PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
DANTE
CONVIVIO
CAPITOLO I.
1. Sì come dice lo Filosofo nel principio de
la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La
ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di
propria natura impinta è inclinabile a la sua propria perfezione; onde,
acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne
la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio
semo subietti. 2. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono
privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui
rimovono da l’abito di scienza. 3. Dentro da l’uomo possono essere due
difetti e impedi[men]ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de
l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente
disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e
muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in
essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali
riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. 4. Di fuori
da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali
è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la
cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li
uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non
possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e
nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da
gente studiosa lontano.
5. Le due di queste cagioni, cioè la prima da
la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare,
ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più,
sono degne di biasimo e d’abominazione. 6. Manifestamente adunque
può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito
da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti
che di questo cibo sempre vivono affamati. 7. Oh beati quelli pochi che
seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli
che con le pecore hanno comune cibo! 8. Ma però che ciascuno uomo
a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del
difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati
non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba
e ghiande sen gire mangiando. 9. E acciò che misericordia
è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la
loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua
si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. 10. E io
adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo,
a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco
la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento
in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me
dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro,
già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho
fatti maggiormente vogliosi. 11. Per che ora volendo loro apparecchiare,
intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di
quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da
loro non potrebbe esser mangiata. 12. E questo [è quello]
convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non]
essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi
organi disposto, però che nè denti nè lingua ha nè
palato; nè alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo
è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non
terrebbe. 13. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o
civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti
s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono
stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano
la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire. 14.
La vivanda di questo convivio sarà di quattordici maniere ordinata,
cioè quattordici canzoni sì d’amor come di vertù
materiate, le quali sanza lo presente pane aveano d’alcuna oscuritade ombra,
sì che a molti loro bellezza più che loro bontade era in grado. 15.
Ma questo pane, cioè la presente disposizione, sarà la luce la
quale ogni colore di loro sentenza farà parvente.
16. E se ne la presente opera, la quale è
Convivio nominata e vo’ che sia, più virilmente si trattasse che ne la
Vita Nuova, non intendo però a quella in parte alcuna derogare, ma
maggiormente giovare per questa quella; veggendo sì come ragionevolmente
quella fervida e passionata, questa temperata e virile esser conviene. 17.
Chè altro si conviene e dire e operare ad una etade che ad altra;
perchè certi costumi sono idonei e laudabili ad una etade che sono
sconci e biasimevoli ad altra, sì come di sotto, nel quarto trattato di
questo libro, sarà propria ragione mostrata. E io in quella dinanzi, a
l’entrata de la mia gioventute parlai, e in questa dipoi, quella già
trapassata. 18. E con ciò sia cosa che la vera intenzione mia
fosse altra che quella che di fuori mostrano le canzoni predette, per
allegorica esposizione quelle intendo mostrare, appresso la litterale istoria
ragionata; sì che l’una ragione e l’altra darà sapore a coloro
che a questa cena sono convitati. 19. Li quali priego tutti che se lo
convivio non fosse tanto splendido quanto conviene a la sua grida, che non al
mio volere ma a la mia facultade imputino ogni difetto; però che la mia
voglia di compita e cara liberalitate è qui seguace.
CAPITOLO II.
1. Nel cominciamento di ciascuno bene ordinato
convivio sogliono li sergenti prendere lo pane apposito, e quello purgare da
ogni macula. Per che io, che ne la presente scrittura tengo luogo di quelli, da
due macule mondare intendo primieramente questa esposizione, che per pane si
conta nel mio corredo. 2. L’una, è che parlare alcuno di se
medesimo pare non licito; l’altra è, che parlare in esponendo troppo a
fondo pare non ragionevole: e lo illicito e ’l non ragionevole lo coltello del
mio giudicio purga in questa forma. 3. Non si concede per li retorici
alcuno di se medesimo sanza necessaria cagione parlare, e da ciò
è l’uomo rimosso, perchè parlare d’alcuno non si può che
il parladore non lodi o non biasimi quelli di cui elli parla; le quali due
cagioni rusticamente stanno, a far [dire] di sè, ne la bocca di
ciascuno. 4. E per levare un dubbio che qui surge, dico che peggio sta
biasimare che lodare, avvegna che l’uno e l’altro non sia da fare. La ragione
è che qualunque cosa è per sè da biasimare, è
più laida che quella che è per accidente. 5. Dispregiar se
medesimo è per sè biasimevole, però che a l’amico dee
l’uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico
che l’uomo a sè; onde ne la camera de’ suoi pensieri se medesimo
riprender dee e piangere li suoi difetti, e non palese. 6. Ancora: del
non potere e del non sapere ben sè menare le più volte non
è l’uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perchè
nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade; e
però chi biasima se medesimo appruova sè conoscere lo suo
difetto, appruova sè non essere buono: per che, per sè, è
da lasciare di parlare sè biasimando. 7. Lodare sè
è da fuggire sì come male per accidente, in quanto lodare non si
può, che quella loda non sia maggiormente vituperio. È loda ne la
punta de le parole, è vituperio chi cerca loro nel ventre: chè le
parole sono fatte per mostrare quello che non si sa, onde chi loda sè
mostra che non creda essere buono tenuto; che non li incontra sanza maliziata
conscienza, la quale, sè lodando, discuopre e, discoprendo, si biasima.
8. E ancora la propria loda e lo proprio biasimo
è da fuggire per una ragione igualmente, sì come falsa
testimonianza fare; però che non è uomo che sia di sè vero
e giusto misuratore, tanto la propria caritate ne ’nganna. 9. Onde
avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che
compera con l’una e vende con l’altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo
mal fare e con piccola cerca lo bene; sì che ’l numero e la
quantità e ’l peso del bene li pare più che se con giusta misura
fosse saggiato, e quello del male meno. 10. Per che, parlando di
sè con loda o col contrario, o dice falso per rispetto a la cosa di che
parla; o dice falso per rispetto a la sua sentenza, c’ha l’una e l’altra
falsitate. 11. E però, con ciò sia cosa che lo consentire
è uno confessare, villania fa chi loda o chi biasima dinanzi al viso
alcuno, perchè nè consentire nè negare puote lo
così estimato sanza cadere in colpa di lodarsi o di biasimare: salva qui
la via de la debita correzione, che essere non può sanza improperio del
fallo che correggere s’intende; e salva la via del debito onorare e
magnificare, la quale passar non si può sanza far menzione de l’opere
virtuose, o de le dignitadi virtuosamente acquistate.
12. Veramente, al principale intendimento tornando,
dico, come è toccato di sopra, per necessarie cagioni lo parlare di
sè è conceduto: e intra l’altre necessarie cagioni due sono
più manifeste. 13. L’una è quando sanza ragionare di
sè grande infamia o pericolo non si può cessare; e allora si
concede, per la ragione che de li due sentieri prendere lo men reo è
quasi prendere un buono. E questa necessitate mosse Boezio di se medesimo a
parlare, acciò che sotto pretesto di consolazione escusasse la
perpetuale infamia del suo essilio, mostrando quello essere ingiusto, poi che
altro escusatore non si levava. 14. L’altra è quando, per
ragionare di sè, grandissima utilitade ne segue altrui per via di
dottrina; e questa ragione mosse Agustino ne le sue Confessioni a parlare di
sè, chè per lo processo de la sua vita, lo quale fu di [non]
buono in buono, e di buono in migliore, e di migliore in ottimo, ne diede
essemplo e dottrina, la quale per sì vero testimonio ricevere non si
potea. 15. Per che se l’una e l’altra di queste ragioni mi scusa, sufficientemente
lo pane del mio formento è purgato de la prima sua macula. Movemi timore
d’infamia, e movemi desiderio di dottrina dare la quale altri veramente dare
non può. 16. Temo la infamia di tanta passione avere seguita,
quanta concepe chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata;
la quale infamia si cessa, per lo presente di me parlare, interamente, lo quale
mostra che non passione ma vertù sia stata la movente cagione. 17.
Intendo anche mostrare la vera sentenza di quelle, che per alcuno vedere non si
può s’io non la conto, perchè è nascosa sotto figura
d’allegoria: e questo non solamente darà diletto buono a udire, ma
sottile ammaestramento e a così parlare e a così intendere
l’altrui scritture.
CAPITOLO III.
1. Degna di molta riprensione è quella cosa
che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì
come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella,
ne iniziasse un’altra. 2. E però che lo mio pane è purgato
da una parte, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione,
che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a
levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sè fia forse in
parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non
per ignoranza, è qui pensata. 3. Ahi, piaciuto fosse al
dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata!
chè nè altri contra me avria fallato, nè io sofferto avria
pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. 4. Poi che fu
piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma,
Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno - nel quale nato e nutrito fui
in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella,
desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo
che m’è dato -, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si
stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia
la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere
imputata. 5. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo,
portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa
povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forsechè per alcuna
fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente
mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì
già fatta, come quella che fosse a fare. 6. La ragione per che
ciò incontra - non pur in me, ma in tutti - brievemente or qui piace
toccare: e prima, perchè la stima oltre la veritade si sciampia; e poi,
perchè la presenzia oltre la veritade stringe. 7. La fama buona
principalmente è generata da la buona operazione ne la mente de l’amico,
e da quella è prima partorita; chè la mente del nemico, avvegna
che riceva lo seme, non concepe. 8. Quella mente che prima la
partorisce, sì per far più ornato lo suo presente, sì per
la caritade de l’amico che lo riceve, non si tiene a li termini del vero, ma
passa quelli. E quando per ornare ciò che dice li passa, contra
conscienza parla; quando inganno di caritade li fa passare, non parla contra
essa. 9. La seconda mente che ciò riceve, non solamente a la
dilatazione de la prima sta contenta, ma ’l suo riportamento, sì come
qu[as]i suo effetto, procura d’adornare; e sì, che per questo fare e per
lo ’nganno che riceve de la caritade in lei generata, quella più ampia
fa che a lei non viene, e con concordia e con discordia di conscienza come la
prima. E questo fa la terza ricevitrice e la quarta, e così in infinito
si dilata. 10. E così, volgendo le cagioni sopra dette ne le
contrarie, si può vedere la ragione de la infamia, che simigliantemente
si fa grande. Per che Virgilio dice nel quarto de lo Eneida che la Fama vive
per essere mobile, e acquista grandezza per andare. 11. Apertamente
adunque veder può chi vuole che la imagine per sola fama generata sempre
è più ampia, quale che essa sia, che non è la cosa
imaginata nel vero stato.
CAPITOLO IV.
1. Mostrata ragione innanzi per che la fama dilata lo
bene e lo male oltre la vera quantità, resta in questo capitolo a
mostrar quelle ragioni che fanno vedere perchè la presenza ristringe per
opposito; e mostrate quelle, si verrà lievemente al principale
proposito, cioè de la sopra notata scusa.
2. Dico adunque che per tre cagioni la presenza fa la
persona di meno valore ch’ella non è: l’una de le quali è
puerizia, non dico d’etate ma d’animo; la seconda è invidia, - e queste
sono ne lo giudicatore -; la terza è l’umana impuritade, e questa
è ne lo giudicato. 3. La prima si può brievemente
così ragionare. La maggiore parte de li uomini vivono secondo senso e
non secondo ragione, a guisa di pargoli; e questi cotali non conoscono le cose
se non semplicemente di fuori, e la loro bontade, la quale a debito fine
è ordinata, non veggiono, per ciò che hanno chiusi li occhi de la
ragione, li quali passano a veder quello. Onde tosto veggiono tutto ciò
che ponno, e giudicano secondo la loro veduta. 4. E però che
alcuna oppinione fanno ne l’altrui fama per udita, da la quale ne la presenza
si discorda lo imperfetto giudicio che non secondo ragione ma secondo senso
giudica solamente, quasi menzogna reputano ciò che prima udito hanno, e
dispregiano la persona prima pregiata. 5. Onde appo costoro, che sono,
ohmè, quasi tutti, la presenza ristringe l’una e l’altra qualitade.
Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso
tristi di brievi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici; ogni
cosa fanno come pargoli, sanza uso di ragione. 6. La seconda si vede per
queste ragioni: che paritade ne li viziosi è cagione d’invidia, e
invidia è cagione di mal giudicio, però che non lascia la ragione
argomentare per la cosa invidiata, e la potenza giudicativa è allora quel
giudice che ode pur l’una parte. 7. Onde quando questi cotali veggiono
la persona famosa, incontanente sono invidi, però che veggiono a
s[è] pari membra e pari potenza, e temono, per la eccellenza di quel
cotale, meno esser pregiati. 8. E questi non solamente passionati mal
giudicano, ma, diffamando, fanno a li altri mal giudicare; per che appo costoro
la presenza ristringe lo bene e lo male in ciascuno appresentato: e dico lo
male, perchè molti, dilettandosi ne le male operazioni, hanno invidia a’
mali operatori. 9. La terza si è l’umana impuritade, la quale si
prende da la parte di colui ch’è giudicato, e non è sanza
familiaritade e conversazione alcuna. Ad evidenza di questa, è da sapere
che l’uomo è da più parti maculato, e, come dice Agustino, nullo
è sanza macula. 10. Quando è l’uomo maculato d’una
passione, a la quale tal volta non può resistere; quando è
maculato d’alcuno disconcio membro; e quando è maculato d’alcuno colpo
di fortuna; e quando è maculato d’infamia di parenti o d’alcuno suo
prossimo: le quali cose la fama non porta seco ma la presenza, e discuoprele
per sua conversazione. 11. E queste macule alcuna ombra gittano sopra la
chiarezza de la bontade, sì che la fanno parere men chiara e men
valente. E questo è quello per che ciascuno profeta è meno
onorato ne la sua patria; questo è quello per che l’uomo buono dee la
sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che ’l
nome suo sia ricevuto, ma non spregiato. 12. E questa terza cagione
può essere così nel male come nel bene, se le cose de la sua
ragione si volgano ciascuna in suo contrario. Per che manifestamente si vede
che per impuritade, sanza la quale non è alcuno, la presenza ristringe
lo bene e lo male in ciascuno più che ’l vero non vuole.
13. Onde con ciò sia cosa che, come detto
è di sopra, io mi sia quasi a tutti li Italici appresentato, per che
fatto mi sono più vile forse che ’l vero non vuole non solamente a
quelli a li quali mia fama era già corsa, ma eziandio a li altri, onde
le mie cose sanza dubbio meco sono alleviate; conviemmi che con più alto
stilo dea, ne la presente opera, un poco di gravezza, per la quale paia di
maggiore autoritade. E questa scusa basti a la fortezza del mio comento.
CAPITOLO V.
1. Poi che purgato è questo pane da le macule
accidentali, rimane ad escusare lui da una sustanziale, cioè da l’essere
vulgare e non latino; che per similitudine dire si può di biado e non di
frumento. 2. E da ciò brievemente lo scusano tre ragioni, che
mossero me ad eleggere innanzi questo che l’altro: l’una si muove da cautela di
disconvenevole ordinazione; l’altra da prontezza di liberalitade; la terza da
lo naturale amore a propria loquela. 3. E queste cose per sue ragioni, a
sodisfacimento di ciò che riprendere si potesse per la notata ragione,
intendo per ordine ragionare in questa forma.
4. Quella cosa che più adorna e commenda
l’umana operazione, e che più dirittamente a buon fine la mena,
sì è l’abito di quelle disposizioni che sono ordinate a lo inteso
fine; sì com’è ordinata al fine de la cavalleria franchezza
d’animo e fortezza di corpo. 5. E così colui che è
ordinato a l’altrui servigio dee avere quelle disposizioni che sono a quello
fine ordinate, sì come subiezione, conoscenza e obedienza, sanza le
quali è ciascuno disordinato a ben servire; perchè, s’elli non
è subietto in ciascuna condizione, sempre con fatica e con gravezza
procede nel suo servigio e rade volte quello continua; e se elli non è
[conoscente del bisogno del suo signore e a lui non è] obediente, non
serve mai se non a suo senno e a suo volere, che è più servigio
d’amico che di servo. 6. Dunque, a fuggire questa disordinazione,
conviene questo comento, che è fatto invece di servo a le ’nfrascritte
canzoni, esser subietto a quelle in ciascuna sua [condi]zione, ed essere
conoscente del bisogno del suo signore e a lui obediente. 7. Le quali
disposizioni tutte li mancavano, se latino e non volgare fosse stato, poi che
le canzoni sono volgari. Chè, primamente, non era subietto ma sovrano, e
per nobilità e per vertù e per bellezza. Per nobilità,
perchè lo latino è perpetuo e non corruttibile, e lo volgare
è non stabile e corruttibile. 8. Onde vedemo ne le scritture
antiche de le comedie e tragedie latine, che non si possono transmutare, quello
medesimo che oggi avemo; che non avviene del volgare, lo quale a piacimento
artificiato si transmuta. 9. Onde vedemo ne le cittadi d’Italia, se bene
volemo agguardare, da cinquanta anni in qua molti vocabuli essere spenti e nati
e variati; onde se ’l picciol tempo così transmuta, molto più
transmuta lo maggiore. Sì ch’io dico, che se coloro che partiron d’esta
vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la
loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante.
10. Di questo si parlerà altrove più compiutamente in uno
libello ch’io intendo di fare, Dio concedente, di Volgare Eloquenza.
11. Ancora, non era subietto ma sovrano per
vertù. Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che
ella è ordinata; e quanto meglio lo fa tanto è più
virtuosa. Onde dicemo uomo virtuoso che vive in vita contemplativa o attiva, a
le quali è ordinato naturalmente; dicemo del cavallo virtuoso che corre
forte e molto, a la qual cosa è ordinato; dicemo una spada virtuosa che
ben taglia le dure cose, a che essa è ordinata. 12. Così
lo sermone, lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano,
è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più
lo fa; onde, con ciò sia cosa che lo latino molte cose manifesta
concepute ne la mente che lo volgare far non può, sì come sanno
quelli che hanno l’uno e l’altro sermone, più è la vertù
sua che quella del volgare.
13. Ancora, non era subietto ma sovrano per bellezza.
Quella cosa dice l’uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono,
per che de la loro armonia resulta piacimento. Onde pare l’uomo essere bello,
quando le sue membra debitamente si rispondono; e dicemo bello lo canto, quando
le voci di quello, secondo debito de l’arte, sono intra sè rispondenti. 14.
Dunque quello sermone è più bello ne lo quale più
debitamente si rispondono [le parole; e più debitamente si rispondono]
in latino che in volgare, però che lo volgare seguita uso, e lo latino
arte: onde concedesi esser più bello, più virtuoso e più
nobile. 15. Per che si conchiude lo principale intendimento, cioè
che non sarebbe stato subietto a le canzoni, ma sovrano.
CAPITOLO VI.
1. Mostrato come lo presente comento non sarebbe
stato subietto a le canzoni volgari se fosse stato latino, resta a mostrare
come non sarebbe stato conoscente, nè obediente a quelle; e poi
sarà conchiuso come per cessare disconvenevoli disordinazioni fu
mestiere volgarmente parlare. 2. Dico che ’l latino non sarebbe stato
servo conoscente al signore volgare per cotal ragione. La conoscenza del servo
si richiede massimamente a due cose perfettamente conoscere. 3. L’una si
è la natura del signore: onde sono signori di sì asinina natura
che comandano lo contrario di quello che vogliono, e altri che sanza dire
vogliono essere intesi, e altri che non vogliono che ’l servo si muova a fare
quello ch’è mestiere se nol comandano. 4. E perchè queste
variazioni sono ne li uomini non intendo al presente mostrare, che troppo
multiplicherebbe la digressione; se non in tanto, che dico in genere che cotali
sono quasi bestie, a li quali la ragione fa poco prode. Onde, se ’l servo non
conosce la natura del suo signore, manifesto è che perfettamente servire
nol può. 5. L’altra cosa è, che si conviene conoscere al
servo, li amici del suo signore, chè altrimenti non li potrebbe onorare
nè servire, e così non servirebbe perfettamente lo suo signore;
con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d’un tutto, però
che ’l tutto loro è uno volere e uno non volere.
6. Nè lo comento latino avrebbe avuta la conoscenza
di queste cose, che l’ha ’l volgare medesimo. Che lo latino non sia conoscente
del volgare e de’ suoi amici, così si pruova. Quelli che conosce alcuna
cosa in genere, non conosce quella perfettamente: sì come, se conosce da
lungi uno animale, non conosce quello perfettamente, perchè non sa se
s’è cane o lupo o becco. 7. Lo latino conosce lo volgare in
genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari
conoscerebbe, perchè non è ragione che l’uno più che
l’altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l’abito del
latino, sarebbe l’abito di conoscenza distinto de lo volgare. 8. Ma
questo non è; chè uno abituato di latino non distingue, s’elli
è d’Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; nè lo tedesco,
lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo latino non
è conoscente de lo volgare. 9. Ancora, non è conoscente
de’ suoi amici, però ch’è impossibile conoscere li amici, non
conoscendo lo principale; onde, se non conosce lo latino lo volgare, come provato
è di sopra, impossibile è a lui conoscere li suoi amici. 10.
Ancora, sanza conversazione o familiaritade impossibile è a conoscere li
uomini: e lo latino non ha conversazione con tanti in alcuna lingua con quanti
ha lo volgare di quella, al quale tutti sono amici; e per consequente non
può conoscere li amici del volgare. 11. E non è
contradizione ciò che dire si potrebbe, che lo latino pur conversa con
alquanti amici de lo volgare: chè però non è familiare di
tutti, e così non è conoscente de li amici perfettamente;
però che si richiede perfetta conoscenza, e non difettiva.
CAPITOLO VII.
1. Provato che lo comento latino non sarebbe stato
servo conoscente, dirò come non sarebbe stato obediente. 2.
Obediente è quelli che ha la buona disposizione che si chiama obedienza.
La vera obedienza conviene avere tre cose, sanza le quali essere non
può: vuole essere dolce, e non amara; e comandata interamente, e non
spontanea; e con misura, e non dismisurata. 3. Le quali tre cose era
impossibile ad avere lo latino comento, e però era impossibile ad essere
obediente. Che a lo latino fosse stato impossibile, come detto è, si
manifesta per cotale ragione. 4. Ciascuna cosa che da perverso ordine
procede è laboriosa, e per consequente è amara e non dolce,
sì come dormire lo die e vegghiare la notte, e andare indietro e non
innanzi. Comandare lo subietto a lo sovrano procede da ordine perverso -
chè ordine diritto è lo sovrano a lo subietto comandare -, e
così è amaro, e non dolce. E però che a l’amaro
comandamento è impossibile dolcemente obedire, impossibile è,
quando lo subietto comanda, la obedienza del sovrano essere dolce. 5.
Dunque se lo latino è sovrano del volgare, come di sopra per più
ragioni è mostrato, e le canzoni, che sono in persona di comandatore,
sono volgari, impossibile è sua [obedienza] esser dolce.
6. Ancora: allora è la obedienza interamente
comandata e da nulla parte spontanea, quando quello che fa chi fa obediendo non
averebbe fatto sanza comandamento, per suo volere, nè tutto nè in
parte. 7. E però se a me fosse comandato di portare due
guarnacche in dosso, e sanza comandamento io mi portasse l’una, dico che la mia
obedienza non è interamente comandata, ma in parte spontanea. E cotale
sarebbe stata quella del comento latino; e per consequente non sarebbe stata
obedienza comandata interamente. 8. Che fosse stata cotale, appare per
questo: che lo latino sanza lo comandamento di questo signore averebbe esposite
molte parti de la sua sentenza - ed espone, chi cerca bene le scritture
latinamente scritte - che non lo fa lo volgare in parte alcuna.
9. Ancora: è l’obedienza con misura, e non
dismisurata, quando al termine del comandamento va, e non più oltre;
sì come la natura particulare è obediente a la universale, quando
fa trentadue denti a l’uomo, e non più nè meno, e quando fa
cinque dita ne la mano, e non più nè meno; e l’uomo è
obediente a la giustizia [quando fa pagar lo debito de la pena, e non
più nè meno che la giustizia] comanda, al peccatore. 10.
Nè questo averebbe fatto lo latino, ma peccato averebbe non pur nel
difetto, e non pur nel soperchio, ma in ciascuno; e così non sarebbe
stata la sua obedienza misurata, ma dismisurata, e per consequente non sarebbe
stato obediente. 11. Che non fosse stato lo latino empitore del
comandamento del suo signore, e che ne fosse stato soperchiatore, leggermente
si può mostrare. Questo signore, cioè queste canzoni, a le quali
questo comento è per servo ordinato, comandano e vogliono essere esposte
a tutti coloro a li quali puote venire sì lo loro intelletto, che quando
parlano elle siano intese; e nessuno dubita, che s’elle comandassero a voce,
che questo non fosse lo loro comandamento. 12. E lo latino non
l’averebbe esposte se non a’ litterati, chè li altri non l’averebbero
inteso. Onde con ciò sia cosa che molti più siano quelli che
desiderano intendere quelle non litterati che litterati, seguitasi che non
averebbe pieno lo suo comandamento come ’l volgare, che da li litterati e non
litterati è inteso. 13. Anche, lo latino l’averebbe esposte a
gente d’altra lingua, sì come a Tedeschi e Inghilesi e altri, e qui
averebbe passato lo loro comandamento; chè contra loro volere, largo
parlando dico, sarebbe essere esposta la loro sentenza colà dov’elle non
la potessero con la loro bellezza portare. 14. E però sappia ciascuno
che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela
in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia. 15. E
questa è la cagione per che Omero non si mutò di greco in latino
come l’altre scritture che avemo da loro. E questa è la cagione per che
li versi del Salterio sono sanza dolcezza di musica e d’armonia; chè
essi furono transmutati d’ebreo in greco e di greco in latino, e ne la prima
transmutazione tutta quella dolcezza venne meno. 16. E così
è conchiuso ciò che si promise nel principio del capitolo dinanzi
a questo immediate.
CAPITOLO VIII.
1. Quando è mostrato per le sufficienti
ragioni come, per cessare disconvenevoli disordinamenti, converrebbe, [a le]
nominate canzoni aprire e mostrare, comento volgare e non latino, mostrare
intendo come ancora pronta liberalitate mi fece questo eleggere e l’altro
lasciare. 2. Puotesi adunque la pronta liberalitate in tre cose notare,
le quali seguitano questo volgare, e lo latino non averebbero seguitato. La
prima è dare a molti; la seconda è dare utili cose; la terza
è, sanza essere domandato lo dono, dare quello. 3. Chè
dare a uno e giovare a uno è bene; ma dare a molti e giovare a molti
è pronto bene, in quanto prende simiglianza da li benefici di Dio, che
è universalissimo benefattore. 4. E ancora, dare a molti è
impossibile sanza dare a uno, acciò che uno in molti sia inchiuso; ma
dare a uno si può bene, sanza dare a molti. Però chi giova a
molti fa l’uno bene e l’altro; chi giova a uno, fa pur un bene: onde vedemo li
ponitori de le leggi massimamente pur a li più comuni beni tenere
confissi li occhi, quelle componendo. 5. Ancora, dare cose non utili al
prenditore pure è bene, in quanto colui che dà mostra almeno
sè essere amico; ma non è perfetto bene, e così non
è pronto: come quando uno cavaliere donasse ad uno medico uno scudo, e
quando uno medico donasse a uno cavaliere scritti li Aphorismi
d’Ipocràs, ovvero li Tegni di Galieno. Per che li savi dicono che la
faccia del dono dee essere simigliante a quella del ricevitore, cioè a
dire che si convegna con lui, e che sia utile: e in quello è detta
pronta liberalitade di colui che così dicerne donando. 6. Ma
però che li morali ragionamenti sogliono dare desiderio di vedere
l’origine loro, brievemente in questo capitolo intendo mostrare quattro ragioni
per che di necessitade lo dono, acciò che in quello sia pronta
liberalitade, conviene essere utile a chi riceve.
7. Primamente, però che la vertù dee
essere lieta, e non trista in alcuna sua operazione; onde, se ’l dono non
è lieto nel dare e nel ricevere, non è in esso perfetta
vertù, non è pronta. Questa letizia non può dare altro che
utilitade, che rimane nel datore per lo dare, e che viene nel ricevitore per
ricevere. 8. Nel datore adunque dee essere la providenza in far
sì che de la sua parte rimagna l’utilitade de l’onestate, ch’è
sopra ogni utilitade, e far sì che a lo ricevitore vada l’utilitade de
l’uso de la cosa donata; e così sarà l’uno e l’altro lieto, e per
consequente sarà più pronta la liberalitade. 9. Secondamente,
però che la vertù dee muovere le cose sempre al migliore.
Chè così come sarebbe biasimevole operazione fare una zappa d’una
bella spada o fare un bel nappo d’una bella chitarra, così è
biasimevole muover la cosa d’un luogo dove sia utile e portarla in parte dove
sia meno utile. 10. E però che biasimevole è invano
adoperare, biasimevole è non solamente a porre la cosa in parte dove sia
meno utile, ma eziandio in parte ove sia igualmente utile. 11. Onde,
acciò che sia laudabile lo mutare de le cose, conviene sempre essere
[al] migliore, per ciò che dee massimamente essere laudabile: e questo
non [si] può fare nel dono se ’l dono per transmutazione non viene
più caro; nè più caro può venire, se esso non
è più utile ad usare al ricevitore che al datore. Per che si
conchiude che ’l dono conviene essere utile a chi lo riceve, acciò che
sia in esso pronta liberalitade. 12. Terziamente, però che la
operazione de la vertù per sè dee essere acquistatrice d’amici;
con ciò sia cosa che la nostra vita di quello abbisogni, e lo fine de la
vertù sia la nostra vita essere contenta. Onde acciò che ’l dono
faccia lo ricevitore amico, conviene a lui essere utile, però che
l’utilitade sigilla la memoria de la imagine del dono, l[a] quale è
nutrimento de l’amistade; e tanto più forte, quanto essa è
migliore. 13. Onde suole dire Martino: ‘Non caderà de la mia
mente lo dono che mi fece Giovanni’. Per che, acciò che nel dono sia la
sua vertù, la quale è liberalitade, e che essa sia pronta,
conviene essere utile a chi riceve. 14. Ultimamente, però che la
vertù dee avere atto libero e non sforzato. Atto libero è quando
una persona va volentieri ad alcuna parte, che si mostra nel tener volto lo
viso in quella; atto sforzato è quando contra voglia si va, che si
mostra in non guardare ne la parte dove si va. 15. E allora sì
guarda lo dono a quella parte, quando si dirizza al bisogno de lo ricevente. E
però che dirizzarsi ad esso non si può se non sia utile,
conviene, acciò che sia con atto libero la vertù, essere [utile]
lo dono a la parte ov’elli vae, ch’è lo ricevitore; e per consequente
conviene essere ne lo dono l’utilità de lo ricevitore, acciò che
quinci sia pronta liberalitade.
