compose una poesia e la inviò a Mitilene per
annunciare la sua disavventura all'amico Melanippo. Ateniesi e Mitilenesi li
riconciliò Periandro di Mitilene, a cui si erano rivolti per un
arbitrato; li mise d'accordo in questo modo, che ognuno governasse ciò
che possedeva. 96) E così il Sigeo era passato sotto gli Ateniesi.
Ippia, tornato da Sparta in Asia, tentò ogni mossa, calunniando gli Ateniesi
agli occhi di Artafrene e facendo di tutto perché Atene cadesse in potere suo
e di Dario. Così manovrava Ippia; gli Ateniesi, saputolo, inviarono
messaggeri a Sardi per impedire ai Persiani di lasciarsi convincere dagli
esuli ateniesi. Ma Artafrene li invitò a riammettere Ippia in patria,
se volevano evitare i guai. Gli Ateniesi non accolsero questi discorsi,
quando gli furono riferiti; e non accogliendoli avevano in pratica deciso di
essere apertamente ostili ai Persiani. 97) Mentre facevano queste considerazioni ed erano ormai in
cattiva luce agli occhi dei Persiani, giunse ad Atene Aristagora di Mileto,
mandato via da Sparta dal Lacedemone Cleomene; Atene in effetti fra le
rimanenti città era la più potente. Presentatosi davanti al
popolo, Aristagora ripeté lo stesso discorso pronunciato a Sparta sulle
ricchezze dell'Asia e sulla guerra contro la Persia, come cioè fosse
facile sconfiggerli dato che non usavano né scudo né lancia. Ripeté tutto
questo e aggiunse che i Milesi erano coloni di Atene e quindi logicamente si
attendevano una difesa dagli Ateniesi, tanto potenti. Non tralasciò
promessa, da uomo stretto nella morsa della necessità, finché non li
convinse. Evidentemente è più facile abbindolarne molti che uno
solo, se Aristagora non fu capace di ingannare lo spartano Cleomene, un solo
individuo, e ci riuscì invece con trentamila Ateniesi. Gli Ateniesi,
persuasi, decretarono di mandare venti navi in soccorso degli Ioni,
nominandone comandante Melantio, un cittadino eminente da ogni punto di vista.
Queste navi furono origine di sventura per i Greci e per i barbari. 98) Aristagora le precedette: giunto a Mileto,
escogitò un piano che agli Ioni non avrebbe portato alcun vantaggio
(non era neppure questo il suo scopo, in fondo: agiva per molestare re
Dario): mandò un uomo in Frigia presso i Peoni del fiume Strimone
fatti a suo tempo prigionieri da Megabazo, che abitavano per conto loro una
località e un villaggio della Frigia; l'inviato, giunto presso i
Peoni, pronunciò il seguente discorso: "Peoni, mi ha mandato
Aristagora, il tiranno di Mileto, per promettervi la salvezza, se volete
dargli retta. In questo momento la Ionia intera si è ribellata al re e
voi avete la possibilità di tornarvene sani e salvi nel vostro paese.
Fino al mare il viaggio dipende da voi, da lì in avanti ce ne
occuperemo noi". Udite queste parole, i Peoni le salutarono con
entusiasmo, presero su donne e bambini e corsero verso il mare; ma ci fu
anche chi rimase lì per paura. I Peoni raggiunsero il mare e dalla
costa passarono a Chio. Erano già a Chio quando si gettò sulle
loro tracce, all'inseguimento, un forte contingente di cavalieri persiani.
Non avendoli acciuffati, ingiunsero ai Peoni in Chio di tornare indietro. I
Peoni non accolsero l'ordine, anzi i Chii li trasferirono dalla loro isola a
Lesbo, e i Lesbi li portarono a Dorisco. Da lì per via di terra
raggiunsero la Peonia. 99) Aristagora, dopo l'arrivo delle venti navi ateniesi,
accompagnate da cinque triremi di Eretriesi che prendevano parte alla
spedizione per fare un favore non agli Ateniesi, ma ai Milesi stessi, ai
quali pagavano un debito di riconoscenza (precedentemente i Milesi avevano
sostenuto sino in fondo Eretria in una guerra contro i Calcidesi, allorché i
Calcidesi avevano fruito dell'aiuto dei Sami contro Ateniesi e Milesi), dopo
insomma il loro arrivo e una volta presenti anche gli altri alleati,
Aristagora organizzò una spedizione contro Sardi. Lui non vi prese
parte, ma rimase a Mileto nominando altri strateghi alla testa dei Milesi,
suo fratello Caropino e, fra gli altri cittadini, Ermofanto. 100) Giunti a Efeso con questo contingente, gli Ioni
lasciarono le navi a Coresso, nel territorio di Efeso e marciarono verso
l'interno con truppe ingenti, prendendo come guide degli Efesini. Marciarono
lungo il fiume Caistro, poi da lì valicarono il Tmolo: raggiunsero
Sardi, la presero senza incontrare alcuna resistenza e l'occuparono tutta
esclusa l'acropoli; l'acropoli la difese personalmente Artafrene con un
robusto contingente di soldati. 101) Non poterono però saccheggiare la città
conquistata; andò così: le case di Sardi erano in maggioranza
di canne e anche le case in mattoni avevano il tetto di canne. Come un
soldato diede fuoco a una di esse, subito l'incendio si propagò di casa
in casa e divampò per tutta la città. Mentre la città
bruciava i Lidi e tutti i Persiani che vi si trovavano, tagliati fuori da
ogni parte, poiché il fuoco ardeva nelle zone periferiche e non avevano vie
d'uscita dalla città, si affollarono nella piazza e sulle rive del
fiume Pattolo, che scorre nel mezzo della piazza trascinando giù dal
Tmolo delle pagliuzze d'oro e poi confluisce nel fiume Ermo, il quale sfocia
in mare. Ammassandosi sulla piazza e sul fiume Pattolo, Lidi e Persiani
furono costretti a difendersi. Gli Ioni, vedendo che parte dei nemici
resisteva e altri accorrevano in gran numero, si ritirarono timorosi verso il
monte detto Tmolo e da lì, col favore della notte, si allontanarono in
direzione delle navi. 102) Sardi fu devastata dalle fiamme; bruciò anche il
tempio della dea locale Cibebe, più tardi preso a pretesto dai
Persiani per dar fuoco ai santuari dei Greci. Allora i Persiani delle
satrapie al di qua dell'Alis, venuti a sapere l'accaduto, si radunarono e
vennero in soccorso dei Lidi. Non trovarono più gli Ioni a Sardi e si
gettarono sulle loro tracce; li raggiunsero a Efeso. Gli Ioni si schierarono
di fronte a loro, ma nello scontro furono nettamente battuti. I Persiani ne
uccisero molti: fra i caduti illustri ci fu Evalcide, comandante degli
Eretriesi, vincitore di molte corone negli agoni e molto elogiato da Simonide
di Ceo. I superstiti della battaglia si dispersero nelle città. 103) Quella volta combatterono così. In seguito gli
Ateniesi abbandonarono completamente gli Ioni; ai molti appelli rivolti da
Aristagora per mezzo di messaggeri risposero negando il proprio appoggio.
Anche se privi dell'alleanza di Atene, gli Ioni preparavano la guerra contro
il re (tali erano le cose che avevano fatto contro Dario). Si spinsero fino
all'Ellesponto e si assicurarono il controllo di Bisanzio e di tutte le altre
città della regione; usciti dall'Ellesponto si guadagnarono l'alleanza
della maggior parte della Caria; anche Cauno, che prima aveva rifiutato di
aiutarli, dopo l'incendio di Sardi passò dalla loro parte. 104) I Ciprioti spontaneamente aderirono tutti tranne gli
abitanti di Amatunte. Anche i Ciprioti infatti erano insorti contro i Medi ed
ecco come. Fratello minore di Gorgo, re della città di Salamina, era
Onesilo, figlio di Chersi, nipote di Siromo e pronipote di Eveltonte.
Già prima costui aveva più volte incitato Gorgo a staccarsi dal
re, ma appena seppe della rivolta degli Ioni, moltiplicò pesantemente
le sue pressioni. Non riuscendo a persuadere Gorgo, Onesilo e i suoi
sostenitori attesero che uscisse dalla rocca di Salamina e lo chiusero fuori
delle porte. Gorgo, defraudato della sua città, riparò presso i
Medi. Onesilo governava Salamina e cercava di persuadere tutti i Ciprioti a
insorgere insieme con lui. Le altre città riuscì a convincerle,
Amatunte, che non voleva obbedirgli, la cinse di assedio. 105) Onesilo assediava Amatunte; re Dario, quando ricevette
la notizia che Sardi era stata presa e data alle fiamme da Ioni e Ateniesi, e
che il capo della congrega, il tessitore di ogni trama era Aristagora di Mileto,
appena informato, si racconta, trascurò del tutto gli Ioni (era sicuro
che l'avrebbero pagata cara quella ribellione) e domandò invece chi
fossero gli Ateniesi; ottenuta risposta, chiese un arco, lo prese in mano, vi
incoccò una freccia, la puntò verso il cielo e scagliandola in
aria esclamò: "O Zeus, ch'io possa vendicarmi degli
Ateniesi!". Pronunciate tali parole, ordinò a uno dei suoi
servitori di ripetergli per tre volte durante ogni banchetto: "Padrone,
ricordati di Atene". 106) Impartito quest'ordine, chiamò davanti a sé
Istieo di Mileto, che tratteneva ormai da molto tempo, e gli disse:
"Istieo, vengo a sapere che il tuo governatore, l'uomo a cui tu hai
affidato Mileto, ha tramato guai ai miei danni: ha guidato contro di me
soldati dall'altro continente, e assieme a loro gli Ioni, che mi pagheranno
ciò che hanno fatto; ha persuaso dunque gli Ioni ad aggregarsi a quei
soldati e mi ha strappato Sardi. Ora dimmi un po': ti pare una cosa ben
fatta? E come si è potuta verificare se non c'eri dietro tu? Bada di
non doverne rendere conto un giorno". Al che Istieo rispose: "Mio
sovrano, che parole hai proferito! Io avrei ispirato azioni tali da cui ti
potevano derivare danni, grandi o piccoli? Ma di cosa andavo in caccia per
comportarmi così? Di che cosa ho bisogno? Io ho tutto quello che hai
tu, godo il privilegio di ascoltare tutti i tuoi progetti. Se il mio
governatore si comporta come hai detto, sappi che l'iniziativa è tutta
sua. Per me, io non credo affatto a questa notizia, che i Milesi e il mio
sostituto tramino ai tuoi danni. Ma se veramente agiscono così e
quanto hai saputo è vero, allora ecco lo vedi, mio re, cosa hai
ottenuto a strapparmi dal mare. Lontani dai miei occhi gli Ioni hanno
realizzato, mi pare, un loro vecchio desiderio; se io fossi stato in Ionia
nessuna città si sarebbe mossa. Ora almeno lasciami andare al
più presto nella Ionia, per rimettere tutto a posto laggiù e
per consegnare nelle tue mani il governatore di Mileto, il responsabile di
queste macchinazioni. Sistemata ogni cosa secondo la tua volontà, te
lo giuro sugli dèi della casa reale, non mi toglierò il chitone
da me indossato al momento del mio arrivo in Ionia, prima di averti reso
tributaria la Sardegna, la più grande delle isole". 107) Parlando così Istieo lo ingannava, ma Dario si
lasciò convincere e lo fece partire, con l'ordine di tornare da lui a
Susa non appena realizzato quanto aveva promesso. 108) Nel periodo in cui la notizia su Sardi giungeva al re,
in cui Dario, compiuto il gesto dell'arco, aveva il colloquio con Istieo e
Istieo, col permesso di Dario, era in viaggio verso il mare, in tutto
quest'arco di tempo ecco cosa accadde. A Onesilo di Salamina, impegnato
nell'assedio di Amatunte, giunse notizia dell'imminente arrivo a Cipro del
persiano Artibio, per mare, alla testa di un'ingente armata persiana. Una
volta saputolo, Onesilo inviò araldi in Ionia a chiedere soccorsi. Gli
Ioni non impiegarono molto a decidersi e si presentarono con una flotta
cospicua. Gli Ioni erano nelle acque di Cipro quando i Persiani, tragittati
dalla Cilicia, marciarono contro Salamina. Intanto con la flotta i Fenici
circumnavigavano il promontorio detto le Chiavi di Cipro. 109) Mentre succedeva questo, i tiranni di Cipro radunarono
gli strateghi degli Ioni e dissero loro: "Ioni, noialtri Ciprioti vi
lasciamo scegliere i nemici da attaccare [Persiani o Fenici]; se volete
disporvi in ordine di battaglia sulla terraferma e misurarvi coi Persiani,
sarebbe ora per voi di scendere dalle navi e di schierare la fanteria e per
noi di imbarcarci sulla vostra flotta e di batterci contro i Fenici. Se
preferite confrontarvi coi Fenici, dovete, comunque scegliate, impegnarvi al
limite delle vostre forze per mantenere libere la Ionia e Cipro". A
ciò gli Ioni risposero: "Noi siamo stati mandati qui dall'assemblea
generale degli Ioni a presidiare il mare, non per consegnare le navi ai
Ciprioti e affrontare i Persiani in terraferma. Noi dunque nel posto che ci
è stato affidato, lì cercheremo di essere valorosi. Quanto a
voi, memori delle sofferenze patite quando eravate servi dei Medi, dovete
dimostrare il vostro coraggio". 110) Così risposero gli Ioni. Poi, quando i Persiani
furono nella piana di Salamina, i re di Cipro schierarono gli altri Ciprioti
di fronte agli altri soldati, ma scelsero e contrapposero ai Persiani il fior
fiore dei Salamini e dei Solii. Di fronte ad Artibio, il generale dei
Persiani, si piazzò di proposito Onesilo. 111) Artibio montava un cavallo addestrato a impennarsi di
fronte a un oplita. Onesilo lo sapeva e avendo uno scudiero di stirpe Caria,
molto esperto in campo militare e particolarmente coraggioso, gli disse:
"Io so che il cavallo di Artibio si impenna, e con le zampe e il muso
attacca chi gli si pari davanti. Tu dunque pensaci un attimo e poi dimmi
subito chi vuoi tener d'occhio e colpire, se il cavallo o Artibio
stesso". A tale proposta l'armigero rispose: "Mio re, sono pronto a
fare entrambe le cose assieme oppure una sola, e in ogni caso qualunque
compito mi affidi. Ma devo dirti però cosa mi sembra più
adeguato alla tua condizione. Secondo me è bene che un re e comandante
dell'esercito se la veda con un re e comandante dell'esercito: se abbatti un
generale, è una grande impresa, se al contrario lui abbatte te (il che
non sia mai), perfino la morte è solo una mezza disgrazia, se avviene
per mano di un uomo che conta. A noi servitori si addice lottare con altri
servitori o con un cavallo. Tu non temerne i trucchi: ti assicuro che non si
drizzerà più sulle zampe davanti a nessuno". 112) Così disse. E subito dopo gli eserciti si
scontrarono, per terra e per mare. Con le navi quel giorno gli Ioni si
distinsero per bravura e travolsero i Fenici; i migliori fra loro furono i
Sami. Sulla terraferma le truppe, ingaggiata battaglia, si affrontarono corpo
a corpo. Ed ecco come si svolse il duello fra i due comandanti. Quando
Artibio sul suo cavallo assalì Onesilo, questi, come d'accordo con lo
scudiero, indirizzò i suoi colpi su Artibio che gli veniva addosso.
Appena il cavallo alzò gli zoccoli contro lo scudo di Onesilo, il
Cario con un colpo di falce mozzò le zampe del cavallo. 113) Artibio, il comandante dei Persiani, crollò a
terra sul posto assieme al cavallo. Mentre anche gli altri erano impegnati
nella mischia, Stesenore, tiranno di Curio, passò al nemico con il suo
non piccolo contingente di soldati (questi Curiei sono, si dice, coloni di
Argo). Subito dopo il tradimento dei Curiei, il reparto dei carri da guerra
di Salamina li imitò. In seguito a queste defezioni i Persiani si
trovarono in vantaggio sui Ciprioti. Quando l'esercito fu travolto, fra i
molti altri a cadere ci furono Onesilo figlio di Chersio, istigatore della
ribellione cipriota, e il re dei Solii Aristocipro, figlio di quel Filocipro
che Solone di Atene, giunto nell'isola, aveva elogiato nei suoi versi ben più
degli altri tiranni. 114) A Onesilo, perché li aveva assediati, gli Amatusi
tagliarono la testa, la portarono nella loro città e l'appesero sopra
le porte. Era ancora appesa quando nel cranio ormai vuoto si introdusse uno
sciame di api e lo riempì di favi. Dopo tale fenomeno consultarono
l'oracolo su quella testa e il responso li invitò a staccarla di
lassù, a darle sepoltura e a compiere annuali sacrifici in onore di
Onesilo eroe: in questo modo la situazione si sarebbe volta al meglio. 115) Gli Amatusi così fecero, e continuano ancora oggi
a offrir sacrifici. Gli Ioni che a Cipro si erano battuti sul mare, quando
seppero che l'iniziativa di Onesilo era stata stroncata e che le città
di Cipro erano sotto assedio tutte, tranne Salamina (riconsegnata però
dai suoi abitanti nelle mani di Gorgo, il re precedente) gli Ioni, come lo
seppero, fecero immediatamente rotta verso la Ionia. A Cipro la città
che resistette più a lungo all'assedio fu Soli: i Persiani la presero
dopo quattro mesi scavando sotto le mura tutto intorno. 116) Insomma i Ciprioti, dopo un anno di libertà,
furono nuovamente asserviti. Daurise, genero di Dario, e Imea e Otane (anche
loro capi persiani e generi di Dario), che si erano gettati sulle tracce
degli Ioni della spedizione contro Sardi e li avevano ricacciati sulle navi,
dopo averli vinti in battaglia, si distribuirono le città e le
saccheggiarono. 117) Daurise si diresse contro le città
dell'Ellesponto: prese Dardano, conquistò Abido, Percote, Lampsaco e
Peso (al ritmo di una al giorno); poi, mentre si spingeva da Peso a Pario,
gli giunse la notizia che i Cari, mossi dagli stessi sentimenti degli Ioni,
si erano ribellati ai Persiani. Si allontanò quindi dall'Ellesponto e
spinse il suo esercito contro la Caria. 118) Ma in qualche modo i Cari ne furono avvertiti prima
dell'arrivo di Daurise. Appena informati, i Cari si riunirono alle cosiddette
Colonne Bianche sul fiume Marsia; il Marsia scorre dal paese di Idriade e
confluisce poi nel Meandro. Al raduno dei Cari furono espressi molti e vari
pareri; il migliore, a mio giudizio, fu quello di Pissodoro figlio di
Mausolo, di Cindia, genero del re di Cilicia Siennesi. Suggeriva ai Cari di
attraversare il Meandro e combattere con il fiume alle spalle; così,
impossibilitati a ritirarsi, costretti a restare sul posto, avrebbero
accresciuto il loro innato valore. Ma questa opinione non prevalse,
preferirono anzi che ad avere il Meandro alle spalle fossero i Persiani e non
loro, immagino perché i Persiani, eventualmente messi in fuga e sbaragliati,
rovinassero nel fiume senza trovare ritorno. 119) Poi i Persiani arrivarono e passarono il Meandro: sulle
rive del fiume Marsia avvenne lo scontro fra Cari e Persiani: combatterono
una dura battaglia, che si protrasse a lungo, finché i Cari non furono sopraffatti
dalla superiorità numerica nemica. Caddero più o meno duemila
Persiani, ma circa diecimila Cari. I superstiti, di lì ripararono a
Labraunda nel santuario di Zeus Stratio, un vasto e sacro bosco di platani (i
Cari sono i soli, a mia conoscenza, a sacrificare in onore di Zeus Stratio).
Rinserratisi colà, si consultarono su come salvarsi, se avrebbero
fatto meglio ad arrendersi ai Persiani oppure ad abbandonare l'Asia del
tutto. 120) Mentre discutevano il problema, arrivarono truppe di
soccorso da Mileto e dai suoi alleati; allora i Cari lasciarono da parte ogni
discussione e si apprestarono a ricominciare da capo la lotta. Attaccarono i
Persiani in arrivo e nello scontro furono sconfitti più duramente
della volta prima; caddero molti uomini da entrambe le parti, ma rilevanti
furono in particolare le perdite dei Milesi. 121) Più tardi i Cari guarirono la ferita e si
rifecero sul campo: infatti, informati che i Persiani erano in marcia per
assalire le loro città, tesero un agguato sulla strada di Pedasa; i
Persiani vi caddero di notte e furono massacrati assieme ai loro comandanti,
Daurise, Amorge e Sisimace; e con essi c'era anche Mirso figlio di Gige.
Artefice dell'imboscata fu Eraclide, figlio di Ibanoli, di Milasa. 122) Così, dunque, furono annientati questi Persiani.
Imea, che pure lui aveva inseguito gli Ioni della spedizione contro Sardi, si
volse contro la Propontide e prese Chio in Misia. Espugnata Chio, come seppe
che Daurise aveva abbandonato l'Ellesponto ed era in marcia verso la Caria,
lasciò la Propontide e guidò le sue truppe nell'Ellesponto:
sottomise tutti gli Eoli insediati nella regione di Ilio, nonché gli abitanti
di Gergite, cioè i superstiti degli antichi Teucri. Mentre soggiogava
queste popolazioni, Imea morì nella Troade, per una malattia. 123) E questa fu la fine di Imea; quanto ad Artafrene, il
governatore di Sardi, e a Otane, il terzo generale, ricevettero l'ordine di
marciare contro la Ionia e la vicina Eolide. In Ionia si impadronirono di
Clazomene, in Eolide di Cuma. 124) Durante l'occupazione di queste città, Aristagora
di Mileto (non era infatti, come dimostrò, un campione di coraggio e
dopo aver gettato la Ionia nel caos e rimestato grandi progetti, meditava una
fuga clamorosa), osservando gli avvenimenti e per giunta sembrandogli
palesemente impossibile avere la meglio su re Dario, per tutto ciò,
insomma, convocò i suoi seguaci e tenne consiglio: affermò che
era meglio per loro avere pronto un luogo dove rifugiarsi, nel caso fossero
stati costretti ad abbandonare Mileto; se condurli a fondare una colonia in
Sardegna lontano da lì, oppure a Mircino degli Edoni, che Istieo aveva
ottenuto in dono da Dario e fortificato, ecco cosa domandava Aristagora. 125)Ecateo figlio di Egesandro, scrittore, gli
suggerì, nel caso fosse stato scacciato da Mileto, di non partire per
nessuna di quelle due località, ma di costruire una fortezza
sull'isola di Lero e di starsene in pace. Muovendo da quell'isola, più
tardi, sarebbe tornato a Mileto. 126) Così proponeva Ecateo; ma Aristagora personalmente
preferiva di gran lunga ritirarsi a Mircino. Affidò Mileto a Pitagora,
un cittadino eminente; poi, accettando con sé chiunque lo desiderasse, fece
rotta verso la Tracia, dove occupò la regione verso la quale si era
diretto. Partendo da lì, perirono per mano dei Traci lui e il suo
esercito, all'assedio di una città, dalla quale i Traci volevano
uscire in seguito a una tregua. Libro VI 1)Così morì Aristagora, dopo aver scatenato
la ribellione ionica. Istieo, il tiranno di Mileto, congedato da Dario,
arrivò a Sardi. Una volta giunto lì da Susa, il governatore di
Sardi Artafrene gli chiese quale fosse a suo parere la ragione della rivolta
ionica: Istieo rispose di non conoscerla, e palesò stupore per
l'accaduto, come se fosse ignaro della situazione. Artafrene che conosceva la
verità sull'insurrezione, vedendolo tentare raggiri, disse:
"Istieo, le cose stanno così: questa scarpa l'hai cucita tu e se
l'è infilata Aristagora". 2) Parlò così Artafrene alludendo alla ribellione;
Istieo, pensando che Artafrene sapesse tutto, ebbe paura e fuggì verso
il mare allo scendere della prima notte; aveva ingannato Dario fino in fondo:
dopo avergli promesso di conquistare la Sardegna, la più grande delle
isole, di nascosto aveva assunto il comando degli Ioni nella guerra contro
Dario. Sbarcato a Chio, fu messo in carcere dai Chii, che lo sospettarono di
voler mestare contro di loro per ordine di Dario. Quando i Chii appresero la
verità, cioè che era ostile al re, lo liberarono. 3) A questo punto gli Ioni gli domandarono perché avesse
ordinato così caldamente ad Aristagora di ribellarsi al re e avesse
arrecato tanto danno agli Ioni; e Istieo non rivelò affatto la vera
ragione: rispose invece che Dario aveva progettato di stabilire in Ionia i
Fenici, sradicati dalle loro sedi, e gli Ioni in Fenicia; ecco perché aveva
inviato l'ordine. In realtà Dario non aveva mai avuto in mente un
progetto del genere: Istieo cercava solo di mettere paura agli Ioni. 4) Poi Istieo, servendosi di Ermippo di Atarne come
messaggero, inviò lettere ai Persiani presenti a Sardi che avevano
parlato con lui della rivolta. Ermippo non recapitò le lettere ai
destinatari, ma le mise nelle mani di Artafrene; il quale, informato su tutta
la faccenda, ordinò a Ermippo di recapitare le lettere ai destinatari,
ma di consegnare a lui le risposte dei Persiani per Istieo. Venuto alla luce
l'intrigo, Artafrene mandò a morte in questa circostanza parecchi
Persiani. 5) A Sardi dunque ci furono torbidi. I Chii condussero Istieo
a Mileto; deluso in quest'ultima speranza, lo aveva chiesto lui stesso. Ma i
Milesi, contenti di essersi liberati anche di Aristagora, non erano affatto
entusiasti di accogliere nel paese un altro tiranno; ormai avevano gustato la
libertà. Istieo, mentre una notte tentava di rientrare a Mileto con la
forza, fu ferito a una coscia da uno dei Milesi: vistosi bandito dalla
propria patria, fece ritorno a Chio. Ma non riuscendo a persuadere gli
abitanti a fornirgli le navi, se ne andò da lì a Mitilene, dove
convinse i Lesbi a dargliene. Equipaggiarono otto triremi e fecero vela con
Istieo verso Bisanzio: stazionando in quelle acque si impadronivano delle
navi in uscita dal Ponto, risparmiando solo le navi di chi si dichiarava
disposto a obbedire a Istieo. 6) Questo facevano Istieo e i Mitilenesi. Intanto proprio
contro Mileto si attendeva l'assalto di una flotta numerosa e di ingenti
truppe terrestri; infatti i generali persiani, riunitisi, avevano formato un
unico esercito e avanzavano su Mileto (le altre città le tenevano in
minore considerazione). I più zelanti nella flotta erano i Fenici;
partecipavano alla spedizione anche i Ciprioti, di recente sottomessi, Cilici
ed Egiziani. 7) Essi dunque procedevano contro Mileto e il resto della
Ionia; gli Ioni, appena lo seppero, inviarono delegati delle varie
città al Panionio. Qui giunti, presero consiglio e decisero di non
raccogliere nessun esercito terrestre da opporre ai Persiani (i Milesi
dovevano difendere da soli le loro mura) e di equipaggiare invece la flotta,
senza dimenticare una sola nave; dopodiché, si sarebbero concentrati al
più presto a Lade per combattere sul mare in difesa di Mileto. Lade
è una piccola isola situata proprio di fronte a Mileto. 8) In seguito con gli equipaggi completi gli Ioni vennero a
Lade e con essi gli Eoli di Lesbo; ecco come si disposero: i Milesi
occuparono l'ala orientale con 80 navi, seguivano quelli di Priene con 12
unità, quelli di Miunte con tre, accanto i Tei con 17 e i Chii con
cento; dopo venivano nello schieramento gli Eritrei e i Focei,
rispettivamente con otto e tre navi; poi i Lesbi con 70 vascelli. Ultimi
sull'ala destra furono dislocati i Sami con 60 navi. Il numero complessivo
ammontava a 353 triremi. 9) Tali erano le forze degli Ioni; le navi dei barbari erano
600. Quando queste ultime giunsero di fronte alle coste di Mileto, e in
appoggio avevano l'intero esercito di terra, tuttavia i generali persiani,
appreso il numero delle navi ioniche, ebbero paura di non riuscire a
prevalere; in tal modo non sarebbero stati in grado di espugnare Mileto, non
avendo il controllo del mare, e inoltre avrebbero rischiato una punizione da
parte di Dario. Con questi pensieri radunarono i tiranni degli Ioni che,
spodestati da Aristagora di Mileto, si erano rifugiati presso i Medi e che in
quel momento partecipavano alla spedizione contro Mileto. Convocati quelli
che si trovavano sul posto, dissero: "Ioni, ora mostrate di agire per il
bene della casa reale: ciascuno cerchi di staccare i propri concittadini dal
resto degli alleati; notificategli la promessa che non subiranno alcuna
spiacevole conseguenza della rivolta, che non verranno bruciati né i loro
santuari né le case private, che non verranno trattati in modo più
duro di prima; ma se non si arrenderanno e attaccheranno battaglia a ogni
costo, prean nunciatela già, con toni minacciosi, la sorte che
toccherà loro: sconfitti sul campo, saranno ridotti in
schiavitù; castreremo i figli maschi e deporteremo le femmine a
Battra; e la loro terra la daremo ad altri". 10) Queste furono le loro parole; e ogni tiranno
inviò di notte un nunzio a riferirle ai suoi concittadini. Gli Ioni
raggiunti da questi messaggi mostrarono la loro follia e non accettarono di
abbandonare gli alleati: tutti, città per città, credevano che
i Persiani si fossero rivolti soltanto a loro. 11) Questi fatti accadevano subito dopo l'arrivo a Mileto
dei Persiani. In seguito fra gli Ioni riuniti a Lade si svolsero varie
assemblee, nelle quali, immagino, presero la parola anche altri, ma in
particolare ecco cosa disse lo stratego di Focea Dionisio: "La nostra
situazione è sul filo di un rasoio: essere liberi o schiavi, e schiavi
che hanno tentato la fuga! Ebbene, se siete disposti ad addossarvene il peso,
lì per lì per voi sarà dura, ma potrete sbaragliare i
nemici ed essere liberi; se invece vi adagerete nella fiacchezza e nel
disordine, non nutro nessuna speranza per voi: pagherete al re la vostra
ribellione. Via, seguite i miei consigli, affidatevi a me; e io vi prometto,
se gli dèi si mantengono imparziali, che i nemici o non daranno
battaglia, oppure, una volta venuti allo scontro, subiranno una netta
sconfitta". 12) Udito ciò, gli Ioni si affidarono a Dionisio. Ed
egli ogni giorno portava al largo le navi in colonna: quando aveva allenato i
rematori con manovre di sfondamento fra gli schieramenti e aveva addestrato
gli equipaggi all'uso delle armi, tratteneva i battelli all'ancora per il
resto del giorno e faceva penare gli Ioni dal mattino alla sera. Per sette
giorni gli Ioni obbedirono ed eseguirono gli ordini, ma all'ottavo,
disabituati com'erano a simili sforzi, sfiniti dalle fatiche e dal sole, si
dissero l'un l'altro: "Ma quale dio abbiamo offeso per subire tutto
questo? Siamo impazziti, ci ha dato di volta il cervello? Ci siamo messi
nelle mani di un millantatore di Foceo, che di navi ne ha tre! Da quando ci
ha accalappiati, ci tartassa e ci rovina senza rimedio; già molti di
noi si sono ammalati e molti si apprestano a fare la stessa fine. È
meglio patire qualunque altra cosa che non queste sofferenze e aspettare la
futura schiavitù piuttosto che essere oppressi dall'attuale. Via via,
d'ora in avanti non diamogli più retta". Così dissero,
dopodiché, subito, nessuno voleva più obbedire, anzi, piantate le
tende sull'isola come truppe di terra, se ne stavano all'ombra e rifiutavano
di reimbarcarsi e di riprendere le esercitazioni. 13) Informati di ciò che accadeva fra gli Ioni, gli
strateghi di Samo accolsero allora l'appello che a essi aveva già
prima rivolto Eace, figlio di Silosonte, per ordine dei Persiani, e
cioè l'invito ad abbandonare l'alleanza degli Ioni; i Sami accettarono
la proposta vedendo il gran disordine che regnava fra gli Ioni; nel contempo
si rivelava impossibile ai loro occhi avere la meglio sul re; sapevano bene,
infatti, che anche se avessero travolto la flotta presente, ne avrebbero
avuta un'altra di fronte cinque volte più grande. Colto il pretesto,
appena ebbero constatata la mancanza di buona volontà degli Ioni,
ritenevano vantaggioso salvare i propri templi e le proprie case. Eace, alle
cui proposte aderirono, era figlio di Silosonte, figlio di Eace: tiranno di
Samo, era stato deposto da Aristagora di Mileto come gli altri tiranni della
Ionia. 14) Quando i Fenici mossero all'attacco, gli Ioni presero il
largo anch'essi con le navi in colonna. A partire dal momento in cui furono
vicini e si scontrarono, non sono più in grado di registrare
esattamente quali Ioni si comportassero da codardi o da valorosi in questa
battaglia navale: in effetti si accusano a vicenda. Si narra che i Sami, secondo
gli accordi presi con Eace, spiegate le vele si allontanarono dallo
schieramento in direzione di Samo, a eccezione di undici navi, i cui capitani
rimasero a combattere disobbedendo agli strateghi. Per questo gesto a
costoro, come a uomini di provato valore, lo stato di Samo concesse di
scolpire i loro nomi e patronimici su una stele, stele collocata nella piazza
centrale. A loro volta i Lesbi, avendo visto fuggire i propri vicini di
schieramento, imitarono i Sami; e lo stesso fece anche il grosso degli Ioni. 15) Tra i rimasti a combattere i Chii subirono le perdite
maggiori perché compirono splendide imprese e rifiutarono di comportarsi da
codardi; avevano fornito, come ho già detto, 100 navi, e su ognuna
erano imbarcati 40 soldati scelti reclutati fra i cittadini; pur vedendo il
tradimento della maggior parte degli alleati, sdegnarono di imitare i
vigliacchi; anzi, rimasti soli con pochi alleati, combatterono tentando
manovre di sfondamento fra le file nemiche, finché, distrutte molte navi
avversarie, non ebbero perduto la maggior parte delle loro. 16) Con le superstiti i Chii si ritirarono verso la loro
città. I Chii, le cui navi non tenevano più il mare a causa
delle avarie, vistisi incalzati, ripararono a Micale. Qui spinsero in secca
le navi, le abbandonarono e a piedi proseguirono nell'entroterra. Ma quando
nella loro marcia penetrarono nel territorio di Efeso (e vi giunsero di notte
proprio mentre le donne stavano celebrando la festa delle Tesmoforie), allora
gli Efesini, non ancora al corrente delle vicende dei Chii e vedendo il loro
paese invaso da uomini in armi, credendoli senz'altro predoni venuti a rapire
le donne, accorsero in massa e li massacrarono. 17) Tale sorte toccò ai Chii. Dionisio di Focea,
quando capì che la causa degli Ioni era perduta, dopo aver catturato
tre navi nemiche, si allontanò, ma non più verso Focea che, ne
era sicuro, sarebbe stata ridotta in schiavitù come il resto della
Ionia; quanto più direttamente poteva se ne andò in Fenicia. Qui
affondò dei mercantili e si impadronì di parecchio denaro; e
fece vela verso la Sicilia dove stabilì la sua base per azioni di
pirateria, non già ai danni dei Greci, ma dei Cartaginesi e dei
Tirreni. 18) I Persiani, dopo la vittoria navale sugli Ioni, assediarono
Mileto per terra e per mare; scavando sotto le mura e ricorrendo a macchine
di ogni tipo la conquistarono totalmente in capo a cinque anni dalla
ribellione di Aristagora. Ridussero in schiavitù la popolazione,
sicché la sua sorte corrispose con l'oracolo emanato a proposito di Mileto. 19) Infatti agli Argivi che a Delfi chiedevano lumi sulla
salvezza della loro città era stato dato un responso cumulativo, una
parte del quale riguardava gli Argivi stessi, mentre l'aggiunta valeva per i
Milesi. Il vaticinio relativo agli Argivi lo citerò al momento
opportuno, quello riferito ai Milesi, che non erano presenti, dice
così:...”Macchinatrice di mali, Mileto, tu splendido dono,
Diventerari, nonchè pranzo di molti. Ed i piedi lavare, Di molta gente
dai lunghi capelli dovran e tue spose. Del nostro tempio di Didimi
prenderà cura altra gente”... (E allora, o Mileto, macchinatrice
di male imprese, diventerai banchetto e splendido dono per molti, le tue
spose laveranno i piedi a molti uomini dai lunghi capelli, e altri avranno
cura del nostro tempio di Didima). Queste sventure colsero i Milesi allora,
quando appunto gli uomini furono in gran parte uccisi dai Persiani, che
portano lunghi capelli, donne e bambini furono trattati come schiavi e il
santuario di Didima, il tempio e l'oracolo, vennero saccheggiati e dati alle
fiamme. Delle ricchezze presenti in questo santuario ho fatto spesso menzione
in altre parti del mio racconto. 20) Poi i prigionieri di Mileto furono condotti a Susa. Re
Dario, senza infierire su di loro, li stanziò presso il mare
cosiddetto Eritreo, nella città di Ampe, lungo la quale scorre e
sfocia in mare il Tigri. Nella regione di Mileto i Persiani stessi occuparono
la zona della città e la pianura, la parte collinare la assegnarono in
possesso ai Cari di Pedasa. 21) I Milesi subirono queste disgrazie a opera dei Persiani,
ma i Sibariti, che vivevano a Lao e a Scidro, privati della loro
città, non ricambiarono un loro antico gesto di amicizia: quando
Sibari era caduta in mano ai Crotoniati, tutti i Milesi adulti si erano rasi
il capo e avevano proclamato, in aggiunta, un grande lutto; Mileto e Crotone
in effetti erano le due città più legate da vincoli di
ospitalità che io conosca. Non così si regolarono gli Ateniesi,
i quali espressero il loro profondo dolore per la presa di Mileto in vari
modi; fra l'altro Frinico compose e mise in scena una tragedia sulla presa di
Mileto e tutto il teatro scoppiò in lacrime; allora gli fu inflitta
una multa di mille dracme per aver rievocato una sciagura nazionale e si
ordinò che nessuno mai più utilizzasse quel dramma. 22) A Mileto dunque Milesi non ce n'erano più. In
Samo a quanti possedevano qualcosa non era affatto piaciuto il comportamento
dei loro strateghi verso i Medi; subito dopo lo scontro navale decisero in
consiglio di partire per fondare una colonia prima che Eace rientrasse da
tiranno nel loro paese, senza aspettare di essere schiavi suoi e dei Medi.
Proprio in quel periodo gli Zanclei di Sicilia, per mezzo di messaggeri
inviati in Ionia, invitavano gli Ioni a Calacte dove volevano creare una
città ionica. La riviera chiamata Calacte è nel paese dei
Siculi, sulla costa tirrenica della Sicilia. Malgrado gli inviti, partirono
solo gli Ioni di Samo e con essi i fuggiaschi di Mileto. In tale occasione
ecco cosa accadde. 23) I Sami, in viaggio verso la Sicilia, arrivarono a Locri
Epizefiri, mentre gli Zanclei e il loro sovrano, di nome Scite, assediavano
una città dei Siculi che intendevano conquistare. Quando lo seppe il
tiranno di Reggio Anassilao, allora in lite con gli Zanclei,
parlamentò con i Sami e li convinse che gli conveniva lasciar perdere
Calacte dove erano diretti e occupare invece Zancle, rimasta priva di
difensori. I Sami gli diedero retta e si impadronirono di Zancle; gli Zanclei,
appena al corrente che la loro città era stata occupata, corsero in
sua difesa invocando l'aiuto del tiranno di Gela Ippocrate, che era appunto
loro alleato. Appena giunto con l'esercito di soccorso, Ippocrate mise in
ceppi Scite, il signore unico di Zancle, con l'accusa di aver abbandonato la
città, nonché suo fratello Pitogene, e li spedì a Inico. Poi,
accordatosi con i Sami con reciproco scambio di giuramenti, tradì
tutti i restanti Zanclei. Il compenso promessogli dai Sami era il seguente: a
Ippocrate spettavano la metà dei beni mobili e degli schiavi di Zancle
città e tutti i beni dei campi. Gli Zanclei in massa li trattò
da schiavi, li mise in catene: i trecento di loro più eminenti li
diede da giustiziare ai Sami. I Sami però non lo fecero. 24) Scite, il signore unico di Zancle, scappò da
Inico a Imera; passato poi da Imera in Asia, si recò presso re Dario.
Dario lo giudicò l'uomo più onesto fra quanti si erano
presentati a lui dalla Grecia; in effetti, dopo aver chiesto al re il
permesso, era andato in Sicilia e dalla Sicilia era tornato indietro dal re;
finché morì di vecchiaia in Persia, colmo di ricchezze. I Sami, ormai
lontani dai Medi, si trovarono in mano loro senza fatica la bellissima
città di Zancle. 25) Dopo la battaglia navale combattuta per Mileto, i Fenici
su ordine dei Persiani ricondussero in patria Eace figlio di Silosonte,
ritenuto uomo di altissimi meriti e autore di grandi servigi nei loro
confronti. I Sami, per la defezione delle navi durante la battaglia, furono
gli unici partecipanti alla rivolta contro Dario a non vedersi incendiati la
città e i santuari. Subito dopo la presa di Mileto i Persiani
occuparono anche la Caria; una parte delle città fece spontaneo atto
di sottomissione, altre le piegarono a forza. 26) Così si svolgevano gli avvenimenti. Istieo di
Mileto ricevette notizie dei fatti di Mileto mentre si trovava intorno a
Bisanzio intento a catturare i mercantili ionici provenienti dal Ponto.
Allora affidò le operazioni sull'Ellesponto a Bisalte di Abido figlio
di Apollofane e si recò personalmente a Chio assieme a dei Lesbi. A Le
Cave, località nel territorio di Chio, attaccò una guarnigione
che gli vietava l'accesso; ne uccise parecchi; i rimanenti Chii, malridotti
co m'erano per via del recente scontro navale, li sopraffece con i suoi Lesbi
muovendo da Policne, sull'isola. 27) Di solito il dio invia dei segni premonitori, quando
gravi sciagure stiano per abbattersi su una città e su un popolo.
Anche per i Chii in effetti, si erano avuti presagi clamorosi. Di un coro di
cento giovanetti inviato a Delfi, avevano fatto ritorno solamente in due, gli
altri novantotto se li era presi e portati via un'epidemia. In città,
in quello stesso periodo, poco prima della battaglia, il tetto di una scuola
crollò sugli scolari che imparavano a leggere e a scrivere, tanto che
di centoventi ragazzi se ne salvò uno solo. Questi segni il dio
mandò loro! Più tardi gli capitò la battaglia navale che
li mise in ginocchio. A essa si aggiunse Istieo con i suoi Lesbi che sottomise
facilmente i Chii, in cattive condizioni com'erano. 28) Da Chio Istieo fece una spedizione contro Taso, alla
testa di parecchi Ioni ed Eoli. Mentre assediava Taso, gli giunse notizia che
i Fenici con le loro navi stavano muovendo da Mileto contro il resto della
Ionia. Appena ne fu informato, lasciò Taso intatta e si
affrettò verso Lesbo con tutte le sue truppe. Poiché i suoi uomini
pativano la fame passò da Lesbo sul continente di fronte, per
raccogliere il grano da Atarneo, il grano di Atarneo e quello della piana del
Caico di proprietà dei Misi. Ma in questi paesi si trovava il persiano
Arpago, al comando di un esercito non esiguo. Arpago attaccò Istieo
che era appena sbarcato, lo fece prigioniero e massacrò la maggior
parte dei suoi uomini. 29) Ed ecco come fu catturato Istieo. Greci e Persiani si
scontrarono a Malene, nella regione di Atarneo: i fanti combattevano
già da tempo quando sui Greci piombò la cavalleria, che si era
mossa più tardi. La vittoria si dovette a questa carica della
cavalleria; quando i Greci ormai erano in rotta, Istieo, sperando che il re
non lo avrebbe messo a morte per la sua colpa, s'attaccò penosamente
alla vita in questo modo: bloccato in fuga da un soldato persiano, ghermito e
ormai sul punto di essere trafitto, parlando in lingua persiana si rivelò
per Istieo di Mileto. 30) Ebbene, se dopo la cattura l'avessero condotto da Dario,
a mio parere non gli sarebbe stato torto un capello, Dario lo avrebbe
perdonato. Invece proprio per questo motivo e perché, scampato alla morte,
non riacquistasse influenza alla corte del re, come giunse a Sardi sotto
scorta, Artafrene, governatore di Sardi, e Arpago, che l'aveva arrestato
ordinarono di impalarlo subito lì sul posto; la testa la imbalsamarono
e la inviarono a Susa al re. Dario, appreso l'accaduto, rimproverò
aspramente i responsabili per non averlo condotto vivo al suo cospetto e
ordinò di lavare la testa, ricomporla con cura per le esequie e di
darle sepoltura, perché era appartenuta a un grande benefattore suo e della
Persia. E questa fu la fine di Istieo. 31) La flotta persiana, trascorso l'inverno nelle acque di
Mileto, lasciò gli ormeggi l'anno seguente e s'impadronì
facilmente delle isole affacciate sul continente, Chio, Lesbo e Tenedo. Ogni
volta che conquistavano una delle isole, i barbari, prendendole una per una,
ne catturavano gli abitanti come in una rete. La tecnica era la seguente:
tenendosi per mano formavano una catena umana dalla costa nord alla costa
sud, poi avanzavano attraverso l'isola alla caccia degli abitanti.
Conquistarono anche le città ioniche del continente, allo stesso modo,
ma senza le retate, poiché non era possibile. 32) In quella circostanza i generali persiani tennero fede
alle minacce a suo tempo rivolte agli Ioni in campo contro di loro. Infatti,
appena occupavano le città, sceglievano i ragazzi avvenenti e li
eviravano, mutandoli in eunuchi da uomini che erano. Le ragazze più
belle le portarono via e le destinarono al re; ecco come si comportavano e
bruciarono le città con i santuari e tutto. E così per la terza
volta gli Ioni furono ridotti in schiavitù; la prima volta c'erano
riusciti i Lidi, allora i Persiani, per la seconda consecutiva. 33) Lasciata la Ionia, la flotta prese possesso di tutte le
città situate sulla costa a sinistra di chi navighi entrando
nell'Ellesponto: le città sulla destra erano già state
sottomesse direttamente dai Persiani per via di terra. Ecco un elenco dei
paesi europei dell'Ellesponto: il Chersoneso, dove sorgono molte
città, Perinto, le rocche di Tracia, Selimbria e Bisanzio. I Bizantini
e i loro dirimpettai Calcedoni non attesero l'arrivo delle navi persiane, ma
abbandonarono la loro patria e si allontanarono in direzione del Ponto Eusino
e si stanziarono a Mesembria. I Fenici, dopo aver dato alle fiamme tutte le
regioni su elencate, si diressero su Proconneso e Artace; incendiarono pure
queste, poi fecero vela nuovamente verso il Chersoneso per distruggervi tutte
le rimanenti città che non avevano devastato nel precedente sbarco.
Esclusero Cizico del tutto, perché i Ciziceni, prima ancora della spedizione
navale fenicia, si erano sottomessi al re, accordandosi con Ebare, figlio di
Megabazo, governatore di Dascilio. I Fenici si impadronirono di tutte le
città del Chersoneso tranne Cardia. 34) Fino ad allora esse obbedivano al tiranno Milziade,
figlio di Cimone e nipote di Stesagora; prima il potere assoluto se lo era
procurato Milziade, figlio di Cipselo, come segue. Il Chersoneso lo
possedevano i Traci Dolonci; questi Dolonci, premuti in guerra dagli Apsinti
mandarono a Delfi i loro re per interrogare l'oracolo sul conflitto; la Pizia
gli rispose di condurre con sé nel loro paese come fondatore di colonia la
prima persona che li avesse invitati a banchetto dopo che erano usciti dal
santuario. I Dolonci percorrendo la Via Sacra attraversarono Focide e Beozia;
e poiché nessuno li invitava, deviarono in direzione di Atene. 35) A quell'epoca ad Atene tutto il potere era nelle mani di
Pisistrato, però aveva molta influenza anche Milziade figlio di
Cipselo, di una famiglia che allevava cavalli da quadrighe e risaliva come
origini a Eaco e a Egina, ma che era divenuta ateniese in tempi più
recenti (il primo esponente ateniese del casato fu Fileo, figlio di Aiace).
Milziade seduto sulla soglia di casa sua, vedendo passare i Dolonci che vestivano
abiti stranieri e portavano lance, li chiamò ad alta voce; quando gli
si avvicinarono, gli offrì alloggio e vitto. Essi accettarono e dopo
essere stati ospitati gli rivelarono tutta la profezia; quindi lo pregarono
di obbedire al dio. Il discorso convinse subito Milziade, come lo ebbe udito,
perché mal tollerava il potere di Pisistrato e non vedeva l'ora di
allontanarsi da Atene. Partì immediatamente per Delfi per chiedere
all'oracolo se doveva aderire alla richiesta dei Dolonci. 36) Poiché questo ordinava la Pizia, Milziade figlio di
Cipselo, già vincitore a Olimpia nella corsa delle quadrighe, preso
con sé ogni Ateniese desideroso di partecipare alla spedizione, si
imbarcò con i Dolonci; prese possesso del paese e quelli che lo
avevano guidato fin lì lo insediarono tiranno. Per prima cosa
fortificò con una muraglia l'istmo del Chersoneso, dalla città
di Cardia a Pattia, per impedire agli Apsinti di invadere il paese e di fare
razzie; l'istmo misura trentasei stadi; dall'istmo in qua tutto il Chersoneso
si estende per una lunghezza di 420 stadi. 37) Dopo aver fortificato la strozzatura del Chersoneso e
aver eliminato in tal modo gli Apsinti, dichiarò guerra alle altre
popolazioni, e per primi a quelli di Lampsaco; e i Lampsaceni, in un agguato,
lo fecero prigioniero. Ma Milziade era in buoni rapporti con Creso di Lidia;
perciò quando lo seppe, Creso mandò a dire ai Lampsaceni di
lasciar andare Milziade; in caso contrario minacciava di "estirparli
come pini". Mentre i Lampsaceni si perdevano in discussioni sul significato
di quella minaccia, "estirparli come pini", faticosamente uno degli
anziani cominciò a capire e ne diede l'esatta interpretazione: il pino
è l'unico albero al mondo che, una volta reciso, non getta più
germogli e muore definitivamente. Insomma, per paura di Creso i Lampsaceni
liberarono Milziade e lo lasciarono andare. 38) Milziade scampò grazie a Creso. In seguito
morì senza figli, lasciando il potere e i suoi beni a Stesagora,
figlio di Cimone, suo fratello uterino. Dopo la sua morte, i Chersonesiti
stabilirono di offrirgli sacrifici come vuole la norma per un fondatore, e
istituirono in suo onore competizioni ippiche e ginniche precluse a tutti i
Lampsaceni. Erano ancora in guerra contro Lampsaco quando anche a Stesagora
toccò di morire, senza figli: fu colpito alla testa con una scure da
un uomo che diceva di essere un transfuga ma che in realtà era un suo
nemico, e non dei più tiepidi. 39) Perito così anche Stesagora, i Pisistratidi
inviarono con una trireme a rinsaldare il potere nel Chersoneso Milziade,
figlio di Cimone e fratello del defunto Stesagora; già ad Atene lo
avevano ben trattato, come se non fossero implicati nella morte di suo padre
Cimone, morte di cui chiarirò le circostanze in un'altra parte del mio
racconto. Milziade, giunto nel Chersoneso, se ne stava in casa, naturalmente,
per rendere i dovuti onori a suo fratello Stesagora. I signorotti locali del
Chersoneso, quando lo seppero, si radunarono da ogni città e vennero
tutti assieme con l'intenzione di dividere con lui le sue pene, ma lui li
fece arrestare; mantenendo una truppa di cinquecento mercenari, tenne in mano
sua il Chersoneso; e sposò Egesipile, la figlia del re dei Traci
Oloro. 40) Questo Milziade figlio di Cimone era da poco ritornato
nel Chersoneso, ma una volta giunto lì lo colsero altre sciagure,
più rovinose di quelle che già lo avevano colpito. Infatti due
anni prima di questi avvenimenti era dovuto scappare di fronte agli Sciti;
gli Sciti nomadi, provocati da re Dario si erano riuniti insieme e spinti
fino al Chersoneso; Milziade non attese il loro assalto e fuggì dal
Chersoneso, finché gli Sciti non si ritirarono e i Dolonci non lo ebbero
ricondotto indietro; questo era successo due anni prima delle cose che lo
impegnavano in quel momento. 41) Allora, informato della presenza a Tenedo dei Fenici,
caricò cinque triremi con le ricchezze che aveva sotto mano e
partì per Atene: salpato da Cardia, attraversò il golfo di
Melas; costeggiava il Chersoneso quando i Fenici intercettarono la sua flottiglia;
con quattro navi Milziade riuscì a rifugiarsi a Imbro; la quinta fu
inseguita e catturata dai Fenici. Al comando di questa nave si trovava il
figlio maggiore di Milziade, Metioco, nato non dalla figlia del Tracio Oloro
ma da un'altra donna. Assieme alla nave i Fenici catturarono anche lui, e
quando seppero che si trattava del figlio di Milziade lo condussero dal re,
convinti di acquistarsi molta benemerenza: perché Milziade fra gli Ioni aveva
espresso il parere di ascoltare gli Sciti, quando gli Sciti chiedevano agli Ioni
di smontare il ponte e di tornarsene a casa. Dario invece, quando i Fenici
gli portarono Metioco, non gli fece alcun male. Anzi lo colmò di
regali: gli donò una casa, un dominio, una donna persiana, dalla quale
ebbe figli innalzati al rango di Persiani. Milziade intanto, era giunto da
Imbro ad Atene. 42) Nell'arco di questo anno i Persiani non compirono alcun
ulteriore atto di ostilità nei confronti degli Ioni; ecco anzi quali
provvedimenti vantaggiosi per gli Ioni furono presi in quell'anno. Il
governatore di Sardi Artafrene convocò i rappresentanti delle varie
città e costrinse gli Ioni a venire fra loro a un accordo: dovevano
sottoporre a un tribunale le loro controversie, smetterla con i reciproci
saccheggi e ruberie. Li costrinse a stipulare questo patto; poi misurò
i loro territori a parasanghe (così i Persiani chiamano l'estensione
di trenta stadi) e su tali nuove misure impose a ognuno tributi: tali tributi
fissati da Artafrene, rimasti immutati fino a oggi, corrispondevano più
o meno alle cifre di prima. 43) Questi furono i provvedimenti pacifici. Poi all'arrivo
della primavera, sollevati dall'incarico gli altri generali, il re
mandò Mardonio, figlio di Gobria, sulla costa, al comando di un
fortissimo esercito di terra e di una numerosa flotta; Mardonio era giovane
d'età e aveva da poco sposato una figlia di re Dario, Artozostre. Una
volta arrivato in Cilicia alla testa del suo esercito, Mardonio si
imbarcò su una nave e partì con il resto della flotta, mentre
altri comandanti guidavano la fanteria verso l'Ellesponto. Mardonio
costeggiando l'Asia giunse nella Ionia; e qui lascerò di stucco i
Greci che non ammettono che Otane fra i sette Persiani abbia espresso la
necessità a suo parere di istituire in Persia la democrazia: Mardonio
depose i tiranni e instaurò regimi democratici nelle città.
Dopodiché si affrettò verso l'Ellesponto. Quando fu radunato un
cospicuo potenziale navale, e allestito anche un ingente esercito terrestre,
i Persiani tragittarono l'Ellesponto e si misero in marcia attraverso l'Europa,
diretti contro Eretria e contro Atene. 44) Eretria e Atene erano il paravento della spedizione, in
realtà avevano in mente di sottomettere il maggior numero possibile di
città greche; assoggettarono Taso da una parte grazie alla flotta
senza incontrare resistenza, e intanto l'esercito di terra aggiungeva i
Macedoni alla massa degli schiavi del re: in effetti tutti i popoli al di qua
dei Macedoni erano già caduti nelle mani del re. Da Taso si portarono
sulla sponda di fronte e navigarono sotto costa fino ad Acanto. Partiti da
Acanto, cercarono di doppiare l'Athos. Mentre lo oltrepassavano piombò
su di loro un vento di borea forte e contro cui non c'era difesa, che
conciò duramente la flotta, scagliando parecchie navi contro l'Athos.
Si dice infatti che le navi perdute fossero circa trecento, e oltre 20.000
gli uomini: alcuni perirono ghermiti dagli squali di cui questo tratto di
mare intorno all'Athos pullula, altri sbattuti contro gli scogli; chi di loro
non sapeva nuotare morì anche per questo, altri assiderati. 45) Ecco la sorte che toccò alla flotta: Mardonio e
l'esercito terrestre accampato in Macedonia furono assaliti di notte dai
Traci Brigi; i Brigi causarono molte perdite e ferirono persino Mardonio. Ma
neppure loro evitarono la servitù persiana, perché Mardonio non si
ritirò da queste regioni prima di averli sottomessi. Poi,
soggiogatili, riportò indietro le truppe, perché per via di terra era
incappato nell'ostacolo dei Brigi e con la flotta in quello, gravissimo,
delle acque intorno all'Athos. Questa spedizione dopo l'infelice campagna
riprese la strada per l'Asia. 46) L'anno successivo Dario per prima cosa inviò un
messaggero ai Tasi, che erano stati falsamente accusati dai loro vicini di
macchinare una ribellione, con l'ordine di abbattere le mura e di trasferire
le navi ad Abdera. Infatti i Tasi, subíto l'assedio da parte di Istieo di
Mileto, e poiché godevano di cospicue entrate, si erano serviti del denaro
per costruirsi navi lunghe e innalzare una cinta muraria piuttosto solida. Le
loro entrate provenivano dal continente e dalle miniere. Le miniere d'oro di
Scapte Ile fruttavano normalmente ottanta talenti, quelle site in Taso stessa
un po' meno, ma pur sempre quanto bastava perché complessivamente i Tasi,
liberi da imposte sui prodotti della terra, ricavassero dal continente e
dalle miniere duecento talenti all'anno, e, al massimo degli introiti,
trecento. 47) Ho visto con i miei occhi queste miniere, e le
più straordinarie in assoluto erano quelle scoperte dai Fenici che a fianco
di Taso colonizzarono l'isola, il cui nome è stato ricavato da questo
Taso di Fenicia. Queste miniere fenicie si trovano a Taso fra le
località dette Enira e Cenira, in faccia a Samotracia: una grande
montagna tutta trivellata dalle ricerche. Così stanno le cose. 48) Obbedendo alle intimazioni del re, i Tasi abbatterono le
proprie mura e portarono tutte le navi ad Abdera. In seguito Dario cercava di
sondare le intenzioni dei Greci, se volevano fargli la guerra oppure
arrendersi. Perciò inviò araldi, un po' dappertutto in Grecia,
con l'incarico di esigere terra e acqua per il re. Oltre agli araldi mandati
in Grecia, altri ne spedì nelle città costiere sue tributarie
con l'ordine di costruire navi lunghe e imbarcazioni adatte al trasporto di
cavalli. 49) Tali città dunque allestivano la flotta; intanto
agli araldi arrivati in Grecia molti sul continente concessero ciò che
esigeva il re persiano; gli isolani a cui giunsero le richieste si adeguarono
tutti. Fra gli altri isolani che diedero terra e acqua per Dario ci furono
anche gli Egineti. Dopodiché, immediatamente, gli Ateniesi li aggredirono,
pensando che gli Egineti l'avessero fatto nutrendo ostilità nei loro
confronti, per attaccarli assieme al Persiano; furono ben lieti di
appigliarsi a tale pretesto: recandosi a Sparta accusarono gli Egineti di
essersi comportati da traditori della Grecia. 50) Di fronte a questa accusa Cleomene figlio di
Anassandride, re degli Spartiati, passò a Egina per imprigionare gli
Egineti maggiormente responsabili. Ma quando tentò di imprigionarli
gli opposero resistenza parecchi Egineti, e fra essi più di tutti Crio
figlio di Policrito, il quale dichiarò che Cleomene non si sarebbe
portato via impunemente alcun Egineta: agiva senza l'approvazione dello stato
spartiata, disse, persuaso dal denaro degli Ateniesi; altrimenti anche
l'altro re sarebbe venuto con lui a procedere agli arresti. Parlava
così secondo le istruzioni ricevute da Demarato. Cleomene, mentre
veniva allontanato da Egina, chiese a Crio come si chiamasse; e Crio glielo
disse. Cleomene replicò: "E allora, caprone, rivestiti di bronzo
le corna, perché stai per cozzare contro un pesante malanno!". 51) Nel frattempo Demarato figlio di Aristone, rimasto a
Sparta, spargeva calunnie su Cleomene. Anche lui era re degli Spartiati, ma
del casato meno nobile, inferiore per l'unica ragione, immagino (il
capostipite essendo lo stesso), che la stirpe di Euristene per via della
primogenitura, è tenuta in maggior onore. 52) Sostengono infatti gli Spartani, in contrasto con tutti
i poeti, che fu Aristodemo, figlio di Aristomaco, nipote di Cleodeo e
pronipote di Illo, durante il suo regno, a condurli nella regione che oggi
occupano, e non i figli di Aristodemo. Non molto tempo dopo Aristodemo ebbe
due figli dalla moglie, che si chiamava Argia ed era, si dice, figlia di
Autesione e nipote di Tisamene, a sua volta figlio di Tersandro e nipote di
Polinice; essa diede alla luce due gemelli; Aristodemo vide i suoi figli e
poi morì di malattia. Gli Spartani di allora decisero in base alla
legge di nominare re il maggiore dei due; non sapevano però quale
scegliere dei due, che erano uguali e identici. Non riuscendo a individuarlo,
o anche prima di provarci, interrogarono la madre: essa dichiarò che
non li distingueva neppure lei: lo sapeva benissimo, in realtà, ma
rispose così sperando che in qualche modo diventassero re tutti e due.
Gli Spartani non sapevano come venirne fuori: nell'imbarazzo mandarono una
delegazione a Delfi per chiedere come dovevano regolarsi in una simile
circostanza; la Pizia li invitò a considerare re entrambi i bambini,
ma di tributare maggiori onori al più anziano. Così rispose la
Pizia; agli Spartani, ancora alle prese con la difficoltà di
individuare il maggiore dei due, giunse un consiglio da un uomo di Messene
che si chiamava Panite. Panite suggerì agli Spartani di spiare quale
bambino la madre lavasse e sfamasse per primo; se risultava che seguiva
sempre lo stesso ordine, essi avrebbero ottenuto quanto cercavano e volevano
scoprire; se invece anche la madre oscillava, accudendo per primo una volta
l'uno una volta l'altro, era chiaro che neppure lei ne sapeva di più;
in tal caso dovevano cambiare strada. Allora gli Spartiati, seguendo il
consiglio del Messeno, osservarono che la madre dei figli di Aristodemo seguiva
sempre lo stesso ordine nell'allattarli e lavarli, privilegiando il
primogenito: lei non sapeva per quale ragione la sorvegliassero. Presero il
bambino favorito dalla madre, in quanto primo nato, e lo allevarono nella
casa dello stato; a lui posero nome Euristene, al più giovane Procle.
Si narra che essi, benché fratelli, una volta adulti, rimasero in costante
disaccordo per tutta la vita, e altrettanto continuano a fare i loro
discendenti. 53) Questa storia è narrata in Grecia solamente dagli
Spartani; ciò che segue lo scrivo in base a quanto affermano i Greci:
dico dunque che i re dei Dori sono catalogati esattamente dai Greci risalendo
fino a Perseo figlio di Danae, escluso il dio; ed è provato che sono
di stirpe greca, poiché già da allora erano annoverati fra i Greci. Ho
detto "fino a Perseo", senza spingermi oltre, perché Perseo non
porta alcun appellativo derivato da un padre mortale (come succede per
Eracle, figlio di Anfitrione); perció, ragionando correttamente,
correttamente ho detto "fino a Perseo". A chi voglia enumerare i
loro antenati partendo da Danae figlia di Acrisio i capi dei Dori
risulterebbero di diretta origine egiziana. 54) Tale dunque la loro genealogia quale viene presentata
dai Greci. Secondo i Persiani invece fu Perseo, un Assiro, a divenire Greco,
e non i suoi avi; gli antenati di Acrisio che non avevano alcun rapporto di
parentela con Perseo, quelli poi, come vogliono i Greci, erano Egiziani. 55) Ma basti al riguardo quanto detto sin qui; perché e con
quali imprese ottennero, pur essendo Egiziani, la dignità regale fra
gli Spartiati, lo hanno spiegato altri e noi lasceremo perdere;
ricorderò invece ciò che gli altri hanno trascurato. 56) Ecco le prerogative assegnate ai re dagli Spartiati: due
sacerdozi, di Zeus Spartano e di Zeus Uranio, la facoltà di dichiarare
guerra al paese che vogliono, senza che alcuno Spartiata possa opporsi
(altrimenti si macchia di sacrilegio). In marcia i re precedono l'esercito e
sono gli ultimi a ritirarsi; cento uomini scelti vegliano su di loro
nell'esercito; possono immolare quante vittime vogliono durante le spedizioni
in terra straniera; spettano a loro le pelli e le terga di tutti gli animali
sacrificati. 57) Questo in tempo di guerra; veniamo ora ai privilegi del
tempo di pace. Se si fa un sacrificio pubblico, i re si siedono per primi a
banchetto, e si comincia da loro assegnando a entrambi, sempre, porzioni
doppie rispetto agli altri convitati; a essi toccano l'onore di dare inizio
alle libagioni e le pelli degli animali sacrificati. Ad ogni novilunio e il
settimo giorno del mese ricevono in dono, a spese dello stato, una vittima
adulta, da condurre al tempio di Apollo, un medimno di farina e la quarta
parte di una misura spartana di vino. In tutte le competizioni hanno diritto
a posti in prima fila. Possono designare chi vogliono tra i cittadini come
prosseno e scegliersi ciascuno due Pizii; i Pizii hanno l'incarico di
consultare l'oracolo di Delfi e sono mantenuti dallo stato assieme ai re. Se
i re non partecipano al banchetto gli si manda a casa due chenici di farina a
testa e una cotila di vino, quando sono presenti gli si offre tutto in misura
doppia; ricevono lo stesso onore anche quando sono invitati a tavola da dei
privati cittadini. Essi devono custodire le profezie oracolari, note anche ai
Pizii. Soltanto i re amministrano la giustizia nei seguenti casi: se una
figlia risulta unica erede di tutti i beni paterni, e il padre non l'ha
promessa a nessuno, decidono chi la sposerà; e decidono anche circa le
pubbliche strade; chi poi vuole adottare un figlio, deve farlo alla presenza
dei re. Essi prendono parte al consiglio degli anziani, che sono ventotto; se
i re non sono presenti alla seduta, i due geronti più vicini a loro
per parentela ne assumono le prerogative, disponendo ciascuno di due voti
più un terzo, il proprio. 58) Questo assegna lo stato spartiata ai due re mentre sono
in vita; ma ci sono anche onori dopo la morte. Dei cavalieri diffondono la
notizia in tutta la Laconia, in ogni città delle donne girano per le
strade percuotendo lebeti. Dopodiché di regola in ogni casa due persone
libere prendono il lutto, un uomo e una donna; se non lo fanno, incorrono in
dure punizioni. Circa i defunti, vige fra gli Spartani la stessa consuetudine
in vigore fra i barbari in Asia: in effetti la maggior parte delle
popolazioni barbare si comporta allo stesso modo in occasione della morte dei
re. Quando muore un re degli Spartani, da tutta Sparta devono recarsi al
funerale, a prescindere dagli Spartiati, i perieci, in un determinato numero:
quando si sono riuniti in parecchie migliaia, fra iloti, perieci e Spartiati
stessi, donne e uomini assieme si percuotono la fronte e si abbandonano a un
compianto senza fine, affermando ogni volta che l'ultimo re defunto è
stato il migliore. Se un re è caduto in guerra, ne preparano
un'effigie e la trasportano alla tomba su una lettiga riccamente preparata.
Dopo le esequie per dieci giorni nessuna assemblea ha luogo e non si svolgono
raduni elettorali: si rispetta il lutto per tutti questi giorni. 59) Coi Persiani c'è corrispondenza anche in un altro
fatto. Quando alla morte di un re un successore sale sul trono, il sovrano
entrante libera tutti gli Spartiati in debito verso la corona e lo stato;
ugualmente, in Persia, il re che si insedia condona a tutte le città
il tributo dovuto. 60) In quanto segue gli Spartani e gli Egiziani sono simili:
presso di loro araldi, flautisti e cuochi ereditano il mestiere paterno: ogni
flautista è figlio di un flautista, ogni cuoco di un cuoco, ogni
araldo di un araldo; questi ultimi non risultano mai esclusi da altri voltisi
a tale professione per la potenza della voce, ma continuano la tradizione
paterna. Così stanno le cose. 61) All'epoca, dunque, Demarato calunniava Cleomene, il
quale si trovava a Egina e si dava da fare per il bene comune della Grecia; e
lo calunniava non per sollecitudine verso gli Egineti, ma per invidia e
rancore. Cleomene, di ritorno da Egina, meditava di esautorare Demarato
prendendo spunto contro di lui dal fatto che ora vi narro. Aristone, re di Sparta,
aveva sposato due donne senza averne dei figli; non ammettendo di essere lui
il colpevole, ne sposò una terza come segue. Aristone aveva per amico
uno Spartiata al quale era legato più che a qualsiasi altro cittadino.
Costui, per l'appunto, aveva in moglie la donna decisamente più bella
di Sparta, divenuta splendida da molto brutta che era. Tanto è vero
che la sua nutrice vedendone il poco pregevole aspetto e che i genitori se ne
facevano un cruccio (la sgraziata ragazza era figlia di gente benestante), di
fronte a tutto questo, ecco che cosa escogitò: ogni giorno la portava
al tempio di Elena, che si trova in una località chiamata Terapne,
oltre il tempio di Febo; tutte le volte che ve la portava, la nutrice la
poneva di fronte alla statua della dea e la scongiurava di scacciare la
bruttezza da quella bambina. Ebbene, si narra che un giorno alla nutrice di
ritorno dal tempio apparve una donna, la quale, una volta comparsa, le
domandò che cosa avesse in braccio; e la nutrice rispose che portava
una neonata; la donna la invitò a mostrargliela e lei si
rifiutò perché i genitori le avevano proibito di mostrarla a chiunque.
Ma la donna insistette pervicacemente e la nutrice, vedendo che essa ci
teneva moltissimo a dare un'occhiata alla bambina, gliela fece vedere. La
donna toccò la testa dell'infante e dichiarò che sarebbe
diventata la più bella donna di Sparta. Da quel giorno l'aspetto
cominciò a mutare; giunta all'età delle nozze, la prese in
moglie Ageto figlio di Alcide, l'amico appunto di Aristone. 62) Aristone ardeva d'amore per questa donna e ideò
un imbroglio. Promise all'amico, di cui lei era la moglie, di regalargli di
tutti i suoi beni ciò che avesse voluto e invitò il compagno a
fare altrettanto. L'amico, che non temeva nulla circa sua moglie, poiché
vedeva che Aristone ne aveva già una, accettò la proposta:
entrambi si impegnarono con giuramento, Aristone regalò l'oggetto,
quello che era, scelto da Ageto, poi cercando di ottenere il contraccambio
tentava di portargli via la moglie. Tranne quell'unico bene, tutti gli altri
glieli avrebbe accordati; così disse Ageto, ma costretto dal
giuramento e fuorviato dal raggiro gliela lasciò portar via. 63) In tal modo Aristone, ripudiata la seconda moglie, poté
sposare la terza. In un tempo più breve del normale, senza che fossero
trascorsi i dieci mesi, questa donna diede alla luce Demarato. Uno dei servi
portò ad Aristone mentre sedeva a consiglio con gli efori la notizia
che gli era nato un figlio. E lui, che sapeva bene quando aveva sposato sua
moglie, contando i mesi sulle dita, dichiarò solennemente: "Non
può essere mio!". Gli efori udirono questa frase, comunque
lì per lì non vi fecero caso. Il bambino cresceva e Aristone si
pentì della sua affermazione; si era convinto, infatti, che Demarato
fosse senz'altro figlio suo. Fu chiamato Demarato per la seguente ragione.
Prima di questi avvenimenti gli Spartiati avevano innalzato pubbliche
preghiere perché nascesse un figlio ad Aristone, un uomo davvero illustre fra
tutti i re saliti sul trono a Sparta; per questo gli fu posto nome Demarato. 64) Passò del tempo; Aristone morì e Demarato
assunse il potere regale. Ma, come pare, era destino che queste cose, una
volta conosciute, mettessero fine al suo regno; Demarato era stato in aspro
disaccordo con Cleomene già prima, quando si era ritirato da Eleusi
con le truppe, e lo fu in particolare in quell'occasione allorché Cleomene si
mosse contro gli Egineti passati dalla parte dei Medi. 65) Avido di vendetta, Cleomene si accordò con
Leotichide, figlio di Menare e nipote di Agio, della stessa famiglia di
Demarato, promettendogli il titolo di re al posto di Demarato, se si
impegnava, dopo, a seguirlo contro gli Egineti. Leotichide aveva concepito un
odio profondo nei confronti di Demarato per il seguente episodio. Quando
Leotichide era già in parola con Percalo, figlia di Chilone e nipote
di Demarmeno, Demarato con le sue manovre gli mandò a monte le nozze
battendolo sul tempo nel rapire Percalo e nel farne sua moglie. Per questo
era nata l'inimicizia di Leotichide per Demarato; allora per istigazione di
Cleomene accusò Demarato dichiarando sotto giuramento che regnava
sugli Spartiati senza averne diritto, perché non era figlio di Aristone. E
dopo l'accusa giurata lo citò in giudizio, riesumando la frase
pronunciata da Aristone quando un servo era venuto ad annunciargli la nascita
di un figlio: Aristone calcolando i mesi aveva proclamato che quello non era
figlio suo. Appoggiandosi a tale affermazione Leotichide mirava a dimostrare
che Demarato non era figlio di Aristone e che regnava su Sparta senza averne
diritto: come testimoni produsse gli efori che allora erano presenti in
consiglio e avevano udito Aristone. 66) Ebbene poiché il fatto era controverso, gli Spartiati
decisero di chiedere all'oracolo di Delfi se Demarato era figlio di Aristone.
