|
|
|
|
|
|
LETTERA ENCICLICA
FRATELLI TUTTI
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SULLA FRATERNITÀ
E L'AMICIZIA SOCIALE
1. «Fratelli tutti»,[1] scriveva
San Francesco d’Assisi per rivolgersi a tutti i fratelli e le sorelle e
proporre loro una forma di vita dal sapore di Vangelo. Tra i suoi consigli
voglio evidenziarne uno, nel quale invita a un amore che va al di là delle
barriere della geografia e dello spazio. Qui egli dichiara beato colui che ama
l’altro «quando fosse lontano da lui, quanto se fosse accanto a lui».[2] Con
queste poche e semplici parole ha spiegato l’essenziale di una fraternità
aperta, che permette di riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là
della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita.
2. Questo Santo dell’amore fraterno, della
semplicità e della gioia, che mi ha ispirato a scrivere l’Enciclica Laudato si’, nuovamente
mi motiva a dedicare questa nuova Enciclica alla fraternità e all’amicizia
sociale. Infatti San Francesco, che si sentiva fratello del sole, del mare e
del vento, sapeva di essere ancora più unito a quelli che erano della sua
stessa carne. Dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli
abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi.
Senza frontiere
3. C’è un episodio della sua vita che ci
mostra il suo cuore senza confini, capace di andare al di là delle distanze
dovute all’origine, alla nazionalità, al colore o alla religione. È la sua
visita al Sultano Malik-al-Kamil in Egitto, visita
che comportò per lui un grande sforzo a motivo della sua povertà, delle poche
risorse che possedeva, della lontananza e della differenza di lingua, cultura e
religione. Tale viaggio, in quel momento storico segnato dalle crociate,
dimostrava ancora di più la grandezza dell’amore che voleva vivere, desideroso
di abbracciare tutti. La fedeltà al suo Signore era proporzionale al suo amore
per i fratelli e le sorelle. Senza ignorare le difficoltà e i pericoli, San
Francesco andò a incontrare il Sultano col medesimo atteggiamento che esigeva
dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi «tra i
saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti
ad ogni creatura umana per amore di Dio».[3] In
quel contesto era una richiesta straordinaria. Ci colpisce come, ottocento anni
fa, Francesco raccomandasse di evitare ogni forma di aggressione o contesa e
anche di vivere un’umile e fraterna “sottomissione”, pure nei confronti di
coloro che non condividevano la loro fede.
4. Egli non faceva la guerra dialettica
imponendo dottrine, ma comunicava l’amore di Dio. Aveva compreso che «Dio è
amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,16). In questo modo è stato un padre fecondo
che ha suscitato il sogno di una società fraterna, perché «solo l’uomo che
accetta di avvicinarsi alle altre persone nel loro stesso movimento, non per
trattenerle nel proprio, ma per aiutarle a essere maggiormente sé stesse, si fa
realmente padre».[4] In
quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano
guerre sanguinose tra famiglie potenti, mentre crescevano le zone miserabili
delle periferie escluse. Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si
liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e
cercò di vivere in armonia con tutti. A lui si deve la motivazione di queste
pagine.
5. Le questioni legate alla fraternità e
all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie preoccupazioni. Negli ultimi
anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi. Ho voluto
raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli in un
contesto più ampio di riflessione. Inoltre, se nella redazione della Laudato si’ ho avuto
una fonte di ispirazione nel mio fratello Bartolomeo, il Patriarca ortodosso
che ha proposto con molta forza la cura del creato, in questo caso mi sono
sentito stimolato in modo speciale dal Grande Imam Ahmad
Al-Tayyeb, con il quale mi sono incontrato ad Abu Dhabi per
ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei
doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di
loro».[5] Non
si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di una riflessione compiuta
nel dialogo e di un impegno congiunto. Questa Enciclica raccoglie e sviluppa
grandi temi esposti in quel Documento che abbiamo firmato insieme. E qui ho
anche recepito, con il mio linguaggio, numerosi documenti e lettere che ho
ricevuto da tante persone e gruppi di tutto il mondo.
6. Le pagine che seguono non pretendono di
riassumere la dottrina sull’amore fraterno, ma si soffermano sulla sua
dimensione universale, sulla sua apertura a tutti. Consegno questa Enciclica
sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi
modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con
un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle
parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi
animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al
dialogo con tutte le persone di buona volontà.
7. Proprio mentre stavo scrivendo questa
lettera, ha fatto irruzione in maniera inattesa la pandemia del Covid-19, che
ha messo in luce le nostre false sicurezze. Al di là delle varie risposte che
hanno dato i diversi Paesi, è apparsa evidente l’incapacità di agire insieme.
Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una
frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano
tutti. Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello
che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi
e le regole già esistenti, sta negando la realtà.
8. Desidero tanto che, in questo tempo che
ci è dato di vivere, riconoscendo la dignità di ogni persona umana, possiamo
far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità. Tra tutti:
«Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella
avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato […]. C’è bisogno di
una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda
a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme! […] Da soli si rischia di
avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono
insieme».[6] Sogniamo
come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come
figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza
della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti
fratelli!
CAPITOLO PRIMO
LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO
9. Senza la pretesa di compiere un’analisi
esaustiva né di prendere in considerazione tutti gli aspetti della realtà che
viviamo, propongo soltanto di porre attenzione ad alcune tendenze del mondo
attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale.
Sogni che vanno in frantumi
10. Per decenni è sembrato che il mondo
avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso
varie forme di integrazione. Per esempio, si è sviluppato il sogno di un’Europa
unita, capace di riconoscere radici comuni e di gioire per la diversità che la
abita. Ricordiamo «la ferma convinzione dei Padri fondatori dell’Unione
europea, i quali desideravano un futuro basato sulla capacità di lavorare
insieme per superare le divisioni e per favorire la pace e la comunione fra
tutti i popoli del continente».[7] Ugualmente
ha preso forza l’aspirazione ad un’integrazione latinoamericana e si è
incominciato a fare alcuni passi. In altri Paesi e regioni vi sono stati
tentativi di pacificazione e avvicinamenti che hanno portato frutti e altri che
apparivano promettenti.
11. Ma la storia sta dando segni di un
ritorno all’indietro. Si accendono conflitti anacronistici che si ritenevano
superati, risorgono nazionalismi chiusi, esasperati, risentiti e aggressivi. In
vari Paesi un’idea dell’unità del popolo e della nazione, impregnata di diverse
ideologie, crea nuove forme di egoismo e di perdita del senso sociale
mascherate da una presunta difesa degli interessi nazionali. E questo ci
ricorda che «ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle
generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. È il cammino. Il
bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una
volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi
di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi, e goderlo come se tale
situazione ci facesse ignorare che molti nostri fratelli soffrono ancora
situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti».[8]
12. “Aprirsi al mondo” è un’espressione che
oggi è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Si riferisce
esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri o alla libertà dei poteri
economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi. I
conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati
dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura
unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché «la società sempre
più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli».[9] Siamo
più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi
individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano
piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di
spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei
più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle
regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal
modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici
transnazionali che applicano il “divide et impera”.
La fine della coscienza storica
13. Per questo stesso motivo si favorisce
anche una perdita del senso della storia che provoca ulteriore disgregazione.
Si avverte la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo”, per
cui la libertà umana pretende di costruire tutto a partire da zero. Restano in
piedi unicamente il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte
forme di individualismo senza contenuti. In questo contesto si poneva un
consiglio che ho dato ai giovani: «Se una persona vi fa una proposta e vi dice
di ignorare la storia, di non fare tesoro dell’esperienza degli anziani, di
disprezzare tutto ciò che è passato e guardare solo al futuro che lui vi offre,
non è forse questo un modo facile di attirarvi con la sua proposta per farvi
fare solo quello che lui vi dice? Quella persona ha bisogno che siate vuoti,
sradicati, diffidenti di tutto, perché possiate fidarvi solo delle sue promesse
e sottomettervi ai suoi piani. È così che funzionano le ideologie di diversi
colori, che distruggono (o de-costruiscono) tutto ciò che è diverso e in questo
modo possono dominare senza opposizioni. A tale scopo hanno bisogno di giovani
che disprezzino la storia, che rifiutino la ricchezza spirituale e umana che è
stata tramandata attraverso le generazioni, che ignorino tutto ciò che li ha
preceduti».[10]
14. Sono le nuove forme di colonizzazione
culturale. Non dimentichiamo che «i popoli che alienano la propria tradizione
e, per mania imitativa, violenza impositiva, imperdonabile negligenza o apatia,
tollerano che si strappi loro l’anima, perdono, insieme con la fisionomia spirituale,
anche la consistenza morale e, alla fine, l’indipendenza ideologica, economica
e politica».[11] Un
modo efficace di dissolvere la coscienza storica, il pensiero critico,
l’impegno per la giustizia e i percorsi di integrazione è quello di svuotare di
senso o alterare le grandi parole. Che cosa significano oggi alcune espressioni
come democrazia, libertà, giustizia, unità? Sono state manipolate e deformate
per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che
possono servire per giustificare qualsiasi azione.
Senza un progetto per tutti
15. Il modo migliore per dominare e avanzare
senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia
costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori. Oggi in molti Paesi
si utilizza il meccanismo politico di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con
varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale
scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di
loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori,
e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più
forte. La politica così non è più una sana discussione su progetti a lungo
termine per lo sviluppo di tutti e del bene comune, bensì solo ricette effimere
di marketing che trovano nella distruzione dell’altro la risorsa più efficace.
In questo gioco meschino delle squalificazioni, il dibattito viene manipolato
per mantenerlo allo stato di controversia e contrapposizione.
16. In questo scontro di interessi che ci
pone tutti contro tutti, dove vincere viene ad essere sinonimo di distruggere,
com’è possibile alzare la testa per riconoscere il vicino o mettersi accanto a
chi è caduto lungo la strada? Un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo
di tutta l’umanità oggi suona come un delirio. Aumentano le distanze tra noi, e
il cammino duro e lento verso un mondo unito e più giusto subisce un nuovo e
drastico arretramento.
17. Prendersi cura del mondo che ci circonda
e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi. Ma abbiamo bisogno di
costituirci in un “noi” che abita la Casa comune. Tale cura non interessa ai
poteri economici che hanno bisogno di entrate veloci. Spesso le voci che si
levano a difesa dell’ambiente sono messe a tacere o ridicolizzate, ammantando
di razionalità quelli che sono solo interessi particolari. In questa cultura
che stiamo producendo, vuota, protesa all’immediato e priva di un progetto
comune, «è prevedibile che, di fronte all’esaurimento di alcune risorse, si
vada creando uno scenario favorevole per nuove guerre, mascherate con nobili rivendicazioni».[12]
Lo scarto mondiale
18. Certe parti dell’umanità sembrano
sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno
di vivere senza limiti. In fondo, «le persone non sono più sentite come un
valore primario da rispettare e tutelare, specie se povere o disabili, se “non
servono ancora” – come i nascituri –, o “non servono più” – come gli anziani.
Siamo diventati insensibili ad ogni forma di spreco, a partire da quello
alimentare, che è tra i più deprecabili».[13]
19. La mancanza di figli, che provoca un
invecchiamento della popolazione, insieme all’abbandono delle persone anziane a
una dolorosa solitudine, afferma implicitamente che tutto finisce con noi, che
contano solo i nostri interessi individuali. Così, «oggetto di scarto non sono
solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani».[14] Abbiamo
visto quello che è successo agli anziani in alcuni luoghi del mondo a causa del
coronavirus. Non dovevano morire così. Ma in realtà qualcosa di simile era già
accaduto a motivo delle ondate di calore e in altre circostanze: crudelmente
scartati. Non ci rendiamo conto che isolare le persone anziane e abbandonarle a
carico di altri senza un adeguato e premuroso accompagnamento della famiglia,
mutila e impoverisce la famiglia stessa. Inoltre, finisce per privare i giovani
del necessario contatto con le loro radici e con una saggezza che la gioventù
da sola non può raggiungere.
20. Questo scarto si manifesta in molti modi,
come nell’ossessione di ridurre i costi del lavoro, senza rendersi conto delle
gravi conseguenze che ciò provoca, perché la disoccupazione che si produce ha
come effetto diretto di allargare i confini della povertà.[15] Lo
scarto, inoltre, assume forme spregevoli che credevamo superate, come il
razzismo, che si nasconde e riappare sempre di nuovo. Le espressioni di
razzismo rinnovano in noi la vergogna dimostrando che i presunti progressi
della società non sono così reali e non sono assicurati una volta per sempre.
21. Ci sono regole economiche che sono
risultate efficaci per la crescita, ma non altrettanto per lo sviluppo umano
integrale.[16] È
aumentata la ricchezza, ma senza equità, e così ciò che accade è che «nascono
nuove povertà».[17] Quando
si dice che il mondo moderno ha ridotto la povertà, lo si fa misurandola con
criteri di altre epoche non paragonabili con la realtà attuale. Infatti, in
altri tempi, per esempio, non avere accesso all’energia elettrica non era
considerato un segno di povertà e non era motivo di grave disagio. La povertà
si analizza e si intende sempre nel contesto delle possibilità reali di un
momento storico concreto.
Diritti umani non sufficientemente
universali
22. Molte volte si constata che, di fatto, i
diritti umani non sono uguali per tutti. Il rispetto di tali diritti «è
condizione preliminare per lo stesso sviluppo sociale ed economico di un Paese.
Quando la dignità dell’uomo viene rispettata e i suoi diritti vengono
riconosciuti e garantiti, fioriscono anche la creatività e l’intraprendenza e
la personalità umana può dispiegare le sue molteplici iniziative a favore del
bene comune».[18] Ma
«osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano
numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di
tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia
riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono
oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche
riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a
sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte
dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità
disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati
o violati».[19] Che
cosa dice questo riguardo all’uguaglianza di diritti fondata sulla medesima
dignità umana?
23. Analogamente, l’organizzazione delle
società in tutto il mondo è ancora lontana dal rispecchiare con chiarezza che
le donne hanno esattamente la stessa dignità e identici diritti degli uomini. A
parole si affermano certe cose, ma le decisioni e la realtà gridano un altro
messaggio. È un fatto che «doppiamente povere sono le donne che soffrono
situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso si trovano
con minori possibilità di difendere i loro diritti».[20]
24. Riconosciamo ugualmente che, «malgrado la
comunità internazionale abbia adottato numerosi accordi al fine di porre un
termine alla schiavitù in tutte le sue forme e avviato diverse strategie per
combattere questo fenomeno, ancora oggi milioni di persone – bambini, uomini e
donne di ogni età – vengono private della libertà e costrette a vivere in
condizioni assimilabili a quelle della schiavitù. […] Oggi come ieri, alla
radice della schiavitù si trova una concezione della persona umana che ammette
la possibilità di trattarla come un oggetto. […] La persona umana, creata ad
immagine e somiglianza di Dio, con la forza, l’inganno o la costrizione fisica
o psicologica viene privata della libertà, mercificata, ridotta a proprietà di
qualcuno; viene trattata come un mezzo e non come un fine». Le reti criminali
«utilizzano abilmente le moderne tecnologie informatiche per adescare giovani e
giovanissimi in ogni parte del mondo».[21] L’aberrazione
non ha limiti quando si assoggettano donne, poi forzate ad abortire. Un atto
abominevole che arriva addirittura al sequestro delle persone allo scopo di
vendere i loro organi. Tutto ciò fa sì che la tratta di persone e altre forme
di schiavitù diventino un problema mondiale, che esige di essere preso sul
serio dall’umanità nel suo insieme, perché «come le organizzazioni criminali
utilizzano reti globali per raggiungere i loro scopi, così l’azione per sconfiggere
questo fenomeno richiede uno sforzo comune e altrettanto globale da parte dei
diversi attori che compongono la società».[22]
Conflitto e paura
25. Guerre, attentati, persecuzioni per
motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana vengono
giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati
interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un
potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di
violenza vanno «moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto
da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra
mondiale a pezzi”».[23]
26. Questo non stupisce se notiamo la
mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità, perché in ogni
guerra ciò che risulta distrutto è «lo stesso progetto di fratellanza,
inscritto nella vocazione della famiglia umana», per cui «ogni situazione di
minaccia alimenta la sfiducia e il ripiegamento».[24] Così,
il nostro mondo avanza in una dicotomia senza senso, con la pretesa di
«garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata
da una mentalità di paura e sfiducia».[25]
27. Paradossalmente, ci sono paure ancestrali
che non sono state superate dal progresso tecnologico; anzi, hanno saputo
nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie. Anche oggi, dietro le mura
dell’antica città c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che
proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non
appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è “barbaro”, da cui bisogna
difendersi ad ogni costo. Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa,
così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al
punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità
inalienabile e diventano semplicemente “quelli”. Riappare «la tentazione di
fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra
per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un
muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito,
senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità».[26]
28. La solitudine, le paure e l’insicurezza
di tante persone, che si sentono abbandonate dal sistema, fanno sì che si vada
creando un terreno fertile per le mafie. Queste infatti si impongono
presentandosi come “protettrici” dei dimenticati, spesso mediante vari tipi di
aiuto, mentre perseguono i loro interessi criminali. C’è una pedagogia tipicamente
mafiosa che, con un falso spirito comunitario, crea legami di dipendenza e di
subordinazione dai quali è molto difficile liberarsi.
Globalizzazione e progresso senza una rotta
comune
29. Con il Grande Imam Ahmad
Al-Tayyeb non ignoriamo gli sviluppi positivi
avvenuti nella scienza, nella tecnologia, nella medicina, nell’industria e nel
benessere, soprattutto nei Paesi sviluppati. Ciò nonostante, «sottolineiamo
che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un
deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un
indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò
contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di
solitudine e di disperazione […]. Nascono focolai di tensione e si accumulano
armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla
delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici
miopi». Segnaliamo altresì «le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la
mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali. […] Nei confronti di
tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a
scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio
internazionale inaccettabile».[27] Davanti
a questo panorama, benché ci attraggano molti progressi, non riscontriamo una
rotta veramente umana.
30. Nel mondo attuale i sentimenti di
appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di
costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi.
Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di
una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione:
credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla
stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni,
conduce «a una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo
davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione. […]
L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri
interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma
è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì.
Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì».[28]
31. In questo mondo che corre senza una rotta
comune, si respira un’atmosfera in cui «la distanza fra l’ossessione per il
proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino
a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia ormai in corso un vero
e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme,
altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che
devono essere cercati e coltivati insieme».[29] La
tecnologia fa progressi continui, ma «come sarebbe bello se alla crescita delle
innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre
maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo
nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che
mi orbitano attorno!».[30]
Le pandemie e altri flagelli della storia
32. Una tragedia globale come la pandemia del
Covid-19 ha effettivamente suscitato per un certo tempo la consapevolezza di
essere una comunità mondiale che naviga sulla stessa barca, dove il male di uno
va a danno di tutti. Ci siamo ricordati che nessuno si salva da solo, che ci si
può salvare unicamente insieme. Per questo ho detto che «la tempesta smaschera
la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze
con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre
abitudini e priorità. […] Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli
stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria
immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta)
appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come
fratelli».[31]
33. Il mondo avanzava implacabilmente verso
un’economia che, utilizzando i progressi tecnologici, cercava di ridurre i
“costi umani”, e qualcuno pretendeva di farci credere che bastava la libertà di
mercato perché tutto si potesse considerare sicuro. Ma il colpo duro e
inaspettato di questa pandemia fuori controllo ha obbligato per forza a pensare
agli esseri umani, a tutti, più che al beneficio di alcuni. Oggi possiamo
riconoscere che «ci siamo nutriti con sogni di splendore e grandezza e abbiamo
finito per mangiare distrazione, chiusura e solitudine; ci siamo ingozzati di
connessioni e abbiamo perso il gusto della fraternità. Abbiamo cercato il
risultato rapido e sicuro e ci troviamo oppressi dall’impazienza e dall’ansia.
Prigionieri della virtualità, abbiamo perso il gusto e il sapore della realtà».[32] Il
dolore, l’incertezza, il timore e la consapevolezza dei propri limiti che la
pandemia ha suscitato, fanno risuonare l’appello a ripensare i nostri stili di
vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto
il senso della nostra esistenza.
34. Se tutto è connesso, è difficile pensare
che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci
rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita
e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di
castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura
alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si
ribella. Viene alla mente il celebre verso del poeta Virgilio che evoca
le lacrimevoli vicende umane.[33]
35. Velocemente però dimentichiamo le lezioni
della storia, «maestra di vita».[34] Passata
la crisi sanitaria, la peggiore reazione sarebbe quella di cadere ancora di più
in un febbrile consumismo e in nuove forme di auto-protezione egoistica. Voglia
il Cielo che alla fine non ci siano più “gli altri”, ma solo un “noi”. Che non
sia stato l’ennesimo grave evento storico da cui non siamo stati capaci di
imparare. Che non ci dimentichiamo degli anziani morti per mancanza di
respiratori, in parte come effetto di sistemi sanitari smantellati anno dopo
anno. Che un così grande dolore non sia inutile, che facciamo un salto verso un
nuovo modo di vivere e scopriamo una volta per tutte che abbiamo bisogno e
siamo debitori gli uni degli altri, affinché l’umanità rinasca con tutti i
volti, tutte le mani e tutte le voci, al di là delle frontiere che abbiamo
creato.
36. Se non riusciamo a recuperare la passione
condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare
tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà
rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto. Inoltre, non si
dovrebbe ingenuamente ignorare che «l’ossessione per uno stile di vita
consumistico, soprattutto quando solo pochi possono sostenerlo, potrà provocare
soltanto violenza e distruzione reciproca».[35] Il
“si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo
sarà peggio di una pandemia.
Senza dignità umana sulle frontiere
37. Tanto da alcuni regimi politici populisti
quanto da posizioni economiche liberali, si sostiene che occorre evitare ad
ogni costo l’arrivo di persone migranti. Al tempo stesso si argomenta che
conviene limitare l’aiuto ai Paesi poveri, così che tocchino il fondo e
decidano di adottare misure di austerità. Non ci si rende conto che, dietro
queste affermazioni astratte difficili da sostenere, ci sono tante vite
lacerate. Molti fuggono dalla guerra, da persecuzioni, da catastrofi naturali.
Altri, con pieno diritto, sono «alla ricerca di opportunità per sé e per la
propria famiglia. Sognano un futuro migliore e desiderano creare le condizioni
perché si realizzi».[36]
38. Purtroppo, altri sono «attirati dalla
cultura occidentale, nutrendo talvolta aspettative irrealistiche che li
espongono a pesanti delusioni. Trafficanti senza scrupolo, spesso legati ai
cartelli della droga e delle armi, sfruttano la debolezza dei migranti, che
lungo il loro percorso troppo spesso incontrano la violenza, la tratta, l’abuso
psicologico e anche fisico, e sofferenze indicibili».[37] Coloro
che emigrano «sperimentano la separazione dal proprio contesto di origine e
spesso anche uno sradicamento culturale e religioso. La frattura riguarda anche
le comunità di origine, che perdono gli elementi più vigorosi e intraprendenti,
e le famiglie, in particolare quando migra uno o entrambi i genitori, lasciando
i figli nel Paese di origine».[38] Di
conseguenza, «va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in
condizione di rimanere nella propria terra».[39]
39. Per giunta, «in alcuni Paesi di arrivo, i
fenomeni migratori suscitano allarme e paure, spesso fomentate e sfruttate a
fini politici. Si diffonde così una mentalità xenofoba, di chiusura e di
ripiegamento su se stessi».[40] I
migranti vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita
sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa
intrinseca dignità di qualunque persona. Pertanto, devono essere “protagonisti
del proprio riscatto”.[41] Non
si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di
trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti,
meno umani. È inaccettabile che i cristiani condividano questa mentalità e
questi atteggiamenti, facendo a volte prevalere certe preferenze politiche
piuttosto che profonde convinzioni della propria fede: l’inalienabile dignità
di ogni persona umana al di là dell’origine, del colore o della religione, e la
legge suprema dell’amore fraterno.
40. «Le migrazioni costituiranno un elemento
fondante del futuro del mondo».[42] Ma
oggi esse risentono di una «perdita di quel senso della responsabilità
fraterna, su cui si basa ogni società civile».[43] L’Europa,
ad esempio, rischia seriamente di andare per questa strada. Tuttavia, «aiutata
dal suo grande patrimonio culturale e religioso, [ha] gli strumenti per
difendere la centralità della persona umana e per trovare il giusto equilibrio
fra il duplice dovere morale di tutelare i diritti dei propri cittadini e
quello di garantire l’assistenza e l’accoglienza dei migranti».[44]
41. Comprendo che di fronte alle persone
migranti alcuni nutrano dubbi o provino timori. Lo capisco come un aspetto
dell’istinto naturale di autodifesa. Ma è anche vero che una persona e un
popolo sono fecondi solo se sanno integrare creativamente dentro di sé
l’apertura agli altri. Invito ad andare oltre queste reazioni primarie, perché
«il problema è quando [esse] condizionano il nostro modo di pensare e di agire
al punto da renderci intolleranti, chiusi, forse anche – senza accorgercene –
razzisti. E così la paura ci priva del desiderio e della capacità di incontrare
l’altro».[45]
L’illusione della comunicazione
42. Paradossalmente, mentre crescono
atteggiamenti chiusi e intolleranti che ci isolano rispetto agli altri, si
riducono o spariscono le distanze fino al punto che viene meno il diritto
all’intimità. Tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato,
vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante. Nella comunicazione
digitale si vuole mostrare tutto ed ogni individuo diventa oggetto di sguardi
che frugano, denudano e divulgano, spesso in maniera anonima. Il rispetto verso
l’altro si sgretola e in tal modo, nello stesso tempo in cui lo sposto, lo
ignoro e lo tengo a distanza, senza alcun pudore posso invadere la sua vita
fino all’estremo.