16. La terza cosa, ne la quale si può notare la
pronta liberalitade, si è dare non domandato: acciò che ’l
domandato è da una parte non vertù ma mercatantia, però
che lo ricevitore compera, tutto che ’l datore non venda. Per che dice Seneca
che «nulla cosa più cara si compera che quella dove i prieghi si
spendono». 17. Onde acciò che nel dono sia pronta liberalitade e
che essa si possa in esso notare, allora, s[e] conviene esser netto d’ogni atto
di mercatantia, conviene esser lo dono non domandato. 18. Perchè
sì caro costa quello che si priega, non intendo qui ragionare,
perchè sufficientemente si ragionerà ne l’ultimo trattato di
questo libro.
CAPITOLO IX.
1. Da tutte le tre sopra notate condizioni, che
convegnono concorrere acciò che sia nel beneficio la pronta
liberalitade, era lo comento latino [lontano], e lo volgare è con
quelle, sì come si può manifestamente così contare. 2.
Non avrebbe lo latino così servito a molti: chè se noi reducemo a
memoria quello che di sovra è ragionato, li litterati fuori di lingua
italica non averebbono potuto avere questo servigio, e quelli di questa lingua,
se noi volemo bene vedere chi sono, troveremo che de’ mille l’uno
ragionevolmente non sarebbe stato servito; però che non l’averebbero
ricevuto, tanto sono pronti ad avarizia che da ogni nobilitade d’animo li
rimuove, la quale massimamente desidera questo cibo. 3. E a vituperio di
loro dico che non si deono chiamare litterati, però che non acquistano
la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano denari o
dignitate; sì come non si dee chiamare citarista chi tiene la cetera in
casa per prestarla per prezzo, e non per usarla per sonare. 4. Tornando
dunque al principale proposito, dico che manifestamente si può vedere
come lo latino averebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare
servirà veramente a molti. 5. Chè la bontà de
l’animo, la quale questo servigio attende, è in coloro che per malvagia
disusanza del mondo hanno lasciata la litteratura a coloro che l’hanno fatta di
donna meretrice; e questi nobili sono principi, baroni, cavalieri, e molt’altra
nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa
lingua, volgari e non litterati.
6. Ancora, non sarebbe lo latino stato datore d’utile
dono, che sarà lo volgare. Però che nulla cosa è utile, se
non in quanto è usata, nè è la sua bontade in potenza, che
non è essere perfettamente; sì come l’oro, le margarite e li
altri tesori che sono sotterrati…..; però che quelli che sono a mano de
l’avaro sono in più basso loco che non è la terra là dove
lo tesoro è nascosto. 7. Lo dono veramente di questo comento
è la sentenza de le canzoni a le quali fatto è, la qual
massimamente intende inducere li uomini a scienza e a vertù, sì
come si vedrà per lo pelago del loro trattato. 8. Questa sentenza
non possono non avere in uso quelli ne li quali vera nobilità è seminata
per lo modo che si dirà nel quarto trattato; e questi sono quasi tutti
volgari, sì come sono quelli nobili che di sopra, in questo capitolo,
sono nominati. 9. E non ha contradizione perchè alcuno litterato
sia di quelli; chè, sì come dice il mio maestro Aristotile nel
primo de l’Etica, «una rondine non fa primavera». È adunque manifesto
che lo volgare darà cosa utile, e lo latino non l’averebbe data.
10. Ancora, darà lo volgare dono non dimandato,
che non l’averebbe dato lo latino: però che darà se medesimo per
comento, che mai non fu domandato da persona; e questo non si può dire
de lo latino, che per comento e per chiose a molte scritture è
già stato domandato, sì come ne’ loro principii si può
vedere apertamente in molte. 11. E così è manifesto che
pronta liberalitade mi mosse al volgare anzi che a lo latino.
CAPITOLO X.
1. Grande vuole essere la scusa, quando a così
nobile convivio per le sue vivande, a così onorevole per li suoi
convitati, s’appone pane di biado e non di frumento; e vuole essere evidente
ragione che partire faccia l’uomo da quello che per li altri è stato
servato lungamente, sì come di comentare con latino. 2. E
però vuole essere manifesta la ragione, che de le nuove cose lo fine non
è certo; acciò che la esperienza non è mai avuta onde le
cose usate e servate sono e nel processo e nel fine commisurate. 3.
Però si mosse la Ragione a comandare che l’uomo avesse diligente
riguardo ad entrare nel nuovo cammino, dicendo che ‘ne lo statuire le nuove
cose evidente ragione dee essere quella che partire ne faccia da quello che
lungamente è usato’. 4. Non si maravigli dunque alcuno se lunga
è la digressione de la mia scusa, ma, sì come necessaria, la sua
lunghezza paziente sostenga. 5. La quale proseguendo, dico che - poi
ch’è manifesto come per cessare disconvenevole disordinazione e come per
prontezza di liberalitade io mi mossi al volgare comento e lasciai lo latino -
l’ordine de la intera scusa vuole ch’io mostri come a ciò mi mossi per
lo naturale amore de la propria loquela; che è la terza e l’ultima
ragione che a ciò mi mosse. 6. Dico che lo naturale amore
principalmente muove l’amatore a tre cose: l’una si è a magnificare
l’amato; l’altra è ad esser geloso di quello; l’altra è a
difendere lui, sì come ciascuno può vedere continuamente
avvenire. E queste tre cose mi fecero prendere lui, cioè lo nostro
volgare, lo qual naturalmente e accidentalmente amo e ho amato. 7.
Mossimi prima per magnificare lui. E che in ciò io lo magnifico, per
questa ragione vedere si può; avvegna che per molte condizioni di
grandezze le cose si possono magnificare, cioè fare grandi, e nulla fa
tanto grande quanto la grandezza de la propia bontade, la quale è madre
e conservatrice de l’altre grandezze; 8. onde nulla grandezza puote
avere l’uomo maggiore che quella de la virtuosa operazione, che è sua
propia bontade, per la quale le grandezze de le vere dignitadi, de li veri
onori, de le vere potenze, de le vere ricchezze, de li veri amici, de la vera e
chiara fama, e acquistate e conservate sono: 9. e questa grandezza do io
a questo amico, in quanto quello elli di bontade avea in podere e occulto, io
lo fo avere in atto e palese ne la sua propria operazione, che è
manifestare conceputa sentenza.
10. Mossimi secondamente per gelosia di lui. La
gelosia de l’amico fa l’uomo sollicito a lunga provedenza. Onde pensando che lo
desiderio d’intendere queste canzoni, a alcuno illitterato avrebbe fatto lo
comento latino transmutare in volgare, e temendo che ’l volgare non fosse stato
posto per alcuno che l’avesse laido fatto parere, come fece quelli che
transmutò lo latino de l’Etica - ciò fu Taddeo ipocratista -,
providi a ponere lui, fidandomi di me di più che d’un altro. 11.
Mossimi ancora per difendere lui da molti suoi accusatori, li quali dispregiano
esso e commendano li altri, massimamente quello di lingua d’oco, dicendo che
è più bello e migliore quello che questo; partendose in
ciò da la veritade. 12. Chè per questo comento la gran
bontade del volgare di sì [si vedrà]; però che si
vedrà la sua vertù, sì com’è per esso altissimi e
novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente e acconciamente, quasi
come per esso latino, manifestare; [la quale non si potea bene manifestare] ne
le cose rimate, per le accidentali adornezze che quivi sono connesse,
cioè la rima e lo ri[tim]o e lo numero regolato: sì come non si
può bene manifestare la bellezza d’una donna, quando li adornamenti de
l’azzimare e de le vestimenta la fanno più ammirare che essa medesima. 13.
Onde chi vuole ben giudicare d’una donna, guardi quella quando solo sua
naturale bellezza si sta con lei, da tutto accidentale adornamento
discompagnata: sì come sarà questo comento, nel quale si
vedrà l’agevolezza de le sue sillabe, le proprietadi de le sue
co[stru]zioni e le soavi orazioni che di lui si fanno; le quali chi bene
agguarderà, vedrà essere piene di dolcissima e d’amabilissima
bellezza. 14. Ma però che virtuosissimo è ne la ’ntenzione
mostrare lo difetto e la malizia de lo accusatore, dirò, a confusione di
coloro che accusano la italica loquela, perchè a ciò fare si
muovono; e di ciò farò al presente speziale capitolo,
perchè più notevole sia la loro infamia.
CAPITOLO XI.
3. De la prima si può così ragionare.
Sì come la parte sensitiva de l’anima ha suoi occhi, con li quali
apprende la differenza de le cose in quanto elle sono di fuori colorate,
così la parte razionale ha suo occhio, con lo quale apprende la
differenza de le cose in quanto sono ad alcuno fine ordinate: e questa è
la discrezione. 4. E sì come colui che è cieco de li occhi
sensibili va sempre secondo che li altri [il guidano, o] male [o] bene,
così colui che è cieco del lume della discrezione sempre va nel
suo giudicio secondo il grido, o diritto o falso; onde qualunque ora lo
guidatore è cieco, conviene che esso e quello, anche cieco, ch’a lui
s’appoggia, vegnano a mal fine. Però è scritto che «’l cieco al
cieco farà guida, e così cadranno ambedue ne la fossa». 5.
Questa grida è stata lungamente contro a nostro volgare, per le ragioni
che di sotto si ragioneranno, appresso di questa. E li ciechi sopra notati, che
sono quasi infiniti, con la mano in su la spalla a questi mentitori, sono
caduti ne la fossa de la falsa oppinione, de la quale uscire non sanno. 6.
De l’abito di questa luce discretiva massimamente le populari persone sono
orbate; però che, occupate dal principio de la loro vita ad alcuno
mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la
necessitate, che ad altro non intendono. 7. E però che l’abito di
vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si
può, ma conviene che per usanza s’acquisti, ed ellino la loro usanza
pongono in alcuna arte e a discernere l’altre cose non curano, impossibile
è a loro discrezione avere. 8. Per che incontra che molte volte
gridano Viva la loro morte, e Muoia la loro vita, pur che alcuno cominci; e
quest’è pericolosissimo difetto ne la loro cechitade. Onde Boezio
giudica la populare gloria vana, perchè la vede sanza discrezione. 9.
Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; chè se una pecora si
gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se
una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre
saltano, eziandio nulla veggendo da saltare. 10. E io ne vidi già
molte in uno pozzo saltare per una che dentro vi saltò, forse credendo
saltare uno muro, non ostante che ’l pastore, piangendo e gridando, con le
braccia e col petto dinanzi a esse si parava.
11. La seconda setta contra nostro volgare si fa per
una maliziata scusa. Molti sono che amano più d’essere tenuti maestri
che d’essere, e per fuggir lo contrario, cioè di non esser tenuti,
sempre danno colpa a la materia de l’arte apparecchiata, o vero a lo strumento;
sì come lo mal fabbro biasima lo ferro appresentato a lui, e lo malo
citarista biasima la cetera, credendo dare la colpa del mal coltello e del mal
sonare al ferro e alla cetera, e levarla a sè. 12. Così
sono alquanti, e non pochi, che vogliono che l’uomo li tegna dicitori; e per
scusarsi dal non dire o dal dire male accusano e incolpano la materia,
cioè lo volgare proprio, e commendano l’altro lo quale non è loro
richesto di fabbricare. 13. E chi vuole vedere come questo ferro
è da biasimare, guardi che opere ne fanno li buoni artefici, e
conoscerà la malizia di costoro che, biasimando lui, s[è] credono
scusare. 14. Contra questi cotali grida Tullio nel principio d’un suo
libro che si chiama Libro di Fine de’ Beni, però che al suo tempo
biasimavano lo latino romano e commendavano la gramatica greca per simiglianti
cagioni che questi fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza.
15. La terza setta contra nostro volgare si fa per
cupiditate di vanagloria. Sono molti che per ritrarre cose poste in altrui
lingua e commendare quella, credono più essere ammirati che ritraendo
quelle de la sua. E sanza dubbio non è sanza loda d’ingegno apprendere
bene la lingua strana; ma biasimevole è commendare quella oltre a la
verità, per farsi glorioso di tale acquisto.
16. La quarta si fa da uno argomento d’invidia.
Sì come è detto di sopra, la invidia è sempre dove
è alcuna paritade. Intra li uomini d’una lingua è la paritade del
volgare; e perchè l’uno quella non sa usare come l’altro, nasce invidia.
17. Lo invidioso poi argomenta, non biasimando colui che dice di non
saper dire, ma biasima quello che è materia de la sua opera, per torre,
dispregiando l’opera da quella parte, a lui che dice onore e fama; sì
come colui che biasimasse lo ferro d’una spada, non per biasimo dare al ferro,
ma a tutta l’opera del maestro.
18. La quinta e ultima setta si muove da viltà
d’animo. Sempre lo magnanimo si magnifica in suo cuore, e così lo
pusillanimo, per contrario, sempre si tiene meno che non è. 19. E
perchè magnificare e parvificare sempre hanno rispetto ad alcuna cosa
per comparazione a la quale si fa lo magnanimo grande e lo pusillanimo piccolo,
avviene che ’l magnanimo sempre fa minori li altri che non sono, e lo
pusillanimo sempre maggiori. 20. E però che con quella misura che
l’uomo misura se medesimo, misura le sue cose, che sono quasi parte di se
medesimo, avviene che al magnanimo le sue cose sempre paiono migliori che non
sono, e l’altrui men buone: lo pusillanimo sempre le sue cose crede valere
poco, e l’altrui assai; onde molti per questa viltade dispregiano lo proprio
volgare, e l’altrui pregiano. 21. E tutti questi cotali sono li
abominevoli cattivi d’Italia che hanno a vile questo prezioso volgare, lo
quale, s’è vile in alcuna [cosa], non è se non in quanto elli
suona ne la bocca meretrice di questi adulteri; a lo cui condutto vanno li
ciechi de li quali ne la prima cagione feci menzione.
CAPITOLO XII.
1. Se manifestamente per le finestre d’una casa
uscisse fiamma di fuoco, e alcuno dimandasse se là dentro fosse il
fuoco, e un altro rispondesse a lui di sì, non saprei bene giudicare
qual di costoro fosse da schernire di più. E non altrimenti sarebbe
fatta la dimanda e la risposta di colui e di me, che mi domandasse se amore a
la mia loquela propria è in me e io li rispondesse di sì,
appresso le su proposte ragioni. 2. Ma tuttavia, e a mostrare che non
solamente amore ma perfettissimo amore di quella è in me, e a biasimare
ancora li suoi avversarii ciò mostrando a chi bene intenderà,
dirò come a lei fui fatto amico, e poi come l’amistà è
confermata. 3. Dico che, sì come vedere si può che
s[crive] Tullio in quello De Amicitia, non discordando da la sentenza del
Filosofo aperta ne l’ottavo e nel nono de l’Etica, naturalmente la prossimitade
e la bontade sono cagioni d’amore generative; lo beneficio, lo studio e la
consuetudine sono cagioni d’amore accrescitive. E tutte queste cagioni vi sono
state a generare e a confortare l’amore ch’io porto al mio volgare, sì
come brievemente io mosterrò.
4. Tanto è la cosa più prossima quanto,
di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di
tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre; di tutte
l’arti la medicina è la più prossima al medico, e la musica al
musico, però che a loro sono più unite che l’altre; di tutta la
terra è più prossima quella dove l’uomo tiene se medesimo,
però che è ad esso più unita. 5. E così lo
volgare è più prossimo quanto è più unito, che uno
e solo è prima ne la mente che alcuno altro, e che non solamente per
sè è unito, ma per accidente, in quanto è congiunto con le
più prossime persone, sì come con li parenti e con li propri
cittadini e con la propria gente. 6. E questo è lo volgare
proprio; lo quale è non prossimo, ma massimamente prossimo a ciascuno.
Per che, se la prossimitade è seme d’amistà, come detto è
di sopra, manifesto è ch’ella è de le cagioni stata de l’amore
ch’io porto a la mia loquela, che è a me prossima più che
l’altre. 7. La sopra detta cagione, cioè d’essere più
unito quello ch’è solo prima in tutta la mente, mosse la consuetudine de
la gente, che fanno li primogeniti succedere solamente, sì come
più propinqui e perchè più propinqui, più amati.
8. Ancora, la bontade fece me a lei amico. E qui
è da sapere che ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in
quella: sì come ne la maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza
essere ben pulita di barba in tutta la faccia; sì come nel bracco bene odorare,
e sì come nel veltro ben correre. 9. E quanto ella è
più propria, tanto ancora è più amabile; onde, avvegna che
ciascuna vertù sia amabile ne l’uomo, quella è più amabile
in esso che è più umana, e questa è la giustizia, la quale
è solamente ne la parte razionale o vero intellettuale, cioè ne
la volontade. 10. Questa è tanto amabile, che, sì come
dice lo Filosofo nel quinto de l’Etica, li suoi nimici l’amano, sì come
sono ladroni e rubatori; e però vedemo che ’l suo contrario, cioè
la ingiustizia, massimamente è odiata, sì come è
tradimento, ingratitudine, falsitade, furto, rapina, inganno e loro simili. 11.
Li quali sono tanto inumani peccati, che ad iscusare sè de l’infamia di
quelli, si concede da lunga usanza che uomo parli di sè, sì come
detto è di sopra, e possa dire sè essere fedele e leale. 12.
Di questa vertù innanzi dicerò più pienamente nel
quartodecimo trattato; e qui lasciando, torno al proposito. Provato è
adunque la bontà de la cosa più propria [più essere
amabile in quella; per che, a mostrare quale in essa è più
propria,] è da vedere quella che più in essa è amata e
commendata, e quella è essa. 13. E noi vedemo che in ciascuna
cosa di sermone lo bene manifestare del concetto sì è più
amato e commendato: dunque è questa la prima sua bontade. E con
ciò sia cosa che questa sia nel nostro volgare, sì come
manifestato è di sopra in altro capitolo, manifesto è ched ella
è de le cagioni stata de l’amore ch’io porto ad esso; poi che, sì
come detto è, la bontade è cagione d’amore generativa.
CAPITOLO XIII.
1. Detto come ne la propria loquela sono quelle due
cose per le quali io sono fatto a lei amico, cioè prossimitade a me e
bontà propria, dirò come per beneficio e concordia di studio e
per benivolenza di lunga consuetudine l’amistà è confermata e
fatta grande.
2. Dico, prima, ch’io per me ho da lei ricevuto dono
di grandissimi benefici. E però è da sapere che intra tutti i
benefici è maggiore quello che più è prezioso a chi
riceve; e nulla cosa è tanto preziosa, quanto quella per la quale tutte
l’altre si vogliono; e tutte l’altre cose si vogliono per la perfezione di
colui che vuole. 3. Onde con ciò sia cosa che due perfezioni
abbia l’uomo, una prima e una seconda - la prima lo fa essere, la seconda lo fa
essere buono -, se la propria loquela m’è stata cagione e de l’una e de
l’altra, grandissimo beneficio da lei ho ricevuto. E ch’ella sia stata a me
d’essere [cagione, e ancora di buono essere] se per me non stesse, brievemente
si può mostrare.
4. Non è secondo [lo Filosofo impossibile,
sì come dice ne la Fisica al libro secondo] a una cosa esser più
cagioni efficienti, avvegna che una sia massima de l’altre; onde lo fuoco e lo
martello sono cagioni efficienti de lo coltello, avvegna che massimamente
è il fabbro. Questo mio volgare fu congiugnitore de li miei generanti,
che con esso parlavano, sì come ’l fuoco è disponitore del ferro
al fabbro che fa lo coltello; per che manifesto è lui essere concorso a
la mia generazione, e così essere alcuna cagione del mio essere. 5.
Ancora, questo mio volgare fu introduttore di me ne la via di scienza, che
è ultima perfezione, in quanto con esso io entrai ne lo latino e con
esso mi fu mostrato: lo quale latino poi mi fu via a più innanzi andare.
E così è palese, e per me conosciuto, esso essere stato a me grandissimo
benefattore.
6. Anche, è stato meco d’uno medesimo studio,
e ciò posso così mostrare. Ciascuna cosa studia naturalmente a la
sua conservazione: onde, se lo volgare per sè studiare potesse,
studierebbe a quella; e quella sarebbe acconciare sè a più
stabilitade, e più stabilitade non potrebbe avere che in legar sè
con numero e con rime. 7. E questo medesimo studio è stato mio,
sì come tanto è palese che non dimanda testimonianza. Per che uno
medesimo studio è stato lo suo e ’l mio; per che di questa concordia
l’amistà è confermata e accresciuta. 8. Anche c’è
stata la benivolenza de la consuetudine, chè dal principio de la mia
vita ho avuta con esso benivolenza e conversazione, e usato quello diliberando,
interpetrando e questionando. 9. Per che, se l’amistà s’accresce
per la consuetudine, sì come sensibilmente appare, manifesto è
che essa in me massimamente è cresciuta, che sono con esso volgare tutto
mio tempo usato. 10. E così si vede essere a questa amistà
concorse tutte le cagioni generative e accrescitive de l’amistade: per che si
conchiude che non solamente amore, ma perfettissimo amore sia quello ch’io a
lui debbo avere e ho.
11. Così rivolgendo li occhi a dietro, e
raccogliendo le ragioni prenotate, puotesi vedere questo pane, col quale si deono
mangiare le infrascritte canzoni, essere sufficientemente purgato da le macule
e da l’essere di biado; per che tempo è d’intendere a ministrare le
vivande. 12. Questo sarà quello pane orzato del quale si
satolleranno migliaia, e a me ne soperchieranno le sporte piene. Questo
sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove
l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in
oscuritade per lo usato sole che a loro non luce.
TRATTATO SECONDO.
CANZONE PRIMA.
Voi che ’ntendendo il terzo ciel
movete,
udite il ragionar ch’è
nel mio core,
ch’io nol so dire altrui,
sì mi par novo.
El ciel che segue lo vostro
valore,
5 gentili creature che voi sete,
mi tragge ne lo stato ov’io mi trovo.
Onde ’l parlar de la vita ch’io provo,
par che si drizzi degnamente a vui:
però vi priego che lo mi ’ntendiate.
10 Io vi dirò del cor la novitate,
come l’anima trista piange in lui,
e come un spirto contra lei favella,
che vien pe’ raggi de la vostra stella.
15 un soave penser, che se ne gia
molte fiate a’ pie’ del nostro Sire,
ove una donna gloriar vedia,
di cui parlava me sì dolcemente
che l’anima dicea: «Io men vo’ gire».
20 Or apparisce chi lo fa fuggire
e segnoreggia me di tal virtute,
che ’l cor ne trema che di fuori appare.
Questi mi face una donna guardare,
e dice: «Chi veder vuol la salute,
25 faccia che li occhi d’esta donna miri,
sed e’ non teme angoscia di sospiri».
Trova contraro
tal che lo distrugge
l’umil pensero, che parlar mi sole
d’un’angela che ’n cielo è coronata.
30 L’anima piange, sì ancor len dole,
e dice: «Oh lassa a me, come si fugge
questo piatoso che m’ha consolata!»
De li occhi miei dice questa affannata:
«Qual ora fu che tal donna li vide!
35 e perchè non credeano a me di lei?
Io dicea: ‘Ben ne li occhi di costei
de’ star colui che le mie pari ancide!’
E non mi valse ch’io ne fossi accorta
che non mirasser tal, ch’io ne son morta».
40 «Tu non
se’ morta, ma se’ ismarrita,
anima nostra, che sì ti
lamenti»
dice uno spiritel d’amor
gentile;
«chè quella bella donna
che tu senti,
ha transmutata in tanto la tua
vita,
45 che n’hai paura, sì se’ fatta vile!
Mira quant’ell’è pietosa e umile,
saggia e cortese ne la sua grandezza,
e pensa di chiamarla donna, omai!
Chè se tu non t’inganni, tu vedrai
50 di sì alti miracoli adornezza,
che tu dirai: ‘Amor, segnor verace,
ecco l’ancella tua; fa che ti piace’.»
Canzone, io
credo che saranno radi
color che tua ragione intendan bene,
55 tanto la parli faticosa e forte.
Onde, se per ventura elli addivene
che tu dinanzi da persone vadi
che non ti paian d’essa bene accorte,
allor ti priego che ti riconforte,
60 dicendo lor, diletta mia novella:
«Ponete mente almen com’io son bella!»
CAPITOLO I.
1. Poi che proemialmente ragionando, me ministro,
è lo mio pane ne lo precedente trattato con sufficienza preparato, lo
tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato
l’artimone de la ragione a l’òra del mio desiderio, entro in pelago con
isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile ne la fine de la
mia cena. Ma però che più profittabile sia questo mio cibo, prima
che vegna la prima vivanda voglio mostrare come mangiare si dee.
2. Dico che, sì come nel primo capitolo
è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e allegorica. E a
ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono
intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. 3. L’uno si
chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre
che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li
poeti. L’altro si chiama allegorico,] e questo è quello che si nasconde
sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella
menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera
mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sè muovere; che vuol dire
che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce fa[r]ia mansuescere e
umiliare li crudeli cuori, e fa[r]ia muovere a la sua volontade coloro che non
hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna
sono quasi come pietre. 4. E perchè questo nascondimento fosse
trovato per li savi, nel penultimo trattato si mosterrà. Veramente li
teologi questo senso prendono altrimenti che li poeti; ma però che mia
intenzione è qui lo modo de li poeti seguitare, prendo lo senso
allegorico secondo che per li poeti è usato.
5. Lo terzo senso si chiama morale, e questo è
quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad
utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne
lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici
Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che
a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia.
6. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè
sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la
quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate
significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si
può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo
d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. 7. Chè
avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero
quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal
peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. 8. E in
dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello
ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile
ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico. 9.
È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di
fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al di fuori:
onde, con ciò sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia
sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a
l’allegorica, sanza prima venire a la litterale. 10. Ancora, è
impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è
impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra
che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l’oro è
venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e
apparecchiata; e la forma de l’arca venire, se la materia, cioè lo
legno, non è prima disposta e apparecchiata. 11. Onde con
ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de
l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è prima venire a la
conoscenza de l’altre che a la sua. 12. Ancora, è impossibile
però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile
procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa
e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che ’l
dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia
fondamento de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è a
l’altre venire prima che a quella.
13. Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe
inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con
molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo
de la Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra
conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che
conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via
di conoscere è in noi naturalmente innata. 14. E però se li
altri sensi dal litterale sono meno intesi - che sono, sì come
manifestamente pare -, inrazionabile sarebbe procedere ad essi dimostrare, se
prima lo litterale non fosse dimostrato. 15. Io adunque, per queste
ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale
sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè
la nascosa veritade; e talvolta de li altri sensi toccherò
incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà.
CAPITOLO II.
1. Cominciando
adunque, dico che la stella di Venere due fiate rivolta era in quello suo
cerchio che la fa parere serotina e matutina, secondo diversi tempi, appresso
lo trapassamento di quella Beatrice beata che vive in cielo con li angeli e in
terra con la mia anima, quando quella gentile donna, cui feci menzione ne la
fine de la Vita Nuova, parve primamente, accompagnata d’Amore, a li occhi miei
e prese luogo alcuno ne la mia mente. 2. E sì come è
ragionato per me ne lo allegato libello, più da sua gentilezza che da
mia elezione venne ch’io ad essere suo consentisse; chè passionata di
tanta misericordia si dimostrava sopra la mia vedovata vita, che li spiriti de
li occhi miei a lei si fero massimamente amici. E così fatti, dentro
[me] lei poi fero tale, che lo mio beneplacito fu contento a disposarsi a
quella imagine. 3. Ma però che non subitamente nasce amore e
fassi grande e viene perfetto, ma vuole tempo alcuno e nutrimento di pensieri,
massimamente là dove sono pensieri contrari che lo ’mpediscano,
convenne, prima che questo nuovo amore fosse perfetto, molta battaglia intra lo
pensiero del suo nutrimento e quello che li era contraro, lo quale per quella
gloriosa Beatrice tenea ancora la rocca de la mia mente. 4. Però
che l’uno era soccorso de la parte [de la vista] dinanzi continuamente, e l’altro
de la parte de la memoria di dietro. E lo soccorso dinanzi ciascuno die
crescea, che far non potea l’altro, con[tr]o quello, chè impediva in
alcuno modo a dare indietro il volto; per che a me parve sì mirabile, e
anche duro a sofferire, che io nol potei sostenere. 5. E quasi
esclamando, e per iscusare me de la v[a]ri[e]tade ne la quale parea me avere
manco di fortezza, dirizzai la voce mia in quella parte onde procedeva la
vittoria del nuovo pensiero, ch’era virtuosissimo sì come vertù
celestiale; e cominciai a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete.