Ma il ricorso alla Pizia era stato previsto da Cleomene; perció egli si
garantì l'appoggio di Cobone figlio di Aristofanto, persona assai
influente a Delfi, il quale Cobone convinse la profetessa Perialla a dire ciò
che Cleomene voleva fosse detto. E così la Pizia, quando gli inviati
al santuario la interrogarono, sentenziò che Demarato non era figlio
di Aristone. In tempi successivi, poi, la faccenda venne alla luce, Cobone se
ne andò esule da Delfi e la profetessa Perialla fu sollevata dal suo
compito. 67) Così andarono le cose circa la destituzione di
Demarato. Demarato, poi, riparò presso i Medi, abbandonando Sparta,
per l'oltraggio seguente. Dopo la sua detronizzazione, Demarato continuava a
ricoprire una carica a cui era stato eletto. Era il giorno delle Gimnopedie e
Demarato vi assisteva; allora Leotichide, ormai salito sul trono al posto
suo, gli mandò un servo a chiedergli, per scorno e derisione, che
effetto gli facesse ricoprire una piccola carica dopo essere stato re. Ferito
dalla domanda, Demarato ribatté che lui aveva già esperimentato
entrambe le condizioni, ma Leotichide no, e che la sua domanda avrebbe
segnato l'inizio per gli Spartani di infiniti guai o di una grande
prosperità. Detto ciò, si coprì la testa e uscì
dal teatro per tornarsene a casa; allestito subito il necessario,
immolò un bue a Zeus; poi, dopo il sacrificio, chiamò la madre.
68) Quando la madre giunse, Demarato le mise in mano parte
delle viscere dell'animale e la supplicò con queste parole: "Madre,
io, appellandomi a tutti gli dèi e a Zeus Erceio, qui, ti prego di
dirmi la verità: chi è veramente mio padre? Leotichide nello
scontro che ci ha opposti sostenne che tu eri entrata in casa di Aristone
già incinta del precedente marito, altri affermano con un discorso
ancora più assurdo che sei andata a letto con il servo che pascola gli
asini e che io ne sono il figlio. Io dunque ti scongiuro per gli dèi
di rivelarmi la verità; tanto, se hai fatto ciò che si dice,
non sei certamente la sola donna, anzi sei in numerosa compagnia; è
voce generale a Sparta che Aristone non avesse seme adatto a procreare:
altrimenti avrebbero partorito anche le mogli precedenti". 69) A tali parole la madre rispose: "Figlio mio, poiché
mi preghi e mi supplichi di comunicarti la verità, la saprai tutta.
Quando Aristone mi condusse in casa sua, tre notti dopo la prima, mi apparve
un fantasma con le sembianze di Aristone: giacque con me e pose sul mio capo
le corone che portava. Poi se ne andò e più tardi venne
Aristone. Come vide che avevo delle corone, mi chiese chi me le avesse date.
E io gli risposi: "Tu". Lui diceva di no, e io confermavo con
giuramenti, osservando che era venuto davvero poco prima, e si era coricato
con me e mi aveva dato le corone. Aristone, vedendomi giurare, capì
che il fatto aveva del divino. Le corone si rivelarono provenienti dall'eroon
piazzato presso le porte del cortile, eroon detto di Astrabaco; d'altra parte
gli indovini, interrogati, rispondevano trattarsi di questo stesso eroe. Così,
figlio mio, ora sai tutto quello che volevi: o sei nato da questo eroe e
quindi tuo padre è l'eroe Astrabaco, oppure è Aristone; io ti
ho concepito in quella notte. Quanto al punto su cui i tuoi nemici basano i
loro attacchi, sostenendo che Aristone stesso, quando gli fu annunciata la
tua nascita, negò in presenza di molti testimoni, che tu fossi suo
figlio (perché il tempo, i dieci mesi giusti, non erano ancora trascorsi),
ebbene quella frase gli scappò per ignoranza di queste cose: le donne
partoriscono di nove o di sette mesi, non tutte portano a termine i dieci;
figlio, io ti ho dato alla luce di sette mesi. Lo stesso Aristone, non molto
dopo, riconobbe di essere sbottato a sproposito. Altre chiacchiere circa la
tua nascita respingile; la verità autentica l'hai udita ora. E dagli
asinari possano avere figli le mogli di Leotichide e di quanti mettono in
giro queste voci!". 70) Così parlò la donna, e lui, appreso
ciò che voleva, prese con sé l'occorrente per un viaggio e
partì per l'Elide, raccontando invece che si recava a Delfi per
consultare l'oracolo. Ma gli Spartani, sospettando che Demarato tentasse la
fuga, si gettarono al suo inseguimento. Demarato in qualche maniera
riuscì a passare dall'Elide a Zacinto prima di loro, ma gli Spartani,
sbarcati dietro di lui, lo raggiunsero e lo privarono del seguito. Ma poi,
dato che gli abitanti di Zacinto non volevano consegnarlo, da lì poté
trasferirsi in Asia presso re Dario: Dario lo accolse con tutti gli onori e
gli donò terra e città. Ecco dunque attraverso quali vicissitudini
Demarato giunse in Asia, lui che più e più volte aveva dato
lustro a Sparta con l'azione e i consigli; e in particolare aveva assicurato
loro una corona olimpica, vincendo nella corsa delle quadrighe, unico a
riuscirci fra tutti i re che mai regnarono a Sparta. 71) Dopo la destituzione di Demarato, gli succedette nel
regno Leotichide, figlio di Menare; egli ebbe un figlio, Zeuxidamo, che
alcuni degli Spartiati chiamavano Cinisco. Questo Zeuxidamo non regnò
su Sparta, perché morì prima di Leotichide, lasciando un figlio,
Archidamo. Leotichide, quando perse Zeuxidamo, si prese una seconda moglie,
Euridame, sorella di Menio e figlia di Diattoride; da lei non ebbe figli
maschi, bensì una femmina, Lampito, e la concesse in moglie ad
Archidamo figlio di Zeuxidamo. 72) E neppure Leotichide invecchiò a Sparta:
pagò in qualche modo le sue colpe verso Demarato, ed ecco come. Ebbe
il comando di una spedizione spartana contro la Tessaglia e, avendo la
possibilità di sottomettere l'intero paese, si lasciò corrompere
da una ingente somma di denaro. Colto sul fatto, lì nell'accampamento,
seduto su di una borsa gonfia di denaro, tratto in giudizio, fuggì da
Sparta; e la sua casa fu demolita; riparò a Tegea e lì chiuse i
suoi giorni. 73) Ma questi avvenimenti si verificarono in tempi
successivi. Allora invece Cleomene, andatogli a segno il colpo ai danni di
Demarato, subito prese con sé Leotichide e mosse contro gli Egineti: nei loro
confronti nutriva un tremendo rancore per l'affronto patito. E così gli
Egineti, vedendosi venire addosso entrambi i re, non ritennero più il
caso di opporre resistenza; gli Spartani scelsero dieci uomini fra gli
Egineti, i più ragguardevoli per censo e per natali e li portarono
via, fra gli altri anche Crio figlio di Policrito e Casambo figlio di
Aristocrate, personaggi della massima autorità. Li condussero in
Attica e li affidarono in custodia ai peggiori nemici degli Egineti, agli
Ateniesi. 74) In seguito Cleomene, quando le sue losche macchinazioni
ai danni di Demarato divennero note a tutti, ebbe paura degli Spartiati e
fuggì in Tessaglia. Passato di là in Arcadia, tentò di
suscitare una insurrezione, coalizzando contro Sparta gli Arcadi, che indusse
fra l'altro a giurare di seguirlo dove li avesse condotti; e ci teneva in
particolare a far venire i capi degli Arcadi nella città di Nonacri,
per farli giurare sull'acqua dello Stige. Dicono gli Arcadi che in questa
città si trova l'acqua dello Stige, o più esattamente ecco cosa
c'è: una esigua vena d'acqua sgorgando dalla roccia sgocciola in una
depressione, depressione circondata tutto intorno da un muro di pietre.
Nonacri, dove si trova la sorgente, è una citta dell'Arcadia vicina a
Fenea. 75) Quando gli Spartiati appresero l'operato di Cleomene,
per paura lo riammisero a Sparta con le stesse prerogative con le quali
regnava anche prima. Ma subito, appena rientrato, lo colpì una grave
forma di pazzia (già prima non era del tutto sano di mente): ogni
volta che incontrava uno Spartiata lo colpiva sulla faccia con lo scettro.
Dato il suo comportamento e la sua follia, i parenti lo legarono a un ceppo
di legno. Egli, imprigionato così, come vide il suo custode lasciato
solo dagli altri, gli chiese un pugnale; poiché quello dapprima non glielo
voleva dare, gli specificò minacciosamente, cosa gli avrebbe fatto una
volta libero, finché la sentinella, atterrita dalle minacce (era infatti un
ilota), gli diede il pugnale. Cleomene lo prese e cominciò dalle gambe
a straziarsi. Fendendosi le carni nel senso della lunghezza passò
dalle gambe alle cosce, dalle cosce alle anche e ai fianchi, fino a
raggiungere il ventre, e morì così, sbudellandosi
completamente. Ciò, secondo la maggior parte dei Greci, perché aveva
persuaso la Pizia a dire quanto aveva detto su Demarato; secondo i soli
Ateniesi invece, perché assalendo Eleusi aveva raso al suolo il recinto sacro
degli dèi; secondo gli Argivi, infine, perché, avendo invitato degli
Argivi scampati a una battaglia a lasciare il santuario dell'eroe Argo, dove
si erano rifugiati, li aveva massacrati, e con totale noncuranza aveva
incendiato persino il bosco sacro. 76) Effettivamente consultando l'oracolo a Delfi aveva
appreso dal responso che avrebbe conquistato Argo. Quando poi, alla testa
degli Spartiati, giunse sul fiume Erasino, che proviene, si dice, dal lago di
Stinfelo, (l'acqua di questo lago precipitando in una voragine nascosta
riaffiorerebbe in Argo e di là poi verrebbe ormai chiamata Erasino,
dagli Argivi), Cleomene, dunque, giunto sulle rive di questo fiume, in suo
onore offrì sacrifici. Poiché i presagi non risultarono minimamente
propizi per varcare il fiume, egli, dichiarò che ammirava l'Erasino,
non disposto a tradire i suoi concittadini, ma che gli Argivi neppure
così avrebbero avuto di che rallegrarsi. Poi fece ripiegare l'esercito
e lo condusse a Tirea; qui, dopo aver sacrificato un toro in onore del mare,
con delle navi portò gli Spartani nel territorio di Tirinto e di
Nauplia. 77) Gli Argivi, saputolo, corsero verso il mare a
difendersi; giunti presso a Tirinto, nella località denominata Sepia,
si accamparono di fronte agli Spartani, lasciando fra i due eserciti uno
spazio non grande. A quel punto gli Argivi non temevano una battaglia in
campo aperto, bensì di essere sorpresi da qualche inganno; infatti
riguardava proprio quel caso specifico il responso che la Pizia aveva
pronunciato in comune a loro e ai Milesi e che diceva così:...”Quando
la femmina il maschio abbia vinto e il respinga, ed in Argo, Gloria si
acquisti, si lacereranno la pelle assai donne D’Argo, e tra i posteri
molti diranno: E’ perito, Domo dall’asta, il serpente terribil, che non facea
spire”... (Ma quando la femmina, sconfitto il maschio, lo scaccerà
e si guadagnerà gloria fra gli Argivi, allora obbligherà molte
Argive a lacerarsi le guance. Tanto che un giorno si dirà fra gli
uomini a venire: un terribile serpente dalla triplice spira cadde abbattuto
dalla lancia). Tutti questi fatti concorrevano a terrorizzare gli Argivi.
Decisero perciò di servirsi dell'araldo nemico, esattamente come
segue: ogni volta che l'araldo spartiata segnalava il da farsi agli Spartani,
anche gli Argivi si regolavano in modo identico. 78) Cleomene, accortosi che gli Argivi si attenevano alle
indicazioni del suo araldo, ordinò ai suoi, appena l'araldo avesse
dato il segnale per il rancio, di impugnare le armi e gettarsi addosso agli
Argivi. E così fecero puntualmente gli Spartani. Gli Argivi, sentendo
il segnale del rancio, si erano messi a mangiare; gli Spartani piombarono su
di loro e ne uccisero molti; e accerchiarono il bosco sacro ad Argo, in cui
moltissimi si erano rifugiati. 79) A quel punto ecco come agì Cleomene: avendo a
disposizione dei transfughi ricavò da loro le necessarie informazioni,
poi, tramite un araldo, chiamò fuori gli Argivi asserragliati nel
santuario invitandoli per nome; li convinse a uscire affermando di possedere
già il loro riscatto (il riscatto a Sparta è fissato in due
mine da pagarsi per ogni prigioniero). In tal modo Cleomene trucidò
una cinquantina di Argivi, stanandoli uno per uno. Gli altri rimasti all'interno
del sacro recinto non si erano minimamente accorti di quanto accadeva; il
bosco era molto fitto, e da dentro non potevano scorgere cosa facessero gli
altri, di fuori, finché uno di loro non salì su un albero e vide
quanto stava succedendo. A quel punto, pur continuando a venir chiamati, non
uscirono più. 80) Allora Cleomene ordinò a ogni ilota di
accatastare della legna intorno alla selva, e quando essi ebbero obbedito,
appiccò il fuoco al bosco. Mentre ormai bruciava, chiese a uno dei
transfughi a quale dio quel luogo fosse consacrato; e quello rispose che
apparteneva ad Argo. Appena udita la risposta Cleomene molto si dolse ed
esclamò: "Apollo, dio dell'oracolo, come mi hai ingannato bene
affermando che avrei preso Argo; mi rendo conto che il vaticinio mi si
è già compiuto". 81) Poi Cleomene rimandò indietro a Sparta il grosso
dell'esercito, ma prese con sé i mille soldati migliori e si recò al
tempio di Era a offrire un sacrificio. Voleva sacrificare sull'altare ma il
sacerdote glielo proibì, sostenendo che uno straniero non poteva, pena
l'empietà, eseguire il rito in quel luogo; Cleomene ordinò agli
iloti di allontanare il sacerdote dall'altare e di frustarlo, poi
personalmente compì il sacrificio; ciò fatto, ripartì
per Sparta. 82) Al suo ritorno, i suoi nemici lo accusarono davanti agli
efori, sostenendo che non aveva conquistato Argo, benché facile da
espugnarsi, perché si era lasciato corrompere. Egli ribatté, non so dire con
certezza se mentendo o dicendo la verità, ma ribatté insomma dichiarando
che dopo la conquista del santuario di Argo il vaticinio del dio gli era
parso già compiuto; pertanto aveva pensato bene di non assalire la
città prima di aver offerto dei sacrifici per accertare se il dio
glielo permetteva o glielo impediva; e mentre traeva gli auspici nel tempio
di Era, dalla statua della dea, dal petto, era lampeggiata una vampa di
fuoco, e in tal modo aveva appreso con sicurezza di non poter conquistare
Argo. Se infatti la luce fosse esplosa dalla testa della statua, avrebbe
espugnata la città da cima a fondo, ma poiché la vampa era scaturita
dal petto, aveva già compiuto tutto quanto il dio desiderava
accadesse. Agli Spartiati la spiegazione di Cleomene, in questi termini
espressa, parve credibile e ragionevole, sicché fu assolto a grande
maggioranza. 83) Argo fu depauperata di uomini al punto che gli schiavi
ebbero in mano loro ogni funzione, governando e amministrando, finché non
divennero adulti i figli dei defunti. Costoro, poi, una volta ripreso il
controllo di Argo, allontanarono gli schiavi, i quali, scacciati, si
impadronirono di Tirinto con le armi. Per un po' ci furono fra loro rapporti
di amicizia, ma poi, presso gli schiavi arrivò un indovino, Cleandro,
originario di Figalia in Arcadia; costui convinse gli schiavi ad assalire i
padroni. Da qui una guerra, durata parecchio tempo, finché a stento gli
Argivi non ebbero la meglio. 84) Per tale ragione dunque, secondo gli Argivi, Cleomene
divenne pazzo e morì malamente; gli Spartiati invece negano che la
pazzia di Cleomene fosse di origine soprannaturale: secondo loro, Cleomene,
avendo frequentato degli Sciti, diventò un forte bevitore: e da
lì la follia. In effetti gli Sciti nomadi, dopo l'invasione del loro
paese da parte di Dario, smaniosi di vendicarsi, avevano inviato ambasciatori
a Sparta per stipulare un patto di alleanza, e si erano accordati
così: gli Sciti dovevano attaccare dalla parte del fiume Fasi e
invadere la Media, e invitavano gli Spartiati a muovere in marcia da Efeso,
per convergere poi tutti nello stesso luogo. Si narra dunque che Cleomene,
quando gli Sciti furono a Sparta per discutere questo piano, li frequentasse
un po' troppo e frequentandoli imparasse da loro a bere vino puro; di qui,
pensano gli Spartani, derivò la sua pazzia. Da allora, sono loro
stessi a spiegarlo, quando vogliono berne di un po' più forte, dicono:
"Versami alla scitica!". Questo è dunque quanto raccontano
gli Spartiati su Cleomene; ma a me sembra che Cleomene abbia pagato
così le sue colpe verso Demarato. 85) Gli Egineti, come seppero della morte di Cleomene,
inviarono messaggeri a Sparta per protestare contro Leotichide circa gli
ostaggi trattenuti ad Atene. Gli Spartiati nominarono una commissione,
riconobbero che gli Egineti erano stati angariati da Leotichide e
sentenziarono che lui doveva essere consegnato e condotto a Egina in cambio
dei cittadini prigionieri ad Atene. Ma quando già gli Egineti si
apprestavano a portare via Leotichide, Teaside figlio di Leoprepe, uomo
ragguardevole a Sparta, disse: "Che decidete di fare, Egineti? Di
portarvi via il re degli Spartiati, che i suoi concittadini vi hanno
consegnato? Se adesso gli Spartiati in un momento di sdegno hanno deciso
così, badate, se lo farete, che un giorno non scatenino contro il
vostro paese un uragano di guai". Udito ciò, gli Egineti
rinunziarono a portar via Leotichide e si misero d'accordo così: che
il re, accompagnandoli ad Atene, ottenesse la restituzione agli Egineti dei
loro uomini. 86) Quando Leotichide, arrivato ad Atene, reclamò gli
ostaggi, gli Ateniesi, che non volevano restituirli, accamparono pretesti;
dissero che due re li avevano affidati a loro e che non ritenevano corretto
riconsegnarli a uno dei due in assenza dell'altro. A) Dato che gli Ateniesi rifiutavano di renderli,
Leotichide disse loro: "Ateniesi, agite pure come volete voi.
Restituendoli farete cosa giusta e sacra, non rilasciandoli farete
esattamente il contrario. Comunque io voglio narrarvi cos'accadde una volta a
Sparta riguardo a un deposito. Noi Spartiati raccontiamo che due generazioni
fa a Sparta viveva Glauco, figlio di Epicide. Questo uomo, si narra,
primeggiava in tutto e in particolare per il suo senso di giustizia godeva
della stima massima fra tutti quanti allora abitavano a Sparta. Ecco cosa gli
accadde a suo tempo, come si narra da noi. B) Giunse a Sparta un uomo di Mileto e volle incontrarsi
con lui per fargli la seguente proposta: "Io sono di Mileto",
disse, "e sono venuto qui nel desiderio di avvalermi della tua
onestà, Glauco. Infatti mentre per tutto il resto della Grecia e anche
in Ionia si faceva un gran parlare della tua giustizia, io riflettevo tra me
che la Ionia è quasi sempre in pericolo, mentre il Peloponneso
è in una posizione di assoluta sicurezza, e che d'altronde non
è mai dato vedere le ricchezze in mano alle stesse persone. Dopo aver
riflettuto, dunque, valutata la situazione, decisi di convertire in denaro la
metà delle mie sostanze e di depositarla presso di te: sono convinto
che quanto resterà presso di te rimarrà intatto. Tu
perciò prendi il denaro e questi contrassegni e conservali:
restituirai il denaro a chi te lo chiederà e sia in possesso di
identici contrassegni". Così parlò lo straniero arrivato
da Mileto; Glauco accettò il deposito alla condizione suddetta.
Trascorso parecchio tempo, giunsero a Sparta i figli dell'uomo che aveva
depositato il tesoro, si presentarono da Glauco e, mostrandogli i
contrassegni, volevano indietro il denaro. Ma Glauco respinse la richiesta
con una risposta di questo tenore: "Io non rammento questa faccenda e
non me la richiama nulla di ciò che andate dicendo; ma se me la
ricorderò, desidero agire secondo piena giustizia e quindi, se ho
ricevuto, voglio onestamente restituire; però, se non ho ricevuto un
bel niente, io mi atterrò con voi alle norme dei Greci. Pertanto
rinvio la soluzione del vostro problema fra tre mesi". C) I Milesi se ne andarono in preda allo sconforto,
ritenendosi ormai defraudati del loro denaro. Glauco da parte sua si
recò a Delfi per consultare l'oracolo. Ma quando domandò
all'oracolo se grazie a un giuramento avrebbe messo le mani sul denaro, la
Pizia lo aggredì con queste parole:...”Glauco figlio di Epicide!
adesso ti reca guadagno Vincere col giuramento e i tesori predare. E tu,
giura! Poi che la morte attende anche l’uomo fedele al sua giuro. Ma,
resta un figlio del giuro tradito! sfornito di nome, Privo di mani, di
piedi anche privo: pur rapido insegue, Fino a che tutta distrugga la stirpe e
la casa che afferra. Dell’uomo onesto, invece, la stirpe futura migliora”...
(Glauco di Epicide, nell'immediato è più vantaggioso
così; spuntarla con un giuramento e appropriarsi del denaro. Giura,
tanto la morte attende anche chi rispetta i giuramenti! Ma il Giuramento ha
un figlio, senza nome, senza mani e senza piedi; che si avventa però
agilmente, finché, ghermita tutta una stirpe e tutta una casata, non l'abbia
distrutta. La discendenza di chi rispetta i giuramenti, nei tempi a venire
vive meglio). "Udita questa risposta, Glauco pregò il dio di
perdonargli le sue parole. Ma la Pizia disse che tentare il dio e agire male
hanno lo stesso valore. D) Glauco, insomma, mandò a chiamare gli stranieri
di Mileto e restituì loro le ricchezze. E ora sapete, Ateniesi, perché
ho preso le mosse da questo discorso: oggi non esiste alcun discendente di
Glauco e non esiste focolare che sia detto di Glauco: la sua progenie
è stata estirpata da Sparta, dalle radici. Ecco perché, circa un
deposito, è bene non pensare ad altro che a restituirlo a chi lo
reclami". 87) Detto questo, Leotichide, visto che neppure così gli
Ateniesi gli davano ascolto, se ne andò. Invece gli Egineti, prima
ancora di pagare i torti già commessi nei confronti degli Ateniesi per
rendere un servizio ai Tebani, ecco cosa fecero. Sdegnati contro gli Ateniesi
e ritenendosi offesi, preparavano una vendetta; e poiché gli Ateniesi
celebravano allora una festa quinquennale al Sunio, tesero un agguato alla
nave sacra e la catturarono carica dei più ragguardevoli cittadini di
Atene. Li fecero prigionieri e li gettarono in carcere. 88) Gli Ateniesi, subíto l'affronto degli Egineti, non ci
pensarono un secondo a macchinare di tutto ai danni degli Egineti. Viveva a
Egina un uomo di notevole prestigio, di nome Nicodromo, figlio di Cneto:
costui ce l'aveva con gli Egineti perché lo avevano esiliato dall'isola in
tempi precedenti, sicché quando seppe che gli Ateniesi erano pronti a nuocere
agli Egineti, si accordò con loro per tradire l'isola, indicando il
giorno in cui avrebbe tentato il colpo di mano e in cui loro dovevano
accorrere in suo aiuto. 89) Più tardi Nicodromo si impadronì della
cosiddetta Città Vecchia, ma gli Ateniesi non si presentarono al
momento giusto. Infatti si erano trovati privi di navi in grado di affrontare
quelle degli Egineti; e nel tempo speso a pregare i Corinzi di fornirgliene,
l'occasione sfumò. I Corinzi in quel periodo erano effettivamente in
ottimi rapporti con gli Ateniesi: alle loro richieste risposero fornendo
venti navi, ricevendone in compenso cinque dracme per ciascuna, perché per
legge non era permesso farne dono. Con queste venti navi e con le proprie,
settanta fra tutte, gli Ateniesi partirono per Egina, dove arrivarono con
ventiquattro ore di ritardo sul giorno fissato. 90) Siccome gli Ateniesi non erano giunti al momento giusto,
Nicodromo si imbarcò e fuggì da Egina. Lo seguirono anche
quegli altri cittadini ai quali poi gli Ateniesi diedero da abitare il Sunio.
Muovendo da questa base depredavano e rapinavano gli Egineti dell'isola. Ma
questo accadde più tardi. 91) Gli Egineti benestanti riuscirono a soffocare la rivolta
dei popolani ribellatisi assieme a Nicodromo; quando li ebbero fra le mani,
poi, li portarono fuori della città per giustiziarli. Ma questo
episodio si risolse per loro in un sacrilegio, dal quale, per quanto ci
provassero, non furono capaci di liberarsi: vennero anzi scacciati dall'isola
prima che la dea ritornasse propizia. In effetti arrestarono e condussero
fuori città per trucidarli 700 uomini del popolo: uno di questi,
però, liberatosi dalle catene, si rifugiò nell'atrio del tempio
della dea Demetra Tesmofora, e afferrando le maniglie delle porte vi rimase
aggrappato. Non essendo riusciti a staccarlo da lì tirandolo via, gli
mozzarono le mani, e lo portarono via così, e le mani rimasero
attaccate alle maniglie. 92) Questo dunque fecero contro se stessi gli Egineti:
contro gli Ateniesi in arrivo si batterono con settanta navi, ma, sconfitti
nello scontro navale, invocarono in aiuto gli stessi di prima, gli Argivi.
Gli Argivi, però, non accolsero la richiesta, rinfacciando loro che
navi da Egina, sia pure prese con la forza da Cleomene, erano approdate in
territorio argivo dove gli equipaggi erano sbarcati assieme agli Spartani;
durante la stessa invasione avevano preso parte allo sbarco anche uomini
scesi da navi di Sicione. Alle due città gli Argivi avevano imposto di
pagare un risarcimento di 1000 talenti, 500 per ciascuna. Ebbene, i Sicioni,
riconosciuta la propria colpa, si erano accordati per versare 100 talenti ed
essere esentati dal resto, gli Egineti invece non ammettevano niente ed erano
ancor più arroganti. Per questa ragione, ricevuto l'appello, nemmeno
un Argivo partì in soccorso per decisione dello stato: solo un
migliaio di volontari, comandati da Euribate, un ex-pentatleta. La maggior
parte di loro non fece ritorno: morirono a Egina per mano degli Ateniesi; lo
stratego Euribate, dal canto suo, ingaggiando duelli individuali abbatté in
tal modo tre nemici, ma fu ucciso dal quarto, Sofane di Decelea. 93) Invece gli Egineti assalirono sul mare gli Ateniesi
mentre non erano ancora schierati a battaglia e riportarono la vittoria,
catturando quattro navi complete di equipaggio. 94) Gli Ateniesi dunque erano impegnati in guerra contro gli
Egineti. Intanto il re persiano metteva in atto il suo progetto: il servo
continuava a ricordargli di tenere a mente Atene, e i Pisistratidi gli
stavano da presso accusando gli Ateniesi; al tempo stesso con questo pretesto
Dario desiderava sottomettere quanti in Grecia gli avevano negato terra e
acqua. Esautorò dal comando supremo Mardonio, che aveva operato malamente
con la flotta e, nominati altri comandanti, li inviò contro Eretria e
Atene: si trattava di Dati, di stirpe meda, e di Artafrene, figlio di
Artafrene, nipote suo. Li mandò con l'incarico di ridurre in
schiavitù Atene ed Eretria e di condurre tali schiavi al suo cospetto.
95) I due generali designati, lasciato il re, giunsero in
Cilicia, nella piana di Aleia, conducendo con sé un esercito di terra
numeroso e ben equipaggiato; e mentre erano colà accampati sopraggiunsero
tutte le squadre navali ordinate ai singoli popoli, e si presentarono anche
le imbarcazioni per il trasporto dei cavalli, che l'anno precedente Dario
aveva imposto di allestire ai suoi tributari. Una volta fatti salire i
cavalli su queste navi e imbarcata la fanteria, partirono con 600 triremi
verso la Ionia. Dalla Cilicia non puntarono sull'Ellesponto e la Tracia,
costeggiando il continente, ma da Samo presero il largo passando accanto a
Icaro e attraverso l'arcipelago; secondo me temevano fortemente la
circumnavigazione dell'Athos, visto che l'anno prima, lungo quell'itinerario,
avevano subito gravi danni; inoltre li costringeva a seguire quella rotta
anche Nasso, che a suo tempo non era stata conquistata. 96) Dopo essere usciti dal mare Icario si diressero e
approdarono a Nasso (infatti a quest'isola per prima i Persiani intendevano
portare guerra); i Nassi, memori della volta precedente, si dileguarono in
fuga verso le montagne e non attesero l'assalto; i Persiani ridussero in
schiavitù i Nassi che riuscirono a catturare e diedero alle fiamme
santuari e città. Fatto ciò salparono in direzione delle altre
isole. 97) Mentre essi agivano a Nasso, i Deli abbandonarono a loro
volta la propria isola e si andarono a rifugiare a Teno. Quando già l'armata
stava per accostare, Dati, che precedeva la flotta, non permise che le navi
ormeggiassero a Delo e fece gettare l'ancora lì di fronte, nelle acque
di Renea; lui stesso poi, saputo dove stavano i Deli, inviò loro un
araldo col seguente messaggio: "Voi, uomini sacri, siete fuggiti perché
avete di me un'opinione cattiva e sbagliata. Io già la penso in questo
modo, e poi così dal re mi è ordinato, di non recare alcun
danno al paese in cui nacquero le due divinità, al paese, dico, e ai
suoi abitanti. Perciò tornatevene alle vostre attività e
abitate pure l'isola". Questo fu il messaggio indirizzato ai Deli; poi
Dati ammassò trecento talenti di incenso sull'altare e li
bruciò in onore del dio. 98) Dati, in seguito, si diresse con la sua armata contro
Eretria, conducendo con sé anche Ioni ed Eoli. Dopo la sua partenza, come
raccontano i Deli, l'isola subì una scossa sismica, il primo e ultimo
terremoto fino ai tempi miei; il dio, immagino, mostrò questo prodigio
per segnalare le sventure che si sarebbero abbattute sull'umanità. In
effetti sotto i regni di Dario di Istaspe, di Serse di Dario e di suo figlio
Artaserse, tre generazioni successive, toccarono più calamità
alla Grecia che nelle venti altre generazioni precedenti i tempi di Dario,
causate in parte dai Persiani, in parte dai capi stessi dei Greci in lotta
per il potere. Nulla di strano, quindi, che avesse tremato Delo, fino ad
allora rimasta immune da terremoti. Su di lei in un oracolo stava scritto
così:,,,”Io scuoterò pure Delo, che fu prima stabile
terra”... (Scuoterò anche Delo, che era immobile). I nomi dei
sovrani in lingua greca significano "il potente" (Dario), "il
bellicoso" (Serse), "il molto bellicoso" (Artaserse). Nella
loro lingua i Greci potrebbero chiamarli così questi re, senza tema di
sbagliare. 99) I barbari, allontanatisi da Delo, facevano scalo nelle
isole, da dove prelevavano truppe e prendevano in ostaggio i figli degli
isolani. Quando nel loro giro delle isole giunsero anche a Caristo, (poiché i
Caristi non consegnarono ostaggi e si rifiutarono di muovere in armi contro
città a essi vicine, e nominavano Atene ed Eretria), allora li
strinsero d'assedio e ne devastarono le terre, finché anche i Caristi non si
schierarono dalla parte dei Persiani. 100) Gli Eretriesi, informati che la flotta persiana si
dirigeva contro di loro, chiesero soccorso agli Ateniesi. Gli Ateniesi non
negarono assistenza, anzi gli assegnarono a difesa i 4000 cleruchi che
possedevano la terra degli ippoboti di Calcide. Ma non presero nessuna sana
decisione: perché gli Eretriesi avevano chiamato sì gli Ateniesi, ma
erano incerti fra due diversi pareri. Alcuni di loro infatti suggerivano di
abbandonare la città e rifugiarsi sulle alture dell'Eubea, altri,
attendendosi un personale tornaconto dai Persiani, si predisponevano a
tradire. Quando seppe come si profilava la situazione, Eschine, figlio di
Notone, uomo fra i più ragguardevoli di Eretria, l'espose esattamente
com'era agli Ateniesi sopraggiunti e li pregò di tornarsene a casa,
onde evitare una brutta fine. E gli Ateniesi seguirono i consigli di Eschine.
101) E così gli Ateniesi, passati a Oropo, si
mettevano in salvo. I Persiani in navigazione ormeggiarono le navi nel paese
di Eretria, all'altezza di Tamine, Cherea ed Egilia, e, una volta gettate qui
le ancore, subito sbarcarono i cavalli e si prepararono ad assalire i nemici.
Non rientrava nei piani degli Eretriesi di piombare loro addosso e dare
battaglia; come difendere le mura, se possibile, questo gli interessava,
poiché era prevalsa l'opinione di non lasciare la città. Fu lanciato
un duro assalto alle mura, e per sei giorni si ebbero molte perdite da
entrambe le parti. Il settimo giorno Euforbo figlio di Alcimaco e Filagro
figlio di Cinea, uomini prestigiosi in città, tradirono a vantaggio
dei Persiani, i quali, penetrati in città, saccheggiarono e
incendiarono i santuari, come rappresaglia per i templi dati alle fiamme a
Sardi; e come Dario aveva ordinato ridussero in schiavitù la
popolazione. 102) Dopo la presa di Eretria e pochi giorni di sosta
colà, salparono verso la terra d'Attica, stringendo gli Ateniesi in
una morsa, convinti di destinarli alla stessa fine degli Eretriesi. E poiché
Maratona era, in Attica, la località più adatta a operazioni di
cavalleria, e vicinissima a Eretria, qui li guidò Ippia, figlio di
Pisistrato. 103) Gli Ateniesi, come lo seppero, accorsero anche loro a
Maratona per difendersi, al comando di dieci strateghi; tra i dieci c'era
Milziade, il cui padre Cimone, figlio di Stesagora, era stato costretto ad
abbandonare Atene da Pisistrato figlio di Ippocrate. Mentre era in esilio,
poi, gli capitò di vincere alle Olimpiadi nella corsa delle quadrighe:
riportando questa vittoria ripeteva l'impresa di suo fratello Milziade,
figlio della stessa madre. Quindi, trionfando all'Olimpiade successiva con le
stesse cavalle, cedette a Pisistrato l'onore di essere proclamato vincitore e
avendogli lasciato la corona poté, grazie a espliciti accordi, rientrare in
patria. Gli toccò poi di morire, dopo aver vinto un'altra Olimpiade
con le stesse cavalle, e quando ormai Pisistrato non era più in vita,
per mano dei figli di Pisistrato. Essi lo fecero uccidere in una imboscata
notturna nei pressi del Pritaneo. Cimone giace sepolto fuori città, al
di là della strada che attraversa la cosiddetta "Cava". Di
fronte a lui stanno sepolte le cavalle che vinsero a tre Olimpiadi.
Già altre cavalle, quelle di Evagora figlio di Lacone, avevano
compiuto la stessa impresa, ma sono i due soli casi. Il maggiore dei figli di
Cimone, Stesagora, era in quel periodo in casa dello zio Milziade, nel
Chersoneso; il più giovane si trovava ad Atene presso Cimone stesso e
si chiamava Milziade, proprio come il colonizzatore del Chersoneso. 104) Allora, insomma, questo Milziade, comandava l'esercito
ateniese; era arrivato dal Chersoneso ed era scampato due volte alla morte.
Infatti non solo i Fenici che gli avevano dato la caccia fino a Imbro ci
tenevano assai a catturarlo e a consegnarlo al re, ma per giunta, proprio
quando, sfuggito ai Fenici e arrivato in patria, era ormai convinto di essere
in salvo, i suoi nemici, che lo avevano atteso al varco, lo perseguirono
penalmente accusandolo di essersi reso tiranno del Chersoneso. Sfuggito anche
a questi accusatori fu proclamato stratego di Atene, per scelta popolare. 105) E per prima cosa gli strateghi, mentre erano ancora in
città, inviarono a Sparta come araldo il cittadino ateniese Filippide,
che era, di professione, un messaggero per le lunghe distanze. Filippide,
come lui stesso raccontò e riferì ufficialmente agli Ateniesi,
nei pressi del monte Partenio, sopra Tegea, s'imbatté in Pan. Pan, dopo aver
gridato a voce altissima il nome di Filippide, gli ingiunse di chiedere agli
Ateniesi perché mai non si curavano affatto di lui, benché fosse loro amico e
li avesse aiutati molte volte in passato e fosse pronto a farlo per il
futuro. E gli Ateniesi, una volta ristabilitasi la situazione, avendo creduto
veritiero tale racconto, edificarono ai piedi dell'acropoli un tempio di Pan,
che venerano ogni anno, dopo quel messaggio, con sacrifici propiziatori e una
corsa di fiaccole. 106) Filippide, inviato dagli strateghi, proprio quella volta
lì, in cui disse che gli era apparso Pan, era già a Sparta il
giorno dopo la sua partenza dalla città di Atene. Presentatosi ai
magistrati spartani, disse: "Spartani, gli Ateniesi vi pregano di venire
in loro soccorso e di non permettere che una città fra le più
antiche della Grecia cada in schiavitù per opera di genti barbare;
è così: ora gli Eretriesi sono schiavi e la Grecia risulta
più debole, perché le manca una città importante". Egli
dunque comunicava il messaggio che gli era stato affidato; gli Spartani
decisero sì di inviare aiuti, ma non erano in grado di provvedere
subito, perché non volevano violare la legge: era infatti il nono giorno
della prima decade del mese, e il nono giorno non potevano partire,
specificarono, perché non c'era ancora il plenilunio. 107) Essi pertanto attendevano il plenilunio. Intanto Ippia
figlio di Pisistrato guidava i barbari a Maratona; la notte precedente
dormendo aveva avuto un sogno: gli era parso di giacere con la propria madre.
Arguì dunque dal sogno che, rientrato ad Atene e recuperato il proprio
potere, sarebbe morto di vecchiaia nella sua patria. Questo dedusse dalla
visione. Allora dirigendo le operazioni sbarcò gli schiavi di Eretria
nell'isola degli Stirei, denominata Egilia, poi fece ormeggiare le navi che
arrivavano a Maratona e schierò i barbari scesi a terra. Mentre dava
queste disposizioni gli capitò di starnutire e tossire più
forte del solito; e poiché era alquanto anziano quasi tutti i denti gli
vacillavano. Un colpo di tosse più violento gliene strappò via
uno; gli cadde sulla sabbia e lui si diede un gran da fare per trovarlo. Ma
poiché il dente non si vedeva, sospirò e disse ai presenti:
"Questa terra non è nostra e noi non potremo impadronircene. Quel
tanto che mi spettava se l'è preso il dente". 108) Ippia interpretò che la sua visione così
aveva avuto compimento. Agli Ateniesi schierati nell'area del santuario di
Eracle giunsero in soccorso i Plateesi tutti; in effetti i Plateesi si erano
messi sotto la protezione di Atene, e gli Ateniesi si erano già
sobbarcati varie gravose imprese per loro. Ecco come si erano svolte le cose.
Oppressi dai Tebani, i Plateesi si erano rivolti in un primo momento a
Cleomene figlio di Anassandride e agli Spartani, che si trovavano per caso da
quelle parti; ma essi non accettarono, con questa spiegazione: "Noi
abitiamo lontano, e quindi il nostro soccorso si rivelerebbe inefficace;
più d'una volta rischiereste di essere ridotti in schiavitù,
prima che qualcuno di noi venga a saperlo. Vi consigliamo di affidarvi agli
Ateniesi: stanno qui vicino e non sono alleati di poco conto". Gli
Spartani diedero questo suggerimento non tanto per simpatia verso i Plateesi
quanto desiderando dare noie agli Ateniesi impegnati contro i Beoti. Tale
dunque il consiglio degli Spartani ai Plateesi, ed essi non lo trascurarono,
anzi mentre gli Ateniesi offrivano sacrifici ai dodici dèi, si
piazzarono come supplici presso l'altare e si posero sotto la loro
protezione. I Tebani, quando lo seppero, marciarono contro Platea, e gli
Ateniesi accorsero a difendere i Plateesi. Stavano già per ingaggiare
battaglia, ma i Corinzi non lo consentirono; si trovavano nei paraggi e
riconciliarono i due contendenti, che si erano rimessi a loro, delimitando i
rispettivi territori, alla condizione che i Tebani lasciassero liberi i Beoti
non più disposti a far parte della lega beotica. I Corinzi, deciso
così, se ne andarono; i Beoti assalirono gli Ateniesi mentre si
allontanavano, ma nella battaglia seguita all'assalto ebbero la peggio. Gli
Ateniesi violarono i limiti territoriali fissati per i Plateesi dai Corinzi,
li superarono e stabilirono come confine per i Tebani, dalla parte di Platea
e di Isie, lo stesso fiume Asopo. Così dunque, come ho raccontato, i
Plateesi si erano posti sotto la protezione degli Ateniesi, allora poi erano
giunti a Maratona per battersi al loro fianco. 109) Le opinioni degli strateghi ateniesi erano discordi:
mentre alcuni non volevano ingaggiare battaglia (sostenendo che erano pochi
per misurarsi con l'esercito medo) altri invece, tra i quali Milziade,
spingevano in tal senso. Erano dunque così divisi e stava prevalendo
l'opinione peggiore; ma esisteva una undicesima persona con diritto di voto,
e cioè il cittadino estratto a sorte per la carica di polemarco in
Atene (anticamente, infatti, gli Ateniesi attribuivano al polemarco lo stesso
diritto di voto degli strateghi). In quel momento era polemarco Callimaco di
Afidna; Milziade si recò da lui e gli disse: "Callimaco, ora
dipende da te rendere schiava Atene, oppure assicurarle la libertà e
lasciare di te, finché esisterà il genere umano, un ricordo quale non
lasciarono neppure Armodio e Aristogitone. Oggi gli Ateniesi si trovano di fronte
al pericolo più grande mai incontrato dai tempi della loro origine: se
chineranno la testa davanti ai Medi, è già deciso cosa
patiranno una volta nelle mani di Ippia; ma se vince, questa città
è tale da diventare la prima della Grecia. E ora ti spiego come
ciò sia possibile e come l'intera faccenda sia venuta a dipendere da
te. Noi strateghi siamo dieci e siamo divisi fra due diversi pareri: alcuni
di noi sono propensi a combattere, altri no. Ebbene, se non scendiamo in
campo io mi aspetto che una ventata di discordia investa gli Ateniesi e ne
sconvolga le menti, inducendoli a passare con i Medi. Se invece attacchiamo
prima che questa peste si propaghi ai cittadini, se gli dèi si
mantengono imparziali, noi siamo in grado di uscire vincitori dalla lotta.
Tutto questo riguarda te e da te dipende; infatti se tu ti schieri sulle mie
posizioni, per te la patria sarà salva e Atene la prima città
della Grecia. Se invece ti schieri con chi è per il no, accadrà
esattamente il contrario di quanto ti ho detto in positivo". 110) Con tali parole Milziade si garantì l'appoggio di
Callimaco, e grazie al voto aggiuntivo del polemarco si decise di dare
battaglia. Dopodiché gli strateghi favorevoli allo scontro, quando a ciascuno
di loro toccava il turno di comando, lo cedevano a Milziade; Milziade
accettava, ma non attaccò battaglia finché non giunse il suo turno
effettivo. 111) Quando toccò a lui, allora gli Ateniesi si
schierarono in ordine di combattimento. Alla testa dell'ala destra c'era il
polemarco (Callimaco). Infatti all'epoca la consuetudine ateniese voleva
così, che il polemarco guidasse l'ala destra. Da lì si
allineavano le tribù, una accanto all'altra, secondo il loro numero;
l'ultimo posto, cioè l'ala sinistra, l'occupavano i Plateesi. E dal
giorno di questa battaglia, quando gli Ateniesi offrono sacrifici durante le
feste quadriennali, l'araldo di Atene invoca prosperità per i suoi
concittadini e insieme anche per i Plateesi. Ma ecco cosa si verificò
allorquando gli Ateniesi si schierarono a Maratona: il loro schieramento
rispondeva in lunghezza a quello dei Medi, ma il centro era composto di poche
file, e in questo punto l'esercito era assai debole, le due ali erano invece
ben munite di soldati. 112) Quando furono ai loro posti e i sacrifici ebbero dato
esito favorevole, gli Ateniesi, lasciati liberi di attaccare, si lanciarono
in corsa contro i barbari; fra i due eserciti non c'erano meno di otto stadi.
I Persiani vedendoli arrivare di corsa si preparavano a riceverli e
attribuivano agli Ateniesi follia pura, autodistruttiva, constatando che
erano pochi e che quei pochi si erano lanciati di corsa, senza cavalleria,
senza arcieri. Così pensavano i barbari; ma gli Ateniesi, una volta
venuti in massa alle mani con i barbari, si battevano in maniera memorabile. Furono
i primi fra tutti i Greci, a nostra conoscenza, a tollerare la vista
dell'abbigliamento medo e degli uomini che lo vestivano; fino ad allora ai
Greci faceva paura anche semplicemente udire il nome dei Medi. 113) A Maratona si combatté a lungo. I barbari ebbero il
sopravvento al centro dove erano schierati i Persiani stessi e i Saci; qui i
barbari prevalsero, sfondarono le file dei nemici e li inseguirono
nell'interno. Invece alle due ali la spuntavano gli Ateniesi e i Plateesi;
essi, vincendo, lasciarono scappare i barbari volti in fuga, e operata una
conversione delle due ali affrontarono quelli che avevano spezzato il loro
centro; gli Ateniesi ebbero la meglio. Inseguirono i Persiani in fuga
facendone strage, finché, giunti sulla riva del mare, ricorsero al fuoco e
cercarono di catturare le navi. 114) In questa impresa morì il polemarco Callimaco,
dimostratosi un uomo valoroso, e fra gli strateghi Stesilao, figlio di
Trasilao; inoltre Cinegiro, figlio di Euforione, mentre si afferrava agli
aplustri di una nave cadde con la mano troncata da un colpo di scure; e
perirono molti altri illustri Ateniesi. 115) In tal modo gli Ateniesi catturarono sette navi nemiche;
sulle rimanenti i barbari presero il largo e, caricati gli schiavi di Eretria
dall'isola dove li avevano lasciati, doppiarono il Capo Sunio, con
l'intenzione di arrivare ad Atene prima delle truppe ateniesi. In Atene corse
poi la voce accusatrice che essi avessero concepito questo piano grazie alle
macchinazioni degli Alcmeonidi. Essi, infatti, d'accordo con i Persiani
avrebbero fatto segnali con uno scudo quando questi erano già sulle
navi. 116) I Persiani, insomma, doppiavano il Sunio. Gli Ateniesi
il più velocemente possibile corsero a difendere la città, e
riuscirono a precedere l'arrivo dei barbari; partiti dal santuario di Eracle
a Maratona, vennero ad accamparsi in un'altra area sacra ad Eracle, quella
del tempio di Cinosarge. I barbari, giunti in vista del Falero (era quello
allora il porto di Atene), sostarono alla sua altezza e poi volsero le prue e
tornarono in Asia. 117) Nella battaglia di Maratona morirono 6400 barbari circa
e 192 Ateniesi. Tanti caddero da una parte e dall'altra; lì accadde
pure un fatto prodigioso: un soldato ateniese, Epizelo figlio di Cufagora,
mentre combatteva nella mischia comportandosi da valoroso, perse la vista,
senza essere stato ferito o colpito da lontano in alcuna parte del corpo, e,
da allora in poi, per tutto il resto della sua vita, rimase cieco. Ho sentito
dire che lui a proposito della sua disgrazia raccontava così: a
Epizelo era parso di avere di fronte un oplita gigantesco, la cui barba
faceva ombra a tutto lo scudo; questa apparizione gli era poi solo passata
accanto, ma aveva abbattuto il soldato al suo fianco. Così, mi
dissero, raccontava Epizelo. 118) Dati, in viaggio verso l'Asia assieme all'esercito,
arrivato a Micono, ebbe nel sonno una visione. Quale fosse la visione non
è tramandato, lui però, appena fu giorno, fece un'ispezione
sulle navi e, avendo trovando su un vascello fenicio una statua di Apollo
rivestita di oro, chiese dove fosse stata rapinata; quando seppe da quale
tempio proveniva, partì con la sua nave per Delo. Nell'isola erano
giusto giusto tornati i Deli; Dati depositò nel santuario l'immagine
del dio e affidò ai Deli l'incarico di riportarla nel territorio di
Tebe, a Delio, una cittadina costiera situata di fronte a Calcide. Dati,
impartite tali disposizioni, salpò. I Deli poi non restituirono questa
statua, furono i Tebani stessi, una ventina d'anni più tardi, a
trasportarla a Delio per ordine di un oracolo. 119) Quanto agli Eretriesi fatti prigionieri, Dati e
Artafrene, una volta raggiunta l'Asia, li condussero a Susa. Re Dario, prima
che fossero resi schiavi, nutriva nei loro confronti un profondo rancore,
perché gli Eretriesi erano stati i primi a macchiarsi di colpe. Ma dopo
averli visti deportati presso di lui e completamente in sua balia, non fece
loro alcun altro male che trapiantarli nella regione Cissia, in una stazione
reale denominata Ardericca, distante 210 stadi da Susa e 40 dal pozzo che
fornisce tre diverse sostanze. Da quel pozzo, infatti, si ricavano bitume,
sale e petrolio, come segue: vi si attinge per mezzo di un mazzacavallo al
quale invece di un secchio viene agganciato un otre tagliato a metà. Calato
nel pozzo, l'otre si riempie e viene poi svuotato in una vasca di raccolta;
dalla vasca il materiale viene travasato in un altro recipiente con tre esiti
diversi: il bitume e il sale si rapprendono, il petrolio invece... I Persiani
lo chiamano radinace: è scuro ed emana un cattivo odore. In tale
località il re Dario fissò la residenza degli Eretriesi, i
quali ancora ai tempi miei abitavano questo paese, conservando gelosamente la
propria antica lingua. Questa la sorte toccata agli Eretriesi. 120) Dopo il plenilunio giunsero ad Atene duemila Spartani,
con una tale fretta di arrivare in tempo che giunsero in Attica due giorni
dopo la partenza. Pur essendo arrivati troppo tardi per la battaglia,
desideravano lo stesso vedere i Medi: e si recarono a Maratona apposta. Poi,
elogiati gli Ateniesi e la loro impresa, ripresero la via di casa. 121) Mi pare assurda, e mi rifiuto di accettarla, la diceria
che gli Alcmeonidi abbiano mai fatto segnalazioni ai Persiani con uno scudo,
in base a un accordo, volendo che Atene fosse sottomessa ai Persiani e a
Ippia; proprio loro la cui palese ostilità alla tirannide supera
più che uguagliare persino quella di Callia figlio di Fenippo, padre
di Ipponico. Callia infatti, ogniqualvolta Pisistrato veniva cacciato da Atene,
era l'unico fra tutti gli Ateniesi, che osava acquistarne i beni messi
pubblicamente all'asta dal banditore; e in tutte le altre occasioni tramava
ai suoi danni i progetti più ostili. 122)Di questo Callia è giusto che ognuno conservi memoria
per varie ragioni: intanto per quel che ho già detto, perché si
rivelò uomo di primo piano nel liberare la patria, poi per le imprese
compiute a Olimpia: vinse la corsa a cavallo, giunse secondo con la quadriga
(e aveva trionfato ai Giochi Pitici) e divenne famoso fra tutti i Greci per
le sue enormi spese. Ecco inoltre come si comportò nei confronti delle
figlie, che erano tre: quando giunsero all'età delle nozze,
assegnò loro una dote grandiosa e concesse anche, dono inestimabile,
di sposare, fra gli Ateniesi, l'uomo che ciascuna volle personalmente
scegliersi. 123) Ora, gli Alcmeonidi odiavano la tirannide quanto Callia
e non certo di meno. Di qui la mia meraviglia e il mio rifiuto della calunnia
che a dare il segnale con lo scudo siano stati proprio gli Alcmeonidi, che
passarono in esilio tutto il periodo della tirannide e con le loro manovre
determinarono la caduta dei Pisistratidi. Insomma furono i liberatori di
Atene molto più di Armodio e Aristogitone, a mio parere. Questi ultimi
infatti assassinando Ipparco resero più feroci i Pisistratidi
superstiti, e non misero fine per nulla al loro dominio, invece è
evidente che Atene deve la sua libertà agli Alcmeonidi, se davvero
essi convinsero la Pizia a ordinare agli Spartani di liberare Atene, come già
ho chiarito. 124) Forse li spingeva a tradire la patria il risentimento
contro il popolo ateniese? Ma non c'erano, almeno ad Atene, persone
più stimate di loro, né oggetto di onori più grandi; sicché il
buon senso ci impedisce di ammettere che abbiano fatto segnali con lo scudo
per una ragione simile. Certo, lo scudo fu sollevato, non lo si può
negare: il fatto è avvenuto. Ma sull'autore del gesto io non posso
dire niente di più. 125) Gli Alcmeonidi, famosi ad Atene fin dai tempi più
antichi, divennero particolarmente celebri a partire da Alcmeone e poi da
Megacle. Ecco perché: Alcmeone, figlio di Megacle, prestava aiuto e
assistenza con molto calore ai Lidi che da Sardi giungevano all'oracolo di
Delfi per conto di Creso; e Creso, avendo sentito dire di lui, dai Lidi che
si recavano all'oracolo, dei servigi che gli rendeva, lo invitò a
Sardi e al suo arrivo gli regalò tanto oro quanto riuscisse a portare
addosso in una sola volta. Alcmeone, di fronte a un dono di tal genere,
ricorse a una trovata ingegnosa: si presentò nella camera del tesoro,
dove lo accompagnarono, indossando un chitone enorme con una piega molto
ampia in vita, e con ai piedi i coturni più grandi che era riuscito a
trovare. Poi si lasciò cadere su un mucchio di polvere d'oro e
cominciò a stipare i coturni, intorno alle gambe, con tutto l'oro che
potevano contenere, quindi riempì l'intera sacca della veste e si
cosparse d'oro i capelli del capo; se ne cacciò dell'altro in bocca e
uscì dalla stanza trascinando a fatica i piedi: somigliava a tutto
fuorché a un essere umano; aveva la bocca tappata ed era gonfio da ogni
parte. A Creso, a vederlo, venne da ridere; gli concesse tutto quell'oro e
gliene donò dell'altro, in misura non inferiore. Ecco come questa
famiglia si arricchì grandemente e così questo stesso Alcmeone
poté allevare cavalli da quadriga e vincere poi il primo premio a Olimpia. 126) Più tardi, la generazione successiva, il tiranno
di Sicione Clistene innalzò talmente questa casata da farla diventare
ancora più prestigiosa fra i Greci. Clistene, infatti, figlio di
Aristonimo, nipote di Mirone e pronipote di Andres, ebbe una figlia di nome
Agariste. Per lei voleva trovare il migliore fra i Greci e a quello darla in
moglie. Era l'epoca delle Olimpiadi: Clistene, vincitore nella corsa delle
quadrighe, emanò un pubblico bando: ogni Greco che si riteneva degno
di diventare il genero di Clistene, doveva recarsi a Sicione entro e non
oltre sessanta giorni, perché Clistene voleva definire le nozze in capo a un
anno a partire da quel sessantesimo giorno. Allora tutti i Greci orgogliosi
del proprio nome e della propria patria si presentarono a Sicione come
pretendenti; per loro Clistene aveva fatto costruire appositamente una pista
per la corsa e una palestra. 127) Dall'Italia comparvero Smindiride, figlio di Ippocrate,
da Sibari, l'uomo che raggiunse i massimi livelli di eleganza (Sibari in quel
periodo era all'apice dello splendore) e Damaso, da Siri, figlio di Amiri
detto il Saggio. Costoro vennero dall'Italia. Dal Golfo Ionico Anfimnesto,
figlio di Epistrofo da Epidamno: dal Golfo Ionico solo lui. Dall'Etolia
arrivò Malete, fratello di Titormo, di quel Titormo, l'uomo
fisicamente più robusto di tutta la Grecia, che aveva fuggito la
comunanza con gli uomini andando a vivere nelle estreme contrade dell'Etolia.
E dal Peloponneso Leocede, figlio di Fidone, il tiranno di Argo che aveva
fissato le unità di misura per i Peloponnesiaci e che li offese, fra
tutti i Greci, nel modo più violento: scacciò, infatti, gli
Elei dalla direzione dei Giochi e si mise personalmente a organizzare le gare
di Olimpia. Dunque, si presentò suo figlio. E capitarono Amianto,
figlio di Licurgo, da Trapezunte d'Arcadia, e Lafane, dalla città di
Peo, nell'Azania, figlio di quell'Euforione che, secondo una leggenda arcade,
ospitò in casa sua i Dioscuri e da allora dava ospitalità a
ogni essere umano; e dall'Elide venne Onomasto, figlio di Ageo. Questi
giunsero dal Peloponneso stesso. Da Atene giunsero Megacle, figlio
dell'Alcmeone che si era recato da Creso, e Ippoclide, l'uomo più
ricco e bello di Atene, figlio di Tisandro. Da Eretria, fiorente in quegli
anni, si presentò Lisanie, l'unico pretendente originario dell'Eubea;
dalla Tessaglia Diattoride di Crannon, della stirpe degli Scopadi; dal paese
dei Molossi, Alcone. 128) Tanti furono i pretendenti. Essi arrivarono il giorno
previsto e Clistene per prima cosa si informò sulla città di
provenienza e sulla stirpe di ciascuno; poi trattenendoli per un anno ne
saggiò il coraggio, l'indole, l'educazione e i costumi, frequentandoli
tutti, individualmente e collettivamente; impegnava i più giovani nel
ginnasio e soprattutto li osservava nei banchetti comuni; per l'intero
periodo in cui li trattenne si comportò così e intanto li
ospitava magnificamente. E senza dubbio fra i pretendenti a soddisfarlo di
più erano i due arrivati da Atene, e fra i due preferiva Ippoclide,
figlio di Tisandro, sia per i suoi meriti sia perché vantava una antica
parentela con i Cipselidi di Corinto. 129) Quando venne il giorno fissato per il banchetto nuziale,
in cui Clistene stesso doveva rivelare il nome del prescelto, Clistene
sacrificò cento buoi e invitò a tavola tanto i pretendenti come
tutti i cittadini di Sicione. Alla fine del pranzo i pretendenti davano vita
a gare musicali e di conversazioni brillanti; mentre i brindisi si
protraevano Ippoclide, che era un po' al centro dell'attenzione generale,
invitò il flautista a suonare un motivo di danza e quando il flautista
obbedì cominciò a danzare. Lui certamente ballava con piena
soddisfazione, ma Clistene che seguiva con molta attenzione, fu colto da
qualche dubbio. Poi, Ippoclide, dopo una breve pausa, dispose che fosse
portato un tavolo; quando il tavolo fu lì, vi danzò su dapprima
figurazioni laconiche, poi una attica e infine, appoggiata la testa sulla
tavola mosse le gambe in aria come se fossero braccia. Clistene, durante la
prima e la seconda danza, benché disgustato, per la sconvenienza di quel
balletto, dall'idea che Ippoclide diventasse suo genero, tuttavia si
trattenne, evitando di inveire contro di lui; ma come vide le sue gambe
imitare i movimenti delle braccia, non riuscendo più a frenarsi,
esclamò: "Figlio di Tisandro, ti sei ballato le nozze!". E
quello per tutta risposta ribatté: "A Ippoclide non gliene importa
nulla". 130) Da allora questa espressione è divenuta
proverbiale; Clistene, ottenuto silenzio, rivolse a tutti il seguente
discorso: "Pretendenti di mia figlia, io vi lodo tutti e, se fosse
possibile, vorrei far cosa a tutti gradita evitando di indicare un prescelto
tra voi e di scartare gli altri; ma non è dato accontentare tutti
dovendo decidere riguardo a un'unica fanciulla; comunque agli esclusi da
queste nozze io donerò un talento d'argento, in cambio dell'onore
resomi nel chiedere la mano di mia figlia e a compenso del soggiorno lontano
dalla patria; a Megacle figlio di Alcmeone io prometto in sposa mia figlia
Agariste secondo le leggi ateniesi". Quando Megacle ebbe dichiarato di
accettarla, il matrimonio per Clistene era bell'e concluso. 131) Ecco dunque quanto accadde intorno alla scelta dei
pretendenti; e fu così che la fama degli Alcmeonidi rimbalzò da
un capo all'altro della Grecia. Dai due sposi nacque il Clistene che
istituì le tribù e fondò la democrazia ad Atene: portava
il nome del nonno materno di Sicione. Oltre a Clistene Megacle ebbe per
figlio anche Ippocrate; da Ippocrate poi nacquero un altro Megacle e un'altra
Agariste (si chiamava cioè come la figlia di Clistene Agariste); essa
dopo aver sposato Santippo, figlio di Arifrone, durante una gravidanza ebbe
nel sonno un incubo: sognò di dare alla luce un leone. E pochi giorni
dopo generò a Santippo Pericle. 132) Dopo la disfatta persiana a Maratona Milziade,
già prima assai ben visto ad Atene, era ancora di più in auge. Chiese
agli Ateniesi settanta navi, truppe e denaro senza precisare il paese al
quale voleva muovere guerra, ma sostenendo che seguendolo si sarebbero
arricchiti, perché si trattava di un paese tale che ne avrebbero ricavato
facilmente oro a profusione: accompagnava la richiesta di navi con simili
discorsi. E gli Ateniesi, esaltati da queste assicurazioni, lo
accontentarono. 133) Ricevuta la flotta, Milziade salpò alla volta di
Paro, con il pretesto che i Pari avevano cominciato loro le ostilità,
venendo a Maratona con una trireme assieme ai Persiani. Ma era solo un
artificio verbale; in realtà Milziade nutriva un certo rancore nei
confronti dei Pari a causa di Lisagora, figlio di Tisia, Pario di schiatta,
che lo aveva calunniato presso il Persiano Idarne. Giunto a destinazione,
Milziade con le truppe assediò i Pari asserragliati entro le mura; per
mezzo di un araldo pretese cento talenti, dichiarando, se non li sborsavano,
che non avrebbe spostato di lì l'esercito prima di averli sterminati.
I Pari di versare il denaro a Milziade non se lo sognavano neppure;
almanaccavano, invece, su come difendere la città: fra le varie
contromisure pensate, dove la cinta di volta in volta si rivelava facilmente
espugnabile, qui raddoppiavano di notte l'altezza originaria delle mura. 134) Fino a qui concordano i racconti di tutti i Greci, gli
avvenimenti successivi secondo i Pari si sarebbero svolti così. A
Milziade in difficoltà venne a parlare una donna fatta prigioniera,
Paria di nascita e di nome Timo, sacerdotessa in sottordine delle
divinità ctonie. Questa donna si presentò da Milziade e gli
consigliò, se ci teneva tanto a conquistare Paro, di mettere in
pratica i suoi suggerimenti. Gli diede le sue istruzioni; quindi Milziade,
passando sopra la collina posta davanti alla città, scavalcò
con un balzo il recinto di Demetra Tesmofora, di cui non poteva aprire le
porte; scavalcatolo, si diresse verso la cella, per farvi dentro qualcosa,
vuoi per rimuovere uno degli oggetti sacri e inviolabili o per compiere
chissà mai quale altro gesto; giunse accanto alle porte e subito fu
scosso da un brivido; e tornò indietro, seguendo lo stesso percorso;
ma nel saltare giù dal muro a secco del recinto si slogò un
femore. Altri raccontano che batté a terra un ginocchio. 135) Ebbene, Milziade date le sue cattive condizioni,
ritornò ad Atene senza portare ricchezze agli Ateniesi e senza avere
aggiunto Paro ai loro domini, ma dopo 26 giorni di assedio e di devastazioni
nell'isola. I Pari, quando seppero che Timo, la sacerdotessa in sottordine
delle dee, aveva guidato Milziade, volevano punirla per questo: dopo
l'assedio, appena tornata la calma, inviarono una delegazione a Delfi per
chiedere se potevano giustiziare la sacerdotessa delle dee accusata di aver
indicato ai nemici della patria come espugnare la città e di aver
rivelato a Milziade i sacri misteri interdetti al sesso maschile. Ma la Pizia
non lo permise, affermando che non era Timo la colpevole di tutto ciò:
anzi, poiché Milziade era destinato a una brutta fine, gli era apparsa per guidarlo
verso la sventura. 136) Così rispose la Pizia ai Pari. Ad Atene il nome
di Milziade, una volta tornato da Paro, era sulla bocca di tutti; e
soprattutto sulla bocca di Santippo, figlio di Arifrone, che trasse Milziade
davanti al tribunale popolare accusandolo di delitto capitale per aver tratto
in inganno gli Ateniesi. Milziade, pur essendo presente, non si difese
personalmente (ne era impossibilitato perché la coscia gli andava in
cancrena); mentre giaceva lì su una barella gli amici parlarono in sua
difesa, ricordando più volte la battaglia combattuta a Maratona e la
presa di Lemno, cioè come Milziade, conquistata Lemno e presa vendetta
sui Pelasgi, ne avesse poi fatto dono agli Ateniesi. Il popolo si
pronunciò per una assoluzione dal reato capitale e lo condannò,
in proporzione alla colpa, a una multa di cinquanta talenti. In seguito
Milziade morì con la coscia putrefatta dalla cancrena e i cinquanta
talenti li pagò suo figlio Cimone. 137) Ecco come Milziade, figlio di Cimone, si era impadronito
di Lemno. I Pelasgi erano stati scacciati dall'Attica dagli Ateniesi,
giustamente o meno, non saprei dirlo: io posso solo ripetere le versioni
esistenti. Ebbene Ecateo, figlio di Egesandro, dichiarò nella sua
opera che fu una ingiustizia: gli Ateniesi, secondo lui, videro la zona ai
piedi dell'Imetto che avevano dato proprio loro da abitare ai Pelasgi come
compenso per le mura costruite un tempo intorno all'acropoli, e provarono
invidia nel vederla ben coltivata, mentre prima era sterile e priva di valore,
e desiderarono quella terra; sicché ne scacciarono i Pelasgi, senza nessuna
giustificazione. Dal canto loro gli Ateniesi sostengono di aver agito
giustamente, perché i Pelasgi stanziati alle falde dell'Imetto, partendo da
lì, si sarebbero macchiati della seguente colpa. Le figlie degli
Ateniesi [e i figli] andavano regolarmente a prendere l'acqua alla fonte
cosiddetta delle "Nove bocche" (a quell'epoca non avevano ancora
schiavi, né loro né gli altri Greci); tutte le volte che le ragazze venivano,
i Pelasgi le insultavano con insolenza e disprezzo. Ma questo ancora non gli
bastava, e infine furono colti sul fatto mentre già macchinavano una
aggressione. Gli Ateniesi, dunque, si sarebbero dimostrati ben superiori ai
Pelasgi, perché potevano ucciderli tutti, avendoli sorpresi con cattive
intenzioni, e invece non vollero farlo e li invitarono semplicemente ad
andarsene dal paese. I Pelasgi, emigrati in tali circostanze, occuparono
varie altre località, tra cui Lemno. Ecco dunque due versioni; la
prima di Ecateo, la seconda degli Ateniesi. 138) Questi Pelasgi di Lemno, volendo vendicarsi degli
Ateniesi e ben conoscendo le loro feste, si procurarono delle penteconteri e
andarono a tendere un'imboscata alle donne ateniesi che celebravano a
Braurone una festa in onore di Artemide; ne rapirono parecchie e si
dileguarono con le navi: condussero le donne a Lemno e se le tennero come
concubine. Esse, quando ebbero dei figli, insegnarono loro la lingua attica e
i costumi degli Ateniesi. I bambini rifiutavano di mescolarsi coi figli delle
donne pelasgie, e se uno di loro veniva picchiato da qualcuno di quelli
là, tutti gli altri accorrevano in suo aiuto e si spalleggiavano a
vicenda: pretendevano, inoltre, di dare ordini ai ragazzi pelasgi, ed erano
molto più forti. I Pelasgi se ne accorsero e discussero fra di loro la
situazione; e mentre tenevano consiglio un terribile pensiero si
insinuò in loro: se i ragazzi già decidevano di aiutarsi l'un
l'altro contro i figli delle mogli legittime e sin da allora tentavano di
comandarli, che cosa mai avrebbero fatto da grandi? Allora decisero di
uccidere i figli nati da donne ateniesi. Lo fecero e inoltre uccisero anche
le madri. Da questo crimine e da quello precedente, compiuto dalle donne che
assassinarono tutti i loro mariti al tempo di Toante, è sorta
l'abitudine in Grecia di chiamare "Lemnie" tutte le azioni
scellerate. 139) Ai Pelasgi che avevano massacrato i loro figli e le loro
donne la terra non produceva più frutti e le donne, come il bestiame,
avevano cessato di essere prolifiche. Oppressi dalla carestia e dalla
sterilità, inviarono una delegazione a Delfi per chiedere come por
fine ai guai in cui si trovavano. E la Pizia ordinò loro di pagare
agli Ateniesi la pena che essi avessero stabilito. I Pelasgi, dunque, vennero
ad Atene e dichiararono di voler espiare ogni loro colpa. Gli Ateniesi
prepararono col più gran lusso possibile un lettuccio nel pritaneo, vi
piazzarono accanto una mensa traboccante di ogni squisitezza e invitarono i
Pelasgi a consegnare loro una Lemno in quelle condizioni. Ma i Pelasgi
replicarono affermando: "Quando con vento di nord, in un solo giorno,
una nave riuscirà a passare dal vostro paese al nostro, allora ve la
consegneremo". Ben sapevano che era impossibile: l'Attica si trova molto
a sud di Lemno. 140) In quella circostanza non accadde altro. Ma parecchi
anni più tardi, quando il Chersoneso d'Ellesponto passò sotto
il dominio degli Ateniesi, Milziade figlio di Cimone, con una nave e il
favore dei venti etesii, colmò la distanza fra Eleunte nel Chersoneso
e Lemno; e ordinò ai Pelasgi di sgombrare l'isola, ricordando loro la
profezia che mai avrebbero creduto potersi compiere. I cittadini di Efestia
obbedirono, quelli di Mirina invece, non riconoscendo l'identità fra
Chersoneso e Attica, subirono un assedio, finché anch'essi si arresero. Fu
così che gli Ateniesi e Milziade si impadronirono di Lemno. Libro VII 1)Dopo che la notizia della battaglia svoltasi a Maratona
ebbe raggiunto re Dario figlio di Istaspe, già prima fortemente
irritato nei confronti degli Ateniesi per l'assalto a Sardi, tanto più
gravemente se la prendeva allora e più ebbe fretta di marciare contro
la Grecia. E subito, inviando messaggeri nelle varie città, ordinava
di allestire un esercito, imponendo a ognuno contributi ben maggiori di
quelli versati in precedenza, e navi da guerra e cavalli e vettovaglie e
mercantili. Attraversata in lungo e in largo da tali ordini, l'Asia per tre
anni fu sottosopra, mentre venivano arruolati i migliori soldati e tenuti
pronti per l'imminente spedizione contro la Grecia. Ma in capo a tre anni gli
Egiziani, già resi schiavi da Cambise, si ribellarono ai Persiani; a
quel punto, perciò, Dario sentì ancora di più l'urgenza
di marciare contro gli uni e anche contro gli altri. 2) Mentre Dario stava per muovere contro l'Egitto e Atene,
sorse tra i suoi figli un'aspra contesa per il potere: secondo la
consuetudine persiana, dicevano essi, Dario doveva prima designare il
successore e poi mettersi in marcia. Dario aveva avuto tre figli, prima di
diventare re, dalla prima moglie, figlia di Gobria, e altri quattro, ormai
sovrano, da Atossa, la figlia di Ciro. Il maggiore dei primi tre era
Artobazane, il maggiore degli altri quattro Serse. Come figli di madri
diverse, erano in conflitto tra loro: Artobazane perché era il più
anziano dell'intera figliolanza e in tutto il mondo vigeva l'uso che il
più anziano avesse il potere; Serse in quanto prole di Atossa, la
figlia di Ciro, e perché era stato Ciro ad assicurare ai Persiani la
libertà. 3) Dario non aveva ancora espresso il proprio parere,
quando capitò a Susa Demarato, figlio di Aristone, che era stato
privato del titolo di re a Sparta e si era imposto l'esilio volontario dalla
Laconia. Venuto a conoscenza della lite fra i figli di Dario, Demarato si
presentò a Serse (così almeno si racconta) e gli
consigliò di aggiungere ai suoi argomenti il fatto di essere nato da
Dario quando questi già era re e deteneva il potere in Persia, mentre
Artobazane era nato quando Dario era ancora un cittadino qualunque: non era
quindi né logico né giusto che un altro gli venisse anteposto in una
prerogativa che toccava a lui, Serse; del resto anche a Sparta, suggeriva
Demarato, usava così: se esistevano figli nati prima che il padre
fosse re e poi se ne aggiungeva uno nato più tardi, quando il padre
ormai regnava, la successione al trono spettava all'ultimo venuto. Serse fece
suo il consiglio di Demarato e Dario, riconosciuto che diceva cose giuste, lo
indicò come successore. Secondo me, Serse avrebbe regnato anche senza
questo suggerimento; Atossa, infatti, aveva in mano ogni potere. 4) Designato Serse re dei Persiani, Dario si accingeva a
partire. Ma accadde che l'anno dopo questi avvenimenti e dopo la rivolta
dell'Egitto, mentre era intento ai preparativi, Dario stesso, dopo trentasei
anni complessivi di regno, morì, senza riuscire a vendicarsi né degli
Egiziani ribelli né degli Ateniesi. 5) Alla morte di Dario il regno passò nelle mani di
suo figlio Serse. Ebbene, Serse, all'inizio, non era per nulla entusiasta di
marciare contro la Grecia; contro l'Egitto, invece, ammassava le truppe.