43. D’altra parte, i movimenti digitali di
odio e distruzione non costituiscono – come qualcuno vorrebbe far credere –
un’ottima forma di mutuo aiuto, bensì mere associazioni contro un nemico.
Piuttosto, «i media digitali possono esporre al rischio di dipendenza, di
isolamento e di progressiva perdita di contatto con la realtà concreta,
ostacolando lo sviluppo di relazioni interpersonali autentiche».[46] C’è
bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio
corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché
tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana. I rapporti digitali, che
dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e
anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza.
Non costruiscono veramente un “noi”, ma solitamente dissimulano e amplificano
lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo dei
deboli. La connessione digitale non basta per gettare ponti, non è in grado di
unire l’umanità.
Aggressività senza pudore
44. Proprio mentre difendono il proprio
isolamento consumistico e comodo, le persone scelgono di legarsi in maniera
costante e ossessiva. Questo favorisce il pullulare di forme insolite di
aggressività, di insulti, maltrattamenti, offese, sferzate verbali fino a
demolire la figura dell’altro, con una sfrenatezza che non potrebbe esistere
nel contatto corpo a corpo perché finiremmo per distruggerci tutti a vicenda.
L’aggressività sociale trova nei dispositivi mobili e nei computer uno spazio
di diffusione senza uguali.
45. Ciò ha permesso che le ideologie
abbandonassero ogni pudore. Quello che fino a pochi anni fa non si poteva dire
di nessuno senza il rischio di perdere il rispetto del mondo intero, oggi si
può esprimere nella maniera più cruda anche per alcune autorità politiche e
rimanere impuniti. Non va ignorato che «operano nel mondo digitale giganteschi
interessi economici, capaci di realizzare forme di controllo tanto sottili
quanto invasive, creando meccanismi di manipolazione delle coscienze e del
processo democratico. Il funzionamento di molte piattaforme finisce spesso per
favorire l’incontro tra persone che la pensano allo stesso modo, ostacolando il
confronto tra le differenze. Questi circuiti chiusi facilitano la diffusione di
informazioni e notizie false, fomentando pregiudizi e odio».[47]
46. Occorre riconoscere che i fanatismi che
inducono a distruggere gli altri hanno per protagonisti anche persone
religiose, non esclusi i cristiani, che «possono partecipare a reti di violenza
verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di
interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono
eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano
esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui».[48] Così
facendo, quale contributo si dà alla fraternità che il Padre comune ci propone?
Informazione senza saggezza
47. La vera saggezza presuppone l’incontro
con la realtà. Ma oggi tutto si può produrre, dissimulare, modificare. Questo
fa sì che l’incontro diretto con i limiti della realtà diventi insopportabile.
Di conseguenza, si attua un meccanismo di “selezione” e si crea l’abitudine di
separare immediatamente ciò che mi piace da ciò che non mi piace, le cose
attraenti da quelle spiacevoli. Con la stessa logica si scelgono le persone con
le quali si decide di condividere il mondo. Così le persone o le situazioni che
hanno ferito la nostra sensibilità o ci sono risultate sgradite oggi
semplicemente vengono eliminate nelle reti virtuali, costruendo un circolo
virtuale che ci isola dal mondo in cui viviamo.
48. Il mettersi seduti ad ascoltare l’altro,
caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento
accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta
attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia. Tuttavia, «il mondo di oggi è
in maggioranza un mondo sordo […]. A volte la velocità del mondo moderno, la
frenesia ci impedisce di ascoltare bene quello che dice l’altra persona. E
quando è a metà del suo discorso, già la interrompiamo e vogliamo risponderle
mentre ancora non ha finito di parlare. Non bisogna perdere la capacità di
ascolto». San Francesco d’Assisi «ha ascoltato la voce di Dio, ha ascoltato la
voce del povero, ha ascoltato la voce del malato, ha ascoltato la voce della
natura. E tutto questo lo trasforma in uno stile di vita. Spero che il seme di
San Francesco cresca in tanti cuori».[49]
49. Venendo meno il silenzio e l’ascolto, e
trasformando tutto in battute e messaggi rapidi e impazienti, si mette in
pericolo la struttura basilare di una saggia comunicazione umana. Si crea un
nuovo stile di vita in cui si costruisce ciò che si vuole avere davanti,
escludendo tutto quello che non si può controllare o conoscere superficialmente
e istantaneamente. Tale dinamica, per sua logica intrinseca, impedisce la
riflessione serena che potrebbe condurci a una saggezza comune.
50. Possiamo cercare insieme la verità nel
dialogo, nella conversazione pacata o nella discussione appassionata. È un
cammino perseverante, fatto anche di silenzi e di sofferenze, capace di
raccogliere con pazienza la vasta esperienza delle persone e dei popoli. Il
cumulo opprimente di informazioni che ci inonda non equivale a maggior
saggezza. La saggezza non si fabbrica con impazienti ricerche in internet,
e non è una sommatoria di informazioni la cui veracità non è assicurata. In
questo modo non si matura nell’incontro con la verità. Le conversazioni alla
fine ruotano intorno agli ultimi dati, sono meramente orizzontali e cumulative.
Non si presta invece un’attenzione prolungata e penetrante al cuore della vita,
non si riconosce ciò che è essenziale per dare un senso all’esistenza. Così, la
libertà diventa un’illusione che ci viene venduta e che si confonde con la
libertà di navigare davanti a uno schermo. Il problema è che una via di
fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi
e disposti a incontri reali.
Sottomissioni e disprezzo di sé
51. Alcuni Paesi forti dal punto di vista
economico vengono presentati come modelli culturali per i Paesi poco
sviluppati, invece di fare in modo che ognuno cresca con lo stile che gli è peculiare,
sviluppando le proprie capacità di innovare a partire dai valori della propria
cultura. Questa nostalgia superficiale e triste, che induce a copiare e
comprare piuttosto che creare, dà luogo a un’autostima nazionale molto bassa.
Nei settori benestanti di molti Paesi poveri, e a volte in coloro che sono
riusciti a uscire dalla povertà, si riscontra l’incapacità di accettare
caratteristiche e processi propri, cadendo in un disprezzo della propria
identità culturale, come se fosse la causa di tutti i mali.
52. Demolire l’autostima di qualcuno è un
modo facile di dominarlo. Dietro le tendenze che mirano ad omogeneizzare il
mondo, affiorano interessi di potere che beneficiano della scarsa stima di sé,
nel momento stesso in cui, attraverso i media e le reti, si
cerca di creare una nuova cultura al servizio dei più potenti. Da ciò traggono
vantaggio l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento, dove
i poveri sono sempre quelli che perdono. D’altra parte, ignorare la cultura di
un popolo fa sì che molti leader politici non siano in grado
di promuovere un progetto efficace che possa essere liberamente assunto e
sostenuto nel tempo.
53. Si dimentica che «non c’è peggior
alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno.
Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare
futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi
membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le
diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le
spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri».[50]
Speranza
54. Malgrado queste dense ombre, che non
vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di
speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene. La recente
pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di
viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. Siamo stati
capaci di riconoscere che le nostre vite sono intrecciate e sostenute da
persone ordinarie che, senza dubbio, hanno scritto gli avvenimenti decisivi
della nostra storia condivisa: medici, infermieri e infermiere, farmacisti,
addetti ai supermercati, personale delle pulizie, badanti, trasportatori,
uomini e donne che lavorano per fornire servizi essenziali e sicurezza, volontari,
sacerdoti, religiose,… hanno capito che nessuno si salva da solo.[51]
55. Invito alla speranza, che «ci parla di
una realtà che è radicata nel profondo dell’essere umano, indipendentemente
dalle circostanze concrete e dai condizionamenti storici in cui vive. Ci parla
di una sete, di un’aspirazione, di un anelito di pienezza, di vita realizzata,
di un misurarsi con ciò che è grande, con ciò che riempie il cuore ed eleva lo
spirito verso cose grandi, come la verità, la bontà e la bellezza, la giustizia
e l’amore. […] La speranza è audace, sa guardare oltre la comodità personale,
le piccole sicurezze e compensazioni che restringono l’orizzonte, per
aprirsi a grandi ideali che rendono la vita più bella e dignitosa».[52] Camminiamo
nella speranza.
CAPITOLO SECONDO
UN ESTRANEO SULLA STRADA
56. Tutto ciò che ho menzionato nel capitolo
precedente è più di un’asettica descrizione della realtà, poiché «le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto
e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore».[53] Nell’intento
di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare
alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da
Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le
persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la
parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene
interpellare.
«In quel tempo, un dottore
della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa
devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse:
“Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui
rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua
mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai
risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a
Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva
da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via
tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per
caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò
oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò
oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli
accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli
fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura,
lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno
seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura
di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi
di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei
briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.
Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).
Lo sfondo
57. Questa parabola raccoglie uno sfondo di
secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano,
la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo
fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). La risposta è la stessa che spesso
diamo noi: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (ibid.). Con la
sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che
pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci
abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare
le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri.
58. Il libro di Giobbe ricorre al fatto di
avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: «Chi
ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a
formarci nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in
modo diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la verità non deve
lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno
sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il
creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo».[54]
59. Nelle tradizioni ebraiche, l’imperativo
di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle relazioni tra i
membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il tuo prossimo come
te stesso» (Lv 19,18) si intendeva
ordinariamente riferito ai connazionali. Tuttavia, specialmente nel giudaismo
sviluppatosi fuori dalla terra d’Israele, i confini si andarono ampliando.
Comparve l’invito a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (cfr Tb 4,15). Il
saggio Hillel (I sec. a.C.) diceva al riguardo:
«Questo è la Legge e i Profeti. Tutto il resto è commento».[55] Il
desiderio di imitare gli atteggiamenti divini condusse a superare quella
tendenza a limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo riguarda il suo
prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir 18,13).
60. Nel Nuovo Testamento, il precetto di Hillel ha trovato espressione positiva: «Tutto quanto
volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è
la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Tale appello è universale, tende
ad abbracciare tutti, solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il
Padre celeste «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45).
E di conseguenza si esige: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è
misericordioso» (Lc 6,36).
61. C’è una motivazione per allargare il
cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare già nei testi
più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo ebraico di
aver vissuto come straniero in Egitto:
«Non molesterai il forestiero né
l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20).
«Non opprimerai il forestiero: anche voi
conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra
d’Egitto» (Es 23,9).
«Quando un forestiero dimorerà presso di
voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo
tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te stesso, perché
anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34).
«Quando vendemmierai la tua vigna, non
tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la
vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto» (Dt 24,21-22).
Nel Nuovo Testamento risuona con forza
l’appello all’amore fraterno:
«Tutta la Legge infatti trova la sua
pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
«Chi ama suo fratello, rimane nella luce
e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle
tenebre» (1 Gv 2,10-11).
«Noi sappiamo che siamo passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte»
(1 Gv 3,14).
«Chi infatti non ama il proprio fratello
che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).
62. Anche questa proposta di amore poteva
essere fraintesa. Non per nulla, davanti alla tentazione delle prime comunità
cristiane di formare gruppi chiusi e isolati, San Paolo esortava i suoi
discepoli ad avere carità tra di loro «e verso tutti» (1 Ts 3,12);
e nella comunità di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli,
benché stranieri» (3 Gv 5). Tale contesto
aiuta a comprendere il valore della parabola del buon samaritano: all’amore non
importa se il fratello ferito viene da qui o da là. Perché è l’«amore che rompe
le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette
di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […].
Amore che sa di compassione e di dignità».[56]
L’abbandonato
63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a
terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone
accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni
importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune.
Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno
per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con
le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto
gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha
dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella
giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di
mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha
considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.
64. Con chi ti identifichi? Questa domanda è
dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la
tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più
deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti
nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre
società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a
ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente.
65. Aggrediscono una persona per la strada, e
molti scappano come se non avessero visto nulla. Spesso ci sono persone che
investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a non avere
problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono
segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse
più sottili. Inoltre, poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre
necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non
vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di
una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.
66. Meglio non cadere in questa miseria.
Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a far
risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero,
costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto
come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il
perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca
sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di
relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato
che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non
è tempo che passa, ma tempo di incontro».[57]
67. Questa parabola è un’icona illuminante,
capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di
compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a
tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni
altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che
passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la
strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a
partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non
lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e
riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la
parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano
solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà
umana.
68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non
fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla
funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica
essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la
pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al
dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga
“ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla
nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.
Una storia che si ripete
69. La narrazione è semplice e lineare, ma
contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione
della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la
fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con
l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o
l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti
economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla
scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a
distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al
mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti
abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli
che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.
70. È interessante come le differenze tra i
personaggi del racconto risultino completamente trasformate nel confronto con
la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è più distinzione
tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né
commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno
carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano
riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il
passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i
nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e
curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni
gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei
momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo
momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o
sta portando sulle sue spalle qualche ferito.
71. La storia del buon samaritano si ripete:
risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti
luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e
internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra
sul bordo della strada. Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative,
come ad esempio: che cosa sarebbe stato di quell’uomo gravemente ferito o di
colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero trovato spazio
nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con
la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e
costruisca una società degna di questo nome.
I personaggi
72. La parabola comincia con i briganti. Il
punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione già consumata. Non fa sì
che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo verso i
briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre
dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere,
accumulazione e divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona
ferita a terra per correre ciascuno a ripararsi dalla violenza o a inseguire i
banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre divisioni
inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri
intestini?
73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente
lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa pericolosa indifferenza di
andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di una
triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno
triste riflesso di quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi
di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è ripiegarsi su di sé,
disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe guardare
solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in
alcuni Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della
loro cultura, e un vivere con lo sguardo rivolto al di fuori, come se un
progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro posto. Così si può
giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il
loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal
loro orizzonte di interessi.
74. In quelli che passano a distanza c’è un
particolare che non possiamo ignorare: erano persone religiose. Di più, si
dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di
speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non
garantisce di vivere come a Dio piace. Una persona di fede può non essere
fedele a tutto ciò la fede stessa esige, e tuttavia può sentirsi vicina a Dio e
ritenersi più degna degli altri. Ci sono invece dei modi di vivere la fede che
favoriscono l’apertura del cuore ai fratelli, e quella sarà la garanzia di
un’autentica apertura a Dio. San Giovanni Crisostomo giunse ad esprimere con
grande chiarezza tale sfida che si presenta ai cristiani: «Volete onorare
veramente il corpo di Cristo? Non disprezzatelo quando è nudo. Non onoratelo
nel tempio con paramenti di seta, mentre fuori lo lasciate a patire il freddo e
la nudità».[58] Il
paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la
volontà di Dio meglio dei credenti.
75. I “briganti della strada” hanno di solito
come segreti alleati quelli che “passano per la strada guardando dall’altra
parte”. Si chiude il cerchio tra quelli che usano e ingannano la società per
prosciugarla e quelli che pensano di mantenere la purezza nella loro funzione
critica, ma nello stesso tempo vivono di quel sistema e delle sue risorse. C’è
una triste ipocrisia là dove l’impunità del delitto, dell’uso delle istituzioni
per interessi personali o corporativi, e altri mali che non riusciamo a
eliminare, si uniscono a un permanente squalificare tutto, al costante seminare
sospetti propagando la diffidenza e la perplessità. All’inganno del “tutto va
male” corrisponde un “nessuno può aggiustare le cose”, “che posso fare io?”. In
tal modo, si alimenta il disincanto e la mancanza di speranza, e ciò non
incoraggia uno spirito di solidarietà e di generosità. Far sprofondare un
popolo nello scoraggiamento è la chiusura di un perfetto circolo vizioso: così
opera la dittatura invisibile dei veri interessi occulti, che si sono
impadroniti delle risorse e della capacità di avere opinioni e di pensare.
76. Guardiamo infine all’uomo ferito. A volte
ci sentiamo come lui, gravemente feriti e a terra sul bordo della strada. Ci
sentiamo anche abbandonati dalle nostre istituzioni sguarnite e carenti, o
rivolte al servizio degli interessi di pochi, all’esterno e all’interno.
Infatti, «nella società globalizzata, esiste una maniera elegante di guardare
dall’altra parte che si pratica abitualmente: sotto il rivestimento del
politicamente corretto o delle mode ideologiche, si guarda alla persona che
soffre senza toccarla, la si mostra in televisione in diretta, si adotta anche
un discorso all’apparenza tollerante e pieno di eufemismi».[59]
Ricominciare
77. Ogni giorno ci viene offerta una nuova
opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci
governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace
di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte
attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di
fronte alla grande occasione di esprimere il
nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé
il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il
viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito,
puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili
nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se
tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti,
di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la
menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i
loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del
bene.
78. È possibile cominciare dal basso e caso
per caso, lottare per ciò che è più concreto e locale, fino all’ultimo angolo
della patria e del mondo, con la stessa cura che il viandante di Samaria ebbe
per ogni piaga dell’uomo ferito. Cerchiamo gli altri e facciamoci carico della
realtà che ci spetta, senza temere il dolore o l’impotenza, perché lì c’è tutto
il bene che Dio ha seminato nel cuore dell’essere umano. Le difficoltà che
sembrano enormi sono l’opportunità per crescere, e non la scusa per la
tristezza inerte che favorisce la sottomissione. Però non facciamolo da soli,
individualmente. Il samaritano cercò un affittacamere che potesse prendersi
cura di quell’uomo, come noi siamo chiamati a invitare e incontrarci in un
“noi” che sia più forte della somma di piccole individualità; ricordiamoci che
«il tutto è più delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[60] Rinunciamo
alla meschinità e al risentimento dei particolarismi sterili, delle
contrapposizioni senza fine. Smettiamo di nascondere il dolore delle perdite e
facciamoci carico dei nostri delitti, della nostra ignavia e delle nostre
menzogne. La riconciliazione riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri.
79. Il samaritano della strada se ne andò
senza aspettare riconoscimenti o ringraziamenti. La dedizione al servizio era
la grande soddisfazione davanti al suo Dio e alla sua vita, e per questo un
dovere. Tutti abbiamo una responsabilità riguardo a quel ferito che è il popolo
stesso e tutti i popoli della terra. Prendiamoci cura della fragilità di ogni
uomo, di ogni donna, di ogni bambino e di ogni anziano, con quell’atteggiamento
solidale e attento, l’atteggiamento di prossimità del buon samaritano.
Il prossimo senza frontiere
80. Gesù propose questa parabola per
rispondere a una domanda: chi è il mio prossimo? La parola “prossimo” nella
società dell’epoca di Gesù indicava di solito chi è più vicino, prossimo. Si
intendeva che l’aiuto doveva rivolgersi anzitutto a chi appartiene al proprio
gruppo, alla propria razza. Un samaritano, per alcuni giudei di allora, era
considerato una persona spregevole, impura, e pertanto non era compreso tra i
vicini ai quali si doveva dare aiuto. Il giudeo Gesù rovescia completamente
questa impostazione: non ci chiama a domandarci chi sono quelli vicini a noi,
bensì a farci noi vicini, prossimi.
81. La proposta è quella di farsi presenti
alla persona bisognosa di aiuto, senza guardare se fa parte della propria
cerchia di appartenenza. In questo caso, il samaritano è stato colui che si
è fatto prossimo del giudeo ferito. Per rendersi vicino e presente, ha
attraversato tutte le barriere culturali e storiche. La conclusione di Gesù è
una richiesta: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10,37). Vale a dire,
ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla
sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei
“prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo
degli altri.
82. Il problema è che, espressamente, Gesù
mette in risalto che l’uomo ferito era un giudeo – abitante della Giudea –
mentre colui che si fermò e lo aiutò era un samaritano – abitante della Samaria
–. Questo particolare ha una grandissima importanza per riflettere su un amore
che si apre a tutti. I samaritani abitavano una regione che era stata
contaminata da riti pagani, e per i giudei ciò li rendeva impuri, detestabili,
pericolosi. Difatti, un antico testo ebraico che menziona nazioni degne di
disprezzo si riferisce a Samaria affermando per di più che «non è neppure un
popolo» (Sir 50,25), e aggiunge che è «il popolo stolto che abita a
Sichem» (v. 26).
83. Questo spiega perché una donna
samaritana, quando Gesù le chiese da bere, rispose enfaticamente: «Come mai tu,
che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?» (Gv 4,9). Quelli che cercavano accuse che
potessero screditare Gesù, la cosa più offensiva che trovarono fu di dirgli
«indemoniato» e «samaritano» (Gv 8,48).
Pertanto, questo incontro misericordioso tra un samaritano e un giudeo è una
potente provocazione, che smentisce ogni manipolazione ideologica, affinché
allarghiamo la nostra cerchia, dando alla nostra capacità di amare una
dimensione universale, in grado di superare tutti i pregiudizi, tutte le
barriere storiche o culturali, tutti gli interessi meschini.
L’appello del forestiero
84. Infine, ricordo che in un altro passo del
Vangelo Gesù dice: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35).
Gesù poteva dire queste parole perché aveva un cuore aperto che faceva propri i
drammi degli altri. San Paolo esortava: «Rallegratevi con quelli che sono nella
gioia, piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).
Quando il cuore assume tale atteggiamento, è capace di identificarsi con l’altro
senza badare a dove è nato o da dove viene. Entrando in questa dinamica, in
definitiva sperimenta che gli altri sono “sua stessa carne” (cfr Is 58,7).
85. Per i cristiani, le parole di Gesù hanno
anche un’altra dimensione, trascendente. Implicano il riconoscere Cristo stesso
in ogni fratello abbandonato o escluso (cfr Mt 25,40.45).
In realtà, la fede colma di motivazioni inaudite il riconoscimento dell’altro,
perché chi crede può arrivare a riconoscere che Dio ama ogni essere umano con
un amore infinito e che «gli conferisce con ciò una dignità infinita».[61] A
ciò si aggiunge che crediamo che Cristo ha versato il suo sangue per tutti e
per ciascuno, e quindi nessuno resta fuori dal suo amore universale. E se
andiamo alla fonte ultima, che è la vita intima di Dio, ci incontriamo con una
comunità di tre Persone, origine e modello perfetto di ogni vita in comune. La
teologia continua ad arricchirsi grazie alla riflessione su questa grande
verità.
86. A volte mi rattrista il fatto che, pur
dotata di tali motivazioni, la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per
condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza. Oggi, con lo
sviluppo della spiritualità e della teologia, non abbiamo scuse. Tuttavia, ci
sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati
dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento,
atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che
sono diversi. La fede, con l’umanesimo che ispira, deve mantenere vivo un senso
critico davanti a queste tendenze e aiutare a reagire rapidamente quando
cominciano a insinuarsi. Perciò è importante che la catechesi e la predicazione
includano in modo più diretto e chiaro il senso sociale dell’esistenza, la
dimensione fraterna della spiritualità, la convinzione sull’inalienabile
dignità di ogni persona e le motivazioni per amare e accogliere tutti.
CAPITOLO TERZO
PENSARE E GENERARE UN MONDO APERTO
87. Un essere umano è fatto in modo tale che
non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza «se non
attraverso un dono sincero di sé».[62] E
ugualmente non giunge a riconoscere a fondo la propria verità se non
nell’incontro con gli altri: «Non comunico effettivamente con me stesso se non
nella misura in cui comunico con l’altro».[63] Questo
spiega perché nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti
concreti da amare. Qui sta un segreto dell’autentica esistenza umana, perché
«la vita sussiste dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più
forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al
contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e
di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte».[64]
Al di là
88. Dall’intimo di ogni cuore, l’amore crea
legami e allarga l’esistenza quando fa uscire la persona da sé stessa verso
l’altro.[65] Siamo
fatti per l’amore e c’è in ognuno di noi «una specie di legge di “estasi”:
uscire da se stessi per trovare negli altri un accrescimento di essere».[66] Perciò
«in ogni caso l’uomo deve pure decidersi una volta ad uscire d’un balzo da se
stesso».[67]
89. D’altra parte, non posso ridurre la mia
vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è
impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni: non solo
quello attuale ma anche quello che mi precede e che è andato configurandomi nel
corso della mia vita. La mia relazione con una persona che stimo non può
ignorare che quella persona non vive solo per la sua relazione con me, né io
vivo soltanto rapportandomi con lei. La nostra relazione, se è sana e
autentica, ci apre agli altri che ci fanno crescere e ci arricchiscono. Il più
nobile senso sociale oggi facilmente rimane annullato dietro intimismi
egoistici con l’apparenza di relazioni intense. Invece, l’amore che è
autentico, che aiuta a crescere, e le forme più nobili di amicizia abitano
cuori che si lasciano completare. Il legame di coppia e di amicizia è orientato
ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino
ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si
costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono forme
idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione.