7. Adunque dico
che la canzone proposta è contenuta da tre parti principali. La prima
è lo primo verso di quella: ne la quale s’inducono a udire ciò
che dire intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo
dire Angeli, le quali sono a la revoluzione del cielo di Venere, sì come
movitori di quello. 8. La seconda è li tre versi che appresso del
primo sono: ne la quale si manifesta quel che dentro spiritualmente si sentiva
intra’ diversi pensieri. 9. La terza è lo quinto e l’ultimo
verso: ne la quale sì vuole l’uomo parlare a l’opera medesima, quasi a
confortare quella. E queste tutte e tre parti, per ordine sono, come è
detto di sopra, a dimostrare.
CAPITOLO III.
3. Dico adunque, che del numero de li cieli e del
sito diversamente è sentito da molti, avvegna che la veritade a l’ultimo
sia trovata. Aristotile credette, seguitando solamente l’antica grossezza de li
astrologi, che fossero pure otto cieli, de li quali lo estremo, e che
contenesse tutto, fosse quello dove le stelle fisse sono, cioè la spera
ottava; e che di fuori da esso non fosse altro alcuno. 4. Ancora
credette che lo cielo del Sole fosse immediato con quello de la Luna,
cioè secondo a noi. E questa sua sentenza così erronea può
vedere chi vuole nel secondo De Celo et Mundo, ch’è nel secondo de’
libri naturali. Veramente elli di ciò si scusa nel duodecimo de la
Metafisica, dove mostra bene sè avere seguito pur l’altrui sentenza
là dove d’astrologia li convenne parlare.
5. Tolomeo poi, accorgendosi che l’ottava spera si
movea per più movimenti, veggendo lo cerchio suo partire da lo diritto
cerchio, che volge tutto da oriente in occidente, costretto da li principii di
filosofia, che di necessitade vuole uno primo mobile semplicissimo, puose un
altro cielo essere fuori de lo Stellato, lo quale facesse questa revoluzione da
oriente in occidente: la quale dico che si compie quasi in ventiquattro ore,
[cioè in ventitrè ore] e quattordici parti de le quindici
d’un’altra, grossamente assegnando. 6. Sì che secondo lui,
secondo quello che si tiene in astrologia ed in filosofia poi che quelli movimenti
furon veduti, sono nove cieli mobili; lo sito de li quali è manifesto e
diterminato, secondo che per un’arte che si chiama perspettiva, e [per]
arismetrica e geometria, sensibilmente e ragionevolmente è veduto, e per
altre esperienze sensibili: sì come ne lo eclipsi del sole appare
sensibilmente la luna essere sotto lo sole, e sì come per testimonianza
d’Aristotile, che vide con li occhi (secondo che dice nel secondo De Celo et
Mundo) la luna, essendo nuova, entrare sotto a Marte da la parte non lucente, e
Marte stare celato tanto che rapparve da l’altra parte lucente de la luna,
ch’era verso occidente.
[iv]. 7. Ed è l’ordine del
sito questo, che lo primo che numerano è quello dove è la Luna;
lo secondo è quello dov’è Mercurio; lo terzo è quello dov’è
Venere; lo quarto è quello dove è lo Sole; lo quinto è
quello di Marte; lo sesto è quello di Giove; lo settimo è quello
di Saturno; l’ottavo è quello de le Stelle; lo nono è quello che
non è sensibile se non per questo movimento che è detto di sopra;
lo quale chiamano molti Cristallino, cioè diafano, o vero tutto
trasparente. 8. Veramente, fuori di tutti questi, li cattolici pongono
lo cielo Empireo, che è a dire cielo di fiamma o vero luminoso; e
pongono esso essere immobile per avere in sè, secondo ciascuna parte,
ciò che la sua materia vuole. 9. E questo è cagione al
Primo Mobile per avere velocissimo movimento; chè per lo ferventissimo
appetito ch’è in ciascuna parte di quello nono cielo, che è
immediato a quello, d’essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo
ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitade
è quasi incomprensibile. 10. E quieto e pacifico è lo
luogo di quella somma Deitade che sola [sè] compiutamente vede. Questo
loco è di spiriti beati, secondo che la Santa Chiesa vuole, che non
può dire menzogna; e Aristotile pare ciò sentire, a chi bene lo
’ntende, nel primo De Celo et Mundo. 11. Questo è lo soprano
edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude, e di fuori dal quale
nulla è; ed esso non è in luogo ma formato fu solo ne la prima
Mente, la quale li Greci dicono Protonoè. Questa è quella
magnificenza de la quale parlò il Salmista quando dice a Dio: «Levata
è la magnificenza tua sopra li cieli». 12. E così
ricogliendo ciò che ragionato è, pare che diece cieli siano, de
li quali quello di Venere sia lo terzo, del quale si fa menzione in quella
parte che mostrare intendo.
13. Ed è da sapere che ciascuno cielo di sotto
al Cristallino ha due poli fermi, quanto a sè; e lo nono li ha fermi e
fissi, e non mutabili secondo alcuno respetto. E ciascuno, sì lo nono
come li altri, hanno un cerchio, che si può chiamare equatore del suo
cielo proprio; lo quale igualmente in ciascuna parte de la sua revoluzione
è rimoto da l’uno polo e da l’altro, come può sensibilmente
vedere chi volge un pomo, o altra cosa ritonda. E questo cerchio ha più
rattezza nel muovere che alcuna parte del suo cielo, in ciascuno cielo, come
può vedere chi bene considera. 14. E ciascuna parte, quant’ella
più è presso ad esso, tanto più rattamente si muove;
quanto più n’è remota e più presso al polo, più
è tarda, però che la sua revoluzione è minore, e conviene
essere in uno medesimo tempo, di necessitade, con la maggiore. 15. Dico
ancora, che quanto lo cielo più è presso al cerchio equatore
tanto è più nobile per comparazione a li suoi [poli], però
che ha più movimento e più attualitade e più vita e
più forma, e più tocca di quello che è sopra sè, e
per consequente più è virtuoso. Onde le stelle del Cielo Stellato
sono più piene di vertù tra loro quanto più sono presso a
questo cerchio.
16. E in sul dosso di questo cerchio, nel cielo di
Venere, del quale al presente si tratta, è una speretta che per se
medesima in esso cielo si volge; lo cerchio de la quale li astrologi chiamano
epiciclo. E sì come la grande spera due poli volge, così questa
picciola, e così ha questa picciola lo cerchio equatore, e così
è più nobile quanto è più presso di quello; e in su
l’arco, o vero dosso, di questo cerchio è fissa la lucentissima stella
di Venere. 17. E avvegna che detto sia essere diece cieli secondo la
stretta veritade, questo numero non li comprende tutti; chè questo di
cui è fatta menzione, cioè l’epiciclo nel quale è fissa la
stella, è uno cielo per sè, o vero spera, e non ha una essenza
con quello che ’l porta, avvegna che più sia connaturato ad esso che li
altri; e con esso è chiamato uno cielo, e dinominasi l’uno e l’altro da
la stella. 18. Come li altri cieli e l’altre stelle siano, non è
al presente da trattare: basti ciò che detto è de la veritade del
terzo cielo, del quale al presente intendo e del quale compiutamente è
mostrato quello che al presente n’è mestiere.
CAPITOLO IV [v].
1. Poi ch’è mostrato nel precedente capitolo
quale è questo terzo cielo e come in se medesimo è disposto,
resta di dimostrare chi sono questi che ’l muovono. 2. È adunque
da sapere primamente che li movitori di quelli sono sustanze separate da
materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E
di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno
sentito, avvegna che la veritade sia trovata. 3. Furono certi filosofi,
de’ quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica (avvegna che nel primo di
Cielo incidentemente paia sentire altrimenti), che credettero solamente essere
tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più,
dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione;
ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro
operazione. 4. Altri furono, sì come Plato, uomo eccellentissimo,
che puosero non solamente tante Intelligenze quanti sono li movimenti del
cielo, ma eziandio quante sono le spezie de le cose (cioè le maniere de
le cose): sì come è una spezie tutti li uomini, e un’altra tutto
l’oro, e un’altra tutte le larghezze, e così di tutte. 5. E
volsero che sì come le Intelligenze de li cieli sono generatrici di
quelli, ciascuna del suo, così queste fossero generatrici de l’altre
cose ed essempli, ciascuna de la sua spezie; e chiamale Plato ‘idee’, che tanto
è a dire quanto forme e nature universali. 6. Li gentili le
chiamano Dei e Dee, avvegna che non così filosoficamente intendessero
quelle come Plato, e adoravano le loro imagini, e faceano loro grandissimi
templi: sì come a Giuno, la quale dissero dea di potenza; sì come
a Pallade o vero Minerva, la quale dissero dea di sapienza; sì come a
Vulcano, lo quale dissero dio del fuoco, ed a Cerere, la quale dissero dea de
la biada. 7. Le quali cose e oppinioni manifesta la testimonianza de’
poeti, che ritraggono in parte alcuna lo modo de’ gentili e ne li sacrifici e
ne la loro fede; e anco si manifesta in molti nomi antichi rimasi o per nomi o
per sopranomi a lochi e antichi edifici, come può bene ritrovare chi
vuole.
8. E avvegna che per ragione umana queste oppinioni
di sopra fossero fornite, e per esperienza non lieve, la veritade ancora per
loro veduta non fue e per difetto di ragione e per difetto d’ammaestramento;
chè pur per ragione veder si può in molto maggiore numero esser
le creature sopra dette, che non sono li effetti che [da] li uomini si possono
intendere. 9. E l’una ragione è questa. Nessuno dubita, nè
filosofo nè gentile nè giudeo nè cristiano nè
alcuna setta, ch’elle non siano piene di tutta beatitudine, o tutte o la
maggior parte, e che quelle beate non siano in perfettissimo stato. 10.
Onde, con ciò sia cosa che quella che è qui l’umana natura non
pur una beatitudine abbia, ma due, sì com’è quella de la vita
civile, e quella de la contemplativa, inrazionale sarebbe se noi vedemo quelle
avere la beatitudine de la vita attiva, cioè civile, nel governare del
mondo, e non avessero quella de la contemplativa, la quale è più
eccellente e più divina. 11. E con ciò sia cosa che quella
che ha la beatitudine del governare non possa l’altra avere, perchè lo
’ntelletto loro è uno e perpetuo, conviene essere altre fuori di questo
ministerio che solamente vivano speculando. 12. E perchè questa
vita è più divina, e quanto la cosa è più divina
è più di Dio simigliante, manifesto è che questa vita
è da Dio più amata; e se ella è più amata, più
le è la sua beatanza stata larga; e se più l’è stata
larga, più viventi le ha dato che a l’altrui. Per che si conchiude che
troppo maggior numero sia quello di quelle creature che li effetti non
dimostrano. 13. E non è contra quello che par dire Aristotile nel
decimo de l’Etica, che a le sustanze separate convegna pure la speculativa
vita. Come pure la speculativa convegna loro, pure a la speculazione di certe
segue la circulazione del cielo, che è del mondo governo; lo quale
è quasi una ordinata civilitade, intesa ne la speculazione de li motori.
14. L’altra ragione sì è che nullo
effetto è maggiore de la cagione, poi che la cagione non può dare
quello che non ha; ond’è, con ciò sia cosa che lo divino
intelletto sia cagione di tutto, massimamente de lo ’ntelletto umano, che lo
umano quello non soperchia, ma da esso è improporzionalmente
soperchiato. 15. Dunque se noi, per le ragioni di sopra e per
molt’altre, intendiamo Iddio aver potuto fare innumerabili quasi creature
spirituali, manifesto è lui questo avere fatto maggiore numero. Altre
ragioni si possono vedere assai, ma queste bastino al presente.
16. Nè si meravigli alcuno se queste e altre
ragioni di ciò avere potemo, non sono del tutto dimostrate; che
però medesimamente dovemo ammirare loro eccellenza - la quale soverchia
gli occhi de la mente umana, sì come dice lo Filosofo nel secondo de la
Metafisica -, e affermar loro essere. 17. Poi che non avendo di loro
alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza), pure risplende nel
nostro intelletto alcuno lume de la vivacissima loro essenza, in quanto vedemo
le sopra dette ragioni, e molt’altre; sì come afferma chi ha li occhi
chiusi l’aere essere luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, c[om]e
passa per le pupille del vispistrello: chè non altrimenti sono chiusi li
nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata
per li organi del nostro corpo.
CAPITOLO V [vi].
1. Detto è che per difetto d’ammaestramento li
antichi la veritade non videro de le creature spirituali, avvegna che quello
popolo d’Israel fosse in parte da li suoi profeti ammaestrato, «ne li quali,
per molte maniere di parlare e per molti modi, Dio avea loro parlato»,
sì come l’Apostolo dice. 2. Ma noi semo di ciò ammaestrati
da colui che venne da quello, da colui che le fece, da colui che le conserva,
cioè da lo Imperadore de l’universo, che è Cristo, figliuolo del
sovrano Dio e figliuolo di Maria Vergine, femmina veramente e figlia di
Ioacchino e d’Adamo: uomo vero, lo quale fu morto da noi, per che ci
recò vita. 3. ‘Lo qual fu luce che allumina noi ne le tenebre’,
sì come dice Ioanni Evangelista, e disse a noi la veritade di quelle
cose che noi sapere sanza lui non potavamo, nè veder veramente.
4. La prima cosa e lo primo secreto che ne
mostrò fu una de le creature predette: ciò fu quello suo grande
legato che venne a Maria, giovinetta donzella di tredici anni, da parte del
Sanator celestiale. Questo nostro Salvatore con la sua bocca disse che ’l Padre
li potea dare molte legioni d’angeli; questi non negò, quando detto li
fu che ’l Padre avea comandato a li angeli che li ministrassero e servissero. 5.
Per che manifesto è a noi quelle creature [essere] in lunghissimo
numero; per che la sua sposa e secretaria Santa Ecclesia - de la quale dice
Salomone: «Chi è questa che ascende del diserto, piena di quelle cose
che dilettano, appoggiata sopra l’amico suo?» - dice, crede e predica quelle
nobilissime creature quasi innumerabili. E partele per tre gerarchie, che
è a dire tre principati santi o vero divini, e ciascuna gerarchia ha tre
ordini; sì che nove ordini di creature spirituali la Chiesa tiene e
afferma. 6. Lo primo è quello de li Angeli, lo secondo de li
Arcangeli, lo terzo de li Troni; e questi tre ordini fanno la prima gerarchia:
non prima quanto a nobilitade, non a creazione (chè più sono
l’altre nobili e tutte furono insieme create), ma prima quanto al nostro salire
a loro altezza. Poi sono le Dominazioni; appresso le Virtuti; poi li
Principati: e questi fanno la seconda gerarchia. Sopra questi sono le Potestati
e li Cherubini, e sopra tutti sono li Serafini: e questi fanno la terza
gerarchia. 7. Ed è potissima ragione de la loro speculazione e lo
numero in che sono le gerarchie e quello in che sono li ordini. Chè con
ciò sia cosa che la Maestà divina sia in tre persone, che hanno
una sustanza, di loro si puote triplicemente contemplare. 8. Chè
si può contemplare de la potenza somma del Padre; la quale mira la prima
gerarchia, cioè quella che è prima per nobilitade e che ultima
noi annoveriamo. E puotesi contemplare la somma sapienza del Figliuolo; e
questa mira la seconda gerarchia. E puotesi contemplare la somma e
ferventissima caritade de lo Spirito Santo; e questa mira l’ultima gerarchia,
la quale, più propinqua, a noi porge de li doni che essa riceve. 9.
E con ciò sia cosa che ciascuna persona ne la divina Trinitade triplicemente
si possa considerare, sono in ciascuna gerarchia tre ordini che diversamente
contemplano. Puotesi considerare lo Padre, non avendo rispetto se non ad esso;
e questa contemplazione fanno li Serafini, che veggiono più de la Prima
Cagione che nulla angelica natura. 10. Puotesi considerare lo Padre
secondo che ha relazione al Figlio, cioè come da lui si parte e come con
lui sè unisce; e questo contemplano li Cherubini. Puotesi ancora
considerare lo Padre secondo che da lui procede lo Spirito Santo, e come da lui
si parte e come con lui sè unisce; e questa contemplazione fanno le
Potestadi. 11. E per questo modo si puote speculare del Figlio e de lo
Spirito Santo: per che convengono essere nove maniere di spiriti contemplativi,
a mirare ne la luce che sola se medesima vede compiutamente.
12. E non è qui da tacere una parola. Dico che
di tutti questi ordini si perderono alquanti tosto che furono creati, forse in
numero de la decima parte; a la quale restaurare fu l’umana natura poi creata.
Li numeri, li ordini, le gerarchie narrano li cieli mobili che sono nove, e lo
decimo annunzia essa unitade e stabilitade di Dio. E però dice lo
Salmista: «Li cieli narrano la gloria di Dio, e l’opere de le sue mani annunzia
lo fermamento». 13. Per che ragionevole è credere che li movitori
del cielo de la Luna siano de l’ordine de li Angeli, e quelli di Mercurio siano
li Arcangeli, e quelli di Venere siano li Troni; li quali, naturati de l’amore
del Santo Spirito, fanno la loro operazione, connaturale ad essi, cioè
lo movimento di quello cielo, pieno d’amore, dal quale prende la forma del
detto cielo uno ardore virtuoso per lo quale le anime di qua giuso s’accendono
ad amore, secondo la loro disposizione. 14. E perchè li antichi
s’accorsero che quello cielo era qua giù cagione d’amore, dissero Amore
essere figlio di Venere, sì come testimonia Vergilio nel primo de lo
Eneida, ove dice Venere ad Amore: «Figlio, vertù mia, figlio del sommo
padre, che li dardi di Tifeo non curi»; e Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos,
quando dice che Venere disse ad Amore: «Figlio, armi mie, potenzia mia». 15.
E sono questi Troni, che al governo di questo cielo sono dispensati, in numero
non grande, de lo quale per li filosofi e per li astrologi diversamente
è sentito, secondo che diversamente sentiro de le sue circulazioni;
avvenga che tutti siano accordati in questo, che tanti sono quanti movimenti
esso fae. 16. Li quali, secondo che nel libro de l’Aggregazion[i] de le
Stelle epilogato si truova da la migliore dimostrazione de li astrologi, sono
tre: uno, secondo che la stella si muove per lo suo epiciclo; l’altro, secondo
che lo epiciclo si muove con tutto il cielo igualmente con quello del Sole; lo
terzo, secondo che tutto quello cielo si muove seguendo lo movimento de la
stellata spera, da occidente a oriente, in cento anni uno grado. Sì che
a questi tre movimenti sono tre movitori. 17. Ancora si muove tutto
questo cielo e rivolgesi con lo epiciclo da oriente in occidente, ogni
dì naturale una fiata: lo qual movimento, se esso è da intelletto
alcuno, o se esso è da la rapina del Primo Mobile, Dio lo sa; che a me
pare presuntuoso a giudicare. 18. Questi movitori muovono, solo
intendendo, la circulazione in quello subietto propio che ciascuno muove. La
forma nobilissima del cielo, che ha in sè principio di questa natura
passiva, gira, toccata da vertù motrice che questo intende: e dico
toccata, non corporalmente, per tatto di vertù la quale si dirizza in
quello. E questi movitori sono quelli a li quali s’intende di parlare, ed a cui
io fo mia dimanda.
CAPITOLO VI [vii].
[vii]. 1. Secondo che di sopra,
nel terzo capitolo di questo trattato, si disse, ch’a bene intendere la prima
parte de la proposta canzone convenia ragionare di quelli cieli e de li loro
motori, ne li tre precedenti capitoli è ragionato. Dico adunque a quelli
ch’io mostrai sono movitori del cielo di Venere: O voi che ’ntendendo -
cioè con lo intelletto solo, come detto è di sopra, - lo terzo
cielo movete, Udite il ragionare; e non dico udite perch’elli odano
alcuno suono, ch’elli non hanno senso, ma dico udite, cioè con
quello udire ch’elli hanno, ch’è intendere per intelletto. 2.
Dico: Udite il ragionar lo quale è nel mio core:
cioè dentro da me, chè ancora non è di fuori apparito. E
da sapere è che in tutta questa canzone, secondo l’uno senso e l’altro
lo ‘core’ si prende per lo secreto dentro, e non per altra spezial parte de
l’anima e del corpo.
3. Poi li ho chiamati ad udire quello ch’io voglio,
assegno due ragioni per che io convenevolemente deggio loro parlare. L’una si
è la novitade de la mia condizione, la quale, per non essere da li altri
uomini esperta, non sarebbe così da loro intesa come da coloro che
’ntendono li loro effetti ne la loro operazione; e questa ragione tocco quando
dico: Ch’io nol so dire dire altrui, sì mi par novo. 4.
L’altra ragione è: quand’uomo riceve beneficio, o vero ingiuria, prima
de’ quello retraere a chi liele fa, se può, che ad altri; acciò
che se ello è beneficio, esso che lo riceve si mostri conoscente inver
lo benefattore; e s’ella è ingiuria, induca lo fattore a buona
misericordia con le dolci parole. 5. E questa ragione tocco, quando
dico: El ciel che segue lo vostro valore, Gentili creature che voi sete, Mi
tragge ne lo stato ov’io mi trovo. Ciò è a dire: l’operazione
vostra, cioè la vostra circulazione, è quella che m’ha tratto ne
la presente condizione. Però conchiudo e dico che ’l mio parlare a loro
dee essere, sì come detto è; e questo dico qui: Onde ’l parlar
de la vita ch’io provo, Par che si drizzi degnamente a vui. E dopo queste
ragioni assegnate, priego loro de lo ’ntendere quando dico: Però vi
priego che lo mi ’ntendiate. 6. Ma però che in ciascuna
maniera di sermone lo dicitore massimamente dee intendere a la persuasione,
cioè a l’abbellire, de l’audienza sì come a quella ch’è
principio di tutte l’altre persuasioni come li rettorici [s]anno; e
potentissima persuasione sia, a rendere l’uditore attento, promettere di dire
nuove e grandissime cose; seguito io, a la preghiera fatta de l’audienza,
questa persuasione, cioè, dico, abbellimento, annunziando loro la mia
intenzione, la quale è di dire nuove cose, cioè la divisione
ch’è ne la mia anima, e grandi cose, cioè lo valore de la loro
stella. E questo dico in quelle ultime parole di questa prima parte: Io vi
dirò del cor la novitate, Come l’anima trista piange in lui, E come un
spirto contra lei favella, Che vien pe’ raggi de la vostra stella.
7. E a pieno intendimento di queste parole, dico che
questo [spirito] non è altro che uno frequente pensiero a questa nuova
donna commendare e abbellire; e questa anima non è altro che un altro
pensiero accompagnato di consentimento, che, repugnando a questo, commenda e
abbellisce la memoria di quella gloriosa Beatrice. 8. Ma però che
ancora l’ultima sentenza de la mente, cioè lo consentimento, si tenea
per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima e l’altro spirito;
sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro
che la combattono, avvegna che l’uno e l’altro sia cittadino. 9. Dico
anche che questo spirito viene per li raggi de la stella: per che sapere si
vuole che li raggi di ciascuno cielo sono la via per la quale discende la loro
vertude in queste cose di qua giù. E però che li raggi non sono
altro che uno lume che viene dal principio de la luce per l’aere infino a la
cosa illuminata, e luce non sia se non ne la parte de la stella, però
che l’altro cielo è diafano, cioè transparente, non dico che
vegna questo spirito, cioè questo pensiero, dal loro cielo in tutto, ma
da la loro stella. 10. La quale per la nobilità de li suoi
movitori è di tanta vertute, che ne le nostre anime e ne le altre nostre
cose ha grandissima podestade, non ostante che essa ci sia lontana, qual volta
più c’è presso, cento sessanta sette volte tanto quanto è,
e più, al mezzo de la terra, che ci ha di spazio tremilia dugento
cinquanta miglia. E questa è la litterale esposizione de la prima parte
de la canzone.
CAPITOLO VII [vii].
1. Inteso può essere sofficientemente, per le
prenarrate parole, de la litterale sentenza de la prima parte; per che a la
seconda è da intendere, ne la quale si manifesta quello che dentro io
sentia de la battaglia. 2. E questa parte ha due divisioni: che in
prima, cioè nel primo verso, narro la qualitade di queste diversitadi
secondo la loro radice, ch’erano dentro a me; poi narro quello che dicea l’una
e l’altra diversitade, e però, prima, quello che dicea la parte che
perdea, cioè nel verso ch’è lo secondo di questa parte e lo terzo
de la canzone.
3. Ad evidenza dunque de la sentenza de la prima
divisione, è da sapere che le cose deono essere denominate da l’ultima
nobilitade de la loro forma; sì come l’uomo da la ragione, e non dal
senso nè d’altro che sia meno nobile. Onde, quando si dice l’uomo
vivere, si dee intendere l’uomo usare la ragione, che è sua speziale
vita e atto de la sua più nobile parte. 4. E però chi da
la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva, non vive uomo, ma vive
bestia; sì come dice quello eccellentissimo Boezio: «Asino vive».
Dirittamente dico, però che lo pensiero è propio atto de la
ragione, perchè le bestie non pensano, che non l’hanno: e non dico pur
de le minori bestie, ma di quelle che hanno apparenza umana e spirito di pecora
o d’altra bestia abominevole. 5. Dico adunque che vita del mio core,
cioè del mio dentro, suole essere un pensiero soave (‘soave’ è
tanto quanto ‘suaso’, cioè abbellito, dolce, piacente e dilettoso),
questo pensiero, che se ne gìa spesse volte a’ piedi del sire di costoro
a cu’ io parlo, ch’è Iddio: ciò è a dire, che io pensando
contemplava lo regno de’ beati. 6. E dico la final cagione incontanente
per che là su io saliva pensando, quando dico: Ove una donna gloriar
vedia; a dare a intendere ch’è perchè io era certo, e sono,
per sua graziosa revelazione, che ella era in cielo. Onde io pensando spesse
volte come possibile m’era, me n’andava quasi rapito.
7. Poi sussequentemente dico l’effetto di questo
pensiero, a dare a intendere la sua dolcezza, la quale era tanta che mi facea
disioso de la morte, per andare là dov’elli gìa, e ciò
dico quivi: Di cui parlava me sì dolcemente, Che l’anima dicea: Io
men vo’ gire. E questa è la radice de l’una de le diversitadi ch’era
in me. 8. Ed è da sapere, che qui si dice ‘pensiero’ e non
‘anima’, di quello che salia a vedere quella beata, perchè era spezial
pensiero a quello atto. L’anima s’intende, come detto è nel precedente
capitolo, per lo generale pensiero col consentimento.
9. Poi quando dico: Or apparisce chi lo fa fuggire,
narro la radice de l’altra diversitade, dicendo, sì come questo pensiero
di sopra suol esser vita di me, così un altro apparisce che fa quello
cessare. E dico ‘fuggire’, per mostrare quello essere contrario, chè
naturalmente l’uno contrario fugge l’altro, e quello che fugge mostra per
difetto di vertù di fuggire. 10. E dico che questo pensiero, che
di nuovo apparisce, è poderoso in prender me e in vincere l’anima tutta,
dicendo che esso segnoreggia sì che ’l cuore, cioè lo mio dentro,
triema, e lo mio di fuori lo dimostra in alcuna nuova sembianza.
11. Sussequentemente mostro la potenza di questo
pensiero nuovo per suo effetto, dicendo che esso mi fa mirare una donna, e
dicemi parole di lusinghe, cioè ragiona dinanzi a li occhi del mio
intelligibile affetto per meglio inducermi, promettendomi che la vista de li
occhi suoi è sua salute. 12. E a meglio fare ciò credere a
l’anima esperta, dice che non è da guardare ne li occhi di questa donna
per persona che tema angoscia di sospiri. Ed è bel modo rettorico,
quando di fuori pare la cosa disabbellirsi, e dentro veramente s’abbellisce.
Più non potea questo novo pensero d’amore inducere la mia mente a
consentire, che [’n] ragionare de la vertù de li occhi di costei
profondamente.
CAPITOLO VIII [ix].
1. Ora ch’è mostrato come e perchè
nasce amore, e la diversitade che mi combattea, procedere si conviene ad aprire
la sentenza di quella parte ne la quale contendono in me diversi pensamenti. 2.
Dico che prima si conviene dire de la parte de l’anima, cioè de l’antico
pensiero, e poi de l’altro, per questa ragione, che sempre quello che
massimamente dire intende lo dicitore sì dee riservare di dietro;
però che quello che ultimamente si dice, più rimane ne l’animo de
lo uditore. 3. Onde con ciò sia cosa che io intenda più a
dire e a ragionare quello che l’opera di costoro a cu’ io parlo fa, che quello
che essa disfà, ragionevole fu prima dire e ragionare la condizione de
la parte che si corrompea, e poi quella de l’altra che si generava.
4. Veramente qui nasce un dubbio, lo qual non
è da trapassare sanza dichiarare. Potrebbe dire alcuno: ‘Con ciò
sia cosa che amore sia effetto di queste intelligenze a cu’ io parlo, e quello
di prima fosse amore così come questo di poi, perchè la loro vertù
corrompe l’uno e l’altro genera? con ciò sia cosa che innanzi dovrebbe
quello salvare, per la ragione che ciascuna cagione ama lo suo effetto e,
amando quello, salva quell’altro.’