Presso di lui c'era e godeva di maggior autorità di qualunque altro
Persiano Mardonio, figlio di Gobria, cugino di Serse (figlio di una sorella
di Dario), il quale gli tenne il seguente discorso: "Signore",
disse, "non è giusto che gli Ateniesi, autori di molti misfatti
verso i Persiani, non paghino per le colpe commesse. Va bene, realizza
intanto quello che hai per le mani; ma una volta domato l'Egitto ribelle,
guida l'esercito contro Atene, che si parli come si deve di te, nel mondo, e
ci si guardi bene, in futuro, dal muovere guerra al tuo paese". Queste
erano parole che spingevano alla vendetta; ad esse aggiungeva la seguente
affermazione, che l'Europa era contrada stupenda, ricca di alberi da frutta
di ogni specie, e di straordinaria fertilità, degna di essere
posseduta, fra i mortali, soltanto dal gran re. 6) Parlava così perché era avido di rivolgimenti e
personalmente voleva essere governatore della Grecia. Col tempo convinse
Serse e lo persuase a intraprendere quell'azione; anche altri avvenimenti, in
effetti, lo aiutarono a persuadere Serse: intanto dei messaggeri, giunti
dalla Tessaglia da parte degli Alevadi, si infervoravano a istigare il re
contro la Grecia (gli Alevadi erano re della Tessaglia), inoltre i
Pisistratidi, saliti fino a Susa, ribadivano i discorsi degli Alevadi e a
essi aggiungevano ulteriori sollecitazioni. A Susa li aveva accompagnati
Onomacrito, ateniese, un interprete di oracoli, riordinatore delle profezie
di Museo. Avevano deposto ormai ogni rancore: Onomacrito, infatti, era stato
cacciato da Atene da Ipparco, figlio di Pisistrato, perché colto in flagrante
da Laso di Ermione mentre inseriva fra le predizioni di Museo il vaticinio
che le isole vicine a Lemno sarebbero state inghiottite dal mare; per questa
ragione Ipparco, che prima si valeva moltissimo di lui, lo aveva esiliato. In
questa circostanza, giunto assieme a loro, tutte le volte che veniva al
cospetto del re, mentre i Pisistratidi si profondevano in elogi sul suo
conto, lui recitava qualche solenne oracolo: se vi erano contenute catastrofi
per i barbari, non le menzionava, sceglieva invece e riferiva le profezie
più propizie, e dichiarava come il destino volesse l'Ellesponto aggiogato
da un uomo persiano, e in sostanza preannunciava la spedizione. Concorrevano
allo stesso fine, insomma, lui, recitando i suoi oracoli, e i Pisistratidi e
gli Alevadi, che esponevano il proprio parere. 7) Una volta presa la decisione di muovere contro la Grecia,
Serse, l'anno successivo alla morte di Dario, cominciò col marciare
contro i ribelli. Li ridusse in suo potere, rese l'intero Egitto più
schiavo di quanto non fosse ai tempi di Dario e lo affidò ad Achemene,
fratello suo, figlio di Dario. Achemene, mentre governava l'Egitto, l'uccise
tempo dopo Inaro il Libico, figlio di Psammetico. 8) Serse, sottomesso l'Egitto, al momento di intraprendere
la spedizione contro Atene, convocò in via straordinaria i nobili
persiani, per sentirne il parere e a sua volta rendere note in presenza di
tutti le proprie volontà. A) Quando furono riuniti, Serse parlò così:
"Persiani, non sarò io a introdurre e istituire questa usanza fra
voi: l'ho ereditata e me ne servirò. Ebbene, a quanto apprendo dai
più anziani, noi non siamo mai stati inattivi dall'epoca in cui
subentrammo ai Medi nell'egemonia, da quando Ciro sconfisse Astiage; un dio
anzi ci guida così, e, a seguirlo, molte nostre cose si sono messe al
meglio. Ebbene, i popoli assoggettati e annessi da Ciro, da Cambise e da mio
padre Dario non è il caso di elencarli: li sapete bene. Io, da quando
ho ricevuto il trono, ho continuato a pensare come non essere da meno di chi
mi ha preceduto in questa dignità e come aggiungere ai Persiani non
minore potenza; e riflettendo trovo intanto gloria da sommare a gloria e un
paese non inferiore a quello ora in nostro possesso, né più povero,
anzi più fertile e nel contempo una occasione di rivalsa, una vendetta
che si realizza. Per questo io ora vi ho riuniti qui, per esporvi i miei progetti:
B) mi accingo, gettato un ponte sull'Ellesponto, a condurre
un esercito attraverso l'Europa, contro la Grecia, per vendicarmi sugli
Ateniesi di quanto hanno fatto ai Persiani e a mio padre. Voi vedeste anche
mio padre Dario impaziente di partire contro quella gente; ma è morto
e non è riuscito a prendersi la rivalsa. Io, per lui e per gli altri
Persiani, non avrò pace finché non espugnerò e non darò
alle fiamme Atene: sono stati loro per primi a macchiarsi di torti nei
confronti miei e di mio padre. Intanto, vennero a Sardi assieme ad Aristagora
di Mileto, un mio servo, e, una volta a Sardi, incendiarono i santuari e i
templi; poi, le perdite che inflissero quando calammo nel loro paese, e Dati
e Artafrene guidavano l'esercito, credo le conosciate tutti. C) Per queste ragioni sono pronto a muovergli guerra; ed
ecco i vantaggi che scopro laggiù, se ci penso: sottomettendo quelle
genti e i loro vicini che popolano la terra di Pelope il Frigio, porteremo la
Persia a confinare con il cielo di Zeus: il sole dall'alto non vedrà
terra limitrofa alla nostra; io, assieme a voi, farò di voi tutti un
unico paese, dopo aver attraversata tutta l'Europa da un capo all'altro. Sono
convinto che è così e che al mondo non rimarrà città
alcuna, né popolo alcuno in grado di opporsi a noi in battaglia, una volta
eliminate le genti che ho detto. E così subiranno un giogo servile sia
i colpevoli verso di noi sia gli innocenti. D) Ed ecco come dovete regolarvi per farmi cosa gradita:
quando indicherò il giorno destinato al raduno, è meglio che
ognuno di voi si affretti a presentarsi; a chi verrà con le truppe
meglio equipaggiate, elargirò i doni ritenuti più preziosi nel
nostro paese. Questo dunque è quanto va fatto: per non darvi l'impressione
di decidere da solo, apro il dibattito e invito chi di voi lo desideri a
esprimere un parere". Ciò detto, tacque. 9) Dopo di lui intervenne Mardonio: "Signore, tu sei
il migliore non solo fra i Persiani che furono, ma anche fra quelli che
verranno: hai toccato vertici di nobiltà e di verità nel resto
del tuo discorso e non permetterai agli Ioni che risiedono in Europa, a
quelli indegni, di farsi beffe di noi. Sarebbe davvero tremendo se noi, che,
solo per accrescere la nostra potenza, abbiamo sottomesso e teniamo in
schiavitù Saci, Indiani, Etiopi, Assiri e molti altri grandi popoli in
nulla colpevoli verso i Persiani, non ci vendicassimo dei Greci che hanno
dato loro inizio alle offese. A) E di che cosa avremmo paura? Di quale massa di gente? Di
quali risorse economiche? Sappiamo come combattono, conosciamo la loro forza,
che è ben poca cosa. Abbiamo in mano nostra, soggiogata, la loro
progenie, questi che qui, insediati nel nostro paese, si chiamano Ioni, Eoli,
Dori. Ho già provato personalmente a marciare contro questa gente per
ordine di tuo padre e nessuno mi si oppose in battaglia, mentre mi spingevo
fino in Macedonia e quasi quasi arrivavo ad Atene. B) Eppure mi dicono che i Greci sono abituati a scatenare
guerre scriteriate, per follia, per stupidità: si dichiarano guerra
fra loro e, dopo aver scovato il luogo più bello e piano, scendono
lì ad affrontarsi, sicché i vincitori si ritirano sempre con perdite
gravi; degli sconfitti poi, non parlo nemmeno, perché escono annientati. Dato
che parlano la stessa lingua, dovrebbero comporre le discordie servendosi di
araldi e ambasciatori, e di qualunque mezzo piuttosto che con le armi; e se
proprio si trovassero costretti a guerreggiare fra loro, dovrebbero trovare
un posto dove entrambi scoprissero meno il fianco agli attacchi, e lì
misurarsi. Ebbene i Greci, benché soliti agire così infelicemente,
quando mi spinsi in Macedonia, non entrarono nell'idea di combattere. C) Mio re, chi ti si opporrà sfidandoti
militarmente, quando guiderai insieme la massa degli Asiatici e la flotta
intera? Io non credo che i Greci arrivino a concepire una audacia sì
grande; ma anche se ora mi sbagliassi e quelli, spinti dalla stoltezza,
venissero a battersi contro di noi, imparerebbero che in guerra siamo i
più forti al mondo. Nulla, dunque, resti intentato: niente si genera
per caso, di solito tutto nasce per gli uomini dai tentativi". Dopo aver
così reso accettabile il punto di vista di Serse, Mardonio tacque. 10) Mentre gli altri Persiani restavano in silenzio e non
osavano esprimere un parere contrario a quello avanzato, Artabano figlio di
Istaspe e zio di Serse, prendendo coraggio dalla sua parentela, disse
così: A) "Mio re, se non vengono enunciate idee opposte, non
è possibile scegliere la migliore e adottarla, anzi è
inevitabile valersi dell'unica espressa; invece, di fronte a varie proposte
è possibile farlo; è come per l'oro puro: non possiamo
riconoscerlo in sé e per sé, ma se lo saggiamo con altro oro, allora
sì ravvisiamo il migliore. Io anche a tuo padre Dario, mio fratello,
consigliavo di non muovere guerra agli Sciti, uomini che non abitano
città in nessuna parte del loro paese; ma lui, sperando di soggiogare
gli Sciti nomadi, non mi diede retta, volle partire e ritornò dopo
aver perduto molti e bravi soldati. Tu, signore, ti accingi a muovere guerra
a uomini più valorosi ancora degli Sciti, uomini che hanno fama di
essere i più forti per mare e per terra; è bene che io ti
spieghi cosa c'è di pericoloso in questo. B) Tu dici che getterai un ponte sull'Ellesponto e lancerai
un esercito attraverso l'Europa, verso la Grecia. Può capitare che
veniamo sconfitti o per terra o per mare, o pure su tutta la linea. Di quelli
là in effetti, si dice che sono valorosi, e possiamo calcolarlo anche
noi, se gli Ateniesi, da soli, annientarono quel grande esercito che invase
l'Attica con Dati e Artafrene. Allora non ebbero successo su entrambi i
fronti; però, se ci attaccano con le navi e dopo averci battuto si
dirigono sull'Ellesponto e poi tagliano il ponte, questo sì, mio re,
è terribile. C) Sono ipotesi che faccio non per qualche mia personale
prudenza mentale, ma pensando al disastro che stava per rovinarci addosso,
quando tuo padre passò in Scizia dopo aver aggiogato il Bosforo
Tracico e costruito un ponte sul fiume Istro! In quell'occasione gli Sciti le
provarono tutte per convincere gli Ioni a infrangere il ponte (agli Ioni era
stata affidata la sorveglianza dei passaggi sull'Istro); e in quella
occasione se Istieo di Mileto avesse seguito il parere degli altri tiranni e
non si fosse opposto, era la fine per la potenza persiana. Lo so, è
amaro persino sentirlo raccontare, ma la potenza intera del re dipese da un
solo uomo. D) Tu, perciò, non decidere di correre un rischio
del genere, quando non ce n'è la minima necessità, dammi retta.
Ora sciogli questa assemblea: un'altra volta, quando ti pare, dopo aver ben
riflettuto fra te e te, ordina quel che ti sembra meglio. Io trovo che a
riflettere attentamente ci sia molto da guadagnare: a quel punto, se qualcosa
va storto, la decisione non perde la sua validità, semplicemente
è stata sconfitta dal destino: al contrario, chi decide malamente, se
per caso la sorte gli sorride, ha avuto un colpo di fortuna, sì, ma
non di meno ha deciso malamente. E) Tu vedi come gli animali più grandi il dio li
colpisca col fulmine e non gli permetta di pavoneggiarsi, mentre quelli di
piccola taglia non lo irritano per nulla. Tu vedi come scagli i suoi fulmini
sempre sulle case e sugli alberi più alti. Perché il dio ama umiliare
tutto ciò che si esalta. Ecco perché anche un grande esercito è
annientato da un esercito scarso: quando il dio, nella sua invidia, gli
scatena contro il terrore o il tuono, periscono tutti in maniera indegna di
loro. Perché il dio non concede ad altri che a se stesso di concepire
pensieri superbi. F) La precipitazione, in ogni cosa, è madre di
errori, dei quali poi, di solito, si viene duramente puniti. Nell'aspettare
c'è convenienza: se non appare subito evidente, col tempo lo si
accerterà. G) A te, mio sovrano, questo consiglio. E tu, Mardonio,
figlio di Gobria, smetti di dire sciocchezze sui Greci, che non meritano che
si parli male di loro. Denigrando i Greci tu inciti il re a capeggiare la
spedizione; proprio questo mi pare lo scopo per cui dispieghi tutto il tuo
zelo. Che ciò non accada. La calunnia è una infamia: in essa
sono in due a commettere torti e uno solo a subirli. Chi calunnia è
ingiusto perché accusa un assente, chi gli dà retta è ingiusto
perché si lascia convincere prima di conoscere le cose con esattezza; chi non
è presente mentre si parla subisce l'ingiustizia dall'uno perché ne
viene calunniato e dall'altro perché viene giudicato da lui un malvagio. H) Ma se è davvero obbligatorio muovere guerra a
quella gente, ebbene, che il re personalmente rimanga in sede, in Persia,
quanto a noi due mettiamo in gioco entrambi la vita dei nostri figli;
l'esercito guidalo tu, dopo esserti scelto chi vuoi e preso quante truppe ti
pare. E se le cose si risolvono per il sovrano come dici tu, siano uccisi i
miei figli, e oltre a loro anch'io; ma se vanno a finire dove prevedo,
subiscano i tuoi figli questa sorte, e tu con loro, ammesso che tu faccia
ritorno. Se non vuoi accettare queste condizioni e condurrai comunque una
spedizione contro la Grecia, arriverà, te lo garantisco, a qualcuno di
quelli lasciati qui la notizia che Mardonio, responsabile di una grande
sciagura per i Persiani, è stato dilaniato dai cani e dagli uccelli in
qualche angolo della terra ateniese o spartana, se non anche già
prima, lungo il viaggio, dopo aver appreso chi siano coloro contro i quali
vuoi indurre il re a marciare". Così parlò Artabano. 11) Ma Serse, irritato, gli rispose: "Artabano, tu sei
fratello di mio padre, e questo ti risparmia la ricompensa che meriteresti
per i tuoi dissennati discorsi; ma, visto che sei vile e codardo, ti infliggo
questo disonore, di non partecipare alla mia spedizione contro la Grecia, di
rimanere qui assieme alle donne. Anche senza di te realizzerò i miei
piani. E io non sia più discendente di Dario, di Istaspe, di Arsame,
di Ariaramne, di Teispe, di Ciro, di Cambise, di Teispe e di Achemene, se non
mi vendicherò degli Ateniesi! So perfettamente che anche se noi ce ne
staremo in pace, loro no, non lo faranno, anzi verranno sicuramente a
muoverci guerra sul nostro suolo, a giudicare da quanto già combinarono,
loro, che diedero Sardi alle fiamme e invasero l'Asia. Dunque nessuno dei due
può tornare indietro, ormai è questione di agire o di subire,
finché tutto ciò che è nostro cada in mano ai Greci o tutto
ciò che è loro in mano ai Persiani: l'inimicizia non consente
via di mezzo. Noi siamo stati i primi a subire, è giusto ormai che ci
vendichiamo; se non altro perché io possa conoscere il "terribile"
di cui sarò vittima attaccando quella gente; persino Pelope il Frigio,
che era uno schiavo dei miei avi, li sottomise, e li sottomise così
bene che ancora oggi quegli uomini e quel paese portano il nome del loro
conquistatore". 12) Non si discusse oltre. Poi scese la notte e il parere di
Artabano cominciò a tormentare Serse; nell'affidare alla notte la riflessione,
scopriva che non era proprio il caso per lui di marciare contro la Grecia.
Presa questa nuova decisione, si addormentò. E nella notte, raccontano
i Persiani, ebbe la seguente visione; sognò che un uomo grande e bello
gli stava accanto e gli diceva: "Tu vuoi cambiare parere, Persiano, e
pensi di non portare guerra alla Grecia, dopo aver ordinato ai Persiani di
ammassare truppe. Ma sbagli a cambiare parere e non troverai nessuno ad
approvarti; su, prendi la strada che oggi hai deciso di percorrere". 13) Detto ciò, così parve a Serse, l'uomo
svanì nell'aria. Allo spuntar del giorno non diede peso alcuno al
sogno; riunì gli stessi Persiani che anche prima aveva convocato e
disse loro: "Persiani, perdonatemi se muto di colpo opinione: non ho
ancora raggiunto il massimo del mio senno e del resto chi mi spinge verso
quella decisione non si stacca da me nemmeno per un istante. Udito il parere
di Artabano, lì per lì la mia giovane età prese fuoco
tanto da indurmi a rovesciare contro una persona più anziana parole
più insolenti del lecito; ebbene ora mi sono pentito e mi
atterrò al suo consiglio. Insomma, non agitatevi, ho cambiato idea e
ho deciso di non marciare contro la Grecia". I Persiani come ebbero
udito queste parole, si prostrarono tutti contenti. 14) Ma, scesa la notte, ricomparve accanto a Serse dormiente
lo stesso fantasma e diceva: "Figlio di Dario, a quanto pare hai
ritirato fra i Persiani il progetto di invasione, e non tieni in alcun conto
le mie parole, come se non le avessi udite affatto? Tieni per fermo questo:
se non ti metti in marcia subito, ecco cosa te ne verrà: come in breve
tempo sei divenuto grande e potente, altrettanto presto sarai di nuovo un
poveruomo". 15) Serse, terrorizzato dalla visione, balzò dal
letto e mandò un messo a chiamare Artabano. Arrivato che fu, ecco cosa
gli disse Serse: "Artabano, io sul momento non ero in senno, quanto ti
indirizzai parole folli per via del tuo utile consiglio; poi però,
poco dopo, cambiai idea, riconobbi di dover agire come tu mi avevi suggerito.
Ma pur volendolo non sono in grado di farlo; infatti, da quando ho mutato
opinione e intenzione, in sogno mi si presenta un'apparizione, di continuo,
che non approva affatto il mio operato; anzi, ora ha proferito addirittura
minacce ed è svanita. Dunque, se è un dio a mandarmelo e a lui
piace davvero che ci sia una spedizione contro la Grecia, la stessa visione
apparirà anche a te, dandoti identico ordine. E questo potrebbe
accadere, penso, se tu prendi tutto il mio abbigliamento, lo indossi, ti
siedi sul mio trono e ti addormenti nel mio letto". 16) Questo gli disse Serse; e Artabano, la prima volta, non
obbedì, ritenendosi indegno di sedere sul trono reale; poi, vistosi
costretto, si attenne all'ordine ricevuto, dopo aver così dichiarato: A) "Mio re, io metto sullo stesso piano ragionare bene
e dar retta di buon grado a chi dà validi consigli. Tu hai entrambe le
doti, ma rischia di rovinarti la compagnia di uomini malvagi, così
come dicono che i soffi dei venti abbattendosi sul mare, la cosa più
utile al mondo per gli uomini, non gli permettono di elargire il suo naturale
beneficio. Io non fui tanto morso da angoscia perché mi sentivo oltraggiare
da te, quanto perché tu, davanti a due proposte per i Persiani, di cui una
accresceva la superbia, l'altra cercava di porvi fine e denunciava come sia
male insegnare all'anima a perseguire sempre più di quel che si ha, di
fronte a tali due opinioni tu sceglievi la più disastrosa per te
stesso e per i Persiani. B) Adesso, dunque, che hai adottato la migliore e ti
appresti ad abbandonare la spedizione contro la Grecia, sostieni che un
sogno, inviato da un dio, ti perseguita e non ti lascia sciogliere
l'esercito. No, figlio mio, non sono messaggi divini questi, te la
spiegherò io, di molti anni più vecchio di te, la natura dei
sogni che capitano agli uomini: per lo più si presentano in forma di
visioni notturne i pensieri che ognuno agita di giorno; e noi, nei giorni
precedenti, avevamo per le mani, e pressantemente, questa spedizione
militare. C) Ora, se le cose non stanno come io le giudico, ma vi si
cela un che di divino, tu hai detto già tutto in poche parole: si
mostri anche a me, come a te, a darmi degli ordini. Però non dovrebbe
apparirmi più facilmente se indosso le tue vesti che se indosso le
mie, né se riposo nel tuo letto che nel mio, se davvero desidera, in qualche
modo, mostrarsi. In effetti l'apparizione del sogno, quale che sia la sua
natura, non giungerà a tanta dabbenaggine da credere, nel veder me,
che io sono te, deducendolo dal tuo abbigliamento. Ecco cosa piuttosto
dovrà essere chiarito, se non farà conto alcuno di me e non si
degnerà di apparirmi, che io porti i miei vestiti oppure i tuoi, e se
visiterà te. Perché certo, se persevera nel visitarti, allora anch'io
potrei definirla divina. Comunque, se hai deciso che vada così e che
non c'è da recedere e che io devo dormire nel tuo letto, d'accordo:
eseguirò i tuoi ordini, e che appaia anche a me la visione. Ma fino ad
allora resto della mia opinione". 17) Detto ciò Artabano, sperando di dimostrare a
Serse l'infondatezza delle sue parole, eseguì l'ordine: si mise gli
abiti di Serse, sedette sul trono reale e poi andò a coricarsi; e,
mentre dormiva, la stessa immagine già vista da Serse gli apparve
accanto e gli disse: "E così tu sei quello che cerca di
dissuadere Serse, con la scusa di essere preoccupato per lui, dal partire
contro la Grecia? Ma né in futuro né adesso resterai impunito, se tenti di
stornare il destino; quello che capiterà a Serse, se non obbedisce,
è già stato chiarito a lui in persona". 18) Ad Artabano parve che la visione gli rivolgesse queste
minacce e si apprestasse a bruciargli gli occhi con ferri roventi. Gettato un
grande urlo balzò in piedi e a Serse raccontò, mettendosi
accanto a lui, punto per punto, l'incubo avuto; e aggiunse: "Mio re, io,
da uomo che già aveva visto molte grandi potenze cadere a opera di
più deboli, non volevo permetterti di cedere in tutto alla tua giovane
età; sapevo bene come sia pernicioso aspirare al troppo, ricordavo l'esito
della spedizione di Ciro contro i Massageti, ricordavo anche la spedizione di
Cambise contro gli Etiopi, io, poi, che ho marciato con Dario contro gli
Sciti. Conscio di queste cose, ero convinto che tu, stando in pace, saresti
stato inviolabile da tutti. Ma poiché una qualche forza divina ci spinge e,
come pare, una rovina celeste incombe sui Greci, cambio anch'io parere e
intenzione; e tu rivela ai Persiani i prodigi inviati dal dio, ordina loro di
seguire le tue prime istruzioni, di prepararsi; agisci in modo che nulla
manchi di quanto dipende da te, se lo concede il dio". Detto ciò,
esaltati dalla visione, appena sorse il giorno, Serse spiegò la
situazione ai Persiani, e Artabano, che prima era stato l'unico a mostrarsi
contrario, si rivelò accanito fautore del progetto. 19) In seguito, mentre si apprestava a partire, Serse ebbe
nel sonno una terza visione: i Magi, uditala, la interpretarono come indizio
di una futura sottomissione del mondo intero e di tutte le genti. La visione
era questa: Serse sognò di essere incoronato con una fronda di olivo;
e dall'olivo i rami ricoprivano tutta la terra, poi la corona poggiata sulla
sua testa scompariva. Quando i Magi l'ebbero interpretata così, subito
ognuno dei Persiani convenuti a corte partì per la propria giurisdizione;
e si impegnavano col massimo zelo, secondo gli ordini ricevuti, ciascuno
desiderando ottenere i premi fissati. Serse mise assieme l'esercito in questo
modo, frugando ogni angolo del continente. 20) Effettivamente per quattro interi anni dopo la riconquista
dell'Egitto, Serse preparò truppe e l'occorrente per esse; e sul
finire del quinto anno si mise in marcia con una massa imponente di uomini.
Questa fu l'operazione militare a nostra conoscenza di gran lunga più
gigantesca, tanto da far apparire nulla al confronto la spedizione di Dario
contro gli Sciti e quella degli Sciti, quando, piombati nella terra di Media
all'inseguimento dei Cimmeri, sottomisero e dominarono quasi tutta la parte
settentrionale dell'Asia, impresa di cui Dario più tardi cercò
di vendicarsi. E neanche le si può paragonare la spedizione degli
Atridi contro Ilio, o quella, avvenuta prima della guerra di Troia, dei Misi
e dei Teucri, i quali, passati in Europa all'altezza del Bosforo, sottomisero
tutti i Traci, scesero verso il Mar Ionio e si spinsero verso sud fino al
fiume Peneo. 21) Tali imprese, tutte, e altre ancora, non sono
paragonabili a questa sola. Quale popolo, infatti, Serse non guidò
dall'Asia contro la Grecia? Quale corso d'acqua in cui bevvero, se si
escludono i grandi fiumi, non si prosciugò? Gli uni equipaggiavano
navi, qui l'ordine era di allestire corpi di fanteria, là di
cavalieri, ad altri si chiedevano navi per il trasporto dei cavalli e insieme
di prendere parte alla spedizione; c'era chi doveva fornire navi lunghe per
costruire i ponti, e chi vettovaglie e vascelli. 22) D'altra parte, poiché la prima spedizione era incappata
in un naufragio nel periplo dell'Athos, da circa tre anni Serse si premuniva
contro l'Athos. Triremi erano all'àncora a Eleunte nel Chersoneso, e a
partire da lì uomini di varia provenienza tratti dall'esercito,
scavavano, sotto le fruste, dandosi i turni; e scavavano anche gli abitanti
dell'Athos. Bubare, figlio di Megabazo, e Artachea, figlio di Arteo,
dirigevano i lavori. L'Athos è un monte alto e famoso, che si protende
in mare, e abitato. Nel punto in cui la montagna termina nel continente ha
l'aspetto di una penisola, con un istmo di circa dodici stadi: dal mare degli
Acanti al Mare di fronte a Torone si stende una pianura, con colline non
alte. In questo istmo, dove termina l'Athos, sorge la città greca di
Sane; le città abitate al di qua di Sane, entro i limiti dell'Athos,
il Persiano si apprestava a renderle isolane da continentali che erano: si
tratta di Dio, Olofisso, Acrotoo, Tisso, Cleone. Queste le città che
occupano l'Athos. 23) Ed ecco come i barbari, distribuitasi l'area nazione per
nazione, procedevano nello scavo. Avevano tracciato una linea retta a partire
da Sane; quando la fossa diventava profonda, un primo gruppo scavava in
basso, un secondo passava il materiale di volta in volta estratto ad altri
che stavano sopra, su un gradino, costoro ad altri ancora e così via,
finché si arrivava agli operai in cima; questi lo portavano via e lo
disperdevano. A tutti gli scavatori, fuorché ai Fenici, le pareti del fossato
causavano doppia fatica; doveva capitargli una cosa del genere, visto che
facevano di uguale larghezza l'apertura superiore e il fondo della fossa.
Invece i Fenici diedero prova anche in questa circostanza dell'astuzia che
dimostrano in ogni campo: quando ebbero il settore assegnato, scavarono la
bocca del canale doppia di quanto il canale stesso avrebbe comportato e
procedendo nel lavoro continuavano a restringerla: il loro taglio, arrivato
in fondo, risultò largo come quello degli altri. Vi è là
un porto dove impiantarono un mercato e un emporio; farina di grano in
abbondanza arrivava loro dall'Asia. 24) A pensarci bene trovo che Serse ordinò lo scavo
del canale per mania di grandezza, volendo ostentare potenza e lasciare
memoria di sé. In effetti, benché avessero la possibilità, senza
alcuna fatica, di trascinare le navi attraverso l'istmo, impose l'apertura di
un varco sino al mare largo tanto da permettere il passaggio di due triremi
affiancate spinte a forza di remi. Agli stessi ai quali era stato comandato
di tagliare l'istmo, fu ordinato anche di unire con un ponte, come sotto un
giogo, le due rive del fiume Strimone. 25) Questo dunque andava facendo Serse, e preparava anche le
funi di papiro e di lino bianco per il ponte di barche: le richiese ai Fenici
e agli Egiziani; e diede ordine di ammassare vettovaglie per l'esercito,
affinché né i soldati né gli animali da tiro condotti contro la Grecia
avessero a soffrire la fame. Si informò sui luoghi e comandò di
trasportare i rifornimenti nei punti più opportuni, che li
convogliassero chi qua chi là, da ogni parte dell'Asia, su mercantili
e barconi. Il quantitativo maggiore lo destinarono alla cosiddetta Leucatte
di Tracia, il resto a Tirodiza nel paese dei Perinti, a Dorisco, a Eione
sullo Strimone, in Macedonia, secondo gli ordini. 26) Mentre costoro sudavano a eseguire i compiti assegnati,
tutta la fanteria radunata si mosse con Serse verso Sardi, partendo da
Critalli, in Cappadocia; lì infatti si era fissato il raduno di tutti
i contingenti che si apprestavano a seguire Serse via terra. Non so dire
quale dei luogotenenti ottenne i premi stabiliti dal re, per aver condotto
l'esercito meglio equipaggiato; in effetti non so nemmeno se si sia venuti a
un giudizio in merito. Superato il fiume Alis, percorsero la Frigia;
l'attraversarono e arrivarono a Celene, dove zampillano le sorgenti del
Meandro e di un altro fiume non inferiore al Meandro che si chiama Catarrecte
e che, scaturendo proprio dalla piazza centrale di Celene, sfocia nel
Meandro. Sempre a Celene si trova appeso un otre fatto con la pelle del
Sileno Marsia, che secondo una leggenda dei Frigi fu scorticato da Apollo ed
ebbe lì appesa la sua cute. 27) In questa città li attendeva un Lido, Pizio
figlio di Atis; costui accolse tutta la truppa del re e Serse stesso con
ricchissimi doni ospitali e proclamò di voler sovvenzionare la guerra.
Poiché Pizio prometteva denaro, Serse chiese ai Persiani presenti chi mai
fosse al mondo quel Pizio e quante ricchezze possedesse per fare una simile
offerta. Ed essi gli risposero: "Maestà, questo è l'uomo
che a tuo padre Dario regalò il platano e la vigna d'oro; e ancora
adesso, a nostra conoscenza, è l'uomo più ricco del mondo dopo
di te". 28) Serse si stupì di queste ultime parole e chiese
per la seconda volta, direttamente a Pizio, quanto fosse ricco; e Pizio gli
rispose: "Mio re, non te lo nasconderò, non farò finta di
non sapere l'entità del mio patrimonio, e anzi, poiché la conosco
bene, te la dichiarerò esattamente. Appena informato che tu scendevi
verso il mare dei Greci, e desiderando donarti denaro per la guerra, ne feci
un computo accurato, e risultò, alla fine dei calcoli, che possedevo
in argento 2000 talenti, e che in oro mi mancavano settemila darici per raggiungere
i quattro milioni. E di questo denaro ti faccio dono: a me restano sostanze
sufficienti in schiavi e terreni". 29) Così disse; e Serse, contento delle sue parole,
replicò: "Ospite lido, da quando sono uscito dalla Persia, fino a
oggi, non ho mai incontrato un uomo che abbia voluto porgere doni ospitali al
mio esercito, né che, venuto da me spontaneamente, abbia voluto
spontaneamente versarmi denaro per la guerra: solo tu. Tu hai ospitato le mie
truppe in modo stupendo e mi offri grandi ricchezze. Perciò ecco come
ti contraccambio: ti nomino mio ospite, e i tuoi quattro milioni di stateri
te li completo io, regalandoti i settemila che mancano, affinché i quattro
milioni non ne restino carenti e ti risulti cifra tonda grazie a me. Tieniti
pure quello che ti sei guadagnato e sappi mantenerti quale sei, perché agendo
così non te ne pentirai né per il presente né per il futuro". 30) Fece quanto aveva detto; poi seguitò ad avanzare.
Toccando la città dei Frigi detta Anava e un lago da cui si ricava
sale, giunse a Colosse, grande città della Frigia, nella quale il
fiume Lico scompare precipitando in una voragine, per riaffiorare poi un
cinque stadi più in là e sfociare anch'esso nel Meandro.
Muovendo da Colosse in direzione delle montagne dei Frigi e dei Lidi,
l'esercito giunse alla città di Cidrara, dove una stele ben salda,
posta da Creso, segnala il confine con una scritta. 31) Nel penetrare dalla Frigia in Lidia, la strada si
divideva, a sinistra verso la Caria e a destra verso Sardi. Per chi si dirige
a destra è assolutamente inevitabile attraversare il Meandro e passare
accanto alla città di Callatebo, dove artigiani fabbricano miele con
tamarisco e grano; procedendo lungo questo percorso, Serse incontrò un
bosco di platani, che per la sua bellezza volle ornare d'oro e che
affidò alla guardia di un Immortale; il giorno dopo raggiunse la
capitale dei Lidi. 32) Arrivato a Sardi, per prima cosa da lì
inviò araldi in Grecia a chiedere terra e acqua e a intimare che
preparassero banchetti per il re; inviò questa richiesta di terra a
tutte le città tranne Atene e Sparta. La ragione per cui chiese terra
e acqua per la seconda volta fu questa: quanti in precedenza non avevano
risposto alla richiesta di Dario, riteneva senz'altro che ora, per paura, l'avrebbero
concesse. Inviò i suoi messi appunto volendo averne conferma. 33) Poi si preparava a raggiungere Abido. Nel frattempo
aggiogavano l'Ellesponto dall'Asia all'Europa. Nel Chersoneso d'Ellesponto,
fra le città di Sesto e di Madito, c'è un tratto di costa roccioso
che si protende in mare di fronte ad Abido, dove più tardi, non molto
tempo dopo, gli Ateniesi al comando dello stratego Santippo, figlio di
Arifrone, catturarono il persiano Artaucte, governatore di Sesto e lo
inchiodarono vivo a un palo: egli, tra l'altro, frequentemente faceva portare
a Eleunte nel tempio di Protesilao, delle donne per abbandonarsi a empie
pratiche. 34) Partendo dunque da Abido in direzione di questo tratto
di costa, costruivano i ponti secondo gli ordini, i Fenici con funi di lino
bianco, gli Egiziani con funi di papiro. Ci sono sette stadi da Abido alla
costa di fronte. E quando il braccio di mare era stato ormai aggiogato,
sopraggiunse una violenta tempesta, si abbatté su tutte quelle opere e le
disfece. 35) Serse, come lo seppe, adirato con l'Ellesponto, diede
ordine di infliggergli trecento colpi di frusta e di tuffare in acqua un paio
di ceppi. E ho pure sentito dire che assieme a costoro inviò dei
marchiatori a bollare l'Ellesponto. Ordinò poi di pronunciare, mentre
lo fustigavano, le seguenti barbare e insolenti parole: "Acqua proterva,
il tuo signore ti infligge questa pena, perché lo hai offeso senza aver da
lui ricevuta alcuna offesa. Re Serse ti varcherà che tu lo voglia o
no. A te nessun uomo offre sacrifici, ed è giusto: perché sei un fiume
melmoso e salmastro". Il mare ordinò di punirlo così, e a
chi sovrintendeva alla costruzione del ponte sull'Ellesponto fece tagliare la
testa. 36) Eseguivano gli ordini coloro ai quali spettava questo
spiacevole compito, e intanto altri ingegneri congiunsero le due rive. Le
unirono così: legarono assieme penteconteri e triremi, 360 dalla parte
del Ponto Eusino, 314 dall'altra, obliquamente rispetto al Ponto ma secondo
la corrente dello stretto, affinché questa mantenesse in tensione le funi;
dopodiché gettarono ancore enormi, sia verso il Ponto, per via dei venti che
soffiano dal largo, sia verso ovest e l'Egeo contro i venti di Zefiro e Noto.
In tre punti fra le penteconteri lasciarono un varco di passaggio, perché
volendo, con imbarcazioni leggere, si potesse tanto navigare verso il Ponto
che dal Ponto entrare nello stretto. Ciò fatto, da terra tesero i cavi
avvolgendoli intorno ad argani di legno senza più separare l'impiego
delle funi, ma destinando a ciascun ponte due cavi di lino bianco e quattro
di papiro. Identici erano lo spessore e la bellezza delle funi, ma in
proporzione quelle di lino erano più grevi: pesavano un talento per
cubito. Una volta congiunte le due rive, segarono dei tronchi di legno in
misura pari alla larghezza della struttura portante e li posarono in fila
sopra i cavi in tensione; allineatili uno accanto all'altro, li fissarono, di
nuovo, insieme. Infine vi misero sopra fascine di legna, che distribuivano
anch'esse, per bene, e terra sopra le fascine: pressarono la terra e sui due
lati del ponte alzarono uno steccato, perché gli animali e i cavalli non si
spaventassero a vedere sotto di sé il mare. 37) Una volta terminati i lavori del ponte e dell'Athos e
giunta la notizia che le dighe alle imboccature del canale (erette per
impedire alla corrente di ostruire gli sbocchi) e il canale stesso erano
stati ultimati, allora trascorso l'inverno, con la primavera l'esercito
partì da Sardi, ben equipaggiato, per raggiungere Abido. Al momento
della partenza il sole, abbandonata la sua posizione nel cielo, scomparve
benché non vi fossero nuvole, anzi in pieno sereno, e da giorno che era si
fece notte. Serse, che vide e fu testimone del fenomeno, preoccupato
domandò ai Magi che cosa potesse presagire. Essi gli risposero che il
dio mostrava ai Greci l'eclissi delle loro città; il sole, spiegavano,
era il nunzio del futuro per i Greci, per i Persiani lo era la luna. Sentita
la spiegazione, Serse, soddisfatto, proseguiva nella marcia. 38) Mentre avviava l'esercito, il lido Pizio, terrorizzato
dal fenomeno celeste e reso ardito dai doni ricevuti, si presentò a
Serse e gli disse: "Signore, c'è una cosa di cui ti prego e che
vorrei ottenere: è per te un ben piccolo favore, ma per me conta molto".
Serse, tutto immaginandosi tranne la richiesta che poi gli fu fatta,
assicurò Pizio che lo avrebbe accontentato e lo esortava pertanto a
esprimere il suo desiderio. E Pizio, sentendolo parlare così, si fece
coraggio e disse: "Signore, io ho cinque figli e capita che tutti e
cinque partano con te per la Grecia. Mio sovrano, abbi pietà di me e
della mia età, dispensami uno dei figli dal servizio, il più
vecchio, che possa prendersi cura di me e dei beni. Gli altri quattro portali
con te, e tu possa fare ritorno dopo aver realizzato i tuoi progetti". 39) Serse si infuriò non poco e gli rispose
così: "Vile, tu hai l'impudenza, mentre io stesso parto per la
guerra contro la Grecia e ci porto i miei figli e i fratelli, parenti e
amici, di ricordarmi un tuo figlio, tu che sei un mio servo e dovresti
seguirmi con tutta la casa compresa tua moglie? Allora ascolta: l'animo ha
sede nelle orecchie dell'uomo e se ode buone parole ricolma il corpo di
gioia, se ne ode di cattive si gonfia di sdegno. Tu hai agito bene, poi hai
preannunziato altri propositi buoni: non riuscirai a vantarti di aver
superato la generosità di un re. Ora, invece, ti sei avviato sulla
strada dell'impudenza: non riceverai un castigo adeguato, ma uno inferiore a
quello che meriti. Il vincolo di ospitalità salva te e quattro dei
tuoi figli; sarai punito con la morte di uno solo di loro, quello a cui
più tieni". Appena pronunciata questa risposta, ordinò
agli addetti a tali incombenze di scovare il maggiore dei figli di Pizio e di
tagliarne il corpo in due, poi, di sistemarne una metà sulla destra e
l'altra metà sulla sinistra della strada; e che l'esercito passasse di
là. 40) Essi eseguirono; poi l'esercito passò. Sfilarono
per primi le salmerie, uomini e animali, e subito dopo le truppe, un miscuglio
di popoli d'ogni specie, senza distinzioni; quando ben più che
metà era transitata, fu lasciato un intervallo, in modo da separarli
dal re. In testa avanzarono mille cavalieri scelti fra tutti i Persiani,
seguiti da mille lancieri, anche questi scelti fra tutti, che tenevano le
lance abbassate verso terra. Fu la volta, poi, di dieci cavalli sacri detti
Nisei adornati nel modo più bello. Si chiamano così perché
c'è in Media una vasta pianura, che ha nome Nisea, ed è questa
pianura a produrre tali magnifici cavalli. Dopo i dieci destrieri,
nell'ordine procedevano un carro sacro a Zeus, trainato da otto cavalli
bianchi, e un auriga che ne reggeva le briglie, ma a piedi, perché nessun
essere umano può salire su quel trono. Subito dietro veniva Serse in
persona, su un carro di cavalli Nisei; l'auriga camminava accanto al carro,
si chiamava Patiranfe ed era figlio del persiano Otane. 41)Serse partì da Sardi con tale apparato; dal carro
si trasferiva poi su di una armamassa ogni volta che ne aveva voglia. Alle sue
spalle marciavano dei lancieri, i mille più prestigiosi e nobili di
Persia, reggendo le lance come d'uso; poi un reparto di altri mille cavalieri
scelti persiani; dietro di essi diecimila uomini selezionati fra i rimanenti
Persiani che costituivano la fanteria. Mille di loro invece di puntali di
ferro avevano melegrane d'oro all'estremità inferiore delle aste e
attorniavano gli altri, mentre i novemila all'interno avevano melegrane
d'argento; portavano melegrane d'oro anche i guerrieri che tenevano la lancia
abbassata verso terra, e mele d'oro quelli immediatamente al seguito di
Serse. Ai diecimila fanti erano accodati diecimila cavalieri. Dietro i
cavalieri c'era un altro intervallo di due stadi, poi veniva la massa
rimanente, alla rinfusa. 42) L'esercito viaggiava dalla Lidia verso il fiume Caico e
la Misia; a partire dal Caico (avendo a sinistra il monte Cane) percorse il
territorio di Atarneo in direzione della città di Carene; da Carene
attraversò la piana di Tebe, sfilando accanto alla città di Atramittio
e alla pelasgica Antandro. Giunto all'Ida, si diresse a sinistra verso la
terra di Ilio. All'altezza del monte Ida, tuoni e fulmini si abbatterono su
di loro e annientarono lì sul posto un buon numero di uomini. 43) Quando l'esercito ebbe raggiunto lo Scamandro, che fu il
primo a vedersi prosciugare e a non bastare all'approvvigionamento degli
uomini e degli animali, dal momento in cui l'esercito, partito da Sardi, si
era messo in marcia, giunto a questo fiume, Serse salì alla Pergamo di
Priamo, che tanto desiderava vedere. La visitò, si informò su
ogni particolare e sacrificò mille buoi in onore di Atena Iliaca; i
Magi offrirono libagioni agli eroi. Dopo queste offerte, la notte, una
sensazione di sgomento si diffuse nell'accampamento. Al mattino l'esercito
mosse da lì lasciandosi a sinistra le città di Reteo, Ofrinio e
Dardano, che confina con Abido, a destra i Teucri Gergiti. 44) Quando furono ad Abido, Serse volle vedere l'esercito
nel suo insieme. Proprio a tale scopo gli avevano allestito su una collina un
trono di marmo bianco (lo avevano costruito i cittadini di Abido in seguito a
un ordine del re); quando fu là seduto, Serse osservò dall'alto
sulla riva le truppe di terra e le navi. Mentre si godeva lo spettacolo gli
venne desiderio di assistere a una gara navale; fu fatta, la vinsero i Fenici
di Sidone. E lui si sentì pieno di soddisfazione per la gara e per la
sua armata. 45) Nel vedere l'intero Ellesponto coperto dalle navi e
tutte le rive e le piane di Abido formicolanti di uomini, subito Serse si
ritenne felice, ma poi pianse. 46) Se ne accorse Artabano, suo zio, lo stesso che
già prima si era espresso con franchezza sconsigliando a Serse la
spedizione contro la Grecia; egli, avendo notato le lacrime di Serse, gli
disse: "Mio re, che reazioni diverse hai avuto, ora e poco fa: dopo
esserti ritenuto beato, adesso piangi". E Serse rispose: "Ho
provato un senso di pietà a pensare quanto sia breve la vita di un
uomo, se nessuno di tutti costoro, che sono così numerosi,
vivrà ancora fra cento anni". Replicò Artabano: "Cose
ben più tristi di questa soffriamo nel corso dell'esistenza. Non
c'è uomo, né fra di loro né in tutto il mondo, che nell'arco di una
vita così breve sia tanto felice da non anteporre, non dico una volta
soltanto, ma spesso, la morte alla vita. Le disgrazie che ci colpiscono e le
malattie che ci affliggono ci fanno ritenere lunga l'esistenza, mentre essa
è breve. E così, la morte, essendo la vita un cumulo di
affanni, è divenuta per l'uomo un rifugio ben preferibile; e il dio, dopo
averci fatto assaporare la dolcezza della vita, si rivela invidioso". 47) Replicò a sua volta Serse: "Artabano,
l'esistenza umana è proprio come la giudichi tu, ma smettiamo di
parlarne: via le sventure dai nostri pensieri! Adesso tante belle cose abbiamo
per le mani. Dimmi un po': se non ti fosse apparsa, chiara, la visione del
sogno, saresti sempre della vecchia opinione, non mi lasceresti partire per
la Grecia, oppure avresti cambiato idea? Su, rispondimi sinceramente". E
Artabano così rispose: "Signore, la visione apparsa nel sogno
possa andare a finire come entrambi desideriamo. Ma mi soverchia il terrore
ancora adesso e non sono padrone di me: penso a tante cose e in particolare
trovo che ti sono molto ostili due elementi importantissimi". 48) Al che Serse chiese: "Amico mio, che dici?
Cos'è che mi sarebbe ostile? Forse critichi la scarsità della
nostra fanteria? Ritieni che l'esercito greco sarà più numeroso
del nostro, o la nostra flotta più esigua della loro, oppure entrambe
le cose? Perché se credi che i nostri effettivi siano un po' scarsi, ebbene,
potremmo raccogliere all'istante un'altra armata!". 49) Ma Artabano gli rispose: "Mio re, nessuno, se ha un
po' di cervello, potrebbe biasimare questo esercito o il numero delle navi: e
se tu ne raccogliessi di più i due elementi di cui ti dicevo si
farebbero ancora più ostili. Essi sono la terra e il mare. Non
c'è porto, io credo, in nessun angolo di mare così ampio da
poter accogliere questa flotta e garantirti la salvezza delle navi, se
scoppia una tempesta; e noi non avremmo bisogno di uno solo, ma di tanti
porti lungo tutto il continente che vai a costeggiare. Perciò, giacché
mancano approdi adeguati, sappi che sono gli eventi a dominare gli uomini e
non gli uomini gli eventi. E visto che ormai ho parlato di uno, vado ora a
dire anche dell'altro elemento. Sta' a sentire come la terra ti si fa nemica:
anche ammesso che tu non incontri alcun ostacolo, la terra ti sarà
tanto più avversa quanto più in essa ti inoltri; e ogni giorno
sarai tratto in inganno dall'avanzata, perché di successi gli uomini non sono
mai sazi. Quindi io dico che, anche se nessuno ti affronterà, la
terra, facendosi sempre più vasta, nel passare del tempo
produrrà fame. L'uomo migliore non sarà chi ha paura nel
decidere, pensando che dovrà patire di tutto, e riserva l'audacia
all'agire?". 50) E Serse: "Artabano, tu rifletti ragionevolmente su
ogni singolo particolare, ma non devi temere tutto e non devi valutare ogni
cosa allo stesso modo. Se tu di ogni nuova evenienza volessi esaminare allo
stesso modo tutti i dettagli, mai e poi mai combineresti qualcosa; è
meglio invece affrontare ogni situazione con coraggio e patire una
metà di insuccessi piuttosto che, nel preventivo timore di tutto, non
subire mai niente. Se tu battendoti contro ogni proposta non mostrerai
certezza, sei destinato all'insuccesso almeno quanto chi la pensa al
contrario di te: le possibilità sono le stesse. Tu mi chiedi come
possa un uomo avere certezze? Non può affatto, credo. Per lo più
accade che i successi tocchino a chi abbia volontà d'azione e si
neghino e quelli che riflettono troppo e sono indecisi. Tu vedi quale culmine
di potenza ha raggiunto lo stato persiano: non lo avresti mai visto crescere
tanto se i re che mi hanno preceduto avessero pensato come te, o anche solo
se, pur pensandola diversamente, avessero avuto consiglieri di tal fatta.
È così: per portare tanto in alto la Persia si sono gettati fra
i pericoli; le grandi imprese di solito si compiono a prezzo di grandi
pericoli. E noi, che vogliamo eguagliarli, eccoci qui, in marcia, nella
stagione più bella dell'anno: conquisteremo l'Europa intera e faremo
ritorno, senza aver in alcun luogo patito la fame e sofferto alcun altro
disastro. Intanto noi viaggiamo con vettovaglie in abbondanza, inoltre
dovunque andremo, terra o nazione, avremo i viveri del posto. Siamo in guerra
contro popoli di agricoltori, non di nomadi". 51) Dopo questo discorso Artabano disse: "Mio re,
poiché non lasci spazio a timore alcuno, almeno accetta un mio consiglio;
sono molti gli elementi in gioco e quindi è necessario dilungarsi.
Ciro figlio di Cambise costrinse tutta la Ionia, fuorché gli Ateniesi, a
versare tributi ai Persiani. Io ti consiglio di non condurli a nessun costo
contro i loro padri; anche senza di loro siamo in grado di sbaragliare i
nemici. Essi, se ci seguono, sono destinati o a diventare molto ingiusti,
rendendo schiava la loro madre patria, oppure molto giusti, concorrendo a
tenerla libera. Nel primo caso non ci fanno guadagnare alcunché, nel secondo
sono in grado di nuocere non poco al tuo esercito. Pensa anche in cuor tuo
all'esattezza dell'antico proverbio: l'esito finale non si scorge mai tutto
nell'inizio". 52) A queste parole Serse replicò: "Artabano, di
tutti i tuoi pareri espressi il più sbagliato è questo; tu temi
che gli Ioni passino al nemico; ma per valutarli noi possediamo un elemento
notevolissimo, di cui siete testimoni tu e gli altri che presero parte con
Dario alla spedizione contro gli Sciti, quando dagli Ioni dipese l'annientamento
o la salvezza dell'intera armata persiana; allora essi rivelarono senso di
giustizia e lealtà, non ci causarono il minimo danno. Inoltre, a parte
questo, non gli conviene meditare qualche stranezza, dato che hanno lasciato
nel nostro paese figli, mogli e patrimoni. Perciò non avere questa
paura, fatti animo; e veglia sul mio palazzo e il mio potere, poiché a te
solo, fra tutti, io affido il mio scettro". 53) Detto ciò e rimandato Artabano a Susa, Serse per
la seconda volta convocò i più ragguardevoli fra i Persiani; e
quando furono presenti disse loro: "Persiani, vi ho qui riuniti perché
da voi desidero questo, che siate uomini coraggiosi e non disonoriate le
precedenti imprese dei Persiani, che sono grandi e prestigiose; ognuno
individualmente e tutti assieme impegniamoci a fondo: il nostro obiettivo,
ora, è un bene comune a tutti. Ed ecco perché vi esorto ad affrontare
la guerra con energia: noi siamo in marcia, così mi dicono, contro
uomini valorosi, sconfitti i quali nessun altro esercito al mondo può
più ostacolarci. Adesso passiamo lo stretto, ma prima rivolgiamo
preghiere agli dèi che proteggono la terra di Persia". 54) Durante quel giorno si prepararono per
l'attraversamento. Il giorno dopo attesero il sole che volevano vedere
sorgere, bruciando sui ponti profumi di ogni sorta e stendendo ramoscelli di
mirto sul cammino. Quando il sole spuntò, Serse, versando in mare
libagioni da una coppa d'oro, pregò il sole che nessuna sventura gli
toccasse tale da indurlo a rinunciare alla conquista dell'Europa prima di
averne raggiunto gli estremi confini. Dopo l'invocazione gettò
nell'Ellesponto la coppa, un cratere d'oro, una spada persiana, del tipo che
chiamano acinace. Non saprei dire con sicurezza se gettò in mare
questi oggetti come offerta al sole, oppure se era pentito di aver fatto
fustigare l'Ellesponto e offriva al mare tali doni in ammenda. 55) Quando ebbe finito, compirono la traversata, la fanteria
e tutta la cavalleria sopra il ponte dalla parte dell'Eusino, gli animali da
soma e i servi sopra l'altro ponte, quello verso l'Egeo. In testa marciavano
i diecimila Persiani, tutti con una corona sul capo; dietro di loro le
truppe, una massa indistinta di popoli di ogni genere. Questo il primo
giorno. Il successivo passarono per primi i cavalieri e quelli con le lance
rivolte in basso, anch'essi con una corona sul capo; poi i cavalli sacri e il
sacro carro e, di seguito, Serse in persona, i lancieri e i mille cavalieri,
e infine il resto dell'esercito. Contemporaneamente le navi salpavano verso
la costa di fronte. Ma ho anche sentito dire che il re passò dopo di
tutti, per ultimo. 56) Posato il piede in Europa, Serse osservò le sue
truppe che attraversavano lo stretto a suon di frustate. L'esercito
impiegò sette giorni e sette notti per completare il passaggio, senza
un attimo di sosta. Si racconta che quando ormai Serse aveva varcato
l'Ellesponto, un uomo del posto esclamò: "O Zeus, perché assumi
l'aspetto di un Persiano e ti fai chiamare Serse invece che Zeus e vuoi
devastare la Grecia conducendole contro il mondo intero? Potevi farlo anche
senza tutto questo". 57) Completato il tragitto, agli uomini ormai in procinto di
mettersi in marcia apparve un grande prodigio, al quale Serse non badò
affatto, benché fosse facilmente interpretabile: una cavalla diede alla luce
una lepre. Il significato evidente era che Serse si accingeva a guidare
contro la Grecia una spedizione imponente e fastosa, ma sarebbe tornato
indietro, di dov'era partito, di corsa, se voleva salvare la pelle. Un altro
prodigio si era verificato mentre stava a Sardi: una mula aveva partorito un
piccolo con doppio apparato genitale, maschile e femminile: il maschile
più in alto. 58) Incurante di entrambi i fenomeni, Serse continuava ad
avanzare, e con lui le truppe di terra; intanto la flotta, uscita
dall'Ellesponto, costeggiava la riva in direzione opposta rispetto alla
fanteria. Infatti la flotta navigava verso ovest puntando sul capo
Sarpedonio, dove secondo gli ordini, una volta arrivata, doveva fermarsi in
attesa; l'esercito di terra marciava attraverso il Chersoneso in direzione
dell'aurora e del sorgere del sole, lasciandosi a destra il sepolcro di Elle
Atamantide, a sinistra la città di Cardia, e passando invece per la
città che si chiama Agora. Di là girò attorno al golfo
di Melas e superò il fiume Melas, le cui acque non bastarono alle
truppe e che rimase asciutto; oltrepassato questo fiume, che dà il
nome anche al golfo, si diresse a occidente, rasentò la città
eolica di Eno e il lago Stentoride, finché giunse a Dorisco. 59) Dorisco è una regione della Tracia che comprende
una spiaggia e una vasta pianura, solcata dal grande fiume Ebro. Vi sorge una
fortificazione reale (è questa che si chiama Dorisco), dove Dario
aveva stanziato una guarnigione persiana fin dai tempi della spedizione contro
gli Sciti. Parve dunque a Serse che la località fosse adatta a
disporre gli schieramenti e a calcolare gli effettivi; e così fece.
Per ordine di Serse i navarchi condussero tutte le navi arrivate a Dorisco
sulla spiaggia attigua alla fortezza, dove si trovano le città Sale,
dei Samotraci, e Zona, nonché, a chiudere il tratto di costa, il celebre
promontorio Serreo: tale località in tempi antichi apparteneva ai
Ciconi. Approdati su questa spiaggia tirarono in secca le navi e le fecero
asciugare. A Dorisco nel frattempo Serse provvedeva a contare i suoi uomini. 60) Di quanti soldati disponesse ciascun contingente non
sono in grado di dirlo con esattezza (e nessuno lo dice), ma l'esercito di
terra nel suo complesso risultò composto di 1.700.000 uomini. Ed ecco
come furono contati. Radunati in un solo punto diecimila soldati e fattili
serrare assieme il più possibile, tracciarono un cerchio intorno a
loro; allontanati i diecimila, lungo questo cerchio alzarono un muretto, alto
fino all'ombelico di un uomo; costruito il muretto, facevano entrare nello
spazio recintato altri armati, finché in questo modo non li ebbero contati
tutti. Finito il computo, li divisero in schiere per nazione. 61) Ecco quali popoli presero parte alla spedizione. C'erano
i Persiani, così equipaggiati: un copricapo floscio, detto tiara,
sulla testa, colorati chitoni con maniche intorno al corpo e corazze di
piastre di ferro, simili nell'aspetto a squame di pesce; brache intorno alle
gambe; invece di scudi portavano gerre di vimini e cuoio, sotto pendevano le
faretre; avevano corte lance, grandi archi e frecce di canna; inoltre pugnali
che pendevano dalla cintura lungo la coscia destra. Li comandava Otane, padre
di Amestri, la moglie di Serse. Dai Greci anticamente erano detti Cefeni mentre
loro si denominavano Artei, e così li chiamavano le genti vicine. Ma
da quando Perseo, il figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di
Belo, ne sposò la figlia Andromeda, ed ebbe un figlio che
chiamò Perse e lasciò lì nel paese, visto che Cefeo era
privo di discendenti maschi, da questo Perse presero nome i Persiani. 62) I Medi marciavano equipaggiati allo stesso modo. In
effetti tale abbigliamento è medo, non persiano. I Medi erano agli
ordini di Tigrane, Achemenide. Anticamente tutti li chiamavano Ari, ma dopo
l'arrivo presso questi Ari di Medea Colchidese, proveniente da Atene,
anch'essi cambiarono nome; così i Medi raccontano di se stessi. I
Cissi dell'esercito vestivano come i Persiani in tutto e per tutto, ma invece
delle tiare portavano mitre; alla testa dei Cissi c'era Afane, figlio di
Otane. Gli Ircani erano equipaggiati come i Persiani e obbedivano a Megapano,
più tardi governatore di Babilonia. 63) Gli Assiri della spedizione portavano elmi di bronzo: un
intreccio metallico di fattura barbara, difficile da descrivere; erano dotati
di scudi, lance e pugnali simili a quelli egiziani, in più mazze di
legno con borchie di ferro e corazze di lino. Essi erano chiamati Siri dai
Greci, ma dai barbari ebbero il nome di Assiri. (Fra di loro c'erano dei
Caldei). Li comandava Otaspe figlio di Artachea. 64) I Battriani militavano portando sulla testa copricapi
molto simili a quelli dei Medi, ma archi di canna di loro fabbricazione e
corte picche. I Saci, che sono Sciti, avevano in testa turbanti aguzzi che si
ergevano dritti e rigidi e vestivano brache; avevano archi del loro paese,
pugnali e inoltre asce del tipo sagari. Erano Sciti Amorgi, ma li chiamavano
Saci: in effetti i Persiani chiamano Saci tutti gli Sciti. A capo dei
Battriani e dei Saci stava Istaspe, figlio di Dario e di Atossa, la figlia di
Ciro. 65) Gli Indiani, con indosso vesti fatte di fibre vegetali,
avevano archi di canna e frecce pure di canna con la punta di ferro;
così erano equipaggiati gli Indiani; nell'esercito erano agli ordini
di Farnazatre, figlio di Artabate. 66) Gli Ari erano armati di archi come quelli dei Medi, per
il resto, invece, erano equipaggiati come i Battriani. Comandava gli Ari
Sisamne figlio di Idarne. I Parti, i Corasmi, i Sogdi, i Gandari e i Dadici
partecipavano con la stessa dotazione dei Battriani. Alla loro testa c'erano
Artabazo figlio di Farnace (Parti e Corasmi), Azane figlio di Arteo (Sogdi) e
Artifio figlio di Artabano (Gandari e Dadici). 67) I Caspi marciavano vestiti di pelli animali e muniti di
archi di canna di loro fabbricazione, di frecce di canna e di spade.
Così equipaggiati erano agli ordini di Ariomardo, fratello di Artifio.
I Sarangi spiccavano per le vesti colorate e avevano calzari che arrivavano
al ginocchio, archi e lance di Media. Li comandava Ferendate figlio di
Megabazo. I Patti, col corpo coperto di pellicce, portavano archi del loro
paese e pugnali. Erano agli ordini di Artaunte, figlio di Itamitre. 68) Gli Uti, i Mici e i Paricani erano abbigliati come i
Patti. I loro comandanti erano Arsamene figlio di Dario (Uti e Mici) e
Siromitre figlio di Eobazo (Paricani). 69) Gli Arabi erano cinti da ampie sopravvesti, e armati di
lunghi archi a curvatura inversa sulla spalla destra. Gli Etiopi, vestiti di
pelli di leopardo e di leone, avevano archi fabbricati con rami di palma,
lunghi non meno di quattro cubiti, e piccole frecce di canna, sulla cui
estremità non c'era ferro ma pietra affilata, la stessa pietra in cui
incidono anche i sigilli; inoltre erano armati di aste sormontate da un
aguzzo corno di gazzella, a mo' di punta, e anche di mazze con borchie di
ferro. In battaglia scendevano col corpo spalmato per metà di gesso e
per metà di rosso minio. Gli Arabi e gli Etiopi d'oltre Egitto erano
agli ordini di Arsame, figlio di Dario e di Artistone, figlia di Ciro, la
moglie che Dario amò più di tutte e della quale fece fabbricare
una statua d'oro lavorato. 70) Arsame dunque comandava gli Arabi e gli Etiopi abitanti
oltre l'Egitto. Invece gli Etiopi d'Oriente (gli uni e gli altri erano
presenti nell'esercito) erano schierati assieme agli Indiani; dagli altri
Etiopi non differiscono affatto nell'aspetto, ma solo per lingua e
capigliatura: gli Etiopi d'Oriente hanno le chiome lisce, mentre quelli di
Libia sono gli uomini più crespi che esistano al mondo. Questi Etiopi
d'Asia erano equipaggiati quasi come gli Indiani, ma portavano sul ca po
pelli della fronte dei cavalli, con orecchie e criniera; la criniera fungeva
da cimiero, mentre le orecchie del cavallo stavano ritte e rigide. Per
difesa, invece di scudi, usavano pelli di gru. 71) I Libici militavano con vesti di cuoio, usando
giavellotti dalla punta temprata. Li guidava Massage, figlio di Oarizo. 72) I Paflagoni marciavano con elmi di vimini intrecciati
sul capo, armati di piccoli scudi e lance non lunghe, inoltre di giavellotti
e pugnali; ai piedi avevano calzari del loro paese alti fino a mezza gamba. I
Liguri, i Matieni, i Mariandini e i Siri viaggiavano con la medesima
dotazione dei Paflagoni; questi Siri sono chiamati Cappadoci dai Persiani.
Paflagoni e Matieni li comandava Doto figlio di Megasidro, Mariandini, Liguri
e Siri Gobria, figlio di Dario e di Artistone. 73) I Frigi portavano un abbigliamento quasi uguale a quello
dei Paflagoni, con poche differenze. I Frigi, come raccontano i Macedoni, si
chiamavano Brigi all'epoca in cui, stanziati in Europa, coabitavano coi
Macedoni; trasferitisi in Asia, col paese cambiarono anche il nome, in quello
di Frigi. Gli Armeni erano equipaggiati come i Frigi, essendo loro coloni.
Entrambi questi popoli obbedivano ad Artocme, marito di una figlia di Dario. 74) I Lidi disponevano di un armamento molto simile a quello
greco. Anticamente i Lidi si chiamavano Meoni, ma poi cambiarono
denominazione, derivando la nuova da Lido figlio di Ati. I Misi portavano
elmi di loro fabbricazione in capo e piccoli scudi e si servivano di
giavellotti dalla punta temprata. Sono coloni dei Lidi e vengono detti
Olimpieni dal nome del monte Olimpo. Lidi e Misi erano agli ordini di
Artafrene, figlio di Artafrene, quello che era penetrato a Maratona assieme a
Dati. 75) I Traci militavano portando pellicce di volpe sulla
testa, chitoni intorno al corpo, ed erano avvolti in ampie sopravvesti variegate;
avevano calzari di pelle di cerbiatto ai pie di e intorno alle gambe, poi
giavellotti, pelte e pugnali. Costoro, quando passarono in Asia, furono detti
Bitini, mentre prima, a sentir loro, si chiamavano Strimoni, dato che
abitavano sulle rive dello Strimone. Sostengono di essere stati cacciati
dalle loro sedi dai Teucri e dai Misi. Alla testa dei Traci di Asia c'era
Bassace, figlio di Artabano. 76) Essi (forse I Pisidi) avevano piccoli scudi di pelle di
bue non conciata e due picche di fabbricazione licia ciascuno; sulla testa
elmi bronzei, ai quali erano applicate orecchie e corna bovine di bronzo; e
c'era anche un cimiero. Fasce di porpora gli avvolgevano le gambe. Nel loro
paese sorge un oracolo di Ares. 77) I Cabali Meoni, detti Lasoni, portavano lo stesso
abbigliamento dei Cilici, che descriverò quando la mia rassegna
sarà giunta al contingente cilicio. I Milii avevano corte lance e
vesti fermate con fibbie; alcuni di loro erano armati di arco licio e avevano
sulla testa caschi fatti di pelli conciate. Li comandava Badre figlio di
Istane. 78) I Moschi avevano elmi di legno in testa, scudi, e lance
piccole ma munite di grosse punte. I Tibareni, i Macroni e i Mossineci
militavano equipaggiati come i Moschi. Insieme erano schierati agli ordini
del figlio di Dario, Ariomardo e del figlio di Smerdi e nipote di Ciro Parmi
(Moschi e Tibareni); e di Artaucte, figlio di Cherasmi (Macroni e Mossineci),
che era governatore di Sesto sull'Ellesponto. 79) I Mari avevano sul capo elmi di vimini intrecciati fabbricati
da loro, ed erano muniti di piccoli scudi di pelle e giavellotti. I Colchi
portavano elmi di legno sulla testa, piccoli scudi di pelle bovina non
conciata e corte lance e inoltre coltelli. Mari e Colchi obbedivano a
Farandate figlio di Teaspi. Gli Alarodi e i Saspiri militavano armati come i
Colchi. Li guidava Maristio figlio di Siromitre. 80) I popoli insulari al seguito, provenienti dal Mare
Eritreo, dalle isole sulle quali il re stanzia i cosiddetti
"deportati", avevano vesti e armi molto simili a quelle dei Medi. A
guidarli era Mardonte figlio di Bageo, che cadde l'anno seguente, come
comandante, nella battaglia di Micale. 81) Questi popoli partecipavano alla spedizione per via di
terra e costituivano la fanteria. I comandanti di questo esercito erano i
personaggi sopra menzionati: essi avevano ordinato e contato i soldati e
avevano nominato i chiliarchi e miriarchi; i miriarchi poi avevano scelto gli
ufficiali dei gruppi di cento e di dieci soldati. C'erano poi altri ufficiali
subalterni dei corpi e dei popoli. 82) I comandanti erano dunque quelli nominati. Ma su di loro
e sulla fanteria tutta l'autorità l'avevano Mardonio figlio di Gobria,
Tritantecme, figlio di quell'Artabano che aveva proposto di rinunciare alla
guerra contro la Grecia, Smerdomene, figlio di Otane (questi ultimi due
entrambi figli di fratelli di Dario, e cugini di Serse), Masiste, figlio di
Dario e di Atossa, Gergite figlio di Ariazo e Megabisso figlio di Zopiro. 83) Costoro erano gli strateghi dell'intera fanteria,
esclusi i Diecimila. I Diecimila soldati persiani scelti erano agli ordini di
Idarne figlio di Idarne. Questi Persiani si chiamavano Immortali per la
seguente ragione: se uno di loro veniva a mancare al numero, colpito da morte
o da malattia, ne veniva scelto al suo posto un altro, sicché non erano mai
né più né meno di diecimila. Il maggior lusso lo esibivano i Persiani,
che erano anche i più forti. Il loro abbigliamento era quello
descritto, ma inoltre si distinguevano per il molto, moltissimo oro che
avevano addosso. Conducevano con sé carrozze e in esse concubine e numerosi
domestici, ben equipaggiati. I viveri, separati da quelli degli altri
soldati, glieli portavano cammelli e bestie da soma. 84) Tutti questi popoli vanno a cavallo, non tutti
però fornivano cavalleria; solo i seguenti. C'erano i Persiani,
equipaggiati esattamente come i loro fanti, tranne che alcuni di loro avevano
in testa elmi di bronzo e di ferro battuto. 85) Ci sono dei nomadi, chiamati Sagarti, persiani di stirpe
e di lingua, il cui abbigliamento è una via di mezzo fra quello dei
Persiani e quello dei Patti; essi fornivano ottomila cavalieri. Non sono
soliti portare armi né di bronzo né di ferro, all'infuori di pugnali;
però maneggiano corde fatte di lacci intrecciati, e a esse si affidano
scendendo in guerra. Ecco come combatte questa gente: quando si scontrano coi
nemici, lanciano queste corde, che terminano con un nodo scorsoio: il
malcapitato, uomo o cavallo, lo tirano a sé: e li uccidono impigliati
così, nei lacci. 86) Questo è il loro modo di combattere; ed erano
inseriti nel contingente persiano. I cavalieri Medi erano equipaggiati come i
fanti; e lo stesso i Cissi. Gli Indiani avevano la stessa dotazione dei fanti
e guidavano destrieri e carri; ai carri erano aggiogati cavalli e asini
selvatici. I Battriani erano armati come i loro fanti. Ugualmente i Caspi.
Anche i Libici non differivano dai rispettivi fanti e anch'essi conducevano
tutti dei carri. A loro volta i Caspi e i Paricani erano equipaggiati come i
soldati a piedi. Gli Arabi pure, e tutti montavano cammelli che per
velocità non erano inferiori a cavalli. 87) Solo questi popoli formavano la cavalleria, i cui
effettivi assommavano a ottantamila unità, senza contare i cammelli e
i carri. Gli altri cavalieri erano ordinati per squadroni, gli Arabi venivano
per ultimi: li avevano dislocati in fondo, perché gli equini, che non
sopportano i cammelli, non si spaventassero. 88) La cavalleria era agli ordini di Armamitre e Titeo,
figli di Dati. Il terzo responsabile del comando, Farnuco, era stato lasciato
a Sardi ammalato; infatti, quando stavano partendo da Sardi ebbe un incidente
indesiderato: era in sella quando un cane sgusciò fra le zampe del suo
cavallo, il quale, non avendolo visto prima, si spaventò e, impennatosi,
sbalzò a terra Farnuco; Farnuco, in seguito alla caduta, vomitò
sangue e il male gli degenerò in consunzione. I servi inflissero
subito al cavallo il trattamento da lui ordinato: lo condussero nel punto
dove aveva disarcionato il padrone e gli mozzarono le zampe ai garretti.