90. Non è un caso che molte piccole
popolazioni sopravvissute in zone desertiche abbiano sviluppato una generosa
capacità di accoglienza nei confronti dei pellegrini di passaggio, dando così
un segno esemplare del sacro dovere dell’ospitalità. Lo hanno vissuto anche le
comunità monastiche medievali, come si riscontra nella Regola di San Benedetto.
Benché potesse disturbare l’ordine e il silenzio dei monasteri, Benedetto
esigeva che i poveri e i pellegrini fossero trattati «con tutto il riguardo e
la premura possibili».[68] L’ospitalità
è un modo concreto di non privarsi di questa sfida e di questo dono che è
l’incontro con l’umanità al di là del proprio gruppo. Quelle persone
riconoscevano che tutti i valori che potevano coltivare dovevano essere
accompagnati da questa capacità di trascendersi in un’apertura agli altri.
Il valore unico dell’amore
91. Le persone possono sviluppare alcuni
atteggiamenti che presentano come valori morali: fortezza, sobrietà,
laboriosità e altre virtù. Ma per orientare adeguatamente gli atti delle varie
virtù morali, bisogna considerare anche in quale misura essi realizzino un
dinamismo di apertura e di unione verso altre persone. Tale dinamismo è la
carità che Dio infonde. Altrimenti, avremo forse solo un’apparenza di virtù, e
queste saranno incapaci di costruire la vita in comune. Perciò San Tommaso
d’Aquino – citando Sant’Agostino – diceva che la temperanza di una persona
avara non è neppure virtuosa.[69] San
Bonaventura, con altre parole, spiegava che le altre
virtù, senza la carità, a rigore non adempiono i comandamenti «come Dio li
intende».[70]
92. La statura spirituale di un’esistenza
umana è definita dall’amore, che in ultima analisi è «il criterio per la
decisione definitiva sul valore o il disvalore di una vita umana».[71] Tuttavia,
ci sono credenti che pensano che la loro grandezza consista nell’imporre le
proprie ideologie agli altri, o nella difesa violenta della verità, o in grandi
dimostrazioni di forza. Tutti noi credenti dobbiamo riconoscere questo: al
primo posto c’è l’amore, ciò che mai dev’essere messo a rischio è l’amore, il
pericolo più grande è non amare (cfr 1 Cor 13,1-13).
93. Cercando di precisare in che cosa
consista l’esperienza di amare, che Dio rende possibile con la sua grazia, San
Tommaso d’Aquino la spiegava come un movimento che pone l’attenzione sull’altro
«considerandolo come un’unica cosa con sé stesso».[72] L’attenzione
affettiva che si presta all’altro provoca un orientamento a ricercare
gratuitamente il suo bene. Tutto ciò parte da una stima, da un apprezzamento,
che in definitiva è quello che sta dietro la parola “carità”: l’essere amato è
per me “caro”, vale a dire che lo considero di grande valore.[73] E
«dall’amore per cui a uno è gradita una data persona derivano le gratificazioni
verso di essa».[74]
94. L’amore implica dunque qualcosa di più
che una serie di azioni benefiche. Le azioni derivano da un’unione che inclina
sempre più verso l’altro considerandolo prezioso, degno, gradito e bello, al di
là delle apparenze fisiche o morali. L’amore all’altro per quello che è ci
spinge a cercare il meglio per la sua vita. Solo coltivando questo modo di
relazionarci renderemo possibile l’amicizia sociale che non esclude nessuno e
la fraternità aperta a tutti.
La progressiva apertura dell’amore
95. L’amore, infine, ci fa tendere verso la
comunione universale. Nessuno matura né raggiunge la propria pienezza
isolandosi. Per sua stessa dinamica, l’amore esige una progressiva apertura,
maggiore capacità di accogliere gli altri, in un’avventura mai finita che fa
convergere tutte le periferie verso un pieno senso di reciproca appartenenza.
Gesù ci ha detto: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).
96. Questo bisogno di andare oltre i propri
limiti vale anche per le varie regioni e i vari Paesi. Di fatto, «il numero
sempre crescente di interconnessioni e di comunicazioni che avviluppano il
nostro pianeta rende più palpabile la consapevolezza dell’unità e della
condivisione di un comune destino tra le Nazioni della terra. Nei dinamismi
della storia, pur nella diversità delle etnie, delle società e delle culture,
vediamo seminata così la vocazione a formare una comunità composta da fratelli
che si accolgono reciprocamente, prendendosi cura gli uni degli altri».[75]
Società aperte che integrano tutti
97. Ci sono periferie che si trovano vicino a
noi, nel centro di una città, o nella propria famiglia. C’è anche un aspetto
dell’apertura universale dell’amore che non è geografico ma esistenziale. È la
capacità quotidiana di allargare la mia cerchia, di arrivare a quelli che
spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino
a me. D’altra parte, ogni fratello o sorella sofferente, abbandonato o ignorato
dalla mia società è un forestiero esistenziale, anche se è nato nello stesso
Paese. Può essere un cittadino con tutte le carte in regola, però lo fanno
sentire come uno straniero nella propria terra. Il razzismo è un virus che muta
facilmente e invece di sparire si nasconde, ma è sempre in agguato.
98. Voglio ricordare quegli “esiliati
occulti” che vengono trattati come corpi estranei della società.[76] Tante
persone con disabilità «sentono di esistere senza appartenere e senza
partecipare». Ci sono ancora molte cose «che [impediscono] loro una
cittadinanza piena». L’obiettivo è non solo assisterli, ma la loro
«partecipazione attiva alla comunità civile ed ecclesiale. È un cammino
esigente e anche faticoso, che contribuirà sempre più a formare coscienze
capaci di riconoscere ognuno come persona unica e irripetibile». Ugualmente
penso alle persone anziane «che, anche a motivo della disabilità, sono sentite
a volte come un peso». Tuttavia, tutti possono dare «un singolare apporto al
bene comune attraverso la propria originale biografia». Mi permetto di
insistere: bisogna «avere il coraggio di dare voce a quanti sono discriminati
per la condizione di disabilità, perché purtroppo in alcune Nazioni, ancora
oggi, si stenta a riconoscerli come persone di pari dignità».[77]
Comprensioni inadeguate di un amore
universale
99. L’amore che si estende al di là delle
frontiere ha come base ciò che chiamiamo “amicizia sociale” in ogni città e in
ogni Paese. Quando è genuina, questa amicizia sociale all’interno di una
società è condizione di possibilità di una vera apertura universale. Non si
tratta del falso universalismo di chi ha bisogno di viaggiare continuamente
perché non sopporta e non ama il proprio popolo. Chi guarda il suo popolo con
disprezzo, stabilisce nella propria società categorie di prima e di seconda
classe, di persone con più o meno dignità e diritti. In tal modo nega che ci
sia spazio per tutti.
100. Neppure sto proponendo un universalismo
autoritario e astratto, dettato o pianificato da alcuni e presentato come un
presunto ideale allo scopo di omogeneizzare, dominare e depredare. C’è un
modello di globalizzazione che «mira consapevolmente a un’uniformità
unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una
superficiale ricerca di unità. […] Se una globalizzazione pretende di rendere
tutti uguali, come se fosse una sfera, questa globalizzazione distrugge la
peculiarità di ciascuna persona e di ciascun popolo».[78] Questo
falso sogno universalistico finisce per privare il mondo della varietà dei suoi
colori, della sua bellezza e in definitiva della sua umanità. Perché «il futuro
non è “monocromatico”, ma, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo
nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha
bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace
senza che dobbiamo essere tutti uguali!».[79]
Andare oltre un mondo di soci
101. Riprendiamo ora la parabola del buon
samaritano, che ha ancora molto da proporci. C’era un uomo ferito sulla strada.
I personaggi che passavano accanto a lui non si concentravano sulla chiamata
interiore a farsi vicini, ma sulla loro funzione, sulla posizione sociale che
occupavano, su una professione di prestigio nella società. Si sentivano
importanti per la società di quel tempo e ciò che premeva loro era il ruolo che
dovevano svolgere. L’uomo ferito e abbandonato lungo la strada era un disturbo
per questo progetto, un’interruzione, e da parte sua era uno che non rivestiva
alcuna funzione. Era un “nessuno”, non apparteneva a un gruppo degno di considerazione,
non aveva alcun ruolo nella costruzione della storia. Nel frattempo, il
samaritano generoso resisteva a queste classificazioni chiuse, anche se lui
stesso restava fuori da tutte queste categorie ed era semplicemente un estraneo
senza un proprio posto nella società. Così, libero da ogni titolo e struttura,
è stato capace di interrompere il suo viaggio, di cambiare i suoi programmi, di
essere disponibile ad aprirsi alla sorpresa dell’uomo ferito che aveva bisogno
di lui.
102. Quale reazione potrebbe suscitare oggi
questa narrazione, in un mondo dove compaiono continuamente, e crescono, gruppi
sociali che si aggrappano a un’identità che li separa dagli altri? Come può
commuovere quelli che tendono a organizzarsi in modo tale da impedire ogni
presenza estranea che possa turbare questa identità e questa organizzazione
autodifensiva e autoreferenziale? In questo schema rimane esclusa la
possibilità di farsi prossimo, ed è possibile essere prossimo solo di chi
permetta di consolidare i vantaggi personali. Così la parola “prossimo” perde
ogni significato, e acquista senso solamente la parola “socio”, colui che è
associato per determinati interessi.[80]
Libertà, uguaglianza e fraternità
103. La fraternità non è solo il risultato di
condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa
regolata equità. Benché queste siano condizioni di possibilità, non bastano
perché essa ne derivi come risultato necessario. La fraternità ha qualcosa di
positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la
fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità,
tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della
reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si
restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia
per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo
non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto
all’amore.
104. Neppure l’uguaglianza si ottiene
definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il
risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Coloro
che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. Che senso può
avere in questo schema la persona che non appartiene alla cerchia dei soci e
arriva sognando una vita migliore per sé e per la sua famiglia?
105. L’individualismo non ci rende più liberi,
più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in
grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può
preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo
radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che
tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se
accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene
comune.
Amore universale che promuove le persone
106. C’è un riconoscimento basilare,
essenziale da compiere per camminare verso l’amicizia sociale e la fraternità
universale: rendersi conto di quanto vale un essere umano, quanto vale una
persona, sempre e in qualunque circostanza. Se ciascuno vale tanto, bisogna
dire con chiarezza e fermezza che «il solo fatto di essere nati in un luogo con
minori risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con
minore dignità».[81] Questo
è un principio elementare della vita sociale, che viene abitualmente e in vari
modi ignorato da quanti vedono che non conviene alla loro visione del mondo o
non serve ai loro fini.
107. Ogni essere umano ha diritto a vivere con
dignità e a svilupparsi integralmente, e nessun Paese può negare tale diritto
fondamentale. Ognuno lo possiede, anche se è poco efficiente, anche se è nato o
cresciuto con delle limitazioni; infatti ciò non sminuisce la sua immensa
dignità come persona umana, che non si fonda sulle circostanze bensì sul valore
del suo essere. Quando questo principio elementare non è salvaguardato, non c’è
futuro né per la fraternità né per la sopravvivenza dell’umanità.
108. Vi sono società che accolgono questo
principio parzialmente. Accettano che ci siano opportunità per tutti, però
sostengono che, posto questo, tutto dipende da ciascuno. Secondo tale
prospettiva parziale non avrebbe senso «investire affinché quelli che rimangono
indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».[82] Investire
a favore delle persone fragili può non essere redditizio, può comportare minore
efficienza. Esige uno Stato presente e attivo, e istituzioni della società
civile che vadano oltre la libertà dei meccanismi efficientisti di certi
sistemi economici, politici o ideologici, perché veramente si orientano prima
di tutto alle persone e al bene comune.
109. Alcuni nascono in famiglie di buone
condizioni economiche, ricevono una buona educazione, crescono ben nutriti, o
possiedono naturalmente capacità notevoli. Essi sicuramente non avranno bisogno
di uno Stato attivo e chiederanno solo libertà. Ma evidentemente non vale la
stessa regola per una persona disabile, per chi è nato in una casa misera, per
chi è cresciuto con un’educazione di bassa qualità e con scarse possibilità di
curare come si deve le proprie malattie. Se la società si regge primariamente
sui criteri della libertà di mercato e dell’efficienza, non c’è posto per
costoro, e la fraternità sarà tutt’al più un’espressione romantica.
110. Il fatto è che «la semplice proclamazione
della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti
possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un
discorso contraddittorio».[83] Parole
come libertà, democrazia o fraternità si svuotano di senso. Perché, in realtà,
«finché il nostro sistema economico-sociale produrrà ancora una vittima e ci
sarà una sola persona scartata, non ci potrà essere la festa della fraternità
universale».[84] Una
società umana e fraterna è in grado di adoperarsi per assicurare in modo
efficiente e stabile che tutti siano accompagnati nel percorso della loro vita,
non solo per provvedere ai bisogni primari, ma perché possano dare il meglio di
sé, anche se il loro rendimento non sarà il migliore, anche se andranno
lentamente, anche se lo loro efficienza sarà poco rilevante.
111. La persona umana, coi suoi diritti
inalienabili, è naturalmente aperta ai legami. Nella sua stessa radice abita la
chiamata a trascendere sé stessa nell’incontro con gli altri. Per questo
«occorre prestare attenzione per non cadere in alcuni equivoci che possono
nascere da un fraintendimento del concetto di diritti umani e da un loro
paradossale abuso. Vi è infatti oggi la tendenza verso una rivendicazione
sempre più ampia di diritti individuali – sono tentato di dire individualistici
–, che cela una concezione di persona umana staccata da ogni contesto sociale e
antropologico, quasi come una “monade” (monás),
sempre più insensibile […]. Se il diritto di ciascuno non è armonicamente
ordinato al bene più grande, finisce per concepirsi senza limitazioni e dunque
per diventare sorgente di conflitti e di violenze».[85]
Promuovere il bene morale
112. Non possiamo tralasciare di dire che il
desiderio e la ricerca del bene degli altri e di tutta l’umanità implicano
anche di adoperarsi per una maturazione delle persone e delle società nei
diversi valori morali che conducono ad uno sviluppo umano integrale. Nel Nuovo
Testamento si menziona un frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22) definito con il termine greco agathosyne. Indica l’attaccamento al bene, la
ricerca del bene. Più ancora, è procurare ciò che vale di più, il meglio per
gli altri: la loro maturazione, la loro crescita in una vita sana, l’esercizio
dei valori e non solo il benessere materiale. C’è un’espressione latina
simile: bene-volentia, cioè
l’atteggiamento di volere il bene dell’altro. È un forte desiderio del bene,
un’inclinazione verso tutto ciò che è buono ed eccellente, che ci spinge a
colmare la vita degli altri di cose belle, sublimi, edificanti.
113. In questa linea, torno a rilevare con
dolore che «già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci
gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il
momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco.
Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci
l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi».[86] Volgiamoci
a promuovere il bene, per noi stessi e per tutta l’umanità, e così cammineremo
insieme verso una crescita genuina e integrale. Ogni società ha bisogno di
assicurare la trasmissione dei valori, perché se questo non succede si
trasmettono l’egoismo, la violenza, la corruzione nelle sue varie forme,
l’indifferenza e, in definitiva, una vita chiusa ad ogni trascendenza e
trincerata negli interessi individuali.
Il valore della solidarietà
114. Desidero mettere in risalto la
solidarietà, che «come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della
conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di
soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo. Il mio
primo pensiero va alle famiglie, chiamate a una missione educativa primaria e
imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si
trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della
condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito
privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici
gesti di devozione che le madri insegnano ai figli. Per quanto riguarda gli
educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione
infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i
giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità
riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori
della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere
trasmessi fin dalla più tenera età. […] Anche gli operatori culturali e dei
mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e
della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a
strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso».[87]
115. In questi momenti, nei quali tutto sembra
dissolversi e perdere consistenza, ci fa bene appellarci alla solidità[88] che
deriva dal saperci responsabili della fragilità degli altri cercando un destino
comune. La solidarietà si esprime concretamente nel servizio, che può assumere
forme molto diverse nel modo di farsi carico degli altri. Il servizio è «in
gran parte, avere cura della fragilità. Servire significa avere cura di coloro
che sono fragili nelle nostre famiglie, nella nostra società, nel nostro
popolo». In questo impegno ognuno è capace di «mettere da parte le sue
esigenze, aspettative, i suoi desideri di onnipotenza davanti allo sguardo
concreto dei più fragili. […] Il servizio guarda sempre il volto del fratello,
tocca la sua carne, sente la sua prossimità fino in alcuni casi a “soffrirla”,
e cerca la promozione del fratello. Per tale ragione il servizio non è mai
ideologico, dal momento che non serve idee, ma persone».[89]
116. Gli ultimi in generale «praticano quella
solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che
la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di
dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune
volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una
parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare
e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti
sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le
cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro,
della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far
fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa
nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno
i movimenti popolari».[90]
117. Quando parliamo di avere cura della casa
comune che è il pianeta, ci appelliamo a quel minimo di coscienza universale e
di preoccupazione per la cura reciproca che ancora può rimanere nelle persone.
Infatti, se qualcuno possiede acqua in avanzo, e tuttavia la conserva pensando
all’umanità, è perché ha raggiunto un livello morale che gli permette di andare
oltre sé stesso e il proprio gruppo di appartenenza. Ciò è meravigliosamente
umano! Questo stesso atteggiamento è quello che si richiede per riconoscere i
diritti di ogni essere umano, benché sia nato al di là delle proprie frontiere.
Riproporre la funzione sociale della
proprietà
118. Il mondo esiste per tutti, perché tutti
noi esseri umani nasciamo su questa terra con la stessa dignità. Le differenze
di colore, religione, capacità, luogo di origine, luogo di residenza e tante
altre non si possono anteporre o utilizzare per giustificare i privilegi di
alcuni a scapito dei diritti di tutti. Di conseguenza, come comunità siamo
tenuti a garantire che ogni persona viva con dignità e abbia opportunità
adeguate al suo sviluppo integrale.
119. Nei primi secoli della fede cristiana,
diversi sapienti hanno sviluppato un senso universale nella loro riflessione
sulla destinazione comune dei beni creati.[91] Ciò
conduceva a pensare che, se qualcuno non ha il necessario per vivere con
dignità, è perché un altro se ne sta appropriando. Lo riassume San Giovanni
Crisostomo dicendo che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai
poveri, è privarli della loro stessa vita; e quanto possediamo non è nostro, ma
loro».[92] Come
pure queste parole di San Gregorio Magno: «Quando distribuiamo agli indigenti
qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi
appartiene».[93]
120. Di nuovo faccio mie e propongo a tutti
alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui
forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere
umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né
privilegiare nessuno».[94] In
questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come
assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto
la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata».[95] Il
principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di
tutto l’ordinamento etico-sociale»,[96] è
un diritto naturale, originario e prioritario.[97] Tutti
gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle
persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono
quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come
affermava San Paolo VI.[98] Il
diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale
secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni
creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul
funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari
si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di
rilevanza pratica.
Diritti senza frontiere
121. Nessuno dunque può rimanere escluso, a
prescindere da dove sia nato, e tanto meno a causa dei privilegi che altri
possiedono per esser nati in luoghi con maggiori opportunità. I confini e le
frontiere degli Stati non possono impedire che questo si realizzi. Così come è
inaccettabile che una persona abbia meno diritti per il fatto di essere donna,
è altrettanto inaccettabile che il luogo di nascita o di residenza già di per
sé determini minori opportunità di vita degna e di sviluppo.
122. Lo sviluppo non dev’essere orientato
all’accumulazione crescente di pochi, bensì deve assicurare «i diritti umani,
personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e
dei popoli».[99] Il
diritto di alcuni alla libertà di impresa o di mercato non può stare al di
sopra dei diritti dei popoli e della dignità dei poveri; e neppure al di sopra
del rispetto dell’ambiente, poiché «chi ne possiede una parte è solo per
amministrarla a beneficio di tutti».[100]
123. L’attività degli imprenditori
effettivamente «è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a
migliorare il mondo per tutti».[101] Dio
ci promuove, si aspetta da noi che sviluppiamo le capacità che ci ha dato e ha
riempito l’universo di potenzialità. Nei suoi disegni ogni persona è chiamata a
promuovere il proprio sviluppo,[102] e
questo comprende l’attuazione delle capacità economiche e tecnologiche per far
crescere i beni e aumentare la ricchezza. Tuttavia, in ogni caso, queste capacità
degli imprenditori, che sono un dono di Dio, dovrebbero essere orientate
chiaramente al progresso delle altre persone e al superamento della miseria,
specialmente attraverso la creazione di opportunità di lavoro diversificate.
Sempre, insieme al diritto di proprietà privata, c’è il prioritario e
precedente diritto della subordinazione di ogni proprietà privata alla
destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti
al loro uso.[103]
Diritti dei popoli
124. La certezza della destinazione comune dei
beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori
e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della
proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma
anche a partire dal primo principio della destinazione comune die beni, allora
possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un
territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un
altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono
diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla
dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».[104]
125. Ciò inoltre presuppone un altro modo di
intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi. Se ogni persona ha una
dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se
veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive
fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia Nazione è corresponsabile del
suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi:
accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo
nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse
naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo
degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse
regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni.
Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le
regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra”
delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di
consumo.
126. Parliamo di una nuova rete nelle
relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del
mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli
gruppi. Ricordiamo che «l’inequità non colpisce solo
gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni
internazionali».[105] E
la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali,
ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli.[106] Quanto
stiamo affermando implica che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli
alla sussistenza ed al progresso»,[107] che
a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito
estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo
sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il
principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo
di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei
Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro
crescita.
127. Senza dubbio, si tratta di un’altra
logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole
suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che
promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile
accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile
desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la
vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e
diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è
possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e
cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla
corresponsabilità nell’intera famiglia umana».[108]
CAPITOLO QUARTO
UN CUORE APERTO AL MONDO INTERO
128. L’affermazione che come esseri umani
siamo tutti fratelli e sorelle, se non è solo un’astrazione ma prende carne e
diventa concreta, ci pone una serie di sfide che ci smuovono, ci obbligano ad
assumere nuove prospettive e a sviluppare nuove risposte.
Il limite delle frontiere
129. Quando il prossimo è una persona migrante
si aggiungono sfide complesse.[109] Certo,
l’ideale sarebbe evitare le migrazioni non necessarie e a tale scopo la strada
è creare nei Paesi di origine la possibilità concreta di vivere e di crescere
con dignità, così che si possano trovare lì le condizioni per il proprio
sviluppo integrale. Ma, finché non ci sono seri progressi in questa direzione,
è nostro dovere rispettare il diritto di ogni essere umano di trovare un luogo
dove poter non solo soddisfare i suoi bisogni primari e quelli della sua
famiglia, ma anche realizzarsi pienamente come persona. I nostri sforzi nei
confronti delle persone migranti che arrivano si possono riassumere in quattro
verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Infatti, «non si tratta
di calare dall’alto programmi assistenziali, ma di fare insieme un cammino
attraverso queste quattro azioni, per costruire città e Paesi che, pur
conservando le rispettive identità culturali e religiose, siano aperti alle
differenze e sappiano valorizzarle nel segno della fratellanza umana».[110]
130. Ciò implica alcune risposte
indispensabili, soprattutto nei confronti di coloro che fuggono da gravi crisi
umanitarie. Per esempio: incrementare e semplificare la concessione di visti;
adottare programmi di patrocinio privato e comunitario; aprire corridoi
umanitari per i rifugiati più vulnerabili; offrire un alloggio adeguato e
decoroso; garantire la sicurezza personale e l’accesso ai servizi essenziali;
assicurare un’adeguata assistenza consolare, il diritto ad avere sempre con sé
i documenti personali di identità, un accesso imparziale alla giustizia, la
possibilità di aprire conti bancari e la garanzia del necessario per la
sussistenza vitale; dare loro libertà di movimento e possibilità di lavorare;
proteggere i minorenni e assicurare ad essi l’accesso regolare all’educazione;
prevedere programmi di custodia temporanea o di accoglienza; garantire la
libertà religiosa; promuovere il loro inserimento sociale; favorire il
ricongiungimento familiare e preparare le comunità locali ai processi di
integrazione.[111]
131. Per quanti sono arrivati già da tempo e
sono inseriti nel tessuto sociale, è importante applicare il concetto di
“cittadinanza”, che «si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la
cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per
stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e
rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta
con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno
alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e
civili di alcuni cittadini discriminandoli».[112]
132. Al di là delle diverse azioni
indispensabili, gli Stati non possono sviluppare per conto proprio soluzioni
adeguate «poiché le conseguenze delle scelte di ciascuno ricadono
inevitabilmente sull’intera Comunità internazionale». Pertanto «le risposte potranno
essere frutto solo di un lavoro comune»,[113] dando
vita ad una legislazione (governance) globale per
le migrazioni. In ogni modo occorre «stabilire progetti a medio e lungo termine
che vadano oltre la risposta di emergenza. Essi dovrebbero da un lato aiutare
effettivamente l’integrazione dei migranti nei Paesi di accoglienza e, nel
contempo, favorire lo sviluppo dei Paesi di provenienza con politiche solidali,
che però non sottomettano gli aiuti a strategie e pratiche ideologicamente
estranee o contrarie alle culture dei popoli cui sono indirizzate».[114]
I doni reciproci
133. L’arrivo di persone diverse, che
provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un
dono, perché «quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e
tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità
di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti».[115] Perciò
«chiedo in particolare ai giovani di non cadere nelle reti di coloro che
vogliono metterli contro altri giovani che arrivano nei loro Paesi, descrivendoli
come soggetti pericolosi e come se non avessero la stessa inalienabile dignità
di ogni essere umano».[116]
134. D’altra parte, quando si accoglie di
cuore la persona diversa, le si permette di continuare ad essere sé stessa,
mentre le si dà la possibilità di un nuovo sviluppo. Le varie culture, che
hanno prodotto la loro ricchezza nel corso dei secoli, devono essere preservate
perché il mondo non si impoverisca. E questo senza trascurare di stimolarle a
lasciar emergere da sé stesse qualcosa di nuovo nell’incontro con altre realtà.