7. Ma però che de la immortalità de
l’anima è qui toccato, farò una digressione, ragionando di
quella; perchè, di quella ragionando, sarà bello terminare lo
parlare di quella viva Beatrice beata, de la quale più parlare in questo
libro non intendo per proponimento. 8. Dico che intra tutte le
bestialitadi quella è stoltissima, vilissima e dannosissima, chi crede
dopo questa vita non essere altra vita; però che, se noi rivolgiamo
tutte le scritture, sì de’ filosofi come de li altri savi scrittori,
tutti concordano in questo, che in noi sia parte alcuna perpetuale. 9. E
questo massimamente par volere Aristotile in quello de l’Anima; questo par
volere massimamente ciascuno Stoico; questo par volere Tullio, spezialmente in
quello libello de la Vegliezza; questo par volere ciascuno poeta che secondo la
fede de’ Gentili hanno parlato; questo vuole ciascuna legge, Giudei, Saracini,
Tartari, e qualunque altri vivono secondo alcuna ragione. 10. Che se
tutti fossero ingannati, seguiterebbe una impossibilitade, che pure a ritraere
sarebbe orribile. Ciascuno è certo che la natura umana è
perfettissima di tutte l’altre nature di qua giù; e questo nullo niega,
e Aristotile l’afferma quando dice nel duodecimo de li Animali che l’uomo
è perfettissimo di tutti li animali. 11. Onde con ciò sia
cosa che molti che vivono interamente siano mortali, sì come animali
bruti, e siano sanza questa speranza tutti mentre che vivono, cioè
d’altra vita; se la nostra speranza fosse vana, maggiore sarebbe lo nostro
difetto che di nullo altro animale, con ciò sia cosa che molti
già sono stati che hanno data questa vita per quella: e così
seguiterebbe che lo perfettissimo animale, cioè l’uomo, fosse imperfettissimo
- ch’è impossibile -, e che quella parte, cioè la ragione, che
è sua perfezione maggiore, fosse a lui cagione di maggiore difetto - che
del tutto diverso pare a dire -. 12. Ancora, seguiterebbe che la natura
contra se medesima questa speranza ne la mente umana posta avesse, poi che
detto è che molti a la morte del corpo sono corsi, per vivere ne l’altra
vita; e questo è anche impossibile.
13. Ancora, vedemo continua esperienza de la nostra
immortalitade ne le divinazioni de’ nostri sogni, le quali essere non
potrebbono se in noi alcuna parte immortale non fosse; con ciò sia cosa
che immortale convegna essere lo rivelante, [o corporeo] o incorporeo che sia,
se bene si pensa sottilmente - e dico ‘corporeo o incorporeo’ per le diverse
oppinioni ch’io truovo di ciò -, e quello ch’è mosso o vero
informato da informatore immediato debba proporzione avere a lo informatore, e
da lo mortale a lo immortale nulla sia proporzione. 14. Ancora,
n’accerta la dottrina veracissima di Cristo, la quale è via,
verità e luce: via, perchè per essa sanza impedimento andiamo a
la felicitade di quella immortalitade; verità, perchè non soffera
alcuno errore; luce, perchè allumina noi ne la tenebra de la ignoranza
mondana. 15. Questa dottrina dico che ne fa certi sopra tutte altre
ragioni, però che quello la n’hae data che la nostra immortalitade vede
e misura. La quale noi non potemo perfettamente vedere mentre che ’l nostro
immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente, e
per ragione lo vedemo con ombra d’oscuritade, la quale incontra per mistura del
mortale con l’immortale. 16. E ciò dee essere potentissimo
argomento che in noi l’uno e l’altro sia; e io così credo, così
affermo e così certo sono ad altra vita migliore dopo questa passare,
là dove quella gloriosa donna vive de la quale fu l’anima mia innamorata
quando contendea, come nel seguente capitolo si ragionerà.
CAPITOLO IX [x].
1. Tornando al proposito, dico che in questo verso
che comincia: Trova contraro tal che lo distrugge, intendo manifestare
quello che dentro a me l’anima mia ragionava, cioè l’antico pensiero
contra lo nuovo. E prima brievemente manifesto la cagione del suo lamentevole
parlare, quando dico: Trova contraro tal che lo distrugge L’umil pensero,
che parlar mi sole D’un’angela che ’n cielo è coronata. Questo
è quello speziale pensiero, del quale detto è di sopra che solea esser
vita de lo cor dolente. 2. Poi quando dico: L’anima piange,
sì ancor len dole, manifesto l’anima mia essere ancora da la sua
parte, e con tristizia parlare: e dico che dice parole lamentandosi, quasi come
si maravigliasse de la subita transmutazione, dicendo: Oh lassa a me, come
si fugge Questo piatoso che m’ha consolata! Ben può dire
‘consolata’, chè ne la sua grande perdita questo pensiero, che in cielo
salia, le avea data molta consolazione. 3. Poi appresso, ad iscusa di
sè dico che si volge tutto lo mio pensiero, cioè l’anima, de la
quale dico questa affannata, e parla contra gli occhi; e questo si
manifesta quivi: De li occhi miei dice questa affannata. E dico ch’ella
dice di loro e contra loro tre cose. 4. La prima è che bestemmia
l’ora che questa donna li vide. E qui si vuol sapere che avvegna che più
cose ne l’occhio a un’ora possano venire, veramente quella che viene per retta
linea ne la punta de la pupilla, quella veramente si vede, e ne la imaginativa
si suggella solamente. 5. E questo è però che ’l nervo per
lo quale corre lo spirito visivo, è diritto a quella parte; e
però veramente l’occhio l’altro occhio non può guardare,
sì che esso non sia veduto da lui; chè, sì come quello che
mira riceve la forma ne la pupilla per retta linea, così per quella
medesima linea la sua forma se ne va in quello ch’ello mira: e molte volte, nel
dirizzare di questa linea, discocca l’arco di colui al quale ogni arme è
leggiere. Però quando dico che tal donna li vide, è tanto
a dire quanto che li occhi suoi e li miei si guardaro.
6. La seconda cosa che dice, si è che riprende
la sua disobedienza, quando dice: E perchè non credeano a me di lei?
Poi procede a la terza cosa, e dice che non dee sè riprendere di
provvedimento, ma loro di non ubbidire; però che dice che alcuna volta,
di questa donna ragionando, dicesse: Ne li occhi di costei doverebbe esser
virtù sopra me, se ella avesse aperta la via di venire; e questo dice
quivi: Io dicea: Ben ne li occhi di costei. 7. E ben si dee
credere che l’anima mia conoscea la sua disposizione atta a ricevere l’atto di
questa donna, e però ne temea; chè l’atto de l’agente si prende
nel disposto paziente, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l’Anima.
E però se la cera avesse spirito da temere, più temerebbe di
venire a lo raggio del sole che non farebbe la pietra, però che la sua
disposizione riceve quello per più forte operazione.
8. Ultimamente manifesta l’anima nel suo parlare la
presunzione loro pericolosa essere stata, quando dice: E non mi valse ch’io
ne fossi accorta Che non mirasser tal, ch’io ne son morta. Non là mirasser,
dice, colui di cui prima detto avea: Colui che le mie pari ancide. E
così termina le sue parole, a le quali risponde lo novo pensiero,
sì come nel seguente capitolo si dichiarerà.
CAPITOLO X [xi].
1. Dimostrata è la sentenza di quella parte ne
la qual parla l’anima, cioè l’antico pensiero che si corruppe. Ora
seguentemente si dee mostrare la sentenza de la parte ne la qual parla lo
pensiero nuovo avverso; e questa parte si contiene tutta nel verso che
comincia: Tu non se’ morta. 2. La qual parte, a bene intendere,
si vuole in due partire: che ne la prima [lo pensiero avverso riprende l’anima
di viltade; e appresso comanda quello che far dee quest’anima ripresa,
cioè ne la seconda] parte, che comincia: Mira quant’ell’è
pietosa.
3. Dice adunque, continuandosi a l’ultime sue parole:
Non è vero che tu sie morta; ma la cagione per che morta ti pare essere,
si è uno smarrimento nel quale se’ caduta vilmente per questa donna che
è apparita: - e qui è da notare che, sì come dice Boezio
ne la sua Consolazione, «ogni subito movimento di cose non avviene sanza alcuno
discorrimento d’animo» -; e questo vuol dire lo riprendere di questo pensiero. 4.
Lo quale si chiama ‘spiritello d’amore’ a dare a intendere che lo consentimento
mio piegava inver di lui; e così si può questo intendere
maggiormente, e conoscere la sua vittoria, quando dice già ‘anima
nostra’, facendosi familiare di quella. 5. Poi, com’è detto,
comanda quello che far dee quest’anima ripresa per venir lei a sè, e lei
dice: Mira quant’ell’è pietosa e umile; chè sono proprio
rimedio a la temenza, de la qual parea l’anima passionata, due cose, e sono
queste che, massimamente congiunte, fanno de la persona bene sperare, e
massimamente la pietade, la quale fa risplendere ogni altra bontade col lume
suo. Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama.
6. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè
dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si
chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione,
anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore,
misericordia e altre caritative passioni.
7. Poi dice: Mira anco quanto è saggia e
cortese ne la sua grandezza. Or dice tre cose, le quali, secondo quelle che
per noi acquistar si possono, massimamente fanno la persona piacente. Dice
‘saggia’: or che è più bello in donna che savere? Dice ‘cortese’:
nulla cosa sta più bene in donna che cortesia. E non siano li miseri
volgari anche di questo vocabulo ingannati, che credono che cortesia non sia
altro che larghezza; e larghezza è una speziale, e non generale,
cortesia! 8. Cortesia e onestade è tutt’uno: e però che ne
le corti anticamente le vertudi e li belli costumi s’usavano, sì come
oggi s’usa lo contrario, si tolse quello vocabulo da le corti, e fu tanto a
dire cortesia quanto uso di corte. Lo qual vocabulo se oggi si togliesse da le
corti, massimamente d’Italia, non sarebbe altro a dire che turpezza. 9.
Dice ne la sua grandezza. La grandezza temporale, de la quale qui
s’intende, massimamente sta bene accompagnata con le due predette bontadi,
però ch’ell’apre lume che mostra lo bene e l’altro de la persona
chiaramente. E quanto savere e quanto abito virtuoso non si pare per questo
lume non avere! e quanta matterìa e quanti vizii si discernono per aver
questo lume! 10. Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti e
viziosi, essere in basso stato, chè nè in mondo nè dopo la
vita sarebbero tanto infamati. Veramente per costoro dice Salomone ne lo
Ecclesiaste: «E un’altra infermitade pessima vidi sotto lo sole, cioè
ricchezze conservate in male del loro signore». 11. Poi sussequentemente
impone a lei, cioè a l’anima mia, che chiami omai costei sua donna,
promettendo a lei che di ciò assai si contenterà, quando ella
sarà de le sue adornezze accorta; e questo dice quivi: Chè se
tu non t’inganni, tu vedrai. Nè altro dice infino a la fine di
questo verso. E qui termina la sentenza litterale di tutto quello che in questa
canzone dico, parlando a quelle intelligenze celestiali.
CAPITOLO XI [xii].
1. Ultimamente, secondo che di sopra disse la littera
di questo commento quando partio le parti principali di questa canzone, io mi
rivolgo con la faccia del mio sermone a la canzone medesima, e a quella parlo. 2.
E acciò che questa parte più pienamente sia intesa, dico che
generalmente si chiama in ciascuna canzone ‘tornata’, però che li
dicitori che prima usaro di farla, fenno quella perchè, cantata la
canzone, con certa parte del canto ad essa si ritornasse. 3. Ma io rade
volte a quella intenzione la feci, e, acciò che altri se n’accorgesse,
rade volte la puosi con l’ordine de la canzone, quanto è a lo numero che
a la nota è necessario; ma fecila quando alcuna cosa in adornamento de
la canzone era mestiero a dire, fuori de la sua sentenza, sì come in
questa e ne l’altre veder si potrà. 4. E però dico al
presente che la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro
partite e diverse; chè la bontade è ne la sentenza, e la bellezza
è ne l’ornamento de le parole; e l’una e l’altra è con diletto,
avvenga che la bontade sia massimamente dilettosa. 5. Onde con
ciò sia cosa che la bontade di questa canzone fosse malagevole a sentire
per le diverse persone che in essa s’inducono a parlare, dove si richeggiono
molte distinzioni, e la bellezza fosse agevole a vedere, parvemi mestiero a la
canzone che per li altri si ponesse più mente a la bellezza che a la
bontade. E questo è quello che dico in questa parte.
6. Ma però che molte fiate avviene che
l’ammonire pare presuntuoso, per certe condizioni suole lo rettorico
indirettamente parlare altrui, dirizzando le sue parole non a quello per cui
dice, ma verso un altro. E questo modo si tiene qui veramente; chè a la
canzone vanno le parole, e a li uomini la ’ntenzione. 7. Dico adunque:
Io credo, canzone, che radi sono, cioè pochi, quelli che intendano te
bene. E dico la cagione, la quale è doppia. Prima: però che
faticosa parli – ‘faticosa’ dico per la cagione che detta è -; poi:
però che forte parli – ‘forte’ dico quanto a la novitate de la
sentenza.- 8. Ora appresso ammonisco lei e dico: Se per avventura
incontra che tu vadi là dove persone siano che dubitare ti paiano ne la
tua ragione, non ti smarrire, ma dì loro: Poi che non vedete la mia
bontade, ponete mente almeno la mia bellezza. 9. Che non voglio in
ciò altro dire, secondo ch’è detto di sopra, se non: O uomini,
che vedere non potete la sentenza di questa canzone, non la rifiutate
però; ma ponete mente la sua bellezza, ch’è grande sì per
construzione, la quale si pertiene a li gramatici, sì per l’ordine del
sermone, che si pertiene a li rettorici, sì per lo numero de le sue
parti, che si pertiene a li musici. Le quali cose in essa si possono belle
vedere, per chi ben guarda. 10. E questa è tutta la litterale
sentenza de la prima canzone, che è per prima vivanda intesa innanzi.
CAPITOLO XII [xiii].
1. Poi che la litterale sentenza è
sufficientemente dimostrata, è da procedere a la esposizione allegorica
e vera. E però, principiando ancora da capo, dico che, come per me fu
perduto lo primo diletto de la mia anima, de la quale fatta è menzione
di sopra, io rimasi di tanta tristizia punto, che conforto non mi valeva
alcuno. 2. Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si
argomentava di sanare, provide, poi che nè ’l mio nè l’altrui
consolare valea, ritornare al modo che alcuno sconsolato avea tenuto a
consolarsi; e misimi a leggere quello non conosciuto da molti libro di Boezio,
nel quale, cattivo e discacciato, consolato s’avea. 3. E udendo ancora
che Tullio scritto avea un altro libro, nel quale, trattando de l’Amistade,
avea toccate parole de la consolazione di Lelio, uomo eccellentissimo, ne la
morte di Scipione amico suo, misimi a leggere quello. 4. E avvegna che
duro mi fosse ne la prima entrare ne la loro sentenza, finalmente v’entrai
tanto entro, quanto l’arte di gramatica ch’io avea e un poco di mio ingegno
potea fare; per lo quale ingegno molte cose, quasi come sognando, già
vedea, sì come ne la Vita Nuova si può vedere. 5. E
sì come essere suole che l’uomo va cercando argento e fuori de la
’ntenzione truova oro, lo quale occulta cagione presenta, non forse sanza
divino imperio; io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie
lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali
considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori,
di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. 6. E imaginava
lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno se
non misericordioso; per che sì volentieri lo senso di vero la mirava, che
appena lo potea volgere da quella. 7. E da questo imaginare cominciai ad
andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole
de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti. Sì che in picciol
tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che
lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero. 8. Per che io,
sentendomi levare dal pensiero del primo amore a la virtù di questo,
quasi maravigliandomi apersi la bocca nel parlare de la proposta canzone, mostrando
la mia condizione sotto figura d’altre cose: però che de la donna di cu’
io m’innamorava non era degna rima di volgare alcuna palesemente po[e]tare;
nè li uditori erano tanto bene disposti, che avessero sì leggiere
le [non] fittizie parole apprese; nè sarebbe data loro fede a la
sentenza vera, come a la fittizia, però che di vero si credea del tutto
che disposto fosse a quello amore, che non si credeva di questo. 9.
Cominciai dunque a dire: Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete. E
perchè, sì come detto è, questa donna fu figlia di Dio,
regina di tutto, nobilissima e bellissima Filosofia, è da vedere chi
furono questi movitori, e questo terzo cielo. E prima del cielo, secondo
l’ordine trapassato. 10. E non è qui mestiere di procedere
dividendo, e a littera esponendo; chè, volta la parola fittizia di
quello ch’ella suona in quello ch’ella ’ntende, per la passata sposizione
questa sentenza fia sufficientemente palese.
CAPITOLO XIII [xiv].
3. La prima similitudine si è la revoluzione
de l’uno e de l’altro intorno a uno suo immobile. Chè ciascuno cielo
mobile si volge intorno al suo centro, lo quale, quanto per lo suo movimento,
non si muove; e così ciascuna scienza si muove intorno al suo subietto,
lo quale essa non muove, però che nulla scienza dimostra lo proprio
subietto, ma suppone quello. 4. La seconda similitudine si è lo
illuminare de l’uno e de l’altro; chè ciascun cielo illumina le cose
visibili, e così ciascuna scienza illumina le intelligibili. 5. E
la terza similitudine si è lo inducere perfezione ne le disposte cose.
De la quale induzione, quanto a la prima perfezione, cioè de la
generazione sustanziale, tutti li filosofi concordano che li cieli siano
cagione, avvegna che diversamente questo pongano: quali da li motori, sì
come Plato, Avicenna e Algazel; quali da esse stelle, spezialmente l’anime
umane, sì come Socrate, e anche Plato e Dionisio Academico; e quali da
vertude celestiale che è nel calore naturale del seme, sì come
Aristotile e li altri Peripatetici. 6. Così de la induzione de la
perfezione seconda le scienze sono cagione in noi; per l’abito de le quali
potemo la veritade speculare, che è ultima perfezione nostra, sì
come dice lo Filosofo nel sesto de l’Etica, quando dice che ’l vero è lo
bene de lo intelletto. Per queste, con altre similitudini molte, si può
la scienza ‘cielo’ chiamare. Ora perchè ‘terzo’ cielo si dica è
da vedere.
9. Dico che ’l cielo de la Luna con la Gramatica si
somiglia [per due proprietadi], per che ad esso si può comparare. Che se
la Luna si guarda bene, due cose si veggiono in essa proprie, che non si
veggiono ne l’altre stelle: l’una si è l’ombra che è in essa, la
quale non è altro che raritade del suo corpo, a la quale non possono
terminare li raggi del sole e ripercuotersi così come ne l’altre parti;
l’altra sì è la variazione de la sua luminositade, che ora luce
da uno lato, e ora luce da un altro, secondo che lo sole la vede. 10. E
queste due proprietadi hae la Gramatica: chè, per la sua infinitade, li
raggi de la ragione in essa non si terminano, in parte spezialmente de li
vocabuli; e luce or di qua or di là in tanto quanto certi vocabuli,
certe declinazioni, certe construzioni sono in uso che già non furono, e
molte già furono che ancor saranno: sì come dice Orazio nel
principio de la Poetria quando dice: «Molti vocabuli rinasceranno che
già caddero».
11. E lo cielo di Mercurio si può comparare a
la Dialettica per due proprietadi: che Mercurio è la più picciola
stella del cielo, chè la quantitade del suo diametro non è
più che di dugento trentadue miglia, secondo che pone Alfagrano, che
dice quello essere de le ventotto parti una del diametro de la terra, lo quale
è sei milia cinquecento miglia: l’altra proprietade si è che
più va velata de li raggi del Sole che null’altra stella. 12. E
queste due proprietadi sono ne la Dialettica: chè la Dialettica è
minore in suo corpo che null’altra scienza, chè perfettamente è
compilata e terminata in quello tanto testo che ne l’Arte vecchia e ne la Nuova
si truova; e va più velata che nulla scienza, in quanto procede con
più sofistici e probabili argomenti più che altra.
13. E lo cielo di Venere si può comparare a la
Rettorica per due proprietadi: l’una sì è la chiarezza del suo
aspetto, che è soavissima a vedere più che altra stella; l’altra
sì è la sua apparenza, or da mane or da sera. 14. E queste
due proprietadi sono ne la Rettorica: chè la Rettorica è
soavissima di tutte le altre scienze, però che a ciò
principalmente intende; e appare da mane, quando dinanzi al viso de l’uditore
lo rettorico parla, appare da sera, cioè retro, quando da lettera, per
la parte remota, si parla per lo rettorico.
15. E lo cielo del Sole si può comparare a
l’Arismetrica per due proprietadi: l’una si è che del suo lume tutte
l’altre stelle s’informano; l’altra si è che l’occhio nol può
mirare. 16. E queste due proprietadi sono ne l’Arismetrica: chè
del suo lume tutte s’illuminano le scienze, però che li loro subietti
sono tutti sotto alcuno numero considerati, e ne le considerazioni di quelli
sempre con numero si procede. 17. Sì come ne la scienza naturale
è subietto lo corpo mobile, lo quale corpo mobile ha in sè
ragione di continuitade, e questa ha in sè ragione di numero infinito; e
la sua considerazione principalissima è considerare li principii de le
cose naturali, li quali sono tre, cioè materia, privazione e forma, ne
li quali si vede questo numero. 18. Non solamente in tutti insieme, ma ancora
in ciascuno è numero, chi ben considera sottilmente; per che Pittagora,
secondo che dice Aristotile nel primo de la Fisica, poneva li principii de le
cose naturali lo pari e lo dispari, considerando tutte le cose esser numero. 19.
L’altra proprietade del Sole ancor si vede nel numero, del quale è
l’Arismetrica: che l’occhio de lo ’ntelletto nol può mirare; però
che ’l numero, quant’è in sè considerato, è infinito, e
questo non potemo noi intendere.
20. E lo cielo di Marte si può comparare a la
Musica per due proprietadi: l’una si è la sua più bella
relazione, chè, annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o
da l’infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è
lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi, de li terzi e de li
quarti. 21. L’altra si è che esso Marte, [sì come dice
Tolomeo nel Quadripartito], dissecca e arde le cose, perchè lo suo
calore è simile a quello del fuoco; e questo è quello per che
esso pare affocato di colore, quando più e quando meno, secondo la
spessezza e raritade de li vapori che ’l seguono: li quali per lor medesimi
molte volte s’accendono, sì come nel primo de la Metaura è
diterminato. 22. E però dice Albumasar che l’accendimento di
questi vapori significa morte di regi e transmutamento di regni; però
che sono effetti de la segnoria di Marte. E Seneca dice però, che ne la
morte d’Augusto imperadore vide in alto una palla di fuoco; e in Fiorenza, nel
principio de la sua destruzione, veduta fu ne l’aere, in figura d’una croce,
grande quantità di questi vapori seguaci de la stella di Marte. 23.
E queste due proprietadi sono ne la Musica, la quale è tutta relativa,
sì come si vede ne le parole armonizzate e ne li canti, de’ quali tanto
più dolce armonia resulta, quanto più la relazione è
bella: la quale in essa scienza massimamente è bella, perchè
massimamente in essa s’intende. 24. Ancora, la Musica trae a sè
li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che
quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando
l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve
lo suono.
25. E lo cielo di Giove si può comparare a la
Geometria per due proprietadi: l’una sì è che muove tra due cieli
repugnanti a la sua buona temperanza, sì come quello di Marte e quello
di Saturno; onde Tolomeo dice, ne lo allegato libro, che Giove è stella
di temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de lo calore di
Marte; l’altra sì è che intra tutte le stelle bianca si mostra,
quasi argentata. E queste cose sono ne la scienza de la Geometria. 26.
La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come ’l punto e lo
cerchio - e dico ‘cerchio’ largamente ogni ritondo, o corpo o superficie -;
chè, sì come dice Euclide, lo punto è principio di quella,
e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che
conviene però avere ragione di fine. 27. Sì che tra ’l
punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e
questi due a la sua certezza repugnano; che lo punto per la sua
indivisibilità è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco
è impossibile a quadrare perfettamente, e però è
impossibile a misurare a punto. E ancora la Geometria è bianchissima, in
quanto è sanza macula d’errore e certissima per sè e per la sua
ancella, che si chiama Perspettiva.
28. E lo cielo di Saturno hae due proprietadi per le
quali si può comparare a l’Astrologia: l’una sì è la
tardezza del suo movimento per li dodici segni, chè ventinove anni e
più, secondo le scritture de li astrologi, vuole di tempo lo suo
cerchio; l’altra sì è che sopra tutti li altri pianeti esso
è alto. 29. E queste due proprietadi sono ne l’Astrologia:
chè nel suo cerchio compiere, cioè ne lo apprendimento di quella,
volge grandissimo spazio di tempo, sì per le sue [dimostrazioni], che
sono più che d’alcuna de le sopra dette scienze, sì per la
esperienza che a ben giudicare in essa si conviene. 30. E ancora
è altissima di tutte le altre, però che, sì come dice
Aristotile nel cominciamento de l’Anima, la scienza è alta di nobilitade
per la nobilitade del suo subietto e per la sua certezza; e questa più
che alcuna de le sopra dette è nobile e alta per nobile e alto subietto,
ch’è de lo movimento del cielo; e alta e nobile per la sua certezza, la
quale è sanza ogni difetto, sì come quella che da perfettissimo e
regolatissimo principio viene. E se difetto in lei si crede per alcuno, non
è da la sua parte, ma, sì come dice Tolomeo, è per la
negligenza nostra, e a quella si dee imputare.
CAPITOLO XIV [xv].
1. Appresso le comparazioni fatte de li sette primi
cieli, è da procedere a li altri, che sono tre, come più volte
s’è narrato. Dico che lo Cielo stellato si puote comparare a la Fisica
per tre proprietadi, e a la Metafisica per altre tre: ch’ello ci mostra di
sè due visibili cose, sì come le molte stelle, e sì come
la Galassia, cioè quello bianco cerchio che lo vulgo chiama la Via di
Sa’ Iacopo; e mostraci l’uno de li poli, e l’altro tiene ascoso; e mostraci uno
suo movimento, da oriente ad occidente, e un altro, che fa da occidente ad
oriente, quasi ci tiene ascoso. Per che per ordine è da vedere prima la
comparazione de la Fisica, e poi quella de la Metafisica.
2. Dico che lo Cielo stellato ci mostra molte stelle:
chè secondo che li savi d’Egitto hanno veduto, infino a l’ultima stella
che appare loro in meridie, mille ventidue corpora di stelle pongono, di cui io
parlo. Ed in questo ha esso grandissima similitudine con la Fisica, se bene si
guardano sottilmente questi tre numeri, cioè due e venti e mille. 3.
Chè per lo due s’intende lo movimento locale, lo quale è da uno
punto ad un altro di necessitade. E per lo venti significa lo movimento de
l’alterazione; chè, con ciò sia cosa che, dal diece in su, non si
vada se non esso diece alterando con gli altri nove e con se stesso, e la
più bella alterazione che esso riceva sia la sua di se medesimo, e la
prima che riceve sia venti, ragionevolemente per questo numero lo detto
movimento significa. 4. E per lo mille significa lo movimento del
crescere; chè in nome, cioè questo ‘mille’, è lo maggiore
numero, e più crescere non si può se non questo multiplicando. E
questi tre movimenti soli mostra la Fisica, sì come nel quinto del primo
suo libro è provato.
5. E per la Galassia ha questo cielo similitudine
grande con la Metafisica. Per che è da sapere che di quella Galassia li
filosofi hanno avute diverse oppinioni. Chè li Pittagorici dissero che
’l Sole alcuna fiata errò ne la sua via e, passando per altre parti non
convenienti al suo fervore, arse lo luogo per lo quale passò, e rimasevi
quella apparenza de l’arsura: e credo che si mossero da la favola di Fetonte,
la quale narra Ovidio nel principio del secondo di Metamorfoseos. 6.
Altri dissero, sì come fu Anassagora e Democrito, che ciò era
lume di sole ripercusso in quella parte, e queste oppinioni con ragioni
dimostrative riprovaro. Quello che Aristotile si dicesse non si può bene
sapere di ciò, però che la sua sentenza non si truova cotale ne
l’una translazione come ne l’altra. 7. E credo che fosse lo errore de li
translatori; chè ne la Nuova pare dicere che ciò sia uno
ragunamento di vapori sotto le stelle di quella parte, che sempre traggono
quelli: e questo non pare avere ragione vera. Ne la Vecchia dice che la
Galassia non è altro che moltitudine di stelle fisse in quella parte,
tanto picciole che distinguere di qua giù non le potemo, ma di loro
apparisce quello albore, lo quale noi chiamiamo Galassia: e puote essere,
chè lo cielo in quella parte è più spesso e però
ritiene e ripresenta quello lume. E questa oppinione pare avere, con
Aristotile, Avicenna e Tolomeo. Onde, con ciò sia cosa che la Galassia
sia uno effetto di quelle stelle le quali non potemo vedere, se non per lo
effetto loro intendiamo quelle cose, e la Metafisica tratti de le prime
sustanzie, le quali noi non potemo simigliantemente intendere se non per li
loro effetti, manifesto è che ’l Cielo stellato ha grande similitudine
con la Metafisica.
9. Ancora: per lo polo che vedemo significa le cose
sensibili, de le quali, universalmente pigliandole, tratta la Fisica; e per lo
polo che non vedemo significa le cose che sono sanza materia, che non sono
sensibili, de le quali tratta la Metafisica: e però ha lo detto cielo
grande similitudine con l’una scienza e con l’altra. 10. Ancora: per li
due movimenti significa queste due scienze. Chè per lo movimento ne lo
quale ogni die si rivolve, e fa nova circulazione di punto a punto, significa
le cose naturali corruttibili, che cotidianamente compiono loro via, e la loro
materia si muta di forma in forma; e di queste tratta la Fisica. 11. E
per lo movimento quasi insensibile che fa da occidente in oriente per uno grado
in cento anni, significa le cose incorruttibili, le quali ebbero da Dio
cominciamento di creazione e non averanno fine: e di queste tratta la metafisica.
12. Però dico che questo movimento significa quelle, che essa
circulazione cominciò e non averebbe fine; chè fine de la
circulazione è redire ad uno medesimo punto, al quale non tornerà
questo cielo, secondo questo movimento. 13. Chè dal cominciamento
del mondo poco più de la sesta parte è volto; e noi siamo
già ne l’ultima etade del secolo, e attendemo veracemente la
consummazione del celestiale movimento. E così è manifesto che lo
Cielo stellato, per molte proprietadi, si può comparare a la Fisica e a
la Metafisica.