Così Farnuco fu esonerato dal comando. 89) Il numero delle triremi era di 1207; ed ecco chi le
fornì: trecento i Fenici, con i Siri della Palestina, così
equipaggiati: a difesa della testa portavano elmi di fattura molto simile
alla greca, indosso corazze di lino; erano armati di scudi privi di orlo e di
giavellotti. Anticamente questi Fenici, come essi stessi raccontano, erano
stanziati sul mare Eritreo, dal quale, attraversata la Siria, partirono per
stabilirsi sulle nostre coste, in una parte della Siria, fino all'Egitto, che
si chiama tutta Palestina. Gli Egiziani fornivano duecento navi; portavano
sul capo elmi a maglie di ferro, scudi concavi dagli ampi orli, lance adatte
a combattimenti sul mare, grosse asce. La maggior parte di loro era munita di
corazza e armata di coltellacci. 90) Così erano equipaggiati. I Ciprioti fornirono 150
navi ed erano abbigliati come segue: i loro re avevano il capo avvolto in una
mitria, gli altri portavano chitoni; per il resto vestivano come i Greci. A
Cipro ecco quante popolazioni vi sono: alcuni vengono da Salamina e Atene,
altri dall'Arcadia, altri da Citno, dalla Fenicia, dall'Etiopia, a quanto
raccontano i Ciprioti stessi. 91) I Cilici fornirono cento navi. Essi portavano sul capo
elmi del loro paese, avevano scudi leggeri fatti di pelle di bue non conciata
e indossavano chitoni di lana; erano muniti di due giavellotti ciascuno e di
una spada, molto simile alle lame egiziane; essi un tempo si chiamavano
Ipachei, poi presero il loro nome da Cilico figlio del fenicio Agenore. I
Panfili diedero trenta navi ed erano armati alla greca. Questi Panfili
discendevano dagli uomini che di ritorno da Troia si dispersero assieme ad
Anfiloco e Calcante. 92) I Lici fornirono cinquanta navi; indossavano corazze e schinieri,
avevano archi di corno e frecce di canna senza piume e giavellotti; inoltre
pelli di capra appese alle spalle, e sulla testa berretti ornati da un
diadema di penne. Usavano pugnali e scimitarre; i Lici, originari di Creta,
si chiamavano Termili, ma presero poi nome da Lico, figlio dell'ateniese
Pandione. 93) I Dori d'Asia fornirono trenta navi, erano originari del
Peloponneso e muniti di armamento greco. I Cari misero a disposizione
settanta navi; erano equipaggiati per il resto come i Greci, ma avevano
scimitarre e pugnali. Come essi si chiamassero precedentemente, l'ho detto
già nel mio primo libro. 94) Cento navi appartenevano agli Ioni, abbigliati come
Greci. Gli Ioni, per tutto il tempo che abitarono nel Peloponneso la regione
oggi detta Acaia, prima che Danao e Xuto giungessero nel Peloponneso (secondo
i racconti dei Greci), si chiamavano Pelasgi Egialei; poi Ioni, da Ione
figlio di Xuto. 95) Gli isolani fornirono diciassette navi, ed erano armati
alla greca. Anch'essi, già popolo pelasgico, più tardi furono
detti Ioni per la stessa ragione degli Ioni della Dodecapoli venuti da Atene.
Gli Eoli diedero sessanta navi: erano vestiti come Greci; un tempo,
raccontano i Greci, si chiamavano Pelasgi. Gli abitanti dell'Ellesponto, meno
i cittadini di Abido (che ricevettero dal re l'ordine di restare dov'erano
per sorvegliare i ponti) e tutti gli altri del Ponto che prendevano parte
alla spedizione fornirono cento navi; erano equipaggiati come i Greci. E
questi erano coloni degli Ioni e dei Dori. 96) Su tutte le navi erano imbarcati Persiani Medi e Saci.
Le navi che in assoluto tenevano meglio il mare le fornirono i Fenici, e, tra
i Fenici, quelli di Sidone. Tutti costoro e tutti quelli inquadrati
nell'esercito di terra avevano comandanti locali; ma io non li nomino,
giacché nulla mi obbliga a farlo ai fini della mia ricerca. In effetti non di
ogni popolo i capi erano degni di venir ricordati, e in ogni popolo vi erano
tanti capi quante erano le città. E poi seguivano la spedizione non da
generali, ma alla stregua degli altri servi arruolati, giacché gli strateghi
dotati di pieni poteri e i comandanti dei singoli reparti nazionali, quanti
erano persiani, li ho già menzionati. 97) La flotta era agli ordini dei seguenti ammiragli:
Ariabigne, figlio di Dario, Pressaspe, figlio di Aspatine, Megabazo, figlio
di Megabate, e Achemene, figlio di Dario. Ariabigne, figlio di Dario e della
figlia di Gobria, comandava i contingenti ionico e cario, Achemene, che era
fratello di Serse da parte di padre e di madre, quello egiziano, gli altri
due il resto dell'armata. Le trieconteri, le penteconteri, il naviglio e i
battelli leggeri per il trasporto dei cavalli, convenuti per la rassegna,
risultarono tremila. 98) Sulle navi, dopo gli ammiragli, questi erano gli uomini
più illustri: Tetramnesto figlio di Aniso, da Sidone; Matten figlio di
Siromo, da Tiro; Merbalo figlio di Acbalo da Arado; Siennesi figlio di
Oromedonte, dalla Cilicia; Cibernisco figlio di Sica, dalla Licia; Gorgo
figlio di Chersi e Timonatte figlio di Timagora, da Cipro; Istieo figlio di
Timni, Pigrete figlio di Isseldomo e Damasitimo figlio di Candaule, dalla
Caria. 99) Degli altri tassiarchi non faccio menzione, non essendo
necessario, ma di Artemisia sì: per lei, che, donna, partì per
la guerra contro la Grecia, provo ammirato stupore: dopo la morte del marito
reggeva sulle sue spalle il potere, giacché aveva un figlio troppo giovane, e
partecipava alla spedizione per la sua determinazione e il suo coraggio
virile, senza che nulla ve la costringesse. Si chiamava Artemisia ed era
figlia di Ligdami, di stirpe alicarnassea per parte di padre, cretese per
parte di madre. Il suo dominio abbracciava Alicarnasso, Coo, Nisiro e i
Calidni; fornì cinque navi. E fornì le più pregevoli di
tutta quanta la flotta, dopo quelle di Sidone, s'intende, e allo stesso modo
fra tutti gli alleati diede al re i consigli migliori. Rendo noto che la
popolazione delle città su cui ho dichiarato che comandava era di
stirpe dorica: gli Alicarnassei sono originari di Trezene, gli altri di
Epidauro. E per la flotta basti quanto ho detto. 100) A Serse, poi, quando le truppe furono contate e
schierate, venne desiderio di passarle in rassegna e osservarle
personalmente. E poco dopo lo fece: transitando su di un cocchio accanto a
ogni popolo, prendeva informazioni che gli scrivani registravano, finché
passò da un capo all'altro sia della cavalleria sia della fanteria.
Finito che ebbe, e messe in mare le navi, allora Serse scese dal cocchio e
salì a bordo di un vascello di Sidone; sedette sotto una tenda dorata
e sfilò accanto alle prue delle navi, chiedendo informazioni di
ciascuna, come aveva fatto per l'esercito di terra, e facendole trascrivere.
I navarchi avevano condotto le navi a quattro pletri dalla spiaggia e le
tenevano all'ancora; avevano fatto volgere le prore verso la riva, in linea,
e armare gli equipaggi in assetto di guerra. Serse osservava navigando nello
specchio di mare fra le prue e la spiaggia. 101) Passate in rassegna anche le navi, e sceso di nuovo a
terra, Serse cercò di Demarato figlio di Aristone, che lo seguiva
nella spedizione contro la Grecia, lo chiamò e gli disse:
"Demarato, ora mi è gradito chiederti quanto desidero sapere; tu
sei greco, e, come apprendo da te e dagli altri Greci venuti a parlare con
me, di una città che non è né la più piccola né la meno
forte. Pertanto spiegami un po' questo: i Greci opporranno resistenza
levandosi in armi contro di me? In effetti, a mio parere, neppure se tutti i
Greci e tutti i rimanenti abitanti dell'occidente si coalizzassero, sarebbero
in grado di resistere al mio attacco, a meno che non agissero con autentica
coesione. Voglio dunque sentire la tua opinione, qualunque sia, su di
loro". Serse gli pose questa domanda e Demarato a sua volta gli chiese:
"Devo rispondere sinceramente o in modo da farti piacere?". Serse
gli ordinò di dire la verità, rassicurandolo che non avrebbe
minimamente perso, per questo, il suo favore. 102) Udito ciò, Demarato disse: "Sovrano, visto
che mi ordini di rispondere con assoluta franchezza, parlando in modo che tu
non possa più tardi scoprirmi mendace, sappi che ai Greci è
sempre compagna la povertà, ma a essa si aggiunge la virtù,
resa più salda dall'ingegno e da una legge severa; grazie alla sua
virtù la Grecia si difende dalla povertà e dall'asservimento.
La mia lode va dunque a tutti i Greci che abitano laggiù, nelle
regioni doriche, però ora non mi riferirò a tutti loro, ma solo
agli Spartani; primo: è impossibile che accettino mai i tuoi discorsi,
che comportano schiavitù della Grecia; secondo: ti affronteranno in
battaglia anche se tutti gli altri Greci passeranno dalla tua parte. Il loro
numero? Non chiedere quanti siano per osare agire così; che siano
mille sul campo di battaglia, o di più o di meno, altrettanti
combatteranno contro di te". 103) Al che Serse scoppiò a ridere ed esclamò:
"Demarato, cosa blateri! Si batteranno in mille contro un esercito
così grande? Spiegami un po': dichiari di essere stato loro re; quindi
tu saresti disposto ad affrontare subito dieci uomini? Anzi, se la vostra
comunità è tale quale la descrivi, a te che sei il loro re,
spetta di battersi contro un numero doppio di uomini, conforme alle vostre
leggi. E sì, se ciascuno di loro vale dieci soldati del mio esercito,
allora tu, deduco, ne vali venti; così sì mi tornerebbe il
discorso che mi hai fatto. Però se voi, tali e di tanta stazza quanto
tu e i Greci che frequentano la mia corte, se voi vi vantate così,
bada che le tue parole non risultino una inutile spacconata. Ma ragioniamo un
po' secondo logica: mille, diecimila o cinquantamila uomini, tutti liberi e
uguali, senza avere un unico capo, come riuscirebbero a opporsi a un esercito
sterminato come il mio? Perché noi siamo più di mille per ciascuno di
loro, se loro sono cinquemila. Se obbedissero a un'unica persona, alla nostra
maniera, potrebbero avere paura di lui e diventare migliori di quanto siano
per loro propria natura, e avanzare, costretti dalla frusta, anche essendo
meno del nemico. Ma, lasciati liberi, non farebbero nulla di questo. Io, per
me, credo che difficilmente i Greci, anche se fossero in numero a noi pari,
potrebbero battersi contro i soli Persiani; ma poi, via, solo fra di noi
c'è un po' di quello che tu dici, un po', non molto. Sì, fra i
miei lancieri persiani ne esistono di disposti a battersi contro tre Greci
assieme; tu non ne hai mai fatto la prova e parli a vanvera". 104) Al che Demarato replicò: "Sovrano,
già lo sapevo che dicendo la verità non ti avrei dato una
risposta gradita; ma poiché mi hai costretto a parlare con la massima sincerità,
ti ho detto come stanno le cose per gli Spartiati. Eppure sai bene quale
affetto mi leghi a essi, che mi hanno privato dell'onore e delle
dignità di mio padre e mi hanno reso un esule, un senza patria; e sai
che fu tuo padre ad accogliermi, a darmi i mezzi per vivere e una casa. Non
è plausibile che un uomo assennato respinga la benevolenza che gli
mostrano, è naturale anzi il contrario, che l'accetti di buon cuore.
Io non ti garantisco di essere in grado di affrontare né dieci uomini né due;
dipendesse da me, non mi batterei nemmeno contro uno solo. Ma se vi fossi
costretto o mi spingesse un grande cimento, fra tutti preferirei senz'altro
combattere contro uno di questi uomini che pensano di valere ciascuno tre
Greci. Così sono gli Spartani: individualmente non sono inferiori a
nessuno, presi assieme sono i più forti di tutti. Sono liberi,
sì, ma non completamente: hanno un padrone, la legge, che temono assai
più di quanto i tuoi uomini temano te; e obbediscono ai suoi ordini, e
gli ordini sono sempre gli stessi: non fuggire dal campo di battaglia,
neppure di fronte a un numero soverchiante di nemici; restare al proprio
posto e vincere, oppure morire. Se ti pare che queste mie siano tutte
chiacchiere, d'ora in poi voglio tacere. Adesso ho parlato perché mi ci hai
costretto. Comunque, sovrano, tutto accada secondo i tuoi desideri". 105) Così rispose Demarato; Serse volse le sue parole
in riso e non si arrabbiò per nulla: serenamente lo congedò.
Dopo il colloquio avuto con lui, Serse nominò governatore di Dorisco,
dove si trovavano, Mascame figlio di Megadoste, al posto del governatore
insediatovi da Dario, e spinse l'esercito attraverso la Tracia, contro la
Grecia. 106) Mascame, l'uomo che lasciò lì, aveva
qualità tali per cui era l'unico al quale Serse inviasse dei doni,
stimandolo il migliore di tutti i governatori mai nominati da lui o da Dario;
glieli spediva ogni anno, e così fece anche Artaserse, figlio di
Serse, nei confronti dei discendenti di Mascame. In effetti, già prima
di questa spedizione, governatori erano stati insediati in Tracia e un po'
dovunque nella regione dell'Ellesponto. Tutti quelli di Tracia e
dell'Ellesponto, tranne il responsabile di Dorisco, furono poi scacciati dai
Greci in epoca successiva a questa spedizione. Quello di Dorisco, Mascame,
nessuno mai riuscì a mandarlo via, benché molti ci avessero provato.
Per questo gli arrivano doni dai re di volta in volta sul trono di Persia. 107) Di quelli scacciati dai Greci non ce n'era uno che Serse
stimasse uomo di valore, tranne Boge di Eione. Non smise mai di elogiarlo e
trattò con grandi onori i figli suoi che vivevano in Persia, perché
Boge si era comportato in modo davvero degno di lode: assediato dagli
Ateniesi e da Cimone figlio di Milziade, pur potendo venire a patti, andarsene
via e tornare in Asia, non volle farlo, perché il re non lo credesse scampato
per vigliaccheria e resistette fino all'ultimo. Quando ormai non c'era
più cibo entro la cerchia delle mura, preparato un gran rogo, uccise
figli, moglie, concubine e servitori e poi li gettò nel fuoco; quindi
disseminò giù dalle mura nello Strimone tutto l'oro e l'argento
che c'erano in città. Ciò fatto, si lanciò tra le
fiamme. E così, giustamente, è esaltato ancora oggi dai
Persiani. 108) Da Dorisco Serse marciava contro la Grecia e costringeva
a unirsi al suo esercito tutte le genti che incontrava sul cammino. Come ho
precedentemente chiarito, tutte le terre fino alla Tessaglia erano già
state sottomesse e obbligate a pagare tributi al re grazie alle conquiste di Megabazo
e più tardi di Mardonio. Partiti da Dorisco, toccarono per prime le
roccaforti dei Samotraci, l'ultima delle quali verso occidente è una
città che si chiama Mesambria. Confina con essa una città dei
Tasi, Strime; fra le due scorre il fiume Liso, che in quella circostanza non
bastò a rifornire d'acqua l'esercito di Serse e rimase asciutto.
Questa regione anticamente si chiamava Gallaica, oggi è detta
Briantica; per altro, per dire le cose con vera giustizia, anch'essa
appartiene ai Ciconi. 109) Attraversato il letto ormai secco del fiume Liso, si
lasciò dietro le città greche di Maronia, Dicea e Abdera.
Superò queste città e, accanto a esse, i seguenti rinomati
laghi: l'Ismaride, fra Maronia e Strime, e il Bistonide, presso Dicea, nel
quale sfociano due fiumi, il Trauo e il Compsato; all'altezza di Abdera Serse
non oltrepassò alcun lago famoso, ma il fiume Nesto, che scorre verso
il mare. Procedendo oltre queste regioni, toccò le città
continentali dei Tasi; nel territorio di una di esse si trova un lago ricco
di pesci e alquanto salmastro, il cui perimetro misura circa trenta stadi. Le
bestie da soma che sole vi si abbeverarono bastarono a prosciugarlo; la
città in questione si chiama Pistiro. 110) Serse avanzò lasciandosi a sinistra queste
città costiere popolate da Greci. Ecco i popoli traci di cui
attraversò il territorio: i Peti, i Ciconi, i Bistoni, i Sapei, i
Dersei, gli Edoni e i Satri. Di queste genti quanti vivevano sulla costa lo
seguirono sulle navi, quelli residenti nell'interno e da me già elencati,
tutti, eccetto i Satri, furono costretti ad aggregarsi all'esercito di terra.
111) I Satri, per quanto ne sappiamo, non si sottomisero mai
a nessuno, e fino ai giorni miei continuano a essere gli unici indipendenti
fra i Traci: in effetti abitano alte montagne coperte di foreste di ogni
sorta e di neve e sono fortissimi in guerra. Sono essi a possedere l'oracolo
di Dioniso; e questo oracolo sorge sulle più alte montagne. Fra i
Satri hanno funzione di profeti i Bessi, ma l'indovino che pronuncia i responsi
è una donna, proprio come a Delfi, e in modo per nulla più
intricato. 112) Superata la suddetta regione, Serse raggiunse le
roccaforti dei Pieri, che si chiamano l'una Fagre e l'altra Pergamo.
Passò proprio accanto a queste città lasciandosi a destra il
monte Pangeo, che è vasto ed elevato e in cui si trovano miniere d'oro
e d'argento sfruttate da Pieri, da Odomanti e soprattutto da Satri. 113) Lasciatosi alle spalle il paese dei Peoni, dei Doberi e
dei Peopli, che risiedono oltre il Pangeo verso nord, Serse proseguì
in direzione ovest fino al fiume Strimone e alla città di Eione, retta
allora da quel Boge di cui ho parlato poco sopra, a quell'epoca ancora vivo.
La regione intorno al monte Pangeo si chiama Fillide e si estende verso ovest
fino al fiume Angite, affluente dello Strimone, e verso sud fino allo
Strimone stesso, dove i Magi trassero auspici offrendo in sacrificio candidi
cavalli. 114) Compiuto nel fiume questo rito e molti altri ancora,
proseguirono in località Nove Vie degli Edoni, passando sui ponti
(avevano trovato lo Strimone già attrezzato). Apprendendo che il luogo
si chiamava Nove Vie, vi seppellirono vivi altrettanti ragazzi e ragazze del
luogo. È costume persiano questo di seppellire persone vive, giacché
so che anche Amestri, la moglie di Serse, ormai in tarda età, si
propiziò il dio che si dice sia sottoterra, facendo seppellire
quattordici fanciulli persiani. 115) Dallo Strimone in avanti, verso occidente, comincia una
spiaggia, dove l'esercito in marcia superò la città greca di Argilo
che vi sorge; la costa e la regione soprastante si chiamano Bisaltia. Di
là l'esercito, lasciandosi a sinistra il golfo del tempio di Posidone,
procedette attraverso la pianura detta Silea, superò la città
greca di Stagira, e giunse ad Acanto, annoverando ormai tra le sue file
ciascuno di questi popoli e di quelli stanziati intorno al monte Pangeo, come
pure di quelli più sopra elencati: le genti stanziate sulla costa
vennero arruolate nella flotta, le genti dell'interno assegnate alle truppe
di terra. Il percorso lungo il quale Serse spinse il suo esercito i Traci non
lo lavorano né lo seminano: ne fanno ancora oggi oggetto di autentica
venerazione. 116) Appena giunse ad Acanto, Serse ne proclamò suoi
ospiti gli abitanti, regalò loro una veste di foggia meda, e li
copriva di elogi, vedendoli pieni di entusiasmo per la guerra e sentendo del
canale. 117) Mentre Serse soggiornava ad Acanto, venne a morire di
malattia l'uomo che sovrintendeva ai lavori di scavo, Artachea, persona assai
stimata da Serse e di stirpe Achemenide: era il più alto di statura
fra i Persiani (cinque cubiti reali meno quattro dita) e dotato della voce
più tonante del mondo. Sicché Serse, profondamente addolorato, gli
tributò splendidi funerali e una magnifica sepoltura: tutto l'esercito
contribuì a erigere il tumulo. Per ordine di un oracolo gli Acanti
compirono sacrifici in onore di Artachea come a un eroe, invocandone il nome.
118) Il re Serse, provò davvero molta tristezza per la
morte di Artachea. I Greci che dovevano accogliere l'esercito e offrire il
pasto a Serse si ridussero così male da essere costretti a lasciare le
loro case; tanto è vero che ai cittadini di Taso che avevano accolto e
ospitato l'esercito di Serse a nome delle loro città sul continente,
Antipatro figlio di Orgeo, prescelto a tale scopo in quanto cittadino
più di ogni altro illustre, dimostrò di avere speso per il
banchetto quattrocento talenti d'argento. 119) E una cifra molto vicina denunciarono anche i cittadini designati
nelle altre città. In effetti il pasto, in quanto ordinato con ampio
preavviso e tenuto in gran considerazione, veniva così preparato.
Intanto i cittadini, appena informati dagli araldi che diffondevano l'avviso,
si dividevano in città il frumento e tutti preparavano farina d'orzo e
di grano, per parecchi mesi; poi ingrassavano animali, i più belli e
pregiati che trovavano, e nutrivano uccelli da cortile o da palude in gabbie
e laghetti, per ricevere ospitalmente le truppe; inoltre fabbricavano in oro
e argento coppe, crateri e tutti gli altri oggetti che si pongono sulla
tavola. Questo si faceva per il re e i suoi commensali, per il resto
dell'esercito l'ordine riguardava solo le vivande. Ogni volta che arrivava
l'esercito, c'era lì pronta e drizzata una tenda, sotto la quale si
fermava Serse personalmente, mentre il resto della truppa se ne stava
all'aperto. Appena veniva l'ora del pasto, gli ospitanti si accollavano la
fatica, gli altri invece si rimpinzavano; trascorrevano lì la notte, e
il giorno dopo se ne andavano, non prima di aver asportato la tenda e
depredato tutte le suppellettili: portavano via tutto, non lasciavano nulla. 120) Allora risuonò felice la battuta di un uomo di
Abdera, Megacreonte; egli invitò i suoi concittadini a recarsi ai
templi tutti assieme, uomini e donne, a piazzarsi là come supplici e a
pregare gli dèi che anche per il futuro stornassero da loro la
metà delle sciagure incombenti; quanto ai mali passati ringraziassero
solennemente gli dèi, del fatto che il re Serse non era abituato a
consumare due pasti al giorno; perché se ai cittadini di Abdera avessero
ingiunto di preparare anche un pasto di mezzogiorno pari alla cena, o non
avrebbero atteso l'arrivo di Serse, oppure, rimasti lì, si sarebbero
ridotti nella miseria più nera. 121) Essi comunque, benché gli pesasse parecchio, eseguirono
l'ordine. Da Acanto Serse lasciò che le navi si allontanassero da lui,
dopo aver dato ordine ai comandanti della flotta di attenderlo a Terme (una
città sul golfo Termaico, che da essa prende nome): aveva saputo che
da questa parte il percorso era più breve. In effetti da Dorisco ad
Acanto le truppe avevano marciato nel seguente schieramento: Serse, diviso
tutto l'esercito di terra in tre parti, aveva stabilito che una, agli ordini
di Mardonio e Masiste, costeggiasse la riva assieme alla flotta, un'altra,
guidata da Tritantecme e Gergite, doveva avanzare mantenendosi nell'interno;
la terza, invece, con la quale viaggiava lo stesso Serse, procedere fra le
altre due, avendo per comandanti Smerdomene e Megabisso. 122) Quando la flotta congedata da Serse ebbe percorso il
canale aperto nell'Athos, che immetteva nel golfo su cui sorgono le
città di Assa, Piloro, Singo e Sarte, da lì, raccolte truppe
anche in queste città, navigò senza più impacci dritta
verso il golfo di Terme. Doppiando il capo Ampelo nel paese di Torone
toccò le seguenti città greche (dalle quali prese navi e
soldati): Torone, Galepso, Sermila, Meciberna e Olinto. 123) Questa regione si chiama Sitonia; la flotta di Serse tagliò
dal capo Ampelo al promontorio Canastro, il più sporgente in mare di
tutto il territorio di Pallene; poi ricevette navi e truppe da Potidea,
Afiti, Neapoli, Ege, Terambo, Scione, Mende e Sane; queste appunto sono le
città che sorgono nella regione detta oggi Pallene e un tempo Flegra.
Costeggiando anche questa regione, la flotta si diresse alla meta prefissata,
imbarcando uomini ancora dalle città vicine alla Pallenia e confinanti
col golfo Termaico, i cui nomi sono: Lipasso, Combrea, Lise, Gigono, Campsa,
Smila ed Enea; il loro paese si chiamava e si chiama ancora Crossea. Dopo
Enea, ultima delle città che ho elencato, la flotta procedette verso
il golfo Termaico e la Migdonia; la navigazione proseguì fino alla
città indicata, Terme, e fino a Sindo e Calestre sul fiume Assio, che
segna il confine fra la Migdonia e la Bottiea. La fascia costiera della
Bottiea, assai stretta, appartiene alle città di Icne e di Pella. 124) La flotta dunque stazionò lì, nei pressi
dell'Assio, di Terme e delle città poste nel mezzo, aspettando il re.
Serse con l'esercito di terra marciava da Acanto tagliando verso l'interno,
intenzionato a raggiungere Terme. Viaggiò attraverso la Peonia e la
Crestonia fino al fiume Echidoro, che, provenendo dal paese dei Crestonei, scorre
attraverso la Migdonia e sbocca presso la palude sul fiume Assio. 125) Mentre marciava in questa zona, dei leoni gli assalirono
i cammelli che trasportavano le vettovaglie: i leoni calavano di notte,
lasciando le loro tane, e non assalivano nessun altro, né animale né essere
umano: solo dei cammelli facevano strage. E mi chiedo stupito che cosa
spingesse i leoni a risparmiare gli altri e ad attaccare i cammelli, animali
che non avevano mai visto né conosciuto. 126) In queste regioni vi sono sia leoni in gran numero sia
buoi selvatici, le cui lunghissime corna sono quelle che si importano in
Grecia. Linea di confine per i leoni sono il fiume Nesto, che attraversa
Abdera, e l'Acheloo che bagna l'Acarnania; infatti né in alcuna parte
dell'Europa a oriente del Nesto né a ovest dell'Acheloo, nel resto del
continente, si può vedere un leone; ma nel territorio compreso fra i
due fiumi ce ne sono. 127) Appena giunto a Terme, Serse vi si attendò; ecco
quanta parte della zona costiera l'esercito colà accampato occupava: a
partire dalle città di Terme e di Migdonia fino ai fiumi Lidio e
Aliacmone, che segnano il confine fra il paese di Bottiea e la Macedonia,
mescolando le loro acque in un unico corso. I barbari erano accampati dunque
in questa regione; dei fiumi suddetti l'unico che non bastò a
rifornire d'acqua l'esercito e che rimase asciutto fu l'Echidoro, che
proviene dal paese dei Crestonei. 128) Serse, scorgendo da Terme i monti della Tessaglia,
l'Olimpo e l'Ossa, che sono altissimi, saputo che in mezzo a essi c'è
una stretta gola, dove scorre il Peneo, e sentendo dire che di lì
passava la strada per la Tessaglia, provò desiderio di andare a vedere
con una nave la foce del Peneo; ciò perché si apprestava a marciare
lungo la strada più interna tra le genti macedoni stanziate di sopra,
verso i Perrebi, accanto alla città di Gonno: questo riteneva che
fosse il percorso più sicuro. Poiché provava quel desiderio, volle
soddisfarlo. Salì su di una nave di Sidone, su cui si imbarcava ogni
volta che voleva fare qualcosa del genere, diede anche agli altri il segnale
di levare l'ancora e lasciò l'esercito di terra dov'era. Arrivato a
destinazione e osservata la foce del Peneo, Serse fu preso da un grande
stupore: chiamò le guide del viaggio e chiese loro se era possibile
deviare il fiume e farlo sfociare in mare in un altro punto. 129) Si racconta che un tempo la Tessaglia fosse un lago,
serrata com'è tutto intorno da altissime montagne: il Pelio e l'Ossa,
unendo le rispettive vette, ne sbarrano la parte orientale, l'Olimpo la
settentrionale, il Pindo la chiude a ovest e l'Otris a sud, verso il vento di
Noto. La regione compresa fra le suddette montagne, una conca, è la
Tessaglia. Sicché, dato che vi affluiscono parecchi altri fiumi oltre ai
cinque più notevoli, cioè il Peneo, l'Apidano, l'Onocono,
l'Enipeo e il Pamiso, essi convengono con nomi diversi in questa pianura
dalle montagne che circondano la Tessaglia e sboccano nel mare attraverso una
unica e stretta gola, mescolando le loro acque in un'unica corrente; dal
punto di confluenza in avanti ormai il Peneo prevale col proprio nome e
cancella quello degli altri. Ma si dice che un tempo, quando questa gola e
questo sbocco non c'erano, tali fiumi e in più il lago Bebiade non
avessero i nomi attuali e però scorressero non meno di ora e che con
le loro acque rendessero la Tessaglia tutta un mare. I Tessali dal canto loro
sostengono che fu Posidone a creare la gola in cui scorre il Peneo, e non
è inverosimile; infatti, chiunque creda che sia Posidone a scuotere la
terra e attribuisca a questo dio le fenditure provocate dal terremoto,
vedendo quella gola potrebbe ben dirla opera di Posidone. In effetti la
separazione di quelle montagne, come mi parve chiaro, è conseguenza di
un terremoto. 130) Le guide, alla domanda di Serse se esisteva un altro
sbocco del Peneo in mare, da buoni esperti risposero: "Sovrano, questo
fiume non ha altra via d'uscita che giunga al mare; c'è solo questa.
La Tessaglia è tutta circondata da una corona di montagne". Al
che sembra che Serse abbia replicato: "Sono saggi i Tessali. Per questo
dunque si sono premuniti assoggettandosi: fra l'altro perché occupavano una
regione facile da occupare, conquistabile in pochissimo tempo. Basterebbe,
infatti, convogliare il fiume contro il loro paese, facendolo rifluire dalla
gola e deviare dall'attuale corso per mezzo di una diga, così da
sommergere tutta la Tessaglia tranne le montagne". Parlava così
alludendo ai discendenti di Aleva, perché, primi fra i Greci (erano Tessali),
si erano sottomessi al re, e Serse credeva che gli promettessero amicizia a
nome di tutto il popolo. Detto ciò e presa visione dei luoghi, se ne
tornò a Terme. 131) In Pieria Serse trascorse diverse giornate; infatti un
terzo delle truppe era impegnato a disboscare la montagna macedone, perché
tutto l'esercito potesse inoltrarsi per quella via nel paese dei Perrebi.
Tornarono gli araldi, inviati in Grecia a chiedere terra, chi a mani vuote,
chi portando terra e acqua. 132) Fra quelli che avevano ceduto c'erano i Tessali, i
Dolopi, gli Eniani, i Perrebi, i Locresi, i Magneti, i Maliesi, gli Achei
della Ftiotide, i Tebani e gli altri Beoti tranne i Tespiesi e i Plateesi.
Contro costoro i Greci che si erano assunti la guerra contro il barbaro
pronunciarono un solenne giuramento che suonava così: tutti quelli
che, pur essendo Greci, si erano arresi al Persiano senza esservi costretti,
appena ristabilita la situazione sarebbero stati obbligati a pagare la decima
al dio di Delfi. Così suonava il giuramento dei Greci. 133) Ad Atene e a Sparta Serse non inviò araldi a
chiedere terra per le seguenti ragioni: quando in precedenza Dario aveva
inviato identica richiesta, gli Ateniesi avevano gettato i messi nel baratro,
gli Spartani in un pozzo, con l'invito a prendere da lì terra e acqua
per portarla al re. Ecco perché Serse non mandò a essi dei messaggeri.
Non so dire quale spiacevole conseguenza sia toccata agli Ateniesi per avere
agito così contro gli araldi, se non che il loro paese e la loro
città furono poi devastati; ma non credo che ciò sia accaduto
per quella ragione. 134) Invece sugli Spartani ricadde l'ira di Taltibio,
l'araldo di Agamennone. Infatti a Sparta c'è un santuario di Taltibio
e ci sono suoi discendenti, che si chiamano Taltibiadi, cui tocca il
privilegio onorifico di tutte le ambascerie inviate da Sparta. Dopo gli
avvenimenti suddetti, gli Spartiati, quando sacrificavano, non riuscivano a
ottenere auspici favorevoli, e il fenomeno si protraeva a lungo. Poiché gli
Spartani, afflitti per questa loro sfortuna, spesso riunivano l'assemblea e chiedevano
tramite araldo se c'era uno Spartano disposto a immolarsi per la patria,
Spertia figlio di Aneristo e Buli figlio di Nicolao, Spartiati di nobili
natali e fra i primi per ricchezza, si offrirono spontaneamente di dare a
Serse soddisfazione per gli araldi di Dario uccisi a Sparta. E così
gli Spartani inviarono i due in Persia, a trovarvi una morte sicura. 135) Degni di ammirazione furono il coraggio di questi eroi e
inoltre le parole che ebbero a pronunciare. Mentre si recavano a Susa
giunsero presso Idarne; Idarne era di schiatta persiana e comandante generale
delle truppe costiere dell'Asia; egli offrì ai due Spartani un
banchetto ospitale e durante il convito chiese loro: "Spartani, perché
vi sottraete alla amicizia col re? Se guardate a me e alla mia condizione,
potete vedere come il re sappia onorare i valorosi. Così sarebbe anche
per voi, se fate atto di sottomissione al re (e già presso di lui
avete fama di essere uomini di valore): ciascuno di voi diventerebbe
governatore di un pezzo di Grecia, per designazione del re". A tali
parole replicarono i due: "Idarne, il consiglio che ci dai non è
imparziale: tu ci consigli avendo esperienza di una cosa e non dell'altra:
sai bene che cosa significhi essere schiavi, ma la libertà non l'hai
mai provata, non sai se è dolce o no. In effetti, se l'avessi provata,
ci inviteresti a difenderla non solo con le lance, ma persino con le
scuri". 136) Ecco cosa risposero a Idarne! Poi, saliti a Susa e
giunti al cospetto di Serse, intanto quando i dorifori ordinarono loro,
tentando di costringerli, di venerare il re prostrandosi davanti a lui,
dichiararono che non l'avrebbero mai fatto, neppure se gli avessero abbassato
la testa con la forza: non era loro costume adorare un essere umano e non
erano certo venuti per questo. Dopo aver rifiutato tale gesto, rivolsero al
re parole di questo tenore: "Re dei Medi, gli Spartani ci hanno mandato
qui a espiare la loro colpa nei confronti degli araldi uccisi a Sparta".
Al che Serse, con magnanimità, rispose che non avrebbe imitato gli
Spartani, che avevano violato le leggi del genere umano uccidendo degli
araldi: non avrebbe certo commesso il delitto che gli rinfacciava e non
avrebbe liberato gli Spartani dalla colpa ammazzando loro due per
rappresaglia. 137) Per questo atto degli Spartiati, benché Spertie e Buli
fossero tornati in patria, l'ira di Taltibio momentaneamente si placò.
Ma si ridestò molto tempo dopo, all'epoca della guerra fra
Peloponnesiaci e Ateniesi, come raccontano gli Spartani. Sembra evidente,
qui, un indiscutibile intervento divino. In effetti, che l'ira di Taltibio si
abbattesse sui messaggeri e non cessasse prima di aver trovato soddisfazione,
lo comportava giustizia; ma che ricadesse proprio sui figli degli uomini che
per tale ira si erano recati dal re, cioè su Nicolao figlio di Buli e
su Anaristo figlio di Spertia (l'uomo che approdò con una nave carica
di soldati ad Aliei e la prese con tutti i suoi abitanti originari di
Tirinto), questo poi, per me è chiaro, fu opera del cielo [a causa
dell'ira]. Essi infatti, inviati dagli Spartani in Asia come messaggeri,
furono traditi dal re dei Traci Sitalce, figlio di Tereo e da Ninfodoro
figlio di Piteo, un cittadino di Abdera, e arrestati presso Bisante
sull'Ellesponto; condotti in Attica, furono giustiziati dagli Ateniesi
insieme con Aristea figlio di Adimanto, cittadino di Corinto. Ma questi
avvenimenti si verificarono molti anni dopo la spedizione del re, e
perciò ora riprendo il filo del precedente racconto. 138) La spedizione del re, formalmente muoveva contro Atene,
ma in realtà era diretta contro tutta la Grecia. I Greci, che ne
avevano avuto notizia con largo anticipo, non tenevano la cosa tutti in ugual
conto: quanti avevano consegnato terra e acqua al re persiano confidavano di
non patire danno alcuno dal barbaro; quelli che non l'avevano fatto erano in
preda a un grande terrore, un po' perché in Grecia non c'erano navi
sufficienti a reggere l'urto dell'invasione, un po' perché le masse non erano
disposte a intraprendere la guerra e inclinavano volentieri a schierarsi coi
Medi. 139) A questo punto mi sento obbligato a esprimere una
opinione che i più respingeranno; tuttavia non mi asterrò dal
dire quella che a me pare una verità. Se gli Ateniesi, terrorizzati
dal pericolo incombente, avessero abbandonato il loro paese, o, senza
lasciarlo, pur rimanendovi, si fossero arresi a Serse, nessuno avrebbe
tentato di opporsi al re per mare. E se nessuno si fosse opposto a Serse sul
mare, ecco cosa sarebbe accaduto in terraferma. Anche se i Peloponnesiaci
avevano gettato molte cinta di mura da un capo all'altro dell'Istmo, gli
Spartani, traditi dagli alleati (non per cattiva volontà, ma
giocoforza, se le città capitolavano a una a una di fronte alla flotta
del re), gli Spartani sarebbero rimasti soli; e una volta soli, pur avendo
compiuto imprese eccezionali, sarebbero periti gloriosamente. O avrebbero
fatto questa fine, oppure, ancor prima, vedendo anche gli altri Greci passare
al nemico, si sarebbero accordati con Serse. E così, in entrambi i
casi, la Grecia sarebbe stata sottomessa ai Persiani. Perché le
fortificazioni erette sull'Istmo, non riesco a immaginare quale vantaggio
avrebbero fornito, se il gran re era padrone del mare. Pertanto chi
affermasse che gli Ateniesi furono i salvatori della Grecia, non si allontanerebbe
dal vero; qualunque decisione, delle due, avessero preso, avrebbe pesato in
maniera decisiva sul piatto della bilancia: essi decisero che la Grecia
sopravvivesse libera, e furono loro a svegliare quella parte del mondo greco
che non si era schierata coi Persiani, furono loro, con l'aiuto degli
dèi, s'intende, a respingere il re. Neppure terrificanti oracoli
provenienti da Delfi, che li gettavano nel panico, li indussero ad
abbandonare la Grecia: rimasero e si prepararono a resistere all'invasione
del loro paese. 140) A Delfi, infatti, gli Ateniesi avevano inviato degli
incaricati perché erano propensi a consultare l'oracolo: compiuti gli atti
rituali intorno al santuario, come entrarono e si sedettero nella sala, la
Pizia, che si chiamava Aristonice, pronunciò il seguente responso:.."O
sventurati, sedete? Fuggite ai confini del mondo! Dentro la cinta rotonda
lasciate le case e la rocca! Nulla rimane di lei che sia saldo, nè
capo nè tronco; L'ultime membra - i piedi e le mani e ogni cosa
del mezzo - Nulla è lasciato; ma viene distrutto, consunto dal fuoco!
L'impeto d'Ares assale su carro di Siria: rovina , Non della tua solamente,
ma ancor di molt'altre fortezze. E molti templi divini darà alla
violenza del fuoco, Che di sudore cosparsi si stanno tremanti d'angoscia:
Mentre dall'alto dei tetti atro sangue si versa,annunziando, Inevitabil
sciagure. Ora uscite con l'anima in lutto!"... (Sventurati, perché
state qui seduti? Fuggi ai limiti estremi del mondo lascia le case, le alte
cime della tua città a forma di ruota. Né la testa né il corpo restano
saldi né i piedi né le mani; e nulla di quel che c'è in mezzo rimane,
tutto è desolazione; la distruggono fuoco e l'impetuoso Ares, che
guida un carro assiro. Abbatterà numerose altre fortezze, non solo la
tua; darà al fuoco devastatore molti templi degli dèi, che
già ora si ergono trasudanti sudore, pallidi di paura; e giù
dagli altissimi tetti scorre sangue nero, presagio di sciagura inevitabile.
Uscite dal sacrario del dio; stendete sulle sciagure il vostro coraggio). 141)Udite queste parole, gli inviati ateniesi provarono un
profondo dolore; si erano già persi d'animo, quando Timone figlio di
Androbulo, uno fra i personaggi più ragguardevoli di Delfi,
suggerì loro di prendere rami da supplici e in tale veste presentarsi
una seconda volta a interrogare l'oracolo. Gli Ateniesi si lasciarono
convincere e dissero al dio: "Signore, dacci un responso più
favorevole per la nostra patria, per riguardo a questi rami da supplici, con
i quali siamo qui davanti a te; altrimenti non lasceremo più il
sacrario, ma resteremo qui finché non moriremo". Questo dichiararono; e
l'indovina pronunciò questo secondo vaticinio:.." Pallade
supplice con grave senno e con lunghi discorsi, Non può placare
l'Olimpi. Ma io ti dirò una parola, Irrevocabile: quando di Cecrope il
monte e i recessi, Del Citerone divino saranno conquisi, ad Atena,
L'Onniveggente concede che un muro di legno rimanga, Inviolato, riparo che
giovi per te e pei tuoi figli. E non restare in attesa tranquilla dei fanti e
cavalli, Che numerosi verranno da terra; ma cedi piuttosto, Dando le spalle:
affrontare più tardi potrai la battaglia. O Salamina divina! su te
molti figli di donna, Quando cosparsa sia Demetra, o venga raccolta,
morranno".... (Pallade non può propiziarsi Zeus Olimpio
benché lo preghi con molte parole e con astuta saggezza a te darò
questo secondo responso, rendendolo saldo come l'acciaio. Quando sarà
preso tutto ciò che è racchiuso fra il monte di Cecrope e i
recessi del divino Citerone, l'onniveggente Zeus concede alla Tritogenia che
resti intatto soltanto il muro di legno, che salverà te e i tuoi
figli. E tu non startene tranquillo ad attendere la cavalleria e la fanteria
che irrompono in massa dal continente; ritirati, volgi le spalle; un giorno verrà
in cui sarai di fronte al nemico. O divina Salamina, farai morire figli di
donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra). 142) Poiché queste parole erano e parevano più
benevole delle precedenti, le trascrissero e tornarono ad Atene. Quando gli
inviati, al loro arrivo, riferirono al popolo, fra quanti cercavano di
interpretare l'oracolo sorsero molti pareri diversi; ma cito i due più
contrastanti. Alcuni dei più anziani dicevano che, secondo loro, il
dio aveva predetto che l'acropoli si sarebbe salvata, dato che anticamente
l'acropoli di Atene, era difesa da uno steccato di graticci. Questo steccato,
secondo la loro interpretazione era il muro di legno; altri sostenevano che
il dio si riferiva alle navi ed esortavano ad allestirne e a lasciar perdere
il resto. Però quelli che spiegavano il muro di legno con le navi
erano messi in imbarazzo dalle ultime parole pronunciate dalla Pizia:..."O
Salamina divina! Su te molti figli di donna, Quando cosparsa sia
Demetra, o venga raccolta, morranno".... (O divina Salamina, farai
morire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di
Demetra). Su queste parole le idee di chi indicava nelle navi il muro di
legno erano confuse; gli interpreti ufficiali di oracoli le intendevano nel
senso che se gli Ateniesi avessero preparato una battaglia sul mare sarebbero
stati sconfitti presso Salamina. 143) C'era però fra gli Ateniesi un uomo entrato di
recente nel novero dei cittadini più autorevoli; si chiamava
Temistocle ma era detto figlio di Neocle. Egli affermò che gli
interpreti ufficiali non avevano spiegato rettamente l'intera faccenda e
sosteneva che se davvero l'oracolo fosse stato rivolto agli Ateniesi, a suo
parere non avrebbe detto così serenamente "Salamina divina",
bensì "Maledetta Salamina", se davvero i cittadini stavano
per morire nelle sue acque. Invece, a intenderlo correttamente, l'oracolo si
riferiva ai nemici e non agli Ateniesi; li invitava dunque a prepararsi per
la battaglia con le navi, perché proprio queste erano il muro di legno.
Quando Temistocle chiarì in questo modo il senso del responso, gli
Ateniesi ritennero la sua delucidazione preferibile a quella degli interpreti
ufficiali, i quali non permettevano di prepararsi a una battaglia navale e, a
dirla tutta, neppure di opporre resistenza, ma concedevano solo di
abbandonare l'Attica e di stabilirsi in un altro paese. 144) Un'altra volta, in tempi precedenti, l'opinione di
Temistocle aveva prevalso, quando alle grandi ricchezze che già
affluivano nel pubblico tesoro di Atene, si erano aggiunti i proventi delle
miniere del Laurio e i cittadini si accingevano a riceverne ciascuno la
propria parte nella misura di dieci dracme a testa. In quell'occasione
Temistocle aveva persuaso gli Ateniesi a rinunciare a spartirsi il denaro e a
costruire con esso duecento navi "per la guerra", intendendo la
guerra contro gli Egineti. Lo scoppio di questo conflitto finì per
segnare la salvezza della Grecia, giacché costrinse gli Ateniesi a farsi
marinai; le navi non servirono poi allo scopo per cui erano state costruite,
ma risultarono pronte nel momento opportuno per la Grecia. Insomma erano
disponibili queste navi, costruite già prima dagli Ateniesi, ma
bisognava allestirne altre. Gli Ateniesi, riuniti in assemblea dopo il responso,
decisero di sostenere l'urto del barbaro invasore con la flotta, obbedendo al
dio, tutti uniti e con l'aiuto dei Greci disposti a seguirli. 145) Tali dunque erano stati i responsi ricevuti dagli
Ateniesi. Poi, convenuti nello stesso luogo, i Greci meglio intenzionati nei
confronti dell'Ellade si scambiarono pareri e pegni di fede; in consiglio
decisero per prima cosa di porre fine alle rivalità e ai conflitti
esistenti fra loro; ce n'erano parecchi in corso e in particolare il
più grave coinvolgeva Ateniesi ed Egineti. Poi, saputo che Serse si
trovava a Sardi, decisero di mandare esploratori in Asia a spiare le forze
del re, ambasciatori ad Argo per stringere un'alleanza contro il Persiano,
altri in Sicilia presso Gelone figlio di Dinomene e a Corcira, per premere
per un soccorso a favore della Grecia, e altri ancora a Creta; l'idea era di
verificare se mai il mondo greco si unisse in un blocco compatto, e se tutti,
di comune accordo, intendessero agire di concerto, visti i gravi pericoli che
incombevano in ugual misura su tutti i Greci. Le forze di Gelone avevano fama
di essere ingenti, quali nessun'altra città greca poteva superare. 146) Prese queste decisioni e deposti i rancori, per prima cosa
mandarono in Asia tre emissari come spie. Essi giunti a Sardi e assunte
informazioni sulla spedizione del re, scoperti, furono sottoposti a tortura
per ordine dei generali dell'armata terrestre e messi in carcere in attesa di
esecuzione. Ne fu decretata la morte, ma Serse dal canto suo, appena ne fu
informato, biasimò l'operato dei generali e inviò alcuni suoi
dorifori con l'ordine di condurre al suo cospetto le spie, se le avessero
trovate ancora vive. Li trovarono ancora vivi e li portarono dal re, il
quale, conosciuto lo scopo della loro missione, comandò ai dorifori di
condurli in giro e di mostrargli tutto l'esercito dei fanti e dei cavalieri;
quando ne avessero avuto abbastanza di osservare, dovevano rilasciarli sani e
salvi, liberi di andare dove volevano. 147) A questi ordini aggiungeva la seguente spiegazione: se
le spie fossero morte, i Greci non sarebbero stati preavvisati che le sue
forze erano superiori a qualunque descrizione, senza contare che uccidendo
tre uomini non avrebbero certo inflitto un grave danno ai nemici. Serse era
convinto, disse, che se le spie fossero tornate in Grecia, i Greci, sentendo
parlare della sua potenza militare, avrebbero rimesso nelle sue mani la loro
libertà e così si sarebbe evitato il fastidio di una spedizione
contro di loro. Questa opinione somiglia a un'altra espressa dal re quando si
trovava ad Abido. Aveva notato infatti delle imbarcazioni cariche di frumento
provenienti dal Ponto, che attraversavano l'Ellesponto dirette a Egina e nel
Peloponneso. I suoi consiglieri, quando si resero conto che si trattava di
navi nemiche, erano pronti a catturarle e fissavano il re in attesa
dell'ordine. Serse domandò loro dove fossero dirette ed essi
risposero: "Dai tuoi nemici, signore, a portare grano".
Replicò Serse: "E proprio dove vanno loro, non ci andiamo anche
noi, riforniti di grano e di ogni altro bene? E quindi, che torto ci fanno,
loro, a trasportare viveri per noi?". 148) Insomma, terminata la missione e rilasciate, le spie
tornarono in Europa. Come seconda iniziativa dopo l'invio degli esploratori,
i Greci che avevano giurato alleanza contro il Persiano mandarono messaggeri
ad Argo. Ed ecco come andarono le faccende in casa degli Argivi, a sentir
loro. Avevano appreso subito, fin da principio, le mosse del barbaro contro
la Grecia; essendo al corrente e rendendosi conto che i Greci avrebbero
cercato di aggregarli in una alleanza contro il Persiano, avevano inviato una
delegazione a Delfi a chiedere al dio come comportarsi per ottenere il
risultato migliore. Infatti di recente seimila Argivi erano caduti per mano
degli Spartani e di Cleomene figlio di Anassandride e appunto per questo
interrogavano il dio. Alle loro domande la Pizia avrebbe risposto
così:..."Fà buona guardia, tenendo lo spiedo nel
fodero,Argivo, Che, dai vicini odiato, ai Celesti sei caro; e difendi Bene il
tuo capo; la testa poi ate salverà la persona.".... (Tu,
odioso ai tuoi vicini e caro agli dèi immortali, stattene di guardia,
con la lancia in pugno e proteggiti il capo: il capo salverà il corpo).
Tale l'oracolo pronunciato, prima, dalla Pizia; poi quando giunsero ad Argo i
messaggeri, questi si presentarono nella sala del consiglio e riferirono il
messaggio di cui erano incaricati. Alle loro parole gli Argivi risposero di
essere disposti ad accogliere l'invito, ma dopo aver stipulato con gli
Spartani una pace trentennale e ottenuto il comando di una metà
dell'intero esercito alleato; per la verità, dicevano, a voler essere
giusti a loro spettava il comando in assoluto, tuttavia si sarebbero accontentati
della metà. 149) Il consiglio, a sentire gli Argivi, rispose così
benché l'oracolo proibisse loro di entrare nell'alleanza coi Greci; ma essi,
pur paventando il responso, desideravano che ci fosse una tregua di
trent'anni con gli Spartani perché in quel frattempo i loro figli
diventassero adulti; senza la tregua temevano di finire in futuro sotto gli
Spartani, nel caso avessero subito un'altra batosta contro i Persiani oltre
alla sciagura già verificatasi. Alle dichiarazioni del consiglio i messaggeri
che venivano da Sparta obiettarono che circa la tregua avrebbero riferito al
popolo, quanto al comando supremo dell'esercito già avevano avuto
ordine di replicare, e così stavano facendo, che a Sparta i re erano
due, ad Argo uno; era quindi impossibile che uno dei due re Spartani cedesse
il comando, mentre nulla impediva che dopo di loro ci fosse il re di Argo con
parità di voto. E allora gli Argivi, come essi stessi affermano, non
poterono tollerare l'arroganza degli Spartiati e preferirono prendere ordini
dai barbari piuttosto che cedere su qualche punto agli Spartani: intimarono
agli ambasciatori di lasciare il territorio di Argo prima del tramonto,
altrimenti li avrebbero trattati come nemici. 150) Questa dunque è la versione degli Argivi su tali
avvenimenti. Ma in Grecia la cosa si racconta diversamente: Serse avrebbe
inviato un araldo ad Argo, prima ancora di muovere in armi contro la Grecia.
L'araldo, una volta giunto, dichiarò: "Uomini d'Argo, ecco cosa
vi dice re Serse: "Noi riteniamo che il nostro capostipite sia Perse,
figlio di Perseo di Danae, generato dalla figlia di Cefeo Andromeda. In
questo caso noi saremmo vostri discendenti. Pertanto non è giusto né
che noi portiamo guerra ai nostri progenitori, né che voi, per aiutare altri,
ci diventiate nemici; al contrario, è bene per voi restare a casa
vostra in pace. Se tutto andrà come penso, non terrò nessuno in
maggiore considerazione di voi"". Si racconta che gli Argivi, udito
questo messaggio, gli diedero molta importanza; al momento nulla promisero e
nulla pretesero; ma quando poi i Greci li invitarono a unirsi a loro, allora,
ben sapendo che gli Spartani non avrebbero condiviso il comando supremo, lo
richiesero, per avere un pretesto onde restare neutrali. 151) Concorda con questa versione anche ciò che alcuni
Greci raccontano come accaduto molti anni dopo. Callia figlio di Ipponico e i
suoi compagni di viaggio si trovavano a Susa, la città di Memnone, in
veste di ambasciatori di Atene per trattare un'altra questione, e contemporaneamente
anche gli Argivi avevano mandato a Susa una delegazione a chiedere ad
Artaserse, figlio di Serse, se vigeva ancora per loro il patto di amicizia
stretto con Serse, oppure se erano da lui tenuti in conto di nemici. E re
Artaserse avrebbe risposto che il patto era valido più che mai e che
non riteneva alcuna città più amica di Argo. 152) Io non sono in grado di affermare con sicurezza se Serse
spedì ad Argo l'araldo che disse quello che disse, e se ambasciatori
di Argo, saliti a Susa, interrogarono Artaserse sulla reciproca amicizia; e
non esprimo in proposito alcuna opinione diversa da quella che gli Argivi
stessi dichiarano. Quanto so è che se tutti gli uomini mettessero in
comune le proprie private disgrazie con l'intenzione di scambiarle coi vicini,
ciascuno, dopo essersi piegato a osservare da vicino le disgrazie del
prossimo, si riporterebbe indietro con gioia quelle con cui era venuto. E
così non si può dire neppure che gli Argivi abbiano toccato il
fondo dell'abiezione. Ma io ho il dovere di riferire ciò che si
racconta e non ho affatto il dovere di crederci (e questa affermazione valga
per tutta la mia opera); e sì, perché anche questo si dice, che furono
proprio gli Argivi, giacché male si era messa la guerra contro Sparta, a
chiamare il Persiano contro la Grecia, disposti ad accettare qualunque
destino piuttosto che la sciagura in cui si trovavano. 153) Degli Argivi si è detto. In Sicilia erano
arrivati altri messi degli alleati per incontrarsi con Gelone, e fra gli
altri in particolare Siagro, da Sparta. Un antenato di questo Gelone, che
abitava a Gela, era originario dell'isola di Telo, che si trova presso il
Trioprio; egli, all'epoca in cui Gela veniva fondata da Antifemo e dai Lindi
di Rodi, li seguì. Col tempo i suoi discendenti divennero e continuarono
a essere sacerdoti delle dee ctonie, prerogativa che Teline, uno degli
antenati, si era procacciato come segue. Alcuni cittadini, rimasti sconfitti
in uno scontro fra opposte fazioni di Gela, avevano trovato rifugio nella
città di Mactorio, sopra Gela. Li ricondusse a Gela proprio Teline,
che non aveva alcuna forza militare, ma solo i sacri oggetti di tali dee. Da
dove li avesse presi o se sia stato lui a procurarseli, davvero non sono in
grado di dirlo; comunque, fidando nel loro potere, li fece tornare alla
condizione che i suoi discendenti fossero in futuro sacerdoti delle dee.
Ebbene, circa le notizie da me raccolte mi lascia perplesso anche che a
condurre a termine una così notevole impresa sia stato Teline; azioni
del genere non sono compiute di solito da un uomo qualunque, ma da un animo
valente, da una forza virile: Teline, a sentire gli abitanti di Sicilia, era
uomo di tutt'altra, opposta natura, effeminato e molliccio. 154) Così, comunque, si guadagnò il privilegio
su menzionato. Alla morte del figlio di Pantare Cleandro, che regnò su
Gela per sette anni e morì per mano di un uomo di Gela, Sabillo, prese
il potere Ippocrate, fratello di Cleandro. Al tempo della tirannide di
Ippocrate, Gelone, discendente del sacerdote Teline, era doriforo di
Ippocrate assieme a molti altri, tra i quali Enesidemo, figlio di Pateco. In
breve tempo per il suo valore fu nominato comandante di tutta la cavalleria;
infatti quando Ippocrate assediò Gallipoli, Nasso, Zancle, Lentini,
nonché Siracusa e varie città barbare, Gelone in queste guerre si
distinse in modo particolare. Nessuna delle città suddette, tranne
Siracusa, sfuggì alla sottomissione da parte di Ippocrate. I
Siracusani, sconfitti in battaglia sul fiume Eloro, furono salvati da Corinzi
e Corciresi; ma essi li salvarono dopo aver accettato la condizione che
Siracusa cedesse Camarina a Ippocrate. Anticamente Camarina apparteneva ai
Siracusani. 155) Quando anche Ippocrate, dopo aver regnato tanti anni
quanti suo fratello Cleandro, morì presso la città di Ibla, in
una guerra da lui intrapresa contro i Siculi, ecco allora che Gelone finse di
soccorrere i figli di Ippocrate Euclide e Cleandro, giacché i cittadini non
volevano più essere loro soggetti, ma in realtà, sbaragliati in
battaglia i cittadini di Gela, strappò ai figli di Ippocrate il potere
e lo detenne personalmente. Dopo questo colpo di fortuna, Gelone fece
rientrare da Casmene a Siracusa i Siracusani chiamati gamóroi che erano stati
scacciati dal popolo e dai loro schiavi, detti Cilliri, e occupò anche
questa città: infatti il popolo di Siracusa si arrese e
consegnò la città a Gelone che l'aveva assalita. 156) Gelone, dopo aver preso Siracusa, trascurava Gela, che
aveva affidato a suo fratello Gerone, e fortificava invece Siracusa: Siracusa
per lui era tutto. La città crebbe e fiorì rapidamente. Per
cominciare condusse a Siracusa tutti i cittadini di Camarina (di cui rase al
suolo la rocca) e li rese cittadini; lo stesso fece con più di
metà degli abitanti di Gela. Dei Megaresi di Sicilia, quando, assediati,
vennero a patti, trasferì a Siracusa e rese cittadini i benestanti,
quelli che avevano scatenato la guerra contro di lui e credevano per questo
di fare una brutta fine; i popolani di Megara, invece, che non erano
responsabili di questa guerra e che non si aspettavano di subire alcuna
vendetta, li condusse pure a Siracusa, ma li vendette fuori della Sicilia. La
stessa discriminazione applicò agli Euboici di Sicilia; agiva
così nei confronti degli uni e degli altri, perché giudicava il
popolino un coabitante assai molesto. 157) In tal modo Gelone era diventato un tiranno potente.
Allora, quando giunsero a Siracusa, i messi dei Greci si presentarono a
Gelone e gli dissero: "Ci hanno inviato qui gli Spartani, gli Ateniesi e
i loro alleati per invitarti ad aderire alla lega contro il barbaro. Saprai
certamente che sta assalendo la Grecia, che un Persiano, aggiogato
l'Ellesponto e messosi alla testa di tutto l'esercito orientale, si accinge a
marciare dall'Asia contro la Grecia, facendo mostra di dirigersi contro
Atene, ma avendo in realtà in mente di mettere ai suoi piedi la Grecia
intera. Ma tu hai raggiunto un alto livello di potenza, ti appartiene una
frazione non minuscola della Grecia, giacché dòmini sulla Sicilia;
vieni dunque in aiuto di chi difende la libertà della Grecia, concorri
con noi a liberarla. Con tutta la Grecia unita, si raduna un esercito grande
e diventiamo in grado di affrontare gli invasori. Ma se alcuni di noi
tradiscono e altri negano aiuti e piccola risulta la parte sana della Grecia,
allora si può già temere che la Grecia intera soccomba. Non
sperare infatti che il Persiano, se ci sconfigge in battaglia e ci
sottomette, non venga anche da te; devi prevenire questa circostanza:
soccorrendo noi difendi te stesso. Se una impresa è preceduta da una
buona riflessione, l'esito il più delle volte suole essere
felice". 158) Questo dunque essi dissero, ma Gelone sbottando rispose:
"Uomini di Grecia, con un discorso arrogante avete osato chiedermi di venire
come vostro alleato contro il barbaro. Ma voi, prima, quando vi pregai di
assalire con me un esercito barbaro, quando ero in guerra con i Cartaginesi,
quando insistevo che si vendicasse Dorieo, figlio di Anassandride, ucciso dai
Segestani, quando vi proponevo di concorrere a liberare gli empori dai quali
avete ricavato grandi vantaggi e profitti, voi non siete venuti in mio
soccorso, né per me né per vendicare l'uccisione di Dorieo; per quello che vi
riguarda, tutto questo paese era in mano barbara. Ma poi le cose mi sono
andate bene, anzi per il meglio; e ora che la guerra si è spostata ed
è giunta da voi, ecco che ci si ricorda di Gelone! Comunque, anche se
ho incontrato il vostro disprezzo, non farò come voi, anzi sono pronto
ad aiutarvi fornendovi duecento navi, ventimila opliti, duemila cavalieri,
duemila arcieri, duemila frombolieri e duemila effettivi di cavalleria
leggera. E mi impegno a fornire vettovaglie per tutto l'esercito dei Greci,
finché non avremo portato a termine la guerra. Tutto questo lo prometto a
condizione di essere stratego e comandante dei Greci contro il barbaro.
Altrimenti non mi unirò a voi personalmente e non vi manderò
nessun altro". 159) Siagro, udite queste parole, non si trattenne ed
esclamò: "Alti gemiti e lamenti lancerebbe Agamennone Pelopida se
sapesse gli Spartiati derubati del comando supremo da Gelone e dai
Siracusani! Puoi scordarti questa condizione, che ti cediamo il comando. Se
desideri venire in soccorso della Grecia, sappi che dovrai obbedire agli
Spartani; se non ti sembra giusto dover obbedire, restatene a casa!". 160) Al che Gelone, constatata l'ostilità delle parole
di Siagro, pronunciò questo discorso conclusivo: "Ospite
Spartiata, le offese che investono un uomo di solito lo incolleriscono; tu
comunque, malgrado le insolenze del tuo dire, non mi hai portato a perdere
l'equilibrio nella risposta. Visto che ci tenete tanto al comando supremo,
è logico che anch'io ci tenga, più di voi, giacché sono a capo
di un esercito più grande del vostro e di una flotta assai più
numerosa. Ma se la mia condizione vi ripugna tanto, io recederò in
qualcosa e vi propongo di guidare voi la fanteria e io la flotta; oppure, se
vi aggrada comandare sul mare, accetto io di condurre la fanteria. E a questo
punto o siete soddisfatti di queste condizioni, oppure ve ne andate senza
l'alleanza di gente come noi: non c'è altro da fare". 161) Queste erano le proposte di Gelone; il messaggero
ateniese, bruciando sul tempo quello spartano, replicò così:
"Re di Siracusa, la Grecia ci ha mandati da te non perché ha bisogno di
un capo, ma di un esercito. Tu a quanto sembra non sei disposto a inviare un
esercito senza essere il capo della Grecia, tu aspiri a dirigerla
militarmente. Finché tu chiedevi di guidare l'intero esercito dei Greci, a
noi Ateniesi bastava starcene zitti, ben sapendo che lo Spartano era in grado
di rispondere anche per tutti e due. Ora che, escluso dal comando supremo,
chiedi di avere quello della flotta, eccoti come stanno le cose: anche se lo
Spartano te lo concedesse, non te lo permetteremmo noi. Se non la vogliono
gli Spartani, questa prerogativa è nostra; se essi desiderano averla,
non ci opponiamo, ma non permetteremo a nessun altro di comandare le navi.
Invano ci saremmo procurati le più ingenti forze marittime della
Grecia, se poi cedessimo il timone ai Siracusani, noi, che siamo Ateniesi,
che vantiamo la stirpe più antica, che siamo gli unici fra i Greci a
non esserci mai mossi dalle nostre sedi! Anche Omero, il poeta epico,
dichiarò che fu uno di noi il più abile tra quelli andati a
Ilio a schierare in fila e in ordine un esercito. Questa è la
verità e se la diciamo non possiamo per questo essere biasimati".
162) Replicò Gelone come segue: "Ospite ateniese,
mi pare che voi abbiate chi comandi, ma non avrete chi obbedisca. Giacché
volete avere tutto senza concedere nulla, è bene che vi affrettiate a
tornarvene a casa al più presto, ad annunciare alla Grecia che
dall'anno le è stata tolta la primavera". Questo il succo del
discorso, che voleva dire: ovviamente, come nell'anno la primavera è
la stagione più preziosa, così lo era nell'esercito greco la
sua armata; paragonava quindi la Grecia privata della sua alleanza a un anno
ipoteticamente privato della primavera. 163) Dopo tali negoziati con Gelone, i messi dei Greci
ripartirono; Gelone dal canto suo temeva a questo punto che i Greci non
fossero in grado di sconfiggere il barbaro, ma giudicava grave e
intollerabile l'ipotesi di andare nel Peloponneso e di prendere ordini dagli
Spartani, lui che era tiranno di Siracusa; evitò quindi di percorrere
questa strada e ne seguì un'altra. Infatti, appena seppe che il
Persiano aveva attraversato l'Ellesponto, inviò a Delfi con tre
penteconteri un uomo di Cos, Cadmo figlio di Scite, con molto denaro e parole
di amicizia, ad attendere l'esito della battaglia: se vinceva il barbaro
doveva consegnargli il denaro e terra e acqua delle contrade su cui Gelone
regnava; se invece vincevano i Greci, doveva tornare indietro. 164) Questo Cadmo, prima dei nostri avvenimenti, aveva ereditato
dal padre la signoria di Cos, saldamente radicata, e poi, spontaneamente,
senza che alcuna sciagura incombesse, bensì per senso di giustizia,
aveva rimesso il potere nelle mani dei cittadini ed era partito per la
Sicilia, dove tolse ai Sami la città di Zancle (quella che
cambiò il suo nome in Messina) e vi si stabilì. Gelone mandava
a Delfi proprio questo Cadmo, che era giunto in tal modo in Sicilia, per il
senso di giustizia sperimentato da Gelone anche in altre circostanze; fra le
varie sue oneste azioni Cadmo lasciò il ricordo anche della seguente,
non certo la minore di tutte; potendo disporre delle ingenti ricchezze che
gli aveva affidato Gelone, non volle impossessarsene, benché gli fosse
possibile, ma, dopo il trionfo dei Greci nella battaglia navale e il ritiro
di Serse e dei suoi, ecco che se ne tornò in Sicilia, portando
indietro tutto il tesoro. 165) Fra gli abitanti della Sicilia circola anche questa
versione, ossia che Gelone, pur nella prospettiva di prendere ordini dagli
Spartani, avrebbe ugualmente aiutato i Greci, se Terillo, figlio di Crinippo,
tiranno di Imera, scacciato da Imera ad opera di Terone, figlio di Enesidemo
e tiranno di Agrigento, non avesse fatto venire in Sicilia proprio in quei
giorni trecentomila uomini, tra Fenici, Libici, Iberici, Liguri, Elisici,
Sardi e Cirnei, agli ordini del generale Amilcare, figlio di Annone e re dei
Cartaginesi; Terillo lo aveva persuaso in base al vincolo di
ospitalità che a sé lo legava e soprattutto grazie all'interessamento
di Anassilao, figlio di Cretina, signore di Reggio, il quale aveva dato in
ostaggio ad Amilcare i propri figli e lo spingeva contro la Sicilia per
vendicare il suocero. Anassilao, infatti, aveva per moglie una figlia di
Terillo, di nome Cidippe. Perciò Gelone avrebbe mandato i tesori a
Delfi, perché non era più in condizione di inviare soccorsi ai Greci. 166) E aggiunsero anche questo; accadde che nello stesso
giorno in cui Gelone e Terone in Sicilia sconfissero il Cartaginese Amilcare,
anche a Salamina i Greci battevano i Persiani. Quanto ad Amilcare, che era
cartaginese per parte di padre ma siracusano per parte di madre ed era
diventato re dei Cartaginesi per il suo valore, scomparve, mi dicono, durante
la battaglia, quando ormai si profilava la sconfitta: non lo si vide
più, né vivo né morto, in nessuna parte del mondo; Gelone, in effetti,
lo fece cercare dappertutto. 167) C'è un racconto in proposito, degli stessi
Cartaginesi, che è verosimile. I barbari combatterono in Sicilia
contro i Greci dall'aurora fino a sera tarda (tanto dicono che si protrasse
la lotta), e nel frattempo Amilcare nell'accampamento offriva sacrifici e
traeva auspici bruciando animali interi su una grande pira; quando vide i
suoi uomini in fuga, egli, che era intento a versare libagioni sopra le vittime,
si gettò nel rogo e così scomparve, divorato dalle fiamme. In
onore di Amilcare scomparso, vuoi nel modo che raccontano i Fenici vuoi
altrimenti, (come raccontano i Cartaginesi e i Siracusani), oggi essi offrono
sacrifici; e in tutte le colonie fondate gli hanno eretto monumenti, uno dei
quali, grandissimo, proprio a Cartagine. 168) E questo basti a proposito della Sicilia. Ecco piuttosto
cosa risposero ai messaggeri i Corciresi e quale genere di comportamento
tennero; pure loro, infatti, vennero sollecitati dagli stessi che erano
andati in Sicilia e con il medesimo discorso rivolto anche a Gelone. I
Corciresi lì per lì promisero di inviare aiuti e rinforzi,
dichiarando intollerabile la rovina della Grecia; in effetti, dicevano, se la
Grecia fosse caduta, non si aspettavano altro che di finire schiavi subito
dopo; bisognava invece difenderla quanto più possibile. Risposero
dunque con belle parole; al momento buono, però, cambiarono idea:
equipaggiarono sì sessanta navi, ma, una volta salpati, a mala pena
entrarono nelle acque del Peloponneso, e le tennero ferme all'ancora presso
Pilo e il capo Tenaro, nel paese degli Spartani, aspettando anch'essi di
vedere come pendevano le sorti della guerra, senza sperare nella vittoria dei
Greci, bensì convinti che il Persiano, avendo prevalso di gran lunga,
avrebbe dominato su tutta la Grecia. Si comportarono insomma in maniera
studiata apposta per poter dire al Persiano: "Sovrano, quando i Greci ci
sollecitavano a questa guerra, noi, che pure disponevamo di forze per niente
trascurabili e di una flotta che non era la più piccola ma anzi la
più numerosa, almeno dopo quella di Atene, noi non abbiamo voluto
opporci a te, né operare in qualche modo a te sgradito". Con simili
parole speravano di ottenere più degli altri; cosa che, a mio parere,
sarebbe senz'altro accaduta. Nei confronti dei Greci si erano fabbricati una
scusa di cui poi in effetti si servirono; quando i Greci li accusarono di non
averli aiutati, risposero di aver allestito sessanta navi, ma che per colpa
dei venti etesii non erano riusciti a doppiare il capo Malea; ecco perché non
erano giunti a Salamina ed erano mancati allo scontro navale, senza malizia
premeditata. In questo modo essi elusero le accuse dei Greci. 169) Ecco come si comportarono i Cretesi, quando i Greci in
tal senso incaricati li invitarono nell'alleanza: mandarono a Delfi a nome di
tutti una delegazione per chiedere al dio se fosse vantaggioso per loro
soccorrere la Grecia. E la Pizia rispose: "Sciocchi, e poi vi lamentate
di tutte le lacrime che vi fece versare Minosse, incollerito per l'aiuto
portato a Menelao? I Greci non avevano collaborato a vendicare la sua morte a
Camico, e voi invece li aiutaste a rivalersi per la donna rapita a Sparta da
un barbaro". I Cretesi, come udirono queste parole riportate dai messi,
si astennero dall'inviare aiuti. 170) Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi
detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta.
Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di
Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d'assedio per
cinque anni la città di Camico (ai tempi miei abitata dagli
Agrigentini). Infine, non potendo né conquistarla né rimanere lì,
oppressi com'erano dalla carestia, abbandonarono l'impresa e se ne andarono.