Non va ignorato il rischio di finire vittime di una sclerosi culturale. Perciò
«abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di
valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di
crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso,
in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori
della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze
altrui».[117]
135. Riprendo degli esempi che ho menzionato
tempo fa: la cultura dei latini è «un fermento di valori e possibilità che può
fare tanto bene agli Stati Uniti […]. Una forte immigrazione alla fine segna
sempre e trasforma la cultura di un luogo. […] In Argentina, la forte
immigrazione italiana ha segnato la cultura della società, e nello stile
culturale di Buenos Aires si nota molto la presenza di circa duecentomila
ebrei. Gli immigrati, se li si aiuta a integrarsi, sono una benedizione, una
ricchezza e un nuovo dono che invita una società a crescere».[118]
136. Allargando lo sguardo, con il Grande Imam
Ahmad Al-Tayyeb abbiamo
ricordato che «il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca
necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché
entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo
scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà
dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal
dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà
dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza,
dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale.
È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e
storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità,
della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti
umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per
tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della
doppia misura».[119]
Il fecondo interscambio
137. L’aiuto reciproco tra Paesi in definitiva
va a beneficio di tutti. Un Paese che progredisce sulla base del proprio
originale substrato culturale è un tesoro per tutta l’umanità. Abbiamo bisogno
di far crescere la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o nessuno si
salva. La povertà, il degrado, le sofferenze di una zona della terra sono un
tacito terreno di coltura di problemi che alla fine toccheranno tutto il
pianeta. Se ci preoccupa l’estinzione di alcune specie, dovrebbe assillarci il
pensiero che dovunque ci sono persone e popoli che non sviluppano il loro
potenziale e la loro bellezza a causa della povertà o di altri limiti
strutturali. Perché questo finisce per impoverirci tutti.
138. Se ciò è stato sempre certo, oggi lo è
più che mai a motivo della realtà di un mondo così interconnesso per la
globalizzazione. Abbiamo bisogno che un ordinamento mondiale giuridico,
politico ed economico «incrementi e orienti la collaborazione internazionale
verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli».[120] Questo
alla fine andrà a vantaggio di tutto il pianeta, perché «l’aiuto allo sviluppo
dei Paesi poveri» implica «creazione di ricchezza per tutti».[121] Dal
punto di vista dello sviluppo integrale, questo presuppone che si conceda
«anche alle Nazioni più povere una voce efficace nelle decisioni comuni»[122] e
che ci si adoperi per «incentivare l’accesso al mercato internazionale dei
Paesi segnati da povertà e sottosviluppo».[123]
Gratuità che accoglie
139. Tuttavia, non vorrei ridurre questa
impostazione a una qualche forma di utilitarismo. Esiste la gratuità. È la
capacità di fare alcune cose per il solo fatto che di per sé sono buone, senza
sperare di ricavarne alcun risultato, senza aspettarsi immediatamente qualcosa
in cambio. Ciò permette di accogliere lo straniero, anche se al momento non
porta un beneficio tangibile. Eppure ci sono Paesi che pretendono di accogliere
solo gli scienziati e gli investitori.
140. Chi non vive la gratuità fraterna fa
della propria esistenza un commercio affannoso, sempre misurando quello che dà
e quello che riceve in cambio. Dio, invece, dà gratis, fino al punto che aiuta
persino quelli che non sono fedeli, e «fa sorgere il
suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). Per questo Gesù
raccomanda: «Mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa
la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto» (Mt 6,3-4).
Abbiamo ricevuto la vita gratis, non abbiamo pagato per essa. Dunque tutti
possiamo dare senza aspettare qualcosa, fare il bene senza
pretendere altrettanto dalla persona che aiutiamo. È quello che Gesù diceva ai
suoi discepoli: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).
141. La vera qualità dei diversi Paesi del
mondo si misura da questa capacità di pensare non solo come Paese, ma anche
come famiglia umana, e questo si dimostra specialmente nei periodi critici. I
nazionalismi chiusi manifestano in definitiva questa incapacità di gratuità,
l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui e che
chiudendosi agli altri saranno più protetti. L’immigrato è visto come un
usurpatore che non offre nulla. Così, si arriva a pensare ingenuamente che i
poveri sono pericolosi o inutili e che i potenti sono generosi benefattori.
Solo una cultura sociale e politica che comprenda l’accoglienza gratuita potrà
avere futuro.
Locale e universale
142. Va ricordato che «tra la globalizzazione
e la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla
dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo
stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare
con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi
due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e
globalizzante, […]; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti
localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi
interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde
fuori dai loro confini».[124] Bisogna
guardare al globale, che ci riscatta dalla meschinità casalinga. Quando la casa
non è più famiglia, ma è recinto, cella, il globale ci riscatta perché è come
la causa finale che ci attira verso la pienezza. Al tempo stesso, bisogna
assumere cordialmente la dimensione locale, perché possiede qualcosa che il
globale non ha: essere lievito, arricchire, avviare dispositivi di
sussidiarietà. Pertanto, la fraternità universale e l’amicizia sociale
all’interno di ogni società sono due poli inseparabili e coessenziali.
Separarli conduce a una deformazione e a una polarizzazione dannosa.
Il sapore locale
143. La soluzione non è un’apertura che
rinuncia al proprio tesoro. Come non c’è dialogo con l’altro senza identità
personale, così non c’è apertura tra popoli se non a partire dall’amore alla
terra, al popolo, ai propri tratti culturali. Non mi incontro con l’altro se
non possiedo un substrato nel quale sto saldo e radicato, perché su quella base
posso accogliere il dono dell’altro e offrirgli qualcosa di autentico. È
possibile accogliere chi è diverso e riconoscere il suo apporto originale solo
se sono saldamente attaccato al mio popolo e alla sua cultura. Ciascuno ama e
cura con speciale responsabilità la propria terra e si preoccupa per il proprio
Paese, così come ciascuno deve amare e curare la propria casa perché non
crolli, dato che non lo faranno i vicini. Anche il bene del mondo richiede che
ognuno protegga e ami la propria terra. Viceversa, le conseguenze del disastro
di un Paese si ripercuoteranno su tutto il pianeta. Ciò si fonda sul
significato positivo del diritto di proprietà: custodisco e coltivo qualcosa
che possiedo, in modo che possa essere un contributo al bene di tutti.
144. Inoltre, questo è un presupposto degli
interscambi sani e arricchenti. L’esperienza di vivere in un certo luogo e in
una certa cultura è la base che rende capaci di cogliere aspetti della realtà,
che quanti non hanno tale esperienza non sono in grado di cogliere tanto facilmente.
L’universale non dev’essere il dominio omogeneo, uniforme e standardizzato di
un’unica forma culturale imperante, che alla fine perderà i colori del poliedro
e risulterà disgustosa. È la tentazione che emerge dall’antico racconto della
torre di Babele: la costruzione di una torre che arrivasse fino al cielo non
esprimeva l’unità tra vari popoli capaci di comunicare secondo la propria
diversità. Al contrario, era un tentativo fuorviante, nato dall’orgoglio e
dall’ambizione umana, di creare un’unità diversa da quella voluta da Dio nel
suo progetto provvidenziale per le nazioni (cfr Gen 11,1-9).
145. C’è una falsa apertura all’universale,
che deriva dalla vuota superficialità di chi non è capace di penetrare fino in
fondo nella propria patria, o di chi porta con sé un risentimento non risolto
verso il proprio popolo. In ogni caso, «bisogna sempre allargare lo sguardo per
riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi. Però occorre
farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le radici nella
terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di Dio. Si lavora
nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia. […] Non
è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili»[125],
è il poliedro, dove, mentre ognuno è rispettato nel suo valore, «il tutto è più
delle parti, ed è anche più della loro semplice somma».[126]
L’orizzonte universale
146. Ci sono narcisismi localistici che non
esprimono un sano amore per il proprio popolo e la propria cultura. Nascondono
uno spirito chiuso che, per una certa insicurezza e un certo timore verso
l’altro, preferisce creare mura difensive per preservare sé stesso. Ma non è
possibile essere locali in maniera sana senza una sincera e cordiale apertura
all’universale, senza lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, senza
lasciarsi arricchire da altre culture e senza solidarizzare con i drammi degli
altri popoli. Tale localismo si rinchiude ossessivamente tra poche idee, usanze
e sicurezze, incapace di ammirazione davanti alle molteplici possibilità e
bellezze che il mondo intero offre e privo di una solidarietà autentica e
generosa. Così, la vita locale non è più veramente recettiva, non si lascia più
completare dall’altro; pertanto, si limita nelle proprie possibilità di
sviluppo, diventa statica e si ammala. Perché, in realtà, ogni cultura sana è
per natura aperta e accogliente, così che «una cultura senza valori universali
non è una vera cultura».[127]
147. Riscontriamo che una persona, quanto
minore ampiezza ha nella mente e nel cuore, tanto meno potrà interpretare la
realtà vicina in cui è immersa. Senza il rapporto e il confronto con chi è
diverso, è difficile avere una conoscenza chiara e completa di sé stessi e
della propria terra, poiché le altre culture non sono nemici da cui bisogna
difendersi, ma sono riflessi differenti della ricchezza inesauribile della vita
umana. Guardando sé stessi dal punto di vista dell’altro, di chi è diverso,
ciascuno può riconoscere meglio le peculiarità della propria persona e della
propria cultura: le ricchezze, le possibilità e i limiti. L’esperienza che si
realizza in un luogo si deve sviluppare “in contrasto” e “in sintonia” con le
esperienze di altri che vivono in contesti culturali differenti.[128]
148. In realtà, una sana apertura non si pone
mai in contrasto con l’identità. Infatti, arricchendosi con elementi di diversa
provenienza, una cultura viva non ne realizza una copia o una mera ripetizione,
bensì integra le novità secondo modalità proprie. Questo provoca la nascita di
una nuova sintesi che alla fine va a beneficio di tutti, poiché la cultura in
cui tali apporti prendono origine risulta poi a sua volta alimentata. Perciò ho
esortato i popoli originari a custodire le loro radici e le loro culture
ancestrali, ma ho voluto precisare che non era «mia intenzione proporre un indigenismo completamente chiuso, astorico, statico, che si
sottragga a qualsiasi forma di meticciato», dal
momento che «la propria identità culturale si approfondisce e si arricchisce
nel dialogo con realtà differenti e il modo autentico di conservarla non è un
isolamento che impoverisce».[129] Il
mondo cresce e si riempie di nuova bellezza grazie a successive sintesi che si
producono tra culture aperte, fuori da ogni imposizione culturale.
149. Per stimolare un rapporto sano tra
l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera, conviene
ricordare che la società mondiale non è il risultato della somma dei vari
Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi, è la reciproca
inclusione, precedente rispetto al sorgere di ogni gruppo particolare. In tale
intreccio della comunione universale si integra ciascun gruppo umano e lì trova
la propria bellezza. Dunque, ogni persona che nasce in un determinato contesto
sa di appartenere a una famiglia più grande, senza la quale non è possibile
avere una piena comprensione di sé.
150. Questo approccio, in definitiva, richiede
di accettare con gioia che nessun popolo, nessuna cultura o persona può
ottenere tutto da sé. Gli altri sono costitutivamente
necessari per la costruzione di una vita piena. La consapevolezza del limite o
della parzialità, lungi dall’essere una minaccia, diventa la chiave secondo la
quale sognare ed elaborare un progetto comune. Perché «l’uomo è l’essere-limite
che non ha limite».[130]
Dalla propria regione
151. Grazie all’interscambio regionale, a
partire dal quale i Paesi più deboli si aprono al mondo intero, è possibile che
l’universalità non dissolva le particolarità. Un’adeguata e autentica apertura
al mondo presuppone la capacità di aprirsi al vicino, in una famiglia di
nazioni. L’integrazione culturale, economica e politica con i popoli
circostanti dovrebbe essere accompagnata da un processo educativo che promuova
il valore dell’amore per il vicino, primo esercizio indispensabile per ottenere
una sana integrazione universale.
152. In alcuni quartieri popolari si vive
ancora lo spirito del “vicinato”, dove ognuno sente spontaneamente il dovere di
accompagnare e aiutare il vicino. In questi luoghi che conservano tali valori
comunitari, si vivono i rapporti di prossimità con tratti di gratuità,
solidarietà e reciprocità, a partire dal senso di un “noi” di quartiere.[131] Sarebbe
auspicabile che ciò si potesse vivere anche tra Paesi vicini, con la capacità
di costruire una vicinanza cordiale tra i loro popoli. Ma le visioni
individualistiche si traducono nelle relazioni tra Paesi. Il rischio di vivere
proteggendoci gli uni dagli altri, vedendo gli altri come concorrenti o nemici
pericolosi, si trasferisce al rapporto con i popoli della regione. Forse siamo
stati educati in questa paura e in questa diffidenza.
153. Ci sono Paesi potenti e grandi imprese
che traggono profitto da questo isolamento e preferiscono trattare con ciascun
Paese separatamente. Al contrario, per i Paesi piccoli o poveri si apre la
possibilità di raggiungere accordi regionali con i vicini, che permettano loro
di trattare in blocco ed evitare di diventare segmenti marginali e dipendenti
dalle grandi potenze. Oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di
assicurare il bene comune della propria popolazione.
CAPITOLO QUINTO
LA MIGLIORE POLITICA
154. Per rendere possibile lo sviluppo di una
comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e
nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta
al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso
assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso.
Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi
in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme
liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi
si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per
tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.
Popolare o populista
156. Negli ultimi anni l’espressione
“populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in
generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle
polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di
classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da
una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è possibile che
qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno
di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera
esagerata.
157. La pretesa di porre il populismo come
chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto
che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire
dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa
“democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la
società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine
“popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le
maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può
pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un
progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a
lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò
trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non
li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si
rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.
158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non
è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso
che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una
categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che
cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono,
certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola
popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere
parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e
culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento,
difficile… verso un progetto comune».[132]
159. Ci sono leader popolari
capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le
grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e
guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di
crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella
ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta
nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare
politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al
servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere.
Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse
ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando
diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e
della legalità.
160. I gruppi populisti chiusi deformano la
parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo.
Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un
futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé
ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la
disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere
allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.
161. Un’altra espressione degenerata di un’autorità
popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si risponde a esigenze popolari
allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza progredire in un impegno
arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per
poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività. In questo senso
ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il proporre un populismo
irresponsabile».[133] Da
una parte, il superamento dell’inequità richiede di
sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e
assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra,
«i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero
considerare solo come risposte provvisorie».[135]
162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è
veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti
la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue
capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un
povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto
che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio
per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di
consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per
quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare
all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni
persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno.
Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della
dignità del lavoro».[137] In
una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile
della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche
un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere
sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento
del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.
Valori e limiti delle visioni liberali
163. La categoria di popolo, a cui è
intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è
abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la
società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto
per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti,
è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti
dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una
mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una
polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo
sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare
l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile.[138]
164. La carità riunisce entrambe le dimensioni
– quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino
efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le
istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali,
l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché «non
c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo
focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità,
di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la
condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro,
dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza
politica».[139]
165. La vera carità è capace di includere
tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro da persona
a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e
persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società
organizzata, libera e creativa sono capaci di generare. Nel caso specifico,
anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse
di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di
assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia
necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli
ultimi. Per altro verso, a volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine
sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che
arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in
balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò dimostra che è necessario far
crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo
un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi
impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua
volta implica che non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia
accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata ugualmente per
tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi
differenti.
166. Tutto ciò potrebbe avere ben poca
consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un
cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello
che succede quando la propaganda politica, i media e i
costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura
individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e
all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo
potere. Perciò, la mia critica al paradigma tecnocratico non significa che solo
cercando di controllare i suoi eccessi potremo stare sicuri, perché il pericolo
maggiore non sta nelle cose, nelle realtà materiali, nelle organizzazioni, ma
nel modo in cui le persone le utilizzano. La questione è la fragilità umana, la
tendenza umana costante all’egoismo, che fa parte di ciò che la tradizione
cristiana chiama “concupiscenza”: l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi
nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi
meschini. Questa concupiscenza non è un difetto della nostra epoca. Esiste da
che l’uomo è uomo e semplicemente si trasforma, acquisisce diverse modalità nel
corso dei secoli, utilizzando gli strumenti che il momento storico mette a sua
disposizione. Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio.
167. L’impegno educativo, lo sviluppo di
abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la
profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti
umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle proprie
ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici,
politici e mediatici. Ci sono visioni liberali che ignorano questo fattore
della fragilità umana e immaginano un mondo che risponde a un determinato
ordine capace di per sé stesso di assicurare il futuro e la soluzione di tutti
i problemi.
168. Il mercato da solo non risolve tutto,
benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si
tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette
di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso
tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del
“gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi
sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che
minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica
economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la
diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale»,[140] perché
sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione
finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare
strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia
reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica.Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare».[141] La
fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria
economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità
dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si
risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana
non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana
al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative
di cui abbiamo bisogno».[142]
169. In certe visioni economicistiche chiuse e
monocromatiche, sembra che non trovino posto, per esempio, i movimenti popolari
che aggregano disoccupati, lavoratori precari e informali e tanti altri che non
rientrano facilmente nei canali già stabiliti. In realtà, essi danno vita a
varie forme di economia popolare e di produzione comunitaria. Occorre pensare
alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali «che
includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali
e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal
coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune»; al tempo
stesso, è bene far sì «che questi movimenti, queste esperienze di solidarietà
che crescono dal basso, dal sottosuolo del pianeta, confluiscano, siano più
coordinati, s’incontrino».[143] Questo,
però, senza tradire il loro stile caratteristico, perché essi sono «seminatori
di cambiamento, promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e
grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia».[144] In
questo senso sono “poeti sociali”, che a modo loro lavorano, propongono,
promuovono e liberano. Con essi sarà possibile uno sviluppo umano integrale,
che richiede di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una
politica verso i poveri, ma mai con i poveri,
mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che
riunisca i popoli».[145] Benché
diano fastidio, benché alcuni “pensatori” non sappiano come classificarli,
bisogna avere il coraggio di riconoscere che senza di loro «la democrazia si
atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va
disincarnandosi perché lascia fuori il popolo nella sua lotta quotidiana per la
dignità, nella costruzione del suo destino».[146]
Il potere internazionale
170. Mi permetto di ripetere che «la crisi
finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più
attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività
finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una
reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a
governare il mondo».[147] Anzi,
pare che le effettive strategie sviluppatesi successivamente nel mondo siano
state orientate a maggiore individualismo, minore integrazione, maggiore
libertà per i veri potenti, che trovano sempre il modo di uscire indenni.
171. Vorrei insistere sul fatto che «dare a
ciascuno il suo, secondo la definizione classica di giustizia, significa che
nessun individuo o gruppo umano si può considerare onnipotente, autorizzato a
calpestare la dignità e i diritti delle altre persone singole o dei gruppi
sociali. La distribuzione di fatto del potere – politico, economico, militare,
tecnologico e così via – tra una pluralità di soggetti e la creazione di un
sistema giuridico di regolamentazione delle rivendicazioni e degli interessi,
realizza la limitazione del potere. Oggi il panorama mondiale ci presenta,
tuttavia, molti falsi diritti, e – nello stesso tempo – ampi settori senza
protezione, vittime piuttosto di un cattivo esercizio del potere».[148]
172. Il secolo XXI «assiste a una perdita di
potere degli Stati nazionali, soprattutto perché la dimensione
economico-finanziaria, con caratteri transnazionali, tende a predominare sulla
politica. In questo contesto, diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni
internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate
in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del
potere di sanzionare».[149] Quando
si parla della possibilità di qualche forma di autorità mondiale regolata dal
diritto,[150] non
necessariamente si deve pensare a un’autorità personale. Tuttavia, dovrebbe
almeno prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di
autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e
della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali.
173. In questa prospettiva, ricordo che è
necessaria una riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che
dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa
dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».[151] Senza
dubbio ciò presuppone limiti giuridici precisi, per evitare che si tratti di
un’autorità cooptata solo da alcuni Paesi e, nello stesso tempo, impedire
imposizioni culturali o la riduzione delle libertà essenziali delle nazioni più
deboli a causa di differenze ideologiche. Infatti, «quella internazionale è una
comunità giuridica fondata sulla sovranità di ogni Stato membro, senza vincoli
di subordinazione che ne neghino o ne limitino l’indipendenza».[152] Ma
«il compito delle Nazioni Unite, a partire dai postulati del Preambolo e dei
primi articoli della sua Carta costituzionale, può essere visto come lo
sviluppo e la promozione della sovranità del diritto, sapendo che la giustizia
è requisito indispensabile per realizzare l’ideale della fraternità universale.
[…] Bisogna assicurare il dominio incontrastato del diritto e l’infaticabile
ricorso al negoziato, ai buoni uffici e all’arbitrato, come proposto
dalla Carta delle Nazioni Unite, vera norma giuridica
fondamentale».[153] Occorre
evitare che questa Organizzazione sia delegittimata, perché i suoi problemi e
le sue carenze possono essere affrontati e risolti congiuntamente.
174. Ci vogliono coraggio e generosità per
stabilire liberamente determinati obiettivi comuni e assicurare l’adempimento
in tutto il mondo di alcune norme essenziali. Perché ciò sia veramente utile,
si deve sostenere «l’esigenza di tenere fede agli impegni sottoscritti (pacta sunt servanda)»,[154] in
modo da evitare «la tentazione di fare appello al diritto della forza piuttosto
che alla forza del diritto».[155] Ciò
richiede di potenziare «gli strumenti normativi per la soluzione pacifica delle
controversie […] in modo da rafforzarne la portata e l’obbligatorietà».[156] Tra
tali strumenti normativi vanno favoriti gli accordi multilaterali tra gli
Stati, perché garantiscono meglio degli accordi bilaterali la cura di un bene
comune realmente universale e la tutela degli Stati più deboli.
175. Grazie a Dio tante aggregazioni e
organizzazioni della società civile aiutano a compensare le debolezze della
Comunità internazionale, la sua mancanza di coordinamento in situazioni
complesse, la sua carenza di attenzione rispetto a diritti umani fondamentali e
a situazioni molto critiche di alcuni gruppi. Così acquista un’espressione
concreta il principio di sussidiarietà, che garantisce la partecipazione e
l’azione delle comunità e organizzazioni di livello minore, le quali integrano
in modo complementare l’azione dello Stato. Molte volte esse portano avanti
sforzi lodevoli pensando al bene comune e alcuni dei loro membri arrivano a
compiere gesti davvero eroici, che mostrano di quanta bellezza è ancora capace
la nostra umanità.
Una carità sociale e politica
176. Per molti la politica oggi è una brutta
parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso gli
errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. A ciò si aggiungono
le strategie che mirano a indebolirla, a sostituirla con l’economia o a dominarla
con qualche ideologia. E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può
trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza
una buona politica?[157]
La politica di cui c’è bisogno
177. Mi permetto di ribadire che «la politica
non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami
e al paradigma efficientista della tecnocrazia».[158] Benché
si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di
rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia
senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di
governare i vari aspetti della crisi attuale».[159] Al
contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e
che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo
interdisciplinare i diversi aspetti della crisi».[160] Penso
a «una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle
di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose».[161] Non
si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il
potere reale dello Stato.