14. Lo Cielo cristallino, che per Primo Mobile dinanzi
è contato, ha comparazione assai manifesta a la Morale Filosofia;
chè Morale Filosofia, secondo che dice Tommaso sopra lo secondo de
l’Etica, ordina noi a l’altre scienze. 15. Chè, sì come
dice lo Filosofo nel quinto de l’Etica, ‘la giustizia legale ordina la scienze
ad apprendere, e comanda, perchè non siano abbandonate, quelle essere
apprese e ammaestrate’; e così lo detto cielo ordina col suo movimento
la cotidiana revoluzione di tutti li altri, per la quale ogni die tutti quelli
ricevono [e mandano] qua giù la vertude di tutte le loro parti. 16.
Che se la revoluzione di questo non ordinasse ciò, poco di loro vertude
qua giù verrebbe o di loro vista. Onde ponemo che possibile fosse questo
nono cielo non muovere, la terza parte del cielo [stellato] sarebbe ancora non
veduta in ciascuno luogo de la terra; e Saturno sarebbe quattordici anni e
mezzo a ciascuno luogo de la terra celato, e Giove sei anni quasi si celerebbe,
e Marte uno anno quasi, e lo Sole centottantadue dì e quattordici ore
(dico dì, cioè tanto tempo quanto misurano cotanti dì), e
Venere e Mercurio quasi come lo Sole si celerebbe e mosterrebbe, e la Luna per
tempo di quattordici dì e mezzo starebbe ascosa ad ogni gente. 17.
E da vero non sarebbe qua giù generazione nè vita d’animale o di
piante: notte non sarebbe nè die, nè settimana nè mese
nè anno, ma tutto l’universo sarebbe disordinato, e lo movimento de li
altri sarebbe indarno. 18. E non altrimenti, cessando la Morale Filosofia,
l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione
nè vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate.
Per che assai è manifesto, questo cielo [per] sè avere a la
Morale Filosofia comparazione.
19. Ancora: lo Cielo empireo per la sua pace simiglia
la Divina Scienza, che piena è di tutta pace; la quale non soffera lite
alcuna d’oppinioni o di sofistici argomenti, per la eccellentissima certezza
del suo subietto, lo quale è Dio. E di questa dice esso a li suoi
discepoli: «La pace mia do a voi, la pace mia lascio a voi», dando e lasciando
a loro la sua dottrina, che è questa scienza di cu’ io parlo. 20.
Di costei dice Salomone: «Sessanta sono le regine, e ottanta l’amiche
concubine; e de le ancille adolescenti non è numero: una è la
colomba mia e la perfetta mia». Tutte scienze chiama regine e drude e ancille;
e questa chiama colomba perchè è sanza macula di lite, e questa
chiama perfetta perchè perfettamente ne fa il vero vedere nel quale si
cheta l’anima nostra. E però, ragionata così la comparazione de
li cieli a le scienze, vedere si può che per lo terzo cielo io intendo
la Rettorica, la quale al terzo cielo è simigliata, come di sopra pare.
CAPITOLO XV [xvi].
1. Per le ragionate similitudini si può vedere
chi sono questi movitori a cu’ io parlo, che sono di quello movitori, sì
come Boezio e Tullio, li quali con la dolcezza di loro sermone inviarono me,
come è detto di sopra, ne lo amore, cioè ne lo studio, di questa
donna gentilissima Filosofia, con li raggi de la stella loro, la quale è
la scrittura di quella: onde in ciascuna scienza la scrittura è stella
piena di luce, la quale quella scienza dimostra. 2. E, manifesto questo,
vedere si può la vera sentenza del primo verso de la canzone proposta,
per la esposizione fittizia e litterale. E per questa medesima esposizione si
può lo secondo verso intendere sufficientemente, infino a quella parte
dove dice: Questi mi face una donna guardare. 3. Ove si vuole
sapere che questa donna è la Filosofia; la quale veramente è
donna piena di dolcezza, ornata d’onestade, mirabile di savere, gloriosa di
libertade, sì come nel terzo trattato, dove la sua nobilitade si
tratterà, fia manifesto. 4. E là dove dice: Chi veder
vuol la salute, Faccia che li occhi d’esta donna miri, li occhi di questa
donna sono le sue demonstrazioni, le quali, dritte ne li occhi de lo
’ntelletto, innamorano l’anima, liberata da le con[tra]dizioni. O dolcissimi e
ineffabili sembianti, e rubatori subitani de la mente umana, che ne le
mostrazioni de li occhi de la Filosofia apparite, quando essa con li suoi drudi
ragiona! Veramente in voi è la salute, per la quale si fa beato chi vi
guarda, e salvo da la morte de la ignoranza e da li vizii. 5. Ove si
dice: Sed e’ non teme angoscia di sospiri, qui si vuole intendere ‘se
elli non teme labore di studio e lite di dubitazioni’, le quali dal principio
de li sguardi di questa donna multiplicatamente surgono, e poi, continuando la
sua luce, caggiono, quasi come nebulette matutine a la faccia del sole; e rimane
libero e pieno di certezza lo familiare intelletto, sì come l’aere da li
raggi meridiani purgato e illustrato.
6. Lo terzo verso ancora s’intende per la sposizione
litterale infino là dove dice: L’anima piange. Qui si vuole bene
attendere ad alcuna moralitade, la quale in queste parole si può notare:
che non dee l’uomo, per maggiore amico, dimenticare li servigi ricevuti dal
minore; ma se pur seguire si conviene l’uno e lasciar l’altro, lo migliore
è da seguire, con alcuna onesta lamentanza l’altro abbandonando, ne la
quale dà cagione, a quello che segue, di più amore. 7. Poi
dove dice: De li occhi miei, non vuole altro dire, se non che forte fu
l’ora che la prima demonstrazione di questa donna entrò ne li occhi de
lo ’ntelletto mio, la quale fu cagione di questo innamoramento propinquissima. 8.
E là dove dice: le mie pari, s’intende l’anime libere de le
misere e vili delettazioni e de li vulgari costumi, d’ingegno e di memoria
dotate. E dice poi: ancide; e dice poi: son morta; che pare
contro a quello che detto è di sopra de la salute di questa donna. 9.
E però è da sapere che qui parla l’una de le parti, e là
parla l’altra; le quali diversamente litigano, secondo che di sopra è
manifesto. Onde non è maraviglia se là dice ‘sì’, e qui
dice ‘no’, se bene si guarda chi discende e chi sale.
10. Poi nel quarto verso, dove dice: uno spiritel
d’amore, s’intende uno pensiero che nasce del mio studio. Onde è da
sapere che per amore, in questa allegoria, sempre s’intende esso studio, lo
quale è applicazione de l’animo innamorato de la cosa a quella cosa. 11.
Poi quando dice: tu vedrai Di sì alti miracoli adornezza,
annunzia che per lei si vedranno li adornamenti de li miracoli: e vero dice,
chè li adornamenti de le maraviglie è vedere le cagioni di
quelle; le quali ella dimostra, sì come nel principio de la Metafisica
pare sentire lo Filosofo, dicendo che, per questi adornamenti vedere,
cominciaro li uomini ad innamorare di questa donna. E di questo vocabulo,
cioè ‘maraviglia’, nel seguente trattato più pienamente si
parlerà. 12. Tutto l’altro che segue poi di questa canzone,
sofficientemente è per l’altra esposizione manifesto. E così, in
fine di questo secondo trattato, dico e affermo che la donna di cu’ io
innamorai appresso lo primo amore fu la bellissima e onestissima figlia de lo
Imperadore de lo universo, a la quale Pittagora pose nome Filosofia. E qui si
termina lo secondo trattato, [che è ordinato a sponere la canzone] che
per prima vivanda è messa innanzi.
TRATTATO TERZO.
Amor che ne la
mente mi ragiona
de la mia donna disiosamente,
move cose di lei meco sovente,
che lo ’ntelletto sovr’esse disvia.
5 Lo suo parlar sì dolcemente
sona,
che l’anima ch’ascolta e che lo sente
dice: «Oh me lassa! ch’io non son possente
di dir quel ch’odo de la donna mia!»
E certo e’ mi conven lasciare in pria,
10 s’io vo’ trattar di quel ch’odo di lei,
ciò che lo mio intelletto non comprende;
e di quel che s’intende
gran parte, perchè dirlo non savrei.
Però, se le mie rime avran difetto
15 ch’entreran ne la loda di costei,
di ciò si biasmi il debole intelletto
e ’l parlar nostro, che non ha valore
di ritrar tutto ciò che dice Amore.
20 cosa tanto gentil, quanto in quell’ora
che luce ne la parte ove dimora
la donna di cui dire Amor mi face.
Ogni Intelletto di là su la mira,
e quella gente che qui s’innamora
25 ne’ lor pensieri la truovano ancora,
quando Amor fa sentir de la sua pace.
Suo esser tanto a Quei che lel dà piace,
che ’nfonde sempre in lei la sua vertute
oltre ’l dimando di nostra natura.
30 La sua anima pura,
che riceve da lui questa salute,
lo manifesta in quel ch’ella conduce:
chè ’n sue bellezze son cose vedute
che li occhi di color dov’ella luce
35 ne mandan messi al cor pien di desiri,
che prendon aire e diventan sospiri.
In lei discende
la virtù divina
sì come face in angelo che ’l vede;
e qual donna gentil questo non crede,
40 vada con lei e miri li atti sui.
Quivi dov’ella parla si dichina
un spirito da ciel, che reca fede
come l’alto valor ch’ella possiede
è oltre quel che si conviene a nui.
45 Li atti soavi ch’ella mostra altrui
vanno chiamando Amor ciascuno a prova
in quella voce che lo fa sentire.
Di costei si può dire:
gentile è in donna ciò che in lei si trova,
50 e bello è tanto quanto lei
simiglia.
E puossi dir che ’l suo aspetto giova
a consentir ciò che par maraviglia;
onde la nostra fede è aiutata:
però fu tal da etterno ordinata.
che mostran de’ piacer di Paradiso,
dico ne li occhi e nel suo dolce riso,
che le vi reca Amor com’a suo loco.
Elle soverchian lo nostro intelletto,
60 come raggio di sole un frale viso:
e perch’io non lo posso mirar fiso,
mi conven contentar di dirne poco.
Sua bieltà piove fiammelle di foco,
animate d’un spirito gentile
65 ch’è creatore d’ogni pensier
bono;
e rompon come trono
li ’nnati vizii che fanno altrui vile.
Però qual donna sente sua bieltate
biasmar per non parer queta e umile,
70 miri costei ch’è essemplo
d’umiltate!
Questa è colei ch’umilia ogni perverso:
costei pensò chi mosse l’universo.
Canzone, e’ par
che tu parli contraro
al dir d’una sorella che tu hai;
75 che questa donna che tanto umil fai
ella la chiama fera e disdegnosa.
Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e chiaro,
e quanto in sè, non si turba già mai;
ma li nostri occhi per cagioni assai
80 chiaman la stella talor tenebrosa.
Così, quand’ella la chiama orgogliosa,
non considera lei secondo il vero,
ma pur secondo quel ch’a lei parea:
chè l’anima temea,
85 e teme ancora, sì che mi par fero
quantunqu’io veggio là ’v’ella mi senta.
Così ti scusa, se ti fa mestero;
e quando poi, a lei ti rappresenta:
dirai: «Madonna, s’ello v’è a grato,
90 io parlerò di voi in ciascun
lato».
CAPITOLO I.
1. Così come nel precedente trattato si
ragiona, lo mio secondo amore prese cominciamento da la misericordiosa
sembianza d’una donna. Lo quale amore poi, trovando la mia disposta vita al suo
ardore, a guisa di fuoco, di picciolo in grande fiamma s’accese; sì che non
solamente vegghiando, ma dormendo, lume di costei ne la mia testa era guidato. 2.
E quanto fosse grande lo desiderio che Amore di vedere costei mi dava,
nè dire nè intendere si potrebbe. E non solamente di lei era
così disidiroso, ma di tutte quelle persone che alcuna prossimitade
avessero a lei, o per familiaritade o per parentela alcuna. 3. Oh quante
notti furono, che li occhi de l’altre persone chiusi dormendo si posavano, che
li miei ne lo abitaculo del mio amore fisamente miravano! E sì come lo
multiplicato incendio pur vuole di fuori mostrarsi, che stare ascoso è
impossibile, volontade mi giunse di parlare d’amore, l[a] quale del tutto
tenere non potea. 4. E avvegna che poca podestade io potesse avere di
mio consiglio, pure in tanto, o per volere d’Amore o per mia prontezza, ad esso
m’accostai per più fiate, che io deliberai e vidi che, d’amor parlando,
più bello nè più profittabile sermone non era che quello
nel quale si commendava la persona che s’amava.
5. E a questo deliberamento tre ragioni m’informaro:
de le quali l’una fu lo proprio amore di me medesimo, lo quale è
principio di tutti li altri, sì come vede ciascuno. Chè
più licito nè più cortese modo di fare a se medesimo altri
onore non è, che onorare l’amico. Chè con ciò sia cosa che
intra dissimili amistà essere non possa, dovunque amistà si vede
similitudine s’intende; e dovunque similitudine s’intende corre comune la loda
e lo vituperio. 6. E di questa ragione due grandi ammaestramenti si
possono intendere: l’uno sì è di non volere che alcuno vizioso si
mostri amico, perchè in ciò si prende oppinione non buona di
colui cui amico si fa; l’altro sì è, che nessuno dee l’amico suo
biasimare palesemente, però che a se medesimo dà del dito ne
l’occhio, se ben si mira la predetta ragione. 7. La seconda ragione fu
lo desiderio de la durazione di questa amistade. Onde è da sapere che,
sì come dice lo Filosofo nel nono de l’Etica, ne l’amistade de le
persone dissimili di stato conviene, a conservazione di quella, una proporzione
essere intra loro che la dissimilitudine a similitudine quasi reduca. 8.
Sì com’è intra lo signore e lo servo: chè, avvegna che lo
servo non possa simile beneficio rendere a lo signore quando da lui è
beneficiato, dee però rendere quello che migliore può con tanta
sollicitudine di prontezza, che quello che è dissimile per sè si
faccia simile per lo mostramento de la buona volontade; la quale manifesta,
l’amistade si ferma e si conserva. 9. Per che io, considerando me minore
che questa donna, e veggendo me beneficiato da lei, [proposi] di lei commendare
secondo la mia facultade, la quale, se non simile è per sè,
almeno la pronta volontade mostra; chè, se più potesse,
più farei: e così si fa simile a quella di questa gentil donna. 10.
La terza ragione fu uno argomento di provedenza; chè, sì come
dice Boezio, «non basta di guardare pur quello che è dinanzi a li
occhi», cioè lo presente, e però n’è data la provedenza
che riguarda oltre, a quello che può avvenire. 11. Dico che
pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ripreso di levezza
d’animo, udendo me essere dal primo amore mutato; per che, a torre via questa
riprensione, nullo migliore argomento era che dire quale era quella donna che
m’avea mutato. 12. Chè, per la sua eccellenza manifesta, avere si
può considerazione de la sua virtude; e per lo ’ntendimento de la sua
grandissima virtù si può pensare ogni stabilitade d’animo essere
a quella mutabile e però me non giudicare lieve e non stabile. Impresi
dunque a lodare questa donna, e se non come si convenisse, almeno innanzi
quanto io potesse; e cominciai a dire: Amor che ne la mente mi ragiona.
13. Questa canzone principalmente ha tre parti. La
prima è tutto lo primo verso, nel quale proemialmente si parla. La
seconda sono tutti e tre li versi seguenti, ne li quali si tratta quello che
dire s’intende, cioè la loda di questa gentile; lo primo de li quali
comincia: Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira. La terza parte
è lo quinto e l’ultimo verso, nel quale, dirizzando le parole a la
canzone, purgo lei d’alcuna dubitanza. E di queste tre parti per ordine
è da ragionare.
CAPITOLO II.
1. Faccendomi dunque da la prima parte, che proemio
di questa canzone fu ordinata, dico che dividere in tre parti si conviene. Che
prima si tocca la ineffabile condizione di questo tema; secondamente si narra
la mia insufficienza a questo perfettamente trattare: e comincia questa seconda
parte: E certo e’ mi convien lasciare in pria; ultimamente mi scuso da
insufficienza, ne la quale non si dee porre a me colpa: e questo comincio
quando dico: Però, se le mie rime avran difetto.
2. Dice adunque: Amor che ne la mente mi ragiona;
dove principalmente è da vedere chi è questo ragionatore, e che
è questo loco nel quale dico esso ragionare. 3. Amore, veramente
pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento
spirituale de l’anima e de la cosa amata; nel quale unimento di propia sua
natura l’anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita. 4.
E la ragione di questa naturalitade può essere questa. Ciascuna forma
sustanziale procede da la sua prima cagione, la quale è Iddio, sì
come nel libro Di Cagioni è scritto, e non ricevono diversitade per
quella, che è semplicissima, ma per le secondarie cagioni e per la
materia in che discende. Onde nel medesimo libro si scrive, trattando de la
infusione de la bontà divina: «E fanno[si] diverse le bontadi e li doni
per lo concorrimento de la cosa che riceve». 5. Onde, con ciò sia
cosa che ciascuno effetto ritegna de la natura de la sua cagione - sì
come dice Alpetragio quando afferma che quello che è causato da corpo
circulare ne ha in alcuno modo circulare essere -, ciascuna forma ha essere de
la divina natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e
comunicata in quelle, ma da quelle è participata per lo modo quasi che
la natura del sole è participata ne l’altre stelle. 6. E quanto
la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene;
onde l’anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo
sono generate, più riceve de la natura divina che alcun’altra. 7.
E però che naturalissimo è in Dio volere essere - però
che, sì come ne lo allegato libro si legge, «prima cosa è
l’essere, e anzi a quello nulla è» -, l’anima umana essere vuole
naturalmente con tutto desiderio; e però che ’l suo essere dipende da
Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per
lo suo essere fortificare. 8. E però che ne le bontadi de la
natura [e] de la ragione si mostra la divina, viene che naturalmente l’anima
umana con quelle per via spirituale si unisce, tanto più tosto e
più forte quanto quelle più appaiono perfette: lo quale
apparimento è fatto secondo che la conoscenza de l’anima è chiara
o impedita. 9. E questo unire è quello che noi dicemo amore, per
lo quale si può conoscere quale è dentro l’anima, veggendo di
fuori quelli che ama. Questo amore, cioè l’unimento de la mia anima con
questa gentil donna, ne la quale de la divina luce assai mi si mostrava,
è quello ragionatore del quale io dico; poi che da lui continui pensieri
nasceano, miranti e esaminanti lo valore di questa donna che spiritualmente
fatta era con la mia anima una cosa.
10. Lo loco nel quale dico esso ragionare sì
è la mente; ma per dire che sia la mente, non si prende di ciò
più intendimento che di prima, e però è da vedere che
questa mente propriamente significa. 11. Dico adunque che lo Filosofo
nel secondo de l’Anima, partendo le potenze di quella, dice che l’anima
principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare: e dice
anche muovere; ma questa si può col sentire fare una, però che
ogni anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove;
sì che muovere è una potenza congiunta col sentire. 12. E
secondo che esso dice, è manifestissimo che queste potenze sono intra
sè per modo che l’una è fondamento de l’altra; e quella che
è fondamento puote per sè essere partita, ma l’altra, che si
fonda sopra essa, non può da quella essere partita. Onde la potenza
vegetativa, per la quale si vive, è fondamento sopra ’l quale si sente,
cioè vede, ode, gusta, odora e tocca; e questa vegetativa potenza per
sè puote essere anima, sì come vedemo ne le piante tutte. 13.
La sensitiva sanza quella essere non puote, e non si truova in alcuna cosa che
non viva; e questa sensitiva potenza è fondamento de la intellettiva,
cioè de la ragione: e però ne le cose animate mortali la
ragionativa potenza sanza la sensitiva non si truova, ma la sensitiva si truova
sanza questa, sì come ne le bestie, ne li uccelli, ne’ pesci e in ogni
animale bruto vedemo. 14. E quella anima che tutte queste potenze
comprende, [e] è perfettissima di tutte l’altre, è l’anima umana,
la quale con la nobilitade de la potenza ultima, cioè ragione, participa
de la divina natura a guisa di sempiterna intelligenzia; però che l’anima
è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che
la divina luce, come in angelo, raggia in quella: e però è l’uomo
divino animale da li filosofi chiamato.
17. E che ciò fosse lo ’ntendimento, si vede:
chè solamente de l’uomo e de le divine sustanze questa mente si predica,
sì come per Boezio si puote apertamente vedere, che prima la predica de
li uomini, ove dice a la Filosofia: «Tu e Dio, che ne la mente te de li uomini
mise»; poi la predica di Dio, quando dice a Dio: «Tutte le cose produci da lo
superno essemplo, tu, bellissimo, bello mondo ne la mente portante». 18.
Nè mai d’animale bruto predicata fue, anzi di molti uomini, che de la
parte perfettissima paiono defettivi, non pare potersi nè doversi
predicare; e però cotali sono chiamati ne la gramatica ‘amenti’ e
‘dementi’, cioè sanza mente. 19. Onde si puote omai vedere che
è mente: che è quella fine e preziosissima parte de l’anima che
è deitade. E questo è il luogo dove dico che Amore mi ragiona de
la mia donna.
CAPITOLO III.
1. Non sanza cagione dico che questo amore ne la
mente mia fa la sua operazione; ma ragionevolemente ciò si dice, a dare
a intendere quale amore è questo, per lo loco nel quale adopera. 2.
Onde è da sapere che ciascuna cosa, come detto è di sopra, per la
ragione di sopra mostrata ha ’l suo speziale amore. Come le corpora simplici
hanno amore naturato in sè a lo luogo proprio, e però la terra
sempre discende al centro; lo fuoco ha [amore a] la circunferenza di sopra,
lungo lo cielo de la luna, e però sempre sale a quello. 3. Le
corpora composte prima, sì come sono le minere, hanno amore a lo luogo
dove la loro generazione è ordinata, e in quello crescono e acquistano
vigore e potenza; onde vedemo la calamita sempre da la parte de la sua
generazione ricevere vertù. 4. Le piante, che sono prima animate,
hanno amore a certo luogo più manifestamente, secondo che la
complessione richiede; e però vedemo certe piante lungo l’acque quasi
can[s]arsi, e certe sopra li gioghi de le montagne, e certe ne le piagge e
dappiè monti: le quali se si transmutano, o muoiono del tutto o vivono
quasi triste, sì come disgiunte dal loro amico. 5. Li animali bruti
hanno più manifesto amore non solamente a li luoghi, ma l’uno l’altro
vedemo amare. Li uomini hanno loro proprio amore a le perfette e oneste cose. E
però che l’uomo, avvegna che una sola sustanza sia tutta [sua] forma,
per la sua nobilitade ha in sè natura di tutte queste cose, tutti questi
amori puote avere e tutti li ha.
6. Chè per la natura del simplice corpo, che
ne lo subietto signoreggia, naturalmente ama l’andare in giuso; e però
quando in su muove lo suo corpo, più s’affatica. Per la natura seconda,
del corpo misto, ama lo luogo de la sua generazione, e ancora lo tempo; e
però ciascuno naturalmente è di più virtuoso corpo ne lo
luogo dove è generato e nel tempo de la sua generazione che in altro. 7.
Onde si legge ne le storie d’Ercule, e ne l’Ovidio Maggiore e in Lucano e in
altri poeti, che combattendo con lo gigante che si chiamava Anteo, tutte volte
che lo gigante era stanco, e elli ponea lo suo corpo sopra la terra disteso o
per sua volontà o per forza d’Ercule, forza e vigore interamente de la
terra in lui resurgea, ne la quale e de la quale era esso generato. 8.
Di che accorgendosi Ercule, a la fine prese lui; e stringendo quello e levatolo
da la terra, tanto lo tenne sanza lasciarlo a la terra ricongiugnere, che lo
vinse per soperchio e uccise. E questa battaglia fu in Africa, secondo le
testimonianze de le scritture.
9. E per la natura terza, cioè de le piante,
ha l’uomo amore a certo cibo, non in quanto è sensibile, ma in quanto
è notribile, e quello cotale cibo fa l’opera di questa natura
perfettissima, e l’altro non così, ma falla imperfetta. E però
vedemo certo cibo fare li uomini formosi e membruti e bene vivacemente
colorati, e certi fare lo contrario di questo. 10. E per la natura
quarta, de li animali, cioè sensitiva, hae l’uomo altro amore, per lo
quale ama secondo la sensibile apparenza, sì come bestia; e questo amore
ne l’uomo massimamente ha mestiere di rettore per la sua soperchievole
operazione, ne lo diletto massimamente del gusto e del tatto. 11. E per
la quinta e ultima natura, cioè vera umana o, meglio dicendo, angelica,
cioè razionale, ha l’uomo amore a la veritade e a la vertude; e da
questo amore nasce la vera e perfetta amistade, de l’onesto tratta, de la quale
parla lo Filosofo ne l’ottavo de l’Etica, quando tratta de l’amistade.
12. Onde, acciò che questa natura si chiama
mente, come di sopra è mostrato, dissi ‘Amore ragionare ne la mente’,
per dare ad intendere che questo amore era quello che in quella nobilissima
natura nasce, cioè di veritade e di vertude, e per ischiudere ogni falsa
oppinione da me, per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile
dilettazione. Dico poi disiosamente, a dare ad intendere la sua
continuanza e lo suo fervore. 13. E dico ‘move sovente cose che fanno
disviare lo ’ntelletto’. E veramente dico; però che li miei pensieri, di
costei ragionando, molte fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le
potea intendere, e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato:
come chi guarda col viso con[tra] una retta linea, prima vede le cose prossime
chiaramente; poi, procedendo, meno le vede chiare; poi, più oltre,
dubita; poi, massimamente oltre procedendo, lo viso disgiunto nulla vede.
14. E quest’è l’una ineffabilitade di quello
che io per tema ho preso; e consequentemente narro l’altra, quando dico: Lo
suo parlare. E dico che li miei pensieri - che sono parlare d’Amore -
‘sonan sì dolci’, che la mia anima, cioè lo mio affetto, arde di
potere ciò con la lingua narrare; e perchè dire nol posso, dico
che l’anima se ne lamenta dicendo: lassa! ch’io non son possente. 15.
E questa è l’altra ineffabilitade; cioè che la lingua non
è di quello che lo ’ntelletto vede compiutamente seguace. E dico l’anima
ch’ascolta e che lo sente: ‘ascoltare’, quanto a le parole, e ‘sentire’,
quanto a la dolcezza del suono.
CAPITOLO IV.
1. Quando ragionate sono le due ineffabilitadi di
questa matera, conviensi procedere a ragionare le parole che narrano la mia
insufficienza. Dico adunque che la mia insufficienza procede doppiamente,
sì come doppiamente trascende l’altezza di costei, per lo modo che detto
è. 2. Chè a me conviene lasciare per povertà
d’intelletto molto di quello che è vero di lei, e che quasi ne la mia
mente raggia, la quale come corpo diafano riceve quello, non terminando: e
questo dico in quella seguente particula: E certo e’ mi conven lasciare in
pria. 3. Poi quando dico: E di quel che s’intende, dico che
non pur a quello che lo mio intelletto non sostiene, ma eziandio a quello che
io intendo sufficiente [non sono], però che la lingua mia non è
di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne
ragiona; per che è da vedere che, a rispetto de la veritade, poco fia
quello che dirà. E ciò risulta in grande loda di costei, se bene
si guarda, ne la quale principalmente s’intende; e quella orazione si
può dir bene che vegna da la fabrica del rettorico, ne la quale ciascuna
parte pone mano a lo principale intento. 4. Poi quando dice: Però,
se le mie rime avran difetto, escusomi da una colpa de la quale non deggio
essere colpato, veggendo altri le mie parole essere minori che la dignitade di
questa; e dico che se difetto fia ne le mie rime, cioè ne le mie parole
che a trattare di costei sono ordinate, di ciò è da biasimare la
debilitade de lo ’ntelletto e la cortezza del nostro parlare, lo quale per lo
pensiero è vinto, sì che seguire lui non puote a pieno,
massimamente là dove lo pensiero nasce da amore, perchè quivi
l’anima profondamente più che altrove s’ingegna.
5. Potrebbe dire alcuno: ‘tu scusi [e accusi] te
insiememente’. Chè argomento di colpa è, non purgamento, in
quanto la colpa si dà a lo ’ntelletto e al parlare che è mio;
chè, sì come, s’elli è buono, io deggio di ciò
essere lodato in quanto così [è, così,] s’elli è
defettivo, deggio essere biasimato. A ciò si può brievemente
rispondere che non m’accuso, ma iscuso veramente. 6. E però
è da sapere, secondo la sentenza del Filosofo nel terzo de l’Etica, che
l’uomo è degno di loda e di vituperio solo in quelle cose che sono in
sua podestà di fare o di non fare; ma in quelle ne le quali non ha
podestà non merita nè vituperio nè loda, però che
l’uno e l’altro è da rendere ad altrui, avvegna che le cose siano parte
de l’uomo medesimo. 7. Onde noi non dovemo vituperare l’uomo
perchè sia del corpo da sua nativitade laido, però che non fu in
sua podestà farsi bello; ma dovemo vituperare la mala disposizione de la
materia onde esso è fatto, che fu principio del peccato de la natura. E
così non dovemo lodare l’uomo per biltade che abbia da sua nativitade ne
lo suo corpo, chè non fu ello di ciò fattore, ma dovemo lodare
l’artefice, cioè la natura umana, che tanta bellezza produce ne la sua
materia quando impedita da essa non è. 8. E però disse
bene lo prete a lo ’mperadore, che ridea e schernia la laidezza del suo corpo:
«Dio è segnore: esso fece noi e non essi noi»; e sono queste parole del
Profeta, in uno verso del Saltero scritte nè più nè meno
come ne la risposta del prete. E però veggiano li cattivi malnati che
pongono lo studio loro in azzimare la loro [persona, e non in adornare la loro]
operazione, che dee essere tutta con onestade, che non è altro a fare
che ornare l’opera d’altrui e abbandonare la propria.