Quando durante la navigazione giunsero sulle coste della Iapigia, una
violenta tempesta li spinse contro terra: le imbarcazioni si fracassarono e
giacché non vedevano più modo di fare ritorno a Creta, fondarono sul posto
una città, Iria, e vi si stabilirono cambiando nome e costumi: da
Cretesi divennero Iapigi Messapi e da isolani continentali. Muovendo da Iria
fondarono altre città, quelle che molto più tardi i Tarantini
tentarono di distruggere subendo una tale sconfitta da causare in quella
circostanza la più clamorosa strage di Greci a nostra conoscenza, di
Tarantini appunto e di Reggini. I cittadini di Reggio, venuti ad aiutare i
Tarantini perché costretti da Micito figlio di Chero, morirono in tremila; i
Tarantini caduti, poi, non si contarono neppure. Micito, che apparteneva alla
casa di Anassilao era stato lasciato come governatore di Reggio ed è
lo stesso che, scacciato da Reggio e stabilitosi a Tegea in Arcadia,
consacrò a Olimpia numerose statue. 171) Ma le vicende di Tarantini e Reggini sono solo una
parentesi nel mio racconto. A Creta, rimasta spopolata, a quanto dicono i
Greci, si insediarono altre genti, specialmente Greci; due generazioni dopo
la morte di Minosse scoppiò la guerra di Troia, nella quale i Cretesi
si rivelarono non certo i più tiepidi fra gli alleati di Menelao. In
ricompensa, al loro ritorno da Troia ebbero carestia e pestilenza, essi e il
loro bestiame: Creta rimase spopolata per la seconda volta e gli attuali
abitanti dell'isola sono una terza popolazione venuta ad abitare assieme ai
superstiti. La Pizia, ricordando questi avvenimenti, li distolse dall'idea di
soccorrere i Greci come desideravano. 172) I Tessali inizialmente si schierarono con i Medi per
necessità, avendo ben fatto capire che le macchinazioni degli Alevadi
non erano di loro gradimento. In effetti, appena venuti a sapere che il
Persiano si accingeva a passare in Europa, inviarono messaggeri all'Istmo;
all'Istmo si trovavano riuniti i delegati greci, scelti dalle città
meglio intenzionate nei confronti dell'Ellade. Giunti al loro cospetto, i
messaggeri Tessali dichiararono: "Uomini di Grecia, bisogna presidiare
il valico dell'Olimpo, per tenere al riparo della guerra la Tessaglia e la
Grecia intera. Noi siamo pronti a contribuire alla difesa, ma bisogna che
anche voi mandiate un folto esercito; se non lo manderete, sappiatelo, noi
verremo a patti col Persiano; non è ammissibile che solo noi, per il
fatto di essere collocati vicino ai Persiani più degli altri Greci,
dobbiamo perire per voi. Se non volete aiutarci, non siete in grado di
imporci alcuna costrizione: nessuna costrizione può prevalere su
ciò che è impossibile, e noi tenteremo da soli di trovare una
via qualunque di salvezza". Così parlarono i Tessali. 173) E i Greci, di fronte a ciò, decisero di inviare
in Tessaglia via mare un esercito di fanti a presidiare il passaggio; appena
radunatesi, le truppe fecero rotta attraverso l'Euripo. Giunte ad Alo
nell'Acaia, sbarcarono, si misero in marcia verso la Tessaglia, lasciate sul
posto le navi, e arrivarono a Tempe al valico che dalla Macedonia inferiore
conduce in Tessaglia lungo il fiume Peneo, fra i monti Olimpo e Ossa. Qui
posero il campo; erano convenuti circa diecimila opliti greci, e a essi si
aggiunse la cavalleria dei Tessali. Comandavano Spartani e Ateniesi
rispettivamente Eveneto figlio di Careno, scelto fra i polemarchi benché non
fosse di stirpe reale, e Temistocle figlio di Neocle. Rimasero lì
pochi giorni; infatti dei messaggeri inviati dal Macedone Alessandro, figlio
di Aminta, consigliarono loro di andarsene via, di non rimanere lì al
valico a farsi schiacciare dall'esercito invasore (precisavano
l'entità delle truppe e il numero delle navi); di fronte a questo
avvertimento (avevano l'aria di dare buoni consigli e il Macedone si rivelava
palesemente bene intenzionato nei loro confronti), i Greci seguirono il
suggerimento. Secondo me a convincerli fu la paura, quando appresero che
esisteva anche un altro accesso alla Tessaglia, nella Macedonia superiore
attraverso il paese dei Perrebi, presso la città di Gonno, per dove
effettivamente irruppe l'esercito di Serse. I Greci scesero verso il mare, si
reimbarcarono e se ne tornarono indietro all'Istmo. 174) Questa spedizione in Tessaglia si verificò quando
il re si apprestava a passare dall'Asia in Europa e si trovava ormai ad
Abido. E fu così che i Tessali, abbandonati dagli alleati, si
schierarono decisamente coi Persiani, senza tentennamenti, tanto da rivelarsi
poi, nelle faccende della guerra, utilissimi al re. 175) I Greci, una volta giunti all'Istmo, discutevano, in
relazione agli avvertimenti di Alessandro, come e dove impegnare la lotta.
Prevalse il parere di presidiare il passo delle Termopili: era chiaramente un
passaggio più stretto di quello che immetteva in Tessaglia, ed era
l'unico abbastanza vicino al loro paese; del sentiero, attraverso il quale
vennero sorpresi alle Termopili, i Greci ignoravano persino l'esistenza prima
di averne notizia, ormai giunti alle Termopili, dagli abitanti di Trachis.
Deliberarono di impedire al barbaro, presidiando questo passo, di penetrare
in Grecia e decisero che la flotta si dirigesse al Capo Artemisio, nella
Istieotide; sono due località vicine tra loro, sicché si poteva avere
notizie di quello che accadeva da entrambe le parti. Ed ecco come si
presentano questi posti. 176) Cominciamo con l'Artemisio. Dal mare di Tracia, da uno
specchio aperto, si arriva in un modesto canale fra l'isola di Sciato e la
penisola di Magnesia sul continente; a esso, ormai sull'Eubea, fa seguito la
spiaggia di Artemisio, sulla quale sorge un tempio di Artemide. La via di
accesso alla Grecia, poi, attraverso il paese di Trachis, misura mezzo pletro
nel punto più stretto. Non sono qui, comunque, i passaggi più
angusti di tutto questo paese, sono davanti e dietro le Termopili: presso
Alpeni, dietro, per dove transita appena un carro, e all'altezza del fiume
Fenice, davanti, vicino alla città di Antela, un altro varco che ha
spazio per un carro soltanto. Il lato occidentale delle Termopili è un
monte inaccessibile, scosceso, alto, che si protende fino all'Eta. Sul lato
orientale si hanno subito mare e paludi. Nel passo vi sono dei bagni caldi,
detti Chitri dalla gente del luogo, e vicino a essi sorge un altare di
Eracle. Attraverso questo varco era stato edificato un muro, nel quale,
almeno anticamente, c'erano delle porte. L'avevano costruito i Focesi, per
paura, quando i Tessali arrivarono dal paese dei Tesproti per occupare
l'Eolide (la terra appunto che oggi possiedono). Siccome i Tessali tentavano
di sottometterli, i Focesi s'erano premuniti così: e convogliarono la
sorgente calda nel passo perché il suolo si impaludasse, tutte studiandole
per impedire ai Tessali di invadere il paese. Il muro vecchio era stato
eretto in tempi remoti e col passare degli anni era ormai in gran parte
rovinato al suolo. Gli uomini che lo rialzarono decisero di difendere la
Grecia dal barbaro in quel punto. Vicinissimo alla strada c'è un
villaggio, che si chiama Alpeni; da lì i Greci contavano di ricevere
approvvigionamenti. 177) Questi luoghi, dunque, parevano adatti ai Greci: in
effetti, dopo aver preventivamente esaminato ogni elemento e calcolato che i
barbari non avrebbero potuto far valere né la superiorità numerica né
la cavalleria, decisero di sostenere lì l'urto dell'invasore della
Grecia. Quando poi seppero che il Persiano si trovava nella Pieria, partirono
dall'Istmo e si diressero, gli uni, per via di terra, verso le Termopili, gli
altri, per mare, verso l'Artemisio. 178) I Greci, quindi, accorrevano in fretta in assetto di
guerra; nel frattempo gli abitanti di Delfi, spaventati per se stessi e per
la Grecia, interrogavano l'oracolo del dio. E il responso fu un invito a
rivolgere preghiere ai venti: i venti sarebbero stati grandi alleati della
Grecia. Gli abitanti di Delfi, ricevuto il responso, per prima cosa ne
divulgarono il contenuto fra i Greci desiderosi di restare liberi; e poiché
costoro avevano una paura terribile del barbaro, riferendo l'oracolo se ne
guadagnarono la gratitudine imperitura. Dopodiché dedicarono ai venti un
altare in Tia, proprio dove sorge il santuario di Tia figlia di Cefiso, dalla
quale prende il nome anche la località, e cercavano di accattivarseli
con dei sacrifici. 179) Ancora oggi, in base a quell'oracolo, gli abitanti di
Delfi offrono sacrifici propiziatori ai venti. La flotta di Serse, salpando
dalla città di Terme, con le dieci navi che meglio tenevano il mare
puntò dritto verso Sciato, dove stazionavano di vedetta tre navi
greche, una di Trezene, una di Egina e una attica; i Greci, avvistate le navi
dei barbari, si diedero alla fuga. 180) I barbari si lanciarono all'inseguimento e catturarono
subito quella di Trezene, comandata da Prassino; trascinarono quindi sulla
prua della nave il più bello dei suoi marinai e lo sgozzarono,
ritenendo di buon augurio che il primo fra i Greci a essere ucciso fosse
molto bello. La vittima si chiamava Leone; e forse subì le conseguenze
del suo nome. 181) La nave di Egina, il cui trierarca era Asonide, li fece
penare non poco, perché vi era imbarcato Pizio, figlio di Ischenoo, che quel
giorno diede prova di grande valore: quando la nave stava per essere presa,
resistette combattendo fino a che non fu completamente coperto di ferite. E
siccome, quando cadde, non era morto ma respirava ancora, i Persiani a bordo
delle navi, in considerazione del suo valore, se ne presero a cuore la
salvezza: gli cosparsero di mirra le ferite, lo fasciarono con bende di
finissimo bisso; e quando tornarono al campo base, lo mostrarono ammirati a
tutta l'armata, circondandolo di premure. Gli altri che avevano catturato su
questa nave li trattarono invece come schiavi. 182) Le prime due navi furono catturate così. La
terza, il cui trierarca era Formo di Atene, fuggendo andò ad arenarsi
alla foce del Peneo; i barbari misero le mani sullo scafo ma non sugli
uomini, perché gli Ateniesi, appena ebbero fatto arenare la nave, balzarono a
terra e marciando in territorio tessalo si portarono ad Atene. 183) I Greci di stanza all'Artemisio appresero questi
accadimenti per mezzo di segnali luminosi da Sciato; quando ne furono al
corrente, spaventati, si trasferirono dall'Artemisio a Calcide per presidiare
l'Euripo, lasciando vedette sulle alture dell'Eubea. Tre delle dieci navi
barbare si spinsero fino allo scoglio che sta fra Sciato e Magnesia e che si
chiama Mirmeco. I barbari, eretta sullo scoglio una colonna di marmo che
avevano portato con sé, salparono da Terme e, poiché l'ostacolo era stato
rimosso, navigavano con tutta la flotta; avevano lasciato passare undici giorni
dalla partenza del re da Terme. A segnalare loro l'esistenza dello scoglio
nel bel mezzo del passaggio era stato Pammone di Sciro. Navigando per tutta
la giornata i barbari raggiunsero il capo Sepiade nel territorio di Magnesia
e la riviera compresa fra questo promontorio e la città di Castanea. 184) Fino a questa località e fino alle Termopili
l'esercito non conobbe perdite e la sua consistenza allora continuava a
essere la seguente, in base ai miei calcoli. Sulle navi d'Asia, che erano
1207, l'equipaggio originario composto dai vari popoli ammontava a 241.400
uomini, calcolandone duecento per nave; ma a bordo di queste navi, oltre ai
marinai dei singoli paesi d'origine, c'erano trenta soldati fra Persiani,
Medi e Saci, ossia un'altra caterva di 36.210 persone. A questo e al numero
precedente aggiungerò ancora i marinai delle penteconteri, assumendo
che più o meno su ciascuna ve ne fossero circa ottanta; di queste
imbarcazioni, come ho detto anche prima, se ne erano radunate tremila; quindi
su di esse dovevano esserci 240.000 uomini. Questa dunque era la flotta
d'Asia: complessivamente 517.610 uomini. A terra poi i fanti erano 1.700.000,
80.000 i cavalieri. A costoro aggiungerò ancora gli Arabi che
guidavano i cammelli e i Libici coi carri, per un ammontare di 20.000 uomini.
Sicché, sommando gli effettivi sul mare e sulla terraferma, il totale risulta
di 2.317.610 uomini. Questo, come si è detto, era l'esercito partito
dall'Asia, senza contare il seguito dei servi, le imbarcazioni addette al trasporto
delle vettovaglie e i loro equipaggi. 185) Ma si devono ancora sommare alla cifra fin qui raggiunta
le truppe tratte dall'Europa; a questo proposito devo avanzare un'ipotesi. I
Greci della Tracia e delle isole adiacenti alla costa tracia, fornivano 120
navi; il che fa 24.000 uomini. Della fanteria che fornirono Traci, Peoni,
Eordi, Bottiei e le genti della Calcidica e Brigi, Pieri, Macedoni, Perrebi,
Eniani, Dolopi, Magneti, Achei e quanti popolano la costa della tracia, da
tutti questi popoli credo che si avessero 300.000 uomini. Queste miriadi
sommate alle miriadi provenienti dall'Asia danno un totale di 2.641.610
combattenti. 186) Tale la cifra dei combattenti; quanto alla
servitù che li seguiva, agli equipaggi delle imbarcazioni da carico e
dei battelli che navigavano assieme all'armata, credo che essi fossero non
meno ma più dei soldati. Comunque assumo che equivalessero in numero,
non fossero né di più né di meno: e calcolati tanti quanti i
combattenti, assommano ad altrettante miriadi. Pertanto Serse figlio di Dario
fino al capo Sepiade e alle Termopili guidò 5.283.220 uomini. 187) Questi gli effettivi dell'intero esercito di Serse.
Quanto al numero delle donne che facevano il pane, delle concubine e degli
eunuchi, nessuno potrebbe precisarlo; e neppure degli animali da tiro e
dell'altro bestiame da soma e dei cani d'India al seguito, neppure di questi,
da tanti che erano, qualcuno potrebbe dire l'ammontare. Per cui non mi
meraviglio affatto che si siano prosciugati dei fiumi, ma piuttosto mi stupisco
che siano bastati i viveri a così tante decine di migliaia di persone.
In effetti di calcolo in calcolo mi risulta che, se ognuno riceveva
giornalmente una chenice di frumento e basta, ogni giorno ne venivano
consumati 110.340 medimni. E non tengo conto delle donne, degli eunuchi,
delle bestie da tiro e dei cani. E pur essendoci tante decine di migliaia di
uomini, per bellezza e prestanza fisica nessuno di loro era più degno
di Serse di avere tale comando. 188) La flotta, lasciati gli ormeggi, prese il largo e
raggiunse nel territorio di Magnesia la spiaggia che sta fra la città
di Castanea e il promontorio Sepiade; le prime navi attraccarono a riva, le
altre dietro di esse gettarono l'ancora: dato infatti che la spiaggia non era
lunga, ormeggiarono a scacchiera, prue verso il largo, su otto file di navi.
Così andò quella notte. All'alba, cessarono sereno e bonaccia,
il mare si scatenò e sui Persiani si abbatterono una grande tempesta e
un forte vento di levante, che gli abitanti di queste regioni chiamano "d'Ellesponto".
Quanti di loro si accorsero che il vento aumentava e quelli ormeggiati in
modo adatto prevennero la tempesta tirando in secca le navi: e si salvarono,
loro e i loro scafi. Invece tutte le navi che colse al largo, la tempesta le trascinò,
in parte verso i cosiddetti Ipni del Pelio in parte verso la spiaggia: alcune
cozzarono contro il Sepiade stesso, altre furono sbattute via verso le
città di Melibea o di Castanea. Fu una tempesta mostruosa, senza
scampo. 189) Si racconta che gli Ateniesi, in base a una profezia,
avessero invocato Borea: avevano infatti ricevuto un altro responso, che li
invitava a invocare come difensore il loro "genero". Secondo la
leggenda dei Greci, Borea aveva una moglie attica, Orizia figlia di Eretteo;
perciò gli Ateniesi, a quanto si dice, deducendo da questa parentela
acquisita che Borea era il "genero" in questione, quando si
accorsero che la tempesta cresceva, o anche prima (erano appostati con la
flotta a Calcide in Eubea), offrirono sacrifici a Borea e a Orizia, pregandoli
di venire in loro aiuto e di distruggere le navi dei barbari, come già
prima all'Athos. Se fu per questo che Borea si abbatté sui barbari alla
fonda, io non lo so: gli Ateniesi assicurano che Borea, che già in
precedenza li aveva aiutati, anche allora fu autore di quella impresa; e,
tornati a casa, gli edificarono un tempio sulle rive del fiume Ilisso. 190) Quelli che riferiscono le cifre più contenute
dicono che in questo disastro andarono perdute non meno di quattrocento navi,
un numero incalcolabile di uomini e immense ricchezze: al punto che questo
naufragio riuscì assai vantaggioso a un uomo di Magnesia, Aminocle
figlio di Cratine, che possedeva un terreno vicino al Sepiade; egli, nei
giorni seguenti, raccolse molte coppe d'oro e molte d'argento gettate a riva
dalle onde e trovò tesori dei Persiani e si impossessò di altri
oggetti preziosi a volontà. Ma divenne molto ricco coi suoi
ritrovamenti fortunati essendo disgraziato per altri versi: una dolorosa
vicenda lo affliggeva, l'aver ucciso suo figlio. 191) Dei battelli adibiti al trasporto dei viveri e delle
altre imbarcazioni distrutte non si faceva nemmeno il computo; tanto che i
comandanti in capo della flotta, temendo che i Tessali piombassero su di loro
quando erano già così malridotti, ordinarono di costruire coi
relitti del naufragio un'alta barricata tutto intorno. La tempesta
durò tre giorni; infine, immolando vittime, intonando a gran voce
invocazioni al vento, e, ancora, sacrificando a Teti e alle Nereidi, il
quarto giorno i Magi la placarono; oppure, semplicemente, la bufera decise da
sola di cessare. A Teti sacrificarono per aver appreso dagli Ioni la leggenda
che la voleva rapita da Peleo in quella località e che attribuiva a
lei e alle altre Nereidi la tutela di tutta la riviera del Sepiade. 192) Comunque dopo tre giorni la tempesta era finita. Ai
Greci le vedette, scese di corsa dalle alture dell'Eubea il giorno successivo
allo scoppio della tempesta, segnalarono il naufragio in corso. I Greci, come
lo seppero, dopo aver rivolto preghiere e versato libagioni a Posidone
Salvatore, si affrettarono per tornare al più presto all'Artemisio,
sperando di trovarsi di fronte poche navi nemiche; così per la seconda
volta raggiunsero l'Artemisio e vi stazionarono, venerando Posidone, da allora
e fino a oggi, con l'appellativo di Salvatore. 193) I barbari, quando cessò il vento e si calmarono
le onde, tratte in mare le navi, veleggiarono lungo la costa, doppiando il
promontorio di Magnesia e puntando dritto verso il golfo che porta a Pagase.
C'è un luogo in questo golfo di Magnesia, dove, raccontano, Eracle,
mandato fuori della nave Argo a cercare acqua, sarebbe stato abbandonato da
Giasone e dai suoi compagni all'epoca della spedizione verso Ea nella
Colchide alla ricerca del vello; da lì dovevano prendere il largo dopo
essersi riforniti d'acqua, e per questo il luogo si chiamò Afete. Qui
dunque le navi si misero all'ancora. 194) Ma quindici di queste navi, che erano salpate per ultime
e si trovavano molto più indietro, finirono per avvistare la flotta
dei Greci all'Artemisio; i barbari la scambiarono per la propria e andarono a
cadere a vele spiegate fra i nemici. Le guidava il governatore di Cuma
nell'Eolide, il figlio di Tamasi Sandoce, che prima di questi avvenimenti re
Dario aveva condannato al supplizio del palo, quando era uno dei giudici
reali, in base alla seguente colpa: Sandoce per denaro aveva pronunciato
sentenze inique. E già era stato appeso, quando Dario, riflettendo,
trovò che Sandoce aveva procurato più bene che male alla casa
reale; stabilito questo e riconosciuto di aver agito più con fretta
che con saggezza, Dario lo aveva liberato. Insomma, sfuggendo così a
re Dario Sandoce si era salvato da morte sicura: ma questa volta, veleggiando
verso i Greci, non doveva sfuggire più al suo destino. I Greci
infatti, quando li videro avvicinarsi, avendo capito il loro errore li
attaccarono e li catturarono facilmente. 195) Era imbarcato su una delle navi, e fu catturato, Aridoli
tiranno di Alabanda in Caria; in un'altra il comandante Pentilo, di Pafo,
figlio di Demonoo, che guidava dodici navi da Pafo, ma ne aveva perdute
undici nella tempesta scoppiata al Sepiade: fu preso all'Artemisio con
l'unica superstite. I Greci, avute da essi le informazioni che volevano
sull'armata di Serse, li trasferirono, in catene, all'Istmo di Corinto. 196) La flotta dei barbari, escluse le quindici navi che,
come ho detto, erano al comando di Sandoce, giunse ad Afete. Serse, che aveva
attraversato la Tessaglia e l'Acaia, era penetrato già da due giorni
nella Malide con le truppe di terra. In Tessaglia aveva indetto una corsa di
cavalli per mettere alla prova la propria cavalleria e quella dei Tessali,
avendo sentito dire che era la migliore di Grecia. I cavalli greci persero
largamente il confronto. Tra i fiumi della Tessaglia solo l'Onocono non fu
sufficiente all'armata che vi si abbeverò: tra i fiumi che scorrono in
Acaia neppure il più grande, l'Epidano, neppure quello bastò,
se non a malapena. 197) Quando Serse giunse ad Alo in Acaia, le guide del viaggio,
che volevano spiegargli tutto, gli raccontarono una leggenda locale
riguardante il tempio di Zeus Lafistio: gli narrarono come Atamante figlio di
Eolo avesse tramato, di concerto con Ino, di uccidere Frisso; e come in
seguito a ciò gli Achei, obbedendo a un oracolo, impongano ai suoi
discendenti pene di questo tipo: al più anziano di questa schiatta
vietano l'accesso al léito (gli Achei chiamano léito il pritaneo) e pensano
loro a esercitare la sorveglianza; se vi entra, non può più
uscirne prima di venir sacrificato; e ancora come molti di quelli che
correvano il rischio di essere sacrificati, per paura, emigrassero in un
altro paese; e se, tornati indietro dopo un po' di tempo, erano sorpresi a
entrare nel pritaneo, le vittime erano condotte all'altare ciascuna cinta di
bende e accompagnata da una processione. Questa sorte, poi, tocca ai
discendenti di Citissoro figlio di Frisso per il fatto che, mentre gli Achei
per ordine di un oracolo provvedevano a purificare il paese sacrificando
Atamante, figlio di Eolo, e stavano ormai per immolarlo, sopraggiunse questo
Citissoro, proveniente da Ea nella Colchide, e lo salvò; con questo
gesto attirò sui propri discendenti l'ira del dio. Udito questo
racconto, Serse, quando giunse all'altezza del bosco sacro, evitò di
entrarvi personalmente e ordinò a tutti i suoi soldati di fare
altrettanto, per rispetto tanto della casa dei discendenti di Atamante quanto
del santuario. 198) Questo ciò che accadde in Tessaglia e in Acaia.
Dalle suddette regioni Serse passò nella Malide, lungo un'insenatura
marina in cui ogni giorno si genera un moto di flusso e riflusso. Intorno a
questo golfo si estende un territorio pianeggiante, qui aperto là
assai angusto; e tutto intorno si ergono montagne elevate e inaccessibili, che
chiudono l'intera Malide e sono dette Rocce Trachinie. La prima città
nel golfo per chi arrivi dall'Acaia è Anticira, presso la quale scorre
e sfocia in mare il fiume Spercheo, che proviene dal paese degli Eniani. A
circa venti stadi di distanza dallo Spercheo c'è un altro fiume,
chiamato Dira, scaturito, si racconta, per soccorrere Eracle quando era ormai
avvolto dalle fiamme. Ad altri venti stadi dal Dira c'è un terzo
fiume, denominato Melas. 199) La città di Trachis dista cinque stadi da questo
fiume Melas; qui, proprio dove sorge Trachis, si ha anche la parte più
aperta del paese fra le montagne e il mare: 22.000 pletri di pianura. A sud
di Trachis c'è una gola fra i monti che chiudono la Trachinia:
attraverso questa gola, ai piedi della montagna, scorre il fiume Asopo. 200) A sud dell'Asopo c'è un altro torrente, il
modesto Fenice, che scende dalle montagne e si getta nell'Asopo. È
all'altezza del Fenice che si trova il varco più stretto del paese: vi
è tracciata, infatti, appena una strada. Dal fiume Fenice alle
Termopili ci sono quindici stadi. Nello spazio fra il Fenice e le Termopili
sorge un villaggio, chiamato Antela, accanto al quale scorre l'Asopo prima di
andare a sfociare in mare; e intorno al villaggio s'apre un'ampia zona, dove
sorge il tempio di Demetra Anfizionide e dove sono situate le sedi degli
Anfizioni e il tempio dello stesso Anfizione. 201) Il re Serse aveva il campo nella zona di Trachis, nella
Malide; i Greci, invece, si accamparono nel passo. Questa località
è chiamata Termopili dalla maggior parte dei Greci, ma Pile dalla
gente del luogo e del vicinato. I due contendenti erano dunque attestati in
queste località: il Persiano dominava tutta la parte settentrionale
fino a Trachis, i Greci i territori verso Noto e mezzogiorno. 202) Ed ecco quali contingenti greci attendevano il Persiano
in questa località: trecento opliti Spartiati, mille fra Tegeati e
Mantinei (metà ciascuno); centoventi venivano da Orcomeno d'Arcadia e
mille dal resto dell'Arcadia: tanti erano gli Arcadi; quattrocento erano gli
uomini di Corinto, duecento di Fliunte e ottanta di Micene. Questi erano i
Peloponnesiaci presenti. Dalla Beozia c'erano settecento Tespiesi e
quattrocento Tebani. 203) A essi si aggiunsero, lì convocati, i Locresi
Opunzi con tutte le loro forze e mille Focesi. I Greci, in effetti, li
avevano chiamati in soccorso informandoli attraverso messaggeri di essere
arrivati come avanguardia: che il resto dell'esercito alleato era atteso da
un giorno all'altro, che il mare era sotto controllo, guardato da Ateniesi,
Egineti e da quanti prestavano servizio nella flotta; che non avevano nulla
da temere: non era un dio, dicevano, l'invasore della Grecia, ma un essere
umano, e non c'era né ci sarebbe mai stato un uomo che dopo la nascita non
venisse colpito da qualche disgrazia; anzi agli uomini più grandi
toccano le sciagure più gravi; quindi anche il capo dell'esercito
invasore, in quanto essere umano, era destinato a svegliarsi dai suoi sogni
di gloria. E quelli, sentendo simili discorsi, erano accorsi nel paese di
Trachis. 204) Ciascun contingente secondo la città di origine
aveva un suo comandante, ma il più ammirato e capo di tutto l'esercito
era lo Spartano Leonida, figlio di Anassandride, i cui avi erano, risalendo
nel tempo: Leonte, Euricratide, Anassandro, Euricrate, Polidoro, Alcamene,
Teleclo, Archelao, Egesilao, Dorisso, Leobote, Echestrato, Aghio, Euristene,
Aristodemo, Aristomaco, Cleodeo, Illo, Eracle; inaspettatamente Leonida aveva
raggiunto a Sparta la dignità di re. 205) Avendo, infatti, due fratelli maggiori, Cleomene e
Dorieo, era stato ben lontano dal pensare al trono. Ma poi, morto Cleomene
senza lasciare discendenza maschile e non essendoci più Dorieo, morto
lui pure, in Sicilia, il trono toccava a Leonida, sia perché era più
anziano di Cleombroto (cioè del più giovane tra i figli di
Anassandride), sia in particolare perché aveva per moglie una figlia di
Cleomene. In quell'occasione Leonida veniva alle Termopili dopo essersi
scelto trecento uomini stabiliti che avessero figli. Giunse conducendo con sé
dei Tebani (già li ho menzionati nel computo delle truppe), che erano
agli ordini di Leontiade figlio di Eurimaco; Leonida si era preoccupato di
prendere con sé dalla Grecia i soli Tebani per la seguente ragione: li si
accusava, pesantemente, di parteggiare per i Medi; li sollecitò quindi
alla guerra con l'intenzione di verificare se gli avrebbero mandato soldati o
se avrebbero rifiutato apertamente di allearsi coi Greci. Essi gli inviarono
truppe, benché fossero di tutt'altro orientamento. 206) Gli Spartiati avevano inviato per primi Leonida e i suoi
perché gli altri alleati, vedendoli, scendessero in campo e non passassero anch'essi
al nemico, se venivano a sapere che gli Spartani differivano la partenza.
Poiché c'erano di mezzo le feste Carnee, contavano, più tardi,
celebrate le feste e lasciato a Sparta un presidio, di accorrere in massa e
con rapidità. E altrettanto pensavano di fare anche gli altri;
infatti, nello stesso periodo, con questi avvenimenti erano venuti a
coincidere i Giochi Olimpici; pertanto, non credendo che la guerra alle
Termopili si sarebbe decisa così rapidamente, avevano inviato solo
delle avanguardie. 207) Essi dunque pensavano di fare così. Ma i Greci
alle Termopili, dopo l'arrivo del Persiano nei pressi del valico, ebbero
paura e discutevano di una eventuale ritirata. Gli altri Peloponnesiaci erano
del parere di tornare nel Peloponneso e di presidiare l'Istmo; invece
Leonida, visto lo sdegno di Focesi e Locresi per questo parere, decise di
restare lì e di inviare messaggeri nelle città a chiedere
aiuti, giacché erano pochi per respingere l'esercito dei Medi. 208) Mentre essi si consigliavano così sul da farsi,
Serse mandò un cavaliere in esplorazione a spiare quanti fossero e
cosa stessero facendo; ancora in Tessaglia aveva saputo che lì si era
radunato un piccolo esercito e che a comandarlo erano gli Spartani con
Leonida, della stirpe di Eracle. Il cavaliere, avvicinatosi all'accampamento,
poté spiare e osservare tutto tranne l'esercito: infatti non era possibile
scorgere i soldati appostati al di là del muro che avevano eretto e
presidiavano; osservò quelli di fuori, le cui armi giacevano davanti
al muro. Lì in quel momento erano schierati per caso gli Spartani. E
li vide intenti in parte a compiere esercizi fisici in parte a pettinarsi le
chiome; stupefatto, li guardava e li contava. Memorizzato per bene ogni
particolare, tornò indietro indisturbato: nessuno lo inseguì,
incontrò l'indifferenza generale; tornato al suo campo, riferì
a Serse tutto ciò che aveva veduto. 209) Serse, ascoltandolo, non riusciva a capire la
realtà, e cioè che gli Spartani si preparavano a morire e a
uccidere secondo le proprie forze; poiché anzi gli parevano intenti ad
attività ridicole, mandò a chiamare Demarato, figlio di
Aristone, che si trovava nell'accampamento. Quando fu da lui, Serse lo
interrogò su ciascun particolare, desideroso di sapere cosa stessero
combinando gli Spartani. E Demarato rispose: "Già mi hai sentito
parlare di questa gente, quando eravamo in partenza per la Grecia: ma poi,
dopo avermi ascoltato, ridevi di me, che esprimevo il mio parere sull'esito
di questa spedizione. Sovrano, per me è una vera impresa praticare la
verità di fronte a te. Ascoltami, dunque, anche ora. Questi uomini
sono venuti a combattere contro di noi per il passo e ci si stanno
preparando. Hanno infatti una regola che vuole così: allorquando si
apprestino a mettere a rischio la propria vita si ornano la testa. Sappilo:
se piegherai costoro e quelli rimasti a Sparta, non c'è altro popolo
al mondo che ti contrasterà opponendosi a te con le armi; ora, in
effetti, stai attaccando il regno più bello esistente fra i Greci, gli
uomini più valorosi". Serse trovò tale discorso assai poco
degno di fede e si rivolse a Demarato una seconda volta chiedendogli come
avrebbero fatto gli Spartani a combattere in così pochi contro il suo
esercito. E Demarato rispose: "Mio re, trattami pure da mentitore, se le
cose non andranno come sostengo". 210) Con queste parole non lo convinse. Serse, pertanto,
lasciò passare quattro giorni, sempre sperando che i Greci si
ritirassero. Il quinto giorno, poiché non se ne andavano e anzi la loro
permanenza gli pareva un atto di insolenza e di follia, Serse, infuriato,
mandò contro di loro Medi e Cissi, con l'ordine di farli prigionieri e
di condurli al suo cospetto. I Medi si gettarono contro i Greci; molti di
essi caddero ma altri subentravano, e non indietreggiavano, benché subissero
perdite gravi. Resero chiaro a chiunque, e per primo al re, che c'erano
sì tanti uomini, ma pochi veri combattenti. La battaglia durò
una giornata. 211) Allora, così duramente malconci, i Medi si
ritirarono; ma presero il loro posto i Persiani, quelli che il re chiamava
Immortali, agli ordini di Idarne: l'idea era che avrebbero chiuso la faccenda
agevolmente. Quando anche questi si scontrarono coi Greci, non ottennero
miglior risultato dei Medi, ma proprio lo stesso, perché affrontavano il
nemico in uno spazio angusto, si servivano di lance più corte di
quelle dei Greci e non potevano far valere la superiorità numerica.
Gli Spartani lottarono in maniera memorabile, dimostrando in varie maniere di
essere combattenti esperti fra gente che combattere non sapeva: tutte le
volte che voltavano le spalle e accennavano a fuggire mantenevano serrate le
file; i barbari, vedendoli ritirarsi si lanciavano all'attacco con urla e
frastuono; ma gli Spartani, appena raggiunti, si voltavano e li affrontavano,
e con questa tattica abbatterono un numero incalcolabile di Persiani.
Lì caddero anche alcuni, pochi, fra gli Spartani. I Persiani non
riuscendo a forzare in nessun punto il passo, per quanto ci provassero
attaccando a frotte e in ogni altra maniera, si ritirarono. 212) Si racconta che durante questi assalti il re, che
osservava la battaglia, sia balzato tre volte dalla sedia, in apprensione per
il suo esercito. Quel giorno dunque combatterono così. Il giorno
seguente i barbari lottarono senza miglior sorte; dato che quelli erano
pochi, attaccavano sperando che, coperti di ferite, non sarebbero più
stati in grado di opporre resistenza. Ma i Greci erano schierati per reparti
e per città e si alternavano in prima linea, tranne i Focesi, che
erano dislocati sulla montagna per sorvegliare il sentiero. Non trovando
niente di diverso da quanto visto il giorno prima, i Persiani si ritirarono. 213) Proprio quando il re non sapeva più che fare in
quel frangente, gli si presentò un abitante della Malide, Efialte
figlio di Euridemo, certo convinto di ricevere da lui qualche grande
ricompensa, e gli parlò del sentiero che portava alle Termopili
attraverso i monti; e così segnò la fine dei Greci che
là avevano resistito. In seguito, per paura degli Spartani, Efialte si
rifugiò in Tessaglia; dopo la sua fuga, alla riunione degli Anfizioni
a Pile, i Pilagori misero una taglia sulla sua testa e più tardi (era
rientrato ad Anticira) morì per mano di un uomo di Trachis, Atenade.
Atenade uccise Efialte per un'altra ragione, su cui mi soffermerò in
un secondo tempo, ma non per questo fu meno onorato dagli Spartani. 214) Così dunque morì Efialte tempo dopo questi
avvenimenti. Circola anche un'altra versione dei fatti: sarebbero stati un
uomo di Caristo, Orete figlio di Fanagore, e l'Anticirese Coridallo a parlare
al re e a indicare ai Persiani la strada intorno al monte; ma io non ci credo
affatto. Intanto bisogna considerare che i Pilagori dei Greci non misero una
taglia su Orete e Coridallo, ma su Efialte di Trachis, verosimilmente dopo
aver raccolto le più sicure informazioni. Inoltre sappiamo che Efialte
si era dato alla fuga per questa imputazione; in effetti anche senza essere
della Malide, Onete avrebbe potuto conoscere quel sentiero, se aveva
frequentato spesso quella regione, ma fu Efialte a mostrare il sentiero
attorno al monte; il colpevole è lui e lui io scrivo. 215) Serse si compiacque di quanto Efialte gli prometteva di
fare: subito, tutto allegro, ordinò a Idarne e ai suoi uomini di
partire; si mossero dall'accampamento all'ora in cui si accendono i lumi.
Questo sentiero era stato scoperto dai Maliesi del luogo; dopo averlo
scoperto, per di là avevano guidato i Tessali contro i Focesi
all'epoca in cui i Focesi, munito il passo con una muraglia, erano al riparo
da azioni di guerra. Da così tanto tempo si era rivelato di nessuna
utilità per i Maliesi. 216) Ed ecco il tracciato di questo sentiero. Inizia dal
fiume Asopo, che scorre attraverso la gola del monte; monte e sentiero
portano lo stesso nome, Anopea. Il sentiero Anopea si sviluppa sul dorso
della montagna e termina nei pressi della città di Alpeno, che
è la prima della Locride in direzione della Malide, vicino alla roccia
detta di Melampigo e alle sedi dei Cercopi, dove si trova il punto più
stretto del passo. 217) Seguendo tale sentiero fatto così, i Persiani,
attraversato l'Asopo, marciarono tutta le notte, avendo a destra i monti
dell'Eta e a sinistra quelli di Trachis. Spuntava l'aurora quando giunsero
sulla vetta del monte. Nei pressi di questo monte, come ho già
spiegato, erano di guardia mille opliti focesi, che difendevano la loro
patria sorvegliando il sentiero; la via d'accesso inferiore, infatti, era
presidiata da quelli che si è detto, i Focesi invece vigilavano sul
sentiero, di loro iniziativa, dopo essersi impegnati in tal senso con
Leonida. 218) Ecco come i Focesi si accorsero dei Persiani quando
erano ormai lassù. I Persiani in effetti erano riusciti a salire senza
farsi vedere perché il monte è tutto ricoperto di querce; c'era
comunque calma nell'aria e quando il rumore divenne forte, come era naturale
data la massa di foglie sparse sotto i piedi, i Focesi balzarono su e
rivestirono le armi; e subito i barbari furono lì. Al vedere uomini
intenti a prendere le armi, rimasero sbigottiti: si aspettavano di non
trovare il minimo ostacolo e si erano imbattuti in un esercito. Idarne,
temendo che i Focesi fossero Spartani, chiese a Efialte la nazionalità
di quei soldati; ricevuta l'informazione esatta, dispose i Persiani in ordine
di battaglia. I Focesi, fatti segno a ripetuti e fitti lanci di frecce, si
rifugiarono in ritirata sulla cima del monte, credendo che i nemici fossero
venuti ad attaccare proprio loro, ed erano pronti a morire. Questo pensavano,
ma i Persiani di Efialte e di Idarne, senza affatto badare ai Focesi, in
fretta e furia, scesero giù dalla montagna. 219) Ai Greci di stanza alle Termopili il primo a predire la
morte che li avrebbe colti all'aurora era stato l'indovino Megistia, dopo
aver osservato le vittime dei sacrifici. Poi dei disertori portarono notizia
dell'accerchiamento persiano (la segnalazione era arrivata quando era ancora
notte). Il terzo avviso lo diedero le sentinelle che corsero giù dalle
alture, ormai allo spuntare del giorno. Allora i Greci tennero consiglio e i
pareri erano divergenti: c'era chi proibiva che si abbandonasse la posizione
e chi premeva per il contrario. Quindi si divisero: alcuni di loro si
allontanarono, e, sbandatisi, rientrarono nelle rispettive città,
altri erano pronti a restare lì assieme a Leonida. 220) Ma si racconta anche che fu Leonida a congedarli: si
preoccupava, pare, di sottrarli alla morte, mentre a lui e agli Spartiati
presenti non si addiceva abbandonare la postazione che erano venuti
espressamente a presidiare. Io sono pienamente d'accordo con questa versione;
di più: sono convinto che Leonida, quando si accorse che gli alleati
erano scoraggiati e poco disposti a condividere i pericoli, abbia ordinato
loro di andarsene, pensando però che a lui la ritirata non conveniva:
restando lì lasciava di sé un glorioso ricordo, senza intaccare la
prosperità di Sparta. In effetti agli Spartani che la interrogavano
circa questa guerra, subito all'inizio delle operazioni, la Pizia aveva
risposto che o Sparta sarebbe stata distrutta dai barbari o il suo re sarebbe
morto. Ecco il testo dell'oracolo pronunciato in versi esametri:..."O
abitanti di Sparta, la vostra città gloriosa Da discendenti di Perseo
è distrutta, o la terra lacena Piangere deve la morte del re della
stirpe di Eracle: Poichè non furia di tori o leoni trattien
l'invasore. Zeus in lui l'impeto infonde; e non credo si fermi fin quando O
la cittade o il rege non abbia del tutto sbranato"... (Voi che
abitate l'ampia pianura di Sparta, o la vostra grande e gloriosa città
dai discendenti di Perseo viene distrutta, oppure no, ma allora il paese di
Lacedemone piangerà la morte di un re della stirpe di Eracle. No, non
lo tratterrà la forza né dei tori né dei leoni, faccia a faccia;
dispone della forza di Zeus; e dico che non si fermerà prima di aver
fatto a pezzi l'una o l'altra). Ritengo quindi che Leonida, pensando a queste
parole e volendo assicurare la gloria ai soli Spartani, abbia congedato gli
alleati e non che quanti se ne andarono se ne siano andati così
malamente, nella discordia. 221) A questo riguardo esiste una prova niente affatto
trascurabile. Anche l'indovino al seguito dell'esercito, che si diceva
discendesse da Melampo, Megistia d'Acarnania, e che osservando le vittime
aveva predetto l'immediato futuro, fu congedato da Leonida, come risulta
chiaramente, perché non morisse con loro. Ma lui, benché mandato via, rimase
e allontanò invece il figlio, a sua volta presente nella truppa, il
solo che avesse. 222) Insomma, gli alleati dimessi da Leonida se ne andarono
via e gli obbedirono, ma Tespiesi e Tebani rimasero, soli, presso gli
Spartani. I Tebani restavano contro voglia e loro malgrado (Leonida in
effetti li tratteneva tenendoli in conto di ostaggi), i Tespiesi invece per
loro precisa scelta: rifiutarono di andarsene abbandonando Leonida e i suoi,
e così, rimanendo sul posto, ne condivisero la sorte. Il loro
comandante era Demofilo, figlio di Diadrome. 223) Serse, dopo aver offerto libagioni al sorgere del sole,
attese fino all'ora in cui la piazza del mercato è più
affollata e quindi ordinò l'assalto; così gli aveva suggerito
Efialte: infatti la discesa dal monte è assai più rapida e la
distanza molto minore che non l'aggiramento e la salita. I barbari di Serse
avanzavano e i Greci di Leonida, da uomini che marciavano incontro alla morte,
si spinsero ormai molto più che all'inizio verso lo spazio più
aperto della gola. In effetti nei giorni precedenti si difendeva il baluardo
del muro ed essi combattevano ritirandosi lentamente verso i punti più
stretti; allora invece, scontrandosi fuori dalle strettoie... molti dei
barbari cadevano a frotte; dietro di loro infatti, i comandanti degli
squadroni, armati di frusta, tempestavano di colpi ogni soldato, spingendoli
avanti continuamente. Molti finirono in mare e annegarono, molti di più
ancora morivano nella calca calpestandosi a vicenda: nemmeno uno sguardo per
chi cadeva. I Greci, sapendo che sarebbero morti per mano di quanti avevano
aggirato la montagna, mostravano ai barbari tutta la propria forza, con
disprezzo della propria vita, con rabbioso furore. 224) Alla maggior parte di loro, intanto, s'erano ormai
spezzate le lance, ma massacravano i Persiani a colpi di spada. E Leonida,
dopo essersi comportato veramente da valoroso, cadde in questo combattimento
e con lui altri Spartani famosi, dei quali io chiesi i nomi, trattandosi di
uomini degni di essere ricordati; e chiesi anche i nomi di tutti i trecento.
Caddero allora anche molti altri illustri Persiani, fra i quali due figli di
Dario, Abrocome e Iperante, nati a Dario dalla figlia di Artane Fratagune;
Artane era fratello di re Dario e figlio di Istaspe di Arsame. Artane nel
cedere la figlia in sposa a Dario le assegnò in dote l'intero
patrimonio, perché Fratagune era la sua unica figlia. 225) Colà caddero dunque combattendo due fratelli di
Serse. Sopra il cadavere di Leonida si accese una mischia furibonda di
Persiani e Spartani, finché grazie al loro eroismo, i Greci lo strapparono ai
nemici respingendoli per quattro volte. Questo durò fino all'arrivo
degli uomini di Efialte. Dal momento in cui i Greci seppero del loro arrivo
la battaglia mutò ormai aspetto: i Greci riguadagnarono di corsa la
strettoia della strada, superarono il muro e andarono a prendere posizione
sulla collina, tutti quanti assieme tranne i Tebani. La collina si trova
all'ingresso del passo, dove oggi si erge in onore di Leonida il leone di
marmo. Lassù si difendevano colle spade (chi ancora le aveva), con le
mani, coi denti; i barbari li tempestavano di colpi, di fronte quelli che li
avevano seguiti e avevano abbattuto il baluardo del muro, intorno da tutte le
parti gli altri che li avevano aggirati. 226) Spartani e Tespiesi si comportarono altrettanto bene, ma
il più valoroso si narra sia stato lo spartano Dienece, che prima
dello scontro coi Medi avrebbe pronunciato la seguente battuta. Sentendo dire
da uno di Trachis: "Quando i barbari scaglieranno le frecce, copriranno
il sole con la moltitudine dei dardi" (tante erano le frecce), Dienece
non rimase per nulla scosso da questa osservazione e rispose, mostrando di
disprezzare il numero dei nemici, che l'ospite di Trachis stava dando tutte
notizie magnifiche: visto che i Medi oscuravano il sole, contro di loro la
battaglia si sarebbe svolta all'ombra e non al sole. 227) Queste e altre simili battute lo spartano Dienece
lasciò a ricordo di sé, secondo quanto si racconta. Dopo di lui gli
Spartani dicono che abbian dato eccellente prova di sé due fratelli, Alfeo e
Marone figli di Orsifanto. Fra i Tespiesi si segnalò maggiormente uno
che si chiamava Ditirambo, figlio di Armatide. 228) In onore di quanti furono sepolti esattamente là
dove caddero e di quanti erano morti prima che partissero i Greci dimessi da
Leonida, sono scolpite le seguenti parole:..."Contro trecento miriadi
combatterono quì D'uomini quatro migliaia venuti dal
Peloponneso."... (Qui, un giorno, contro tre milioni di nemici
combatterono quattromila Peloponnesiaci). La precedente iscrizione vale per
tutti, la seguente per i soli Spartani:..."Ospite, vanne; e a Sparta
tu reca l'annunzio, che quì Per ubbidire alle leggi di lei noi
giaciamo"... (Straniero, porta agli Spartani la notizia che noi
giacciamo qui, obbedendo ai loro ordini). Così per gli Spartani; in
onore dell'indovino:..."Il monumento è questo del glorioso
Megistia. Dello Spercheo la corrente varcando, l'uccisero i Medi: Quando,
indovino ben certo del sopravvenir delle Parche, Il condottiero di Sparta
lasciare e salvarsi non volle".... ( Questa è la tomba del
famoso Megistia, ucciso, un giorno dai Medi che avevano varcato il fiume
Spercheo, dell'indovino che allora, pur conoscendo il suo destino di morte,
si rifiutò di abbandonare il comandante di Sparta). Esclusa la scritta
relativa all'indovino, furono gli Anfizioni a onorarli con iscrizioni e con
stele. La stele dell'indovino fu fatta scolpire da Simonide figlio di
Leoprepe, per ragioni di amicizia. 229) Due dei trecento, Eurito e Aristodemo, si racconta,
potendo entrambi accordarsi e mettersi insieme in salvo a Sparta (Leonida li
aveva allontanati dall'accampamento, e giacevano infermi ad Alpeni, con
gravissimi disturbi agli occhi) oppure morire con gli altri, se non volevano
tornare a casa, pur avendo queste due alternative, non vollero intendersi,
anzi, in pieno disaccordo, Eurito, avendo saputo della manovra accerchiante
dei Persiani, chiese le armi, le indossò e ordinò al suo ilota
di condurlo fra i combattenti; quando ve lo ebbe condotto l'ilota
fuggì, mentre Eurito si gettava nel folto dei nemici e moriva;
Aristodemo, invece, non ebbe animo sufficiente e sopravvisse. Ebbene, se
Aristodemo fosse stato infermo lui solo e fosse tornato a Sparta, oppure
anche se fossero tornati tutti e due assieme, credo che gli Spartani non si
sarebbero sdegnati con loro; invece, poiché uno di loro era morto e l'altro
invece, che aveva un'identica giustificazione, s'era rifiutato di farlo,
inevitabilmente su Aristodemo ricadde, e pesante, l'ira degli Spartani. 230) Corre voce che Aristodemo si mise in salvo a Sparta
così e con questa spiegazione; ma altri raccontano che era stato
inviato come messaggero fuori dell'accampamento e poi, pur potendo
raggiungere la battaglia in corso, non volle farlo, si attardò lungo
il percorso e si salvò; mentre il suo compagno di missione
riuscì a riunirsi ai combattenti e cadde sul campo. 231) Tornato a Sparta, Aristodemo fu coperto di vergogna ed
emarginato, emarginato come segue: nessuno Spartiata gli accendeva il fuoco o
gli rivolgeva la parola; subì l'onta di sentirsi chiamare
"Aristodemo il vigliacco". 232) Ma nella battaglia di Platea si riscattò da
questa imputazione. Si narra che anche un altro di questi trecento, di nome
Pantite, inviato messaggero in Tessaglia, poté salvarsi: costui, al suo
ritorno a Sparta, vedendosi disonorato, si impiccò. 233) I Tebani, agli ordini di Leontiade, finché furono con i
Greci combatterono, per necessità, contro l'armata del re. Quando
videro che i Persiani avevano la meglio, allora, mentre i Greci con Leonida
si affrettavano verso la collina, si separarono da loro, andarono incontro ai
barbari con le mani protese dicendo, ed era una cosa verissima, che
parteggiavano per i Medi, che erano stati fra i primi a dare terra e acqua al
Persiano, che erano venuti alle Termopili perché costretti, che non erano
responsabili dei gravi colpi subiti dal re; sicché con tali scuse si
salvarono. In effetti, a comprovare quanto dicevano c'era la testimonianza
dei Tessali. Comunque non ebbero fortuna totalmente: i barbari, li
catturarono al loro arrivo, alcuni li uccisero mentre si avvicinavano e alla
maggior parte, per ordine di Serse, impressero il marchio reale, a cominciare
dal comandante Leontiade, il cui figlio Eurimaco, tempo dopo, lo uccisero i
Plateesi perché alla testa di quattrocento Tebani aveva occupato la rocca di
Platea. 234) Così combatterono i Greci alle Termopili; Serse
chiamò Demarato e lo interrogò cominciando da questa domanda:
"Demarato, sei un uomo capace, lo deduco dalla realtà: tutto
ciò che avevi predetto si è verificato. Ora dimmi un po' quanti
sono gli Spartani rimasti e quanti di loro sono dello stesso genere in
battaglia, o se lo sono tutti". Demarato rispose: "Sovrano, il
numero complessivo degli Spartani è alto e molte sono le loro
città; ma saprai quello che vuoi apprendere. Nella piana della Laconia
c'è la città di Sparta, che conta circa ottomila uomini; e sono
tutti pari a quelli che hanno combattuto qui; gli altri abitanti della
Laconia no, non sono pari; ma valgono anche loro". E Serse riprese:
"Demarato, come faremo a battere questa gente senza penare troppo? Spiegamelo,
perché tu conosci i particolari dei loro piani, sei stato re a Sparta". 235) Demarato rispose: "Sovrano, se ci tieni tanto ad
avere un mio parere, è giusto che io ti dia il migliore. Dovresti
inviare in Laconia trecento navi della tua flotta. A ridosso della Laconia
c'è un'isola, chiamata Citera che, secondo Chilone, un gran sapiente
del mio paese, sarebbe stato meglio per gli Spartani se invece di emergere
dalle acque vi fosse sprofondata; si aspettava infatti da un giorno
all'altro, che da Citera derivasse qualcosa di simile a quanto sto per
esporti: non prevedeva certo la tua spedizione, ma paventava ugualmente
qualunque spedizione armata. Muovendo da questa isola le tue navi incutano
paura agli Spartani. Con la guerra alle porte di casa, non saranno in grado
di venire in aiuto agli altri, quando il resto della Grecia cadrà
nelle mani delle truppe di terra; e una volta ridotto in schiavitù il
resto della Grecia, lo stato spartano, rimasto solo, è debole. Se non
farai così, ecco cosa devi immaginarti: nel Peloponneso c'è uno
stretto istmo; in quel punto, dopo che tutti i Peloponnesiaci si saranno
confederati contro di te, attenditi battaglie più dure di quelle
già sostenute. Se invece farai quanto ho detto, l'istmo e le
città si arrenderanno a te". 236) Dopo Demarato prese la parola Achemene, fratello di
Serse e comandante della flotta, che assisteva per caso al colloquio e temeva
che Serse si lasciasse convincere ad agire così: "Mio re, vedo
che accetti le parole di un uomo che è geloso della tua
prosperità, se addirittura non tradisce la tua causa; ed è
proprio di sentimenti del genere che si compiacciono i Greci: invidiano la
buona sorte e detestano la superiorità altrui. Se nelle attuali
circostanze, ora che quattrocento navi sono naufragate, tu ne invierai altre
trecento intorno al Peloponneso, i tuoi nemici saranno in grado di misurarsi
con te. Se invece la nostra flotta rimane unita, troveranno ben difficile
attaccarla e non potranno assolutamente tenerci testa. Avanzando di concerto,
la flotta intera e le truppe di terra si sosterranno a vicenda. Se invece le
dividerai, né tu sarai utile alle navi né le navi a te. Regola bene i tuoi
affari, attieniti a questo criterio: non curarti delle mosse dei tuoi nemici,
dove porteranno la guerra, che cosa faranno, quanti siano. Sono capaci da
soli di pensare a se stessi, come lo siamo noi per quel che ci riguarda. Se
affronteranno i Persiani, gli Spartani non rimedieranno davvero all'attuale
disastro". 237) Ecco come gli rispose Serse: "Achemene, mi pare che
tu parli bene e farò così. Sì, Demarato propone quanto
lui crede sia meglio per me, ma il suo consiglio è peggiore del tuo.
Tuttavia non sono d'accordo con te su una cosa, che non sia favorevole alla
mia causa: lo giudico da quanto mi ha detto prima e dalla realtà;
è vero, un cittadino invidia le fortune di un altro e gli è
ostile col silenzio: richiesto di un parere non gli darebbe i consigli che
ritiene migliori; a meno di non essere un uomo di altissima virtù, e
ce ne sono ben pochi. Però un ospite è molto ben disposto verso
un ospite in buona fortuna: richiesto di un parere gli darebbe il migliore.
Perciò ordino che per il futuro ci si astenga dall'offendere Demarato,
che è ospite mio". 238) Detto ciò Serse passò in mezzo ai
cadaveri; al corpo di Leonida, avendo udito che era re e comandante degli
Spartani, ordinò di tagliare la testa e di piantarla su un palo. Mi
pare chiaro da molti altri elementi e da questo in particolare, che Serse si
era infuriato contro Leonida, quando era vivo, più che contro chiunque
altro; altrimenti nei confronti di questo cadavere non avrebbe travalicato le
norme: sì perché tra tutte le popolazioni a me note sono proprio i
Persiani a onorare di più i valorosi in guerra. L'ordine venne
eseguito da chi ne era stato incaricato. 239) Ma torno ora al punto precedente della mia esposizione
che era rimasto sospeso. Gli Spartani furono i primi a sapere che il re stava
per marciare contro la Grecia (per questo avevano inviato delegati
all'oracolo di Delfi, dove ricevettero il responso da me più sopra
riferito) e vennero a saperlo in maniera sorprendente. Demarato, figlio di
Aristone, per quanto io credo (e la logica mi soccorre), non era ben disposto
verso gli Spartani, nel suo esilio fra i Medi; a questo punto si può
cercare di indovinare se quel che fece lo fece per benevolenza o invece con
gioia maligna. Quando Serse ebbe deciso di muovere contro la Grecia, Demarato
che si trovava a Susa e ne venne a conoscenza, volle informarne gli Spartani.
Non aveva altri sistemi per avvisarli, giacché correva il rischio di essere
scoperto, e quindi escogitò questo sotterfugio: prese una tavoletta
doppia, ne raschiò via la cera e poi incise sul legno della tavoletta
la decisione del re; dopodiché riversò della cera sullo scritto, affinché
la tavoletta, non contenendo nulla, non procurasse noie a chi la portava da
parte delle guardie delle strade. Quando essa giunse a Sparta, gli Spartani
non riuscivano a raccapezzarsi finché un suggerimento non venne da Gorgo,
figlia di Cleomene e moglie di Leonida, che ci era arrivata da sola: li
esortò a raschiare via la cera e avrebbero trovato il messaggio inciso
nel legno. Seguirono il suo consiglio, trovarono il messaggio, lo lessero;
poi lo divulgarono fra gli altri Greci. Così si narra che sia
accaduto. Libro VIII 1)Ecco quali erano i Greci
schierati nella flotta: gli Ateniesi, che fornivano centoventisette navi; i
Plateesi, con il loro valore e il loro entusiasmo, che completavano gli
equipaggi ateniesi, pur non avendo esperienza di marineria. I Corinzi erano
presenti con quaranta navi, i Megaresi con venti; i Calcidesi armarono venti
navi fornite dagli Ateniesi; gli Egineti diciotto, i Sicioni dodici, gli
Spartani dieci, gli Epidauri otto, gli Eretriesi sette, i Trezeni cinque, gli
Stirei due e i Cei due navi e due penteconteri. I Locresi Opunzi accorsero in
aiuto con sette penteconteri. 2) Erano dunque questi i
combattenti dell'Artemisio; e ho specificato anche quante navi fornisse
ciascuna città. Il numero delle navi radunate all'Artemisio fu, senza
contare le penteconteri, di 271. Lo stratego con l'autorità più
ampia proveniva da Sparta, Euribiade, figlio di Euriclide; gli alleati
avevano messo in chiaro che se gli Spartani non avessero avuto il comando
supremo, loro non avrebbero accettato direttive dagli Ateniesi, anzi,
avrebbero sciolto l'esercito che si stava costituendo. 3) In effetti fin da principio,
prima persino che si mandassero a cercare alleanze in Sicilia, si era
discusso se fosse il caso di affidare la flotta agli Ateniesi. Ma visto che
gli alleati si erano opposti, gli Ateniesi avevano ceduto: ritenevano di
primaria importanza la salvezza della Grecia e si erano resi conto che se
avessero battagliato per il comando supremo, la Grecia era perduta; e
pensavano bene: un contrasto interno è peggio di una guerra combattuta
nella concordia tanto quanto la guerra è peggio della pace. Convinti
dunque di ciò, non si opposero ma cedettero, almeno finché ebbero
bisogno degli alleati, come dimostrarono: infatti, quando ormai, respinto il
Persiano, la lotta ne riguardava il paese, prendendo a pretesto l'arroganza
Pausania, strapparono il comando agli Spartani. Ma questo accadde più
tardi. 4) Allora i Greci giunti
all'Artemisio, come videro molte navi alla fonda ad Afete e pullulare di
soldati dappertutto, dato che la situazione dei barbari deludeva le loro
aspettative, spaventati, meditavano di riparare dall'Artemisio verso la
Grecia centrale. Gli Euboici, quando ne capirono le intenzioni, pregarono
Euribiade di attendere ancora un po', fino a quando non avessero messo in
salvo i figli e i familiari. Poiché non riuscivano a convincerlo, si
rivolsero allo stratego ateniese Temistocle e, per trenta talenti, lo
persuasero a far rimanere lì la flotta e a combattere sul mare in
difesa dell'Eubea. 5) Ecco come Temistocle
riuscì a trattenere i Greci. Passò a Euribiade ci0nque talenti,
come se glieli desse di tasca propria; una volta persuaso Euribiade, visto
che lo stratego di Corinto, Adimanto figlio di Ocito, era il solo ormai a
recalcitrare e dichiarava che avrebbe lasciato l'Artemisio e non sarebbe
rimasto, a costui Temistocle disse, impegnandosi con giuramento: "No, tu
non ci abbandonerai, perché io ti farò doni maggiori di quelli che ti
farebbe il Medo se tu lasciassi gli alleati". Contemporaneamente inviava
tre talenti d'argento alla nave di Adimanto. I due, insomma, tacitati dai
doni, erano stati convinti, gli Euboici erano soddisfatti e Temistocle,
personalmente, ci guadagnava: nessuno si accorse che si era tenuto il resto
della somma, anzi chi aveva ricevuto parte del denaro credeva che provenisse
apposta da Atene. 6) Fu così che rimasero
in Eubea e si batterono sul mare. Ecco come andò. I barbari erano
giunti ad Afete intorno al primo pomeriggio, sapendo già che nei
pressi dell'Artemisio stazionavano poche navi greche; dopo averle avvistate,
erano impazienti di assalirle per impadronirsene. Non giudicarono opportuna
una manovra frontale, perché temevano che i Greci, scorgendoli avanzare,
battessero in ritirata e la notte scendesse a coprire la loro fuga. In quel
caso si sarebbero messi in salvo certamente, mentre, a sentir loro, nemmeno
il portatore del fuoco sacro doveva scampare e sopravvivere. 7) Pertanto studiarono il piano
seguente. Fra tutte le navi ne scelsero duecento e le mandarono fuori dalle
acque di Sciato a circumnavigare l'Eubea, possibilmente senza che se ne
accorgessero i nemici, lungo il capo Cafareo e intorno al Geresto, verso
l'Euripo; una volta giunti all'Euripo, dovevano accerchiare i Greci sbarrando
loro la via della ritirata, intanto gli altri avrebbero seguito i Greci e li
avrebbero attaccati di fronte. Progettato questo piano, fecero partire le
navi designate, con la ferma intenzione di non attaccare i Greci quel giorno,
né prima di ricevere il segnale di arrivo della flottiglia che operava
l'accerchiamento. Inviarono dunque queste navi e fecero la rassegna delle
restanti, ad Afete. 8) Durante tale operazione
Scilla di Scione (era il miglior palombaro di allora, arruolato fra le loro truppe
e nel naufragio del Pelio aveva salvato ai Persiani molte ricchezze e di
molte si era personalmente appropriato) aveva intenzione, già da
tempo, di passare ai Greci, ma non ne aveva avuto mai occasione fino a quel
momento. In che modo sia poi giunto fra i Greci non sono in grado di dirlo
con certezza; ma sarebbe stupefacente se fosse vero ciò che sia
racconta e cioè che si sia tuffato in mare ad Afete, per riemergere
solo all'Artemisio, dopo aver attraversato sott'acqua qualcosa come ottanta
stadi! Su quest'uomo circolano anche vari aneddoti che hanno l'aria di essere
falsi e qualche altro che è vero; nel nostro caso mi si consenta
l'opinione che sia giunto all'Artemisio su di una barca. Appena arrivato,
subito riferì agli strateghi notizie sul naufragio e sul periplo delle
navi intorno all'Eubea. 9) Udito ciò, i Greci si
consultarono tra di loro. Dopo molte discussioni prevalse la proposta di
restare lì per quel giorno e di accamparsi; poi di salpare, passata la
mezzanotte, muovendo incontro alle navi che stavano compiendo la manovra di
aggiramento. Più tardi, però, visto che nessuno li disturbava,
dopo aver atteso fino al tardo pomeriggio, furono loro a spingersi verso i
barbari, impazienti com'erano di provarne i metodi di combattimento e di
manovra. 10) Gli altri soldati di Serse e
i comandanti, vedendoli attaccare con poche navi, li giudicarono pazzi
completi e si spinsero verso il largo persuasi di catturarli facilmente,
un'aspettativa senz'altro ragionevole, giacché vedevano che le navi greche erano
poche mentre le loro erano superiori di numero e tenevano meglio il mare.
Convinti di questo, le circondarono. Fra gli Ioni, intanto, quanti
simpatizzavano per i Greci e partecipavano malvolentieri alla spedizione
erano molto tristi nel vederli accerchiati e all'idea che nessuno di loro si
sarebbe salvato; tanto gli pareva compromessa la sorte dei Greci. Quelli
invece che godevano di quanto stava accadendo facevano a gara a chi per primo
ricevesse un premio dal re per aver catturato una nave attica; fra le truppe,
in effetti, grande era la stima per gli Ateniesi. 11) I Greci al primo segnale
opposero ai barbari le prue e accostarono una all'altra le poppe; poi al
secondo segnale passarono all'attacco, benché fossero chiusi in poco spazio e
schierati faccia a faccia. Catturarono allora trenta navi barbare e il
fratello del re di Salamina Gorgo, Filaone figlio di Chersi, un personaggio
di rilievo nella flotta. Il primo fra i Greci a impadronirsi di una nave
nemica fu un Ateniese, Licomede figlio di Escreo, ed ebbe il premio del
valore. In questo scontro navale combattevano con esito alterno, quando
sopraggiunse la notte e li separò. I Greci tornarono all'Artemisio, i
barbari ad Afete dopo aver dovuto lottare ben più di quanto si
aspettassero. In questa battaglia Antidoro di Lemno fu l'unico dei Greci che
erano col re a passare dalla parte dei Greci, e per questa scelta gli
Ateniesi gli regalarono un terreno a Salamina. 12) Calate le tenebre (si era
nel bel mezzo dell'estate) cadde un acquazzone che non finiva più, per
tutta la notte, accompagnato da scoppi di tuono provenienti dal Pelio; i
cadaveri e i rottami, sospinti ad Afete, si ammassavano intorno alla prua
delle navi, costituendo intralcio per le pale dei remi. I soldati del posto,
udendo queste cose, erano in preda al panico e si aspettavano senz'altro il
peggio, visti i guai in cui erano capitati: in effetti, prima che potessero
riprendersi dal naufragio e dalla tempesta scatenatasi all'altezza del Pelio,
li avevano colti all'improvviso una dura battaglia navale e, dopo la
battaglia, violenti scrosci di pioggia, con rivi d'acqua che fluivano
tumultuosamente verso il mare e cupi scoppi di tuono. 13) Tale fu la notte che scese
su di loro; per gli altri, incaricati di circumnavigare l'Eubea, la medesima
notte fu molto più amara ancora, perché scese su di loro mentre
navigavano in mare aperto; fecero una gran brutta fine: il temporale e la
pioggia li sorpresero in navigazione mentre si trovavano all'altezza delle
Cave d'Eubea; trascinati dal vento senza sapere dove, si schiantarono sugli
scogli. Tutto questo fu opera del dio, affinché le forze persiane si
equivalessero a quelle greche e non fossero tanto superiori. 14) Costoro, insomma, perirono
presso le Cave d'Eubea. I barbari di Afete, quando finalmente brillò
su di loro la sospirata luce del giorno, tennero ferme le navi: al presente
gli bastava, malconci com'erano, potersene stare un po' in pace. In soccorso
dei Greci arrivarono cinquantatré navi attiche. Risollevarono il loro morale
queste navi e la notizia, pervenuta assieme a esse, che i barbari durante il
periplo dell'Eubea erano stati tutti annientati dalla tempesta sopraggiunta.
A quel punto, atteso lo stesso momento del giorno prima, uscirono in mare e
attaccarono alcune navi cilicie; dopo averle affondate, tornarono indietro
all'Artemisio al calar della notte. 15) Il terzo giorno i generali
barbari, non sopportando più di ricevere continui danni da così
poche navi e temendo l'ira di Serse, non attesero più che fossero i
Greci a cominciare le ostilità, ma, fatti i dovuti preparativi, a
metà giornata spinsero la flotta al largo. Caso volle che negli stessi
giorni si combattesse sul mare e alle Termopili in terraferma. Per quelli sul
mare l'oggetto del contendere era il controllo dell'Euripo, così come
il presidio del passo lo era per gli uomini di Leonida. Gli uni avevano
l'ordine di impedire ai barbari l'accesso alla Grecia, gli altri di
distruggere l'esercito greco e diventare padroni del varco. 16) Mentre la flotta di Serse
avanzava in ordine di battaglia, i Greci se ne stavano fermi presso
l'Artemisio. I barbari, schierate le loro navi a mezzaluna, tentavano di
chiudere il cerchio per prenderli in mezzo. Allora i Greci passarono
all'attacco. In questa battaglia navale combatterono con esito pari, perché
la flotta di Serse, mastodontica e numerosa, provocava la propria rovina da
sola: le navi perdevano l'allineamento e cozzavano l'una contro l'altra.
Comunque teneva duro e non cedeva: sarebbe stato vergognoso, pensavano, farsi
mettere in fuga da poche navi. Molti vascelli dei Greci e molti uomini
andarono perduti, ma molte più ancora furono le perdite fra le navi e
gli equipaggi dei barbari. Tali erano le sorti della battaglia quando si
ritirarono ognuno dalla sua parte. 17) In questo scontro navale fra
i soldati di Serse spiccò il valore degli Egiziani, che catturarono
cinque navi greche complete di equipaggio e compirono altre notevoli imprese.
Fra i Greci quel giorno i migliori furono gli Ateniesi, e fra gli Ateniesi
Clinia figlio di Alcibiade, che militava al comando di duecento uomini e di
una nave propria, completamente a sue spese. 18) Separatisi, entrambi furono
ben lieti di riguadagnare in fretta gli ormeggi. I greci, quando, divisi, si
allontanarono dalla zona della battaglia, riuscirono a recuperare cadaveri e
relitti, ma poiché erano stati colpiti duramente, soprattutto gli Ateniesi,
che avevano metà delle navi danneggiate, decisero di riparare verso la
Grecia centrale. 19) Temistocle aveva capito che
se le genti ioniche e carie si staccavano dai barbari, i Greci sarebbero
stati in condizione di avere il sopravvento sugli altri; e mentre gli Euboici
spingevano le loro greggi verso il mare, riunì gli strateghi e li
informò che riteneva di avere un mezzo col quale (così sperava)
avrebbe staccato dal re i migliori fra i suoi alleati. Non rivelò
nulla di più del suo piano; quanto ai problemi immediati spiegò
quel che dovevano fare, e cioè immolare a volontà il bestiame
degli Euboici (era meglio che l'avessero le truppe piuttosto che i nemici); e
li invitò a dare ordine ciascuno ai propri soldati di accendere i
fuochi; circa la ritirata si preoccupava lui di scegliere il momento migliore
per giungere in Grecia senza danni. La proposta di azione fu accolta e
subito, accesi i fuochi, si occuparono del bestiame. Gli Euboici non si erano
impensieriti per l'oracolo di Bacide, privo di senso, secondo loro, e non
avevano messo in salvo nulla, né si erano procurati il necessario in
previsione di una guerra imminente: insomma, si erano fabbricati da soli
l'improvviso rovescio. Ecco il testo dell'oracolo di Bacide in questione:…”Quando
con gomene il mare un uom barbaro aggioghi, le capre Molto belanti provvedi a
tenere lontan dall’Eubea!”… (Attento, quando l'uomo che parla barbaro
imporrà al mare il giogo di papiro, tieni lontano dall'Eubea le tue
capre belanti). Non avendo fatto tesoro di queste parole, nei guai del
momento e in quelli prevedibili, gli toccava ora patire una tremenda
disgrazia. 21) Mentre i Greci agivano come
si è detto, giunse l'esploratore proveniente da Trachis. All'Artemisio
c'era di vedetta Poliade, originario di Anticira, con l'ordine (aveva a
disposizione imbarcazione ed equipaggio) di informare le truppe dislocate
alle Termopili di una eventuale sconfitta della flotta. Allo stesso modo
anche presso Leonida c'era l'Ateniese Abronico, figlio di Lisicle, pronto a
salpare con una triecontere per informare i Greci dell'Artemisio, nel caso
che un'infausta sorte fosse toccata all'esercito di terra. E così
Abronico venne a riferire quanto era accaduto a Leonida e ai suoi soldati.
Appresa la notizia, i Greci non rimandarono ulteriormente la ritirata e
partirono, in testa i Corinzi, per ultimi gli Ateniesi, secondo l'ordine di
schieramento. 22) Temistocle, scelte le navi
ateniesi che meglio tenevano il mare, compì un giro dei luoghi dove
c'era acqua potabile, incidendo sulle rocce iscrizioni che gli Ioni, giunti
all'Artemisio il giorno dopo, in effetti lessero. Le scritte dicevano
così: "Uomini della Ionia, voi non agite secondo giustizia muovendo
in guerra contro i vostri padri e tentando di asservire la Grecia. Passate
invece dalla nostra parte: se non vi è possibile, almeno tenetevi
fuori dalla mischia; fatelo voi e chiedete ai Cari di fare altrettanto. Se
entrambe le cose sono inattuabili e vi lega al giogo una costrizione
così forte da non consentire la ribellione, al momento concreto dello
scontro battetevi male di proposito, ricordandovi che siete nostri
discendenti e che l'odio verso il barbaro noi l'abbiamo ereditato da voi".