178. Davanti a tante forme di politica
meschine e tese all’interesse immediato, ricordo che «la grandezza politica si
mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi e
pensando al bene comune a lungo termine. Il potere politico fa molta fatica ad
accogliere questo dovere in un progetto di Nazione»[162] e
ancora di più in un progetto comune per l’umanità presente e futura. Pensare a
quelli che verranno non serve ai fini elettorali, ma è ciò che esige una
giustizia autentica, perché, come hanno insegnato i Vescovi del Portogallo, la
terra «è un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla
generazione successiva».[163]
179. La società mondiale ha gravi carenze
strutturali che non si risolvono con rattoppi o soluzioni veloci meramente
occasionali. Ci sono cose che devono essere cambiate con reimpostazioni di
fondo e trasformazioni importanti. Solo una sana politica potrebbe averne la
guida, coinvolgendo i più diversi settori e i più vari saperi.
In tal modo, un’economia integrata in un progetto politico, sociale, culturale
e popolare che tenda al bene comune può «aprire la strada a opportunità
differenti, che non implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di
progresso, ma piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo».[164]
L’amore politico
180. Riconoscere ogni essere umano come un
fratello o una sorella e ricercare un’amicizia sociale che includa tutti non
sono mere utopie. Esigono la decisione e la capacità di trovare i percorsi
efficaci che ne assicurino la reale possibilità. Qualunque impegno in tale
direzione diventa un esercizio alto della carità. Perché un individuo può
aiutare una persona bisognosa, ma quando si unisce ad altri per dare vita a
processi sociali di fraternità e di giustizia per tutti, entra nel «campo della
più vasta carità, della carità politica».[165] Si
tratta di progredire verso un ordine sociale e politico la cui anima sia la
carità sociale.[166] Ancora
una volta invito a rivalutare la politica, che «è una vocazione altissima, è
una delle forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune».[167]
181. Tutti gli impegni che derivano dalla
dottrina sociale della Chiesa «sono attinti alla carità che, secondo
l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40)».[168] Ciò
richiede di riconoscere che «l’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca,
è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di
costruire un mondo migliore».[169] Per
questa ragione, l’amore si esprime non solo in relazioni intime e vicine, ma
anche nelle «macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici».[170]
182. Questa carità politica presuppone di aver
maturato un senso sociale che supera ogni mentalità individualistica: «La
carità sociale ci fa amare il bene comune e fa cercare effettivamente il bene
di tutte le persone, considerate non solo individualmente, ma anche nella dimensione
sociale che le unisce».[171] Ognuno
è pienamente persona quando appartiene a un popolo, e al tempo stesso non c’è
vero popolo senza rispetto per il volto di ogni persona. Popolo e persona sono
termini correlativi. Tuttavia, oggi si pretende di ridurre le persone a
individui, facilmente dominabili da poteri che mirano a interessi illeciti. La
buona politica cerca vie di costruzione di comunità nei diversi livelli della
vita sociale, in ordine a riequilibrare e riorientare la globalizzazione per
evitare i suoi effetti disgreganti.
Amore efficace
183. A partire dall’«amore sociale»[172] è
possibile progredire verso una civiltà dell’amore alla quale tutti possiamo
sentirci chiamati. La carità, col suo dinamismo universale, può costruire un
mondo nuovo,[173] perché
non è un sentimento sterile, bensì il modo migliore di raggiungere strade
efficaci di sviluppo per tutti. L’amore sociale è una «forza capace di
suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare
profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici».[174]
184. La carità è al cuore di ogni vita sociale
sana e aperta. Tuttavia, oggi «ne viene dichiarata facilmente l’irrilevanza a
interpretare e a dirigere le responsabilità morali».[175] È
molto di più che un sentimentalismo soggettivo, se essa si accompagna
all’impegno per la verità, così da non essere facile «preda delle emozioni e
delle opinioni contingenti dei soggetti».[176] Proprio
il suo rapporto con la verità favorisce nella carità il suo universalismo e
così la preserva dall’essere «relegata in un ambito ristretto e privato di
relazioni».[177] Altrimenti,
sarà «esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano
di portata universale, nel dialogo tra i saperi e le
operatività».[178] Senza
la verità, l’emotività si vuota di contenuti relazionali e sociali. Perciò
l’apertura alla verità protegge la carità da una falsa fede che resta «priva di
respiro umano e universale».[179]
185. La carità ha bisogno della luce della
verità che costantemente cerchiamo e «questa luce è, a un tempo, quella della
ragione e della fede»,[180] senza
relativismi. Ciò implica anche lo sviluppo delle scienze e il loro apporto
insostituibile al fine di trovare i percorsi concreti e più sicuri per
raggiungere i risultati sperati. Infatti, quando è in gioco il bene degli
altri, non bastano le buone intenzioni, ma si tratta di ottenere effettivamente
ciò di cui essi e le loro nazioni hanno bisogno per realizzarsi.
L’attività dell’amore politico
186. C’è un cosiddetto amore “elicito”,
vale a dire gli atti che procedono direttamente dalla virtù della carità,
diretti a persone e a popoli. C’è poi un amore “imperato”: quegli atti
della carità che spingono a creare istituzioni più sane, ordinamenti più
giusti, strutture più solidali.[181] Ne
consegue che è «un atto di carità altrettanto indispensabile l’impegno
finalizzato ad organizzare e strutturare la società in modo che il prossimo non
abbia a trovarsi nella miseria».[182] È
carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si
fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le
condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un
anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico
gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro
dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita
una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica.
I sacrifici dell’amore
187. Questa carità, cuore dello spirito della
politica, è sempre un amore preferenziale per gli ultimi, che sta dietro ogni
azione compiuta in loro favore.[183] Solo
con uno sguardo il cui orizzonte sia trasformato dalla carità, che lo porta a
cogliere la dignità dell’altro, i poveri sono riconosciuti e apprezzati nella
loro immensa dignità, rispettati nel loro stile proprio e nella loro cultura, e
pertanto veramente integrati nella società. Tale sguardo è il nucleo
dell’autentico spirito della politica. A partire da lì, le vie che si aprono
sono diverse da quelle di un pragmatismo senz’anima. Per esempio, «non si può
affrontare lo scandalo della povertà promuovendo strategie di contenimento che
unicamente tranquillizzano e trasformano i poveri in esseri addomesticati e
inoffensivi. Che triste vedere che, dietro a presunte opere altruistiche, si
riduce l’altro alla passività».[184] Quello
che occorre è che ci siano diversi canali di espressione e di partecipazione
sociale. L’educazione è al servizio di questo cammino, affinché ogni essere
umano possa diventare artefice del proprio destino. Qui mostra il suo valore il
principio di sussidiarietà, inseparabile dal principio di solidarietà.
188. Da ciò risulta l’urgenza di trovare una
soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani fondamentali. I
politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei
popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza,
dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che
conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. […] Significa farsi carico
del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci
di ungerlo di dignità».[185] Così
certamente si dà vita a un’attività intensa, perché «tutto dev’essere fatto per
tutelare la condizione e la dignità della persona umana».[186] Il
politico è un realizzatore, è un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo
ampio, realistico e pragmatico, anche al di là del proprio Paese. Le maggiori
preoccupazioni di un politico non dovrebbero essere quelle causate da una
caduta nelle inchieste, bensì dal non trovare un’effettiva soluzione al
«fenomeno dell’esclusione sociale ed economica, con le sue tristi conseguenze
di tratta degli esseri umani, commercio di organi e tessuti umani, sfruttamento
sessuale di bambini e bambine, lavoro schiavizzato, compresa la prostituzione,
traffico di droghe e di armi, terrorismo e crimine internazionale organizzato.
È tale l’ordine di grandezza di queste situazioni e il numero di vite innocenti
coinvolte, che dobbiamo evitare qualsiasi tentazione di cadere in un
nominalismo declamatorio con effetto tranquillizzante sulle coscienze. Dobbiamo
aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro
tutti questi flagelli».[187] Questo
si fa sfruttando con intelligenza le grandi risorse dello sviluppo tecnologico.
189. Siamo ancora lontani da una
globalizzazione dei diritti umani più essenziali. Perciò la politica mondiale
non può tralasciare di porre tra i suoi obiettivi principali e irrinunciabili
quello di eliminare effettivamente la fame. Infatti, «quando la speculazione
finanziaria condiziona il prezzo degli alimenti trattandoli come una merce
qualsiasi, milioni di persone soffrono e muoiono di fame. Dall’altra parte si
scartano tonnellate di alimenti. Ciò costituisce un vero scandalo. La fame è
criminale, l’alimentazione è un diritto inalienabile».[188] Tante
volte, mentre ci immergiamo in discussioni semantiche o ideologiche, lasciamo
che ancora oggi ci siano fratelli e sorelle che muoiono di fame e di sete,
senza un tetto o senza accesso alle cure per la loro salute. Insieme a questi
bisogni elementari non soddisfatti, la tratta di persone è un’altra vergogna
per l’umanità che la politica internazionale non dovrebbe continuare a
tollerare, al di là dei discorsi e delle buone intenzioni. È il minimo
indispensabile.
Amore che integra e raduna
190. La carità politica si esprime anche
nell’apertura a tutti. Specialmente chi ha la responsabilità di governare, è
chiamato a rinunce che rendano possibile l’incontro, e cerca la convergenza
almeno su alcuni temi. Sa ascoltare il punto di vista dell’altro consentendo
che tutti abbiano un loro spazio. Con rinunce e pazienza un governante può
favorire la creazione di quel bel poliedro dove tutti trovano un posto. In
questo ambito non funzionano le trattative di tipo economico. È qualcosa di
più, è un interscambio di offerte in favore del bene comune. Sembra un’utopia
ingenua, ma non possiamo rinunciare a questo altissimo obiettivo.
191. Mentre vediamo che ogni genere di
intolleranza fondamentalista danneggia le relazioni tra persone, gruppi e
popoli, impegniamoci a vivere e insegnare il valore del rispetto, l’amore
capace di accogliere ogni differenza, la priorità della dignità di ogni essere
umano rispetto a qualunque sua idea, sentimento, prassi e persino ai suoi
peccati. Mentre nella società attuale proliferano i fanatismi, le logiche
chiuse e la frammentazione sociale e culturale, un buon politico fa il primo
passo perché risuonino le diverse voci. È vero che le differenze generano
conflitti, ma l’uniformità genera asfissia e fa sì che ci fagocitiamo culturalmente.
Non rassegniamoci a vivere chiusi in un frammento di realtà.
192. In tale contesto, desidero ricordare che,
insieme con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, abbiamo chiesto «agli artefici della politica
internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per
diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di
intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue
innocente».[189] E
quando una determinata politica semina l’odio e la paura verso altre nazioni in
nome del bene del proprio Paese, bisogna preoccuparsi, reagire in tempo e
correggere immediatamente la rotta.
Più fecondità che risultati
193. Mentre porta avanti questa attività
instancabile, ogni politico è pur sempre un essere umano. È chiamato a vivere
l’amore nelle sue quotidiane relazioni interpersonali. È una persona, e ha
bisogno di accorgersi che «il mondo moderno, con la sua stessa perfezione
tecnica, tende a razionalizzare sempre di più la soddisfazione dei desideri
umani, classificati e suddivisi tra diversi servizi. Sempre meno si chiama un
uomo col suo nome proprio, sempre meno si tratterà come persona questo essere
unico al mondo, che ha il suo cuore, le sue sofferenze, i suoi problemi, le sue
gioie e la sua famiglia. Si conosceranno soltanto le sue malattie per curarle,
la sua mancanza di denaro per fornirglielo, il suo bisogno di casa per dargli
un alloggio, il suo desiderio di svago e di distrazioni per organizzarli».
Però, «amare il più insignificante degli esseri umani come un fratello, come se
al mondo non ci fosse altri che lui, non è perdere tempo».[190]
194. Anche nella politica c’è spazio per amare
con tenerezza. «Cos’è la tenerezza? È l’amore che si fa vicino e concreto. È un
movimento che parte dal cuore e arriva agli occhi, alle orecchie, alle mani.
[…] La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più
coraggiosi e forti».[191] In
mezzo all’attività politica, «i più piccoli, i più deboli, i più poveri debbono
intenerirci: hanno “diritto” di prenderci l’anima e il cuore. Sì, essi sono
nostri fratelli e come tali dobbiamo amarli e trattarli».[192]
195. Questo ci aiuta a riconoscere che non
sempre si tratta di ottenere grandi risultati, che a volte non sono possibili.
Nell’attività politica bisogna ricordare che «al di là di qualsiasi apparenza,
ciascuno è immensamente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizione.
Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già
sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele
di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si
riempie di volti e di nomi!».[193] I
grandi obiettivi sognati nelle strategie si raggiungono parzialmente. Al di là
di questo, chi ama e ha smesso di intendere la politica come una mera ricerca
di potere, «ha la sicurezza che non va perduta nessuna delle sue opere svolte
con amore, non va perduta nessuna delle sue sincere preoccupazioni per gli
altri, non va perduto nessun atto d’amore per Dio, non va perduta nessuna
generosa fatica, non va perduta nessuna dolorosa pazienza. Tutto ciò circola
attraverso il mondo come una forza di vita».[194]
196. D’altra parte, è grande nobiltà esser capaci
di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza
riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce
all’amore la speranza, la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore
della gente, malgrado tutto. Perciò, «la vita politica autentica, che si fonda
sul diritto e su un dialogo leale tra i soggetti, si rinnova con la convinzione
che ogni donna, ogni uomo e ogni generazione racchiudono in sé una promessa che
può sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e
spirituali».[195]
197. Vista in questo modo, la politica è più
nobile dell’apparire, del marketing, di varie forme di maquillage mediatico.
Tutto ciò non semina altro che divisione, inimicizia e uno scetticismo
desolante incapace di appellarsi a un progetto comune. Pensando al futuro, in
certi giorni le domande devono essere: “A che scopo? Verso dove sto puntando
realmente?”. Perché, dopo alcuni anni, riflettendo sul proprio passato, la
domanda non sarà: “Quanti mi hanno approvato, quanti mi hanno votato, quanti
hanno avuto un’immagine positiva di me?”. Le domande, forse dolorose, saranno:
“Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il
popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali
ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace sociale ho
seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?”.
CAPITOLO SESTO
DIALOGO E AMICIZIA SOCIALE
198. Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi,
guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto
questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda
abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo.
Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante
persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo
perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure
aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo
rendercene conto.
Il dialogo sociale verso una nuova cultura
199. Alcuni provano a fuggire dalla realtà
rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva,
ma «tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre
possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo,
perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti
alla verità. Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le sue
diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la
cultura giovanile, la cultura artistica e la cultura tecnologica, la cultura
economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media».[196]
200. Spesso si confonde il dialogo con
qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle reti sociali,
molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono
solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli
altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno,
a tal punto che i loro contenuti non di rado sono opportunistici e
contraddittori.
201. La risonante diffusione di fatti e
richiami nei media, in realtà chiude spesso le possibilità del
dialogo, perché permette che ciascuno, con la scusa degli errori altrui,
mantenga intatti e senza sfumature le idee, gli interessi e le scelte propri.
Predomina l’abitudine di screditare rapidamente l’avversario, attribuendogli
epiteti umilianti, invece di affrontare un dialogo aperto e rispettoso, in cui
si cerchi di raggiungere una sintesi che vada oltre. Il peggio è che questo
linguaggio, consueto nel contesto mediatico di una campagna politica, si è
talmente generalizzato che lo usano quotidianamente tutti. Il dibattito molte
volte è manipolato da determinati interessi che hanno maggior potere e cercano
in maniera disonesta di piegare l’opinione pubblica a loro favore. Non mi
riferisco soltanto al governo di turno, perché tale potere manipolatore può
essere economico, politico, mediatico, religioso o di qualsiasi genere. A volte
lo si giustifica o lo si scusa quando la sua dinamica corrisponde ai propri
interessi economici o ideologici, ma prima o poi si ritorce contro questi
stessi interessi.
202. La mancanza di dialogo comporta che
nessuno, nei singoli settori, si preoccupa del bene comune, bensì di ottenere i
vantaggi che il potere procura, o, nel migliore dei casi, di imporre il proprio
modo di pensare. Così i colloqui si ridurranno a mere trattative affinché
ciascuno possa accaparrarsi tutto il potere e i maggiori vantaggi possibili,
senza una ricerca congiunta che generi bene comune. Gli eroi del futuro saranno
coloro che sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere
con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali.
Dio voglia che questi eroi stiano silenziosamente venendo alla luce nel cuore
della nostra società.
Costruire insieme
203. L’autentico dialogo sociale presuppone la
capacità di rispettare il punto di vista dell’altro, accettando la possibilità
che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi. A partire dalla sua
identità, l’altro ha qualcosa da dare ed è auspicabile che approfondisca ed
esponga la sua posizione perché il dibattito pubblico sia ancora più completo.
È vero che quando una persona o un gruppo è coerente con quello che pensa,
aderisce saldamente a valori e convinzioni, e sviluppa un pensiero, ciò in un
modo o nell’altro andrà a beneficio della società. Ma questo avviene
effettivamente solo nella misura in cui tale sviluppo si realizza nel dialogo e
nell’apertura agli altri. Infatti, «in un vero spirito di dialogo si alimenta
la capacità di comprendere il significato di ciò che l’altro dice e fa, pur non
potendo assumerlo come una propria convinzione. Così diventa possibile essere
sinceri, non dissimulare ciò in cui crediamo, senza smettere di dialogare, di
cercare punti di contatto, e soprattutto di lavorare e impegnarsi insieme».[197] La
discussione pubblica, se veramente dà spazio a tutti e non manipola né nasconde
l’informazione, è uno stimolo costante che permette di raggiungere più
adeguatamente la verità, o almeno di esprimerla meglio. Impedisce che i vari
settori si posizionino comodi e autosufficienti nel loro modo di vedere le cose
e nei loro interessi limitati. Pensiamo che «le differenze sono creative,
creano tensione e nella risoluzione di una tensione consiste il progresso
dell’umanità».[198]
204. Oggi esiste la convinzione che, oltre
agli sviluppi scientifici specializzati, occorre la comunicazione tra
discipline, dal momento che la realtà è una, benché possa essere accostata da
diverse prospettive e con differenti metodologie. Non va trascurato il rischio
che un progresso scientifico venga considerato l’unico approccio possibile per
comprendere un aspetto della vita, della società e del mondo. Invece, un
ricercatore che avanza fruttuosamente nella sua analisi ed è anche disposto a
riconoscere altre dimensioni della realtà che indaga, grazie al lavoro di altre
scienze e altri saperi si apre a conoscere la realtà
in maniera più integra e piena.
205. In questo mondo globalizzato «i media possono
aiutare a farci sentire più prossimi gli uni agli altri; a farci percepire un
rinnovato senso di unità della famiglia umana che spinge alla solidarietà e
all’impegno serio per una vita più dignitosa. […] Possono aiutarci in questo,
particolarmente oggi, quando le reti della comunicazione umana hanno raggiunto
sviluppi inauditi. In particolare internet può offrire
maggiori possibilità di incontro e di solidarietà tra tutti, e questa è una
cosa buona, è un dono di Dio».[199] È
però necessario verificare continuamente che le attuali forme di comunicazione
ci orientino effettivamente all’incontro generoso, alla ricerca sincera della
verità piena, al servizio, alla vicinanza con gli ultimi, all’impegno di
costruire il bene comune. Nello stesso tempo, come hanno indicato i Vescovi
dell’Australia, «non possiamo accettare un mondo digitale progettato per
sfruttare la nostra debolezza e tirare fuori il peggio dalla gente».[200]
Il fondamento dei consensi
206. Il relativismo non è la soluzione. Sotto
il velo di una presunta tolleranza, finisce per favorire il fatto che i valori
morali siano interpretati dai potenti secondo le convenienze del momento. Se in
definitiva «non ci sono verità oggettive né principi stabili, al di fuori della
soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, […] non
possiamo pensare che i programmi politici o la forza della legge basteranno.
[…] Quando è la cultura che si corrompe e non si riconosce più alcuna verità
oggettiva o principi universalmente validi, le leggi verranno intese solo come
imposizioni arbitrarie e come ostacoli da evitare».[201]
207. È possibile prestare attenzione alla
verità, cercare la verità che risponde alla nostra realtà più profonda? Che
cos’è la legge senza la convinzione, raggiunta attraverso un lungo cammino di
riflessione e di sapienza, che ogni essere umano è sacro e inviolabile?
Affinché una società abbia futuro, è necessario che abbia maturato un sentito
rispetto verso la verità della dignità umana, alla quale ci sottomettiamo.
Allora non ci si asterrà dall’uccidere qualcuno solo per evitare il disprezzo
sociale e il peso della legge, bensì per convinzione. È una verità
irrinunciabile che riconosciamo con la ragione e accettiamo con la coscienza.
Una società è nobile e rispettabile anche perché coltiva la ricerca della
verità e per il suo attaccamento alle verità fondamentali.
208. Occorre esercitarsi a smascherare le
varie modalità di manipolazione, deformazione e occultamento della verità negli
ambiti pubblici e privati. Ciò che chiamiamo “verità” non è solo la
comunicazione di fatti operata dal giornalismo. È anzitutto la ricerca dei
fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre
leggi. Questo implica accettare che l’intelligenza umana può andare oltre le
convenienze del momento e cogliere alcune verità che non mutano, che erano
verità prima di noi e lo saranno sempre. Indagando sulla natura umana, la
ragione scopre valori che sono universali, perché da essa derivano.
209. Diversamente, non potrebbe forse
succedere che i diritti umani fondamentali, oggi considerati insormontabili,
vengano negati dai potenti di turno, dopo aver ottenuto il “consenso” di una
popolazione addormentata e impaurita? E nemmeno sarebbe sufficiente un mero
consenso tra i vari popoli, ugualmente manipolabile. Già abbiamo in abbondanza
prove di tutto il bene che siamo capaci di compiere, però, al tempo stesso,
dobbiamo riconoscere la capacità di distruzione che c’è in noi.
L’individualismo indifferente e spietato in cui siamo caduti, non è anche il
risultato della pigrizia nel ricercare i valori più alti, che vadano al di là
dei bisogni momentanei? Al relativismo si somma il rischio che il potente o il
più abile riesca a imporre una presunta verità. Invece, «di fronte alle norme
morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono privilegi né eccezioni
per nessuno. Essere il padrone del mondo o l’ultimo “miserabile”
sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle esigenze morali
siamo tutti assolutamente uguali».[202]
210. Quello che oggi ci accade, trascinandoci
in una logica perversa e vuota, è che si verifica un’assimilazione dell’etica e
della politica alla fisica. Non esistono il bene e il male in sé, ma solamente
un calcolo di vantaggi e svantaggi. Lo spostamento della ragione morale ha per
conseguenza che il diritto non può riferirsi a una concezione fondamentale di
giustizia, ma piuttosto diventa uno specchio delle idee dominanti. Entriamo qui
in una degenerazione: un andare “livellando verso il basso” mediante un
consenso superficiale e compromissorio. Così, in definitiva, la logica della
forza trionfa.
Il consenso e la verità
211. In una società pluralista, il dialogo è
la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre
affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale. Parliamo di un
dialogo che esige di essere arricchito e illuminato da ragioni, da argomenti
razionali, da varietà di prospettive, da apporti di diversi saperi
e punti di vista, e che non esclude la convinzione che è possibile giungere ad
alcune verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute.
Accettare che ci sono alcuni valori permanenti, benché non sia sempre facile
riconoscerli, conferisce solidità e stabilità a un’etica sociale. Anche quando
li abbiamo riconosciuti e assunti grazie al dialogo e al consenso, vediamo che
tali valori di base vanno al di là di ogni consenso, li riconosciamo come
valori che trascendono i nostri contesti e mai negoziabili. Potrà crescere la
nostra comprensione del loro significato e della loro importanza – e in questo
senso il consenso è una realtà dinamica – ma in sé stessi sono apprezzati come
stabili per il loro significato intrinseco.
212. Se una certa cosa rimane sempre
conveniente per il buon funzionamento della società, non è forse perché dietro
ad essa c’è una verità perenne, che l’intelligenza può cogliere? Nella realtà
stessa dell’essere umano e della società, nella loro natura intima, vi è una
serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro
sopravvivenza. Da lì derivano determinate esigenze che si possono scoprire
grazie al dialogo, anche se non sono costruite in senso stretto dal consenso.
Il fatto che certe norme siano indispensabili per la vita sociale stessa è un
indizio esterno di come esse siano qualcosa di intrinsecamente buono. Di
conseguenza, non è necessario contrapporre la convenienza sociale, il consenso,
e la realtà di una verità obiettiva. Tutt’e tre possono unirsi armoniosamente
quando, attraverso il dialogo, le persone hanno il coraggio di andare fino in
fondo a una questione.