9. Tornando adunque al proposito, dico che nostro
intelletto, per difetto de la vertù da la quale trae quello ch’el vede,
che è virtù organica, cioè la fantasia, non puote a certe
cose salire (però che la fantasia nol puote aiutare, chè non ha
lo di che), sì come sono le sustanze partite da materia; de le quali se
alcuna considerazione di quella avere potemo, intendere non le potemo nè
comprendere perfettamente. 10. E di ciò non è l’uomo da
biasimare, chè non esso, dico, fue di questo difetto fattore, anzi fece
ciò la natura universale, cioè Iddio, che volse in questa vita
privare noi da questa luce; che, perchè elli lo si facesse, presuntuoso
sarebbe a ragionare. 11. Sì che, se la mia considerazione mi
transportava in parte dove la fantasia venia meno a lo ’ntelletto, se io non
potea intendere non sono da biasimare. Ancora, è posto fine al nostro
ingegno, a ciascuna sua operazione, non da noi ma da l’universale natura; e
però è da sapere che più ampi sono li termini de lo
’ngegno [a pensare] che a parlare, e più ampi a parlare che ad
accennare. 12. Dunque se ’l pensier nostro, non solamente quello che a
perfetto intelletto non viene ma eziandio quello che a perfetto intelletto si
termina, è vincente del parlare, non semo noi da biasimare, però
che non semo di ciò fattori. 13. E però manifesto me
veramente scusare quando dico: Di ciò si biasmi il debole intelletto
E ’l parlar nostro, che non ha valore Di ritrar tutto ciò che dice Amore;
chè assai si dee chiaramente vedere la buona volontade, a la quale aver
si dee rispetto ne li meriti umani. E così omai s’intenda la prima parte
principale di questa canzone, che corre mo per mano.
CAPITOLO V.
1. Quando, ragionando per la prima parte, aperta
è la sentenza di quella, procedere si conviene a la seconda; de la quale
per meglio vedere, tre parti se ne vogliono fare, secondo che in tre versi si
comprende: che ne la prima parte io commendo questa donna interamente e
comunemente, sì ne l’anima come nel corpo; ne la seconda discendo a
laude speziale de l’anima; ne la terza a laude speziale del corpo. 2. La
prima parte comincia: Non vede il sol, che tutto ’l mondo gira; la
seconda comincia: In lei discende la virtù divina; la terza
comincia: Cose appariscon ne lo suo aspetto; e queste parti secondo
ordine sono da ragionare.
3. Dice adunque: Non vede il sol, che tutto ’l
mondo gira; dove è da sapere, a perfetta intelligenza avere, come lo
mondo dal sole è girato. Prima dico che per lo mondo io non intendo qui
tutto ’l corpo de l’universo, ma solamente questa parte del mare e de la terra,
seguendo la volgare voce, chè così s’usa chiamare: onde dice
alcuno, ‘quelli hae tutto lo mondo veduto’, dicendo parte del mare e della
terra. 4. Questo mondo volse Pittagora - e li suoi seguaci - dicere che
fosse una de le stelle e che un’altra a lei fosse opposita, così fatta,
e chiamava quella Anticthona; e dicea ch’erano ambe in una spera che si volvea
da occidente in oriente, e per questa revoluzione si girava lo sole intorno a
noi, e ora si vedea e ora non si vedea. 5. E dicea che ’l fuoco era nel
mezzo di queste, ponendo quello essere più nobile corpo che l’acqua e
che la terra, e ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de li quattro
corpi simplici: e però dicea che ’l fuoco, quando parea salire, secondo
lo vero al mezzo discendea. 6. Platone fu poi d’altra oppinione, e
scrisse in uno suo libro che si chiama Timeo, che la terra col mare era bene lo
mezzo di tutto, ma che ’l suo tondo tutto si girava a torno al suo centro,
seguendo lo primo movimento del cielo; ma tarda molto per la sua grossa matera
e per la massima distanza da quello. 7. Queste oppinioni sono riprovate
per false nel secondo De Celo et Mundo da quello glorioso filosofo al quale la
natura più aperse li suoi segreti; e per lui quivi è provato,
questo mondo, cioè la terra, stare in sè stabile e fissa in
sempiterno. E le sue ragioni, che Aristotile dice a rompere costoro e affermare
la veritade, non è mia intenzione qui narrare, perchè assai basta
a la gente a cu’ io parlo, per la sua grande autoritade sapere che questa terra
è fissa e non si gira, e che essa col mare è centro del cielo.
8. Questo cielo si gira intorno a questo centro
continuamente, sì come noi vedemo; ne la cui girazione conviene di
necessitade essere due poli fermi, e uno cerchio equalmente distante da quelli,
che massimamente giri. Di questi due poli, l’uno è manifesto quasi a
tutta la terra discoperta, cioè questo settentrionale; l’altro è
quasi a tutta la discoperta terra celato, cioè lo meridionale. Lo
cerchio che nel mezzo di questi s’intende, sì è quella parte del
cielo sotto la quale si gira lo sole quando va con l’Ariete e con la Libra. 9.
Onde è da sapere, che se una pietra potesse cadere da questo nostro
polo, ella cadrebbe là oltre nel mare Oceano, a punto in su quel dosso
del mare dove, se fosse uno uomo, la stella [li] sarebbe sempre in sul mezzo
del capo; - e credo che da Roma a questo luogo, andando diritto per tramontana,
sia spazio quasi di dumila secento miglia, o poco dal più al meno -. 10.
Imaginando adunque, per meglio vedere, in questo luogo ch’io dissi sia una
cittade e abbia nome Maria, dico ancora che se da l’altro polo, cioè
meridionale, cadesse una pietra, ch’ella caderebbe in su quel dosso del mare
Oceano ch’è a punto in questa palla opposito a Maria; - e credo che da
Roma là dove caderebbe questa seconda pietra, diritto andando per lo
mezzogiorno, sia spazio di settemila cinquecento miglia, o poco dal più
al meno -. 11. E qui imaginiamo un’altra cittade, che abbia nome Lucia -
ed è spazio, da qualunque lato si tira la corda, di diecimila dugento
miglia -: èli, tra l’una e l’altra, mezzo lo cerchio di tutta questa
palla, sì che li cittadini di Maria tengono le piante contra le piante
di quelli di Lucia. 12. Imaginisi anco uno cerchio in su questa palla,
che sia in ciascuna parte sua tanto lungi da Maria quanto da Lucia. Credo che
questo cerchio - secondo ch’io comprendo per le sentenze de li astrologi, e per
quella d’Alberto de la Magna nel libro de la Natura de’ luoghi e de le
proprietadi de li elementi, e anco per la testimonianza di Lucano nel nono suo
libro - dividerebbe questa terra discoperta dal mare Oceano, là nel
mezzodie, quasi per tutta l’estremità del primo climate, dove sono intra
l’altre genti li Garamanti, che stanno quasi sempre nudi; a li quali venne
Catone col popolo di Roma, la signoria di Cesare fuggendo.
13. Segnati questi tre luoghi sopra questa palla,
leggiermente si può vedere come lo sole la gira. Dico adunque che ’l
cielo del sole si rivolge da occidente in oriente, non dirittamente contra lo
movimento diurno, cioè del die e de la notte, ma tortamente contra
quello; sì che ’l suo mezzo cerchio, che equalmente e ’ntra li suoi
poli, nel quale è lo corpo del sole, sega in due parti opposite lo
[mezzo] cerchio de li due primi poli, cioè nel principio de l’Ariete e
nel principio de la Libra, e partesi per due archi da esso, uno ver
settentrione e un altro ver mezzogiorno. 14. Li punti [di mezzo] de li
quali archi si dilungano equalmente dal primo cerchio, da ogni parte, per
ventitrè gradi e uno punto più; e l’uno punto è lo
principio del Cancro, e l’altro è lo principio del Capricorno.
Però conviene che Maria veggia nel principio de l’Ariete, quando lo sole
va sotto lo mezzo cerchio de li primi poli, esso sole girar lo mondo intorno
giù a la terra, o vero al mare, come una mola de la quale non paia
più che mezzo lo corpo suo; e questa veggia venire montando a guisa
d’una vite dintorno, tanto che compia novanta e una rota e poco più. 15.
E quando queste rote sono compiute, lo suo montare è a Maria quasi tanto
quanto esso monta a noi ne la mezza terra, [quando] ’l giorno è de la
mezza notte iguale; e se uno uomo fosse dritto in Maria e sempre al sole
volgesse lo viso, vederebbesi quello andare ver lo braccio destro. 16.
Poi per la medesima via par discendere altre novanta e una rota e poco
più, tanto ch’elli gira intorno giù a la terra, o vero al mare,
sè non tutto mostrando; e poi si cela, e comincialo a vedere Lucia, lo
quale montare e discendere intorno a sè allor vede con altrettante rote
quante vede Maria. 17. E se uno uomo fosse in Lucia dritto, sempre che
volgesse la faccia in ver lo sole, vedrebbe quello andarsi nel braccio sinistro.
Per che si può vedere che questi luoghi hanno un dì l’anno di sei
mesi; e una notte d’altrettanto tempo; e quando l’uno ha lo giorno, e l’altro
ha la notte. 18. Conviene anche che lo cerchio dove sono li Garamanti,
come detto è, in su questa palla, veggia lo sole a punto sopra sè
girare, non a modo di mola, ma di [rota]; la quale non può in alcuna
parte vedere se non mezza, quando va sotto l’Ariete. E poi lo vede partire da
sè e venire verso Maria novanta e uno die e poco più, e per
altrettanti a sè tornare; e poi, quando è tornato, va sotto la
Libra, e anche si parte e va ver Lucia novanta e uno dì e poco
più, e in altrettanti ritorna. 19. E questo luogo, lo quale tutta
la palla cerchia, sempre ha lo die iguale con la notte, o di qua o di là
che ’l sole li vada; e due volte l’anno ha la state grandissima di calore, e
due piccioli verni.
20. Conviene anche che li due spazii, che sono in
mezzo de le due cittadi imaginate e lo [cerchio] del mezzo, veggiano lo sole
disvariatamente, secondo che sono remoti e propinqui questi luoghi; sì
come omai, per quello che detto è, puote vedere chi ha nobile ingegno,
al quale è bello un poco di fatica lasciare. 21. Per che vedere
omai si puote, che per lo divino provedimento lo mondo è sì
ordinato che, volta la spera del sole e tornata a uno punto, questa palla dove
noi siamo in ciascuna parte di sè riceve tanto tempo di luce quanto di
tenebre. 22. O ineffabile sapienza che così ordinasti, quanto
è povera la nostra mente a te comprendere! E voi a cui utilitade e diletto
io scrivo, in quanta cechitade vivete, non levando li occhi suso a queste cose,
tenendoli fissi nel fango de la vostra stoltezza!
CAPITOLO VI.
1. Nel precedente capitolo è mostrato per che
modo lo sole gira; sì che omai si puote procedere a dimostrare la
sentenza de la parte a la quale s’intende. Dico adunque che in questa parte
prima comincio a commendare questa donna per comparazione a l’altre cose; e
dico che ’l sole, girando lo mondo, non vede alcuna cosa così gentile
come costei: per che segue che questa sia, secondo le parole, gentilissima di
tutte le cose che ’l sole allumina. 2. E dice: in quell’ora; onde
è da sapere che ‘ora’ per due modi si prende da li astrologi. L’uno si
è, che del die e de la notte fanno ventiquattr’ore, cioè dodici
del die e dodici de la notte, quanto che ’l die sia grande o picciolo; e queste
ore si fanno picciole e grandi nel dì e ne la notte, secondo che ’l
dì e la notte cresce e menoma. E queste ore usa la Chiesa, quando dice
Prima, Terza, Sesta e Nona, e chiamansi ore temporali. 3. L’altro modo
si è, che faccendo del dì e de la notte ventiquattr’ore, tal
volta ha lo die le quindici ore, e la notte le nove; tal volta ha la notte le
sedici e lo die le otto, secondo che cresce e menoma lo die e la notte: e
chiamansi ore equali. E ne lo equinozio sempre queste e quelle che temporali si
chiamano sono una cosa; però che, essendo lo dì equale de la
notte, conviene così avvenire.
4. Poi quando dico: Ogni Intelletto di là
su la mira, commendo lei, non avendo rispetto ad altra cosa. E dico che le
Intelligenze del cielo la mirano, e che la gente di qua giù gentile
pensano di costei, quando più hanno di quello che loro diletta. E qui
è da sapere che ciascuno Intelletto di sopra, secondo ch’è
scritto nel libro de le Cagioni, conosce quello che è sopra sè e
quello che è sotto sè. 5. Conosce adunque Iddio sì
come sua cagione, conosce quello che è sotto sè sì come
suo effetto; e però che Dio è universalissima cagione di tutte le
cose, conoscendo lui, tutte le cose conosce in sè, secondo lo modo de la
Intelligenza. Per che tutte le Intelligenze conoscono la forma umana in quanto
ella è per intenzione regolata ne la divina mente; e massimamente
conoscono quella le Intelligenze motrici, però che sono spezialissime
cagioni di quella e d’ogni forma generata, e conoscono quella perfettissima,
tanto quanto essere puote, sì come loro regola ed essemplo. 6. E
se essa umana forma, essemplata e individuata, non è perfetta, non
è manco de lo detto essemplo, ma de la materia la quale individua.
Però quando dico: Ogni Intelletto di là su la mira, non
voglio altro dire se non ch’ella è così fatta come l’essemplo
intenzionale che de la umana essenzia è ne la divina mente e, per
quella, in tutte l’altre, massimamente in quelle menti angeliche che fabbricano
col cielo queste cose di qua giuso.
7. E a questo affermare, soggiungo quando dico: E
quella gente che qui s’innamora. Dove è da sapere che ciascuna cosa
massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo
desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata: e questo è quello
desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; chè nulla
dilettazione è sì grande in questa vita che a l’anima nostra
possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel
pensiero. 8. E però che questa è veramente quella
perfezione, dico che quella gente che qua giù maggiore diletto riceve
quando più hanno di pace, allora rimane questa ne’ loro pensieri, per
questa, dico, tanto essere perfetta quanto sommamente essere puote l’umana
essenzia. 9. Poi quando dico: Suo esser tanto a Quei che lel
dà piace, mostro che non solamente questa donna è
perfettissima ne la umana generazione, ma più che perfettissima in
quanto riceve de la divina bontade oltre lo debito umano. 10. Onde
ragionevolmente si puote credere che, sì come ciascuno maestro ama
più la sua opera ottima che l’altre, così Dio ama più la
persona umana ottima che tutte l’altre; e però che la sua larghezza non
si stringe da necessitade d’alcuno termine, non ha riguardo lo suo amore al
debito di colui che riceve, ma soperchia quello in dono e in beneficio di
vertù e di grazia. Onde dico qui che esso Dio, che dà l’essere a
costei, per caritade de la sua perfezione infonde in essa de la sua bontade oltre
li termini del debito de la nostra natura.
11. Poi quando dico: La sua anima pura, pruovo
ciò che detto è per sensibile testimonianza. Ove è da
sapere che, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l’Anima, l’anima
è atto del corpo: e se ella è suo atto, è sua cagione; e
però che, sì come è scritto nel libro allegato de le
Cagioni, ogni cagione infonde nel suo effetto de la bontade che riceve da la
cagione sua, infonde e rende al corpo suo de la bontade de la cagione sua,
ch’è Dio. 12. Onde, con ciò sia cosa che in costei si
veggiano, quanto è da la parte del corpo, maravigliose cose, tanto che
fanno ogni guardatore disioso di quelle vedere, manifesto è che la sua
forma, cioè la sua anima, che lo conduce sì come cagione propria,
riceva miracolosamente la graziosa bontade di Dio. 13. E così
[si] pruova, per questa apparenza, che è oltre lo debito de la natura
nostra (la quale in lei è perfettissima come detto è di sopra)
questa donna da Dio beneficiata e fatta nobile cosa. E questa è tutta la
sentenza litterale de la prima parte de la seconda parte principale.
CAPITOLO VII.
1. Commendata questa donna comunemente, sì
secondo l’anima come secondo lo corpo, io procedo a commendare lei spezialmente
secondo l’anima; e prima la commendo secondo che ’l suo bene è grande in
sè, poi la commendo secondo che ’l suo bene è grande in altrui e
utile al mondo. 2. E comincia questa parte seconda quando dico: Di
costei si può dire. Dunque dico prima: In lei discende la
virtù divina. Ove è da sapere che la divina bontade in tutte
le cose discende, e altrimenti essere non potrebbero; ma avvegna che questa
bontade si muova da simplicissimo principio, diversamente si riceve, secondo
più e meno, da le cose riceventi. Onde scritto è nel libro de le
Cagioni: «La prima bontade manda le sue bontadi sopra le cose con uno
discorrimento». 3. Veramente ciascuna cosa riceve da quello
discorrimento secondo lo modo de la sua vertù e de lo suo essere; e di
ciò sensibile essemplo avere potemo dal sole. Vedemo la luce del sole,
la quale è una, da uno fonte derivata, diversamente da le corpora essere
ricevuta; sì come dice Alberto in quello libro che fa de lo Intelletto.
Chè certi corpi, per molta chiaritade di diafano avere in sè
mista, tosto che ’l sole li vede diventano tanto luminosi, che per
multiplicamento di luce in quelle e ne lo loro aspetto, rendono a li altri di
sè grande splendore, sì come è l’oro, e alcuna pietra. 4.
Certi sono che, per esser del tutto diafani, non solamente ricevono la luce, ma
quella non impediscono, anzi rendono lei del loro colore colorata ne l’altre
cose. E certi sono tanto vincenti ne la purità del diafano, che
divengono sì raggianti, che vincono l’armonia de l’occhio, e non si
lasciano vedere sanza fatica del viso, sì come sono li specchi. Certi
altri sono tanto sanza diafano, che quasi poco de la luce ricevono, sì
com’è la terra. 5. Così la bontà di Dio è
ricevuta altrimenti da le sustanze separate, cioè da li Angeli, che sono
sanza grossezza di materia, quasi diafani per la purità de la loro
forma, e altrimenti da l’anima umana, che, avvegna che da una parte sia da
materia libera, da un’altra è impedita, sì come l’uomo
ch’è tutto ne l’acqua fuor del capo, del quale non si può dire
che tutto sia ne l’acqua nè tutto fuor da quella; e altrimenti da li
animali, la cui anima tutta in materia è compresa, ma alquanto è
nobilitata; e altrimenti da le piante, e altrimenti da le minere; e altrimenti
da la terra che da li altri [elementi], però che è
materialissima, e però remotissima e improporzionalissima a la prima
simplicissima e nobilissima vertude, che sola è intellettuale,
cioè Dio.
6. E avvegna che posti siano qui gradi generali,
nondimeno si possono porre gradi singulari; cioè che quella riceve, de
l’anime umane, altrimenti una che un’altra. E però che ne l’ordine
intellettuale de l’universo si sale e discende per gradi quasi continui da la
infima forma a l’altissima [e da l’altissima] a la infima, sì come
vedemo ne l’ordine sensibile; e tra l’angelica natura, che è cosa
intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno a
l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima
più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia; e noi
veggiamo molti uomini tanto vili e di sì bassa condizione, che quasi non
pare essere altro che bestia; e così è da porre e da credere
fermamente, che sia alcuno tanto nobile e di sì alta condizione che
quasi non sia altro che angelo: altrimenti non si continuerebbe l’umana spezie
da ogni parte, che esser non può. 7. E questi cotali chiama
Aristotile, nel settimo de l’Etica, divini; e cotale dico io che è
questa donna, sì che la divina virtude, a guisa che discende ne
l’angelo, discende in lei.
8. Poi quando dico: E qual donna gentil questo non
crede, pruovo questo per la esperienza che aver di lei si può in quelle
operazioni che sono proprie de l’anima razionale, dove la divina luce
più espeditamente raggia; cioè nel parlare e ne li atti che
reggimenti e portamenti sogliono essere chiamati. Onde è da sapere che
solamente l’uomo intra li animali parla, e ha reggimenti e atti che si dicono
razionali, però che solo elli ha in sè ragione. 9. E se
alcuno volesse dire contra, dicendo che alcuno uccello parli, sì come
pare di certi, massimamente de la gazza e del pappagallo, e che alcuna bestia
fa atti o vero reggimenti, sì come pare de la scimia e d’alcuno altro,
rispondo che non è vero che parlino nè che abbiano reggimenti,
però che non hanno ragione, da la quale queste cose convegnono
procedere; nè è in loro lo principio di queste operazioni,
nè conoscono che sia ciò, nè intendono per quello alcuna
cosa significare, ma solo quello che veggiono e odono ripresentare. 10.
Onde, secondo la imagine de le corpora in alcuno corpo lucido si ripresenta,
sì come ne lo specchio, e sì la imagine corporale che lo specchio
dimostra non è vera; così la imagine de la ragione, cioè
li atti e lo parlare [che] l’anima bruta ripresenta, o vero dimostra, non
è vera.
11. Dico che ‘qual donna gentile non crede quello
ch’io dico, che vada con lei, e miri li suoi atti’ - non dico ‘qual uomo’,
però che più onestamente [di donna] per le donne si prende
esperienza che per l’uomo -; e dico quello che di lei colei sentirà,
dicendo quello che fa lo suo parlare, e che fanno li suoi reggimenti. 12.
Chè il suo parlare, per l’altezza e per la dolcezza sua, genera ne la
mente di chi l’ode uno pensiero d’amore, lo quale io chiamo spirito celestiale,
però che là su è lo principio e di là su viene la
sua sentenza, sì come di sopra è narrato; del qual pensiero si procede
in ferma oppinione che questa sia miraculosa donna di vertude. 13. E
suoi atti, per la loro soavitade e per la loro misura, fanno amore disvegliare
e risentire là dovunque è de la sua potenza seminata per buona
natura. La quale natural semenza si fa come nel sequente trattato si mostra.
14. Poi quando dico: Di costei si può dire,
intendo narrare come la bontà e la vertù de la sua anima è
a li altri buona e utile. E prima, com’ella è utile a l’altre donne,
dicendo: Gentile è in donna ciò che in lei si trova; dove
manifesto essemplo rendo a le donne, nel quale mirando possano [sè] far
parere gentili, quello seguitando. 15. Secondamente narro come ella
è utile a tutte le genti, dicendo che l’aspetto suo aiuta la nostra
fede, la quale più che tutte l’altre cose è utile a tutta l’umana
generazione, sì come quella per la quale campiamo da etternale morte e
acquistiamo etternale vita. 16. E la nostra fede aiuta; però che,
con ciò sia cosa che principalissimo fondamento de la fede nostra siano
miracoli fatti per colui che fu crucifisso - lo quale creò la nostra
ragione, e volle che fosse minore del suo potere -, e fatti poi nel nome suo
per li santi suoi; e molti siano sì ostinati che di quelli miracoli per
alcuna nebbia siano dubbiosi, e non possano credere miracolo alcuno sanza
visibilmente avere di ciò esperienza; e questa donna sia una cosa
visibilmente miraculosa, de la quale li occhi de li uomini cotidianamente
possono esperienza avere, ed a noi faccia possibili li altri; manifesto
è che questa donna, col suo mirabile aspetto, la nostra fede aiuta. 17.
E però ultimamente dico che da etterno, cioè etternamente,
fu ordinata ne la mente di Dio in testimonio de la fede a coloro che in
questo tempo vivono. E così termina la seconda parte [de la seconda
parte], secondo la litterale sentenza.
CAPITOLO VIII.
1. Intra li effetti de la divina sapienza l’uomo
è mirabilissimo, considerato come in una forma la divina virtute tre
nature congiunse, e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo suo, a
cotal forma essendo organizzato per tutte quasi sue vertudi. 2. Per che,
per la molta concordia che ’ntra tanti organi conviene a bene rispondersi,
pochi perfetti uomini in tanto numero sono. E se così è mirabile
questa creatura, certo non pur con le parole è da temere di trattare di
sue condizioni, ma eziandio col pensiero, secondo quelle parole de lo
Ecclesiastico: «La sapienza di Dio, precedente tutte le cose, chi cercava?», e
quelle altre dove dice: «Più alte cose di te non dimanderai e più
forti cose di te non cercherai; ma quelle cose che Dio ti comandò,
pensa, e in più sue opere non sie curioso», cioè sollicito. 3.
Io adunque, che in questa terza particola d’alcuna condizione di cotal creatura
parlare intendo, in quanto nel suo corpo, per bontade de l’anima, sensibile
bellezza appare, temorosamente non sicuro comincio, intendendo, e se non a
pieno, almeno alcuna cosa di tanto nodo disnodare. 4. Dico adunque che,
poi che aperta è la sentenza di quella particola ne la quale questa
donna è commendata da la parte de l’anima, da procedere e da vedere
è come, quando dico Cose appariscon ne lo suo aspetto, io
commendo lei da la parte del corpo. 5. E dico che ne lo suo aspetto
appariscono cose le quali dimostrano de’ piaceri [di Paradiso]. E intra li
altri di quelli lo più nobile e quello che è [inizio] e fine di
tutti li altri, sì è contentarsi, e questo sì è
essere beato; e questo piacere è veramente, avvegna che per altro modo,
ne l’aspetto di costei. Chè, guardando costei, la gente si contenta,
tanto dolcemente ciba la sua bellezza li occhi de’ riguardatori; ma per altro
modo che per lo contentare in Paradiso [che] è perpetuo, chè non
può ad alcuno essere questo.
6. E però che potrebbe alcuno aver domandato
dove questo mirabile piacere appare in costei, distinguo ne la sua persona due
parti, ne le quali l’umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde
è da sapere che in qualunque parte l’anima più adopera del suo
officio, che a quella più fissamente intende ad adornare, e più
sottilmente quivi adopera. 7. Onde vedemo che ne la faccia de l’uomo,
là dove fa più del suo officio che in alcuna parte di fuori,
tanto sottilmente intende, che, per sottigliarsi quivi tanto quanto ne la sua
materia puote, nullo viso ad altro viso è simile; perchè l’ultima
potenza de la materia, la qual è in tutti quasi dissimile, quivi si
riduce in atto. 8. E però che ne la faccia massimamente in due
luoghi opera l’anima - però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre
le nature de l’anima hanno giurisdizione - cioè ne li occhi e ne la
bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ’ntento tutto a fare bello,
se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono questi piaceri
dicendo: ne li occhi e nel suo dolce riso. 9. Li quali due
luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi de la donna che
nel dificio del corpo abita, cioè l’anima; però che quivi,
avvegna che quasi velata, spesse volte si dimostra. Dimostrasi ne li occhi
tanto manifesta, che conoscer si può la sua presente passione, chi bene
là mira. 10. Onde, con ciò sia cosa che sei passioni siano
propie de l’anima umana, de le quali fa menzione lo Filosofo ne la sua
Rettorica, cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna,
di nulla di queste puote l’anima essere passionata che a la finestra de li
occhi non vegna la sembianza, se per grande vertù dentro non si chiude.
Onde alcuno già si trasse li occhi, perchè la vergogna d’entro
non paresse di fuori; sì come dice Stazio poeta del tebano Edipo, quando
dice che «con etterna notte solvette lo suo dannato pudore». 11.
Dimostrasi ne la bocca, quasi come colore dopo vetro. E che è ridere se
non una corruscazione de la dilettazione de l’anima, cioè uno lume
apparente di fuori secondo sta dentro? E però si conviene a l’uomo, a
dimostrare la sua anima ne l’allegrezza moderata, moderatamente ridere, con onesta
severitade e con poco movimento de la sua [f]accia; sì che donna, che
allora si dimostra come detto è, paia modesta e non dissoluta. 12.
Onde ciò fare ne comanda lo Libro de le quattro vertù cardinali:
«Lo tuo riso sia sanza cachinno», cioè sanza schiamazzare come gallina.
Ahi mirabile riso de la mia donna, di cui io parlo, che mai non si sentia se
non de l’occhio!
13. E dico che Amore le reca queste cose quivi,
sì come a luogo suo; dove si può amore doppiamente considerare.
Prima l’amore de l’anima, speziale a questi luoghi; secondamente l’amore
universale che le cose dispone ad amare e ad essere amate, che ordina l’anima
ad adornare queste parti. 14. Poi quando dico: Elle soverchian lo
nostro intelletto, escuso me di ciò, che di tanta eccellenza di
biltade poco pare che io tratti sovrastando a quella; e dico che poco ne dico
per due ragioni. L’una si è che queste cose che paiono nel suo aspetto
soverchiano lo ’ntelletto nostro, cioè umano: e dico come questo
soverchiare è fatto, che è fatto per lo modo che soverchia lo
sole lo fragile viso, non pur lo sano e forte; l’altra si è che
fissamente in ess[e] guardare non può, perchè quivi s’inebria
l’anima, sì che incontanente, dopo di sguardare, disvia in ciascuna sua
operazione.