23) Temistocle, secondo me,
ordinò di incidere questo messaggio avendo in vista due obiettivi
possibili: che le scritte, sfuggite al re, persuadessero gli Ioni a cambiare
bandiera e a passare dalla parte dei Greci, oppure che, riferite a Serse e
divenute motivo di calunnia, gli rendessero sospetti gli Ioni e glieli
facessero tenere lontani dalle battaglie sul mare. Temistocle, dunque, fece
scolpire questi messaggi. Subito dopo un uomo di Istiea si recò con
un'imbarcazione ad annunciare ai barbari la fuga dei Greci dall'Artemisio. I
barbari, diffidenti, trattennero sotto sorveglianza il messaggero e inviarono
navi veloci in ricognizione. Quando da queste giunse conferma, ecco dunque
che tutta la flotta al completo (già risplendeva la luce del sole) si
diresse sull'Artemisio; qui si trattennero fino a metà del giorno; poi
ripresero il mare per Istiea. All'arrivo occuparono la città degli
Istiei e fecero incursioni in tutti i villaggi costieri della zona di Ellopia
nel territorio della Istieotide. 24) Mentre stavano lì,
Serse, date disposizioni relative ai cadaveri, mandò un araldo alla
flotta. Ecco cosa aveva predisposto Serse: di tutti i caduti del suo esercito
alle Termopili (ed erano ventimila) ne aveva lasciati sul luogo circa un
migliaio: scavate delle fosse, vi seppellì gli altri e sulle fosse
fece gettare foglie e ammonticchiare terra: non dovevano essere visti dagli
uomini della flotta. L'araldo, giunto a Istiea, convocò tutta l'armata
e disse: "Alleati, Serse concede a chi di voi lo desideri di abbandonare
il suo posto e di andare a constatare come sta combattendo contro gli uomini
più stupidi del mondo, che si sono illusi di sconfiggere la potenza
del re!". 25) Dopo questo proclama nulla
scarseggiò più delle imbarcazioni: tanti erano a voler dare
un'occhiata. Traghettati sin là, osservavano i cadaveri passandovi in
mezzo. Tutti erano convinti che i caduti fossero tutti Spartani o Tespiesi,
in realtà vedevano anche gli iloti. Comunque non sfuggì a chi
era sceso a terra ciò che Serse aveva fatto dei suoi morti; per la
verità la cosa era persino grottesca: di barbari si vedevano a terra
mille cadaveri, i Greci giacevano tutti assieme, quattromila, ammonticchiati
nello stesso luogo. Per quel giorno si dedicarono a tale spettacolo, il
giorno seguente gli uni tornarono a Istiea, alle navi, gli altri invece, che
stavano con Serse, si misero in marcia. 26) Li raggiunsero alcuni
disertori provenienti dall'Arcadia, pochi, che non avevano di che vivere e
volevano rendersi utili. I Persiani li condussero al cospetto del re e li
interrogarono sulle mosse dei Greci; era uno per tutti a formulare le
domande. Essi risposero che era in corso di svolgimento la festa di Olimpia e
che i Greci probabilmente stavano assistendo a gare ginniche ed equestri;
alla domanda quale fosse il premio in palio risposero che veniva assegnata
una corona d'olivo. Ebbene, a questo punto Tritantecme figlio di Artabano si
vide accusare di vigliaccheria dal re per aver espresso un parere
nobilissimo; apprendendo che il premio non era denaro ma una corona, non poté
tacere e di fronte a tutti esclamò: "Dannazione, Mardonio, contro
che uomini ci hai portato a combattere! Questi non lottano per il denaro ma
per l'onore!". Così disse Tritantecme. 27) Nel frattempo, subito dopo
il disastro delle Termopili, presto, i Tessali inviarono un araldo ai Focesi;
da sempre nutrivano rancore nei loro confronti, e tanto più dopo
l'ultima disfatta. Non molti anni prima di questa spedizione del re i Tessali
e i loro alleati avevano attaccato in forze i Focesi e dai Focesi erano stati
sconfitti e duramente tartassati. I Focesi, che avevano come indovino
l'Elidese Tellia, si erano ritirati sul Parnaso; allora Tellia
escogitò il seguente stratagemma: cosparse di gesso seicento dei
più forti tra i Focesi, loro e le loro armi, e attaccò i
Tessali di notte, dopo aver ordinato ai suoi di uccidere chiunque vedessero
non imbiancato. Le sentinelle dei Tessali, appena li scorsero, ne furono
terrorizzate, pensando a chissà quale strano prodigio; e dopo le
sentinelle si spaventarono anche le truppe, tanto che i Focesi alla fine
rimasero padroni del campo, con quattromila cadaveri e altrettanti scudi, la
metà dei quali consacrarono al dio ad Abe e l'altra metà a
Delfi. La decima del bottino ricavato da questa battaglia fu trasformata
nelle grandi statue collocate intorno al tripode di fronte al tempio di
Delfi, e in altre simili che si trovano ad Abe. 28) Questo il trattamento
riservato dai Focesi alla fanteria dei Tessali che li stringeva d'assedio;
quanto alla cavalleria che aveva invaso il loro paese la sbaragliarono senza
rimedio. Nel passo vicino a Iampoli, proprio lì, scavarono una ampia
fossa, vi calarono anfore vuote e le coprirono con terra di riporto che
pareggiarono al suolo circostante; quindi attesero a piè fermo
l'assalto dei nemici. I Tessali, che arrivavano convinti di travolgere i
Focesi, finirono sulle anfore; e lì i cavalli si ruppero le zampe. 29) Pieni di rancore per l'uno e
l'altro episodio, i Tessali, attraverso un araldo, notificarono quanto segue:
"Focesi, ricredetevi ormai e ammettete di non essere al nostro livello.
Già prima, fra i Greci, finché la cosa ci piacque, abbiamo sempre
contato più di voi, e adesso siamo tanto influenti da determinare se
sarete privati della vostra terra e, magari, ridotti in schiavitù; noi
comunque, pur potendo tutto, non meditiamo vendetta; dateci in cambio
cinquanta talenti d'argento e vi promettiamo di stornare da voi la minaccia
che incombe sul vostro paese". 30) Questo i Tessali mandarono a
dire ai Focesi. Effettivamente i Focesi erano l'unica fra le popolazioni
della zona a non simpatizzare per i Medi; e per nessun'altra ragione, come
deduco riflettendoci sopra, che per il loro odio nei confronti dei Tessali.
Secondo me, se i Tessali avessero ingrossato le file dei Greci, i Focesi si
sarebbero schierati coi Persiani. Al messaggio dei Tessali risposero che non
avrebbero versato il denaro, che anch'essi potevano schierarsi con i Medi, se
volevano cambiare fronte, ma che comunque di loro iniziativa non sarebbero
divenuti traditori della Grecia. 31) Quando furono riferite
queste parole, i Tessali, irritati contro i Focesi, si offrirono al re come
guide del percorso. Dal paese di Trachis irruppero nella Doride; qui infatti
si protende un lembo della Doride largo circa trenta stadi e giacente fra la
Malide e la Focide: un tempo costituiva la Driopide ed è da qui che
provengono i Dori del Peloponneso. I barbari invasero la Doride senza
saccheggiarla: i locali parteggiavano per i Medi e i Tessali erano di avviso
contrario al saccheggio. 32) Quando irruppero dalla
Doride nella Focide, non poterono mettere le mani sui Focesi. Alcuni di loro,
infatti, si erano inerpicati sulle vette del Parnaso (la cima del Parnaso
detta Titorea, che si erge isolata nei pressi della città di Neone, si
presta ad accogliere molta gente e lassù erano saliti portando le loro
cose); i più erano rifugiati presso i Locresi Ozoli, nella
città di Anfissa, che domina la piana di Crisa. I barbari percorsero
l'intero territorio della Focide - erano i Tessali a guidare così le
truppe -: dovunque avanzassero bruciavano e devastavano ogni cosa, appiccando
fuoco a città e santuari. 33) Marciando in questa
direzione, lungo il fiume Cefiso, saccheggiavano tutto; dettero alle fiamme,
distruggendole, le città di Drimo e Caradra, Eroco, Tetronio, Anficea,
Neone, Pediea, Tritea, Elatea, Iampoli, Parapotami; e Abe, dove sorgeva un
ricco santuario di Apollo, dotato di tesori e di molte offerte votive; vi era
allora e ancora c'è un oracolo: depredarono e distrussero anche questo
santuario. Inseguendoli fino alle montagne, catturarono dei Focesi;
violentarono in massa e uccisero delle donne. 34) Superata Parapotami, i
barbari giunsero a Panopea. Qui l'esercito si divise in due tronconi. La
parte più numerosa e agguerrita, procedendo con Serse verso Atene,
penetrò in Beozia, nella terra degli Orcomeni. La totalità dei
Beoti stava coi Medi; Macedoni inviati da Alessandro e insediati nelle varie
città le salvarono: le salvarono in quanto la loro presenza voleva
significare per Serse che i Beoti inclinavano verso i Medi. 35) Dunque, una parte
dell'armata si mosse per la via che ho detto; gli altri, servendosi di guide,
erano partiti alla volta del santuario di Delfi, tenendosi a sinistra del
Parnaso. Anch'essi mettevano a sacco ogni angolo della Focide per cui
passassero: incendiarono le città dei Panopei, dei Dauli e degli
Eolidi. Seguivano questo percorso, distaccati dal resto dell'armata, con lo
scopo preciso di depredare il santuario di Delfi e di portarne a re Serse le
ricchezze. Poiché molti continuavano a parlargliene, Serse sapeva bene quanti
preziosi tesori si trovassero nel santuario; a quanto ho saputo, li conosceva
meglio (soprattutto le offerte votive di Creso figlio di Aliatte) dei tesori
conservati nei suoi palazzi. 36) La notizia, riferita, aveva
gettato nel panico gli abitanti di Delfi: in preda a una vivissima angoscia,
interrogavano il dio sui sacri beni, se dovevano nasconderli sottoterra
oppure trasferirli in un altro paese. Ebbene, il dio vietò loro di
rimuoverli, affermando di essere capace di difendere da sé le proprie cose.
Udito ciò, i Delfi si preoccuparono di se stessi. Allontanarono figli
e mogli mandandoli di là dal mare, in Acaia; poi, i più si
inerpicarono sulle vette del Parnaso, mettendo al sicuro le proprie cose
nella grotta di Coricio, altri scesero a rifugiarsi ad Anfissa, nella
Locride. Insomma, tutti gli abitanti di Delfi evacuarono la città,
tranne sessanta uomini e il profeta. 37) Quando i barbari invasori
furono vicini, ormai in vista del santuario, a questo punto il profeta (si
chiamava Acerato) vide che davanti al tempio giacevano delle armi, lì
trasportate dal megaron, armi sacre, che nessun uomo poteva toccare senza
macchiarsi di empietà. Si precipitò a riferire il prodigio ai
Delfi presenti; intanto, ai barbari che avanzavano di corsa, una volta giunti
all'altezza del tempio di Atena Pronaia, capitarono prodigi ancora più
grandi del precedente. Certo, è già un bel miracolo anche
questo, che armi da guerra si muovano da sole e compaiano per terra fuori dal
tempio, ma quanto si verificò dopo è degno più che mai
di meraviglia, anche a confronto di qualunque altro portento. Appena i
barbari invasori furono all'altezza del tempio di Atena Pronaia, proprio in
quel momento su di loro saettarono fulmini del cielo, due speroni di roccia,
staccatisi dal Parnaso, franarono con gran frastuono su di loro, colpendone
parecchi; e dal santuario di Atene Pronaia si levarono clamori e grida di
guerra. 38) La concomitanza degli
incredibili fenomeni seminò il panico fra i barbari. I Delfi, come li
seppero in fuga, calarono giù dalla montagna e ne massacrarono un buon
numero. I superstiti fuggirono dritti dritti verso la Beozia. I barbari che
fecero ritorno raccontavano, mi si dice, di aver assistito ad altri miracoli
oltre a questi: due opliti più alti di quanto consenta la natura umana
li inseguivano uccidendoli e dando loro la caccia. 39) Vogliono i Delfi che questi
due guerrieri fossero Filaco e Autonoo, due eroi locali, i cui sacrari si
trovano nei pressi dell'oracolo, quello di Filaco proprio lungo la strada che
corre a monte del tempio di Atena Pronaia, quello di Autonoo vicino alla
fonte Castalia, sotto la cima Iampea. I massi franati dal Parnaso erano
lì, intatti, ancora ai miei giorni: giacciono nel recinto dedicato ad
Atena Pronaia, dove erano andati a finire rotolando attraverso le file dei
barbari. Così fu che i barbari si allontanarono dal tempio. 40) Dall'Artemisio la flotta dei
Greci, su richiesta degli Ateniesi, diresse le navi a Salamina. Gli Ateniesi
avevano pregato gli alleati di fermarsi a Salamina per poter evacuare donne e
bambini dall'Attica e inoltre per decidere il da farsi. In effetti, data la
situazione, volevano tenere un consiglio, perché si sentivano delusi nelle
loro aspettative. Credevano di trovare i Peloponnesiaci schierati in forze
nella Beozia ad attendere il barbaro, e invece non c'era neanche l'ombra di
un soldato, anzi erano venuti a sapere che i Peloponnesiaci, preoccupati
soprattutto che a salvarsi fosse la loro terra e decisi a proteggerla,
stavano fortificando l'Istmo e lasciavano perdere il resto. Di fronte a
queste notizie avevano chiesto agli alleati di dirigersi su Salamina. 41) Insomma, mentre gli altri
approdavano a Salamina, gli Ateniesi puntarono verso la propria città.
Qui giunti, emanarono un bando: ogni Ateniese mettesse in salvo come poteva i
figli e i familiari. Allora i più li mandarono a Trezene, altri a
Egina o a Salamina. S'affrettarono a metterli in salvo sia nel desiderio di
obbedire all'oracolo, sia, e soprattutto, per la ragione seguente. Sostengono
gli Ateniesi che un grosso serpente vive sull'acropoli, nel tempio, e fa da
guardiano. Lo sostengono e d'altra parte, proprio come se ci fosse davvero,
mensilmente gli portano offerte rituali: si tratta di focacce al miele. La
focaccia al miele, in precedenza sempre consumata, quella volta rimase
intatta. Quando la sacerdotessa l'ebbe fatto sapere, a maggior ragione e con
maggior convinzione abbandonavano la città, certi che anche la dea
aveva lasciato l'acropoli. Messo tutto al sicuro, raggiunsero la flotta. 42) Alla notizia che le navi
provenienti dall'Artemisio erano arrivate a Salamina, anche il resto della
flotta greca, da Trezene, si unì a esse; in effetti era stato ordinato
in precedenza di concentrarsi a Pogone, il porto di Trezene. Si radunarono
insomma molte più navi, e da più città, di quelle che
avevano combattuto all'Artemisio. Il navarco rimase lo stesso dell'Artemisio,
Euribiade figlio di Euriclide, di Sparta, anche se non era di stirpe reale; il
contingente di navi più nutrito e più adatto a tenere meglio il
mare lo fornivano gli Ateniesi. 43) Ed ecco chi c'era nella
flotta. Dal Peloponneso gli Spartani con sedici navi, i Corinzi con
altrettante navi che all'Artemisio, i Sicioni con quindici, gli Epidauri con
dieci, i Trezeni con cinque, gli Ermionei con tre; tranne gli Ermionei erano
tutte popolazioni doriche e macedne, il cui ultimo spostamento era avvenuto
dall'Erineo, dal Pindo e dalla Driopide. Invece gli Ermionei sono Driopi,
cacciati via dal paese oggi detto Doride a opera di Eracle e dei Maliesi. 44) Questi dunque i
Peloponnesiaci presenti; dalla terraferma non peloponnesiaca c'erano: gli
Ateniesi, che fornivano, a fronte di tutti gli altri, 180 navi; erano da
soli: a Salamina infatti gli abitanti di Platea non si unirono agli Ateniesi
per la seguente ragione. Durante la ritirata dei Greci dall'Artemisio, i
Plateesi, giunti all'altezza di Calcide, erano sbarcati sulla costa beotica
di fronte per provvedere a mettere in salvo i familiari; pertanto, impegnati
in tale operazione, rimasero indietro. Gli Ateniesi, all'epoca in cui i
Pelasgi abitavano la terra conosciuta oggi come Grecia, erano Pelasgi, detti
Cranai; al tempo del re Cecrope furono chiamati Cecropidi; quando poi Eretteo
gli successe al potere, cambiarono nome in Ateniesi; quando infine loro
comandante supremo divenne Ione figlio di Xuto, da costui presero il nome di
Ioni. 45) I Megaresi fornirono tante
navi quante all'Artemisio, gli Ambracioti accorsero in aiuto con sette navi,
e con tre i Leucadi, gente di stirpe dorica originaria di Corinto. 46) Ne offrirono trenta, fra gli
isolani, gli Egineti. Disponevano anche di altre navi complete di equipaggio,
ma con esse proteggevano la loro isola: combatterono a Salamina con le trenta
che navigavano meglio. Gli abitanti di Egina sono Dori di Epidauro; prima il
nome dell'isola era Enone. Dopo gli Egineti c'erano i Calcidesi, con le venti
navi dell'Artemisio, e gli Eretúesi con le loro sette; questi sono Ioni. Poi
c'erano i Cei, Ioni di origine ateniese, con le stesse di prima. I Nassi
fornirono quattro navi; come gli altri isolani, erano stati inviati presso i
Medi dai propri concittadini, ma ignorando gli ordini ricevuti erano passati
dalla parte dei Greci, grazie alle insistenze di Democrito, ragguardevole
cittadino e, all'epoca, trierarca in carica. I Nassi sono Ioni di origine
ateniese. Gli Stirei avevano le stesse navi che all'Artemisio, i Citni una e
una pentecontere; si tratta in entrambi i casi di Driopi. Non mancarono né i
Serifi, né i Sifni e i Meli; erano stati gli unici fra gli isolani a non
consegnare terra e acqua al barbaro. 47) Tutti questi popoli,
coalizzati nella guerra, abitavano al di qua del paese dei Tesproti e del
fiume Acheronte; i Tesproti, infatti, confinano con gli Ambracioti e i
Leucadi, il contingente, fra gli alleati greci, che proveniva più da
lontano. Fra le genti stanziate al di là di tale limite gli unici a
mandare soccorsi alla Grecia in pericolo furono i Crotoniati, con una sola
nave agli ordini di Faillo, tre volte vincitore ai giochi Pitici. I
Crotoniati sono di stirpe achea. 48) Tutti gli altri
parteciparono con delle triremi, Meli, Sifni e Serifi con penteconteri. I
Meli, di stirpe spartana, ne fornirono due, i Sifni e i Serifi, che sono Ioni
di origine ateniese, una ciascuno. Il numero complessivo delle navi,
escludendo le penteconteri, fu di 378 unità. 49) Radunatisi a Salamina, gli
strateghi delle sunnominate città tennero consiglio. Euribiade aveva
invitato chiunque lo volesse a dichiarare quale dei luoghi sotto il loro
controllo credeva più adatto a uno scontro navale; ormai l'Attica era
perduta: la proposta si riferiva alle altre località. Le opinioni in
maggioranza venivano a coincidere: raggiungere l'Istmo e combattere dinanzi al
Peloponneso; il principio era questo: in caso di sconfitta a Salamina
sarebbero stati assediati su di un'isola dove non avrebbero più visto
l'ombra di un soccorso, invece, vinti di fronte all'Istmo, avrebbero potuto
rifugiarsi fra la loro gente. 50) Mentre gli strateghi
peloponnesiaci così ragionavano, arrivò un Ateniese ad
annunciare che i barbari erano entrati nell'Attica e l'avevano messa a ferro
e fuoco. Infatti, l'esercito di Serse diretto attraverso la Beozia, dopo aver
dato alle fiamme la città dei Tespiesi (che la popolazione aveva
abbandonato per riparare nel Peloponneso) e aver fatto altrettanto con quella
dei Plateesi, era arrivato ad Atene e lì stava distruggendo tutto.
Tespie e Platea le aveva incendiate perché dai Tebani aveva appreso che erano
ostili ai Medi. 51) Attraversato l'Ellesponto,
punto di partenza della loro marcia, trascorso un mese là dove erano
passati in Europa, i barbari in altri tre mesi giunsero nell'Attica,
nell'anno in cui ad Atene era arconte Calliade. Occuparono la città
deserta e trovarono nel santuario pochi Ateniesi, i tesorieri del tempio e
alcuni nullatenenti, i quali, asserragliatisi sull'acropoli dietro barricate
di porte e di tronchi, intendevano difendersi dagli assalitori; non si erano
ritirati a Salamina un po' per indigenza e inoltre perché convinti di aver
scoperto il significato del responso emesso dalla Pizia "sul muro di
legno inespugnabile"; pensavano insomma che proprio questo secondo
l'oracolo fosse il rifugio, non le navi. 52) Ma i Persiani si attestarono
sulla collina di fronte all'acropoli, detta dagli Ateniesi Areopago, e li
stringevano d'assedio con la seguente tattica: avvolgevano stoppacci intorno
alle frecce, davano loro fuoco e le scagliavano contro la palizzata. Non di
meno gli Ateniesi assediati si difendevano, benché fossero ormai sull'orlo
della disfatta e la barricata li avesse traditi; non accettarono neppure le
proposte di resa avanzate dai Pisistratidi, ma continuando a battersi
resistettero in tutte le maniere, fra l'altro facendo rovinare macigni addosso
ai barbari che si avvicinavano alle porte; sicché Serse rimase a lungo in
difficoltà, senza riuscire a stanarli. 53) Ma poi ai barbari si
rivelò un varco che li trasse dalle difficoltà; in effetti, in
base all'oracolo, era inevitabile che tutta l'Attica continentale finisse
sotto il tallone persiano. Su di un fianco dell'acropoli, alle spalle della
strada di accesso, dove nessuno stava di guardia e per dove nemmeno si
pensava che mai essere umano potesse salire, proprio lì, all'altezza
del tempio di Aglauro, figlia di Cecrope, si arrampicò un gruppo di
nemici, benché il tratto fosse assai scoceso. Gli Ateniesi li videro quando
ormai erano penetrati nell'acropoli; a quel punto alcuni saltarono giù
dal muro e morirono, gli altri si rifugiarono nella sala sacra del tempio. I
Persiani saliti si diressero prima alle porte e le aprirono, poi cominciarono
la strage dei supplici; quando questi giacquero tutti a terra per mano loro
saccheggiarono il santuario e appiccarono il fuoco all'acropoli intera. 54) Dopo aver occupato ogni
angolo di Atene, Serse inviò a Susa un messaggero a cavallo per
annunciare ad Artabano i successi del momento. Il giorno dopo l'invio
dell'araldo convocò gli esuli ateniesi, che lo seguivano, e
ordinò loro di salire sull'acropoli e di compiere i sacrifici secondo
le usanze ateniesi; e quest'ordine lo diede o perché aveva avuto in sogno una
visione o perché si era pentito in cuor suo di aver incendiato il santuario;
gli esuli ateniesi eseguirono. 55) Spiego ora la ragione per
cui ho ricordato questo episodio. Sull'acropoli in questione sorge un
tempietto di Eretteo, leggendario figlio della Terra; in esso si trovano un
olivo e una polla di acqua salata che, a quanto raccontano gli Ateniesi,
furono lasciati, come testimonianza, da Atena e Posidone, quando si contesero
la regione. A questo olivo toccò di finire bruciato dai barbari
assieme al resto del santuario. Ma il giorno successivo all'incendio gli
Ateniesi incaricati dal re di eseguire il sacrificio, appena ascesi al
santuario, videro che dal ceppo era spuntato un ramoscello lungo già
un cubito. Almeno così raccontarono. 56) Intanto i Greci di stanza a
Salamina, ricevendo notizia della caduta dell'acropoli, ne furono talmente
scossi che alcuni degli strateghi non attesero neppure che si deliberasse sul
problema messo in discussione, ma si precipitarono alle navi e issarono le
vele, pronti a fuggire. Gli strateghi rimasti al loro posto decisero di
combattere sul mare dinanzi all'Istmo. Scendeva la notte ed essi, separatisi
all'uscita dal consiglio, risalirono sulle navi. 57) Quando Temistocle giunse a
bordo, l'Ateniese Mnesifilo gli chiese che cosa avessero deliberato;
sentendogli rispondere che si era deciso di far vela verso l'Istmo e di
battersi in difesa del Peloponneso, Mnesifilo esclamò: "Certo
che, se salpano da Salamina, non avrai più una patria per cui lottare;
si dirigeranno tutti verso le rispettive città e nessuno, né Euribiade
né un altro, potrà trattenerli e impedire che l'armata si disperda. E
la Grecia perirà per la sua stoltezza. Ma se esiste un sistema
qualunque, va' e cerca di capovolgere le decisioni già prese.
Chissà che tu non possa convincere Euribiade a cambiare idea tanto da
restare qua!". 58) Il suggerimento piacque
molto a Temistocle: senza replicare parola andò alla nave di
Euribiade; una volta là, disse di voler discutere con lui una
questione di interesse comune ed Euribiade lo invitò a salire sulla
nave e, se voleva qualcosa, a esporla. Allora Temistocle, sedendo accanto a
lui, gli ripeté per filo e per segno il discorso di Mnesifilo, fingendolo
proprio e aggiungendo molte altre considerazioni, finché, a forza di
pregarlo, lo convinse a scendere a terra e a convocare gli strateghi in
assemblea. 59) Quando furono riuniti, prima
ancora che Euribiade spiegasse le ragioni della nuova convocazione,
parlò Temistocle e parlò con vigore, da persona che ne aveva
ben motivo. Mentre parlava lo interruppe lo stratego di Corinto, Adimanto
figlio di Ocito, esclamando: "Temistocle, nelle gare di corsa, chi parte
prima del segnale viene punito a frustate!". Ed egli, giustificandosi,
ribatté: "Già, ma chi rimane indietro non vince la corona!".
60) In questa circostanza
rispose al Corinzio con garbo; a Euribiade poi non ripeté più nulla di
quanto gli aveva già detto e cioè che, una volta partiti da
Salamina, si sarebbero dispersi; alla presenza degli alleati non gli faceva
onore lanciare accuse qua e là e pronunciò un discorso diverso,
dicendo: A)"Dipende solo da te
salvare la Grecia, se dai retta a me e attacchi battaglia qui, e non ritiri
le navi verso l'Istmo come vorrebbero i qui presenti. Ascolta e poi metti a
confronto le due proposte: se attacchi di fronte all'Istmo combatterai in
mare aperto, dove meno conviene a noi, che abbiamo navi più pesanti e
inferiori di numero; e intanto avrai perso Salamina, Megara ed Egina, anche
se per il resto tutto ci va bene. Assieme alla flotta dei Persiani
verrà anche l'esercito di terra, e così sarai proprio tu a
condurli nel Peloponneso e a mettere in pericolo la Grecia intera. B) Se invece agirai come ti
suggerisco, ecco i vantaggi che ne puoi trarre; tanto per cominciare,
lottando in spazi stretti con poche navi contro molte, se lo scontro
avrà un esito logico, riporteremo una netta vittoria: misurarsi in
poco spazio conviene a noi, in ampi spazi a loro; inoltre resta salva
Salamina, dove si trovano i nostri figli e le nostre mogli. E c'è
anche quest'altro particolare, che vi sta tanto a cuore: rimanendo qui,
combatterai lo stesso, non meno che all'Istmo, in difesa del Peloponneso,
senza però, se ci ragioni, portarli nel Peloponneso, i nemici; C) anzi, se tutto va come spero
e vinciamo noi, i barbari non metteranno nemmeno piede sull'Istmo, non
avanzeranno neppure oltre l'Attica, ma si ritireranno in disordine; e noi ci guadagniamo
la salvezza di Megara, Egina e Salamina, dove, tra l'altro, un oracolo ci ha
predetto che sconfiggeremo i nemici. Quando gli uomini decidono secondo
logica, per lo più le cose riescono bene; se decidono contro logica,
neppure il dio si associa alle risoluzioni degli uomini". 61) Mentre Temistocle parlava
così, contro di lui insorse di nuovo il Corinzio Adimanto, intimando
di tacere a "chi era senza patria" e cercando di impedire a
Euribiade di mettere ai voti le proposte di un apolide; invitava infatti
Temistocle a indicare la propria città prima di esporre pareri. E con
questo alludeva al fatto che Atene era caduta ed era occupata. A quel punto
Temistocle proruppe molto duramente contro di lui e i Corinzi, dimostrando
che gli Ateniesi possedevano una città e un paese più grandi
dei loro, finché gli restavano duecento navi complete di equipaggio: nessuna
città greca avrebbe potuto respingere un loro attacco. 62) E mentre chiariva questo
punto, rivolse il discorso a Euribiade, dicendogli con maggior veemenza:
"Se resterai qui, e solo se resterai, tu sarai un eroe; altrimenti
rovinerai la Grecia; per noi la guerra si decide tutta con le navi. Da' retta
a me. Se ti rifiuti, noialtri, così come siamo, prenderemo su i nostri
familiari e ci trasferiremo a Siri, in Italia, che è nostra già
da antica data, e gli oracoli dicono che deve essere colonizzata da noi; e
voi, privi di alleati della nostra specie, vi ricorderete delle mie
parole". 63) Mentre Temistocle parlava
così, Euribiade cominciava a vederci chiaro; e secondo me cominciava a
vederci chiaro per la paura non trascurabile che gli Ateniesi li
abbandonassero, se lui conduceva le navi all'Istmo. In effetti, dopo un
abbandono degli Ateniesi i rimasti non sarebbero più stati in grado di
battersi. Prese partito di restare dov'era, per affrontare lì il
conflitto decisivo. 64) E così i Greci a
Salamina, dopo tante vivaci discussioni, vista la decisione di Euribiade, si
preparavano lì per lo scontro navale. Si fece giorno e al sorgere del
sole ci fu una scossa sismica, sulla terra e in mare; parve opportuno
rivolgere preghiere agli dèi e invocare l'aiuto degli Eacidi. Detto e
fatto; e pregati tutti gli dèi, invocarono in soccorso, proprio da
Salamina, Aiace e Telamone e inviarono una nave a Egina a prendere le statue
di Eaco e degli altri Eacidi. 65) Diceo figlio di Teocide, un
esule ateniese divenuto qualcuno fra i Medi, raccontò che in quei
giorni, da che il territorio attico, abbandonato dagli Ateniesi, era messo a
sacco dalla fanteria di Serse, venne a trovarsi per caso nella piana di
Triasio assieme allo Spartano Demarato, e vide avvicinarsi da Eleusi una
nuvola di polvere, quale potevano sollevare trentamila uomini; i due si
chiedevano con stupore chi mai potesse sollevare quel polverone; e improvvisamente
udirono una voce, un grido che gli parve l'invocazione misterica di Iacco.
Demarato non conosceva i riti di Eleusi e gli chiese cosa fosse quel grido;
Diceo gli rispose: "Demarato, l'esercito del re non potrà
sfuggire a una grave sciagura: l'Attica è deserta ed è chiaro
che la voce ha origine divina e viene da Eleusi in aiuto agli Ateniesi e ai
loro alleati. E se la voce si dirige verso il Peloponneso, un pericolo
minaccerà Serse in persona e l'esercito di terra, se invece si volge
verso le navi ferme a Salamina, il re rischierà di perdere la flotta.
Questa festa la celebrano ogni anno gli Ateniesi in onore della Madre e della
Figlia, e chi di loro o degli altri Greci lo voglia può farvisi
iniziare; il grido di Iacco che odi risuona in questa festa".
Replicò Demarato: "Taci, non dire a nessun altro quanto hai detto
a me; se le tue parole vengono riferite al re, tu ci rimetterai la testa e io
non ti potrò salvare, né ci sarà uomo al mondo in grado di
farlo. Stattene zitto; gli dèi decideranno la sorte di questo
esercito". Tale consiglio gli diede Demarato; e dal polverone e dalla
voce si formò una nuvola che si levò in aria e si diresse verso
Salamina, verso il campo dei Greci; e così essi seppero che la flotta
di Serse era destinata al disastro. Questo raccontava Diceo, chiamando a
testimoni Demarato e altri. 66) I soldati della flotta di
Serse, partiti da Trachis dopo aver osservato le prove della sconfitta
spartana, passarono a Istiea, dove si trattennero per tre giorni. Poi
navigarono attraverso l'Euripo e in altri tre giorni pervennero al Falero. A
mio parere assalirono Atene, per terra e per mare, con forze numericamente
non inferiori alle forze con cui erano giunti al promontorio Sepiade e alle
Termopili. Contrapporrò agli uomini periti per la tempesta, caduti
alle Termopili e nella battaglia navale dell'Artemisio, le genti che allora
non si erano ancora aggregate al re, e cioè i Maliesi, i Doriei, i
Locresi e i Beoti (che scesero in campo in massa, a eccezione dei Tespiesi e
dei Plateesi) e inoltre i Caristi, gli Andri e i Teni e tutti gli altri
abitanti delle isole, tranne le cinque città da me già
menzionate. Più il Persiano penetrava nella Grecia, più
crescevano i popoli al suo seguito. 67) Insomma dopo il
concentramento di truppe ad Atene, quando tutti (tranne i Pari che, rimasti
indietro a Citno, aspettavano di vedere come si mettevano le cose) si
ritrovarono al Falero, allora Serse, personalmente, scese verso le navi, per
incontrarsi con gli equipaggi e conoscere le loro opinioni. Arrivato, occupò
il posto d'onore; a lui si presentarono, espressamente convocati, i capi dei
singoli popoli d'Asia e i tassiarchi delle navi e presero posto secondo il
rango assegnato a ciascuno dal re: per primo il re di Sidone, poi quello di
Tiro e di seguito gli altri. Quando tutti furono seduti, in ordine uno dopo
l'altro, Serse mandò Mardonio a chiedere a ciascuno, per saggiarne
l'umore, se doveva attaccare battaglia sul mare. 68) Mardonio li
interrogò, iniziando il giro dal re di Sidone e tutti espressero un parere
analogo, e cioè di attaccare per mare; Artemisia, invece, si espresse
in questo modo: A)"Mardonio, riferisci al
re da parte mia, e negli scontri dell'Eubea non mi sono certo mostrata vile
né ho compiuto le imprese meno grandi, che io rispondo così: signore,
è giusto che io ti riveli la mia sincera opinione, quanto ritengo sia
meglio per i tuoi interessi. E ti dico questo: risparmia le navi, non
combattere sul mare; loro sul mare sono tanto più forti dei tuoi
uomini quanto gli uomini lo sono delle donne. Ma poi, che bisogno hai di
rischiare flotta contro flotta? Non possiedi già Atene, l'obiettivo
della tua spedizione, e non possiedi anche il resto della Grecia? Nessuno ti
si oppone; e quelli che ti hanno resistito sono finiti come meritavano. B)Te lo dico io come andranno le
cose per i nostri nemici: se tu non ti fai trascinare in una battaglia sul
mare, ma tieni le navi qui, presso la costa, che tu stia fermo o che avanzi
sul Peloponneso, facilmente, mio signore, raggiungerai lo scopo che ti eri prefissato
con la tua spedizione, perché i Greci non sono in grado di tenerti testa a
lungo, ma li disperderai ed essi si rifugeranno nelle rispettive
città: non hanno provviste con sé su quest'isola (così mi
dicono) e se tu spingi l'esercito contro il Peloponneso è ovvio che
quelli di loro originari del Peloponneso non se ne staranno qui con le mani
in mano: non gli importerà nulla di combattere sul mare per Atene. C) Se invece ti fai convincere
subito a ingaggiare la battaglia, ho paura che la flotta, una volta battuta,
travolga nel disastro anche l'esercito. Inoltre, mio re, tieni ben presente
anche questo punto, che gli uomini migliori di solito hanno schiavi inetti,
mentre i peggiori ne hanno di capaci. Tu, che sei al mondo il migliore degli
uomini, possiedi cattivi servitori, che figurano come alleati, e sono
Egiziani, Ciprioti, Cilici e Panfili, e che non valgono nulla". 69) Considerando la risposta che
Artemisia dava a Mardonio, quanti le erano amici valutavano con
preoccupazione le sue parole, convinti che avrebbe subìto qualche dura
punizione da parte del re, dato che cercava di impedirgli di combattere sul
mare; quanti invece nutrivano rancore o invidia contro di lei, perché godeva
dei massimi onori fra tutti gli alleati, gioivano delle sue obiezioni,
pensando che si stesse rovinando. Ma quando i pareri gli furono riferiti,
Serse si compiacque assai dell'opinione di Artemisia e, se già prima
la giudicava persona di valore, a quel punto la apprezzò molto di
più. Tuttavia ordinò di dar retta alla maggioranza, pensando
che i suoi marinai si fossero comportati da vili in Eubea perché lui non era
presente, mentre allora si apprestava ad assistere personalmente alla
battaglia. 70) Fu impartito l'ordine di
salpare; diressero le navi verso Salamina e le dispiegarono indisturbati in
linea di battaglia. Ma a quel punto non bastò loro la giornata per
prendere l'offensiva, perché era calata la notte; e si tenevano pronti per
l'indomani. I Greci, intanto, erano impauriti e spaventati, soprattutto i
Peloponnesiaci; temevano, stando a Salamina, di dover combattere per la terra
degli Ateniesi e, una volta sconfitti, di rimanere bloccati e assediati
nell'isola, lasciando sguarnita la propria patria. 71) Quella stessa notte la
fanteria dei barbari si metteva in marcia verso il Peloponneso. Comunque, i
Greci avevano studiato tutte le difese possibili perché i barbari non
potessero invadere il Peloponneso dalla parte del continente. I
Peloponnesiaci infatti, appena saputo che Leonida e i suoi erano caduti alle
Termopili, erano accorsi dalle città e si erano attestati sull'Istmo,
agli ordini dello stratego Cleombroto, figlio di Anassandrida e fratello di
Leonida. Stando sull'Istmo avevano ostruito la strada Scironide; e ora, come
avevano deciso dopo aver tenuto consiglio, stavano erigendo una muraglia,
attraverso l'Istmo stesso. Poiché erano molte decine di migliaia di uomini e
ognuno si dava da fare, l'opera si andava compiendo: portavano pietre,
mattoni, tronchi, ceste di sabbia e tutti i difensori accorsi lavoravano
senza un attimo di sosta, di notte come di giorno. 72) Le genti greche accorse in
forze a difesa dell'Istmo erano le seguenti: gli Spartani, gli Arcadi tutti,
gli Elei, i Corinzi, i Sicioni, gli Epidauri, i Fliasi, i Trezeni, gli
Ermionei; questi si erano precipitati in aiuto e tremavano per la Grecia in
pericolo. Gli altri Peloponnesiaci se ne disinteressarono del tutto; eppure
le feste di Olimpia e le Carnee erano ormai terminate. 73)Sette popoli abitano il
Peloponneso. Due di questi sono autoctoni e sono stanziati oggi dove
abitavano anche in antico, gli Arcadi e i Cinuri. Uno, il popolo Acheo, senza
uscire dai confini del Peloponneso, cambiò comunque sede e occupa oggi
una terra non sua. Gli altri quattro dei sette, Dori, Etoli, Driopi e Lemni,
sono genti immigrate. I Dori hanno molte e rinomate città, gli Etoli
la sola Elide, i Driopi Ermione e Asine, che sorge vicino a Cardamile in
Laconia; i Lemni tutti i Paroreati. I Ciniri, che sono autoctoni, sembrano
essere gli unici Ioni, ma sono stati dorizzati dall'egemonia degli Argivi e
dal tempo, essendo Orneati e Perieci. Le altre città di questi sette
popoli, oltre a quelle che ho elencato, si tenevano neutrali; ma, se è
lecito parlare liberamente, tenendosi neutrali facevano il gioco dei Medi. 74) Quelli sull'Istmo, dunque,
erano intenti al lavoro che ho detto, perché erano decisi a tentare il tutto
per tutto e non speravano più di acquistar gloria con le navi. D'altra
parte i Greci a Salamina, pur sapendolo, erano intimoriti lo stesso e non
tanto per la propria vita quanto per il Peloponneso. Per un po', un individuo
con l'altro, ne parlavano in confidenza, esprimendo stupore per la
sconsideratezza di Euribiade; infine la faccenda esplose pubblicamente. Ci fu
un'assemblea e i disordini si moltiplicarono, sempre sullo stesso argomento:
alcuni ritenevano necessario ritirarsi via mare nel Peloponneso e rischiare
la vita per il Peloponneso, invece di restare a combattere per una regione
ormai in mano al nemico; al contrario gli Ateniesi e i Megaresi sostenevano
che bisognava restare lì a difendersi. 75) Allora Temistocle, messo in
minoranza dai Peloponnesiaci, uscì senza farsi notare dalla sala del
consiglio; appena fuori, inviò su di una barca alla flotta dei Medi un
uomo, dopo averlo istruito su quanto doveva dire: si chiamava Sicinno ed era
servo di casa di Temistocle e pedagogo dei suoi figli. In seguito, dato che i
Tespiesi accettavano nuovi cittadini, lo fece Tespiese e lo rese ricco. Egli,
giunto con la barca a destinazione, così disse ai comandanti dei
barbari: "Mi ha mandato qui lo stratego degli Ateniesi, di nascosto
dagli altri Greci: perché lui parteggia per il re e preferisce che abbiate il
sopravvento voi piuttosto che i Greci; devo informarvi che i Greci,
terrorizzati, meditano una fuga e che ora vi si offre l'impresa più
splendida del mondo da compiere, se non ve li lasciate scappare. Essi non
sono d'accordo fra loro e non vi resisteranno più: li vedrete
combattere gli uni contro gli altri, chi è pro e chi è contro
di voi". 76) Riferito il messaggio, Sicinno
si allontanò e fece ritorno. I barbari credettero alla notizia. Subito
sbarcarono molti Persiani sull'isoletta (di Psittalia),fra Salamina e la
terra ferma; poi, appena fu mezzanotte, fecero avanzare verso Salamina l'ala
occidentale, in manovra di accerchiamento, e partì la squadra navale
schierata intorno a Ceo e a Cinosura e occupò l'intero stretto fino a
Munichia; lo scopo dell'operazione era di impedire ai Greci ogni
possibilità di fuga: bloccati a Salamina dovevano pagare i duelli
dell'Artemisio. Sull'isoletta detta di Psittalia sbarcarono dei Persiani,
perché, una volta iniziata la battaglia, i naufraghi e i relitti sarebbero
finiti là (l'isola, infatti, si trovava proprio nel braccio di mare
della imminente battaglia): dovevano salvare i propri compagni e sterminare
gli altri. Eseguirono le manovre in silenzio, perché gli avversari non se ne
accorgessero. Facevano questi preparativi nella notte, senza dedicare al
sonno neppure un minuto. 77) E non posso negare agli
oracoli di essere veritieri, rinuncio a cercare di screditarli, quando si
esprimono a chiare lettere, se guardo a fatti come i seguenti:…”Ma quando
i Barbari un argine avranno disteso di navi, Lungo la costa ad Artemide sacra
e lunghesso la spiaggia Di Cinosura, con folle speranza, distrutta la
splendida Atene: Estinguerà poi Giustizia Insolenza, ch’è
figlia di Orgoglio, Nell’avventarsi tremenda, e che tutto inghiottire
presume. Bronzo cozzar contro bronzo vedrassi, e di porpora il mare Tinto per
opera d’Ares. Allora Vittoria e il Cronide Onniveggente dell’Ellade la
libertà recheranno”… (Ma quando con un ponte di navi uniranno la
sacra costa di Artemide dalla spada d'oro e Cinosura marina con folle
speranza dopo aver saccheggiato la splendida Atene, la divina Giustizia
spegnerà il violento Coros, figlio di Ibris, che smania tremendo,
determinato ad attaccare dappertutto. Bronzo si scontrerà con bronzo,
Ares renderà il mare rosso di sangue. Il giorno della libertà
della Grecia sarà questo, lo porteranno il Cronide altitonante e la
venerabile Vittoria). Quando Bacide pronuncia parole come queste e
così chiare, non oso avanzare obiezioni sulla contraddittorietà
degli oracoli e non ne accetto da altri. 78) Gli strateghi presenti a
Salamina continuavano a litigare in modo acceso. Non sapevano ancora che i
barbari li stavano accerchiando con le navi, erano convinti che fossero
rimasti là dove li avevano visti schierati di giorno. 79) Mentre gli strateghi erano
riuniti, giunse da Egina Aristide figlio di Lisimaco, Ateniese, che era stato
ostracizzato dal popolo, l'uomo che, dopo indagini sulla sua natura, ritengo
sia stato il più nobile e giusto di Atene. Si fermò davanti
alla sala del consiglio e fece chiamare fuori Temistocle, che non gli era
amico, anzi, nemico in tutto e per tutto; ma, data la gravità del
momento, dimenticando l'inimicizia, fece chiamare fuori Temistocle,
intenzionato a parlargli. In precedenza aveva sentito dire che i
Peloponnesiaci premevano per condurre le navi di fronte all'Istmo. Uscito che
fu Temistocle, Aristide gli disse: "Se l'abbiamo fatto in altre
circostanze, a maggior ragione in questa dobbiamo competere per vedere chi di
noi due beneficherà maggiormente la patria. Ti comunico che per i
Peloponnesiaci è assolutamente lo stesso discutere tanto o poco sulla
ritirata da qui. E te lo comunico perché ho visto coi miei occhi che adesso,
neppure se lo vogliono, i Corinzi ed Euribiade saranno in grado di uscire di
qui con le loro navi; siamo accerchiati dai nemici. Rientra pure a
dirglielo". 80) Ed ecco come gli rispose
Temistocle: "Consiglio assai utile e magnifiche notizie: sei arrivato
qui dopo aver visto coi tuoi occhi quanto io pregavo che accadesse. Ti
informo infatti che la manovra dei Medi è dovuta a me. Giacché i Greci
non intendevano scatenare volontariamente la battaglia, era necessario
costringerli loro malgrado. Ma, visto che sei arrivato con una buona notizia,
riferiscila tu di persona ai Greci. Se la comunico io, sembrerà che me
la inventi e non li convincerò che i barbari ci accerchiano davvero;
va' da loro e spiegagliela tu la situazione. Se gliela spieghi e ci credono,
bene così; se invece non si fidano, per noi sarà lo stesso;
tanto, non scapperanno più, se davvero siamo completamente circondati
come affermi". 81) E questo disse Aristide una
volta entrato, dichiarando di essere giunto da Egina e di essere passato
eludendo la sorveglianza dei nemici che attuavano il blocco, perché la flotta
greca era tutta circondata dalle navi di Serse; e suggeriva di tenersi pronti
a sostenere un attacco. Detto questo, si allontanò; fra gli altri
scoppiò di nuovo una violenta discussione; la maggioranza degli
strateghi non credeva alla notizia. 82) E ancora non ci credevano
quando sopraggiunse una trireme di disertori Teni, al comando di Panezio
figlio di Sosimene; essi riferirono come stavano davvero le cose. Per questo
fatto il nome dei Teni fu poi inciso a Delfi sul tripode fra quelli dei Greci
che avevano trionfato sul barbaro. Con l'arrivo a Salamina di questa nave di
disertori e con quella di Lemno che aveva già disertato all'Artemisio
la flotta greca raggiunse la cifra tonda di 380 navi; due, infatti, gliene
mancavano allora per completare il numero. 83) I Greci credettero alle
asserzioni dei Teni e si prepararono alla battaglia navale. Spuntava la luce dell'aurora
quando essi radunarono gli epibati: per conto di tutti gli strateghi
Temistocle pronunciò un discorso eccellente: le sue parole furono
tutte un confronto tra il meglio e il peggio insiti nella natura e nella
condizione di un essere umano. Dopo aver terminato il discorso con una
esortazione a scegliere il meglio, diede l'ordine di imbarco. Stavano salendo
sulle navi, quando giunse la trireme proveniente da Egina che era stata
mandata a prendere gli Eacidi. 84) Allora i Greci mossero tutte
le navi, e subito, mentre prendevano il largo, i barbari gli furono addosso.
Mentre gli altri Greci retrocedevano, di poppa, verso la riva, Aminia di
Pallene, Ateniese, spintosi avanti, attaccò uno scafo nemico; poiché
la sua nave si incastrò e non riuscivano più a tirarsi via,
allora gli altri Greci accorsero in aiuto di Aminia e si scontrarono col
nemico. Gli Ateniesi raccontano così l'inizio della battaglia; gli
Egineti dal canto loro sostengono che a cominciare fu la nave a suo tempo
inviata a prendere gli Eacidi. E si narra anche questo, che apparve un
fantasma di donna: apparso, li avrebbe spronati a combattere, con voce tale
da farsi udire da tutto l'esercito greco, non senza prima averli rimproverati
così: "Sciagurati, e per quanto ancora remerete all'indietro?".
85) Di fronte agli Ateniesi
erano schierati i Fenici, che occupavano l'ala verso Eleusi e occidente; di
fronte agli Spartani gli Ioni, disposti sull'ala verso oriente e il Pireo.
Pochi fra gli Ioni si comportarono volutamente da vigliacchi, la maggioranza
non obbedì all'invito di Temistocle alla diserzione. Sarei in grado di
riportare i nomi di parecchi trierarchi che si impadronirono di navi greche,
ma non li citerò, tranne quelli di Teomestore, figlio di Androdamante,
e di Filaco, figlio di Istieo, entrambi di Samo. La ragione per cui menziono
questi due soli è che Teomestore per le sue imprese fu insediato dai
Persiani tiranno di Samo; e Filaco fu registrato pubblicamente fra i
benefattori del re e ricevette in dono non poche terre. In lingua persiana i
benefattori del re sono detti orosangi. Così fu di costoro. 86) La massa delle navi
andò distrutta a Salamina, messa fuori combattimento dagli Ateniesi o
dagli Egineti. Siccome i Greci combattevano con ordine e rispettando lo
schieramento, i barbari, che non si erano tenuti in linea e non facevano
nulla di sensato, dovevano per forza finire come finirono. Eppure erano e si
rivelarono quel giorno assai più validi che all'Eubea, tutti pieni di
ardore e timorosi di Serse: ognuno si sentiva addosso lo sguardo del re. 87) Degli altri barbari e Greci
non saprei dire esattamente come si batterono, ma ad Artemisia accadde quanto
segue, e la fece crescere ulteriormente nella stima del re. Quando ormai le
forze del re erano in preda a una terribile confusione, la nave di Artemisia
si trovò braccata da una nave attica; non poteva più sfuggire
(davanti aveva altre navi amiche, la sua era la più vicina a quelle
nemiche) ed ecco cosa decise di fare, e riuscì nel suo intento:
inseguita dalla nave attica, speronò una nave amica di gente di
Calinda, sulla quale era imbarcato il re dei Calindi in persona, Damasitimo.
Non so dire davvero se avesse qualche conto in sospeso con lui, di quando
stavano ancora all'Ellesponto, e se fece quel che fece con premeditazione o se
la nave di Calinda si trovò per caso in rotta di collisione. Dopo
averla speronata e affondata, ebbe la fortuna di trarne due vantaggi: il
trierarca della nave attica, vedendola assalire una nave barbara, credette
che la nave di Artemisia fosse greca oppure che stesse cambiando bandiera e
passando a difendere i Greci; perciò virò di bordo e
attaccò altre navi. 88) Da una parte le
riuscì così di scampare e di evitare la morte; dall'altra le
toccò di veder crescere la sua stima presso Serse, pur avendo combinato
un disastro e anzi proprio per questo. Pare infatti che il re, che stava
osservando, si accorgesse della manovra di speronamento, e quando uno dei
presenti esclamò: "Signore, guarda Artemisia come si batte bene!
Ha affondato una nave nemica!", lui chiese se davvero quell'impresa era
opera di Artemisia; e gli altri glielo confermarono, ben conoscendo l'insegna
della nave: lo scafo distrutto fu creduto nemico. Fra l'altro, a quanto si
narra, le andò anche bene che nessuno della nave di Calinda abbia potuto
salvarsi per accusarla. Pare che Serse abbia allora così commentato
l'informazione ricevuta: "Gli uomini mi sono diventati donne, e le donne
uomini". Questa fu la frase pronunciata da Serse. 89) In questa dura battaglia
cadde lo stratego Ariabigne figlio di Dario e fratello di Serse, e perirono
molti altri illustri Persiani, Medi e alleati; e anche alcuni Greci, ma
pochi; sapevano nuotare infatti e quando le loro navi venivano affondate, se
non morivano nella mischia, si salvavano a nuoto a Salamina; invece la gran
parte dei barbari morì in mare perché non sapeva nuotare. Fu quando le
navi della prima fila si volsero in fuga che ne andarono distrutte di
più: infatti quelli schierati dietro, sforzandosi di passare davanti
coi loro scafi per segnalarsi agli occhi del re con qualche bel gesto,
cozzavano con le proprie contro le navi in ritirata. 90) In mezzo alla confusione
accadde anche questo: alcuni Fenici che avevano perso le navi si recarono dal
re e accusarono gli Ioni di tradimento, sostenendo di aver perso le navi per
colpa loro. Ma il caso volle che gli Ioni non cadessero in disgrazia e che ai
Fenici accusatori toccasse la ricompensa che segue. Mentre essi ancora
sostenevano le loro ragioni, una nave di Samotracia speronò un
vascello attico. La nave attica affondava, quando sopraggiunse all'attacco
una nave di Egina, che affondò quella dei Samotraci; ma i Samotraci
erano lanciatori di giavellotto: scagliandoli spazzarono via dalla tolda
l'equipaggio della nave che li aveva affondati, si gettarono all'arrembaggio
e la conquistarono. Questo episodio salvò gli Ioni, perché Serse,
vedendo che avevano compiuto un'impresa straordinaria, si rivolse ai Fenici
irritato oltre misura, se la prese con loro e ordinò di tagliare la
testa a tutti: non avrebbero più calunniato chi era più
valoroso di loro dopo essersi comportati da vigliacchi. Serse sedeva alle
falde del monte che fronteggia Salamina e che si chiama Egaleo; ogni volta
che vedeva qualcuno dei suoi compiere in questa battaglia qualche bella impresa,
chiedeva chi fosse, e gli scrivani registravano il nome del trierarca col
patronimico e la città di appartenenza. Alla disgrazia dei Fenici
contribuì anche la presenza di Ariaramne, un Persiano amico degli
Ioni. Alcuni dunque si presero cura dei Fenici. 91) Intanto i barbari, messi in
fuga, si defilarono in direzione del Falero e gli Egineti, appostati nello
stretto, compirono imprese memorabili. Gli Ateniesi speronavano nella mischia
le navi che li affrontavano o che tentavano di sottrarsi allo scontro, gli Egineti
quelle che si allontanavano dalla lotta: quando una nave sfuggiva agli
Ateniesi, andava a cadere fra le grinfie degli Egineti. 92) Fu allora che si
incrociarono la nave di Temistocle, impegnata in un inseguimento, e quella di
Policrito figlio di Crio, Egineta, che aveva appena speronato una nave di
Sidone, la stessa che aveva catturato la vedetta egineta a Sciato e sulla
quale si trovava Pitea figlio di Ischenoo, che i Persiani, ammirati dal suo
valore, trattenevano a bordo benché coperto di ferite. Insomma, questa nave
di Sidone che lo trasportava fu catturata assieme ai Persiani, sicché Pitea
poté tornare salvo a Egina. Policrito, come vide la nave attica, riconobbe al
primo sguardo le insegne della ammiraglia: allora si mise a gridare, schernendo
Temistocle, rinfacciandogli l'accusa di filomedismo lanciata agli Egineti;
questo gridò Policrito a Temistocle mentre speronava una nave. I
barbari le cui navi si salvarono con la fuga ripararono al Falero sotto la
protezione dell'esercito di terra. 93) In questa battaglia navale a
meritare gli elogi migliori fra i Greci furono gli Egineti, e poi gli
Ateniesi; individualmente Policrito di Egina e gli Ateniesi Eumene di
Anagirunte e Aminia di Pallene, che aveva dato la caccia ad Artemisia. Se
avesse saputo che su quella nave viaggiava Artemisia non avrebbe desistito
prima di catturarla o di essere lui catturato. I trierarchi ateniesi avevano
ricevuto ordini in tal senso e inoltre era stata fissata una taglia di
diecimila dracme per chi l'avesse presa viva: reputavano intollerabile,
infatti, che una donna combattesse contro Atene. Lei, comunque, come
già s'è detto, se la cavò. E anche gli altri le cui navi
si erano salvate si trovarono al Falero. 94) Raccontano gli Ateniesi che
lo stratego di Corinto Adimanto, sùbito, fin dall'inizio, al primo
scontro delle navi, sbigottito e spaventato, alzò le vele e si
dileguò in fuga; e che i Corinzi, vedendo fuggire la nave ammiraglia,
si dileguarono parimenti. Ma quando nella loro fuga giunsero all'altezza del
tempio di Atena Scirade, in Salamina, li incrociò una imbarcazione
inviata da un dio (non risultò che l'avesse inviata qualcuno); essa si
accostò ai Corinzi, che non avevano idea di quanto stava accadendo
alla flotta. Ed ecco perché suppongono che il fatto avesse del divino: quando
furono vicini alle navi, quelli del vascello dissero: "Adimanto, hai
virato di bordo e ti sei dato alla fuga, tradendo i Greci; ma loro stanno
proprio vincendo, tanto quanto si auguravano di trionfare sui nemici".
Siccome Adimanto non ci credeva, aggiunsero ancora che erano disposti a farsi
portare via come ostaggi e a venir uccisi se i Greci non risultavano
vincitori. A quel punto, invertita la rotta, Adimanto e gli altri avrebbero
raggiunto la flotta, ma ormai a cose fatte. Di questa storiella sui Corinzi,
così raccontata, sono autori gli Ateniesi; ovviamente i Corinzi non
sono d'accordo e si autovalutano fra i principali eroi della battaglia; il
resto del mondo greco conferma. 95) Quanto ad Aristide, figlio
di Lisimaco, Ateniese, di cui già poco sopra ho ricordato la nobile
figura, ecco cosa fece costui nel pandemonio scoppiato a Salamina. Prese con
sé diversi opliti che erano stati dislocati lungo la costa di Salamina, tutti
di nascita ateniese, e sbarcò con loro a Psittalia; massacrarono tutti
i Persiani che si trovavano su questa isoletta. 96) Alla fine della battaglia i
Greci, tratti a riva a Salamina tutti i rottami che si trovavano ancora
lì vicino, erano pronti a un secondo scontro: si aspettavano che il re
utilizzasse ancora le navi rimastegli. Molti dei relitti furono spinti e
trascinati dal vento di Zefiro in Attica, sulla spiaggia detta di Coliade,
cosicché oltre ai vari responsi emessi da Bacide e Museo circa la battaglia
navale, si avverò anche la profezia riguardante questi rottami,
pronunciata molti anni prima, in oracolo, dall'indovino ateniese Lisistrato,
e che era sfuggita a tutti i Greci: Le donne di Coliade bruceranno remi per
tostare. Il che doveva accadere dopo la ritirata del re. 97) Serse, come si rese conto
della sconfitta patita, temendo che i Greci, dietro suggerimento degli Ioni o
per propria iniziativa, si portassero sull'Ellesponto per manomettere i
ponti, e temendo quindi, una volta bloccato in Europa, di rischiarvi una
brutta fine, meditava la ritirata. Non volendo però rivelare il suo
pensiero né ai Greci né ai suoi, tentava di raggiungere Salamina con opere di
interramento e fece legare assieme battelli fenici che fungessero da pontile
e da muro di protezione; si organizzava militarmente come per scatenare una
seconda battaglia di navi. Tutti gli altri, vedendolo impegnato in questi
preparativi, erano ben convinti che si apprestasse decisamente a restare e a
combattere; a Mardonio però non sfuggì nulla, perché aveva una
notevole dimestichezza col modo di pensare del re. Così agiva Serse e
intanto mandava in Persia un messaggero a portare notizie sulla situazione
del momento. 98) Fra i mortali non esiste
nulla che sia più veloce di questi messaggeri; ecco cos'hanno
inventato i Persiani. Dicono che quanti sono i giorni di viaggio dell'intero
percorso, altrettanti cavalli e uomini sono stati distribuiti, un cavallo e
un uomo per ogni giorno di distanza; non c'è neve, pioggia, calura o
tenebra notturna che impedisca loro di divorare nel tempo più breve il
tratto fissato. Al termine della sua corsa il primo affida il mandato al
secondo, il secondo al terzo, e così si procede, dall'uno all'altro,
proprio come si svolge fra i Greci la corsa delle fiaccole quando festeggiano
Efesto. I Persiani chiamano angareion questa staffetta di cavalli. 99) Ebbene, la prima notizia
giunta a Susa, che Serse occupava Atene, rallegrò a tal punto i
Persiani rimasti in patria che cosparsero di mirto tutte le strade, e
bruciavano profumi e si abbandonavano a danze e festeggiamenti; la seconda
notizia, al suo arrivo, rovesciò l'atmosfera: tutti si stracciarono le
vesti e levarono grida e lamenti senza fine, chiamando in causa Mardonio. I
Persiani si comportavano così non tanto per il dolore della sorte
toccata alle navi, quanto per l'ansia nei confronti di Serse. 100) Queste furono le reazioni
dei Persiani nel frattempo, finché il ritorno di Serse non vi pose fine.
Mardonio, vedendo Serse assai afflitto per l'esito della battaglia navale,
immaginò che meditasse di fuggire da Atene e pensò che sarebbe
stato punito per aver convinto Serse a muovere guerra alla Grecia e che per
lui era meglio tentare la sorte: o di sottomettere la Grecia o di dare un
bella fine alla propria vita rischiandola per grandi successi. Ma più
che altro era convinto di poter abbattere la Grecia e quindi, con questa
idea, si rivolse a Serse e gli disse: "Signore, non essere triste, non
lasciarti affliggere così da quanto è accaduto. Decisivo non
sarà per noi un confronto di legni, bensì di uomini e cavalli.
Nessuno di questi che credono di avere già vinto la partita, una volta
sceso dalle navi, oserà affrontarti, e nessuno di questa terra. Quanti
ti hanno tenuto testa l'hanno già pagata cara. Se ti pare, attacchiamo
subito il Peloponneso. Preferisci fermarti? Possiamo permetterci anche
questo. Non scoraggiarti: i Greci non hanno scampo, dovranno renderti conto
di quanto ci hanno fatto ora e anche prima e diventare tuoi schiavi.
Così dovresti agire senz'altro, ma se hai pensato di ritirarti e di
condurre via l'esercito, ho un altro piano anche per questa
eventualità. Mio re, non rendere i Persiani oggetto dello scherno dei
Greci. Nessun danno ti è capitato che fosse colpa dei Persiani, non
sapresti dire in che circostanze ci siamo comportati da vigliacchi. Se
vigliacchi sono stati i Fenici, gli Egizi, i Ciprioti, i Cilici, la nostra
sconfitta non riguarda affatto i Persiani. Insomma assodato che i Persiani
non hanno colpe verso di te, stammi a sentire: se hai deciso di non rimanere,
tornatene pure nelle tue sedi portandoti via il grosso dell'esercito, ma io
bisogna che ti consegni la Grecia in catene; fammi scegliere trecentomila
soldati". 101) Udito ciò, Serse si
sentì sollevato e felice, quasi ormai fuori dei guai: promise a
Mardonio una risposta, dopo aver preso consiglio, sull'alternativa che
avrebbe seguito. Mentre interpellava i più illustri Persiani, gli
sembrò il caso di mandare a chiamare anche Artemisia, visto che prima
si era rivelata l'unica a capire il da farsi. Quando Artemisia arrivò,
congedati tutti i presenti, i consiglieri persiani e i dorifori, Serse
così le parlò: "Mardonio mi invita a restare qui e ad
attaccare il Peloponneso, sostiene che i Persiani e l'esercito di terra non
sono responsabili verso di me di alcun rovescio, che anzi non vedono l'ora di
dimostrarmelo. Mi invita dunque a rimanere; altrimenti vuole scegliersi
trecentomila soldati e offrirmi lui stesso la Grecia in catene, mentre io,
così mi esorta, potrei tornare nelle mie sedi con il resto
dell'armata. Tu, che anche sulla battaglia navale ora terminata mi desti un
buon consiglio, vietandomi di farla, dimmi ora, secondo te, quale delle due
alternative dovrei scegliere per scegliere bene". 102) Le chiedeva dunque un
parere, e lei rispose: "Sovrano, è difficile indovinare la
risposta giusta a chi ti chiede un consiglio. Comunque, nelle attuali
circostanze, credo che potresti tornartene in patria e lasciare qui Mardonio,
se desidera e promette di fare così, con le truppe che chiede. In
effetti se sottomette quel che dice di voler sottomettere e gli riesce il
progetto che va meditando, l'impresa è tua, signore, giacché a
compierla saranno stati i tuoi schiavi; se invece accade il contrario di
ciò che pensa Mardonio, non sarà neppure una grave disgrazia,
perché tu e la potenza della tua casa ne uscireste indenni; se infatti tu e
la tua casa vi salvate, molti e frequenti rischi correranno i Greci per la
propria sopravvivenza. Quanto a Mardonio, non c'è da preoccuparsi se
va a finir male. Neppure vincendo i Greci saranno vincitori, se a morire per
mano loro sarà un tuo schiavo; tu invece tornerai a casa dopo aver
raggiunto l'obiettivo della tua spedizione, dopo aver dato alle fiamme
Atene". 103) Serse rimase soddisfatto
del consiglio: rispondendo, Artemisia aveva detto appunto ciò che lui
pensava. Credo infatti, per parte mia, che non sarebbe rimasto neppure se
tutti e tutte glielo avessero suggerito, tanto era impaurito. Lodò
Artemisia e la incaricò di accompagnare a Efeso i suoi figli: perché
lo avevano seguito alcuni suoi figli illegittimi. 104) A vegliare su quei ragazzi
mandò con lei Ermotimo, originario di Pedasa, che occupava un posto di
altissimo rilievo fra gli eunuchi del re. (I Pedasei risiedono sopra
Alicarnasso. Nel loro paese ecco cosa succede: quando a tutti i vicini che
abitano intorno a questa città sta per capitare a breve termine
qualche disgrazia, cresce una lunga barba alla locale sacerdotessa di Atena.
E questo è già successo due volte. Insomma, Ermotimo era
originario di Pedasa). 105) Egli riuscì a trarre
la vendetta più dura, per quanto mi risulti, per un torto subito.
Catturato dai nemici e venduto, era stato comprato da Panionio, un uomo di
Chio che si guadagnava la vita col mestiere più disgustoso: acquistava
ragazzi di notevole bellezza, li castrava e li vendeva a caro prezzo a Sardi
e a Efeso. Presso i barbari gli eunuchi, in quanto ispirano la massima
fiducia, sono più apprezzati degli uomini dotati dei loro attributi.
Molti altri ne aveva evirati Panionio, giacché campava di questo, e fra gli
altri Ermotimo. Ma, non proprio sfortunato in tutto per tutto, Ermotimo era
finito a Sardi nella corte del re assieme ad altri doni; e col passare del
tempo era diventato il più stimato da Serse fra tutti gli eunuchi. 106) Quando il re, stando a
Sardi, mise in marcia contro Atene l'esercito persiano, allora Ermotimo,
sceso per qualche affare in quella zona della Misia che è abitata dai
Chii, e si chiama Atarneo, vi trovò Panionio. Riconosciutolo, gli
rivolse molte parole amichevoli, elencando prima tutti i vantaggi di cui
godeva grazie a lui e poi promettendogli in cambio altrettanto, se si fosse
trasferito con tutta la sua casa a vivere là; sicché, accettando
volentieri l'invito, Panionio si trasferì con i figli e la moglie.
Quando lo ebbe fra le sue mani con tutta la famiglia, Ermotimo gli disse:
"Maledetto tu, che ti guadagni la vita col mestiere più
disgustoso del mondo, che male ti avevo fatto io, o qualcuno dei miei
antenati, a te o a qualcuno dei tuoi, perché tu mi riducessi a non essere
più niente da uomo che ero? Credevi che gli dèi avrebbero
ignorato quel che facevi allora? No, la loro giusta legge ha messo te,
campione di nefandezze, nelle mie mani, sicché non potrai lamentarti della
punizione che ti infliggerò". Quando gli ebbe rinfacciato questo,
fece trascinare al suo cospetto i figli di Panionio e lo costrinse a
strappare i genitali ai suoi ragazzi, che erano quattro; e lui, costretto, lo
fece; quando ebbe finito, furono i suoi figli, obbligati, a castrare lui.
Così la vendetta divina ed Ermotimo si rifecero su Panionio. 107) Serse, affidato ad
Artemisia il compito di accompagnare i suoi figli a Efeso, chiamò
Mardonio e lo esortò a scegliere chi volesse dall'esercito e a tentare
di adeguare le sue imprese alle promesse. Per quel giorno altro non accadde;
la notte, per ordine del re, i comandanti guidarono la flotta sulla via del
ritorno dal Falero verso l'Ellesponto, veloci come ciascuno poté, per andare
a presidiare i ponti in vista del passaggio del re. Quando i barbari in
navigazione si trovarono nei pressi del capo Zostere, dove sottili promontori
sporgono in mare dal continente, li scambiarono per navi e fuggirono a rotta
di collo; più tardi, resisi conto che non erano navi ma lembi di
terra, ricomposero la formazione e proseguirono il viaggio. 108) Appena fu giorno i Greci,
vedendo che l'esercito di terra rimaneva nel paese, immaginarono che anche le
navi fossero nei pressi del Falero e, convinti che avrebbero attaccato
battaglia, si preparavano a resistere. Quando giunse notizia che le navi
erano partite, immediatamente si decise di inseguirle. Diedero la caccia alla
flotta di Serse fino ad Andro, senza avvistarla, quindi scesero ad Andro e
tennero consiglio. Temistocle espose la sua idea: dirigere la rotta fra le
isole, inseguire le navi e puntare dritti sull'Ellesponto per distruggere i
ponti. Euribiade si oppose fermamente, sostenendo che se avessero distrutto i
ponti, avrebbero inflitto alla Grecia il peggior colpo possibile. Il
Persiano, infatti, una volta bloccato e costretto a rimanere in Europa,
avrebbe studiato di non starsene inattivo, giacché nell'inattività né
la sua situazione era certo in grado di migliorare, né gli si apriva una via
di ritirata, e il suo esercito sarebbe morto per fame; se invece tentava
qualcosa e si muoveva, non era improbabile che tutta l'Europa, città
dopo città, popolo dopo popolo, si unisse a lui, o in seguito a
conquista, o per accordo preventivo; e viveri ne avrebbero ricavati dai
raccolti annuali dei Greci. Ma Euribiade pensava che il Persiano, sconfitto
nella battaglia navale, non sarebbe rimasto in Europa; lo si lasciasse
fuggire, insomma, finché fuggendo non fosse tornato a casa sua. Dal quel
momento esortava i Greci a continuare la guerra per conquistarne il
territorio. E anche gli strateghi degli altri Peloponnesiaci sposarono questa
opinione. 109) Quando capì che non
avrebbe persuaso la maggioranza a dirigersi sull'Ellesponto, Temistocle si
rivolse agli Ateniesi (che erano appunto i più irritati dalla fuga dei
barbari e i più impazienti di puntare sull'Ellesponto, a costo di
prendersi l'impresa sulle proprie spalle, se gli altri si rifiutavano) e
disse loro: "Io già mi son trovato in molti casi e ancor
più ne ho sentiti menzionare, in cui uomini messi alle strette dopo
una sconfitta riaccendono di colpo la lotta e riscattano lo smacco
precedente. Noi che abbiamo avuto la fortuna, noi e la Grecia, di disperdere
una tale nuvola di uomini, non mettiamoci a inseguire gente che fugge. Non
l'abbiamo compiuta noi l'impresa, ma gli dèi e gli eroi: essi non
tollerarono che un unico uomo regnasse sull'Asia e sull'Europa, un empio, un
tracotante che metteva sullo stesso piano le cose sacre e le profane,
incendiando e abbattendo le statue degli dèi; un uomo che ha fatto
persino fustigare il mare e gli ha imposto catene! Per il momento, dunque, ci
conviene restare in Grecia e occuparci di noi stessi e delle nostre famiglie:
una volta scacciato definitivamente il Persiano, che ognuno ricostruisca la
propria casa e attenda con cura alla semina. Con la primavera facciamo pure
rotta sull'Ellesponto e sulla Ionia". Tenne questo discorso, nella
prospettiva di riservarsi un cantuccio presso il Persiano, per avere una via
di scampo nel caso gli Ateniesi gli giocassero qualche brutto scherzo. Cosa
che poi, puntualmente, accadde. 110) Temistocle, così parlando,
li abbindolava, ma gli Ateniesi si lasciarono persuadere; visto che anche
prima, quando già godeva fama di uomo abile, si era dimostrato abile
davvero e consigliere prezioso, erano ora senz'altro disposti a credere alle
sue parole. Quando li ebbe convinti, subito dopo Temistocle mandò in
missione su di una nave degli uomini di cui era sicuro che, sottoposti a
qualunque tortura, avrebbero taciuto il messaggio che affidava loro per il
re. Fra di loro c'era di nuovo il suo servo Sicinno. Quando giunsero in
Attica gli altri rimasero sulla nave, Sicinno si recò da Serse e gli
disse: "Mi ha mandato qui Temistocle figlio di Neocle, stratego degli
Ateniesi, il più valoroso di tutti gli alleati, il più abile, a
riferirti questo: Temistocle di Atene, desideroso di renderti un favore, ha
trattenuto i Greci che volevano inseguire le tue navi e spezzare i pontili
sull'Ellesponto. E ora, ritìrati pure in tutta
tranquillità". Esposto il messaggio, tornarono indietro. 111) I Greci, dopo aver deciso
di non inseguire più oltre le navi dei barbari e di non spingersi fino
all'Ellesponto per distruggere il passaggio, si disposero all'assedio di
Andro con l'idea di espugnarla. In effetti gli abitanti di Andro, primi fra
gli insulari a cui Temistocle si era rivolto per ottenere del denaro, non
l'avevano versato; anzi quando Temistocle aveva addotto come argomento, che
gli Ateniesi erano venuti in compagnia di due divinità, la Persuasione
e la Necessità, e che quindi il denaro dovevano proprio consegnarlo, avevano
risposto affermando che Atene era senza dubbio grande e prospera e fornita di
ottime divinità; mentre gli abitanti di Andro erano poveri di terra
fino all'inverosimile e due dee calamitose non lasciavano mai l'isola, le
erano affezionate, la Povertà e la Mancanza di Risorse: gli Andri, che
disponevano di tali divinità, non avrebbero versato il denaro, perché
mai e poi mai la potenza degli Ateniesi poteva esser più forte della
loro mancanza di potenza. 112) Essi dunque, avendo
così risposto e non avendo versato il denaro, subivano ora l'assedio.