213. Se bisogna rispettare in ogni situazione
la dignità degli altri, è perché noi non inventiamo o supponiamo tale dignità,
ma perché c’è effettivamente in essi un valore superiore rispetto alle cose
materiali e alle circostanze, che esige siano trattati in un altro modo. Che
ogni essere umano possiede una dignità inalienabile è una verità corrispondente
alla natura umana al di là di qualsiasi cambiamento culturale. Perciò l’essere
umano possiede la medesima dignità inviolabile in qualunque epoca storica e
nessuno può sentirsi autorizzato dalle circostanze a negare questa convinzione
o a non agire di conseguenza. L’intelligenza può dunque scrutare nella realtà
delle cose, attraverso la riflessione, l’esperienza e il dialogo, per
riconoscere in tale realtà che la trascende la base di certe esigenze morali
universali.
214. Agli agnostici, questo fondamento potrà
sembrare sufficiente per conferire una salda e stabile validità universale ai
principi etici basilari e non negoziabili, così da poter impedire nuove
catastrofi. Per i credenti, la natura umana, fonte di principi etici, è stata
creata da Dio, il quale, in ultima istanza, conferisce un fondamento solido a
tali principi.[203] Ciò
non stabilisce un fissismo etico né apre la strada all’imposizione di alcun
sistema morale, dal momento che i principi morali fondamentali e universalmente
validi possono dar luogo a diverse normative pratiche. Perciò rimane sempre uno
spazio per il dialogo.
Una nuova cultura
215. «La vita è l’arte dell’incontro, anche se
tanti scontri ci sono nella vita».[204] Tante
volte ho invitato a far crescere una cultura dell’incontro, che vada oltre le
dialettiche che mettono l’uno contro l’altro. È uno stile di vita che tende a
formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono
un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte».[205] Il
poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi,
arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e
diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile,
nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un
altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai
centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti.
L’incontro fatto cultura
216. La parola “cultura” indica qualcosa che è
penetrato nel popolo, nelle sue convinzioni più profonde e nel suo stile di
vita. Se parliamo di una “cultura” nel popolo, ciò è più di un’idea o di
un’astrazione. Comprende i desideri, l’entusiasmo e in definitiva un modo di vivere che caratterizza quel gruppo umano. Dunque,
parlare di “cultura dell’incontro” significa che come popolo ci appassiona il
volerci incontrare, il cercare punti di contatto, gettare ponti, progettare
qualcosa che coinvolga tutti. Questo è diventato un’aspirazione e uno stile di
vita. Il soggetto di tale cultura è il popolo, non un settore della società che
mira a tenere in pace il resto con mezzi professionali e mediatici.
217. La pace sociale è laboriosa, artigianale.
Sarebbe più facile contenere le libertà e le differenze con un po’ di astuzia e
di risorse. Ma questa pace sarebbe superficiale e fragile, non il frutto di una
cultura dell’incontro che la sostenga. Integrare le realtà diverse è molto più
difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida. Ciò non si
ottiene mettendo insieme solo i puri, perché «persino le persone che possono
essere criticate per i loro errori hanno qualcosa da apportare che non deve
andare perduto».[206] E
nemmeno consiste in una pace che nasce mettendo a tacere le rivendicazioni
sociali o evitando che facciano troppo rumore, perché non è «un consenso a
tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice».[207] Quello
che conta è avviare processi di incontro, processi che possano
costruire un popolo capace di raccogliere le differenze. Armiamo i nostri figli
con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro!
Il gusto di riconoscere l’altro
218. Questo implica la capacità abituale di
riconoscere all’altro il diritto di essere sé stesso e di essere diverso. A
partire da tale riconoscimento fattosi cultura, si rende possibile dar vita ad
un patto sociale. Senza questo riconoscimento emergono modi sottili di far sì
che l’altro perda ogni significato, che diventi irrilevante, che non gli si
riconosca alcun valore nella società. Dietro al rifiuto di certe forme visibili
di violenza, spesso si nasconde un’altra violenza più subdola: quella di coloro
che disprezzano il diverso, soprattutto quando le sue rivendicazioni
danneggiano in qualche modo i loro interessi.
219. Quando una parte della società pretende
di godere di tutto ciò che il mondo offre, come se i poveri non esistessero,
questo a un certo punto ha le sue conseguenze. Ignorare l’esistenza e i diritti
degli altri, prima o poi provoca qualche forma di violenza, molte volte
inaspettata. I sogni della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità possono
restare al livello delle mere formalità, perché non sono effettivamente per
tutti. Pertanto, non si tratta solamente di cercare un incontro tra coloro che
detengono varie forme di potere economico, politico o accademico. Un incontro
sociale reale pone in un vero dialogo le grandi forme culturali che
rappresentano la maggioranza della popolazione. Spesso le buone proposte non sono
fatte proprie dai settori più impoveriti perché si presentano con una veste
culturale che non è la loro e con la quale non possono sentirsi identificati.
Di conseguenza, un patto sociale realistico e inclusivo dev’essere anche un
“patto culturale”, che rispetti e assuma le diverse visioni del mondo, le
culture e gli stili di vita che coesistono nella società.
220. Per esempio, i popoli originari non sono
contro il progresso, anche se hanno un’idea di progresso diversa, molte volte
più umanistica di quella della cultura moderna dei popoli sviluppati. Non è una
cultura orientata al vantaggio di quanti hanno potere, di quanti hanno bisogno
di creare una specie di paradiso sulla terra. L’intolleranza e il disprezzo nei
confronti delle culture popolari indigene è una vera forma di violenza, propria
degli “eticisti” senza bontà che vivono giudicando
gli altri. Ma nessun cambiamento autentico, profondo e stabile è possibile se
non si realizza a partire dalle diverse culture, principalmente dei poveri. Un
patto culturale presuppone che si rinunci a intendere l’identità di un luogo in
modo monolitico, ed esige che si rispetti la diversità offrendole vie di
promozione e di integrazione sociale.
221. Questo patto richiede anche di accettare
la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune. Nessuno potrà possedere
tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa
pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti. La
ricerca di una falsa tolleranza deve cedere il passo al realismo dialogante, di
chi crede di dover essere fedele ai propri principi, riconoscendo tuttavia che
anche l’altro ha il diritto di provare ad essere fedele ai suoi. È il vero
riconoscimento dell’altro, che solo l’amore rende possibile e che significa mettersi
al posto dell’altro per scoprire che cosa c’è di autentico, o almeno di
comprensibile, tra le sue motivazioni e i suoi interessi.
Recuperare la gentilezza
222. L’individualismo consumista provoca molti
soprusi. Gli altri diventano meri ostacoli alla propria piacevole tranquillità.
Dunque si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta. Ciò si
accentua e arriva a livelli esasperanti nei periodi di crisi, in situazioni
catastrofiche, in momenti difficili, quando emerge lo spirito del “si salvi chi
può”. Tuttavia, è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci
sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità.
223. San Paolo menzionava un frutto dello
Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal 5,22), che esprime uno stato d’animo non
aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che
possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più
sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, delle
urgenze e delle angosce. È un modo di trattare gli altri che si manifesta in
diverse forme: come gentilezza nel tratto, come attenzione a non ferire con le
parole o i gesti, come tentativo di alleviare il peso degli altri. Comprende il
«dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che
consolano, che stimolano», invece di «parole che umiliano, che rattristano, che
irritano, che disprezzano».[208]
224. La gentilezza è una liberazione dalla
crudeltà che a volte penetra le relazioni umane, dall’ansietà che non ci lascia
pensare agli altri, dall’urgenza distratta che ignora che anche gli altri hanno
diritto a essere felici. Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili
per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire “permesso”, “scusa”,
“grazie”. Eppure ogni tanto si presenta il miracolo di una persona gentile, che
mette da parte le sue preoccupazioni e le sue urgenze per prestare attenzione, per
regalare un sorriso, per dire una parola di stimolo, per rendere possibile uno
spazio di ascolto in mezzo a tanta indifferenza. Questo sforzo, vissuto ogni
giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e
previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare
secondario né un atteggiamento superficiale o borghese. Dal momento che
presuppone stima e rispetto, quando si fa cultura in una società trasforma
profondamente lo stile di vita, i rapporti sociali, il modo di dibattere e di
confrontare le idee. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove
l’esasperazione distrugge tutti i ponti.
CAPITOLO SETTIMO
PERCORSI DI UN NUOVO INCONTRO
225. In molte parti del mondo occorrono
percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di
artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato
incontro con ingegno e audacia.
Ricominciare dalla verità
226. Nuovo incontro non significa tornare a un
momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le
contrapposizioni ci hanno trasformato. Inoltre, non c’è più spazio per
diplomazie vuote, per dissimulazioni, discorsi doppi, occultamenti, buone
maniere che nascondono la realtà. Quanti si sono confrontati duramente si
parlano a partire dalla verità, chiara e nuda. Hanno bisogno di imparare ad
esercitare una memoria penitenziale, capace di assumere il passato per liberare
il futuro dalle proprie insoddisfazioni, confusioni e proiezioni. Solo dalla
verità storica dei fatti potranno nascere lo sforzo perseverante e duraturo di
comprendersi a vicenda e di tentare una nuova sintesi per il bene di tutti. La
realtà è che «il processo di pace è quindi un impegno che dura nel tempo. È un
lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria
delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte
della vendetta».[209] Come
hanno affermato i Vescovi del Congo a proposito di un conflitto che si ripete,
«gli accordi di pace sulla carta non saranno mai sufficienti. Occorrerà andare
più lontano, includendo l’esigenza di verità sulle origini di questa crisi
ricorrente. Il popolo ha il diritto di sapere che cosa è successo».[210]
227. In effetti, «la verità è una compagna
inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono
essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce
che le altre siano alterate. […] La verità non deve, di fatto, condurre alla
vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare
alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti
scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli
operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di
violenza e di abusi. […] Ogni violenza commessa contro un essere umano è una
ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come
persone. […] La violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte
altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile».[211]
L’architettura e l’artigianato della pace
228. Il percorso verso la pace non richiede di
omogeneizzare la società, ma sicuramente ci permette di lavorare insieme. Può
unire molti nel perseguire ricerche congiunte in cui tutti traggono profitto.
Di fronte a un determinato obiettivo condiviso, si potranno offrire diverse
proposte tecniche, varie esperienze, e lavorare per il bene comune. Occorre
cercare di identificare bene i problemi che una società attraversa per
accettare che esistano diversi modi di guardare le difficoltà e di risolverle.
Il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la
possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –,
qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver
agito male. Infatti, «l’altro non va mai rinchiuso in ciò che ha potuto dire o
fare, ma va considerato per la promessa che porta in sé»,[212] promessa
che lascia sempre uno spiraglio di speranza.
229. Come hanno insegnato i Vescovi del
Sudafrica, la vera riconciliazione si raggiunge in maniera proattiva, «formando
una nuova società basata sul servizio agli altri, più che sul desiderio di
dominare; una società basata sul condividere con altri ciò che si possiede, più
che sulla lotta egoistica di ciascuno per la maggior ricchezza possibile; una
società in cui il valore di stare insieme come esseri umani è senz’altro più
importante di qualsiasi gruppo minore, sia esso la famiglia, la nazione,
l’etnia o la cultura».[213] I
Vescovi della Corea del Sud hanno segnalato che un’autentica pace «si può
ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo,
perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco».[214]
230. L’impegno arduo per superare ciò che ci
divide senza perdere l’identità di ciascuno presuppone che in tutti rimanga
vivo un fondamentale senso di appartenenza. Infatti, «la nostra società vince
quando ogni persona, ogni gruppo sociale, si sente veramente a casa. In una
famiglia, i genitori, i nonni, i bambini sono di casa; nessuno è escluso. Se
uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando “se l’è cercata”, gli altri
vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle
famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene
comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo
promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare.
I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno
sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire
a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui
vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe!
Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo,
che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?».[215]
231. Molte volte c’è un grande bisogno di
negoziare e così sviluppare percorsi concreti per la pace. Tuttavia, i processi
effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali
operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il
suo stile di vita quotidiana. Le grandi trasformazioni non si costruiscono alla
scrivania o nello studio. Dunque, «ognuno svolge un ruolo fondamentale, in un
unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina
piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione».[216] C’è
una “architettura” della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni
della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un
“artigianato” della pace che ci coinvolge tutti. A partire da diversi processi
di pace che si sviluppano in vari luoghi del mondo, «abbiamo imparato che
queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di
delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi
della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi
istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. […] Inoltre, è
sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori
che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le
comunità a colorare i processi di memoria collettiva».[217]
232. Non c’è un punto finale nella costruzione
della pace sociale di un Paese, bensì si tratta di «un compito che non dà
tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno
nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le
differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica,
persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di
porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana,
la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune. Che questo sforzo ci
faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e ricerca di interessi solo
particolari e a breve termine».[218] Le
manifestazioni pubbliche violente, da una parte e dall’altra, non aiutano a
trovare vie d’uscita. Soprattutto perché, come bene hanno osservato i Vescovi
della Colombia, quando si incoraggiano «mobilitazioni cittadine, non sempre
risultano chiari le loro origini e i loro obiettivi, ci sono alcune forme di
manipolazione politica e si riscontrano appropriazioni a favore di interessi
particolari».[219]
Soprattutto con gli ultimi
233. La promozione dell’amicizia sociale
implica non solo l’avvicinamento tra gruppi sociali distanti a motivo di
qualche periodo storico conflittuale, ma anche la ricerca di un rinnovato
incontro con i settori più impoveriti e vulnerabili. La pace «non è solo
assenza di guerra, ma l’impegno instancabile – soprattutto di quanti occupiamo
un ufficio di maggiore responsabilità – di riconoscere, garantire e ricostruire
concretamente la dignità, spesso dimenticata o ignorata, dei nostri fratelli,
perché possano sentirsi protagonisti del destino della propria nazione».[220]
234. Spesso gli ultimi della società sono
stati offesi con generalizzazioni ingiuste. Se talvolta i più poveri e gli
scartati reagiscono con atteggiamenti che sembrano antisociali, è importante
capire che in molti casi tali reazioni dipendono da una storia di disprezzo e
di mancata inclusione sociale. Come hanno insegnato i Vescovi latinoamericani,
«solo la vicinanza che ci rende amici ci permette di apprezzare profondamente i
valori dei poveri di oggi, i loro legittimi aneliti e il loro specifico modo di
vivere la fede. L’opzione per i poveri deve portarci all’amicizia con i
poveri».[221]
235. Quanti pretendono di portare la pace in
una società non devono dimenticare che l’inequità e
la mancanza di sviluppo umano integrale non permettono che si generi pace. In
effetti, «senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e
di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà
l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona
nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze
dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente
la tranquillità».[222] Se
si tratta di ricominciare, sarà sempre a partire dagli ultimi.
Il valore e il significato del perdono
236. Alcuni preferiscono non parlare di
riconciliazione, perché ritengono che il conflitto, la violenza e le fratture
fanno parte del funzionamento normale di una società. Di fatto, in qualunque
gruppo umano ci sono lotte di potere più o meno sottili tra vari settori. Altri
sostengono che ammettere il perdono equivale a cedere il proprio spazio perché
altri dominino la situazione. Perciò ritengono che sia meglio mantenere un
gioco di potere che permetta di sostenere un equilibrio di forze tra i diversi
gruppi. Altri credono che la riconciliazione sia una cosa da deboli, che non
sono capaci di un dialogo fino in fondo e perciò scelgono di sfuggire ai
problemi nascondendo le ingiustizie: incapaci di affrontare i problemi, preferiscono
una pace apparente.
Il conflitto inevitabile
237. Il perdono e la riconciliazione sono temi
di grande rilievo nel cristianesimo e, con varie modalità, in altre religioni.
Il rischio sta nel non comprendere adeguatamente le convinzioni dei credenti e
presentarle in modo tale che finiscano per alimentare il fatalismo, l’inerzia o
l’ingiustizia, oppure, dall’altro lato, l’intolleranza e la violenza.
238. Mai Gesù Cristo ha invitato a fomentare
la violenza o l’intolleranza. Egli stesso condannava apertamente l’uso della
forza per imporsi agli altri: «Voi sapete che i governanti delle nazioni
dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così» (Mt 20,25-26).
D’altra parte, il Vangelo chiede di perdonare «settanta volte sette» (Mt 18,22)
e fa l’esempio del servo spietato, che era stato perdonato ma a sua volta non è
stato capace di perdonare gli altri (cfr Mt 18,23-35).
239. Se leggiamo altri testi del Nuovo
Testamento, possiamo notare che di fatto le prime comunità, immerse in un mondo
pagano colmo di corruzione e di aberrazioni, vivevano un senso di pazienza,
tolleranza, comprensione. Alcuni testi sono molto chiari al riguardo: si invita
a riprendere gli avversari con dolcezza (cfr 2
Tm 2,25). Si raccomanda «di non parlare male di nessuno, di evitare le
liti, di essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini. Anche
noi un tempo eravamo insensati» (Tt 3,2-3).
Il libro degli Atti degli Apostoli afferma che i discepoli, perseguitati da
alcune autorità, “godevano il favore di tutto il popolo” (cfr
2,47; 4,21.33; 5,13).
240. Tuttavia, quando riflettiamo sul perdono,
sulla pace e sulla concordia sociale, ci imbattiamo in un’espressione di Cristo
che ci sorprende: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra;
sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo
da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici
dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10,34-36). È
importante situarla nel contesto del capitolo in cui è inserita. Lì è chiaro
che il tema di cui si tratta è quello della fedeltà alla propria scelta, senza
vergogna, benché ciò procuri contrarietà, e anche se le persone care si
oppongono a tale scelta. Pertanto, tali parole non invitano a cercare
conflitti, ma semplicemente a sopportare il conflitto inevitabile, perché il
rispetto umano non porti a venir meno alla fedeltà in ossequio a una presunta
pace familiare o sociale. San Giovanni Paolo II ha
affermato che la Chiesa «non intende condannare ogni e qualsiasi forma di
conflittualità sociale: la Chiesa sa bene che nella storia i conflitti di
interessi tra diversi gruppi sociali insorgono inevitabilmente e che di fronte
ad essi il cristiano deve spesso prender posizione con decisione e coerenza».[223]
Le lotte legittime e il perdono
241. Non si tratta di proporre un perdono
rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un criminale o a
qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza
eccezioni, però amare un oppressore non significa consentire che continui ad
essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è accettabile. Al
contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di
opprimere, è togliergli quel potere che non sa usare e che lo deforma come
essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che continuino a calpestare la
dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere.
Chi patisce ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua
famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che gli è stata data, una
dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei
cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella
persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso
contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa
necessità bensì la richiede.
242. Ciò che conta è non farlo per alimentare
un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per
un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette.
Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa
maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna
etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e
copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e
unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui
ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente
legali».[224] Così
non si guadagna nulla e alla lunga si perde tutto.
243. Certo, «non è un compito facile quello di
superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze lasciata dal
conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene (cfr Rm 12,21) e
coltivando quelle virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la
pace».[225] In
tal modo, «a chi la fa crescere dentro di sé, la bontà dona una coscienza tranquilla,
una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino di
fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di
rinunciare alla vendetta».[226] Occorre
riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore
contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non
perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che
porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un
incendio».[227]
Il vero superamento
244. Quando i conflitti non si risolvono ma si
nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che possono
significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera
riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto,
superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e
paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si astenga dagli atti di
inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma a poco a poco in una onesta
discussione, fondata nella ricerca della giustizia».[228]
245. Più volte ho proposto «un principio che è
indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al
conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno
nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le
preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[229] Sappiamo
bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in
alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e
l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i conflitti, le
tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato,
possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita».[230]
La memoria
246. Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto
e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”. La
riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una
società, anche quando abbia il compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente
personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può rinunciare ad
esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46),
benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad esso. Tuttavia
non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di
chiudere le ferite per decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di
oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli altri? È
commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo
andare al di là del danno patito, ma è pure umano comprendere coloro che non
possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre è il dimenticare.
247. La Shoah non va
dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando,
fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni
persona, la quale merita rispetto assoluto qualunque sia il popolo a cui
appartiene e la religione che professa».[231] Nel
ricordarla, non posso fare a meno di ripetere questa preghiera: «Ricordati di
noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come
uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria,
di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal
fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai
più!».[232]
248. Non vanno dimenticati i bombardamenti
atomici a Hiroshima e Nagasaki. Ancora una volta «faccio memoria qui di tutte
le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di coloro che,
essendo sopravvissuti a quei primi momenti, hanno sopportato nei propri corpi
per molti anni le sofferenze più acute e, nelle loro menti, i germi della morte
che hanno continuato a consumare la loro energia vitale. […] Non possiamo
permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto
accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più
giusto e fraterno».[233] E
nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri
etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti
storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre
nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci.
249. È facile oggi cadere nella tentazione di
voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare
avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce
senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere «la fiamma
della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore
di ciò che accadde», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria delle
vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni
volontà di dominio e di distruzione».[234] Ne
hanno bisogno le vittime stesse – persone, gruppi sociali o nazioni – per non
cedere alla logica che porta a giustificare la rappresaglia e ogni violenza in
nome del grande male subito. Per questo, non mi riferisco solo alla memoria
degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato
e corrotto, sono stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi
gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità. Fa molto bene
fare memoria del bene.
Perdono senza dimenticanze
250. Il perdono non implica il dimenticare.
Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo può essere negato,
relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa
che mai dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo
perdonare. Quando c’è qualcosa che per nessuna ragione dobbiamo permetterci di
dimenticare, tuttavia, possiamo perdonare. Il perdono libero e sincero è una
grandezza che riflette l’immensità del perdono divino. Se il perdono è
gratuito, allora si può perdonare anche a chi stenta a pentirsi ed è incapace
di chiedere perdono.
251. Quanti perdonano davvero non dimenticano,
ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva che ha fatto
loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze
della distruzione. Decidono di non continuare a inoculare nella società
l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere ancora una volta
su loro stessi. Infatti, la vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione
delle vittime. Ci sono crimini così orrendi e crudeli, che far soffrire chi li
ha commessi non serve per sentire che si è riparato il delitto; e nemmeno
basterebbe uccidere il criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili
a ciò che ha potuto soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla.
252. Neppure stiamo parlando di impunità. Ma
la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore della giustizia
stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a
tutelare il bene comune, non come un presunto sfogo della propria ira. Il
perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia senza cadere nel
circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare.
253. Quando vi sono state ingiustizie da ambo
le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver avuto la stessa
gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle
strutture e del potere dello Stato non sta allo stesso livello della violenza
di gruppi particolari. In ogni caso, non si può pretendere che vengano
ricordate solamente le sofferenze ingiuste di una sola delle parti. Come hanno
insegnato i Vescovi della Croazia, «noi dobbiamo ad ogni vittima innocente il
medesimo rispetto. Non vi possono essere differenze etniche, confessionali,
nazionali o politiche».[235]
254. Chiedo a Dio «di preparare i nostri cuori
all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura,
religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia
che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie;
la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi
della ricerca della pace».[236]
La guerra e la pena di morte
255. Ci sono due situazioni estreme che
possono arrivare a presentarsi come soluzioni in circostanze particolarmente
drammatiche, senza avvisare che sono false risposte, che non risolvono i
problemi che pretendono di superare e che in definitiva non fanno che
aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto della società nazionale e
mondiale. Si tratta della guerra e della pena di morte.
L’ingiustizia della guerra
256. «L’inganno è nel cuore di chi trama il
male, la gioia invece è di chi promuove la pace» (Pr 12,20).
Tuttavia, c’è chi cerca soluzioni nella guerra, che spesso «si nutre del
pervertimento delle relazioni, di ambizioni egemoniche, di abusi di potere, di
paura dell’altro e della diversità vista come ostacolo».[237] La
guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante. Il
mondo sta trovando sempre più difficoltà nel lento cammino della pace che aveva
intrapreso e che cominciava a dare alcuni frutti.
257. Poiché si stanno creando nuovamente le condizioni
per la proliferazione di guerre, ricordo che «la guerra è la negazione di tutti
i diritti e una drammatica aggressione all’ambiente. Se si vuole un autentico
sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi
nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli.
A tal fine bisogna assicurare il dominio
incontrastato del diritto e l’infaticabile ricorso al negoziato, ai buoni
uffici e all’arbitrato, come proposto dalla Carta delle Nazioni Unite,
vera norma giuridica fondamentale».[238] Voglio
rilevare che i 75 anni delle Nazioni Unite e l’esperienza dei primi 20 anni di
questo millennio mostrano che la piena applicazione delle norme internazionali
è realmente efficace, e che il loro mancato adempimento è nocivo. La Carta
delle Nazioni Unite, rispettata e applicata con trasparenza e sincerità, è
un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e un veicolo di pace. Ma ciò
esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi
particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se
la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta
favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che
danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i
beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale.