15. Poi quando dico: Sua bieltà piove
fiammelle di foco, ricorro a ritrattare del suo effetto, poi che di lei
trattare interamente non si può. Onde è da sapere che di tutte
quelle cose che lo ’ntelletto nostro vincono, sì che non può
vedere quello che sono, convenevolissimo trattare è per li loro effetti:
onde di Dio, e de le sustanze separate, e de la prima materia, così
trattando, potemo avere alcuna conoscenza. 16. E però dico che la
biltade di quella piove fiammelle di foco, cioè ardore d’amore e
di caritade; animate d’un spirito gentile, cioè informato ardore
d’un gentile spirito, cioè diritto appetito, per lo quale e del quale
nasce origine di buono pensiero. E non solamente fa questo, ma disfà e
distrugge lo suo contrario - de li buoni pensieri -, cioè li vizii
innati, li quali massimamente sono di buoni pensieri nemici. 17. E qui
è da sapere che certi vizii sono ne l’uomo a li quali naturalmente elli
è disposto - sì come certi per complessione collerica sono ad ira
disposti -, e questi cotali vizii sono innati, cioè connaturali. Altri
sono vizii consuetudinarii, a li quali non ha colpa la complessione ma la
consuetudine, sì come la intemperanza, e massimamente, del vino: e
questi vizii si fuggono e si vincono per buona consuetudine, e fassi l’uomo per
essa virtuoso, sanza fatica avere ne la sua moderazione, sì come dice lo
Filosofo nel secondo de l’Etica. 18. Veramente questa differenza
è intra le passioni connaturali e le consuetudinarie, che le
consuetudinarie per buona consuetudine del tutto vanno via; però che lo
principio loro, cioè la mala consuetudine, per lo suo contrario si
corrompe; ma le connaturali, lo principio de le quali è la natura del
passionato, tutto che molto per buona consuetudine si facciano lievi, del tutto
non se ne vanno quanto al primo movimento, ma vannosene bene del tutto quanto a
durazione; però che la consuetudine non è equabile a la natura,
ne la quale è lo principio di quelle. 19. E però è
più laudabile l’uomo che dirizza sè e regge sè mal
naturato contra l’impeto de la natura, che colui che ben naturato si sostiene
in buono reggimento o disviato si rinvia; sì come è più
laudabile uno mal cavallo reggere che un altro non reo. 20. Dico adunque
che queste fiammelle che piovono da la sua biltade, come detto è,
rompono li vizii innati, cioè connaturali, a dare a intendere che la sua
bellezza ha podestade in rinnovare natura in coloro che la mirano; ch’è
miracolosa cosa. E questo conferma quello che detto è di sopra ne
l’altro capitolo, quando dico ch’ella è aiutatrice de la fede nostra.
21. Ultimamente quando dico: Però qual donna
sente sua bieltate, conchiudo, sotto colore d’ammonire altrui, lo fine a
che fatta fue tanta biltade; e dico che qual donna sente per manco la sua
biltade biasimare, guardi in questo perfettissimo essemplo. Dove s’intende che
non pur a migliorare lo bene è fatta, ma eziandio a fare de la mala cosa
buona cosa. 22. E soggiugne in fine: Costei pensò chi mosse
l’universo, cioè Dio, per dare a intendere che per divino
proponimento la natura cotale effetto produsse. E così termina tutta la
seconda parte principale di questa canzone.
CAPITOLO IX.
1. L’ordine del presente trattato richiede - poi che
le due parti di questa canzone per me sono, secondo che fu la mia intenzione,
ragionate - che a la terza si proceda, ne la quale io intendo purgare la
canzone da una riprensione, la quale a lei potrebbe essere istata contraria, e
a questo che [io parlo. Chè] io, prima che a la sua composizione
venisse, parendo a me questa donna fatta contra me fiera e superba alquanto,
feci una ballatetta ne la quale chiamai questa donna orgogliosa e dispietata:
che pare esser contra quello che qui si ragiona di sopra. 2. E
però mi volgo a la canzone, e sotto colore d’insegnare a lei come
scusare la conviene, scuso quella: ed è una figura questa, quando a le
cose inanimate si parla, che si chiama da li rettorici prosopopeia; e usanla
molto spesso li poeti. [E comincia questa parte terza:] Canzone, e’ par che
tu parli contraro. 3. Lo ’ntelletto de la quale a più
agevolmente dare a intendere, mi conviene in tre particole dividere: che prima
si propone a che la scusa fa mestiere; poi si produce con la scusa, quando
dico: Tu sai che ’l cielo; ultimamente parlo a la canzone sì come
a persona ammaestrata di quello che dee fare, quando dico: Così ti
scusa, se ti fa mestero.
4. Dico dunque in prima: ‘O canzone, che parli di
questa donna cotanta loda, e’ par che tu sii contraria ad una tua sorella’. Per
similitudine dico ‘sorella’; chè sì come sorella è detta
quella femmina che da uno medesimo generante è generata, così
puote l’uomo dire ‘sorella’ de l’opera che da uno medesimo operante è
operata; chè la nostra operazione in alcuno modo è generazione. E
dico che par che parli contrara a quella, dicendo: tu fai costei umile, e
quella la fa superba, cioè fera e disdegnosa, che tanto vale. 5.
Proposta questa accusa, procedo a la scusa per essemplo, ne lo quale, alcuna
volta, la veritade si discorda da l’apparenza, e, altra, per diverso rispetto
si puote tra[nsmu]tare. Dico: Tu sai che ’l ciel sempr’è lucente e
chiaro, cioè sempr’è con chiaritade; ma per alcuna cagione
alcuna volta è licito di dire quello essere tenebroso. 6. Dove
è da sapere che, propriamente, è visibile lo colore e la luce,
sì come Aristotile vuole nel secondo de l’Anima, e nel libro del Senso e
Sensato. Ben è altra cosa visibile, ma non propriamente, però che
[anche] altro senso sente quello, sì che non si può dire che sia
propriamente visibile, nè propriamente tangibile; sì come
è la figura, la grandezza, lo numero, lo movimento e lo stare fermo, che
sensibili [comuni] si chiamano: le quali cose con più sensi
comprendiamo. Ma lo colore e la luce sono propriamente; perchè solo col
viso comprendiamo ciò, e non con altro senso. 7. Queste cose
visibili, sì le proprie come le comuni in quanto sono visibili, vengono
dentro a l’occhio - non dico le cose, ma le forme loro - per lo mezzo diafano,
non realmente ma intenzionalmente, sì quasi come in vetro transparente. 8.
E ne l’acqua ch’è ne la pupilla de l’occhio, questo discorso, che fa la
forma visibile per lo mezzo, sì si compie, perchè quell’acqua
è terminata - quasi come specchio, che è vetro terminato con
piombo -, sì che passar più non può, ma quivi, a modo
d’una palla, percossa si ferma; sì che la forma, che nel mezzo
transparente non pare, [ne l’acqua pare] lucida e terminata. E questo è
quello per che nel vetro piombato la imagine appare, e non in altro. 9.
Di questa pupilla lo spirito visivo, che si continua da essa, a la parte del
cerebro dinanzi, dov’è la sensibile virtute sì come in principio
fontale, subitamente sanza tempo la ripresenta, e così vedemo. Per che,
acciò che la visione sia verace, cioè cotale qual è la
cosa visibile in sè, conviene che lo mezzo per lo quale a l’occhio viene
la forma sia sanza ogni colore, e l’acqua de la pupilla similemente: altrimenti
si macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e di quello de la pupilla.
10. E però coloro che vogliono far parere le cose ne lo specchio
d’alcuno colore, interpongono di quello colore tra ’l vetro e ’l piombo,
sì che ’l vetro ne rimane compreso. Veramente Plato e altri flosofi
dissero che ’l nostro vedere non era perchè lo visibile venisse a
l’occhio, ma perchè la virtù visiva andava fuori al visibile: e
questa oppinione è riprovata per falsa dal Filosofo in quello del Senso
e Sensato.
11. Veduto questo modo de la vista, vedere si
può leggermente che, avvegna che la stella sempre sia d’un modo chiara e
lucente, e non riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì
come in quello De Celo et Mundo è provato, per più cagioni puote
parere non chiara e non lucente. 12. Però puote parere
così per lo mezzo che continuamente si transmuta. Transmutasi questo
mezzo di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la
sua assenza; e a la presenza lo mezzo, che è diafano, è tanto
pieno di lume che è vincente de la stella, e però [non] pare
più lucente. Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di
secco in umido, per li vapori de la terra che continuamente salgono: lo quale
mezzo, così transmutato, transmuta la immagine de la stella che viene
per esso, per la grossezza in oscuritade, e per l’umido e per lo secco in
colore. 13. Però puote anche parere così per l’organo
visivo, cioè l’occhio, lo quale per infertade e per fatica si transmuta
in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte
volte che per essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna
corruzione d’infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la
stella ne pare colorata. 14. E per essere lo viso debilitato, incontra in
esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite ma
disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la carta umida: e
questo è quello per che molti, quando vogliono leggere, si dilungano le
scritture da li occhi, perchè la imagine loro vegna dentro più
lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera
discreta ne la vista. 15. E però puote anche la stella parere
turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone,
che per affaticare lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li
spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. 16.
E per lunga riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo de
l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che
tornai nel primo buono stato de la vista. E così appaiono molte cagioni,
per le ragioni notate, per che la stella puote parere non com’ella è.
CAPITOLO X.
1. Partendomi da questa disgressione, che mestiere
è stata a vedere la veritade, ritorno al proposito e dico che sì
come li nostri occhi ‘chiamano’, cioè giudicano, la stella talora
altrimenti che sia la vera sua condizione, così quella ballatetta
considerò questa donna secondo l’apparenza, discordante dal vero per
infertade de l’anima, che di troppo disio era passionata. 2. E
ciò manifesto quando dico: chè l’anima temea, sì
che fiero mi parea ciò che vedea ne la sua presenza. Dov’è da
sapere che quanto l’agente più al paziente sè unisce, tanto
più forte è però la passione, sì come per la sentenza
del Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto
la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio
è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la
parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora
non giudica come uomo la persona, ma quasi come altro animale pur secondo
l’apparenza, non discernendo la veritade. 3. E questo è quello
per che lo sembiante, onesto secondo lo vero, ne pare disdegnoso e fero; e
secondo questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta. E in
ciò s’intende assai che questa canzone considera questa donna secondo la
veritade, per la discordanza che ha con quella. 4. E non sanza cagione
dico: là v’ella mi senta, e non là dov’io la senta;
ma in ciò voglio dare a intendere la grande virtù che li suoi
occhi aveano sopra me: chè, come s’io fosse stato [diafano], così
per ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi si potrebbero ragioni naturali
e sovrannaturali assegnare; ma basti qui tanto avere detto: altrove ragionerò
più convenevolemente.
5. Poi quando dico: Così ti scusa, se ti fa
mestero, impongo a la canzone come per le ragioni assegnate ‘sè
iscusi là dov’è mestiero’, cioè là dove alcuno
dubitasse di questa contrarietade; che non è altro a dire se non che
qualunque dubitasse in ciò, che questa canzone da quella ballatetta si
discorda, miri in questa ragione che detta è. 6. E questa cotale
figura in rettorica è molto laudabile, e anco necessaria, cioè
quando le parole sono a una persona e la ’ntenzione è a un’altra;
però che l’ammonire è sempre laudabile e necessario, e non sempre
sta convenevolemente ne la bocca di ciascuno. 7. Onde, quando lo figlio
è conoscente del vizio del padre, e quando lo suddito è
conoscente del vizio del segnore, e quando l’amico conosce che vergogna
crescerebbe al suo amico quello ammonendo o menomerebbe suo onore, o conosce
l’amico suo non paziente ma iracundo a l’ammonizione, questa figura è
bellissima e utilissima, e puotesi chiamare ‘dissimulazione’. 8. Ed
è simigliante a l’opera di quello savio guerrero che combatte lo
castello da uno lato per levare la difesa da l’altro, che non vanno ad una
parte la ’ntenzione de l’aiutorio e la battaglia.
9. E impongo anche a costei che domandi parola di
parlare a questa donna di lei. Dove si puote intendere che l’uomo non dee
essere presuntuoso a lodare altrui, non ponendo bene prima mente s’elli
è piacere de la persona laudata; perchè molte volte credendosi
[a] alcuno dar loda, si dà biasimo, o per difetto de lo dicitore o per
difetto di quello che ode. 10. Onde molta discrezione in ciò
avere si conviene; la qual discrezione è quasi uno domandare licenzia,
per lo modo ch’io dico che domandi questa canzone. E così termina tutta
la litterale sentenza di questo trattato; per che l’ordine de l’opera domanda a
l’allegorica esposizione omai, seguendo la veritade, procedere.
CAPITOLO XI.
1. Sì come l’ordine vuole ancora dal principio
ritornando, dico che questa donna è quella donna de lo ’ntelletto che
Filosofia si chiama. Ma però che naturalmente le lode danno desiderio di
conoscere la persona laudata; e conoscere la cosa sia sapere quello che ella
è, in sè considerata e per tutte le sue c[au]se, sì come
dice lo Filosofo nel principio de la Fisica; e ciò non dimostri lo nome,
avvegna che ciò significhi, sì come dice nel quarto de la
Metafisica (dove si dice che la diffinizione è quella ragione che ’l
nome significa), conviensi qui, prima che più oltre si proceda per le
sue laude mostrare, dire che è questo che si chiama Filosofia,
cioè quello che questo nome significa. 2. E poi dimostrata essa,
più efficacemente si tratterà la presente allegoria. E prima
dirò chi questo nome prima diede; poi procederò a la sua
significanza.
3. Dico adunque che anticamente in Italia, quasi dal
principio de la costituzione di Roma, che fu [sette]cento cinquanta anni
[innanzi], poco dal più al meno, che ’l Salvatore venisse, secondo che
scrive Paulo Orosio, nel tempo quasi che Numa Pompilio, secondo re de li Romani,
vivea uno filosofo nobilissimo, che si chiamò Pittagora. E che ello
fosse in quel tempo, pare che ne tocchi alcuna cosa Tito Livio ne la prima
parte del suo volume incidentemente. 4. E dinanzi da costui erano
chiamati li seguitatori di scienza non filosofi ma sapienti, sì come
furono quelli sette savi antichissimi, che la gente ancora nomina per fama: lo
primo de li quali ebbe nome Solon, lo secondo Chilon, lo terzo Periandro, lo
quarto Cleobulo, lo quinto Lindio, lo sesto Biante, e lo settimo Prieneo. 5.
Questo Pittagora, domandato se egli si riputava sapiente, negò a
sè questo vocabulo, e disse sè essere non sapiente, ma amatore di
sapienza. E quinci nacque poi, ciascuno studioso in sapienza che fosse ‘amatore
di sapienza’ chiamato, cioè ‘filosofo’; chè tanto vale in greco
‘philos’ com’è a dire ‘amore’ in latino, e quindi dicemo noi: ‘philos’
quasi amore, e ‘soph[os]’ quasi sapien[te]. Per che vedere si può che
questi due vocabuli fanno questo nome di ‘filosofo’, che tanto vale a dire
quanto ‘amatore di sapienza’: per che notare si puote che non d’arroganza, ma
d’umilitade è vocabulo. 6. Da questo nasce lo vocabulo del suo
proprio atto, Filosofia, sì come de lo amico nasce lo vocabulo del suo
proprio atto, cioè Amicizia. Onde si può vedere, considerando la
significanza del primo e del secondo vocabulo, che Filosofia non è altro
che amistanza a sapienza, o vero a sapere; onde in alcuno modo si può
dicere catuno filosofo secondo lo naturale amore che in ciascuno genera lo
desiderio di sapere.
7. Ma però che l’essenziali passioni sono
comuni a tutti, non si ragiona di quelle per vocabulo distinguente alcuno
participante quella essenza; onde non diciamo Gianni amico di Martino,
intendendo solamente la naturale amistade significare per la quale tutti a
tutti semo amici, ma l’amistà sopra la naturale generata, che è
propria e distinta in singulari persone. Così non si dice filosofo
alcuno per lo comune amore [al sapere]. 8. Ne la ’ntenzione
d’Aristotile, ne l’ottavo de l’Etica, quelli si dice amico la cui amistà
non è celata a la persona amata e a cui la persona amata è anche
amica, sì che la benivolenza sia da ogni parte: e questo conviene essere
o per utilitade, o per diletto, o per onestade. E così, acciò che
sia filosofo, conviene essere l’amore a la sapienza, che fa l’una de le parti
benivolente; conviene essere lo studio e la sollicitudine, che fa l’altra parte
anche benivolente: sì che familiaritade e manifestamento di benivolenza
nasce tra loro. Per che sanza amore e sanza studio non si può dire
filosofo, ma conviene che l’uno e l’altro sia. 9. E sì come
l’amistà per diletto fatta, o per utilitade, non è vera
amistà ma per accidente, sì come l’Etica ne dimostra, così
la filosofia per diletto o per utilitade non è vera filosofia ma per
accidente. Onde non si dee dicere vero filosofo alcuno che, per alcuno diletto,
con la sapienza in alcuna sua parte sia amico; sì come sono molti che si
dilettano in intendere canzoni ed istudiare in quelle, e che si dilettano
studiare in Rettorica o in Musica, e l’altre scienze fuggono e abbandonano, che
sono tutte membra di sapienza. 10. Nè si dee chiamare vero
filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come
sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere
studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che
acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio. 11. E sì
come intra le spezie de l’amistà quella che per utilitade è, meno
amistà si può dicere, così questi cotali meno participano
del nome del filosofo che alcuna altra gente; per che, sì come
l’amistà per onestade fatta è vera e perfetta e perpetua,
così la filosofia è vera e perfetta che è generata per
onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l’anima amica, che
è per diritto appetito e per diritta ragione. 12. Sì
ch’om[ai] qui si può dire, come la vera amistà de li uomini intra
sè è che ciascuno ami tutto ciascuno, che ’l vero filosofo
ciascuna parte de la sua sapienza ama, e la sapienza ciascuna parte del
filosofo, in quanto tutto a sè lo riduce, e nullo suo pensiero ad altre
cose lascia distendere. Onde essa Sapienza dice ne li Proverbi di Salomone: «Io
amo coloro che amano me». 13. E sì come la vera amistade,
astratta de l’animo, solo in sè considerata, ha per subietto la
conoscenza de l’operazione buona, e per forma l’appetito di quella; così
la filosofia, fuori d’anima, in sè considerata, ha per subietto lo
’ntendere, e per forma uno quasi divino amore a lo ’ntelletto. E sì come
de la vera amistade è cagione efficiente la vertude, così de la
filosofia è cagione efficiente la veritade. 14. E sì come
fine de l’amistade vera è la buona dilezione, che procede dal convivere
secondo l’umanitade propriamente, cioè secondo ragione, sì come
pare sentire Aristotile nel nono de l’Etica; così fine de la Filosofia
è quella eccellentissima dilezione che non pate alcuna intermissione o
vero difetto, cioè vera felicitade che per contemplazione de la veritade
s’acquista. 15. E così si può vedere chi è omai
questa mia donna, per tutte le sue cagioni e per la sua ragione, e
perchè Filosofia si chiama, e chi è vero filosofo, e chi è
per accidente.
16. Ma però che, per alcuno fervore d’animo,
talvolta l’uno e l’altro termine de li atti e de le passioni si chiamano e per
lo vocabulo de l’atto medesimo e de la passione (sì come fa Virgilio nel
secondo de lo Eneidos, che chiama Enea [a Ettore]: «O luce», ch’è atto,
e «speranza de’ Troiani», che è passione, chè non era esso luce
nè speranza, ma era termine onde venia loro la luce del consiglio, ed
era termine in che si posava tutta la speranza de la loro salute; e sì
come dice Stazio nel quinto del Thebaidos, quando Isifile dice ad Archimoro: «O
consolazione de le cose e de la patria perduta, o onore del mio servigio»;
sì come cotidianamente dicemo, mostrando l’amico, ‘vedi l’amistade mia’,
e ’l padre dice al figlio ‘amor mio’), per lunga consuetudine le scienze ne le
quali più ferventemente la Filosofia termina la sua vista, sono chiamate
per lo suo nome; sì come la Scienza Naturale, la Morale, e la
Metafisica, la quale, perchè più necessariamente in quella
termina lo suo viso e con più fervore, [Prima] Filosofia è
chiamata. 17. Onde [vedere] si può come secondamente le scienze
sono Filosofia appellate.
18. Poi che è veduto come la primaia e vera
filosofia è in suo essere - la quale è quella donna di cu’ io
dico - e come lo suo nobile nome per consuetudine è comunicato a le
scienze, procederò oltre con le sue lode.
CAPITOLO XII.
1. Nel primo capitolo di questo trattato
è sì compiutamente ragionata la cagione che mosse me a questa
canzone, che non è più mestiere di ragionare; chè assai
leggermente a questa esposizione ch’è detta ella si può riducere.
E però secondo le divisioni fatte la litterale sentenza transcorrerò,
per questa volgendo lo senso de la lettera là dove sarà mestiere.
2. Dico: Amor che ne la mente mi ragiona. Per
Amore intendo lo studio lo quale io mettea per acquistare l’amore di questa
donna: ove si vuole sapere che studio si può qui doppiamente
considerare. È uno studio lo quale mena l’uomo a l’abito de l’arte e de
la scienza; e un altro studio lo quale ne l’abito acquistato adopera, usando
quello. 3. E questo primo è quello ch’io chiamo qui Amore, lo
quale ne la mia mente informava continue, nuove e altissime considerazioni di
questa donna che di sopra è dimostrata: sì come suole fare lo
studio che si mette in acquistare un’amistade, che di quella amistade grandi
cose prima considera, desiderando quella. 4. Questo è quello
studio e quella affezione che suole procedere ne li uomini la generazione de
l’amistade, quando già da una parte è nato amore, e desiderasi e
procurasi che sia da l’altra; chè, sì come di sopra si dice,
Filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche, sì
che l’una sia tutta amata da l’altra, per lo modo che detto è di sopra. 5.
Nè più è mestiere di ragionare per la presente esposizione
questo primo verso, che [per] proemio fu ne la litterale ragionato, però
che per la prima sua ragione assai di leggiero a questa seconda si può
volgere lo ’ntendimento.
6. Onde al secondo verso, lo quale è
cominciatore del trattato, è da procedere, là ove io dico: Non
vede il sol, che tutto ’l mondo gira. Qui è da sapere che sì
come trattando di sensibile cosa per cosa insensibile, si tratta
convenevolemente, così di cosa intelligibile per cosa inintelligibile
trattare si conviene. E però sì come ne la litterale si parlava
cominciando dal sole corporale e sensibile, così ora è da
ragionare per lo sole spirituale e intelligibile, che è Iddio. 7.
Nullo sensibile in tutto lo mondo è più degno di farsi essemplo
di Dio che ’l sole. Lo quale di sensibile luce sè prima e poi tutte le
corpora celestiali e le elementali allumina: così Dio prima sè
con luce intellettuale allumina, e poi le [creature] celestiali e l’altre
intelligibili. 8. Lo sole tutte le cose col suo calore vivifica, e se
alcuna ne corrompe, non è de la ’ntenzione de la cagione, ma è
accidentale effetto: così Iddio tutte le cose vivifica in bontade, e se
alcuna n’è rea, non è de la divina intenzione, ma conviene quello
per accidente essere [ne] lo processo de lo inteso effetto. 9. Che se
Iddio fece li angeli buoni e li rei, non fece l’uno e l’altro per intenzione,
ma solamente li buoni. Seguitò poi fuori d’intenzione la malizia de’
rei, ma non sì fuori d’intenzione, che Dio non sapesse dinanzi in
sè predire la loro malizia; ma tanta fu l’affezione a producere la
creatura spirituale, che la prescienza d’alquanti che a malo fine doveano
venire non dovea nè potea Iddio da quella produzione rimuovere. 10.
Chè non sarebbe da laudare la Natura se, sappiendo prima che li fiori
d’un’arbore in certa parte perdere si dovessero, non producesse in quella
fiori, e per li vani abbandonasse la produzione de li fruttiferi. 11.
Dico adunque che Iddio, che tutto intende (chè suo ‘girare’ è suo
‘intendere’), non vede tanto gentil cosa quanto elli vede quando mira là
dove è questa Filosofia. Chè avvegna che Dio, esso medesimo
mirando, veggia insiememente tutto; in quanto la distinzione de le cose
è in lui per [lo] modo che lo effetto è ne la cagione, vede quelle
distinte. 12. Vede adunque questa nobilissima di tutte assolutamente, in
quanto perfettissimamente in sè la vede e in sua essenzia. Chè se
a memoria si reduce ciò che detto è di sopra, filosofia è
uno amoroso uso di sapienza, lo quale massimamente è in Dio, però
che in lui è somma sapienza e sommo amore e sommo atto; che non
può essere altrove, se non in quanto da esso procede. 13.
È adunque la divina filosofia de la divina essenza, però che in
esso non può essere cosa a la sua essenzia aggiunta; ed è nobilissima,
però che nobilissima è la essenzia divina; ed è in lui per
modo perfetto e vero, quasi per etterno matrimonio. Ne l’altre intelligenze
è per modo minore, quasi come druda de la quale nullo amadore prende
compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la loro vaghezza. 14. Per
che dire si può che Dio non vede, cioè non intende, cosa alcuna
tanto gentile quanto questa: dico cosa alcuna, in quanto l’altre cose vede e
distingue, come detto è, veggendosi essere cagione di tutto. Oh
nobilissimo ed eccellentissimo cuore che ne la sposa de lo Imperadore del cielo
s’intende, e non solamente sposa, ma suora e figlia dilettissima!
CAPITOLO XIII.
1. Veduto come, nel principio de le laude di costei,
sottilmente si dice essa essere de la divina sustanza, in quanto primieramente
si considera, da procedere e da vedere è come secondamente dico essa
essere ne le causate intelligenze. 2. Dico adunque: Ogni Intelletto
di là su la mira: dove è da sapere che ‘di là su’
dico, facendo relazione a Dio che dinanzi è menzionato; e per questo
escludo le Intelligenze che sono in essilio de la superna patria, le quali
filosofare non possono, però che amore in loro è del tutto
spento, e a filosofare, come già detto è, è necessario
amore. Per che si vede che le infernali Intelligenze da lo aspetto di questa
bellissima sono private. E però che essa è beatitudine de lo
’ntelletto, la sua privazione è amarissima e piena d’ogni tristizia.
3. Poi quando dico: E quella gente che qui
s’innamora, discendo a mostrare come ne l’umana intelligenza essa
secondariamente ancora vegna; de la quale filosofia umana seguito poi per lo
trattato, essa commendando. Dico adunque che la gente che s’innamora ‘qui’,
cioè in questa vita, la sente nel suo pensiero, non sempre, ma quando
Amore fa de la sua pace sentire. Dove sono da vedere tre cose che in questo
testo sono toccate. 4. La prima si è quando si dice: la gente
che qui s’innamora, per che pare farsi distinzione ne l’umana generazione.
E di necessitate far si conviene, chè, secondo che manifestamente
appare, e nel seguente trattato per intenzione si ragionerà, grandissima
parte de li uomini vivono più secondo lo senso che secondo ragione; e
quelli che secondo lo senso vivono di questa innamorare è impossibile,
però che di lei avere non possono alcuna apprensione. 5. La
seconda si è quando dice: Quando Amor fa sentire, dove si par
fare distinzione di tempo. La qual cosa anco [far si conviene, chè,]
avvegna che le intelligenze separate questa donna mirino continuamente, la
umana intelligenza ciò fare non può; però che l’umana
natura - fuori de la speculazione, de la quale s’appaga lo ’ntelletto e la
ragione - abbisogna di molte cose a suo sustentamento: per che la nostra
sapienza è talvolta abituale solamente, e non attuale, che non incontra
ciò ne l’altre intelligenze, che solo di natura intellettiva sono
perfette. 6. Onde quando l’anima nostra non hae atto di speculazione,
non si può dire veramente che sia in filosofia, se non in quanto ha
l’abito di quella e la potenza di poter lei svegliare; e però tal volta
è con quella gente che qui s’innamora, e tal volta no. 7. La
terza è quando dice l’ora che quella gente è con essa,
cioè quando Amore de la sua pace fa sentire; che non vuole altro dire se
non quando l’uomo è in ispeculazione attuale, però che de la pace
di questa donna non fa lo studio [sentire] se non ne l’atto de la speculazione.
E così si vede come questa è donna primamente di Dio e
secondariamente de l’altre intelligenze separate, per continuo sguardare; e
appresso de l’umana intelligenza per riguardare discontinuato. 8.
Veramente, sempre è l’uomo che ha costei per donna da chiamare filosofo,
non ostante che tuttavia non sia ne l’ultimo atto di filosofia, però che
da l’abito maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno
virtuoso, non solamente virtute operando, ma l’abito de la virtù avendo;
e dicemo l’uomo facundo eziandio non parlando, per l’abito de la facundia,
cioè del bene parlare. E di questa filosofia in quanto da l’umana
intelligenza è participata, saranno omai le seguenti commendazioni, a
mostrare come grande parte del suo bene a l’umana natura è conceduto.
9. Dico dunque appresso: ‘Suo essere piace tanto a
chi liele dà’ (dal quale, sì come da fonte primo, si diriva),
‘che [in lei la sua virtute infonde] sempre, oltra la capacitade de la nostra
natura’, la quale fa bella e virtuosa. Onde, avvegna che a l’abito di quella
per alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propriamente
abito dire si possa; però che ’l primo studio, cioè quello per lo
quale l’abito si genera, non puote quella perfettamente acquistare. 10.
E qui si vede s’umil è sua loda; che, perfetta e imperfetta, nome di
perfezione non perde. E per questa sua dismisuranza si dice che l’anima de la
filosofia lo manifesta in quel ch’ella conduce, cioè che Iddio
mette sempre in lei del suo lume. Dove si vuole a memoria reducere che di sopra
è detto che amore è forma di Filosofia, e però qui si
chiama anima di lei. 11. Lo quale amore manifesto è nel viso de
la Sapienza, ne lo quale esso conduce mirabili bellezze, cioè
contentamento in ciascuna condizione di tempo e dispregiamento di quelle cose
che li altri fanno loro signori. Per che avviene che li altri miseri che
ciò mirano, ripensando lo loro difetto, dopo lo desiderio de la
perfezione caggiono in fatica di sospiri; e questo è quello che dice: Che
li occhi di color dov’ella luce Ne mandan messi al cor pien di desiri, Che
prendon aire e diventan sospiri.