Temistocle, la cui avidità non si assopiva un momento, inviando
messaggi minacciosi alle altre isole, richiedeva soldi, per mezzo degli
stessi latori di cui si era servito nei confronti del re, facendo sapere che
se non avessero sborsato quanto si richiedeva, avrebbe condotto all'attacco
la flotta dei Greci e assediato e distrutto le città. Con queste
dichiarazioni raccolse ingenti somme dai Caristi e dai Pari, i quali, quando
appresero che Andro era sotto assedio con l'accusa di filomedismo e che
Temistocle era il più prestigioso fra gli strateghi, per paura
inviarono denaro. Se anche qualche altra isola lo abbia fatto non sono in
grado di dirlo, ma penso che pure altri abbiano pagato e non questi soli.
Eppure neanche così i Caristi ottennero di stornare da sé i guai. I
Pari invece versarono un contributo che soddisfece Temistocle ed evitarono la
soluzione militare. Temistocle insomma, con base da Andro, acquisiva denaro
dagli isolani di nascosto dagli altri strateghi. 113) L'armata di Serse, che si
era fermata per qualche giorno dopo la battaglia navale, ripartì poi
per la Beozia, seguendo il percorso dell'andata. Infatti Mardonio aveva
deciso di accompagnare il re, tenuto conto che quella non era la stagione
ideale per combattere: era meglio svernare in Tessaglia, e poi, all'inizio
della primavera, tentare la via del Peloponneso. Appena giunto in Tessaglia,
Mardonio si scelse in primo luogo i diecimila Persiani detti Immortali,
tranne il loro comandante Idarne che si rifiutò di abbandonare il re,
poi quanti fra gli altri Persiani erano dotati di corazza, nonché i mille
cavalieri; poi Medi, Saci, Battri e Indiani di fanteria e cavalleria. Queste
genti se le aggregò in blocco. Fra gli altri alleati prelevò
qua e là scegliendo quelli fisicamente aitanti e quanti sapeva autori
di imprese pregevoli. Un popolo soprattutto si scelse, i Persiani, gente
ornata di collane e braccialetti, e poi i Medi. Questi ultimi non erano per
numero inferiori ai Persiani, ma erano meno forti. Sicché gli effettivi in
campo, compresi i cavalieri, ammontarono a trecentomila uomini. 114) Nel frattempo, mentre
Mardonio selezionava l'esercito e Serse si trovava dalle parti della
Tessaglia, agli Spartani era giunto da Delfi un oracolo: dovevano chiedere a
Serse soddisfazione per l'uccisione di Leonida e accettare quello che Serse
avrebbe dato. Gli Spartiati inviarono al più presto un araldo, il
quale, dopo aver trovato ancora tutto l'esercito in Tessaglia, si
presentò a Serse e gli disse: "Re dei Medi, gli Spartani e gli
Eraclidi di Sparta esigono da te riparazione per un delitto, giacché tu hai
ucciso il loro re che difendeva la Grecia". Serse scoppiò a
ridere; poi tacque a lungo, quindi, siccome accanto a lui c'era Mardonio, lo
indicò col dito e disse: "Ecco qua Mardonio. Lui darà loro
la soddisfazione che si meritano". 115) L'araldo, avuta la
risposta, si allontanò. Serse, lasciato Mardonio in Tessaglia, si mise
in rapida marcia verso l'Ellesponto e in quarantacinque giorni raggiunse il
punto della traversata, riconducendo nulla, per così dire, della sua
armata. Ovunque passavano, presso qualunque popolazione, si cibavano
rapinandone il raccolto; se non trovavano alcun raccolto, mangiavano l'erba
che spuntava dalla terra; agli alberi, ai domestici come ai selvatici,
staccavano la corteccia e strappavano le foglie, e le divoravano, senza
lasciar nulla; questo facevano per la fame. Epidemia e dissenteria colsero
l'armata lungo il percorso e la decimarono. Serse lasciò indietro chi
era anche ammalato, ordinando alle città per dove transitava di
provvedere a curarli e nutrirli, alcuni in Tessaglia, a Siri di Peonia e in
Macedonia. A Siri durante l'avanzata contro la Grecia aveva lasciato anche il
sacro carro di Zeus, ma al ritorno non riuscì a riprenderlo: i Peoni lo
avevano ceduto ai Traci e quando Serse lo rivolle indietro, dissero che le
cavalle erano state razziate al pascolo dai Traci dell'interno, quelli che
vivono intorno alle sorgenti dello Strimone. 116) Sempre in Peonia il re dei
Bisalti e della Crestonia, un Trace, compì un gesto enorme; aveva
dichiarato che non si sarebbe sottomesso spontaneamente a Serse e si era
ritirato nell'interno, sul monte Rodope, ordinando ai figli di non
partecipare alla spedizione contro la Grecia. Ma essi, o che volessero ignorare
il divieto o che gli fosse venuta voglia di assistere al conflitto, si
unirono al Persiano in marcia. Per tale ragione, quando tornarono tutti sani
e salvi, ed erano sei, il padre fece loro cavare gli occhi. Ecco la
ricompensa che si ebbero. 117) Quando i Persiani, usciti
dalla Tracia, giunsero allo stretto, attraversarono l'Ellesponto sulle navi,
in gran fretta, verso Abido, perché avevano trovato i ponti fra le due rive
non più intatti, ma sconnessi per una tempesta. Qui trattenendosi,
ebbero a disposizione più cibo che lungo il percorso, sicché, per
essersi rimpinzati a dismisura e per aver bevuto acqua diversa, molti
dell'esercito superstite morirono. I rimanenti giunsero a Sardi assieme a
Serse. 118) Ma circola anche un'altra
versione. Quando Serse giunse a Eione sullo Strimone, di ritorno da Atene,
non volle più proseguire per via di terra, ma affidò a Idarne
il compito di condurre l'esercito all'Ellesponto, e lui personalmente,
imbarcatosi su di una nave fenicia, si diresse verso l'Asia. Mentre era in
mare, lo avrebbe colto un vento dello Strimone, forte e tempestoso. Sempre di
più cresceva la burrasca e la nave era carica al punto che molti dei
Persiani che viaggiavano con Serse ne occupavano il ponte. Allora il re, in
preda al panico, chiese urlando al timoniere se c'era speranza di salvarsi; e
quello rispose: "Nessuna, signore, se non ci si sbarazza un po' dei
molti passeggeri". A tali parole Serse avrebbe esclamato:
"Persiani, ora qualcuno di voi dimostri che si preoccupa per il re,
poiché sembra che da voi dipenda la mia salvezza". Lui disse così
ed essi si prosternarono e saltarono giù in mare, sicché la nave,
alleggerita, poté mettersi in salvo in Asia. Appena sbarcato, ecco cosa fece
Serse: donò una corona d'oro al timoniere per aver salvato la vita al
re, ma ordinò di tagliargli la testa per aver causato la morte di
molti Persiani. 119) Questa è un'altra
versione sul ritorno di Serse, ma non mi pare assolutamente credibile, né in
generale, né per quanto attiene al sacrificio dei Persiani. Infatti, se il
pilota avesse parlato come si è su riferito, Serse avrebbe agito
così - e non credo che su diecimila persone se ne trovi una di parere
contrario -, avrebbe cioè mandato sotto coperta quanti stavano sul
ponte, che erano Persiani, e fra i Persiani i più ragguardevoli, e
avrebbe fatto gettare in mare un numero uguale di rematori, che erano Fenici.
In realtà, come ho già specificato prima, Serse rientrò
in Asia assieme al resto dell'armata per via di terra. 120) Ce n'è anche una
prova consistente: risulta certo, infatti, che Serse giunse ad Abdera nel
viaggio di ritorno, strinse vincoli di ospitalità con gli Abderiti e
diede loro in dono una spada d'oro e una tiara ricamata a fili d'oro, inoltre
- lo affermano gli stessi Abderiti, ma per me raccontano cose assurde -, qui
avrebbe fatto tappa per la prima volta nella sua ritirata da Atene,
sentendosi al sicuro. Abdera è più vicina all'Ellesponto che
non lo Strimone ed Eione, dove dicono che si sarebbe imbarcato. 121) I Greci, non riuscendo a
espugnare Andro, si volsero verso Caristo e ne misero a sacco il territorio,
quindi tornarono a Salamina. Prima di tutto scelsero primizie, per gli
dèi, fra l'altro tre triremi fenicie che consacrarono una sull'Istmo -
e vi è rimasta fino ai miei giorni -, una al Sunio, la terza lì
a Salamina, in onore di Aiace. Poi spartirono il bottino e inviarono le
primizie a Delfi; con queste fu fatta una statua alta dodici cubiti che tiene
in pugno un rostro di nave; fu collocata nello stesso luogo dov'è la statua
d'oro di Alessandro di Macedonia. 122) Dopo aver spedito a Delfi
le primizie, i Greci chiesero in comune al dio se le aveva trovate complete e
soddisfacenti; e il dio rispose di sì per le offerte degli altri
Greci, di no, invece, per quelle degli Egineti, e pretese da loro la
ricompensa che avevano ricevuto per le loro prodezze a Salamina. Gli Egineti,
quando lo seppero, dedicarono delle stelle d'oro, tre di numero, fissate
sull'albero di una nave in bronzo che sta nell'angolo più vicino al
cratere di Creso. 123) Dopo la spartizione del
bottino, i Greci si recarono all'Istmo per attribuire il premio a chi tra i
Greci ne fosse risultato più degno nel corso di questa guerra. Quando
gli strateghi, arrivati, posero il loro voto sull'altare di Posidone, valutando
il primo e il secondo fra tutti, allora ciascuno di loro votò per se
stesso, ciascuno ritenendo di essere stato il più valoroso; ma nella
seconda preferenza la maggioranza dei consensi cadde su Temistocle; tutti
dunque ebbero singolarmente un solo voto, mentre Temistocle per il secondo
posto prevalse nettamente. 124) I Greci per invidia non
vollero decidere e se ne tornarono ciascuno a casa propria senza portare a
termine la scelta; tuttavia Temistocle fu proclamato e giudicato, in tutta la
Grecia, il Greco in assoluto più abile. Ma dato che, pur vincitore,
non aveva ricevuto onori dai combattenti di Salamina, si recò subito a
Sparta, desideroso di riceverne; e gli Spartani lo accolsero bene, e gli
tributarono grandi onori. Il premio per il valore, una corona d'olivo, lo
consegnarono a Euribiade, a Temistocle assegnarono quello per l'astuzia e la
destrezza, una seconda corona d'olivo; e gli regalarono il carro più
bello che avessero a Sparta. Dopo molteplici encomi, quando partì,
trecento Spartiati scelti, quelli chiamati "cavalieri", lo
accompagnarono in corteo fino ai confini della Tegeatide. E fu l'unica
persona al mondo, a nostra conoscenza, che gli Spartiati abbiano scortato. 125) Quando da Sparta
tornò ad Atene, qui Timodemo di Afidna, uno dei nemici di Temistocle,
ma non uno dei più illustri, per invidia bersagliò Temistocle
di insulti, accusandolo per il viaggio a Sparta e sostenendo che doveva ad
Atene e non a se stesso i doni ricevuti dagli Spartani. E lui, poiché
Timodemo non smetteva di ripetersi, replicò: "È vero, se
fossi nato a Belbina non sarei stato tanto onorato dagli Spartani; ma nemmeno
tu lo sei, amico, eppure sei nato ad Atene...". Tanto accadde quella
volta. 126) Artabazo, figlio di
Farnace, che già prima era un personaggio insigne fra i Persiani e
più ancora lo divenne dopo i fatti di Platea, con sessantamila uomini
dell'esercito scelto da Mardonio scortava il re fino allo stretto. Quando il
re fu in Asia, Artabazo tornò indietro e giunse nella penisola di
Pallene; e visto che Mardonio stava svernando in Tessaglia e in Macedonia e
non premeva assolutamente su di lui perché raggiungesse il resto
dell'esercito, avendo trovato i Potideati in rivolta, ritenne logico ridurli
in schiavitù. In effetti gli abitanti di Potidea, dopo il passaggio
del re e la fuga precipitosa della flotta persiana da Salamina, si erano
apertamente ribellati ai barbari; come pure gli altri abitanti della Pallene.
127) Allora Artabazo pose
l'assedio a Potidea. Sospettando poi che anche gli abitanti di Olinto
pensassero a una rivolta, cinse d'assedio anche questa città; la
abitavano i Bottiei che erano stati scacciati dal Golfo Termaico a opera dei
Macedoni. Quando li ebbe vinti con l'assedio, li fece portare a un lago e
massacrare; quindi affidò il governo della città a Critobulo di
Torone e ai Calcidesi. E fu così che i Calcidesi divennero padroni di
Olinto. 128) Dopo aver espugnato Olinto,
Artabazo si occupò risolutamente di Potidea; mentre era qui impegnato
con decisione, Timosseno, lo stratego degli Scionei, concordò con lui
un tradimento, in che modo all'inizio non saprei dirlo (non se ne fa parola),
ma ecco insomma come andò a finire. Quando si scrivevano una lettera,
o Timosseno volendo farla giungere ad Artabazo, o Artabazo a Timosseno, la
avvolgevano alla cocca di una freccia, la coprivano di piume e poi
scagliavano la freccia in un punto convenuto. Ma Timosseno fu scoperto in
flagrante tradimento di Potidea, perché Artabazo, nello scagliare la freccia
nel punto convenuto, sbagliò la mira e colpì alla spalla un
uomo di Potidea; intorno al ferito fecero gruppo i compagni, come suole
accadere in guerra, i quali subito estrassero la freccia e, accortisi della
lettera, la portarono agli strateghi; c'era anche presente una rappresentanza
di altri alleati Palleni. Gli strateghi, letta la missiva e individuato il
colpevole del tradimento, decisero di non mettere sotto accusa Timosseno, per
riguardo alla città di Scione, perché gli Scionei, da quel momento in
poi, non avessero sempiterna fama di traditori. 129) Timosseno, dunque, fu
scoperto così. Artabazo, dal canto suo, dopo tre mesi d'assedio,
assistette a un deflusso delle acque del mare, esteso e prolungato; i
barbari, visto che si era formata una secca, avanzarono verso la Pallene;
quando ne ebbero percorso due parti e tre ne restavano ancora da
attraversare, per giungere sulla penisola vera e propria, si abbatté su di
loro una immensa ondata di marea, quale mai prima di allora si era prodotta,
a detta dei locali, benché se ne verifichino spesso. Quanti di loro non sapevano
nuotare annegarono; quelli che erano capaci furono massacrati dai Potideati
accorsi su barche. Secondo i Potideati la causa della secca [e della marea] e
del disastro persiano, stava nel fatto che questi Persiani uccisi dal mare
avevano profanato il tempio e la statua di Posidone nei dintorni della
città; e spiegando così il fenomeno, mi sembra che dicano bene.
Artabazo condusse i superstiti in Tessaglia, presso Mardonio. Questo accadde
alla scorta del re. 130) La superstite flotta di
Serse, dopo aver raggiunto l'Asia nella sua fuga da Salamina e aver
traghettato il re e l'esercito dal Chersoneso ad Abido, svernava a Cuma. Ma
subito, alle prime luci della primavera, si concentrò a Samo, dove
alcune delle navi avevano passato l'inverno. La maggior parte dei soldati a
bordo erano Persiani e Medi: come loro comandanti erano giunti Mardonte
figlio di Bageo e Artaunte figlio di Artace; col loro stesso grado c'era
anche Itamitre, nipote di Artaunte e da questi associato al comando. Dopo il
duro smacco subìto, non si spingevano troppo oltre verso occidente, e
nessuno ve li costringeva; stazionando a Samo, tenevano sotto controllo la
Ionia, per impedire rivolte, con trecento navi comprese quelle degli Ioni.
Non che prevedessero una incursione dei Greci nella Ionia; si accontentavano
semplicemente di sorvegliare il loro paese, contando sul fatto che i Greci
non li avevano inseguiti nella loro fuga da Salamina, ma erano stati ben
lieti di farsi da parte. Per mare, in cuor loro, si sapevano sconfitti, per
terra erano convinti che Mardonio avrebbe stravinto; standosene a Samo, un
po' studiavano se potessero infliggere qualche danno al nemico, un po' anche
tendevano l'orecchio alle sorti di Mardonio. 131) L'arrivo della primavera e
la presenza di Mardonio in Tessaglia risvegliarono i Greci. L'esercito ancora
non si radunava, invece la flotta, centodieci navi, giungeva a Egina.
Stratego e navarco era Leotichida figlio di Menareo, figlio di Agesilao,
figlio di Ippocratida, figlio di Leotichida, figlio di Anassilao, figlio di
Archidamo, figlio di Anassandrida, figlio di Teopompo, figlio di Nicandro,
figlio di Carilao, figlio di Eunomo, figlio di Polidecte, figlio di Pritani,
figlio di Eurifonte, figlio di Procle, figlio di Aristodemo, figlio di
Aristomaco, figlio di Cleodeo, figlio di Illo, figlio di Eracle, membro della
seconda famiglia reale. Tutti costoro, tranne i primi sette elencati dopo
Leotichida, erano stati re di Sparta. Al comando degli Ateniesi c'era
Santippo figlio di Arifrone. 132) Non appena tutte le navi
furono a Egina, al campo dei Greci arrivarono messaggeri degli Ioni, che poco
prima erano stati anche a Sparta a chiedere agli Spartani di liberare la
Ionia; fra essi c'era anche Erodoto figlio di Basileide. Essi si erano uniti
in una congiura e progettavano di eliminare Stratti, il tiranno di Chio; in
origine erano sette, ma, una volta scoperto il loro complotto - uno di loro
aveva denunziato il tentativo -, gli altri, rimasti in sei, sparirono da Chio
e si recarono a Sparta e poi, appunto, a Egina, per chiedere ai Greci di
sbarcare nella Ionia. A mala pena li trascinarono fino a Delo. Ai Greci, che
non erano pratici di quelle zone, ogni località sita oltre Delo
metteva paura: pareva loro che dappertutto dovessero esserci soldati;
supponevano che Samo fosse lontana quanto le colonne d'Eracle. Avvenne
così che i barbari, intimoriti, non osassero inoltrarsi a ovest di
Samo, e i Greci, malgrado le insistenze dei Chii, non osassero avanzare
più a est di Delo; così la paura presidiava lo spazio
intermedio. 133) Mentre i Greci navigavano
verso Delo, Mardonio svernava in Tessaglia. Quando si mosse di lì,
inviò agli oracoli un uomo di Europo, di nome Mis, con l'ordine di
consultarne ovunque fosse possibile. Che cosa volesse apprendere dagli
oracoli quando impartì questi ordini, non saprei dirlo: non se ne fa
parola; credo comunque che abbia inviato Mis per avere lumi sulle circostanze
del momento e non su altro. 134) Risulta che questo Mis si
recò a Lebadea, dove convinse uno del posto, dietro ricompensa, a
scendere da Trofonio; e poi all'oracolo di Abe nella Focide. Ma prima di
tutto era passato da Tebe, dove da una parte consultò Apollo Ismenio
(li è possibile trarre auspici da vittime sacrificali, come a Olimpia)
dall'altra convinse uno straniero, non un Tebano, ad andarsi a coricare per
il rito nel tempio di Anfiarao. In effetti a tutti i Tebani è
interdetta la consultazione di Anfiarao, ed ecco perché: Anfiarao li aveva
invitati per mezzo di oracoli a scegliere quella che volevano fra due
alternative, averlo come indovino o come alleato, e di rinunciare all'altra;
ed essi lo scelsero come alleato. Per questo nessun Tebano può
coricarsi per il rito nel tempio. 135) In quell'occasione,
raccontano i Tebani, si verificò un fatto a mio avviso straordinario;
arrivò dunque Mis di Europo, impegnato nel giro di tutti gli oracoli,
anche al santuario di Apollo Ptoo. Il tempio si chiama il Ptoo, appartiene ai
Tebani, e sorge oltre il lago di Copaide sul fianco di una montagna,
vicinissimo alla città di Acraifia. Appena l'uomo chiamato Mis
arrivò a questo tempio, seguito da tre cittadini scelti dalla
collettività che dovevano trascrivere il testo della profezia, subito
l'indovino prese a parlare in lingua barbara. I Tebani al seguito rimasero
sbalorditi sentendo una lingua barbara invece del greco e sul momento non
sapevano come regolarsi; allora Mis di Europo strappò loro la
tavoletta che portavano e vi annotò le parole del profeta; disse che
parlava in lingua caria; trascritto il tutto, si allontanò e ripartì
per la Tessaglia. 136) Mardonio, appreso il
contenuto degli oracoli, inviò come messaggero ad Atene il Macedone
Alessandro figlio di Aminta, sia perché i Persiani erano imparentati con lui
(il Persiano Bubare aveva per moglie la sorella di Alessandro, Gigea, figlia
di Aminta, e da lei gli era nato quell'Aminta d'Asia, che portava il nome del
nonno materno e che aveva ricevuto dal re per governarla la grande
città frigia di Alabanda), sia perché sapeva che Alessandro era
prosseno e benefattore degli Ateniesi. Credeva così senz'altro di
legare a sé gli Ateniesi, dei quali sentiva dire che erano un popolo numeroso
e valoroso; e non ignorava che il disastro toccato in mare ai Persiani era
dovuto soprattutto agli Ateniesi. Se riusciva a portarli dalla sua, si
aspettava di garantirsi facilmente il dominio del mare - come certo sarebbe
accaduto -, mentre già era convinto di essere assai superiore sulla
terraferma. Contava in questo modo di prevalere sui Greci. Forse anche gli
oracoli gli avevano predetto qualcosa del genere, suggerendogli di rendersi
alleati gli Ateniesi, e lui, obbediente, inviava l'ambasceria. 137) Il settimo antenato di
Alessandro è Perdicca, che conquistò la signoria sui Macedoni
nel modo seguente. Tre fratelli, Gauane, Aeropo e Perdicca, discendenti di Temeno,
ripararono esuli da Argo nel paese degli Illiri, e dall'Illiria per vie
interne passarono nella Macedonia settentrionale, giungendo alla città
di Lebea. Qui a pagamento prestarono la loro opera al re, l'uno governando i
cavalli, l'altro i buoi, il terzo, Perdicca, il più giovane di loro,
il bestiame minuto. Anticamente nel mondo anche i monarchi erano poveri e non
solo i sudditi: la moglie del re preparava con le sue mani il loro cibo.
Ebbene, quando lo cuoceva, il pane destinato al giovanissimo servo Perdicca,
diventava sempre il doppio: poiché questo fenomeno si ripeteva in
continuazione, essa ne parlò col marito. E lui, già sentendolo
dire, capì subito che si trattava di un prodigio e che presagiva
qualcosa di grande; chiamò i servi e intimò loro di lasciare il
suo paese. Essi risposero che se ne sarebbero andati sì, ma, com'era
giusto, dopo aver ricevuto la paga. Il re, sentendo parlare di paga, e poiché
il sole penetrava nella stanza attraverso il foro d'uscita del camino,
accecato dagli dèi dichiarò: "Ecco qua, vi concedo una
paga degna di voi", e indicava il raggio di sole. Gauane e Aeropo, i
più anziani, rimasero interdetti a udire quelle parole, il ragazzo
invece, che aveva con sé un coltello, rispose: "Sovrano, accettiamo
quello che ci dai": col coltello tagliò il raggio sul pavimento e
dopo avere, per così dire, attinto per tre volte al sole e averlo
riposto in grembo, si allontanò; e con lui gli altri. 138) Se ne andarono, ma uno dei
dignitari spiegò al re quel che il ragazzo aveva fatto e come il
più giovane di loro, ragionatamente, aveva preso quanto gli si
offriva. Il re, udito questo, si irritò e spedì dei cavalieri
dietro ai tre fratelli per ucciderli. C'è un fiume in questa regione,
al quale i discendenti dei tre profughi di Argo sacrificano come a un dio
salvatore; questo fiume, quando i Temenidi lo ebbero attraversato, divenne
così impetuoso che i cavalieri non furono in condizione di guadarlo. I
tre, giunti in un'altra parte della Macedonia, si stabilirono presso i
giardini detti di Mida figlio di Gordia, dove nascono spontanee delle rose
composte ciascuna di sessanta petali e profumate più di ogni altra.
Sono gli stessi giardini, a quanto raccontano i Macedoni, in cui una volta fu
catturato Sileno. Sovrasta i giardini il monte chiamato Bermio, inaccessibile
per le nevi perenni. Muovendo da quella terra, di cui ormai erano divenuti i
padroni, i tre sottomisero anche il resto della Macedonia. 139) Ed ecco come da questo
Perdicca discese Alessandro. Alessandro era figlio di Aminta, Aminta di
Alceta; padre di Alceta era Aeropo, figlio di Filippo e nipote di Argeo, a
sua volta figlio del Perdicca che conquistò il potere. 140) Queste le ascendenze di
Alessandro figlio di Aminta. Quando giunse ad Atene inviato da Mardonio,
parlò così: A) "Ateniesi, Mardonio vi
dice: "Mi giunge dal re un messaggio che suona come segue: 'Perdono agli
Ateniesi tutti i torti che hanno commesso nei miei confronti. Ora, Mardonio,
agisci così: restituiscigli la loro terra, poi essi oltre a questa se ne
scelgano un'altra, a loro piacere, e siano indipendenti. Se accettano di
venire a patti con me, ricostruisci tutti i santuari che io ho dato alle
fiamme'. Avendo ricevuto questo messaggio, io devo senz'altro agire
così, a meno che voi non vi opponiate. Per parte mia vi dico questo:
perché agite come pazzi muovendo guerra al re? Non riuscireste a sconfiggerlo
e non siete in grado di resistergli per sempre. La mole della spedizione di
Serse e le sue imprese le avete viste e sapete di che armata io ora disponga,
sicché anche se riusciste ad avere la meglio e a batterci - cosa di cui per
voi non sussiste speranza, se possedete un briciolo di senno -,
subentrerà un altro esercito ben più numeroso. Non scegliete,
dunque, di farvi portare via la vostra terra solo per considerarvi alla pari
col re, di mettere in eterno pericolo la vostra vita; scendete a patti. Vi si
offre di concludere un accordo magnifico, perché questa è l'intenzione
del re. Siate liberi, alleandovi con noi senza dolo e senza inganno". B) Ecco, Ateniesi, quanto
Mardonio mi ha incaricato di riferirvi. Quanto a me, della buona disposizione
che ho per voi non dirò nulla (non ne sentireste parlare ora per la
prima volta), ma vi prego di dare retta a Mardonio. Vedo che non siete in
grado di guerreggiare per sempre con Serse; se ne avessi scorto la
possibilità, non sarei venuto da voi a parlarvi come vi parlo.
Sovrumana è la potenza del re e il suo braccio è molto lungo.
Se non scendete a patti, ora che vi si offrono condizioni ottime circa gli
accordi desiderati, io tremo per voi: fra tutti gli alleati siete voi a
trovarvi sul percorso obbligato per le truppe e sarete i soli a subire danni
in ogni caso, giacché il vostro paese è un eccellente campo di
battaglia. Datemi retta; per voi è un bell'onore che il grande re
perdoni le colpe soltanto a voi fra i Greci e voglia diventare vostro
amico". 141) Così parlò
Alessandro. Gli Spartani, venuti a sapere che Alessandro era giunto ad Atene
per indurre gli Ateniesi ad allearsi col barbaro, memori delle profezie in
base alle quali sarebbero stati scacciati dal Peloponneso assieme agli altri
Dori per mano dei Medi e degli Ateniesi, ebbero paura davvero che gli
Ateniesi venissero a patti col Persiano. Subito decisero di inviare una
ambasceria. E finì che Alessandro e gli Spartani si presentarono
assieme davanti al popolo; gli Ateniesi avevano guadagnato tempo, sicuri che
gli Spartani, avuta notizia del messaggero inviato dal re a cercare un
accordo, avrebbero subito mandato una ambasceria. Agirono così a bella
posta, per palesare le loro intenzioni agli Spartani. 142) Quando Alessandro ebbe
finito di parlare, a loro volta i messaggeri di Sparta dissero: "Gli
Spartani ci hanno inviato a chiedervi di non rivoluzionare la situazione
della Grecia e di non accettare le proposte del re. Non sarebbe giusto né
onorevole per nessuno degli altri Greci, tanto meno lo è per voi, e
per molte ragioni: siete stati voi a scatenare questa guerra, quando nessuno
di noi la voleva, e il conflitto in origine riguardò il vostro paese;
solo ora coinvolge la Grecia intera. Comunque, non è ammissibile che
voi Ateniesi diventiate responsabili della schiavitù dei Greci, voi
che sempre, e ormai da tempo, vi atteggiate a paladini della libertà
di tanti. Noi compiangiamo le vostre disgrazie: siete stati privati
già di due raccolti e ormai da molto tempo siete ridotti a mal
partito. A compenso di ciò gli Spartani e gli altri alleati si offrono
di provvedere fino alla fine del conflitto al sostentamento delle vostre
donne e di tutti i familiari inabili alla guerra. Non vi convinca Alessandro
il Macedone, che leviga le parole di Mardonio; lui deve agire così:
tiranno, si fa complice di un tiranno; ma voi no, non dovete farlo, se avete
ancora un briciolo di senno, perché sapete che lealtà e sincerità
sono ignote ai barbari". Questo dissero i messaggeri. 143) Ecco cosa risposero gli
Ateniesi ad Alessandro: "Anche noi sappiamo che le forze del barbaro
sono molto più numerose delle nostre, non c'è bisogno di
gettarcelo in faccia. Eppure ci terremo ugualmente stretta la nostra
libertà e ci difenderemo finché ne avremo la forza. Accordarci col
barbaro? Non tentare di convincerci a farlo, tanto non ti daremo retta. Ora
va' a riferire a Mardonio cosa dicono gli Ateniesi: finché il sole
seguirà la stessa via che percorre oggi, non verremo a patti con
Serse; anzi usciremo in campo contro di lui e ci batteremo, fiduciosi
nell'aiuto degli dèi e degli eroi, ai quali lui senza il minimo
rispetto bruciò le case e le statue. Tu per il futuro non comparire più
davanti agli Ateniesi con discorsi del genere e non esortarli, con l'aria di
render loro un gran servigio, a compiere azioni inique. Non vogliamo che tu
debba subire qualcosa di sgradevole da parte degli Ateniesi, di cui sei
prosseno e amico". 144) Così risposero ad
Alessandro. Ai messaggeri giunti da Sparta dissero: "Che gli Spartani
temano un nostro accordo col barbaro è umano, decisamente; però
ci sembra vergognoso che abbiate avuto questa paura, sapendo benissimo come
la pensano gli Ateniesi: che al mondo non esiste oro bastante, né esiste
regione superiore alle altre per bellezza e virtù che noi saremmo
disposti ad accettare per schierarci con il Persiano e rendere serva la
Grecia. Sono molto gravi i motivi che ci impedirebbero di agire così,
anche se lo volessimo. Primo e principale le statue e le dimore degli
dèi date alle fiamme e abbattute, che noi siamo tenuti a vendicare il
più duramente possibile; altro che venire a patti con chi ne è
responsabile! Poi c'è il senso della grecità, la comunanza di
sangue e di lingua, di santuari e riti sacri, di usi e costumi simili; male
sarebbe che gli Ateniesi ne diventassero traditori. Tenete questo per certo,
se non ne eravate già sicuri: finché ci sarà anche un solo
Ateniese, mai e poi mai ci accorderemo con Serse. Noi siamo contenti della
sollecitudine che mostrate verso di noi, che vi preoccupiate dei danni da noi
subiti al punto di voler sostentare le nostre famiglie. Alla vostra cortesia
non manca nulla, ma noi resisteremo così come stiamo senza pesare su
di voi. Piuttosto, vista la situazione, mandate al più presto un
esercito. Secondo le nostre previsioni fra non molto il barbaro sarà
qui da invasore, nel nostro paese, non appena ricevuta notizia che non faremo
nulla di quanto ci ha chiesto. Quindi, prima che lui sia in Attica, è
il caso che noi lo precediamo accorrendo a fronteggiarlo in Beozia". I
messi, ottenuta questa risposta dagli Ateniesi, se ne tornarono a Sparta. Libro IX 1) Mardonio, quando Alessandro, al ritorno, gli ebbe
riferito la risposta degli Ateniesi, mosse dalla Tessaglia e condusse
rapidamente l'esercito contro Atene; dovunque arrivasse, prendeva con sé le
genti del posto. I capi della Tessaglia, per nulla pentiti del loro
precedente operato, aizzavano ancora di più il Persiano: Torace di
Larissa, che aveva accompagnato Serse nella sua ritirata, allora concesse a
Mardonio, apertamente, libero transito contro la Grecia. 2) Quando l'esercito, nella sua marcia, giunse in Beozia, i
Tebani cercarono di far fermare Mardonio e di consigliarlo, sostenendo che non
c'era località più adatta di quella per piazzare
l'accampamento; volevano che non procedesse oltre, che si installasse
lì e agisse in modo da sottomettere tutta quanta la Grecia senza colpo
ferire. Sopraffare con la forza i Greci uniti e compatti, gli stessi
d'altronde che anche prima erano concordi, sarebbe stato difficile anche a
tutto il mondo in armi. "Invece", sostenevano "se seguirai i
nostri consigli, sarai padrone senza fatica di tutti i loro piani. Manda
denaro ai notabili delle varie città; così facendo dividerai la
Grecia e a quel punto con l'aiuto dei tuoi fautori avrai facilmente la meglio
su chi ti è ostile". 3) Così lo consigliavano, ma lui non si lasciava
convincere; gli si era radicato nell'animo un desiderio terribile di conquistare
Atene per la seconda volta: in parte per insensatezza, in parte perché
contava, per mezzo di segnali luminosi da isola a isola, di informare Serse,
a Sardi, che aveva Atene in mano sua. Neppure questa volta, giunto in Attica,
vi trovò gli Ateniesi; seppe che la maggior parte si trovava a
Salamina, sulle navi, e occupò la città deserta. L'occupazione
del re era avvenuta nove mesi prima della successiva spedizione di Mardonio. 4) Mardonio, quando fu ad Atene, inviò a Salamina un
uomo dell'Ellesponto, Murichide, a ribadire il messaggio già trasmesso
agli Ateniesi da Alessandro il Macedone. Fece questo secondo tentativo
già consapevole dei sentimenti ostili degli Ateniesi, ma nella
speranza che essi, considerando l'Attica intera un paese ormai conquistato e
sottomesso ai suoi ordini, recedessero dalla loro follia. 5) Per questo inviò Murichide a Salamina. Murichide,
presentatosi al Consiglio, riferì le parole di Mardonio. Uno dei
consiglieri, Licide, espresse l'opinione che fosse bene accogliere la proposta
di Murichide e presentarla al popolo. Ebbene, Licide manifestò questa
opinione, vuoi che avesse accettato denaro da Mardonio, vuoi magari perché la
cosa gli piaceva. Ma gli Ateniesi, i membri del Consiglio e gli altri di
fuori, quando lo seppero, ritennero di gravità estrema il fatto,
circondarono Licide e lo lapidarono: l'inviato d'Ellesponto, invece, lo
rispedirono indietro sano e salvo. Dopo che a Salamina, sull'episodio di
Licide, era scoppiato un tumulto, alle donne ateniesi giunse notizia di quel
che stava accadendo: si passarono la voce l'una con l'altra, si radunarono,
mossero spontaneamente contro la casa di Licide: e lì lapidarono la
moglie di lui, lapidarono i suoi figli. 6) Ecco in quali circostanze gli Ateniesi si erano
trasferiti a Salamina. Finché si aspettavano l'arrivo dal Peloponneso di un
esercito in loro soccorso, se ne restarono in Attica, ma poiché quelli sempre
di più si attardavano e se la prendevano comoda e ormai l'invasore
veniva segnalato in Beozia, allora portarono segretamente tutte le loro cose,
e si trasferirono essi stessi, a Salamina. A Sparta inviarono ambasciatori,
un po' per rinfacciare agli Spartani di aver permesso l'avanzata del barbaro
in Attica e di non averla contrastata assieme a loro in Beozia, e un po' per
ricordargli cosa aveva promesso il Persiano agli Ateniesi se cambiavano
campo; per avvertire, insomma, che se gli Spartani non venivano in aiuto
degli Ateniesi, questi si sarebbero trovati anche da soli una via di scampo. 7) In effetti gli Spartani celebravano in quel momento una
festività (erano le Iacinzie) e si preoccupavano più che altro
di ottemperare ai doveri religiosi. E intanto la muraglia, che costruivano
sull'Istmo, era ormai arrivata alla merlatura. Quando gli ambasciatori ateniesi
giunsero a Sparta, accompagnati da colleghi di Megara e di Platea, si
presentarono agli efori e dichiararono: A)"Gli Ateniesi ci hanno inviato per dirvi che il re
dei Medi ci restituisce la terra e ci vuole come alleati a pari condizioni e
dignità, senza dolo e senza inganno; e oltre alla nostra terra
è pronto a darcene anche dell'altra, a nostra scelta. Noi,
però, per rispetto verso Zeus Ellenio e perché aborriamo l'idea di
tradire la Grecia, non abbiamo accettato; anzi abbiamo rifiutato, anche se dai
Greci siamo stati trattati ingiustamente e abbandonati e ci rendiamo conto
che per noi sarebbe più vantaggioso venire a patti col Persiano che
non combatterlo. Non ci accorderemo con lui, almeno di nostra volontà.
Il nostro atteggiamento verso i Greci è dunque onesto e leale. B)E a voi, caduti
allora nel più nero terrore di un nostro eventuale accordo con il
Persiano, adesso che vi è nota esattamente la nostra intenzione di non
tradire mai la Grecia, visto che la muraglia sull'Istmo è ormai quasi
finita, degli Ateniesi non vi importa più nulla: il piano di difesa in
Beozia concordato con noi lo avete tradito e lasciate che il barbaro occupi
l'Attica. Sino a questo momento gli Ateniesi sono sdegnati con voi: non avete
agito come si doveva. Al presente però vi invitano a spedire con noi
un esercito, al più presto, per contrastare il barbaro in Attica. In
effetti, giacché ci siamo giocata la Beozia, la zona più adatta a una
battaglia, nel nostro paese, è la pianura Triasia". 8) Ebbene, ascoltato il discorso, gli efori differirono la
risposta al giorno dopo, il giorno dopo al successivo, e così via per
altri dieci, procrastinando di giorno in giorno. E nel frattempo tutti i
Peloponnesiaci lavoravano a gran ritmo alla costruzione della muraglia
sull'Istmo; e ormai l'opera era vicina al compimento. Non saprei dire perché
dopo la visita di Alessandro di Macedonia ad Atene si erano tanto preoccupati
che gli Ateniesi passassero dalla parte dei Medi e ora invece non se davano
pensiero; l'unica spiegazione è che l'Istmo stavolta era ormai
fortificato e forse pensavano di non aver più bisogno degli Ateniesi,
mentre all'epoca della missione in Attica di Alessandro la muraglia non era
ancora pronta e anzi vi stavano lavorando per timore dei Persiani. 9) Infine ecco come si arrivò alla risposta e alla
partenza dell'esercito spartano. Il giorno prima dell'ultima udienza
prevista, un uomo di Tegea, Chileo, uno straniero che godeva del massimo
prestigio a Sparta, apprese dagli efori tutti i ragionamenti fatti dagli
Ateniesi. Dopo averli sentiti, Chileo disse loro: "Signori efori, la
situazione è questa: se gli Ateniesi non ci sono amici, ma si alleano
col barbaro, per quanto solida sia la muraglia costruita da un capo all'altro
dell'Istmo, si spalancano per il Persiano immense porte sul Peloponneso. Date
retta agli Ateniesi prima che prendano un'altra decisione, rovinosa per la
Grecia". 10) Questo fu il suo consiglio; ed essi, afferrato il senso
del discorso, senza dire nulla agli ambasciatori giunti dalle città,
fecero partire, che era ancora notte, cinquemila Spartiati, assegnando a
ciascuno di loro sette iloti e affidando il comando a Pausania figlio di
Cleombroto. Il comando spettava in realtà a Plistarco, figlio di
Leonida, però ancora ragazzo: Pausania ne era tutore e cugino. Cleombroto,
padre di Pausania e figlio di Anassandride, ormai non era più vivo:
una volta ricondotta in patria dall'Istmo l'armata che vi aveva costruito il
muro, era morto, in breve volger di tempo. Cleombroto aveva ricondotto in
patria gli uomini dall'Istmo per la seguente ragione. Stava offrendo
sacrifici per ottenere auspici contro il Persiano, quando il sole si
oscurò nel cielo. Pausania si aggregò Eurianatte, figlio di
Dorieo, esponente della sua stessa casata. 11) Pausania e i suoi, dunque, uscirono da Sparta. Gli
ambasciatori, del tutto ignari della spedizione, si presentarono di buon
mattino agli efori con l'intenzione di andarsene verso i rispettivi paesi; si
presentarono agli efori e dissero: "Voialtri Spartani ve ne state qui a
celebrare le Iacinzie e a festeggiare, dopo aver tradito i confederati. Ma
gli Ateniesi, offesi da voi e privi di alleati, verranno a un accordo col
Persiano come gli sarà possibile. E una volta siglato l'accordo,
poiché è chiaro che diventeremo alleati del re, marceremo con lui e i
suoi dove vorranno guidarci. E voi, a quel punto, vi renderete conto delle
conseguenze". Alle parole degli ambasciatori gli efori replicarono
giurando di ritenere che le truppe in marcia contro gli stranieri fossero
ormai a Oresteio: chiamavano "stranieri" i barbari. Gli
ambasciatori, che nulla sapevano, chiesero spiegazioni e in tal modo
appresero tutto, sicché, pieni di stupore, partirono alla svelta sulle tracce
dell'esercito. La stessa cosa fecero, con loro, cinquemila perieci spartani
scelti. 12) Essi, dunque, si affrettavano verso l'Istmo. Gli Argivi,
come seppero che Pausania e i suoi si erano mossi da Sparta, mandarono in
Attica un araldo, il corriere migliore che scovarono. In precedenza, infatti,
avevano promesso a Mardonio di bloccare l'esercito spartano, di impedirgli di
lasciare il loro territorio; l'araldo giunse ad Atene e disse:
"Mardonio, gli Argivi mi hanno mandato a dirti che la gioventù in
armi è partita da Sparta e che gli Argivi non sono in grado di
impedirle di uscire dal paese. Perciò sappiti regolare al
meglio". 13) Detto ciò, l'araldo tornò indietro;
Mardonio da parte sua, dopo aver ricevuto questa notizia, non aveva
più voglia di fermarsi in Attica. Prima di riceverla se ne stava
quieto, intenzionato a sapere cosa avrebbero fatto gli Ateniesi: non
devastava né saccheggiava la campagna dell'Attica, sempre sperando che
venissero a trattare con lui. Non riuscendo a convincerli, appena fu al
corrente di tutto e prima che gli uomini di Pausania arrivassero all'Istmo,
si ritirò, ma dopo aver dato alle fiamme Atene: se qualche pezzo di
mura, di case o di templi era ancora in piedi, lo abbatté e rase al suolo. Si
allontanò per la semplice ragione che l'Attica non era terreno adatto
alla cavalleria e, in caso di sconfitta, non c'era via di scampo se non
attraverso stretti sentieri dove anche pochi uomini avrebbero potuto
bloccarli. Si proponeva dunque di risalire fino a Tebe e di combattere
là, vicino a una città amica e su un terreno adatto alla
cavalleria. 14) Mardonio dunque stava ripiegando; ed era già in
cammino quando gli giunse notizia che un altro contingente di mille Spartani
in avanscoperta era giunto a Megara. Quando lo seppe, fece i suoi calcoli:
innanzitutto era ansioso di riuscire, se lo poteva, a eliminare quelli. Invertì
la marcia delle sue truppe e le guidò verso Megara: la cavalleria,
spintasi avanti, compì scorrerie nella Megaride. Questo fu il punto
più occidentale in Europa raggiunto dall'esercito persiano. 15) In seguito a Mardonio giunse notizia che i Greci si
erano tutti concentrati sull'Istmo. Sicché tornò indietro attraverso
Decelea; i capi Beoti avevano convocato i vicini Asopi, che lo guidarono
verso Sfendalea e di là a Tanagra. Sostò una notte a Tanagra e
il giorno dopo, piegando verso Scolo, venne a trovarsi nel paese dei Tebani.
Qui, benché i Tebani fossero schierati dalla sua parte, tagliò al
piede le piante, non per ostilità nei loro confronti, ma perché
stretto da una imperiosa necessità: voleva assicurare una difesa al
suo esercito e si costruì questo riparo nel caso l'esito della
battaglia non dovesse essere quello desiderato. L'accampamento cominciava da
Eritre, fiancheggiava Isie e si spingeva fino al territorio di Platea,
accanto al fiume Asopo. Il muro che alzarono, però, non fu altrettanto
esteso: solo una decina di stadi su ciascun lato. 16) Mentre i barbari erano impegnati in queste opere, il
Tebano Attagino, figlio di Frinone, fatti sontuosi preparativi, invitò
a pranzo Mardonio in persona e cinquanta Persiani fra i più
ragguardevoli, i quali accettarono l'invito; il banchetto ebbe luogo a Tebe.
Quanto segue l'ho sentito raccontare da Tersandro, uno dei cittadini
più illustri di Orcomeno. Mi raccontò Tersandro di essere stato
invitato pure lui da Attagino a questo banchetto, a cui partecipavano anche
cinquanta personaggi di Tebe. Gli invitati non si sistemarono su divani
separati, ma su ogni lettuccio c'erano un Persiano e un Tebano. Dopo il
pasto, mentre si beveva, il Persiano con cui divideva il posto gli chiese in
greco di dove fosse e lui gli rispose che era di Orcomeno. Il Persiano allora
proseguì: "Poiché sei stato mio compagno di tavola e hai brindato
con me, voglio lasciarti un ricordo di ciò che penso, perché tu,
preavvisato, possa riflettere bene su quello che ti conviene fare. Tu vedi
questi Persiani che banchettano e l'esercito che abbiamo lasciato accampato
sulle rive del fiume? Di tutti costoro fra non molto tu ne vedrai ben pochi
ancora vivi". Diceva così il Persiano, e intanto piangeva,
piangeva. Tersandro meravigliato delle sue parole gli domandò:
"Ma non sarebbe il caso di dirlo a Mardonio e agli altri che, dopo di
lui, godono di maggior prestigio fra i Persiani?". Ma quello rispose:
"Straniero, quel che gli deve venire dal dio nessun uomo può
stornarlo; e anche se dài avvertimenti degni di fede, nessuno
vorrà prestarti ascolto. Siamo in tanti, fra i Persiani, ad essere
convinti di ciò che si prepara e non ci opponiamo, obbligati dalla
necessità. Ed è questa al mondo l'angoscia più odiosa:
capire molto e sentirsi impotenti". Questo sentii da Tersandro di
Orcomeno; ed anche che ne aveva parlato subito ad altri, prima che avesse
luogo la battaglia di Platea. 17) Mardonio era dunque accampato in Beozia. Tutti gli altri
Greci che in quelle zone parteggiavano per i Medi gli fornivano truppe, e
già avevano invaso con lui Atene; solo i Focesi non avevano
partecipato all'attacco, perché senza dubbio stavano anch'essi coi Medi, ma
costretti e non per propria volontà; però non molti giorni dopo
il rientro di Mardonio a Tebe arrivarono mille loro opliti, al comando di
Armocide, cittadino fra i più illustri. Quando anch'essi giunsero a
Tebe, Mardonio inviò loro l'ordine di sistemarsi, in disparte dagli
altri, nella pianura. Come ebbero obbedito, subito si dispiegò
l'intera cavalleria. Quindi per il campo dei Greci che erano con i Medi si
sparse la voce che la cavalleria doveva abbatterli sotto un nugolo di frecce,
e la voce giunse anche tra i Focesi. Allora il comandante Armocide li
esortò con queste parole: "Focesi, è chiaro: questa gente
si prepara a darci una morte sicura; immagino che i Tessali ci abbiano
calunniato. Ora bisogna che ognuno di voi si dimostri uomo di valore.
È meglio fare qualcosa di grande e morire battendosi, che farsi
massacrare in maniera ignominiosa. Facciamogli vedere che sono dei barbari e
che hanno tramato l'assassinio di veri Greci!". 18) Li esortò così. I cavalieri li
accerchiarono, avvicinandosi come per spazzarli via e già puntavano le
frecce facendo atto di scoccarle, e qualcuno, forse, l'avrà pure
lasciata partire; ma i Focesi li fronteggiarono, stretti fianco a fianco e
con le file serrate il più possibile. Allora i cavalieri voltarono e
tornarono indietro. Non sono in grado di dire con certezza se si erano
avvicinati per sterminare i Focesi su richiesta dei Tessali e se poi, quando
li ebbero visti pronti alla difesa, si ritirarono per timore di subire delle
perdite (conforme agli ordini di Mardonio) o se Mardonio abbia voluto
saggiare il coraggio dei Focesi. Appena ritiratisi i cavalieri, Mardonio
mandò un araldo con il seguente messaggio: "Coraggio, Focesi, vi
siete dimostrati uomini di valore, diversamente da quanto mi avevano
raccontato. Adesso mettetecela tutta in questa guerra. In benefici non
batterete né me né il sovrano". Così andò a finire l'episodio
dei Focesi. 19) Gli Spartani, arrivati all'Istmo, vi si accamparono.
Venuti a saperlo, gli altri Peloponnesiaci, quelli che avevano preso la
decisione migliore e alcuni anche perché vedevano gli Spartiati scendere in
campo, non vollero restare esclusi dalla spedizione. Pertanto, tratti gli
auspici, si misero tutti in marcia dall'Istmo e giunsero a Eleusi. Anche
lì eseguirono un sacrificio e, ottenuti i presagi favorevoli,
proseguirono, assieme agli Ateniesi, che erano sbarcati da Salamina e si
erano uniti a loro a Eleusi. Appena giunti a Eritre, in Beozia, appresero che
i barbari erano accampati sul fiume Asopo e, quando lo seppero, andarono a
schierarsi di fronte a loro alle falde del Citerone. 20) Mardonio, visto che i Greci non scendevano nella
pianura, lanciò loro addosso l'intera cavalleria, al comando del
nobile persiano Masistio, chiamato Macistio dai Greci, che montava un cavallo
niseo dalle briglie d'oro e splendidamente bardato. Allora i cavalieri,
lanciandosi verso i Greci, li attaccarono a squadroni e, attaccandoli,
infliggevano loro duri colpi, e li insultavano chiamandoli
"donnicciuole". 21) Per caso i Megaresi si trovavano schierati nel punto
più vulnerabile dell'intera posizione, dove più facilmente
poteva spingersi la cavalleria. Premuti dunque dagli attacchi della
cavalleria, i Megaresi mandarono agli strateghi Greci un messaggero, il
quale, giunto a destinazione, parlò così: "I Megaresi
dicono: "Alleati, non siamo in grado di reggere da soli l'urto della
cavalleria persiana, mantenendo la posizione su cui ci siamo attestati
all'inizio; fino a ora abbiamo resistito con tenacia e valore, benché
schiacciati dai nemici. Se adesso non inviate dei soldati a darci il cambio
in prima linea, sappiate che abbandoneremo la nostra posizione"".
Questo comunicò l'araldo, e Pausania sondò se c'era qualcuno
fra i Greci volontariamente disposto a recarsi sul luogo e a dare il cambio
ai Megaresi. Mentre gli altri si rifiutavano, accettarono gli Ateniesi, e,
fra gli Ateniesi, i trecento soldati scelti comandanti da Olimpiodoro figlio
di Lampone. 22) Accettarono e si dislocarono verso Eritre, davanti a
tutti gli altri Greci, dopo aver preso con sé gli arcieri. Dopo un bel po'
che combattevano, ecco come finì la battaglia. Durante un attacco a
squadroni della cavalleria il cavallo di Masistio sopravanzò gli altri
e fu colpito al fianco da una freccia; per il dolore si impennò,
disarcionando Masistio. Subito gli Ateniesi si gettarono sul caduto: ne
catturarono il cavallo e uccisero Masistio che si difendeva, ma non ci riuscirono
subito perché era così equipaggiato: sotto portava una corazza d'oro a
squame e sopra la corazza indossava un chitone di porpora. Colpendolo sulla
corazza non gli facevano nulla, finché qualcuno non capì come stavano
le cose e gli trafisse un occhio. Allora cadde e morì. Gli altri
cavalieri non si accorsero di nulla: non lo avevano visto cadere da cavallo
né morire, e nel ritirarsi e fare una conversione non si resero conto di quel
che era accaduto. Una volta fermi si accorsero della sua mancanza, perché non
c'era più nessuno a disporre gli schieramenti. Compreso cos'era
successo, incitandosi a vicenda, spinsero tutti il cavallo all'attacco,
almeno per recuperare il cadavere. 23) Gli Ateniesi, vedendo che i cavalieri non si lanciavano
più all'assalto a squadroni, ma tutti in massa, chiamarono a gran voce
il resto dell'esercito. Mentre tutta la fanteria si muoveva in loro soccorso,
scoppiò un'aspra battaglia per il corpo di Masistio. Finché furono
soli, i trecento ebbero la peggio e stavano per perdere il cadavere, ma
quando giunse in aiuto il grosso delle truppe allora furono i cavalieri a non
reggere più; non riuscirono a recuperare il corpo di Masistio e, per
giunta, persero altri uomini. Fermatisi a un paio di stadi di distanza, si
consultarono sul da farsi; decisero, poiché erano senza comandante, di
ripiegare presso Mardonio. 24) Quando la cavalleria giunse all'accampamento l'intero
esercito e Mardonio si dolsero moltissimo per Masistio: si rasarono il capo,
tosarono i cavalli e le bestie da soma, abbandonandosi a un pianto
interminabile. La notizia si sparse per tutta la Beozia, perché era caduto
l'uomo più stimato dopo Mardonio presso i Persiani e presso il re. I
barbari, dunque, resero onore, come s'usa fra loro, alla memoria di Masistio. 25) Dal canto loro i Greci, per aver retto all'attacco della
cavalleria e per averlo respinto, si rinfrancarono molto di più. Per
prima cosa posero la salma di Masistio su un carro e lo fecero transitare
lungo le linee. Il morto per statura e bellezza meritava di essere visto, e
per questa ragione si spinsero persino a uscire dalle file, per andare a
vedere Masistio. Poi decisero di scendere verso Platea: la zona di Platea
sembrava molto più adatta di quella di Eritre per accamparsi e, tra
l'altro, ricca di acque. Ritennero opportuno spostarsi in quella
località e presso la fonte Gargafia, che vi si trova, schierarsi e
accamparsi lì. Presero su le armi e, attraversando le pendici del
Citerone e passando accanto a Isie, si trasferirono nella campagna di Platea;
qui, appena arrivati, si dislocarono, popolo per popolo, vicino alla fonte
Gargafia e al sacrario dell'eroe Androcrate, fra basse collinette e un tratto
pianeggiante. 26) Qui, al momento di schierarsi, sorse un duro contrasto
verbale fra Tegeati e Ateniesi; entrambi pretendevano di occupare una delle
ali, adducendo imprese di fresca data e antiche. Ecco cosa, da un lato,
sostenevano i Tegeati: "Da sempre tutti gli alleati ci hanno ritenuti
degni di questa posizione: è stato così per tutte le spedizioni
comuni fuori del Peloponneso compiute dai Peloponnesiaci, in passato e in
tempi recenti, dall'epoca in cui gli Eraclidi, dopo la morte di Euristeo,
tentarono di tornare nel Peloponneso. Lo ottenemmo allora per questo motivo:
quando accorremmo all'Istmo per affrontarli assieme agli Achei e agli Ioni,
che allora risiedevano nel Peloponneso, e prendemmo posizione di fronte agli
invasori, Illo, così si racconta, dichiarò che non era
necessario che gli eserciti corressero il rischio di uno scontro e
sfidò il guerriero giudicato migliore sul campo peloponnesiaco, a
battersi in duello con lui a condizioni prestabilite. I Peloponnesiaci
decisero di accettare la proposta e siglarono con giuramento il seguente
patto: se Illo avesse battuto il campione dei Peloponnesiaci, gli Eraclidi
sarebbero scesi nelle sedi avite, se ne fosse stato sconfitto, dovevano al
contrario ritirarsi, condurre via l'esercito e per cento anni non tentare
più la calata nel Peloponneso. Ebbene, fra tutti gli alleati fu scelto
un volontario, Echemo, figlio di Aeropo e nipote di Fegeo, nostro comandante
militare e nostro re, che affrontò Illo e lo uccise. Grazie a
quest'impresa ottenemmo dai Peloponnesiaci di allora, fra gli altri grandi
onori di cui continuiamo a godere, il diritto di guidare sempre una delle ali
in caso di spedizioni comuni fuori dei confini. Noi non ci opponiamo a voi,
Spartani, anzi vi lasciamo la scelta dell'ala che volete comandare; ma
l'altra affermiamo che spetta a noi comandarla, come già in passato. A
parte l'impresa appena menzionata, meritiamo noi più degli Ateniesi di
avere questa posizione nello schieramento: abbiamo combattuto spesso, e con
buon esito, contro di voi, Spartiati, e spesso contro altre genti. Pertanto
è giusto che siamo noi a occupare l'altra ala, e non gli Ateniesi: non
possono vantare gesta pari alle nostre, né recenti né antiche". 27) Così dissero, e così replicarono gli
Ateniesi: "Ci risulta che ci siamo radunati qui per combattere contro il
barbaro e non per discutere; ma, visto che il Tegeate ha proposto di
sbandierare le imprese vecchie e nuove che ciascuno di noi ha compiuto
nell'arco dei secoli, non possiamo rinunciare a spiegarvi come sia tradizione
per noi, guerrieri valorosi, essere sempre ai primi posti, ben più che
per gli Arcadi. Cominciamo dagli Eraclidi, dei quali costoro si vantano di
avere ucciso il capo sull'Istmo: fummo noi i soli ad accoglierli, mentre
prima venivano respinti da tutti i Greci presso cui cercavano riparo fuggendo
la schiavitù micenea, i soli a stroncare la prepotenza di Euristeo,
vincendo in battaglia assieme ad essi le genti che allora dominavano il
Peloponneso. Passiamo poi agli Argivi che avevano marciato su Tebe assieme a
Polinice, avevano perso la vita e giacevano insepolti; ebbene noi possiamo
dire di essere scesi in guerra contro i Cadmei, di aver recuperato le salme e
di aver dato loro sepoltura a Eleusi nel nostro paese. Annoveriamo poi
un'altra bella impresa contro le Amazzoni che dal fiume Termodonte vennero un
tempo a invadere la terra attica; e nella guerra di Troia non siamo rimasti
indietro a nessuno. Ma non ha senso rievocare queste gesta: chi fu valoroso,
oggi potrebbe essere codardo e chi fu codardo, potrebbe essere migliore.
Basta con le vecchie imprese! Per noi, anche se non avessimo compiuto
nient'altro - ma abbiamo compiuto molte gloriose azioni come nessuno dei
Greci -, anche solo per i fatti di Maratona saremmo degni di questo
privilegio e di altri ancora, noi che fra i Greci ci siamo battuti da soli,
testa a testa con il Persiano e, gettatici in una simile impresa, ne siamo
usciti e abbiamo sconfitto quarantasei popoli. E unicamente per questa sola
azione, non spetterebbe già a noi, legittimamente, la posizione nello
schieramento su cui discutiamo? Comunque, giacché non conviene altercare in
una simile circostanza per dove schierarci, siamo pronti a obbedirvi,
Spartani, a piazzarci dove e di fronte a chi credete meglio. In qualunque
posto cercheremo di comportarci da valorosi. Comandate e vi obbediremo".
Questo risposero gli Ateniesi, e l'intero campo spartano proclamò a gran
voce che gli Ateniesi erano più degni degli Arcadi di tenere una delle
ali dell'esercito. Così dunque gli Ateniesi ottennero la postazione
voluta e prevalsero sui Tegeati. 28) Dopodiché, ecco come scesero in campo i Greci, quelli a
mano a mano sopraggiunti e quelli venuti fin dall'inizio. L'ala destra
l'ebbero diecimila Spartani: tra questi i cinquemila Spartiati erano
assistiti da trentacinquemila iloti, armati alla leggera, in ragione di sette
per ciascuno. Gli Spartiati vollero accanto a sé i Tegeati, per rendergli
onore e per il loro valore militare; il contingente dei Tegeati era di
millecinquecento opliti. Di seguito c'erano cinquemila Corinzi, che si
ritrovarono vicini, per volere di Pausania, i trecento Potideati della
Pallene. Quindi c'erano seicento Arcadi Orcomeni e tremila Sicioni; poi
ottocento soldati di Epidauro. Accanto a essi, nell'ordine, mille Trezeni,
duecento Lepreati, quattrocento fra Micenei e Tirinti e mille Fliasi; poi
trecento Ermionei. Agli Ermionei si affiancarono seicento fra Eretriesi e
Stirei, quattrocento Calcidesi, e cinquecento Ambracioti. Dopo gli Ambracioti
ottocento fra Leucadi e Anattori, quindi duecento Palei da Cefalonia. Poi
erano schierati cinquecento Egineti, accanto ai quali si piazzarono tremila
Megaresi. Infine c'erano seicento Plateesi, e ultimi, e primi gli Ateniesi,
che occupavano l'ala sinistra, in numero di ottomila: li comandava Aristide,
figlio di Lisimaco. 29) Costoro, a eccezione dei sette iloti assegnati a
ciascuno Spartiata, erano tutti opliti e ammontavano complessivamente a
trentottomilasettecento. Tanti furono gli opliti convenuti contro il barbaro;
quanto ai fanti leggeri la loro consistenza era la seguente: i
trentacinquemila del contingente spartiata - sette per ogni soldato -, ognuno
dei quali in assetto di guerra, e gli altri fanti leggeri di Sparta e dei
Greci, trentaquattromilacinquecento in ragione di uno per ciascun uomo. 30) Pertanto i combattenti armati alla leggera erano in
tutto sessantanovemilacinquecento. E l'intero esercito greco convenuto a
Platea, opliti e fanti leggeri combattenti, fu di centodiecimila uomini meno
milleottocento. Con i Tespiesi presenti si raggiunse la cifra esatta di
centodiecimila; infatti si trovavano nel campo anche i Tespiesi superstiti,
milleottocento, ma neppure essi avevano armamento pesante. Essi dunque,
così inquadrati, si accamparono sull'Asopo. 31) I barbari di Mardonio, posto fine al compianto per
Masistio, quando seppero che i Greci si trovavano a Platea, si affacciarono
anch'essi sull'Asopo, che scorre in questi luoghi; una volta arrivati, ecco
come Mardonio li contrappose ai Greci. Di fronte agli Spartani schierò
i Persiani; ma poiché i Persiani erano molto più numerosi, li dispose
su più file e anche di fronte ai Tegeati, col seguente criterio:
scelse tutti i più forti tra di loro e li contrappose agli Spartani, i
più deboli li piazzò contro i Tegeati. Fece così dietro
consiglio e istruzioni dei Tebani. Di fianco ai Persiani collocò i
Medi; questi fronteggiavano Corinzi, Potideati, Orcomeni e Sicioni. Accanto
ai Medi mise i Battri; questi si contrapponevano a Epidauri, Trezeni,
Lepreati, Tirinti, Micenei e Fliasi; dopo i Battri mise gli Indiani, che
avevano davanti a sé Ermionei, Eretriesi, Stirei e Calcidesi. Dopo gli
Indiani dislocò i Saci, in faccia ad Ambracioti, Anattori, Leucadi,
Palei ed Egineti. Di fronte ad Ateniesi, Plateesi e Megaresi, schierò
vicino ai Saci, Beoti, Locresi, Maliesi, Tessali e i Focesi in numero di
mille. Non tutti i Focesi, infatti, stavano coi Medi; alcuni, ritirati sul
Parnaso, ingrossavano le forze dei Greci e muovendo di là infliggevano
continue perdite all'esercito di Mardonio e ai Greci che stavano con lui.
Contro gli Ateniesi dispose anche i Macedoni e quelli che abitano vicino alla
Tessaglia. 32) Ho nominato qui i popoli più importanti schierati
da Mardonio, i più rinomati, i più meritevoli di menzione. Ma
vi erano anche uomini di altre nazionalità, confusamente mescolati:
Frigi, Misi, Traci, Peoni e, per esempio, dall'Etiopia e dall'Egitto, i
cosiddetti Ermotibi e Calasiri, armati di spade corte, che sono gli unici
guerrieri fra gli Egiziani. Questi Mardonio li aveva fatti scendere dalle
navi su cui prestavano servizio come combattenti, quando si trovava ancora al
Falero; Egiziani, infatti, non comparivano tra le file dell'esercito giunto
ad Atene con Serse. I barbari erano trecentomila come ho detto prima. Quanto
ai Greci uniti a Mardonio, nessuno ne conosce il numero, visto che non furono
contati, ma immagino, per ipotesi, che ne fossero convenuti circa
cinquantamila. Gli uomini così schierati erano fanti, la cavalleria
venne allineata a parte. 33) Quando tutti furono al loro posto, per
nazionalità e per squadroni, allora, il giorno dopo, da entrambe le
parti si fecero sacrifici rituali. Per i Greci il sacrificante era Tisameno
figlio di Antioco, che seguiva l'esercito in qualità di indovino: era
un Eleo, della stirpe degli Iamidi, ma gli Spartani se lo erano reso
concittadino. Infatti, una volta che Tisameno consultava l'oracolo a Delfi
sulla propria discendenza, la Pizia gli aveva predetto le cinque più
grandi vittorie. E lui, male interpretando il responso, si dedicò agli
agoni ginnici, convinto di dover trionfare in competizioni atletiche; ma,
gareggiando nel pentathlon, perse la vittoria olimpica per una sola prova, la
lotta, e il suo avversario era Geronimo di Andro. Gli Spartani compresero che
la profezia su Tisameno alludeva non alle competizioni atletiche ma a quelle
militari e tentarono di convincere Tisameno, offrendogli un compenso, a
guidarli nelle guerre assieme ai re Eraclidi. Tisameno, vedendo che gli
Spartiati ci tenevano molto a farselo amico, capito questo, aumentò le
pretese, facendo capire che se lo avessero reso loro concittadino con tutti i
diritti annessi e connessi, avrebbe accettato, per altro compenso no. Gli
Spartiati, sentendo questo, dapprima si sdegnarono e lasciarono cadere nel
vuoto la sua richiesta; ma infine, sotto la grave minaccia incombente
dell'invasione persiana, lo mandarono a cercare e acconsentirono. Tisameno,
quando si rese conto che avevano cambiato idea, dichiarò di non
accontentarsi più della prima condizione: bisognava che anche suo
fratello Egia diventasse Spartiata con le stesse sue prerogative. 34) Dicendo così, chiedendo regno e cittadinanza,
imitava, immagino, Melampo. Anche Melampo, quando le donne di Argo erano
impazzite e gli Argivi tentavano di convincerlo, con denaro, a venire da Pilo
per guarirle dal male, pretese la metà del regno. Gli Argivi
rifiutarono e se ne andarono, ma poiché continuava a crescere il numero delle
donne che diventavano folli, ad Argo si piegarono, alla fine, alla richiesta
di Melampo e si recarono da lui per esaudirla. Allora Melampo, vedendo che
avevano cambiato idea, alzò le pretese, e dichiarò che se non
assegnavano un terzo del regno anche a suo fratello Biante, non avrebbe fatto
ciò che volevano. Gli Argivi, messi alle strette, si piegarono a
questa ulteriore condizione. 35) Così pure gli Spartiati, poiché avevano un
terribile bisogno di Tisameno, cedettero in tutto. Quando gli diedero il loro
pieno assenso, Tisameno di Elea, divenuto Spartiata, collaborò, da
indovino, a cinque grandissime vittorie. Lui e suo fratello furono i soli
uomini al mondo a ottenere la cittadinanza spartiata. Ed ecco quali furono le
cinque vittorie: la prima sul campo, a Platea, la seconda a Tegea contro i
Tegeati e gli Argivi, la terza a Dipea contro tutti gli Arcadi coalizzati,
tranne i Mantinei; la quarta, sui Messeni, avvene presso Itome e l'ultima si
ebbe a Tanagra contro Ateniesi e Argivi; con essa si concluse il ciclo delle
cinque vittorie. 36) Questo Tisameno, dunque, condotto dagli Spartiati, fu
l'indovino dei Greci a Platea. Ebbene ai Greci i sacrifici risultavano
propizi se si difendevano, ma non più nel caso attraversassero l'Asopo
dando inizio alle ostilità. 37) D'altro canto a Mardonio che desiderava attaccare
battaglia i sacrifici non riuscivano favorevoli, anche per lui erano propizi
a patto che si difendesse. Anche Mardonio ricorreva al rituale greco, con
l'indovino Egesistrato, un cittadino di Elea, e uno dei Telliadi più
illustri; in precedenza gli Spartiati avevano arrestato questo Egesistrato e
lo avevano incarcerato con l'intenzione di condannarlo alla pena capitale,
per aver ricevuto da lui, sostenevano, molte intollerabili offese. In un simile
frangente Egesistrato, poiché correva rischio di vita e avrebbe dovuto pure
subire aspre sofferenze prima di morire, compì un'impresa
impressionante. Era incatenato a un ceppo di legno bloccato con ferri; mise
le mani su un coltello che in qualche modo era finito vicino a lui e subito
concepì il gesto più coraggioso di cui io abbia notizia.
Misurato come il resto del piede potesse liberarsi, si amputò alla
caviglia. Fatto ciò, dato che era sorvegliato da sentinelle,
scavò un buco nel muro e scappò verso Tegea; marciava di notte
e di giorno si nascondeva nel bosco e dormiva; sicché, malgrado la caccia in
massa degli Spartani, la terza notte giunse a Tegea, mentre a Sparta grande
era lo stupore per il suo coraggio: vedevano lì per terra il mezzo
piede troncato e lui non riuscivano a trovarlo! Fu così che, sfuggito
agli Spartani, riparò a Tegea, che all'epoca non era in buoni rapporti
con Sparta. Una volta guarito e munitosi di un arto di legno, si
dichiarò aperto nemico degli Spartani. Ma alla fin fine l'odio votato contro
gli Spartani non gli giovò: fu da loro catturato mentre esercitava la
professione di indovino a Zacinto e morì. 38) Comunque la morte di Egesistrato avvenne in tempi
successivi a Platea; allora, sulle rive dell'Asopo, per Mardonio, che lo
pagava non poco, sacrificava e mostrava molto zelo, sia per odio verso gli
Spartani sia per amore di guadagno. Poiché il responso non consentiva il
combattimento né ai Persiani né ai Greci che stavano con loro (avevano
anch'essi un indovino, per conto loro, Ippomaco di Leucade) e intanto, grazie
a nuovi apporti, i Greci diventavano sempre più numerosi, il Tebano
Timagenida figlio di Erpi suggerì a Mardonio di presidiare i passi del
Citerone, spiegando che i Greci vi transitavano in continuazione, ogni
giorno, e che ne avrebbe catturati parecchi. 39) Erano schierati uno di fronte all'altro ormai da otto
giorni, quando Timagenida diede a Mardonio questo consiglio. Mardonio,
compreso che l'idea era buona, appena fu notte inviò la cavalleria
agli sbocchi del Citerone che immettono nella regione di Platea, chiamati
Tricefale dai Beoti e Driocefale dagli Ateniesi. I cavalieri inviati non
fecero invano il viaggio: si impadronirono infatti di cinquecento bestie da
soma, che entravano nella pianura portando vettovaglie dal Peloponneso al
campo dei Greci, e degli uomini che le accompagnavano. Impadronitisi di
queste prede, i Persiani le massacrarono senza pietà, senza
risparmiare animali o uomini. Quando ne ebbero abbastanza di uccidere,
radunarono quel che ne restava e lo sospinsero verso Mardonio e
l'accampamento. 40) Dopo questo episodio passarono altri due giorni senza
che una delle due parti si decidesse ad attaccare battaglia. I barbari si
spingevano fino all'Asopo per provocare i Greci, ma nessuno dei due volle
passare il fiume. Comunque la cavalleria di Mardonio continuava a stare
addosso e a infliggere perdite ai Greci. Infatti i Tebani, filopersiani
accaniti, fomentavano la guerra attivamente e guidavano i Persiani fino al
momento dello scontro; allora subentravano Persiani e Medi, che davano prova
del loro valore. 41) Per quei dieci giorni non accadde nulla di più.