258. È così che facilmente si opta per la
guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o
preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto,
negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una
“giustificazione”. Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della
possibilità di una legittima difesa mediante la forza
militare, con il presupposto di dimostrare che vi siano alcune «rigorose
condizioni di legittimità morale».[239] Tuttavia
si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile
diritto. Così si vogliono giustificare indebitamente anche attacchi
“preventivi” o azioni belliche che difficilmente non trascinano «mali e
disordini più gravi del male da eliminare».[240] La
questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e
biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove
tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che
colpisce molti civili innocenti. In verità, «mai l’umanità ha avuto tanto
potere su sé stessa e niente garantisce che lo utilizzerà bene».[241] Dunque
non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi
probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si
attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri
razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra
giusta”. Mai più la guerra![242]
259. È importante aggiungere che, con lo
sviluppo della globalizzazione, ciò che può apparire come una soluzione
immediata o pratica per una determinata regione, dà adito a una catena di
fattori violenti molte volte sotterranei che finisce per colpire l’intero
pianeta e aprire la strada a nuove e peggiori guerre future. Nel nostro mondo
ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive
una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro
fortemente connesse nello scenario mondiale.
260. Come diceva San Giovanni XXIII, «riesce quasi
impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come
strumento di giustizia».[243] Lo
affermava in un periodo di forte tensione internazionale, e così diede voce al
grande anelito alla pace che si diffondeva ai tempi della guerra fredda.
Rafforzò la convinzione che le ragioni della pace sono più forti di ogni
calcolo di interessi particolari e di ogni fiducia posta nell’uso delle armi.
Però non si colsero pienamente le occasioni offerte dalla fine della guerra
fredda, per la mancanza di una visione del futuro e di una consapevolezza
condivisa circa il nostro destino comune. Invece si cedette alla ricerca di
interessi particolari senza farsi carico del bene comune universale. Così si è
fatto di nuovo strada l’ingannevole fantasma della guerra.
261. Ogni guerra lascia il mondo peggiore di
come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità,
una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non
fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo
la carne di chi subisce i danni. Rivolgiamo lo sguardo a tanti civili
massacrati come “danni collaterali”. Domandiamo alle vittime. Prestiamo
attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli
attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o
privati della loro infanzia. Consideriamo la verità di queste vittime della
violenza, guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col
cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra
e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la
pace.
262. Neppure le norme saranno sufficienti, se
si pensa che la soluzione ai problemi attuali consista nel dissuadere gli altri
mediante la paura, minacciandoli con l’uso delle armi nucleari, chimiche o
biologiche. Infatti, «se si prendono in considerazione le principali minacce
alla pace e alla sicurezza con le loro molteplici dimensioni in questo mondo
multipolare del XXI secolo, come, ad esempio, il terrorismo, i conflitti
asimmetrici, la sicurezza informatica, le problematiche ambientali, la povertà,
non pochi dubbi emergono circa l’inadeguatezza della deterrenza nucleare a
rispondere efficacemente a tali sfide. Siffatte preoccupazioni assumono ancor
più consistenza quando consideriamo le catastrofiche conseguenze umanitarie e
ambientali che derivano da qualsiasi utilizzo degli ordigni nucleari con
devastanti effetti indiscriminati e incontrollabili nel tempo e nello spazio.
[…] Dobbiamo anche chiederci quanto sia sostenibile un equilibro basato sulla
paura, quando esso tende di fatto ad aumentare la paura e a minare le relazioni
di fiducia fra i popoli. La pace e la stabilità internazionali non possono
essere fondate su un falso senso di sicurezza, sulla minaccia di una
distruzione reciproca o di totale annientamento, sul semplice mantenimento di
un equilibrio di potere. […] In tale contesto, l’obiettivo finale
dell’eliminazione totale delle armi nucleari diventa sia una sfida sia un
imperativo morale e umanitario. […] La crescente interdipendenza e la
globalizzazione significano che qualunque risposta diamo alla minaccia delle
armi nucleari, essa debba essere collettiva e concertata, basata sulla fiducia
reciproca. Quest’ultima può essere costruita solo attraverso un dialogo che sia
sinceramente orientato verso il bene comune e non verso la tutela di interessi
velati o particolari».[244] E
con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo
un Fondo mondiale[245] per
eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i
loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano
costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa.
La pena di morte
263. C’è un altro modo di eliminare l’altro,
non destinato ai Paesi ma alle persone. È la pena di morte. San Giovanni Paolo
II ha dichiarato in maniera chiara e ferma che essa è inadeguata sul piano
morale e non è più necessaria sul piano penale.[246] Non
è possibile pensare a fare passi indietro rispetto a questa posizione. Oggi
affermiamo con chiarezza che «la pena di morte è inammissibile»[247] e
la Chiesa si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il
mondo.[248]
264. Nel Nuovo Testamento, mentre si chiede ai
singoli di non farsi giustizia da sé stessi (cfr Rm 12,17.19), si riconosce la necessità che le
autorità impongano pene a coloro che fanno il male (cfr Rm 13,4; 1 Pt 2,14).
In effetti, «la vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha
bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta
adeguata».[249] Ciò
comporta che l’autorità pubblica legittima possa e debba «comminare pene
proporzionate alla gravità dei delitti»[250] e
che garantisca al potere giudiziario «l’indipendenza necessaria nell’ambito
della legge».[251]
265. Fin dai primi secoli della Chiesa, alcuni
si mostrarono chiaramente contrari alla pena capitale. Ad esempio, Lattanzio
sosteneva che «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà un crimine uccidere
un uomo».[252] Papa
Nicola I esortava: «Sforzatevi di liberare dalla pena di morte non solo
ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli».[253] In
occasione del giudizio contro alcuni omicidi che avevano assassinato dei
sacerdoti, Sant’Agostino chiese al giudice di non togliere la vita agli
assassini, e lo giustificava in questo modo: «Non che vogliamo con ciò impedire
che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma
desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna
parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla loro
insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o che,
sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile.
Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un
benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero
all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento? […]
Sdegnati contro l’iniquità in modo però da non dimenticare l’umanità; non
sfogare la voluttà della vendetta contro le atrocità dei peccatori, ma rivolgi
la volontà a curarne le ferite».[254]
266. Le paure e i rancori facilmente portano a
intendere le pene in modo vendicativo, quando non crudele, invece di
considerarle come parte di un processo di guarigione e di reinserimento
sociale. Oggi, «tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni
mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta,
pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso
delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno,
di aver infranto la legge. […]
C’è la tendenza a costruire deliberatamente
dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le
caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I
meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo,
permisero l’espansione delle idee razziste».[255] Ciò
ha reso particolarmente rischiosa l’abitudine sempre più presente in alcuni
Paesi di ricorrere a carcerazioni preventive, a reclusioni senza giudizio e
specialmente alla pena di morte.
267. Desidero sottolineare che «è impossibile
immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non
sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre
persone». Particolare gravità rivestono le cosiddette esecuzioni
extragiudiziarie o extralegali, che «sono omicidi deliberati commessi da alcuni
Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o
presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e
proporzionato della forza per far applicare la legge».[256]
268. «Gli argomenti contrari alla pena di
morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato
alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziario, e l’uso che
di tale pena fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come
strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle
minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive
legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona
volontà sono dunque chiamati oggi a lottare non solo per l’abolizione della
pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al
fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana
delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo.
[…] L’ergastolo è una pena di morte nascosta».[257]
269. Ricordiamo che «neppure l’omicida perde
la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante».[258] Il
fermo rifiuto della pena di morte mostra fino a che punto è possibile
riconoscere l’inalienabile dignità di ogni essere umano e ammettere che abbia
un suo posto in questo mondo. Poiché, se non lo nego al peggiore dei criminali,
non lo negherò a nessuno, darò a tutti la possibilità di condividere con me
questo pianeta malgrado ciò che possa separarci.
270. I cristiani che dubitano e si sentono
tentati di cedere a qualsiasi forma di violenza, li invito a ricordare
l’annuncio del libro di Isaia: «Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri»
(2,4). Per noi questa profezia prende carne in Gesù Cristo, che di fronte a un
discepolo eccitato dalla violenza disse con fermezza: «Rimetti la tua spada al
suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (Mt 26,52).
Era un’eco di quell’antico ammonimento: «Domanderò conto della vita dell’uomo
all’uomo, a ognuno di suo fratello. Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo
il suo sangue sarà sparso» (Gen 9,5-6).
Questa reazione di Gesù, che uscì spontanea dal suo cuore, supera la distanza
dei secoli e giunge fino a oggi come un costante richiamo.
CAPITOLO OTTAVO
LE RELIGIONI AL SERVIZIO DELLA FRATERNITÀ
NEL MONDO
271. Le diverse religioni, a partire dal
riconoscimento del valore di ogni persona umana come creatura chiamata ad
essere figlio o figlia di Dio, offrono un prezioso apporto per la costruzione
della fraternità e per la difesa della giustizia nella società. Il dialogo tra
persone di religioni differenti non si fa solamente per diplomazia, cortesia o
tolleranza. Come hanno insegnato i Vescovi dell’India, «l’obiettivo del dialogo
è stabilire amicizia, pace, armonia e condividere valori ed esperienze morali e
spirituali in uno spirito di verità e amore».[259]
Il fondamento ultimo
272. Come credenti pensiamo che, senza
un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per
l’appello alla fraternità. Siamo convinti che «soltanto con questa coscienza di
figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi».[260] Perché
«la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di
stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la
fraternità».[261]
273. In questa prospettiva, desidero ricordare
un testo memorabile: «Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla
quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio
sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di
classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se
non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e
ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il
proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell’altro.
[…] La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella
negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del
Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti
che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la
Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale,
ponendosi contro la minoranza».[262]
274. A partire dalla nostra esperienza di fede
e dalla sapienza che si è andata accumulando nel corso dei secoli, imparando
anche da molte nostre debolezze e cadute, come credenti delle diverse religioni
sappiamo che rendere presente Dio è un bene per le nostre società. Cercare Dio
con cuore sincero, purché non lo offuschiamo con i nostri interessi ideologici
o strumentali, ci aiuta a riconoscerci compagni di strada, veramente fratelli.
Crediamo che «quando, in nome di un’ideologia, si vuole estromettere Dio dalla
società, si finisce per adorare degli idoli, e ben presto l’uomo smarrisce sé
stesso, la sua dignità è calpestata, i suoi diritti violati. Voi sapete bene a
quali brutalità può condurre la privazione della libertà di coscienza e della
libertà religiosa, e come da tale ferita si generi una umanità radicalmente
impoverita, perché priva di speranza e di riferimenti ideali».[263]
275. Va riconosciuto come «tra le più
importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana
anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio
dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e
mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e
trascendenti».[264] Non
è accettabile che nel dibattito pubblico abbiano voce soltanto i potenti e gli
scienziati. Dev’esserci uno spazio per la riflessione che procede da uno sfondo
religioso che raccoglie secoli di esperienza e di sapienza. «I testi religiosi
classici possono offrire un significato destinato a tutte le epoche,posseggono una forza motivante», ma di fatto
«vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei razionalismi».[265]
276. Per queste ragioni, benché la Chiesa
rispetti l’autonomia della politica, non relega la propria missione all’ambito
del privato. Al contrario, «non può e non deve neanche restare ai margini»
nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze
spirituali»[266] che
possano fecondare tutta la vita sociale. È vero che i ministri religiosi non
devono fare politica partitica, propria dei laici, però nemmeno possono
rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza[267] che
implica una costante attenzione al bene comune e la preoccupazione per lo
sviluppo umano integrale. La Chiesa «ha un ruolo pubblico che non si esaurisce
nelle sue attività di assistenza o di educazione» ma che si adopera per la
«promozione dell’uomo e della fraternità universale».[268] Non
aspira a competere per poteri terreni, bensì ad offrirsi come «una famiglia tra
le famiglie – questo è la Chiesa –, aperta a testimoniare […] al mondo odierno
la fede, la speranza e l’amore verso il Signore e verso coloro che Egli ama con
predilezione. Una casa con le porte aperte. La Chiesa è una casa con le porte
aperte, perché è madre».[269] E
come Maria, la Madre di Gesù, «vogliamo essere una Chiesa che serve, che esce
di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la
vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti,
abbattere muri, seminare riconciliazione».[270]
L’identità cristiana
277. La Chiesa apprezza l’azione di Dio nelle
altre religioni, e «nulla rigetta di quanto è vero e
santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di
agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che […] non raramente
riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini».[271] Tuttavia
come cristiani non possiamo nascondere che «se la musica del Vangelo smette di
vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla
compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della
riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se
la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze,
nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia
che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna».[272] Altri
bevono ad altre fonti. Per noi, questa sorgente di dignità umana e di
fraternità sta nel Vangelo di Gesù Cristo. Da esso «scaturisce per il pensiero
cristiano e per l’azione della Chiesa il primato dato alla relazione,
all’incontro con il mistero sacro dell’altro, alla comunione universale con
l’umanità intera come vocazione di tutti».[273]
278. Chiamata a incarnarsi in ogni situazione
e presente attraverso i secoli in ogni luogo della terra – questo significa
“cattolica” –, la Chiesa può comprendere, a partire dalla propria esperienza di
grazia e di peccato, la bellezza dell’invito all’amore universale. Infatti,
«tutto ciò ch’è umano ci riguarda. […] Dovunque i consessi dei popoli si
riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati,
quando ce lo consentono, di assiderci fra loro».[274] Per
molti cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome
Maria. Ella ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e
la sua attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al «resto della sua
discendenza» (Ap 12,17). Con la potenza
del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci
sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia
e la pace.
279. Come cristiani chiediamo che, nei Paesi
in cui siamo minoranza, ci sia garantita la libertà, così come noi la favoriamo
per quanti non sono cristiani là dove sono minoranza. C’è un diritto umano
fondamentale che non va dimenticato nel cammino della fraternità e della pace:
è la libertà religiosa per i credenti di tutte le religioni. Tale libertà
manifesta che possiamo «trovare un buon accordo tra culture e religioni
differenti; testimonia che le cose che abbiamo in comune sono così tante e
importanti che è possibile individuare una via di convivenza serena, ordinata e
pacifica, nell’accoglienza delle differenze e nella gioia di essere fratelli
perché figli di un unico Dio».[275]
280. Nello stesso tempo, chiediamo a Dio di
rafforzare l’unità nella Chiesa, unità arricchita da diversità che si
riconciliano per l’azione dello Spirito Santo. Infatti «siamo stati battezzati
mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,13),
dove ciascuno dà il suo apporto peculiare. Come diceva Sant’Agostino,
«l’orecchio vede attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio».[276] È
urgente inoltre continuare a dare testimonianza di un cammino di incontro tra
le diverse confessioni cristiane. Non possiamo dimenticare il desiderio espresso
da Gesù: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Ascoltando il suo invito, riconosciamo con dolore che al processo di
globalizzazione manca ancora il contributo profetico e spirituale dell’unità
tra tutti i cristiani. Ciò nonostante, «pur essendo ancora in cammino verso la
piena comunione, abbiamo sin d’ora il dovere di offrire una testimonianza
comune all’amore di Dio verso tutti, collaborando nel servizio all’umanità».[277]
Religione e violenza
281. Tra le religioni è possibile un cammino
di pace. Il punto di partenza dev’essere lo sguardo di Dio. Perché «Dio non
guarda con gli occhi, Dio guarda con il cuore. E l’amore di Dio è lo stesso per
ogni persona, di qualunque religione sia. E se è ateo, è lo stesso amore.
Quando arriverà l’ultimo giorno e ci sarà sulla terra la luce sufficiente per
poter vedere le cose come sono, avremo parecchie sorprese!».[278]
282. Anche «i credenti hanno bisogno di
trovare spazi per dialogare e agire insieme per il bene comune e la promozione
dei più poveri. Non si tratta di renderci tutti più light o di
nascondere le convinzioni proprie, alle quali siamo più legati, per poterci
incontrare con altri che pensano diversamente. […] Perché tanto più profonda,
solida e ricca è un’identità, tanto più potrà arricchire gli altri con il suo
peculiare contributo».[279] Come
credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci
sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che
alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano
per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione
dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni
religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni.
283. Il culto a Dio, sincero e umile, «porta
non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la
sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e
all’amorevole impegno per il benessere di tutti».[280] In
realtà, «chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,8). Pertanto, «il terrorismo esecrabile che
minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a
Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla
religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle
accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame,
di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è
necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il
rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la
copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che
minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale
terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni».[281] Le
convinzioni religiose riguardo al senso sacro della vita umana ci permettono di
«riconoscere i valori fondamentali della comune umanità, valori in nome dei
quali si può e si deve collaborare, costruire e dialogare, perdonare e
crescere, permettendo all’insieme delle diverse voci di formare un nobile e
armonico canto, piuttosto che urla fanatiche di odio».[282]
284. Talvolta la violenza fondamentalista
viene scatenata in alcuni gruppi di qualsiasi religione dall’imprudenza dei
loro leader. Tuttavia, «il comandamento della pace è inscritto nel
profondo delle tradizioni religiose che rappresentiamo. […] Come leader religiosi
siamo chiamati ad essere veri “dialoganti”, ad agire nella costruzione della
pace non come intermediari, ma come autentici mediatori. Gli intermediari
cercano di fare sconti a tutte le parti, al fine di ottenere un guadagno per
sé. Il mediatore, invece, è colui che non trattiene nulla per sé, ma si spende
generosamente, fino a consumarsi, sapendo che l’unico guadagno è quello della
pace. Ciascuno di noi è chiamato ad essere un artigiano della pace, unendo e
non dividendo, estinguendo l’odio e non conservandolo, aprendo le vie del
dialogo e non innalzando nuovi muri!».[283]
Appello
285. In quell’incontro fraterno, che
ricordo con gioia, con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb, «dichiariamo – fermamente – che le religioni non
incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità,
estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste
sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso
politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di
religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del
sentimento religioso sui cuori degli uomini […]. Infatti Dio, l’Onnipotente,
non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il suo nome venga
usato per terrorizzare la gente».[284] Perciò
desidero riprendere qui l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità
che abbiamo fatto insieme:
«In nome di Dio che ha creato tutti gli
esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a
convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa
i valori del bene, della carità e della pace.
In nome dell’innocente anima umana che Dio
ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se
avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato
l’umanità intera.
In nome dei poveri, dei miseri, dei
bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere
richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e
benestante.
In nome degli orfani, delle vedove, dei
rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le
vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di
quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in
qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.
In nome dei popoli che hanno perso la
sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni,
delle rovine e delle guerre.
In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.
In nome di questa fratellanza lacerata
dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e
dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli
uomini.
In nome della libertà, che Dio ha donato a
tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.
In nome della giustizia e della misericordia,
fondamenti della prosperità e cardini della fede.
In nome di tutte le persone di buona
volontà, presenti in ogni angolo della terra.
In nome di Dio e di tutto questo, […]
[dichiariamo] di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione
comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio».[285]
* * *
286. In questo spazio di riflessione sulla
fraternità universale, mi sono sentito motivato specialmente da San Francesco
d’Assisi, e anche da altri fratelli che non sono cattolici: Martin Luther King,
Desmond Tutu, il Mahatma Gandhi e molti altri. Ma
voglio concludere ricordando un’altra persona di profonda fede, la quale, a
partire dalla sua intensa esperienza di Dio, ha compiuto un cammino di
trasformazione fino a sentirsi fratello di tutti. Mi riferisco al Beato Charles
de Foucauld.
287. Egli andò orientando il suo ideale di una
dedizione totale a Dio verso un’identificazione con gli ultimi, abbandonati nel
profondo del deserto africano. In quel contesto esprimeva la sua aspirazione a
sentire qualunque essere umano come un fratello,[286] e
chiedeva a un amico: «Pregate Iddio affinché io sia davvero il fratello di
tutte le anime di questo paese».[287] Voleva
essere, in definitiva, «il fratello universale».[288] Ma
solo identificandosi con gli ultimi arrivò ad essere fratello di tutti. Che Dio
ispiri questo ideale in ognuno di noi. Amen.
Preghiera al Creatore
Signore e Padre dell’umanità,
che hai creato tutti gli esseri umani con la stessa dignità,
infondi nei nostri cuori uno spirito fraterno.
Ispiraci il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Stimolaci a creare società più sane e un mondo più degno,
senza fame, senza povertà, senza violenza, senza guerre.
Il nostro cuore si apra
a tutti i popoli e le nazioni della terra,
per riconoscere il bene e la bellezza
che hai seminato in ciascuno di essi,
per stringere legami di unità, di progetti comuni,
di speranze condivise. Amen.
Preghiera cristiana ecumenica
Dio nostro, Trinità d’amore,
dalla potente comunione della tua intimità divina
effondi in mezzo a noi il fiume dell’amore fraterno.
Donaci l’amore che traspariva nei gesti di Gesù,
nella sua famiglia di Nazaret e nella prima comunità
cristiana.
Concedi a noi cristiani di vivere il
Vangelo
e di riconoscere Cristo in ogni essere umano,
per vederlo crocifisso nelle angosce degli abbandonati
e dei dimenticati di questo mondo
e risorto in ogni fratello che si rialza in piedi.
Vieni, Spirito Santo! Mostraci la tua
bellezza
riflessa in tutti i popoli della terra,
per scoprire che tutti sono importanti,
che tutti sono necessari, che sono volti differenti
della stessa umanità amata da Dio. Amen.
Dato ad Assisi, presso la tomba di San
Francesco, il 3 ottobre, vigilia della Festa del Poverello, dell’anno 2020,
ottavo del mio Pontificato
Francesco
[1] Ammonizioni, 6, 1: FF 155.
[2] Ibid., 25: FF 175.
[3] S. Francesco di Assisi, Regola
non bollata, 16, 3.6: FF 42-43.
[4] Eloi Leclerc, O.F.M., Exilio
y ternura, ed. Marova,
Madrid 1987, 205.
[5] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[6] Discorso nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani,
Skopje – Macedonia del Nord (7 maggio 2019): L’Osservatore Romano,
9 maggio 2019, p. 9.
[7] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25
novembre 2014): AAS 106 (2014), 996.
[8] Incontro con le Autorità, la società civile e il Corpo diplomatico,
Santiago del Cile (16 gennaio 2018): AAS 110 (2018), 256.
[9] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[10] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25
marzo 2019), 181.
[11] Card. Raúl
Silva Henríquez, S.D.B., Omelia al Te Deum a Santiago del Cile (18 settembre 1974).
[12] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 57: AAS 107 (2015), 869.
[13] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11
gennaio 2016): AAS 108 (2016), 120.
[14] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso
la Santa Sede (13
gennaio 2014): AAS 106 (2014), 83-84.
[15] Cfr Discorso alla Fondazione “Centesimus annus pro Pontifice” (25
maggio 2013): Insegnamenti, I, 1 (2013), 238.
[16] Cfr S.
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 14: AAS 59 (1967), 264.
[17] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 22: AAS 101 (2009), 657.
[18] Discorso alle Autorità, Tirana – Albania (21
settembre 2014): AAS 106 (2014), 773.
[19] Messaggio ai partecipanti alla Conferenza internazionale “I diritti
umani nel mondo contemporaneo: conquiste, omissioni, negazioni” (10
dicembre 2018): L’Osservatore Romano, 10-11 dicembre 2018, p. 8.
[20] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 212: AAS 105 (2013), 1108.
[21] Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2015 (8
dicembre 2014), 3-4: AAS 107 (2015), 69-71.
[22] Ibid., 5: AAS (107 (2015), 72.
[23] Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8
dicembre 2015), 2: AAS 108 (2016), 49.
[24] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8
dicembre 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[25] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki – Giappone (24
novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 6.
[26] Discorso a professori e studenti del Collegio “San Carlo” di Milano (6
aprile 2019): L’Osservatore Romano, 8-9 aprile 2019, p. 6.
[27] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[28] Discorso al mondo della cultura, Cagliari – Italia (22
settembre 2013): L’Osservatore Romano, 23-24 settembre 2013, p. 7.
[29] Humana communitas. Lettera al Presidente della Pontificia
Accademia per la Vita in occasione del XXV anniversario della sua istituzione (6
gennaio 2019), 2.6: L’Osservatore Romano, 16 gennaio 2019, pp. 6-7.
[30] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26 aprile 2017): L’Osservatore
Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[31] Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia (27
marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo 2020, p. 10.
[32] Omelia nella S. Messa, Skopje – Macedonia del Nord (7
maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio 2019, p. 12.
[33] Cfr Aeneis, I, 462: «Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt».
[34] «Historia
[…] magistra vitae» (M.T. Cicerone, De
Oratore, II, 36).
[35] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 204: AAS 107 (2015), 928.
[36] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25
marzo 2019), 91.
[39] Benedetto XVI, Messaggio per la 99ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (12
ottobre 2012): AAS 104 (2012), 908.
[40] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25
marzo 2019), 92.
[41] Cfr Messaggio per la 106ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato
2020 (13 maggio 2020): L’Osservatore Romano,
16 maggio 2020, p. 8.
[42] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11
gennaio 2016): AAS 108 (2016), 124.
[43] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (13
gennaio 2014): AAS 106 (2014), 84.
[44] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11
gennaio 2016): AAS 108 (2016), 123.
[45] Messaggio per la 105ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (27
maggio 2019): L’Osservatore Romano, 27-28 maggio 2019, p. 8.
[46] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25
marzo 2019), 88.
[48] Esort. ap. Gaudete et exsultate (19
marzo 2018), 115.
[49] Dal film Papa Francesco – Un
uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[50] Discorso alle Autorità, alla società civile e al
Corpo diplomatico,
Tallin – Estonia (25 settembre
2018): L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 7.
[51] Cfr Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia (27
marzo 2020): L’Osservatore Romano, 29 marzo, p. 10; Messaggio per la 4ª Giornata Mondiale dei Poveri (13
giugno 2020), 6: L’Osservatore Romano, 14 giugno 2020, p. 8.
[52] Saluto ai giovani del Centro Culturale Padre Félix Varela, L’Avana – Cuba (20
settembre 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 settembre 2015, p. 6.
[53] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.
[54] S. Ireneo di Lione, Adversus haereses,
II, 25, 2: PG 7/1, 798-s.
[55] Talmud Bavli (Talmud
di Babilonia), Shabbat, 31 a.
[56] Discorso agli assistiti delle opere di carità della Chiesa, Tallin – Estonia (25
settembre 2018): L’Osservatore Romano, 27 settembre 2018, p. 8.
[57] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26
aprile 2017): L’Osservatore Romano, 27 aprile 2017, p. 7.
[58] Homiliae
in Mattheum, 50, 3-4: PG 58,
508.
[59] Messaggio in occasione dell’Incontro dei
movimenti popolari,
Modesto – USA (10 febbraio 2017): AAS 109
(2017), 291.
[60] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 235: AAS 105 (2013), 1115.
[61] S. Giovanni Paolo II, Messaggio alle persone disabili. Angelus a Osnabrück – Germania (16
novembre1980): L’Osservatore Romano, 19 novembre 1980, Supplemento,
p. XIII.
[62] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 24.
[63] Gabriel Marcel, Du refus à l’invocation, ed. NRF, París
1940, 50 (ed. it. Dal rifiuto all’invocazione,
Città Nuova, Roma 1976, 62).
[64] Angelus (10 novembre 2019): L’Osservatore
Romano, 11-12 novembre 2019, p. 8.
[65] Cfr S.
Tommaso d’Aquino, Scriptum super libros Sententiarum, III, Dist. 27, q. 1, a. 1, ad 4: «Dicitur amor extasim facere, et fervere, quia quod fervet extra se bullit, et exhalat».
[66] Karol Wojtyła, Amore
e responsabilità, Marietti, Casale Monferrato 1983, 90.
[67] Karl Rahner,
S.I., Kleines Kirchenjahr.
Ein Gang durch den Festkreis, Herder, Friburgo 1981, 30 (ed. it.
L’anno liturgico, Morcelliana, Brescia 1964,
34).
[68] Regula,
53, 15: «Pauperum et peregrinorum
maxime susceptioni cura sollicite exhibeatur».
[69] Cfr Summa
Theologiae II-II, q. 23, art. 7; S.
Agostino, Contra Julianum, 4, 18: PL 44,
748: «Essi [gli avari] si astengono dai piaceri sia per l’avidità di accrescere
il guadagno, sia per il timore di diminuirlo».
[70] «Secundum acceptionem divinam» (Commentaria in III librum
Sententiarum Petri Lombardi, Dist. 27, a. 1, q.
1, concl. 4).
[71] Benedetto XVI, Lett.
enc. Deus caritas est (25
dicembre 2005), 15: AAS 98 (2006), 230.
[72] Summa Theologiae II-II,
q. 27, art. 2, resp.
[73] Cfr ibid. I-II,
q. 26, a. 3, resp.
[74] Ibid., q. 110, a. 1, resp.
[75] Messaggio per la 47ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2014 (8
dicembre 2013), 1: AAS 106 (2014), 22.
[76] Cfr Angelus (29 dicembre 2013): L’Osservatore
Romano, 30-31 dicembre 2013, p. 7; Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (12
gennaio 2015): AAS 107 (2015), 165.
[77] Messaggio per la Giornata mondiale delle persone con disabilità (3
dicembre 2019): L’Osservatore Romano, 4 dicembre 2019, p. 7.
[78] Discorso nell’Incontro per la libertà religiosa
con la comunità ispanica e altri immigrati, Filadelfia – USA (26
settembre 2015): AAS 107 (2015), 1050-1051.
[79] Discorso ai giovani, Tokyo – Giappone (25
novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 10.
[80] In queste considerazioni mi lascio
ispirare dal pensiero di Paul Ricoeur, “Il socio ed
il prossimo”, in Histoire et vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 113-127.
[81] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 190: AAS 105 (2013), 1100.
[82] Ibid., 209: AAS 105 (2013), 1107.
[83] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[84] Messaggio per l’evento “Economy of Francesco” (1
maggio 2019): L’Osservatore Romano, 12 maggio 2019, p. 8.
[85] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25
novembre 2014): AAS 106 (2014), 997.
[86] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 229: AAS 107 (2015), 937.
[87] Messaggio per la 49ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2016 (8
dicembre 2015), 6: AAS 108 (2016), 57-58.
[88] La solidità si trova nella radice
etimologica della parola solidarietà. La solidarietà, nel significato
etico-politico che essa ha assunto negli ultimi due secoli, dà luogo a una
costruzione sociale sicura e salda.
[89] Omelia nella S. Messa, L’Avana – Cuba (20
settembre 2015): L’Osservatore Romano, 21-22 settembre 2015, p. 8.
[90] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28
ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-852.
[91] Cfr S.
Basilio, Homilia 21. Quod rebus mundanis adhaerendum non sit,
3.5: PG 31, 545-549; Regulae
brevius tractatae,
92: PG 31, 1145-1148; S. Pietro Crisologo, Sermo 123: PL 52, 536-540;
S. Ambrogio, De Nabuthe, 27.52: PL 14,
738s; S. Agostino, In Iohannis Evangelium, 6, 25: PL 35, 1436s.
[92] De Lazaro, II, 6: PG 48,
992D.
[93] Regula
pastoralis, III, 21: PL 77, 87.
[94] Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 31: AAS 83 (1991), 831.
[95] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884.
[96] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14
settembre 1981), 19: AAS 73 (1981), 626.
[97] Cfr
Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 172.
[98] Lett. enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268.
[99] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30
dicembre 1987), 33: AAS 80 (1988), 557.
[100] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 95: AAS 107 (2015), 885.
[101] Ibid., 129: AAS 107 (2015), 899.
[102] Cfr S.
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 15: AAS 59 (1967), 265; Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 16: AAS 101 (2009), 652.
[103] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 93: AAS 107 (2015), 884-885; Esort.
ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 189-190: AAS 105 (2013), 1099-1100.
[104] Conferenza dei Vescovi Cattolici
degli Stati Uniti, Open wide our Hearts: The enduring Call to
Love. A Pastoral Letter against Racism (Novembre 2018).
[105] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 51: AAS 107 (2015), 867.
[106] Cfr
Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 6: AAS 101 (2009), 644.
[107] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 35: AAS 83 (1991), 838.
[108] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki – Giappone (24
novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 6.
[109] Cfr Vescovi
Cattolici del Messico e degli Stati Uniti, Lettera pastorale Strangers no longer: together on the journey of hope (Gennaio 2003).
[110] Udienza generale (3 aprile 2019): L’Osservatore
Romano, 4 aprile 2019, p. 8.
[111] Cfr Messaggio per la 104ª Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (14
gennaio 2018): AAS 109 (2017), 918-923).
[112] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[113] Discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede (11
gennaio 2016): AAS 108 (2016), 124.
[114] Ibid.: AAS 108 (2016), 122.
[115] Esort. ap. postsin. Christus vivit (25
marzo 2019), 93.
[117] Discorso alle Autorità, Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6
giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno 2015, p. 7.
[118] Latinoamérica.
Conversaciones con Hernán Reyes Alcaide, Ed. Planeta, Buenos Aires 2017, 105.
[119] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[120] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700.
[121] Ibid., 60: AAS 101 (2009), 695.
[122] Ibid., 67: AAS 101 (2009), 700.
[123] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 447.
124] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 234: AAS 105 (2013), 1115.
[125] Ibid., 235: AAS 105 (2013), 1115.
[127] S. Giovanni Paolo II, Discorso ai rappresentanti del mondo della
cultura argentina,
Buenos Aires – Argentina (12 aprile 1987), 4: L’Osservatore
Romano, 14 aprile 1987, p. 7.
[128] Cfr Id., Discorso ai Cardinali (21 dicembre 1984),
4: AAS 76 (1984), 506.
[129] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2
febbraio 2020), 37.
[130] Georg Simmel, Brücke und Tür. Essays des Philosophen
zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, Köhler-Verlag,
Stuttgart 1957, p. 6 (ed. it. Ponte e porta,
in Saggi di estetica, a cura di M. Cacciari, Liviana, Padova 1970,
8).
[131] Cfr Jaime Hoyos-Vásquez, S.I., Lógica
de las relaciones sociales. Reflexión ontológica, in Revista
Universitas Philosophica,
15-16, dicembre 1990 - giugno 1991, Bogotá, 95-106.
[132] Antonio Spadaro,
S.I., Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco,
in Jorge Mario Bergoglio/Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia
parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Rizzoli, Milano 2016,
XVI; cfr Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 220-221: AAS 105 (2013), 1110-1111.
[133] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 204: AAS 105 (2013), 1106.
[134] Cfr ibid.: AAS 105 (2013), 1105-1106.
[135] Ibid., 202: AAS 105 (2013), 1105.
[136] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 128: AAS 107 (2015), 898.
[137] Discorso ai membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa
Sede (12 gennaio 2015): AAS (107)
(2015), 165; cfr Discorso ai
partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari(28
ottobre 2014): AAS 106 (2014), 851-859.
[138] Qualcosa di simile si può dire della
categoria biblica di “Regno di Dio”.
[139] Paul Ricoeur, Histoire
et vérité, Ed. du Seuil, Paris 1967, 122 (ed. it.
A. Plé et al., L’amore del prossimo,
Paoline, Alba 1958, 247).
[140] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 129: AAS 107 (2015), 899.
[141] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 35: AAS 101 (2009), 670.
[142] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28
ottobre 2014): AAS 106 (2014), 858.
[144] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (5
novembre 2016): L’Osservatore Romano, 7-8 novembre 2016, pp. 4-5.
[147] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[148] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New
York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1037.
[149] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 175: AAS 107 (2015), 916-917.
[150] Cfr
Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 67: AAS 101 (2009), 700-701.
[151] Ibid.: AAS 101 (2009), 700.
[152] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 434.
[153] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre
2015): AAS 107 (2015), 1037.1041.
[154] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 437.
[155] S. Giovanni Paolo II, Messaggio per la 37ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2004,
5: AAS 96 (2004), 117.
[156] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 439.
[157] Cfr
Commissione Sociale dei Vescovi di Francia, Dich. Réhabiliter la politique (17
febbraio 1999).
[158] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 189: AAS 107 (2015), 922.
[159] Ibid., 196: AAS 107 (2015), 925.
[160] Ibid., 197: AAS 107 (2015), 925.
[161] Ibid., 181: AAS 107 (2015), 919.
[162] Ibid., 178: AAS 107 (2015), 918.
[163] Conferenza Episcopale Portoghese, Lett. past. Responsabilidade solidária
pelo bem comum (15
settembre 2003), 20; cfr Lett.
enc. Laudato si’, 159: AAS 107
(2015), 911.
[164] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 191: AAS 107 (2015), 923.
[165] Pio XI, Discorso alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana (18
dicembre 1927): L’Osservatore Romano (23 dicembre 1927), 3.
[166] Cfr Id., Lett. enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931), 88: AAS 23
(1931), 206-207.
[167] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 205: AAS 105 (2013), 1106.
[168] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[169] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 231: AAS 107 (2015), 937.
[170] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[171] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[172] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4
marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 288.
[173] Cfr S.
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 44: AAS 59 (1967), 279.
[174] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 207.
[175] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 2: AAS 101 (2009), 642.
[176] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[177] Ibid., 4: AAS 101 (2009), 643.
[179] Ibid., 3: AAS 101 (2009), 643.
[180] Ibid.: AAS 101 (2009), 642.
[181] La dottrina morale cattolica,
seguendo l’insegnamento di San Tommaso d’Aquino, distingue tra l’atto “elicito”
e l’atto “imperato” (cfr Summa Theologiae, I-II, q. 8-17; Marcellino Zalba, S.J., Theologiae
moralis summa. Theologia moralis fundamentalis. Tractatus de virtutibus theologicis, ed. BAC, Madrid 1952, vol. 1, 69; Antonio Royo Marín, Teología de la Perfección
cristiana, ed. BAC, Madrid 1962, 192-196).
[182] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 208.
[183] Cfr S.
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30
dicembre 1987), 42: AAS 80 (1988), 572-574; Id. Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 11: AAS 83 (1991), 806-807.
[184] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28
ottobre 2014): AAS 106 (2014), 852.
[185] Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo (25
novembre 2014): AAS 106 (2014), 999.
[186] Discorso alla classe dirigente e al Corpo
diplomatico, Bangui –
Repubblica Centrafricana (29 novembre 2015): AAS 107
(2015), 1320.
[187] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New York (25 settembre
2015): AAS 107 (2015), 1039.
[188] Discorso ai partecipanti all’Incontro mondiale dei movimenti popolari (28
ottobre 2014): AAS 106 (2014), 853.
[189] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[190] René Voillaume, Frère de tous, Ed. du Cerf, Paris 1968, 12-13.
[191] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26
aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[192] Udienza generale (18 febbraio 2015): L’Osservatore
Romano, 19 febbraio 2015, p. 8.
[193] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 274: AAS 105 (2013), 1130.
[194] Ibid., 279: AAS 105 (2013), 1132.
[195] Messaggio per la 52ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2019 (8
dicembre 2018), 5: L’Osservatore Romano, 19 dicembre 2018, p. 8.
[196] Discorso nell’Incontro con la classe dirigente, Rio de Janeiro – Brasile (27
luglio 2013): AAS 105 (2013), 683-684.
[197] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2
febbraio 2020), 108.
[198] Dal film Papa Francesco – Un
uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[199] Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali (24
gennaio 2014): AAS 106 (2014), 113.
[200] Conferenza dei Vescovi Cattolici di
Australia, Dipartimento di Giustizia sociale, Making
it real: genuine human encounter in our digital world (novembre 2019), 5.
[201] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 123: AAS 107 (2015), 896.
[202] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6
agosto 1993), 96: AAS 85 (1993), 1209.
[203] Come cristiani crediamo, inoltre, che
Dio dona la sua grazia affinché sia possibile agire come fratelli.
[204] Vinicius De
Moraes, Samba della benedizione (Samba da Bênção), nel disco Um
encontro no Au bon Gourmet,
Rio de Janeiro (2 agosto 1962).
[205] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 237: AAS 105 (2013), 1116.
[206] Ibid., 236: AAS 105 (2013), 1115.
[207] Ibid., 218: AAS 105 (2013), 1110.
[208] Esort. ap. postsin. Amoris laetitia (19
marzo 2016), 100: AAS 108 (2016), 351.
[209] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8
dicembre 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[210] Conferenza Episcopale del
Congo, Message au Peuple de Dieu et aux femmes et aux hommes de bonne volonté (9
maggio 2018).
[211] Discorso nel grande incontro di preghiera per la
riconciliazione nazionale, Villavicencio – Colombia (8
settembre 2017): AAS 109 (2017), 1063-1064. 1066.
[212] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8
dicembre 2019), 3: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[213] Conferenza dei Vescovi del
Sudafrica, Pastoral letter on christian hope in the current crisis (maggio 1986).
[214] Conferenza dei Vescovi Cattolici
della Corea, Appeal of the Catholic Church in
Korea for Peace on the Korean
Peninsula (15 agosto 2017).
[215] Discorso alla società civile, Quito – Ecuador (7 luglio
2015): L’Osservatore Romano, 9 luglio 2015, p. 9.
[216] Discorso nell’Incontro interreligioso con i
giovani, Maputo – Mozambico (5
settembre 2019): L’Osservatore Romano, 6 settembre 2019, p. 7.
[217] Omelia nella S. Messa, Cartagena de Indias
– Colombia (10 settembre 2017): AAS 109
(2017), 1086.
[218] Discorso alle Autorità, al Corpo diplomatico e a
rappresentanti della società civile, Bogotá – Colombia (7 settembre 2017): AAS 109
(2017), 1029.
[219] Conferenza Episcopale della
Colombia, Por el bien
de Colombia: diálogo, reconciliación
y desarrollo integral
(26 novembre 2019), 4.
[220] Discorso alle Autorità, alla società civile e al
Corpo diplomatico,
Maputo – Mozambico (5 settembre 2019): L’Osservatore
Romano, 6 settembre 2019, p. 6.
[221] V Conferenza Generale dell’Episcopato
Latinoamericano e dei Caraibi, Documento di Aparecida (29
giugno 2007), 398 (ed. it. EDB, Bologna 2014).
[222] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 59: AAS 105 (2013), 1044.
[223] Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 14: AAS 83 (1991), 810.
[224] Omelia nella S. Messa per lo sviluppo dei popoli, Maputo – Mozambico (6
settembre 2019): L’Osservatore Romano, 7 settembre 2019, p. 8.
[225] Discorso nella cerimonia di benvenuto, Colombo – Sri Lanka (13
gennaio 2015): L’Osservatore Romano, 14 gennaio 2015, p. 7.
[226] Discorso ai bambini del Centro Betania e a una
rappresentanza di assistiti di altri centri caritativi dell’Albania, Tirana – Albania (21
settembre 2014): Insegnamenti, II, 2 (2014), 288.
[227] Videomessaggio al TED2017 di Vancouver (26
aprile 2017): L’Osservatore Romano (27 aprile 2017), p. 7.
[228] Pio XI, Lett.
enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931), 114: AAS 23
(1931), 213.
[229] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 228: AAS 105 (2013), 1113.
[230] Discorso alle Autorità, alla società civile e al
Corpo diplomatico,
Riga – Lettonia (24 settembre 2018): L’Osservatore
Romano, 24-25 settembre 2018, p. 7.
[231] Discorso nella Cerimonia di benvenuto, Tel Aviv – Israele (25 maggio 2014): Insegnamenti,
II, 1 (2014), 604.
[232] Discorso presso il Memoriale di Yad Vashem, Gerusalemme (26 maggio
2014): AAS 106 (2014), 228.
[233] Discorso presso il Memoriale della Pace, Hiroshima – Giappone (24
novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 8.
[234] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8
dicembre 2019), 2: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[235] Conferenza dei Vescovi della
Croazia, Letter on the Fiftieth Anniversary of the End of the Second World War (1
maggio 1995).
[236] Omelia nella S. Messa, Amman – Giordania (24
maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 593.
[237] Messaggio per la 53ª Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2020 (8
dicembre 2019), 1: L’Osservatore Romano, 13 dicembre 2019, p. 8.
[238] Discorso all’Organizzazione delle Nazioni Unite, New
York (25 settembre 2015): AAS 107 (2015), 1041-1042.
[239] N. 2309.
[240] Ibid.
[241] Lett. enc. Laudato si’ (24
maggio 2015), 104: AAS 107 (2015), 888.
[242] Anche Sant’Agostino, che elaborò
un’idea della “guerra giusta” che oggi ormai non sosteniamo, disse che «dare la
morte alla guerra con la parola, e raggiungere e ottenere la pace con la pace e
non con la guerra, è maggior gloria che darla agli uomini con la spada» (Epistula 229, 2: PL 33, 1020).
[243] Lett. enc. Pacem in terris (11
aprile 1963), 67: AAS 55 (1963), 291.
[244] Messaggio alla Conferenza dell’ONU per la negoziazione di uno strumento
giuridicamente vincolante sulla proibizione delle armi nucleari (23
marzo 2017): AAS 109 (2017), 394-396.
[245] Cfr S.
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 51: AAS 59 (1967), 282.
[246] Cfr Lett. enc. Evangelium vitae (25
marzo 1995), 56: AAS 87 (1995), 463-464.
[247] Discorso in occasione del 25º anniversario del Catechismo della Chiesa
Cattolica (11 ottobre 2017): AAS 109
(2017), 1196.
[248] Cfr
Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai Vescovi circa la nuova redazione del n. 2267 del Catechismo
della Chiesa Cattolica sulla pena di morte (1 agosto
2018): L’Osservatore Romano, 3 agosto 2018, p. 8.
[249] Discorso a una delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto
Penale (23 ottobre 2014): AAS 106
(2014), 840.
[250] Pontificio Consiglio della Giustizia
e della Pace, Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 402.
[251] S. Giovanni Paolo II, Discorso all’Associazione Nazionale Magistrati (31
marzo 2000), 4: AAS 92 (2000), 633.
[252] Divinae
Institutiones VI, 20, 17: PL 6,
708.
[253] Epistula 97
(responsa ad consulta bulgarorum),
25: PL 119, 991.
[254] Epistula
ad Marcellinum, 133, 1.2: PL 33,
509.
[255] Discorso alla delegazione dell’Associazione Internazionale di Diritto
Penale (23 ottobre 2014): AAS 106
(2014), 840-841.
[256] Ibid.: AAS 106 (2014), 842.
[258] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25
marzo 1995), 9: AAS 87 (1995), 411.
[259] Conferenza dei Vescovi Cattolici
dell’India, Response of the Church in
India to the present day challenges (9 marzo 2016).
[260] Omelia nella S. Messa, Domus Sanctae Marthae (17 maggio 2020).
[261] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 19: AAS 101 (2009), 655.
[262] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1
maggio 1991), 44: AAS 83 (1991), 849.
[263] Discorso ai leader di altre religioni e altre
denominazioni cristiane,
Tirana – Albania (21 settembre 2014): Insegnamenti,
II, 2 (2014), 277.
[264] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019), L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[265] Esort. ap. Evangelii gaudium (24
novembre 2013), 256: AAS 105 (2013), 1123.
[266] Benedetto XVI, Lett.
enc. Deus caritas est (25
dicembre 2005), 28: AAS 98 (2006), 240.
[267] «L’essere umano è un animale
politico» (Aristotele, Politica, 1253a 1-3).
[268] Benedetto XVI, Lett.
enc. Caritas in veritate (29
giugno 2009), 11: AAS 101 (2009), 648.
[269] Discorso alla comunità cattolica, Rakovsky – Bulgaria (6
maggio 2019): L’Osservatore Romano, 8 maggio 2019, p. 9.
[270] Omelia nella S. Messa, Santiago di Cuba (22
settembre 2015): AAS 107 (2015), 1005.
[271] Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Nostra aetate, 2.
[272] Discorso nell’Incontro ecumenico, Riga – Lettonia (24
settembre 2018): L’Osservatore Romano, 24-25 settembre 2018, p. 8.
[273] Lectio divina alla Pontificia Università Lateranense (26
marzo 2019): L’Osservatore Romano, 27 marzo 2019, p. 10.
[274] S. Paolo VI, Lett.
enc. Ecclesiam suam (6
agosto 1964), 101: AAS 56 (1964), 650.
[275] Discorso alle Autorità palestinesi, Betlemme – Palestina (25
maggio 2014): Insegnamenti, II, 1 (2014), 597.
[276] Enarrationes
in Psalmos, 130, 6: PL 37, 1707.
[277] Dichiarazione congiunta del Santo Padre
Francesco e del Patriarca Ecumenico Bartolomeo I, Gerusalemme (25 maggio
2014), 5: L’Osservatore Romano, 26-27 maggio 2014, p. 6.
[278] Dal film Papa Francesco. Un
uomo di parola. La speranza è un messaggio universale, di Wim Wenders (2018).
[279] Esort. ap. postsin. Querida Amazonia (2
febbraio 2020), 106.
[280] Omelia nella S. Messa, Colombo – Sri Lanka (14
gennaio 2015): AAS 107 (2015), 139.
[281] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 7.
[282] Discorso alle Autorità, Sarajevo – Bosnia-Erzegovina (6
giugno 2015): L’Osservatore Romano, 7 giugno 2015, p. 7.
[283] Discorso ai partecipanti all’Incontro internazionale per la pace
promosso dalla Comunità di Sant’Egidio (30 settembre
2013): Insegnamenti, I, 2 (2013), 301-302.
[284] Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza
comune, Abu Dhabi (4 febbraio 2019): L’Osservatore
Romano, 4-5 febbraio 2019, p. 6.
[286] Cfr B.
Charles de Foucauld, Meditazione sul Padre nostro (23 gennaio
1897): Opere spirituali, Ed. Paoline, Roma 1983, 555-562.
[287] Id., Lettera a Henry de
Castries (29 novembre 1901): Id., Solo con Dio in compagnia
dei fratelli, a cura di E. Bolis, Ed. Paoline,
Milano 2002, 254.
[288] Id., Lettera a Madame de Bondy (7 gennaio 1902): cit. in P. Sourisseau, Charles de Foucauld 1858-1916.
Biografia, trad. a cura delle Discepole del
Vangelo e A. Mandonico, Effatà,
Cantalupa (TO), 359. Così lo chiamava anche S. Paolo VI elogiando il suo
impegno: Enc. Populorum progressio (26
marzo 1967), 12: AAS 59 (1967), 263.
© Copyright - Libreria Editrice Vaticana