All'undicesimo giorno da quando si fronteggiavano a Platea, i Greci erano
molto cresciuti di numero e Mardonio era irritato dall'indugio; allora per
discutere si incontrarono Mardonio figlio di Gobria e Artabazo figlio di
Farnace, che era nella ristretta cerchia persiana dei favoriti di Serse. Si
scambiarono le opinioni, che furono le seguenti: secondo Artabazo bisognava
far muovere al più presto tutto l'esercito e portarlo entro le mura di
Tebe, dove era stato portato in abbondanza cibo per gli uomini e foraggio per
il bestiame, quindi starsene tranquilli e ottenere un buon risultato agendo
come segue: poiché avevano molto oro coniato, e molto anche grezzo, e molto
argento e coppe, dovevano, senza economia, distribuirlo fra i Greci, e
soprattutto fra notabili delle varie città; questi ben presto
avrebbero rinunciato alla libertà ed essi non avrebbero corso il
rischio di una battaglia. Era l'identica opinione dei Tebani, da persona
più lungimirante. Più rigido fu invece il parere di Mardonio,
più dissennato, per nulla conciliante; era convinto che il suo
esercito fosse molto più forte di quello greco e voleva lanciare
l'offensiva al più presto, non permettere più agli alleati di
crescere continuamente di numero; andassero pure in malora le previsioni di
Egesistrato: non valeva la pena di forzarle, ma di combattere, come era
tradizione dei Persiani. 42) Di fronte a questa dichiarazione nessuno si oppose,
sicché il suo parere prevalse: era lui ad avere, dalle mani del re, il
comando supremo, e non Artabazo. Convocò, dunque, i comandanti degli
squadroni e gli strateghi dei Greci schierati con lui e domandò loro
se conoscevano qualche profezia riguardante una disfatta dei Persiani in
Grecia. Poiché i convocati tacevano, gli uni per ignoranza degli oracoli, gli
altri perché li conoscevano, sì, ma ritenevano poco prudente parlare,
fu Mardonio da parte sua a concludere: "E allora, dato che voi non
sapete nulla o non osate aprire bocca, parlerò io, da persona bene
informata. Esiste un vaticinio secondo cui è destino che i Persiani,
giunti in Grecia, mettano a sacco il santuario di Delfi, e poi, dopo il
saccheggio, periscano tutti quanti. Ebbene noi, al corrente di questa profezia,
non andremo al santuario in questione, non tenteremo di saccheggiarlo e
quindi non periremo per questa colpa. Pertanto, tutti voi che nutrite
sentimenti amichevoli verso i Persiani, rallegratevi pure, perché
sconfiggeremo i Greci". Dopodiché, diede ordine di preparare e
predisporre ogni cosa, perché il mattino seguente ci sarebbe stata battaglia. 43) L'oracolo che secondo Mardonio si riferiva ai Persiani,
a quanto ne so io, era stato emesso per gli Illiri e per l'esercito degli
Enchelei, e non per i Persiani. Invece l'oracolo di Bacide che alludeva a
questa battaglia suona così: ...”Sul Termodonte e l’Asopo che ha
verdi le sponde gli Elleni Stanno adunati, e l’esercito barbaro emette
clamori, Più che non voglia il Destino ed il Fato ivi molti cadranno: Medi
che portano l’arco, ove il giorno assegnato sia giunto”… (sul Termodonte
e sull'Asopo dalle rive erbose il concorso dei Greci, il grido dei barbari,
là dove molti Persiani, grandi arcieri, cadranno contro giustizia e
destino, quando scoccherà il loro giorno fatale). Conosco questi
vaticini e molti altri simili di Museo che si riferiscono ai Persiani. Il
fiume Termodonte scorre fra Tanagra e Glisante. 44) Dopo le domande sugli oracoli e l'esortazione di
Mardonio, scese la notte e vennero piazzate le sentinelle. A notte inoltrata,
quando tutto sembrava tranquillo nell'accampamento e gli uomini erano
sprofondati nel sonno, Alessandro figlio di Aminta, comandante e re dei
Macedoni, si spinse a cavallo sino ai presìdi degli Ateniesi e chiese
di parlare con gli strateghi. La maggior parte delle sentinelle rimase sul
posto, le altre corsero dagli strateghi; e una volta di fronte a loro,
riferirono che dall'esercito dei Medi era venuto un uomo a cavallo che, senza
aggiungere ulteriori spiegazioni, affermava di voler parlare con i
comandanti; e ne faceva i nomi. 45) Gli strateghi, udito ciò, seguirono le sentinelle
sino alle postazioni. Al loro arrivo Alessandro disse: "Ateniesi, affido
a voi le mie parole come un pegno, e non dovete riferirle a nessuno se non a
Pausania, altrimenti decretereste la mia fine; non parlerei se non avessi
molto a cuore le sorti della Grecia intera; personalmente, in effetti, vanto
una antica origine ellenica e non vorrei vedere la Grecia ridotta da libera a
schiava. Vi avverto dunque che per Mardonio e il suo esercito i sacrifici non
si rivelano propizi; da tempo avreste dovuto combattere. Ora ha deciso di
lasciar perdere i sacrifici e di attaccare alle prime luci del giorno: teme,
a quanto presumo, che si accresca il numero dei vostri soldati. Quindi
tenetevi pronti. Se Mardonio differisce l'attacco e non lo fa, aspettate con
pazienza: fra pochi giorni gli mancheranno i viveri. E se questa guerra
finirà come vi augurate, qualcuno dovrà ricordarsi anche della
mia liberazione, di me, che per simpatia verso i Greci ho compiuto questo
gesto rischioso, deciso a rivelarvi i piani di Mardonio, per impedire ai
barbari di piombare su di voi all'improvviso. Io sono Alessandro di
Macedonia". Detto ciò, fece ritorno all'accampamento e al suo
reparto. 46) Gli strateghi ateniesi si recarono sull'ala destra e
riferirono a Pausania quanto avevano appreso da Alessandro. Sentendo
ciò, Pausania ebbe paura dei Persiani e disse: "Lo scontro
avverrà al sorgere del sole: è bene, per ciò, che voi Ateniesi
vi schieriate di fronte ai Persiani e noi di fronte ai Beoti e ai Greci
attualmente piazzati contro di voi, per la ragione seguente: voi conoscete i
Medi e il loro modo di battersi per esservi misurati con loro a Maratona; noi
non li abbiamo provati in veste di guerrieri, ce ne manca l'esperienza.
Nessuno Spartiata si è mai confrontato con i Medi, siamo pratici,
invece, di Beoti e Tessali. È meglio che prendiamo su le nostre armi e
ci trasferiamo: voi qui e noi all'ala sinistra". Al che gli Ateniesi
risposero: "Anche a noi, già da un po', da quando abbiamo visto i
Persiani schierati contro di voi, era venuto in mente di farvi la stessa
proposta, ci avete battuti sul tempo; ma temevamo che le nostre parole
potessero spiacervi. Ora che siete voi stessi a toccare l'argomento, il
vostro discorso ci piace e siamo pronti a fare così". 47) Entrambe le parti erano soddisfatte: spuntò la
luce dell'aurora e mutarono le rispettive posizioni. I Beoti se ne accorsero
e lo andarono a riferire a Mardonio; e lui, come lo seppe, tentò
subito di cambiare a sua volta, trasferendo i Persiani davanti agli Spartani.
Appena Pausania si rese conto di quel che accadeva, comprese di non poter
agire inosservato e ricollocò gli Spartani all'ala destra; e di nuovo
Mardonio lo imitò, piazzando i Persiani alla propria sinistra. 48) Una volta tornati alle primitive posizioni, Mardonio
mandò un araldo agli Spartiati col seguente messaggio: "Spartani,
presso le genti di questo paese avete fama di essere uomini assai valorosi:
vi ammirano perché non evitate la guerra e non abbandonate il vostro posto,
perché, saldi sul campo, o uccidete i nemici o vi fate uccidere. Ma non c'era
nulla di vero in tutto questo; prima ancora che attaccassimo e venissimo alle
mani vi abbiamo visto fuggire e abbandonare la posizione, mettendo alla prova
gli Ateniesi e andandovi a schierare di contro ai nostri schiavi. Questo non
è affatto un comportamento da uomini veri e noi ci siamo molto
ingannati sul vostro conto. In base alla vostra fama ci aspettavamo che ci
inviaste un araldo a sfidarci; desiderosi di misurarvi da soli a soli coi
Persiani, ed eravamo pronti a farlo; ma scopriamo che non ci proponete nulla
di simile, e ve ne state invece acquattati. Ebbene, se voi non avete preso
l'iniziativa di questo discorso, la prenderemo noi. Perché non combattiamo
lealmente, pari di numero, voi per i Greci, giacché passate per tanto
valorosi, e noi per i barbari? Se si ritiene giusto che anche gli altri
scendano in campo, lo facciano pure, ma dopo. Se no, se si ritiene che
bastiamo noi soli, ci batteremo fino alla fine e quelli di noi che
vinceranno, daranno la vittoria alla rispettiva armata". 49) L'araldo, dopo aver parlato, si trattenne per un po'; ma
poi, giacché nessuno gli rispondeva alcunché, se ne tornò indietro; e
al suo ritorno riferì a Mardonio quanto gli era accaduto. Mardonio si
rallegrò vivamente e, esaltato da un successo inconsistente, spinse la
cavalleria contro i Greci. I cavalieri si lanciarono all'assalto, e
infliggevano perdite a tutto lo schieramento greco, scagliando giavellotti e
frecce da quegli arcieri a cavallo che sono, impossibili da avvicinare. La
fonte Gargafia, a cui l'intero esercito greco attingeva acqua, la
intorbidarono e ostruirono. Presso la sorgente erano accampati solo gli
Spartani; gli altri Greci erano più o meno lontani dalla fonte,
secondo la posizione che occupavano ed erano invece vicini all'Asopo, ma
tenuti fuori com'erano dall'Asopo, andavano spesso alla sorgente: dal fiume
non potevano trarre acqua per via dei cavalieri e delle frecce nemiche. 50) A questo punto gli strateghi dei Greci, dato che
l'esercito era stato privato delle risorse d'acqua e veniva infastidito dagli
attacchi della cavalleria, per questo e per altri motivi si riunirono e si
recarono da Pausania all'ala destra; in effetti più della situazione
su menzionata era altro a renderli inquieti; non avevano più viveri e
i servi inviati nel Peloponneso per procurarsene erano stati bloccati dalla
cavalleria e non erano più in grado di raggiungere l'accampamento. 51) Gli strateghi riuniti in consiglio decisero, se i
Persiani lasciavano passare quel giorno senza attaccare, di andare
nell'"isola". Essa si trova di fronte alla città di Platea,
a dieci stadi di distanza dall'Asopo e dalla fonte Gargafia, dove erano
allora accampati. Si tratta di un "isola" sulla terraferma in
questo senso: un fiume scorre giù nella pianura, dall'alto del
Citerone, dividendosi in due correnti distanti tre stadi l'una dall'altra,
che poi si ricongiungono. Si chiama Oeroe; le genti del luogo affermano che
Oeroe è figlia di Asopo. Decisero di trasferirsi in quel punto sia per
avere a disposizione acqua in abbondanza, sia per non venir molestati dalla
cavalleria, come ora che le erano davanti. Pensavano di mettersi in movimento
nella notte, al secondo turno di guardia, per impedire ai Persiani di vederli
partire e ai cavalieri di dar noie inseguendoli. Raggiunta nella notte questa
località, tutta circondata dall'asopide Oeroe che scende dal Citerone,
ritenevano di poter distaccare metà di loro verso il Citerone onde
recuperare i servi partiti per far provviste e allora, appunto, bloccati sul
Citerone. 52) Dopo aver deciso così, per tutta la giornata
furono incessantemente impegnati dagli attacchi della cavalleria. Poi il
giorno finì e i cavalieri si quietarono; scesa la notte e giunta l'ora
in cui avevano convenuto di allontanarsi, levarono il campo ma i più
si allontanarono senza l'intenzione di raggiungere il punto stabilito: appena
partiti, fuggirono con sollievo lontano dalla cavalleria in direzione di
Platea città; e fuggendo giunsero al santuario di Era. Questo sorge in
faccia alla città di Platea, a venti stadi dalla sorgente Gargafia. 53) Arrivati lì, si sistemarono davanti al santuario.
Essi dunque erano accampati intorno al tempio di Era. Pausania, quando li
aveva visti allontanarsi dal campo base, aveva dato ordine anche agli
Spartani di prendere su le armi e di seguire il cammino degli altri che li
precedevano, convinto che si stessero spostando nel luogo convenuto. A quel
punto, mentre gli altri tassiarchi erano pronti a obbedire a Pausania,
Amonfareto figlio di Poliade, capo del contingente di Pitane, si
rifiutò di fuggire davanti agli stranieri e di infamare scientemente
il nome di Sparta; e si stupiva a vedere quanto stava accadendo, perché non
aveva assistito alla discussione precedente. Pausania ed Eurianatte
consideravano grave il suo atto di insubordinazione nei loro confronti, ma
consideravano ancora più grave, visto che quello ormai aveva deciso
così, abbandonare sul posto la schiera di Pitane: temevano, se
l'avessero abbandonata per agire come concordato con gli altri Greci, che
Amonfareto e i suoi uomini facessero una brutta fine, una volta rimasti soli.
Mentre riflettevano sul da farsi, tenevano fermo l'esercito spartano e cercavano
di convincere Amonfareto che era inutile comportarsi così. 54) Essi dunque cercavano di placare Amonfareto, l'unico fra
Spartani e Tegeati deciso a restare, e intanto ecco cosa facevano gli
Ateniesi. Se ne stavano fermi anch'essi al loro posto, ben sapendo che gli
Spartani dicono sempre una cosa e ne pensano un'altra. Quando fu levato il
campo, mandarono un loro cavaliere per osservare se gli Spartiati si
mettevano in marcia o se non pensavano minimamente di muoversi, e a chiedere
a Pausania istruzioni sul da farsi. 55) Quando l'araldo giunse presso gli Spartani, li vide
schierati al loro posto e che i comandanti erano trascesi a litigio.
Sì, perché, pur continuando a esortare Amonfareto a evitare che i soli
Spartani, rimanendo, corressero dei rischi, Eurianatte e Pausania non
riuscivano ancora a convincerlo; ed erano ormai caduti in un alterco mentre
si presentava, al suo arrivo, l'araldo degli Ateniesi. A un certo punto del
litigio Amonfareto afferra un pietrone con entrambe le mani, lo sbatte davanti
ai piedi di Pausania e dichiara che quello è il suo voto: di non
fuggire davanti agli stranieri [intendendo i barbari]. Pausania gli diede del
forsennato, del pazzo furioso; poi incaricò l'araldo ateniese, che lo
interrogava secondo gli ordini ricevuti, di riferire la situazione agli
Ateniesi: li pregava di avvicinarsi agli Spartani e, circa la ritirata, di
fare come loro. 56) L'araldo tornò presso gli Ateniesi; il sorgere
del sole colse gli Spartani ancora intenti a questionare fra loro, e
Pausania, che era rimasto fermo in questo frattempo, ritenendo che Amonfareto
non sarebbe rimasto indietro se gli altri Spartani si mettevano in marcia,
cosa che appunto avvenne, diede il segnale e guidò tutti gli altri in
ritirata attraverso le colline. Lo seguirono anche i Tegeati. Gli Ateniesi,
schierati com'erano, si mossero all'opposto degli Spartani: questi si
tenevano a ridosso delle alture e delle pendici del Citerone per paura della
cavalleria, gli Ateniesi invece erano rivolti in basso, verso la pianura. 57) Amonfareto, mai più pensando che Pausania avrebbe
osato abbandonarli, insisteva perché, rimanendo lì, non si ritirassero
dalla postazione. Ma poiché gli uomini di Pausania procedevano, si convinse
che lo stavano proprio lasciando solo, ordinò ai suoi di prendere le
armi e li guidò a passo di marcia verso il resto delle truppe. Queste,
allontanatesi ormai di dieci stadi, attendevano il gruppo di Amonfareto
standosene presso il fiume Moloente, in località Argiopio, dove sorge
anche un santuario di Demetra Eleusinia. Aspettavano lì per la
seguente ragione, per poter ripiegare in loro soccorso qualora Amonfareto e
il suo distaccamento non avessero abbandonato la posizione dove erano stati
schierati, ma vi fossero rimasti. Amonfareto e i suoi si ricongiunsero agli
altri, ma intanto li assalì l'intera cavalleria dei barbari. I
cavalieri, infatti, avevano manovrato come al solito e, trovato vuoto il
punto dove i Greci erano schierati nei giorni precedenti, avevano spinto i
cavalli sempre più avanti, finché, ripreso contatto col nemico, non si
lanciarono all'attacco. 58) Mardonio, quando lo avvisarono che i Greci si erano
dileguati col favore del buio e vide deserte le posizioni, chiamò
Torace di Larissa e i suoi fratelli Euripilo e Trasidio e così si
rivolse loro: "Figli di Alevas, e ora cosa dite di fronte a questo
deserto? Eravate voi, loro vicini, a sostenere che gli Spartani non fuggono
dalla battaglia, che in guerra sono i migliori del mondo; prima li avete
visti cambiare posizione nello schieramento e adesso tutti possiamo
constatare che durante la notte hanno preso il volo. Al momento di misurarsi
in battaglia contro gli uomini davvero più valorosi del mondo, hanno
dimostrato di essere delle nullità in mezzo a quelle nullità
che sono i Greci. A voi, che non avevate esperienza dei Persiani, andava la
nostra indulgenza, di fronte alle vostre lodi degli Spartani; vi era noto
qualche loro merito. Mi stupiva di più la paura che degli Spartani
aveva Artabazo, e il suo esprimere, per quella paura, un parere vilissimo,
che dovevamo levare il campo, rientrare a Tebe e subire il loro assedio; di
questo parere informerò, a suo tempo, il sovrano. Ma rimando il
discorso a un'altra occasione; ora, invece, non dobbiamo permettere ai Greci
di agire come stanno agendo: dobbiamo inseguirli, raggiungerli e far loro
pagare tutto il male compiuto ai Persiani". 59) Detto ciò attraversò l'Asopo e condusse i
Persiani di corsa sulle tracce dei Greci convinto che stessero scappando, e
finì addosso ai soli Spartani e Tegeati; gli Ateniesi, in effetti, che
si erano avviati verso la pianura, non li scorgeva per via delle alture. Gli
altri comandanti degli squadroni barbarici, vedendo i Persiani lanciarsi alla
caccia dei Greci, alzarono tutti subito le insegne e si gettarono anch'essi
all'inseguimento, ognuno più in fretta che poteva, senza rispettare
alcun criterio di ordine o di schieramento. 60) Anch'essi, massa urlante di uomini, si lanciarono
all'attacco come per fare un sol boccone dei Greci. Pausania, premuto dalla
cavalleria, spedì agli Ateniesi un cavaliere col seguente messaggio:
"Ateniesi, la lotta è giunta al momento decisivo, o la Grecia
sarà libera o ridotta in schiavitù; noi Spartani e voi Ateniesi
siamo stati traditi dagli alleati, fuggiti la notte scorsa. Ora è
deciso quel che dovremo fare da questo momento: difenderci meglio che
possiamo e coprirci a vicenda. Se la cavalleria nemica si fosse mossa
all'inizio solo contro di voi, avremmo dovuto aiutarvi noi e quelli che con
noi non tradiscono la Grecia, i Tegeati; ma si è lanciata tutta contro
di noi e quindi è giusto che siate voi a soccorrere la parte in
maggiore difficoltà. Se tuttavia vi è capitato qualcosa che vi
rende impossibile aiutarci, mandateci almeno, per favore, gli arcieri.
Sappiamo che nella presente guerra siete i più impegnati: e
perciò presterete orecchio alla nostra richiesta". 61)Ricevuto questo messaggio, gli Ateniesi partirono per
soccorrerli e garantire loro il massimo appoggio. E già erano in
marcia quando furono assaliti dai Greci che stavano col re ed erano schierati
di fronte a loro; sicché, molestati dagli attacchi, non potevano più
accorrere in aiuto degli Spartani. E così Spartani e Tegeati, che
erano rispettivamente cinquantamila, compresa la fanteria leggera, e tremila
(i Tegeati non si separavano un solo momento dagli Spartani), rimasti soli,
provvidero ai sacrifici intendendo scontrarsi con Mardonio e l'esercito che
avevano davanti. Ma gli auspici non risultarono favorevoli e parecchi di loro
nel frattempo caddero e molti di più venivano feriti: i Persiani,
infatti, avendo serrato compatti gli scudi, scagliavano nugoli di frecce,
senza risparmio; tanto che, visti gli Spartiati in difficoltà e i
sacrifici che non riuscivano, Pausania si voltò verso l'Eraion dei
Plateesi e invocò la dea pregandola di non frustrare le loro attese. 62) Ancora stava invocando la dea, quando per primi, davanti
a tutti, i Tegeati scattarono contro i barbari; e subito dopo la preghiera di
Pausania finalmente agli Spartani riuscirono propizi i sacrifici che stavano compiendo.
Un attimo dopo correvano anch'essi contro i Persiani, e i Persiani li
affrontarono dopo aver deposto gli archi. Il primo scontro si ebbe intorno
alla barriera di scudi. Quando essa cadde, si accese una mischia terribile
ormai proprio accanto al tempio di Demetra, e durò a lungo, finché
vennero al corpo a corpo; i barbari, infatti, afferravano le lance e le
spezzavano. Per tenacia e vigore i Persiani non erano inferiori, ma non
avevano armatura pesante e inoltre non erano pari agli avversari per addestramento
specifico e per tecnica di combattimento. Si gettavano allo sbaraglio, da
soli, a dieci per volta, in gruppi più o meno numerosi, piombavano
sugli Spartiati e ne venivano massacrati. 63) Dove si trovava personalmente Mardonio, che combatteva su
un cavallo bianco in mezzo al fior fiore dei Persiani, i mille migliori,
lì soprattutto si premeva sugli avversari; finché ci fu Mardonio, essi
tennero duro e nel difendersi abbattevano molti Spartani; ma quando Mardonio
perse la vita e caddero gli uomini attorno a lui, che erano i più
forti, allora anche gli altri volsero le spalle e cedettero agli Spartani.
Moltissimo li danneggiava l'equipaggiamento, privo di armi pesanti: si
battevano armati alla leggera contro degli opliti! 64) Quel giorno, conforme ai vaticini dell'oracolo, si
compì per gli Spartani la vendetta su Mardonio per l'uccisione di
Leonida, quel giorno Pausania figlio di Cleombroto, figlio di Anassandride,
riportò la vittoria più bella che noi conosciamo. I suoi antenati
li ho già menzionati nel discendere fino a Leonida: sono gli stessi.
Mardonio cadde ucciso da Arimnesto, uno Spartano di valore, che morì
in tempi successivi alle guerre mede in un attacco con trecento uomini a
Steniclero durante una guerra contro tutti i Messeni, e con lui caddero anche
i trecento. 65)A Platea i Persiani, quando furono messi in rotta dagli
Spartani, fuggirono in totale disordine verso il loro accampamento e verso il
fortilizio di legno che si erano costruiti nel territorio di Tebe. Una cosa
mi sorprende: nessuno dei Persiani che combatterono presso il sacro bosco di
Demetra risulta essere entrato all'interno dell'area del santuario né esservi
morto; i più caddero nei dintorni del tempio in terreno non
consacrato. La mia opinione, se è il caso di avere opinioni sulle cose
divine, è che sia stata proprio la dea a non ammetterveli dentro,
perché avevano incendiato il suo santuario di Eleusi. Tale fu dunque l'esito
di questa battaglia. 66) Artabazo figlio di Farnace fin dall'inizio non
condivideva l'idea del re di lasciare Mardonio in Grecia; e dopo, malgrado le
sue insistenze per evitare lo scontro, non ottenne nulla. Ed ecco come si
comportò lui personalmente, insoddisfatto delle iniziative di
Mardonio. Aveva ai suoi ordini una schiera non esigua, quasi quarantamila
uomini: quando scoppiò la battaglia, consapevole della piega che
avrebbero preso gli avvenimenti, si mise alla testa dei suoi uomini in
formazione di combattimento, dopo aver dato ordine a tutti di dirigersi
dovunque li conducesse, con la stessa rapidità che avessero scorta in
lui. Impartite queste disposizioni, guidò dunque le sue truppe come
per affrontare i nemici; precedendole in marcia, vide che i Persiani stavano
già fuggendo. Allora non fece più avanzare i suoi uomini nello
stesso ordine, ma corse via in fuga, più velocemente possibile, non
verso la cinta di legno né verso le mura di Tebe, bensì verso la
Focide, con l'intenzione di raggiungere l'Ellesponto al più presto. 67) Essi dunque piegarono in quella direzione. Mentre gli
altri Greci schierati col re si comportavano di proposito da vili, i Beoti
lottarono a lungo contro gli Ateniesi. In effetti i Tebani filomedi si
impegnarono non poco nella battaglia, senza alcuna codardia, tanto che
trecento di loro, i più illustri e più coraggiosi, caddero sul
posto uccisi dagli Ateniesi. Quando anch'essi voltarono le spalle, puntarono,
ripiegando, verso Tebe ma per una strada diversa rispetto ai Persiani e a
tutto il resto dell'armata, che fuggì senza aver combattuto con
nessuno e senza aver compiuto nulla di rilevante. 68) Per me è chiaro che tutta la forza dei barbari
stava nei Persiani, se anche allora costoro si dileguarono prima ancora di
scontrarsi coi nemici, solo perché vedevano ritirarsi i Persiani. Insomma,
scapparono tutti tranne la cavalleria, e in particolare la cavalleria
beotica; questa si rese assai utile ai fuggitivi rimanendo sempre in
prossimità dei nemici e tenendo lontano dai compagni in rotta i Greci. 69) I quali, ormai vincitori, inseguivano gli uomini di
Serse, braccandoli e facendone strage. Nel bel mezzo di questo frangente
giunse la notizia ai Greci fermi presso l'Eraion e rimasti estranei alla
battaglia che la lotta si era accesa e che stavano vincendo le truppe di
Pausania; allora, udito ciò, partirono, senza essersi disposti in ordine
di battaglia: quelli di Corinto fra il declivio e le colline lungo la strada
che porta dritta al tempio di Demetra, quelli di Megara e di Fliasa
attraverso la pianura per la via più liscia. Quando i Megaresi e i
Fliasi furono vicini ai nemici, i cavalieri tebani, comandati da Asopodoro
figlio di Timandro, vedendoli avanzare caoticamente, spinsero i cavalli
contro di loro. Al primo urto ne abbatterono seicento, gli altri li
travolsero via e li inseguirono verso il Citerone. 70) Questi dunque caddero senza gloria alcuna. I Persiani e
tutti gli altri, corsi a rifugiarsi dietro il fortilizio di legno riuscirono
ad arrampicarsi sugli spalti prima dell'arrivo degli Spartani; una volta
saliti, rinforzarono meglio che potevano lo steccato. Quando sopraggiunsero
gli Spartani, si accese una lotta piuttosto accanita intorno al muro. In
realtà finché non arrivarono gli Ateniesi i barbari si difesero bene
ed ebbero nettamente la meglio sugli Spartani, che non erano pratici di
questo genere di lotta. Ma quando arrivarono gli Ateniesi, allora la
battaglia per la cinta si fece aspra e durò a lungo. Infine, grazie al
loro valore e alla loro tenacia, gli Ateniesi misero il piede sul baluardo e
aprirono una breccia, attraverso la quale i Greci si riversarono dentro.
Nella cinta irruppero per primi i Tegeati, e furono loro a conquistare la
tenda di Mardonio, a impadronirsi di quel che vi era dentro e in particolare
della greppia per cavalli che è tutta di bronzo e merita di essere
vista. I Tegeati consacrarono poi questa greppia di Mardonio nel tempio di
Atena Alea, mentre tutto il resto su cui misero le mani lo ammassarono nel
bottino comune dei Greci. Una volta caduto lo steccato, i barbari non
serrarono più le file: nessuno di loro oppose più resistenza,
angosciati com'erano, pieni di terrore, bloccati in poco spazio, in molte
decine di migliaia. Ai Greci fu facile massacrarli, al punto che su
trecentomila soldati, levando i quarantamila che Artabazo aveva portato con
sé in ritirata, dei restanti non sopravvissero neppure in tremila.
Complessivamente, invece, nella battaglia caddero novantuno Lacedemoni di
Sparta, sedici Tegeati, cinquantadue Ateniesi. 71) Si distinsero, fra i barbari, la fanteria persiana, i
cavalieri Saci, e, individualmente, si dice, Mardonio. Tra i Greci, con tutto
che sia Tegeati sia Ateniesi si siano comportati benissimo, la palma del
valore spetta agli Spartani. Non ho altro elemento per dimostrarlo, giacché
tutti vinsero nel loro settore, se non che gli Spartani dovettero scontrarsi
contro la parte più forte e la sgominarono. Largamente il migliore, a
nostro parere, fu Aristodemo, quello su cui gravavano vergogna e disprezzo
per essere l'unico dei trecento scampato alle Termopili. Dopo di lui si
segnalarono Posidonio, Filocione e Amonfareto, Spartiati. Eppure in un
pubblico dibattito su chi di loro avesse meritato di più in campo, gli
Spartiati presenti ai fatti espressero il parere che Aristodemo aveva
compiuto grandi gesta lottando e uscendo dallo schieramento nel palese
desiderio di morire a causa dell'accusa che pesava su di lui. Invece
Posidonio si era comportato da eroe pur non volendo morire; ecco perché
andava giudicato il migliore. Si obietterà: dicevano così anche
per invidia; fatto sta che tutti i caduti di quella battaglia da me
ricordati, tranne Aristodemo, ricevettero onori; Aristodemo no, non ebbe
onori perché voleva morire per la ragione che ho detto. 72) Questi, dunque, furono i più celebrati eroi di
Platea. Callicrate, in realtà, perì fuori della battaglia;
nell'esercito era entrato come l'uomo più bello dei Greci di allora,
non solo fra gli Spartani ma anche fra tutti gli Elleni. Mentre Pausania
provvedeva ai sacrifici, Callicrate, fermo al suo posto, fu colpito al fianco
da una freccia. E mentre gli altri combattevano, lui, portato via, lottava
con la morte e diceva ad Arimnesto, un Plateese, che non si rammaricava di
morire per la Grecia, ma di non aver fatto uso delle armi, di non aver
compiuto - e lo aveva tanto sperato! - nessun gesto degno di lui. 73) Fra gli Ateniesi si distinse, a quanto si racconta,
Sofane figlio di Eutichide, del demo di Decelea, di quei Decelei già
autori di una impresa preziosa per l'eternità, a dire degli stessi
Ateniesi. Anticamente infatti, quando i Tindaridi per riprendersi Elena
invasero il territorio dell'Attica con un ingente esercito e mettevano a
soqquadro i demi non sapendo dove fosse riparata Elena, si narra che allora i
Decelei, altri sostengono Decelo in persona, mal tollerando la tracontanza di
Teseo e timoroso per la sorte dell'intero paese degli Ateniesi, rivelò
ogni cosa ai Tindaridi e li guidò contro Afidna, che poi Titaco, uno
del posto, mise a tradimento nelle mani dei Tindaridi. Dall'epoca di questa
vicenda immunità e proedria sono garantite in Sparta agli abitanti di
Decelea e tale è la regola ancora oggi, tanto che persino nel corso
della guerra scoppiata molti anni più tardi fra Ateniesi e
Peloponnesiaci, mentre gli Spartani devastavano il resto dell'Attica, Decelea
non la toccarono. 74) Su Sofane, appartenente a questo demo e risultato allora
il più valoroso fra gli Ateniesi, circolano due diverse versioni
leggendarie. La prima è che portava un'ancora di ferro legata alla
cintura della corazza con una catena di bronzo, e tutte le volte che arrivava
a contatto dei nemici, la gettava a terra, perché i nemici piombando su di
lui non potessero smuoverlo da dove era schierato. Quando poi i suoi
antagonisti si volgevano in fuga, era calcolato che si caricasse l'ancora e
li inseguisse così. Questa è la prima versione; nell'altra, che
contraddice la precedente, portava un'ancora come insegna sul suo scudo
sempre in movimento e mai fermo, e non un'ancora di ferro fissata alla
corazza. 75) C'è un'ulteriore magnifica impresa compiuta da
Sofane, la volta che gli Ateniesi assediavano l'isola di Egina e lui
sfidò a duello e uccise l'Argivo Euribate, un vincitore nel
pentathlon. Anni dopo a Sofane, uomo di provato valore, toccò di
morire mentre comandava gli Ateniesi assieme a Leagro figlio di Glaucone,
ucciso dagli Edoni a Dato, in una battaglia per il possesso delle miniere
d'oro. 76) Non appena i Greci ebbero sgominato i barbari a Platea,
si avvicinò a loro una fuggiasca; appresa la disfatta persiana e la
vittoria dei Greci, essa, che era una concubina del Persiano Farandate figlio
di Teaspi, ornatasi d'oro a profusione, lei e le sue ancelle, e con la veste
più elegante di cui disponeva scese dal suo carro e si avvicinò
agli Spartani, ancora impegnati nel massacro; e vedendo che a dirigere tutte
quelle operazioni era Pausania, di cui già conosceva nome e patria per
averli sentiti ripetere più volte, lo individuò e stringendogli
le ginocchia disse: "Re di Sparta, sono tua supplice: non fare di me una
schiava del bottino; tu già mi hai beneficato sterminando questa gente
che non rispetta né i dèmoni né gli dèi. Io sono originaria di
Cos, figlia di Egetoride e nipote di Antagora. Il Persiano mi aveva perché mi
portò via da Cos con la forza". Pausania le rispose: "Fatti
coraggio, donna, perché sei una supplice e tanto più se dici la verità
e sei figlia di Egetoride di Cos, l'ospite a me più strettamente
legato fra tutti gli abitanti di quel paese". Disse così e
l'affidò per il momento agli efori lì presenti; più
tardi la fece accompagnare a Egina, dove lei stessa desiderava recarsi. 77) Subito dopo la partenza della donna, giunsero i
Mantinei, a cose ormai compiute: si resero conto di essere arrivati in
ritardo per la battaglia, se ne dolsero a gran voce e si dichiararono
meritevoli di autopunirsi. Saputo che i Medi di Artabazo erano in fuga,
volevano inseguirli fino alla Tessaglia; ma gli Spartani non permisero
l'inseguimento dei fuggiaschi. I Mantinei, rientrati in patria, cacciarono
dal paese i comandanti dell'esercito. Dopo i Mantinei, giunsero gli Elei, i
quali, esattamente come i Mantinei, se ne andarono dopo molte espressioni di
rammarico; anch'essi poi, tornati a casa, esiliarono i propri comandanti. E
questo è tutto su Mantinei ed Elei. 78) A Platea, nel campo degli Egineti c'era Lampone figlio
di Pitea, uno dei personaggi più illustri di Egina; egli se ne venne
da Pausania con un discorso più che empio; si avvicinò a lui
tutto zelante e gli disse: "Figlio di Cleombroto, hai compiuto
un'impresa straordinariamente grande e bella; a te il dio ha concesso di
salvare la Grecia e di procurarti la gloria più alta che si conosca
sin qui fra i Greci. E allora completa le tue gesta, perché una fama ancora
maggiore ti circondi e perché in futuro qualunque barbaro si guardi bene
dall'intraprendere folli imprese contro i Greci. Quando Leonida cadde alle
Termopili, Mardonio e Serse gli tagliarono la testa e la infissero in cima a
una picca; se tu gli restituirai l'offesa, sarai lodato intanto da tutti gli
Spartiati e poi anche dagli altri Greci: perché impalando Mardonio
vendicherai tuo zio Leonida". 79) Lampone diceva questo, convinto di fargli piacere,
invece Pausania replicò: "Ospite di Egina, apprezzo la tua
premurosa attenzione, ma non hai detto una cosa intelligente. Prima hai
esaltato me, la mia patria, la mia opera e poi ci hai tratto giù nel
nulla, proponendomi di infierire su un cadavere e sostenendo che, se lo
facessi, acquisterei più fama. Sono azioni degne dei barbari, non
certo dei Greci! E anche ai barbari le rimproveriamo. Mi auguro di non
piacere mai, per un gesto del genere, agli Egineti e a chi gode di simili
nefandezze; a me basta soddisfare gli Spartiati, agendo e anche parlando con
religiosa pietà. Quanto a Leonida, che mi inviti a vendicare, io
affermo che è stato vendicato ampiamente: lui e gli altri caduti alle
Termopili ricevono l'omaggio di innumerevoli vite nemiche. Tu non ti
avvicinare più a me con simili discorsi, i tuoi consigli tienteli per
te; e ringrazia se te ne vai senza danni". 80) E quello, udita la risposta, si allontanò.
Pausania ordinò con un bando che nessuno toccasse il bottino e comandò
agli iloti di raccogliere gli oggetti preziosi. Gli iloti, sparpagliandosi
per l'accampamento vi trovarono tende decorate con oro e argento, letti
rivestiti d'oro e d'argento, crateri, calici e altre coppe d'oro. Sui carri
trovarono sacchi che si rivelarono pieni di lebeti d'oro e d'argento. I
cadaveri a terra li spogliarono dei braccialetti, delle collane e delle corte
spade che erano d'oro; nessuno si curò delle vesti ricamate. In quella
occasione gli iloti sottrassero molti oggetti e li vendettero agli Egineti,
ma molti anche ne esibirono, quanti non era possibile nascondere; proprio da
lì ebbero origine le grandi fortune degli Egineti, i quali comprarono
dagli iloti l'oro come se fosse bronzo. 81) Ammassate le ricchezze, ne tolsero la decima per il dio
di Delfi: gli fu così dedicato il tripode d'oro che sta sul serpente
di bronzo a tre teste vicino all'altare. Prelevarono la decima anche per il
dio di Olimpia, ricavandone uno Zeus di bronzo alto dieci cubiti, e per il
dio dell'Istmo; grazie ad essa fu eretto un Posidone di bronzo di sette
cubiti. Fatte queste detrazioni, si spartirono il resto, le concubine dei
Persiani, l'oro, l'argento e gli altri oggetti preziosi, il bestiame,
prendendo ciascuno secondo i meriti. Nessuno dice quanto fu donato ai maggiori
eroi di Platea, ma credo che anche essi abbiano ricevuto la loro parte. A
Pausania fu riservato e dato dieci di tutto: dieci donne, cavalli, talenti,
cammelli e così anche per il resto. E accadde, si narra, anche questo. 82) Nel fuggire dalla Grecia Serse aveva lasciato la propria
tenda a Mardonio. Pausania dunque, vedendo la tenda e gli arredi di Mardonio,
l'oro, l'argento e le splendide cortine ricamate, ordinò ai fornai e
ai cuochi di preparare un pasto come per Mardonio. Gli incaricati obbedirono
e allora Pausania, scorgendo letti d'oro e d'argento con preziose
imbottiture, tavolini d'oro e d'argento, tutto uno sfarzoso apparato da
banchetto, sbalordito dal lusso dispiegato davanti ai suoi occhi,
ordinò, per divertimento, ai suoi servitori di allestire un pasto alla
spartana. Il pranzo fu preparato e, poiché grande era la differenza, Pausania
scoppiò a ridere; e mandò a chiamare gli strateghi dei Greci ai
quali, quando furono lì, disse indicando le due tavole imbandite:
"Greci, vi ho convocato per questa ragione: volevo mostrarvi
l'imbecillità del Medo, che, disponendo di un simile tenore di vita,
si è mosso contro di noi, che ne abbiamo uno così miserabile,
per portarcelo via!". Questo Pausania avrebbe detto agli strateghi dei
Greci. 83) In epoca successiva a tali avvenimenti anche parecchi
Plateesi rinvennero cofani pieni d'oro e d'argento e di altri preziosi. E
ancor più tardi ecco cos'altro si vide. Quando ormai gli scheletri
avevano perduto le carni, una volta che, appunto, i Plateesi radunavano le
ossa in un luogo solo, fu trovata una scatola cranica priva di suture,
formata di una unica calotta ossea, e venne alla luce anche una mascella che
nella mandibola superiore aveva denti di un unico pezzo, anteriori e
posteriori formati di un unico osso; e affiorò lo scheletro di un uomo
alto cinque cubiti. 84) Il giorno dopo la battaglia fu fatto sparire il cadavere
di Mardonio; da chi non saprei dirlo con certezza, ma già di molte
persone, e di diversa provenienza, ho sentito raccontare che avrebbero seppellito
Mardonio; e so che molti per questa ragione hanno avuto ricchi doni da
Artonte, figlio di Mardonio. Chi di loro sia stato a trafugare e a seppellire
il corpo di Mardonio non riesco ad appurarlo con certezza. Anche su
Dionisofane di Efeso corre voce che abbia sepolto Mardonio. Così
insomma Mardonio ebbe sepoltura. 85) I Greci, dopo essersi spartito il bottino a Platea,
onorarono i propri morti ciascuno per conto proprio. Gli Spartani allestirono
tre tombe; in una deposero gli ireni, fra i quali c'erano anche Posidonio,
Amonfareto, Filocione e Callicrate. Se in una delle tombe c'erano gli ireni,
nella seconda c'erano gli altri Spartiati e nella terza gli iloti. Gli
Spartani si regolarono così, i Tegeati invece provvidero per conto
loro a inumare tutti assieme i propri morti, e lo stesso fecero gli Ateniesi,
nonché i Megaresi e i Fliasi per quelli sterminati dalla cavalleria. Le fosse
di tutti costoro furono piene. Quanto alle tombe degli altri Greci ugualmente
visibili a Platea, ho saputo che essi, vergognandosi per l'assenza dalla
battaglia, eressero tumuli vuoti per i posteri; in effetti c'è
laggiù un sepolcro che apparterrebbe agli Egineti, costruito, mi
dicono, dieci anni dopo gli avvenimenti dal cittadino di Platea Cleade figlio
di Autodico, prosseno degli Egineti, su loro richiesta. 86) Appena seppelliti i morti a Platea, i Greci tennero
consiglio e decisero di muovere contro Tebe e di reclamare la consegna dei
Tebani schieratisi coi Medi, a cominciare da Timagenida e da Attagino, che
erano tra i capi più in vista. Se non lo facevano, essi non si
sarebbero ritirati prima di aver distrutto la città. Deciso questo,
allora, dieci giorni esatti dopo la battaglia arrivarono a Tebe e posero
l'assedio, intimando la consegna degli uomini. Poiché i Tebani si rifiutavano
di cederli, devastavano la loro campagna e attaccavano le mura. 87) Non smettevano un istante di provocare danni; al
ventesimo giorno Timagenida disse ai Tebani: "Tebani, visto che i Greci
hanno deciso così, di non togliere l'assedio prima o di aver
conquistato Tebe o che voi ci rimettiate nelle loro mani, ebbene, che la
terra beotica non abbia più a soffrire a causa nostra. Se richiedono
noi per pretesto, ma in realtà vogliono soldi, versiamogli denaro
dalle casse comuni, giacché non ci siamo schierati solo noi coi Medi, ma
tutti assieme; se invece ci assediano perché intendono avere noi veramente,
allora ci consegneremo per un pubblico confronto". Il suo discorso
sembrò buono e opportuno, e subito i Tebani per mezzo di un araldo inviato
a Pausania fecero sapere di essere disposti a consegnare gli uomini. 88) Appena fu raggiunto l'accordo a queste condizioni,
Attagino scappò dalla città; i suoi figli furono trascinati
davanti a Pausania che li prosciolse da ogni accusa, dichiarando che dei
bambini non erano corresponsabili della connivenza col Persiano. Quanto agli
altri uomini consegnati dai Tebani, loro credevano di affrontare un pubblico
dibattimento ed erano convinti di cavarsela a suon di denaro; Pausania
invece, quando li ebbe in mano sua, sospettando proprio queste loro speranze,
congedò l'intero esercito degli alleati, trasferì gli imputati
a Corinto e li fece giustiziare. Tanto accadde a Platea e ai Tebani. 89) Artabazo figlio di Farnace, in fuga da Platea, era ormai
lontano. Quando arrivò in Tessaglia, lo invitarono a un pranzo
d'ospitalità e gli chiedevano notizie del resto dell'armata, nulla
sapendo dei fatti di Platea. Artabazo capì che, se accettava di
raccontare tutta la verità sulle battaglie, lui e il suo esercito
rischiavano di fare una brutta fine; pensava che chiunque, venendo a
conoscere i fatti, li avrebbe aggrediti; così ragionando, ai Focesi
non rivelò nulla e ai Tessali disse: "Tessali, lo vedete: mi
precipito verso la Tracia per la strada più breve, con urgenza,
distaccato dall'esercito assieme a questi uomini per un affare importante.
Sulle mie tracce si sta muovendo Mardonio in persona con la sua armata e
dovete aspettarvelo qui. Ospitatelo e mostratevi bene intenzionati. Se lo
farete, un giorno non ve ne pentirete". Detto ciò, rapidamente
condusse il suo esercito attraverso la Tessaglia e la Macedonia, dritto verso
la Tracia, con autentica fretta e tagliando verso l'interno. E giunse a
Bisanzio, dopo aver perso parecchi dei suoi, fatti a pezzi dai Traci lungo il
percorso e stremati dalla fame e dalla fatica. Da Bisanzio passò lo
stretto con delle navi. Egli, dunque, tornò così in Asia. 90) Nello stesso giorno della disfatta di Platea, venne a
cadere anche la battaglia di Micale, in Ionia. Infatti, mentre i Greci,
venuti con la flotta agli ordini dello Spartano Leotichida, stazionavano a
Delo, giunsero presso di loro dei messaggeri provenienti da Samo, Lampone
figlio di Trasicle, Atenagora figlio di Archestratide ed Egesistrato figlio
di Aristagora, inviati dai Sami all'insaputa dei Persiani e del tiranno
Teomestore figlio di Androdamante, a suo tempo insediato tiranno di Samo dai
Persiani. Quando furono davanti agli strateghi, Egesistrato disse molte cose
e di vario genere: che gli Ioni, al solo vederli, si sarebbero ribellati ai
Persiani, che i barbari non avrebbero retto; che se poi avessero voluto
resistere, non c'era preda da trovarsi altrettanto sostanziosa. In nome degli
dèi comuni li esortava a salvare dei Greci dalla schiavitù, a
respingere il barbaro. Sosteneva che questo per loro era un'inezia, perché le
navi dei barbari tenevano male il mare e in battaglia non reggevano il
confronto con quelle greche. Se poi gli strateghi sospettavano che li si
volesse attirare in una trappola, essi erano disposti a farsi condurre come
ostaggi sulle loro navi. 91) Poiché l'ospite di Samo molto insisteva con le sue
implorazioni, Leotichida, vuoi che volesse saperlo per trarne un presagio,
vuoi per ispirazione divina, gli chiese: "Ospite di Samo, come ti
chiami?". E quello rispose: "Egesistrato". Allora Leotichida,
troncando qualunque ulteriore discorso Egesistrato si accingesse a fare,
dichiarò: "Accetto il presagio del tuo nome, ospite di Samo. E tu
vedi di partire assieme a questi che sono qui con te dopo averci data
garanzia che i Sami si impegneranno a fondo in questa alleanza". 92) Così disse e aggiunse alle parole i fatti: i Sami
giurarono subito fedeltà e alleanza coi Greci. Quindi gli altri
ambasciatori se ne andarono; ma Leotichida, considerando un presagio il suo
nome, invitò Egesistrato a seguirlo nella flotta. I Greci, dopo
essersene astenuti per quel giorno, fecero sacrifici augurali il successivo,
servendosi come indovino di Deifono, figlio di Evenio, di Apollonia -
Apollonia sul Golfo Ionico – 93) Al cui padre Evenio era accaduto il fatto seguente. In
questa città di Apollonia ci sono greggi sacre al Sole; di giorno
pascolano lungo un fiume, che scorre giù dal monte Lacmone attraverso
la regione di Apollonia e sfocia in mare presso il porto di Orico, di notte,
invece, sono custodite, un anno per ciascuno, da cittadini scelti fra i
più insigni per ricchezza e nascita. In effetti gli Apolloniati
tengono in gran conto queste greggi in seguito a un vaticinio; esse trovano
ricovero, di notte, in una grotta fuori città. Là appunto, una
volta, le sorvegliava, prescelto per tale compito, il nostro Evenio. Ma a un
certo punto, mentre era di guardia si addormentò, dei lupi entrarono
nella grotta e uccisero una sessantina di animali. Lui, quando se ne accorse,
se ne stette zitto e non lo disse a nessuno, intenzionato a comprarne degli
altri e a sostituirli. Ma non sfuggì agli Apolloniati quanto era
accaduto; come lo seppero, trascinarono Evenio in tribunale e lo condannarono
a essere privato della vista per essersi addormentato mentre era di guardia.
Dopo l'accecamento di Evenio, subito dopo, gli animali non partorivano
più e la terra, parimenti, non produceva più frutti. A Dodona e
a Delfi, quando interrogarono i profeti sulla causa del malanno in atto, il
responso fu che avevano ingiustamente privato della vista Evenio, il
guardiano delle sacre greggi: erano stati proprio gli dèi a mandare i
lupi e ora non avrebbero smesso di vendicare Evenio, finché essi non avessero
scontata la pena scelta e ritenuta equa da Evenio stesso. Compiuta questa
riparazione, gli dèi avrebbero fatto a Evenio un dono tale che molte
persone lo avrebbero considerato felice per esso. 94) Tali furono i responsi. Gli Apolloniati li tennero
segreti e affidarono ad alcuni cittadini il compito di mandarli a buon fine. E
agirono così: una volta che Evenio stava seduto su una seggiola,
vennero ad accomodarsi accanto a lui e parlarono di varie cose, finché
arrivarono a condolersi della sua disgrazia. Guidando il discorso in questa
direzione gli chiesero quale riparazione avrebbe chiesto se gli Apolloniati
si inducevano a rimediare al male fatto. E lui, che nulla aveva udito
dell'oracolo, fece la sua scelta, indicò le condizioni: dovevano
regalargli terreni - e nominò i due cittadini che sapeva possedere i
due lotti migliori di Apollonia - e inoltre una casa, la più bella che
conosceva in città; insomma, una volta entrato in possesso di questi
beni, da quel momento la sua collera sarebbe cessata e questa soddisfazione
sarebbe stata sufficiente. Così parlò; e gli Apolloniati che
gli erano seduti accanto replicarono: "Evenio, questa riparazione, gli
Apolloniati te la concedono, per l'accecamento, come vogliono gli
oracoli". Lui per questo, quando gli ebbero spiegata tutta la faccenda,
si rammaricò, sentendosi ingannato. Ma quelli comprarono i beni dai
rispettivi proprietari e glieli donarono. Dopodiché, subito, Evenio ottenne
una naturale capacità profetica, tale da diventarne persino famoso. 95) Figlio di questo Evenio, Deifono, portato dai Corinzi,
era l'indovino dell'esercito. Però ho pure sentito dire che Deifono
assumeva incarichi qua e là per la Grecia, usurpando il nome di
Evenio, senza esserne il figlio. 96) I Greci, quando i sacrifici diedero esito favorevole,
salparono da Delo in direzione di Samo. Una volta giunti di fronte a Calami,
in Samo, ormeggiarono all'altezza del santuario di Era che vi sorge, e fecero
i preparativi per la battaglia navale. Ma i Persiani, informati del loro
approssimarsi, presero a loro volta il largo verso il continente con le navi
rimaste; quelle fenicie le avevano già congedate. In effetti, pensando
di non essere altrettanto forti, avevano deciso in consiglio di non
combattere sul mare. Si ritiravano dunque verso il continente per trovarsi
sotto la protezione della loro fanteria, di stanza a Micale, la quale,
lasciata lì dal resto dell'esercito per ordine di Serse, controllava
la Ionia; erano sessantamila uomini agli ordini di Tigrane, che si segnalava
fra i Persiani per prestanza e statura. I comandanti della flotta decisero
dunque di mettersi sotto la protezione di questo contingente, di tirare in
secco le navi e di costruirsi tutt'intorno un baluardo, a protezione delle
navi e come riparo per gli uomini stessi. Presa questa decisione, salparono. 97) Quando, passando di fronte al santuario delle Potnie a
Micale, furono giunti a Gesone e a Scolopenta, dove sorge un tempio di
Demetra Eleusinia, edificato da Filisto figlio di Pasicle che aveva seguito
Neleo figlio di Codro verso la fondazione di Mileto, allora trassero in secca
le navi e le circondarono con uno sbarramento di pietre e tronchi -
tagliarono alberi da frutta -, poi piantarono pali intorno al muro. Ed erano
pronti sia a sostenere l'assedio sia a vincere in battaglia. Si preparavano
in effetti in vista di entrambe le soluzioni. 98) I Greci, quando seppero che i barbari si erano involati
verso il continente, si indispettirono, con la sensazione che gli fossero
sfuggiti di mano, ed erano incerti sul da farsi, se tornare a casa o far vela
verso l'Ellesponto. Infine decisero di non fare né l'una cosa né l'altra, e
di puntare invece sul continente. Preparate dunque le scalette e quanto altro
era necessario in vista di una battaglia navale, si diressero verso il
Micale. Giunti vicini al campo nemico, poiché nessuno li affrontava
apertamente e anzi vedevano navi tratte a riva al riparo di un muro e fanti
in gran numero allineati lungo la spiaggia, allora per cominciare Leotichida,
bordeggiando il più possibile vicino alla spiaggia, per mezzo di un
araldo lanciò agli Ioni un messaggio, che diceva: "Uomini della
Ionia, quanti di voi sono a portata di voce, sentite quello che vi dico,
tanto i Persiani non capiranno nulla dei moniti che vi rivolgo. Quando
avrà luogo la battaglia, ci si ricordi prima di tutto della
libertà, e poi della parola d'ordine: Era. E questo chi ha ascoltato
lo riferisca a chi non l'ha udito". L'intenzione di tale iniziativa era
la stessa di Temistocle all'Artemisio: il messaggio, sfuggito ai Persiani,
doveva persuadere gli Ioni, oppure, riferito ai barbari, doveva indurli a non
fidarsi dei Greci. 99) Dopo l'istigazione di Leotichida, ecco la seconda mossa
dei Greci: accostarono le navi e sbarcarono sulla spiaggia. E mentre essi
ordinavano le file, i Persiani, a vedere che i Greci si preparavano per la
battaglia e avevano lanciato esortazioni agli Ioni, sospettarono che i Sami
fossero in connivenza coi Greci e li disarmarono. In effetti, quando a bordo
delle navi barbare erano arrivati dei prigionieri ateniesi, cioè
quelli rimasti in Attica e catturati dai soldati di Serse, i Sami li avevano
riscattati tutti, riforniti per il viaggio e rimandati ad Atene; e per questo
soprattutto erano visti con sospetto: avevano liberato cinquecento uomini
nemici di Serse. I Persiani ordinarono poi ai Milesi, in quanto, dicevano,
migliori conoscitori della regione, di presidiare le strade che portano alle
vette del Micale; ma lo fecero perché fossero lontani dal campo. In tal modo
i Persiani si premunivano nei confronti degli Ioni dai quali subodoravano di
doversi aspettare qualche atto ostile alla prima occasione. Dal canto loro
ammassarono gli scudi per formare un baluardo. 100) Quando tutto fu pronto, i Greci avanzarono contro i
barbari. Mentre muovevano una voce si sparse attraverso tutte le truppe, e
apparve, sulla battigia, un bastone da araldo. Corse voce che i Greci
impegnati in Beozia avevano sconfitto l'esercito di Mardonio. La presenza di
elementi soprannaturali negli avvenimenti è dimostrata da molte prove,
se anche allora, mentre la disfatta di Platea cadeva nello stesso giorno in
cui stava per aver luogo quella di Micale, fra i Greci a Micale giunse una
voce tale da sollevare molto più in alto il morale alle truppe e da
far loro rischiare la vita con maggiore entusiasmo. 101) E ci fu anche un'altra coincidenza, che un santuario di
Demetra Eleusinia sorgesse non lontano da entrambi i teatri delle battaglie.
Infatti a Platea lo scontro avvenne proprio accanto al tempio di Demetra,
come ho già detto, e a Micale stava per accadere altrettanto. La
notizia sopraggiunta della vittoria ottenuta dai Greci di Pausania era
esatta, perché la battaglia di Platea ebbe inizio al mattino, quella di
Micale nel pomeriggio. Che fossero avvenute nello stesso giorno e stesso mese
risultò chiaro poco tempo dopo dalle ricostruzioni. Prima che
arrivasse la notizia i soldati erano tesi, non tanto per se stessi quanto per
gli altri Greci: temevano che l'Ellade inciampasse malamente in Mardonio.
Quando dunque la voce li raggiunse, attaccarono con più ardore e
più svelti. I Greci e i barbari erano ansiosi di battersi: sapevano
che le isole e l'Ellesponto erano il premio in palio. 102) Gli Ateniesi e le truppe ad essi affiancate fino a
metà dello schieramento procedevano lungo la spiaggia e su terreno
pianeggiante, gli Spartani e le milizie che stavano loro accanto lungo un
canalone e su terreno accidentato. Mentre questi ultimi ancora completavano
l'aggiramento, sull'altro lato già si combatteva, eccome. I Persiani,
finché gli scudi ressero, si difesero senza avere assolutamente la peggio sul
campo; ma quando il blocco degli Ateniesi e dei loro compagni, perché
l'impresa risultasse loro e non degli Spartani, si incitarono a vicenda e si
impegnarono con maggior vigore, allora le cose cominciarono a cambiare.
Travolti gli scudi, si gettarono di slancio e tutti assieme contro i
Persiani; questi sostennero l'urto e per un bel pezzo ribatterono colpo su
colpo, infine ripiegarono verso il muro. Ateniesi, Corinzi, Sicioni e Trezeni
(così, nell'ordine, erano schierati) li inseguirono compatti e
piombarono sul fortilizio. Quando anche il muro fu preso, i barbari non si
difesero più, ma volsero tutti le spalle, tranne i Persiani. Questi a
piccoli gruppi si battevano contro i Greci che di volta in volta irrompevano
entro la cinta. Dei generali persiani due fuggirono e due caddero: Artaunte e
Itamitre, comandanti della flotta, fuggirono, Mardonte e il capo della
fanteria Tigrane caddero con le armi in pugno. 103) E ancora combattevano i Persiani, quando sopraggiunsero
gli Spartani con i loro compagni e aiutarono a compiere il resto. Sul posto
caddero anche molti Greci, fra gli altri Sicioni, per esempio, anche lo
stratego Perilao. Quanto ai Sami presenti sul campo, che militavano tra le
file dei Medi ed erano stati disarmati, appena si accorsero che subito, fin
dall'inizio, si profilava una vittoria del campo avverso, fecero quanto
potevano per aiutare i Greci. Gli altri Ioni, al vedere i Sami dare
l'esempio, si ribellarono anch'essi ai Persiani e si rovesciarono contro i
barbari. 104) Ai Milesi i Persiani avevano ordinato di sorvegliare i
passi, per loro salvezza, cioè per potersi mettere in salvo,
disponendo di guide, sulle vette del Micale, nel caso fosse accaduto quanto
poi appunto accadde. I Milesi erano stati dislocati così per tale
ragione e perché, presenti fra le truppe, non vi causassero qualche
scompiglio. Ma essi fecero l'esatto contrario di ciò che gli era stato
ordinato: guidarono i fuggitivi persiani per sentieri sbagliati che portavano
in braccio al nemico e in definitiva furono proprio loro i più
spietati nel massacro. Fu così che per la seconda volta la Ionia si
ribellò ai Persiani. 105) In questa battaglia si segnalarono fra i Greci, per
valore, gli Ateniesi e, fra gli Ateniesi, Ermolico figlio di Euteno, cultore
del pancrazio. A questo Ermolico, anni più tardi, durante una guerra
fra Atene e Caristo, toccò di morire a Cirno, nel territorio di
Caristo, e di essere sepolto al Capo Geresto. Dopo gli Ateniesi si distinsero
Corinzi, Trezeni e Sicioni. 106) Sterminata la maggior parte dei barbari, tanto dei
combattenti come anche dei fuggitivi, i Greci diedero alle fiamme le navi e
l'intera fortificazione, dopo aver provveduto a trasferire il bottino sulla
spiaggia; e trovarono alcuni depositi di preziosi. Incendiati muro e navi,
ripresero il largo. Arrivati a Samo, i Greci discussero su una evacuazione
della Ionia, quale parte della Grecia sotto il loro controllo dovessero
fissare come sede di stanziamento prima di abbandonare ai barbari la Ionia.
Appariva loro impossibile, infatti, proteggere per sempre gli Ioni, in
perenne stato di allerta; e d'altra parte, se non li proteggevano loro, non
speravano affatto che gli Ioni potessero staccarsi impunemente dai Persiani.
Per questo i capi peloponnesiaci pensavano di far sgomberare gli empori dei
popoli greci che si erano schierati coi Medi e di destinare i territori
all'insediamento degli Ioni; ma gli Ateniesi rifiutarono l'idea che si
avacuasse la Ionia e che i Peloponnesiaci decidessero su colonie ateniesi; e
visto che gli Ateniesi si opponevano vivamente, i Peloponnesiaci lasciarono
cadere la proposta. E così ammisero nell'alleanza Samo, Chio, Lesbo e
le altre isole che avevano combattuto al fianco dei Greci dopo averle
impegnate sotto giuramento a rimanere leali e a non tradire. Dopo averli
fatti giurare, salparono per andare a distruggere i ponti; credevano infatti
di trovarli ancora in piedi. Essi dunque navigavano verso l'Ellesponto. 107) Intanto i barbari fuggiti e riparati sulle vette del
Micale, che non erano molti, si portavano a Sardi. Lungo la strada Masiste
figlio di Dario, che era stato presente alla disfatta avvenuta,
insultò pesantemente il generale Artaunte, dicendogli fra l'altro che
per come aveva condotto le operazioni era peggiore di una donna, e che per i
danni arrecati alla casa del re era degno di ogni punizione. Fra i Persiani
sentirsi definire "peggiore di una donna" è l'insulto
più grave. Artaunte, dopo averne ascoltate tante, in preda all'ira
sguainò la spada contro Masiste, deciso a ucciderlo. Ma Xenagora
figlio di Prassilao, di Alicarnasso, che stava proprio dietro Artaunte, si
accorse del suo scatto: lo afferrò per la vita, lo sollevò e lo
scaraventò a terra; e nel frattempo i dorifori di Masiste fecero
scudo. Xenagora agendo così fece un favore a Masiste stesso e a Serse,
al quale salvava il fratello. E per questo gesto Xenagora ebbe dal re il
governo dell'intera Cilicia. Durante la marcia non accadde più nulla,
e giunsero a Sardi. A Sardi si trovava il re, dal giorno in cui vi era
arrivato in fuga da Atene, dopo la disfatta navale. 108) Allora, mentre se ne stava a Sardi, Serse si
invaghì della moglie di Masiste, che si trovava lì anch'essa.
Giacché, con le sue missive, non riusciva a concludere, e neppure cercava di
forzarla, per riguardo al fratello Masiste (la stessa ragione tratteneva anche
la donna, più che certa di non subire violenza), ecco che Serse,
impossibilitato a imboccare altre strade, combina per il proprio figlio Dario
il matrimonio con la figlia di quella donna e di Masiste, convinto,
così facendo, di farla sua più facilmente. Concluso l'accordo
nuziale e compiuti i preparativi d'uso, se ne partì per Susa. Ma,
quando vi fu arrivato ed ebbe introdotto in casa sua la sposa di Dario, ormai
gli si era sopita la passione per la moglie di Masiste: Serse, mutati i
sentimenti, amava la moglie di Dario, la figlia di Masiste e riuscì a
conquistarla. Questa donna si chiamava Artaunte. 109) Passò del tempo e la cosa si riseppe, come segue.
La moglie di Serse, Amestri, tessuto un grande e meraviglioso mantello
ricamato, lo donò a Serse. Lui, tutto contento, se lo mise addosso e
si recò da Artaunte. Rimasto contento anche di lei, la invitò
in cambio dei suoi favori a chiedergli ciò che volesse; qualunque cosa
indicasse l'avrebbe ottenuta. Era destino che la donna finisse male con tutta
la sua famiglia: di fronte a questa proposta essa domandò a Serse:
"Mi darai davvero quel che ti chiedo?". E lui, che si aspettava
qualunque altra richiesta, promise e giurò. E quando ebbe giurato,
lei, tranquillamente, pretese il mantello. Serse mise in atto ogni
espediente: non voleva cederlo, se non altro per timore che Amestri,
già sospettosa della tresca, in quel modo lo cogliesse in fallo; le
offrì città, oro a profusione, un esercito di cui nessun altro
avrebbe avuto il comando; l'esercito è un dono tutto persiano. Ma non
la persuase e dovette consegnarle il mantello. Artaunte, felice del dono, lo
portava e se ne pavoneggiava. 110) Amestri venne a sapere che lo aveva lei. Una volta al
corrente di ciò che accadeva, non se la prese con la donna, ma,
immaginando che la colpevole, la responsabile di tutto fosse la madre di lei,
macchinava una brutta fine per la moglie di Masiste. Attese che il proprio
marito Serse imbandisse un pranzo reale (questo banchetto si prepara una
volta all'anno, nell'anniversario della nascita del re, e si chiama, in
persiano, tyctà, in greco téleion; è l'unica circostanza in cui
il re si unge la testa e fa regali ai Persiani), attese, dicevo, questo
giorno e chiese a Serse, come presente, la moglie di Masiste. Serse
considerò grave, orribile già l'idea di consegnare la moglie di
suo fratello e per giunta una donna che non c'entrava nulla in quell'affare;
aveva capito in effetti per quale ragione Amestri la voleva sua. 111) Infine, visto che lei non recedeva, e poi vincolato
dall'usanza che impedisce di lasciare insoddisfatta una richiesta formulata
durante un banchetto reale, sia pure del tutto controvoglia,
acconsentì. E nel consegnare la donna ecco cosa fece: invitò
Amestri a regolarsi come voleva, lui dal canto suo convocò il fratello
e gli disse: "Masiste, tu sei figlio di Dario e fratello mio, e
oltretutto sei una persona di prim'ordine. Con la donna con cui ora vivi non
viverci più; in cambio io ti do una mia figlia; sposati questa; la
moglie che hai ora non mi va, lasciala perdere". Masiste, sbalordito da
quelle parole, rispose: "Signore che razza di malefico discorso mi stai
facendo? Mia moglie, da cui ho figli giovani e figlie, e una di loro tu l'hai
fatta sposare a tuo figlio, una moglie che è fatta per me, tu mi
inviti a lasciarla? E a sposare tua figlia? Mio re, mi sento molto onorato se
mi consideri degno di tua figlia, ma non farò nulla di tutto questo. E
non forzarmi chiedendomi una cosa del genere. Vedrai che per tua figlia si
troverà un altro marito, per nulla inferiore a me, e quanto a me, lasciami
vivere con mia moglie". Masiste dunque gli rispose così, e Serse,
adirato, ribatté: "L'hai voluto tu, Masiste: ora non ti posso più
dare mia figlia da sposare, né tu vivrai più oltre con tua moglie.
Così imparerai ad accettare ciò che ti si offre". Masiste,
udito questo, uscì fuori, ma prima disse: "Signore, non mi hai
ancora finito!". 112) Nel frattempo, proprio mentre Serse era a colloquio col
fratello, Amestri, chiamati i dorifori di Serse, stava torturando la moglie
di Masiste: le fece tagliare i seni e gettarli ai cani, le fece mozzare naso,
orecchie, labbra, lingua e la rimandò a casa sfigurata senza rimedio. 113) Masiste, ancora ignaro del fatto, ma fiutando nell'aria
la tempesta, si precipitò a casa di corsa. Visto lo scempio inflitto
alla moglie e consigliatosi immediatamente con i figli, si mise in viaggio
verso Battra con i propri figli e probabilmente con altri, deciso a sollevare
una rivolta nella provincia battriana e ad arrecare i maggiori danni al re. E
sarebbe anche andata così, io credo, se avesse fatto in tempo ad
arrivare fra i Battri e i Saci. Godeva molte simpatie tra loro ed era
governatore della Battriana. Ma Serse, informato delle sue intenzioni,
mandò sulle sue tracce delle truppe e lo fece uccidere lungo il
percorso, lui, i suoi figli e tutta la carovana. E questo è tutto
sull'innamoramento di Serse e sulla morte di Masiste. 114) I Greci partiti da Micale in direzione dell'Ellesponto
dapprima fecero tappa a Lecto, perché sorpresi dai venti, poi giunsero ad
Abido e trovarono spezzati i ponti che credevano di trovare ancora in piedi;
ed era per questi soprattutto che si erano spinti fino all'Ellesponto.
Leotichida e i suoi Peloponnesiaci decisero allora di tornare in Grecia,
Santippo e gli Ateniesi, invece, di rimanere lì e di tentare l'attacco
al Chersoneso. I primi dunque partirono, gli Ateniesi invece passarono da
Abido al Chersoneso e posero l'assedio a Sesto. 115) A Sesto, considerata la fortezza più solida della
regione, alla notizia dell'arrivo dei Greci all'Ellesponto, erano convenuti
dalle altre città vicine; fra gli altri c'era, giunto dalla
città di Cardia, il Persiano Eobazo, che lì aveva portato le
funi dei ponti. Abitavano la città gli Eoli indigeni, ma vi erano
anche Persiani e un folto gruppo di altri alleati. 116) Signore della provincia era un governatore di Serse, il
Persiano Artaucte, uomo terribile, un criminale, che aveva ingannato persino
il re quando marciava verso Atene, rapinando da Eleunte le ricchezze del
tempio di Protesilao, figlio di Ificlo. Nel Chersoneso, a Eleunte, c'è
una tomba di Protesilao, e intorno un'area sacra dove c'erano molto denaro,
coppe d'oro e d'argento, bronzo, vesti e altre offerte votive, che Artaucte
depredò strappandone il consenso al re. Ingannò Serse perché
gli disse: "Signore, c'è qui la casa di un Greco che combatté
contro la tua terra, trovò la sua punizione e morì. Fammi dono
della sua casa, perché la gente impari a non muovere più guerra al tuo
paese". Con queste parole doveva facilmente persuadere Serse a donargli
la casa dell'uomo; Serse non sospettava nulla di quanto Artaucte aveva in
mente. Affermava che Protesilao era in guerra contro il paese del re, in
questo senso: i Persiani partono dal presupposto che tutta l'Asia sia
proprietà loro e di chi volta per volta sia loro re. Ricevuto il dono,
aveva trasferito le ricchezze da Eleunte a Sesto; e faceva seminare e usare
come pascolo il terreno sacro e lui stesso, ogni volta che scendeva a
Eleunte, si univa a donne nel penetrale del tempio. L'attacco degli Ateniesi
lo aveva colto di sorpresa e impreparato; si può dire che gli furono
addosso mentre non era in guardia. 117) L'assedio si prolungava e sopraggiunse l'autunno. Gli
Ateniesi erano avviliti perché si trovavano lontano dal proprio paese e
perché non riuscivano a conquistare la fortezza; e chiedevano agli strateghi
di ricondurli indietro. Ma questi si rifiutavano di farlo, prima di averla
conquistata o di essere richiamati dallo stato ateniese. Così si
adeguavano alle circostanze. 118) All'interno della cinta erano ormai giunti all'estremo,
al punto di bollire e di mangiarsi le cinghie dei letti. Quando non ebbero
più nemmeno questo, allora i Persiani, Artaucte ed Eobazo scapparono
di notte e si dileguarono, calandosi dal lato posteriore della cinta, dove più
scarsa era la presenza dei nemici. Una volta giorno, i Chersonesiti dalle
mura segnalarono l'accaduto agli Ateniesi e spalancarono le porte. La maggior
parte degli Ateniesi si lanciò all'inseguimento, gli altri occuparono
la città. 119) Eobazo, riparato in Tracia, lo catturarono i Traci
Absinti e lo sacrificarono al dio indigeno Plistoro, secondo il loro costume;
i suoi compagni li uccisero in altro modo. Artaucte e i suoi uomini, ultimi a
darsi alla fuga, intercettati poco sopra Egospotami, resistettero a lungo,
poi in parte caddero in parte furono fatti prigionieri. I Greci li
incatenarono e li condussero a Sesto, e con loro Artaucte, legato, lui e suo
figlio. 120) I Chersonesiti raccontano che a uno dei suoi custodi
accadde un fatto prodigioso mentre stava cuocendo dei pesci disseccati:
questi, posti sul fuoco, saltavano e guizzavano come pesci appena pescati.
Tutti i presenti erano allibiti, invece Artaucte, come vide il portento,
chiamò l'uomo che cucinava i pesci e gli disse: "Straniero di
Atene, non avere paura di questo prodigio; non si è verificato per te,
ma Protesilao di Eleunte vuole farmi sapere che anche da morto e imbalsamato
ha dagli dèi la forza di vendicarsi di chi lo ha oltraggiato. Ora io
desidero pagare la mia pena e offrire al dio cento talenti in cambio delle
ricchezze che ho asportato dal tempio; se sopravvivo, poi, per me e per mio
figlio verserò duecento talenti agli Ateniesi". Ma pur con queste
promesse non persuase lo stratego Santippo. I cittadini di Eleunte, in
effetti, per vendicare Protesilao, gli chiedevano di mettere a morte
Artaucte, e anche lo stratego inclinava alla stessa idea. Lo trascinarono
proprio sulla costa dove Serse aveva aggiogato lo stretto, altri dicono sulla
collina che sovrasta la città di Madito, lo inchiodarono e appesero a
una tavola; e sotto i suoi occhi gli lapidarono il figlio. 121) Fatto ciò, ritornarono in Grecia portandosi via
con tutto il resto anche le funi dei ponti, per offrirle in voto ai santuari.
E per quell'anno non accadde più altro. 122) Antenato dell'Artaucte che fu crocifisso, era Artembare,
l'autore del ragionamento che i Persiani fecero proprio e presentarono a
Ciro, e che suonava così: "Poiché Zeus concede l'egemonia ai
Persiani e il potere sugli uomini a te, Ciro, che hai abbattuto Astiage,
ebbene, giacché abbiamo poca terra, e accidentata, andiamo via di qua e
prendiamocene una migliore. Ce ne sono molte di vicine a noi, e molte anche
di più lontane; occupiamone una e saremo maggiormente ammirati per
più ragioni. È logico che i dominatori agiscano così. E
quando avremo un'occasione migliore di ora che comandiamo su molti uomini e
sull'Asia intera?". Ciro udito ciò, per nulla sorpreso dal
discorso, li autorizzò ad agire così, ma anche li
ammonì, invitandoli a prepararsi a non dominare più, ma a
essere dominati; perché da paesi molli nascono di solito uomini molli. Non
è dato vedere nella stessa terra crescere frutti strepitosi e uomini
forti in guerra. Sicché i Persiani compresero e si ritirarono, cedendo al
parere di Ciro, e preferirono essere padroni abitando una terra sterile,
piuttosto che servire altri seminando una fertile pianura. |