CAPITOLO XIV.
1. Sì come ne la litterale esposizione dopo le
generali laude a le speziali si discende, prima da la parte de l’anima, poi da
la parte del corpo, così ora intende lo testo, dopo le generali
commendazioni, a speziali discendere. Sì come detto è di sopra,
Filosofia per subietto materiale qui ha la sapienza, e per forma ha amore, e
per composto de l’uno e de l’altro l’uso di speculazione. 2. Onde in
questo verso che seguentemente comincia: In lei discende la virtù
divina, io intendo commendare l’amore, che è parte de la filosofia.
Ove è da sapere che discender la virtude d’una cosa in altra non
è altro che ridurre quella in sua similitudine; sì come ne li
agenti naturali vedemo manifestamente che, discendendo la loro virtù ne
le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine tanto quanto possibili sono
a venire. 3. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua
giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro
disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che
Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a
lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì
come face in angelo che ’l vede. 4. Ove ancora è da sapere
che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per
modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le
Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l’altre si ripercuote da
queste Intelligenze prima illuminate. 5. Ma però che qui è
fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò
differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l’usanza
de’ filosofi è di chiamare ‘luce’ lo lume, in quanto esso è nel
suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’, in quanto esso è per lo
mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’, in
quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso. 6. Dico
adunque che la divina virtù sanza mezzo questo amore tragge a sua
similitudine. E ciò si può fare manifesto massimamente in
ciò, che sì come lo divino amore è tutto etterno,
così conviene che sia etterno lo suo obietto di necessitate, sì
che etterne cose siano quelle che esso ama; e così face a questo amore
amare; chè la sapienza, ne la quale questo amore fere, etterna è.
7. Ond’è scritto di lei: «Dal principio dinanzi da li secoli
creata sono, e nel secolo che dee venire non verrò meno»; e ne li
Proverbi di Salomone essa Sapienza dice: «Etternalmente ordinata sono»; e nel
principio di Giovanni, ne l’Evangelio, si può la sua etternitade
apertamente notare. E quinci nasce che là dovunque questo amore splende,
tutti li altri amori si fanno oscuri e quasi spenti, imperò che lo suo
obietto etterno improporzionalmente li altri obietti vince e soperchia. 8.
Per che li filosofi eccellentissimi ne li loro atti apertamente lo ne
dimostraro, per li quali sapemo essi tutte l’altre cose, fuori che la sapienza,
avere messe a non calere. Onde Democrito, de la propria persona non curando,
nè barba nè capelli nè unghie si togliea; Platone, de li
beni temporali non curando, la reale dignitade mise a non calere, che figlio di
re fue; Aristotile, d’altro amico non curando, contra lo suo migliore amico,
fuori di quella, combatteo, sì come contra lo nomato Platone. E
perchè di questi parliamo, quando troviamo li altri che per questi
pensieri la loro vita disprezzaro, sì come Zeno, Socrate, Seneca, e
molti altri? 9. E però è manifesto che la divina
virtù, a guisa [che in] angelo, in questo amore ne li uomini discende. E
per dare esperienza di ciò, grida sussequentemente lo testo: E qual
donna gentil questo non crede, Vada con lei e miri. Per donna gentile
s’intende la nobile anima d’ingegno e libera ne la sua propia potestate, che
è la ragione. 10. Onde l’altre anime dire non si possono donne,
ma ancille, però che non per loro sono ma per altrui; e lo Filosofo
dice, nel secondo de la Metafisica, che quella cosa è libera che per sua
cagione è, non per altrui.
11. Dice: Vada con lei e miri li atti sui,
cioè accompagnisi di questo amore, e guardi a quello che dentro da lui
troverà. E in parte ne tocca, dicendo: Quivi dov’ella parla, si
dichina, cioè, dove la filosofia è in atto, si dichina un
celestial pensiero, nel quale si ragiona questa essere più che umana
operazione: e dice ‘del cielo’ a dare a intendere che non solamente essa, ma li
pensieri amici di quella sono astratti da le basse e terrene cose. 12.
Poi sussequentemente dice com’ell’avvalora e accende amore dovunque ella si
mostra, con la suavitade de li atti, chè sono tutti li suoi sembianti
onesti, dolci e sanza soverchio alcuno. E sussequentemente, a maggiore
persuasione de la sua compagnia fare, dice: Gentile è in donna
ciò che in lei si trova, E bello è tanto quanto lei simiglia.
13. Ancora soggiugne: E puossi dir che ’l suo aspetto giova: dove
è da sapere che lo sguardo di questa donna fu a noi così
largamente ordinato, non pur per la faccia che ella ne dimostra vedere, ma per
le cose che ne tiene celate desiderare ed acquistare. 14. Onde,
sì come per lei molto di quello si vede per ragione, e per consequente
essere per ragione, che sanza lei pare maraviglia, così per lei si crede
[ch’]ogni miracolo in più alto intelletto puote avere ragione, e per
consequente può essere. Onde la nostra buona fede ha sua origine; da la
quale viene la speranza, de lo proveduto desiderare; e per quella nasce
l’operazione de la caritade. 15. Per le quali tre virtudi si sale a
filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e
Epicurii, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolmente
concorrono.
CAPITOLO XV.
1. Ne lo precedente capitolo questa gloriosa
donna è commendata secondo l’una de le sue parti componenti, cioè
amore. Ora in questo, ne lo quale io intendo esponere quel verso che comincia: Cose
appariscon ne lo suo aspetto, si conviene trattare commendando l’altra
parte sua, cioè sapienza. 2. Dice adunque lo testo ‘che ne la
faccia di costei appariscono cose che mostrano de’ piaceri di Paradiso’; e
distingue lo loco dove ciò appare, cioè ne li occhi e ne lo riso.
E qui si conviene sapere che li occhi de la Sapienza sono le sue demonstrazioni,
con le quali si vede la veritade certissimamente; e lo suo riso sono le sue
persuasioni, ne le quali si dimostra la luce interiore de la Sapienza sotto
alcuno velamento: e in queste due cose si sente quel piacere altissimo di
beatitudine, lo quale è massimo bene in Paradiso. 3. Questo
piacere in altra cosa di qua giù essere non può, se non nel
guardare in questi occhi e in questo riso. E la ragione è questa: che,
con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione,
sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere
beato; chè quantunque l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in
lui desiderio; lo quale essere non può con la beatitudine, acciò
che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva;
chè nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è
manifesto difetto. 4. E in questo sguardo solamente l’umana perfezione
s’acquista, cioè la perfezione de la ragione, de la quale, sì
come di principalissima parte, tutta la nostra essenza depende; e tutte l’altre
nostre operazioni - sentire, nutrire, e tutto - sono per quella sola, e questa
è per sè, e non per altri; sì che, perfetta sia questa,
perfetta è quella, tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è
uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato. 5. E
però si dice nel libro di Sapienza: «Chi gitta via la sapienza e la
dottrina, è infelice»: che è privazione de l’essere felice. Per
l’abito de la sapienza seguita che s’acquista e[ssere] felice - [che] è
essere contento - secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne
l’aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono. E però si
legge nel libro allegato di Sapienza, di lei parlando: «Essa è candore
de la etterna luce e specchio sanza macula de la maestà di Dio».
6. Poi, quando si dice: Elle soverchian lo nostro
intelletto, escuso me di ciò, che poco parlar posso di quelle, per
la loro soperchianza. Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose
nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo
intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e
la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono
essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose
negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. 7.
Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la
sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose
mostrare; con ciò sia cosa che ’l naturale desiderio sia a l’uomo di
sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa.
11. Poi quando dice: Sua bieltà piove
fiammelle di foco, discende ad un altro piacere di Paradiso, cioè de
la felicitade secondaria a questa prima, la quale de la sua biltade procede.
Dove è da sapere che la moralitade è bellezza de la filosofia;
chè così come la bellezza del corpo resulta da le membra in
quanto sono debitamente ordinate, così la bellezza de la sapienza, che
è corpo di Filosofia come detto è, resulta da l’ordine de le
virtudi morali, che fanno quella piacere sensibilmente. 12. E
però dico che sua biltà, cioè moralitade, piove fiammelle
di foco, cioè appetito diritto, che s’ingenera nel piacere de la morale
dottrina: lo quale appetito ne diparte eziandio da li vizii naturali, non che
da li altri. E quinci nasce quella felicitade, la quale diffinisce Aristotile
nel primo de l’Etica, dicendo che è operazione secondo vertù in
vita perfetta. 13. E quando dice: Però qual donna sente sua
bieltate, procede in loda di costei, gridando a la gente che la seguiti
dicendo loro lo suo beneficio, cioè che per seguitare lei diviene
ciascuno buono. Però dice: qual donna, cioè quale anima,
sente sua biltate biasimare per non parere quale parere si conviene, miri in
questo essemplo.
14. Ove è da sapere che li costumi sono
beltà de l’anima, cioè le vertudi massimamente, le quali tal
volta per vanitadi o per superbia si fanno men belle e men gradite, sì
come ne l’ultimo trattato vedere si potrà. E però dico che, a
fuggire questo, si guardi in costei, cioè colà dov’ella è
essemplo d’umiltà; cioè in quella parte di sè che morale
filosofia si chiama. E soggiungo che, mirando costei - dico la sapienza - in
questa parte, ogni viziato tornerà diritto e buono; e però dico: Questa
è colei ch’umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi
fuori di debito ordine è piegato. 15. Ultimamente, in massima
laude di sapienza, dico lei essere di tutto madre [e di moto] qualunque principio,
dicendo che con lei Iddio cominciò lo mondo e spezialmente lo movimento
del cielo, lo quale tutte le cose genera e dal quale ogni movimento è
principiato e mosso, dicendo: Costei pensò chi mosse l’universo.
Ciò è a dire che nel divino pensiero, ch’è esso
intelletto, essa era quando lo mondo fece; onde seguita che ella lo facesse. 16.
E però disse Salomone in quello de’ Proverbi in persona de la Sapienza:
«Quando Iddio apparecchiava li cieli, io era presente; quando con certa legge e
con certo giro vallava li abissi, quando suso fermava [l’etera] e suspendeva le
fonti de l’acque, quando circuiva lo suo termine al mare e poneva legge a
l’acque che non passassero li suoi confini, quando elli appendeva li fondamenti
de la terra, con lui e io era, disponente tutte le cose, e dilettavami per
ciascuno die».
17. O peggio che morti che l’amistà di costei
fuggite, aprite li occhi vostri e mirate: che, innanzi che voi foste, ella fu
amatrice di voi, acconciando e ordinando lo vostro processo; e, poi che fatti
foste, per voi dirizzare, in vostra similitudine venne a voi. 18. E se
tutti al suo conspetto venire non potete, onorate lei ne’ suoi amici e seguite
li comandamenti loro, sì come [quelli] che nunziano la volontà di
questa etternale imperadrice - non chiudete li orecchi a Salomone che
ciò vi dice, dicendo che la ‘via de’ giusti è quasi luce
splendiente, che procede e cresce infino al die de la beatitudine’ -; andando
loro dietro, mirando le loro operazioni, che essere debbono a voi luce nel
cammino di questa brevissima vita.
19. E qui si può terminare la vera sentenza de
la presente canzone. Veramente l’ultimo verso, che per tornata è posto,
per la litterale esposizione assai leggermente qua si può ridurre, salvo
in tanto quanto dice che io [s]ì chiamai questa donna fera e
disdegnosa. Dove è da sapere che dal principio essa filosofia pareva
a me, quanto da la parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, chè
non mi ridea, in quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa,
chè non mi volgea l’occhio, cioè ch’io non potea vedere le sue
dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato. 20. E per
questo, e per quello che ne la sentenza litterale è dato, è
manifesta l’allegoria de la tornata; sì che tempo è, per
più oltre procedere, di porre fine a questo trattato.
TRATTATO QUARTO.
CANZONE TERZA.
Le dolci rime d’amor ch’i’ solia
cercar ne’ miei pensieri,
convien ch’io lasci; non perch’io non speri
ad esse ritornare,
5 ma perchè li atti disdegnosi e feri
che ne la donna mia
sono appariti m’han chiusa la via
de l’usato parlare.
E poi che tempo mi par d’aspettare,
10 diporrò giù lo mio soave
stile,
ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore;
e dirò del valore,
per lo qual veramente omo è gentile,
con rima aspr’e sottile;
15 riprovando ’l giudicio falso e vile
di quei che voglion che di gentilezza
sia principio ricchezza.
E, cominciando, chiamo quel signore
ch’a la mia donna ne li occhi dimora,
20 per ch’ella di se stessa s’innamora.
Tale imperò che gentilezza volse,
secondo ’l suo parere,
che fosse antica possession d’avere
con reggimenti belli;
25 e altri fu di più lieve savere,
che tal detto rivolse,
e l’ultima particula ne tolse,
chè non l’avea fors’elli!
Di retro da costui van tutti quelli
30 che fan gentile per ischiatta altrui
che lungiamente in gran ricchezza è stata;
ed è tanto durata
la così falsa oppinion tra nui,
che l’uom chiama colui
35 omo gentil che può dicere: ‘Io
fui
nepote, o figlio, di cotal valente’,
benchè sia da niente.
Ma vilissimo sembra, a chi ’l ver guata,
cui è scorto ’l cammino e poscia l’erra,
40 e tocca a tal, ch’è morto e va
per terra!
Chi diffinisce: ‘Omo è legno animato’,
prima dice non vero,
e, dopo ’l falso, parla non intero;
ma più forse non vede.
45 Similemente fu chi tenne impero
in diffinire errato,
chè prima puose ’l falso e, d’altro lato,
con difetto procede;
chè le divizie, sì come si crede,
50 non posson gentilezza dar nè
torre,
però che vili son da lor natura:
poi chi pinge figura,
se non può esser lei, non la può porre,
nè la diritta torre
55 fa piegar rivo che da lungi corre.
Che siano vili appare ed imperfette,
chè, quantunque collette,
non posson quietar, ma dan più cura;
onde l’animo ch’è dritto e verace
60 per lor discorrimento non si sface.
Nè voglion che vil uom gentil divegna,
nè di vil padre scenda
nazion che per gentil già mai s’intenda;
questo è da lor confesso:
65 onde lor ragion par che sè
offenda
in tanto quanto assegna
che tempo a gentilezza si convegna,
diffinendo con esso.
Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo,
70 che siam tutti gentili o ver villani,
o che non fosse ad uom cominciamento;
ma ciò io non consento,
ned ellino altressì, se son cristiani!
Per che a ’ntelletti sani
75 è manifesto i lor diri esser
vani,
ed io così per falsi li riprovo,
e da lor mi rimovo;
e dicer voglio omai, sì com’io sento,
che cosa è gentilezza, e da che vene,
80 e dirò i segni che ’l gentile uom
tene.
Dico ch’ogni vertù principalmente
vien da una radice:
vertute, dico, che fa l’uom felice
in sua operazione.
85 Questo è, secondo che l’Etica
dice,
un abito eligente
lo qual dimora in mezzo solamente,
e tai parole pone.
Dico che nobiltate in sua ragione
90 importa sempre ben del suo subietto,
come viltate importa sempre male;
e vertute cotale
dà sempre altrui di sè buono intelletto;
per che in medesmo detto
95 convegnono ambedue, ch’en d’uno effetto.
Onde convien da l’altra vegna l’una,
o d’un terzo ciascuna;
ma se l’una val ciò che l’altra vale,
e ancor più, da lei verrà più tosto.
100 E ciò ch’io dett’ho qui sia per
supposto.
È gentilezza dovunqu’è vertute,
ma non vertute ov’ella;
sì com’è ’l cielo dovunqu’è la stella,
ma ciò non e converso.
105 E noi in donna e in età novella
vedem questa salute,
in quanto vergognose son tenute,
ch’è da vertù diverso.
Dunque verrà, come dal nero il perso,
110 ciascheduna vertute da costei,
o vero il gener lor, ch’io misi avanti.
Però nessun si vanti
dicendo: ‘Per ischiatta io son con lei’,
ch’elli son quasi dei
115 quei c’han tal grazia fuor di tutti rei;
chè solo Iddio a l’anima la dona
che vede in sua persona
perfettamente star: sì ch’ad alquanti
che seme di felicità sia costa,
120 messo da Dio ne l’anima ben posta.
L’anima cui adorna esta bontate
non la si tiene ascosa,
chè dal principio ch’al corpo si sposa
la mostra infin la morte.
125 Ubidente, soave e vergognosa
è ne la prima etate,
e sua persona adorna di bieltate
con le sue parti accorte;
in giovinezza, temperata e forte,
130 piena d’amore e di cortese lode,
e solo in lealtà far si diletta;
è ne la sua senetta
prudente e giusta, e larghezza se n’ode,
e ’n se medesma gode
135 d’udire e ragionar de l’altrui prode;
poi ne la quarta parte de la vita
a Dio si rimarita,
contemplando la fine che l’aspetta,
e benedice li tempi passati.
140 Vedete omai quanti son l’ingannati!
Contra-li-erranti mia, tu te n’andrai;
e quando tu sarai
in parte dove sia la donna nostra,
non le tenere il tuo mestier coverto
145 tu le puoi dir per certo:
«Io vo parlando de l’amica vostra».
CAPITOLO I.
1. Amore, secondo la concordevole sentenza de li savi
di lui ragionanti, e secondo quello che per esperienza continuamente vedemo,
è che congiunge e unisce l’amante con la persona amata; onde Pittagora
dice: «Ne l’amistà si fa uno di più». 2. E però che
le cose congiunte comunicano naturalmente intra sè le loro qualitadi, in
tanto che talvolta è che l’una torna del tutto ne la natura de l’altra,
incontra che le passioni de la persona amata entrano ne la persona amante,
sì che l’amore de l’una si comunica ne l’altra, e così l’odio e
lo desiderio e ogni altra passione. Per che li amici de l’uno sono da l’altro
amati, e li nemici odiati; per che in greco proverbio è detto: «De li
amici essere deono tutte le cose comuni». 3. Onde io, fatto amico di
questa donna, di sopra ne la verace esposizione nominata, cominciai ad amare e
odiare secondo l’amore e l’odio suo. Cominciai adunque ad amare li seguitatori
de la veritade e odiare li seguitatori de lo errore e de la falsitade, com’ella
face. 4. Ma però che ciascuna cosa per sè è da
amare, e nulla è da odiare se non per sopravenimento di malizia,
ragionevole e onesto è, non le cose, ma le malizie de le cose odiare e
procurare da esse di partire. E a ciò s’alcuna persona intende, la mia
eccellentissima donna intende massimamente: a partire, dico, la malizia de le
cose, la qual cagione è d’odio; però che in lei è tutta
ragione e in lei è fontalemente l’onestade. 5. Io, lei seguitando
ne l’opera sì come ne la passione quanto potea, li errori de la gente
abominava e dispregiava, non per infamia o vituperio de li erranti, ma de li
errori; li quali biasimando credea far dispiacere, e, dispiaciuti, partire da
coloro che per essi eran da me odiati. 6. Intra li quali errori uno io
massimamente riprendea, lo quale non solamente è dannoso e pericoloso a
coloro che in esso stanno, ma eziandio a li altri, che lui riprendano, porta
dolore e danno. 7. Questo è l’errore de l’umana bontade in quanto
in noi è da la natura seminata e che ‘nobilitade’ chiamare si dee; che
per mala consuetudine e per poco intelletto era tanto fortificato, che
[l’]oppinione, quasi di tutti, n’era falsificata; e de la falsa oppinione
nascevano li falsi giudicii, e de’ falsi giudicii nascevano le non giuste
reverenze e vilipensioni; per che li buoni erano in villano dispetto tenuti, e
li malvagi onorati ed essaltati. La qual cosa era pessima confusione del mondo;
sì come veder puote chi mira quello che di ciò può
seguitare, sottilmente. 8. Per che, con ciò fosse cosa che questa
mia donna un poco li suoi dolci sembianti transmutasse a me, massimamente in
quelle parti dove io mirava e cercava se la prima materia de li elementi era da
Dio intesa, - per la qual cosa un poco dal frequentare lo suo aspetto mi
sostenni -, quasi ne la sua assenzia dimorando, entrai a riguardare col
pensiero lo difetto umano intorno al detto errore. 9. E per fuggire
oziositade, che massimamente di questa donna è nemica, e per istinguere
questo errore, che tanti amici le toglie, proposi di gridare a la gente che per
mal cammino andavano, acciò che per diritto calle si dirizzassero; e
cominciai una canzone nel cui principio dissi: Le dolci rime d’amor ch’i’
solia. Ne la quale io intendo riducer la gente in diritta via sopra la
propia conoscenza de la verace nobilitade; sì come per la conoscenza del
suo testo, a la esposizione del quale ora s’intende, vedere si potrà. 10.
E però che in questa canzone s’intese a rimedio così necessario,
non era buono sotto alcuna figura parlare, ma conveniesi per via tostana questa
medicina, acciò che fosse tostana la sanitade; la quale corrotta, a
così laida morte si correa.
11. Non sarà dunque mestiere ne la esposizione
di costei alcuna allegoria aprire, ma solamente la sentenza secondo la lettera
ragionare. Per mia donna intendo sempre quella che ne la precedente ragione
è ragionata, cioè quella luce virtuosissima, Filosofia, li cui
raggi fanno ne li fiori rifronzire e fruttificare la verace de li uomini
nobilitade, de la quale trattare la proposta canzone pienamente intende.
CAPITOLO II.
1. Nel principio de la impresa esposizione, per
meglio dare a intendere la sentenza de la proposta canzone, conviensi quella
partire prima in due parti, che ne la prima parte pr[oemi]almente si parla, ne
la seconda si seguita lo trattato; e comincia la seconda parte nel
cominciamento del secondo verso, dove dice: Tale imperò che
gentilezza volse. 2. La prima parte ancora in tre membra si
può comprendere: nel primo si dice perchè da lo parlare usato mi
parto; nel secondo dico quello che è di mia intenzione a trattare; nel
terzo domando aiutorio a quella cosa che più aiutare mi può,
cioè a la veritade. Lo secondo membro comincia: E poi che tempo mi
par d’aspettare. Lo terzo comincia: E, cominciando, chiamo quel signore.
3. Dico adunque che ‘a me conviene lasciare le dolci
rime d’amore le quali solieno cercare li miei pensieri’; e la cagione assegno,
perchè dico che ciò non è per intendimento di più
non rimare d’amore, ma però che ne la donna mia nuovi sembianti sono
appariti li quali m’hanno tolto materia di dire al presente d’amore. 4.
Ov’è da sapere che non si dice qui li atti di questa donna essere
‘disdegnosi e fieri’ se non secondo l’apparenza; sì come nel decimo
capitolo del precedente trattato si può vedere come altra volta
dico che l’apparenza de la veritade si discordava. E come ciò può
essere, che una medesima cosa sia dolce e paia amara, o vero sia chiara e paia
oscura, qui[vi] sufficientemente vedere si può.
5. Appresso, quando dico: E poi che tempo mi par
d’aspettare, dico, sì come detto è, questo che trattare
intendo. E qui non è da trapassare con piede secco ciò che si
dice in ‘tempo aspettare’, imperò che potentissima cagione è de
la mia mossa; ma da vedere è come ragionevolemente quel tempo in tutte
le nostre operazioni si dee attendere, e massimamente nel parlare. 6. Lo
tempo, secondo che dice Aristotile nel quarto de la Fisica, è «numero di
movimento, secondo prima e poi»; e «numero di movimento celestiale», lo quale
dispone le cose di qua giù diversamente a ricevere alcuna informazione. 7.
Chè altrimenti è disposta la terra nel principio de la primavera
a ricevere in sé la informazione de l’erbe e de li fiori, e altrimenti lo
verno; e altrimenti è disposta una stagione a ricevere lo seme che
un’altra; e così la nostra mente in quanto ella è fondata sopra
la complessione del corpo, che a seguitare la circulazione del cielo altrimenti
è disposto un tempo e altrimenti un altro. 8. Per che le parole,
che sono quasi seme d’operazione, si deono molto discretamente sostenere e
lasciare, [sì] perchè bene siano ricevute e fruttifere vegnano,
sì perchè da la loro parte non sia difetto di sterilitade. E
però lo tempo è da provedere, sì per colui che parla come
per colui che dee udire: chè se ’l parladore è mal disposto,
più volte sono le sue parole dannose; e se l’uditore è mal
disposto, mal sono quelle ricevute che buone siano. E però Salomone dice
ne lo Ecclesiaste: «Tempo è da parlare, e tempo è da tacere». 9.
Per che io sentendo in me turbata disposizione, per la cagione che detta
è nel precedente capitolo, a parlare d’Amore, parve a me che fosse
d’aspettare tempo, lo quale seco porta lo fine d’ogni desiderio, e appresenta,
quasi come donatore, a coloro a cui non incresce d’aspettare. 10. Onde
dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: «Ecco lo agricola aspetta lo
prezioso frutto de la terra, pazientemente sostenendo infino che riceva lo
temporaneo e lo serotino». E tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare
li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l’uso del tempo.
11. Dico: ‘poi che da aspettare mi pare, diporroe’,
cioè lascierò stare, ‘lo mio stilo’, cioè modo, ‘soave’
che d’Amore parlando hoe tenuto; e dico di dicere di quello ‘valore’ per lo
quale uomo è gentile veracemente. E avvegna che ‘valore’ intendere si
possa per più modi, qui si prende ‘valore’ quasi potenza di natura, o
vero bontade da quella data, sì come di sotto si vedrà. 12.
E prometto di trattare di questa materia con rima aspr’e sottile. Per
che sapere si conviene che ‘rima’ si può doppiamente considerare,
cioè largamente e strettamente: stretta[mente], s’intende pur per quella
concordanza che ne l’ultima e penultima sillaba far si suole; quando
largamente, s’intende per tutto quel parlare che ’n numeri e tempo regolato in
rimate consonanze cade, e così qui in questo proemio prendere e
intendere si vuole. 13. E però dice aspra quanto al suono
de lo dittato, che a tanta materia non conviene essere leno; e dice sottile
quanto a la sentenza de le parole, che sottilmente argomentando e disputando
procedono. 14. E soggiungo: Riprovando ’l giudicio falso e vile,
ove si promette ancora di riprovare lo giudicio de la gente piena d’errore; falso,
cioè rimosso da la veritade, e vile, cioè da viltà
d’animo affermato e fortificato. 15. Ed è da guardare a
ciò, che in questo proemio prima si promette di trattare lo vero, e poi
di riprovare lo falso, e nel trattato si fa l’opposito; chè prima si
ripruova lo falso, e poi si tratta lo vero: che pare non convenire a la
promessione. Però è da sapere che tutto che a l’uno e a l’altro
s’intenda, al trattare lo vero s’intende principalmente; a riprovare lo falso
s’intende in tanto in quanto la veritade meglio si fa apparire. 16. E
qui prima si promette lo trattare del vero, sì come principale intento,
lo quale a l’anima de li auditori porta desiderio d’udire: nel trattato prima
si ripruova lo falso, acciò che, fugate le male oppinioni, la veritade
poi più liberamente sia ricevuta. E questo modo tenne lo maestro de
l’umana ragione, Aristotile, che sempre prima combatteo con li avversari de la
veritade e poi, quelli convinti, la veritade mostroe.
17. Ultimamente, quando dico: E, cominciando,
chiamo quel signore, chiamo la veritade che sia meco, la quale è
quello signore che ne li occhi, cioè ne le dimostrazioni de la filosofia
dimora, e bene è signore, chè a lei disposata l’anima è
donna, e altrimenti è serva fuori d’ogni libertade. 18. E dice: Per
ch’ella di se stessa s’innamora, però che essa filosofia, che
è, sì come detto è nel precedente trattato, amoroso uso di
sapienza, se medesima riguarda, quando apparisce la bellezza de li occhi suoi a
lei; che altro non è a dire, se non che l’anima filosofante non
solamente contempla essa veritade, ma ancora contempla lo suo contemplare
medesimo e la bellezza di quello, rivolgendosi sovra se stessa e di se stessa
innamorando per la bellezza del suo primo guardare. E così termina
ciò che proemialmente per tre membri porta lo testo del presente
trattato.
CAPITOLO III.
1. Veduta la sentenza del proemio, è da
seguire lo trattato; e per meglio quello mostrare, partire si conviene per le
sue parti principali, che sono tre: che ne la prima si tratta de la nobilitade
secondo oppinioni d’altri; ne la seconda si tratta di quella secondo la propria
oppinione; ne la terza si volge lo parlare a la canzone, ad alcuno adornamento
di ciò che detto è. 2. La seconda parte comincia: Dico
ch’ogni vertù principalmente. La terza comincia: Contra-li-erranti
mia, tu te n’andrai. E appresso queste tre parti generali, e altre
divisioni fare si convegnono, a bene prender lo ’ntelletto che mostrare
s’intende. 3. Però nullo si maravigli se per molte divisioni si
procede, con ciò sia cosa che grande e alta opera sia per le mani al
presente e da li autori poco cercata, e che lungo convegna essere lo trattato e
sottile, nel quale per me ora s’entra, a distrigare lo testo perfettamente
secondo la sentenza che esso porta.
4. Dunque dico che ora questa prima parte si divide
in due: che ne la prima si pongono le oppinioni altrui, ne la seconda si
ripruovano quelle; e comincia questa seconda parte: Chi diffinisce: ‘Omo
è legno animato’. 5. Ancora la prima parte che rimane
sì ha due membri: lo primo è la narrazione de l’oppinione de lo
imperadore; lo secondo è la narrazione de l’oppinione de la gente
volgare, che è d’ogni ragione ignuda. E comincia questo secondo membro: E
altri fu di più lieve savere. 6. Dico dunque: Tale
imperò, cioè tale usò l’officio imperiale:
dov’è da sapere che Federigo di Soave, ultimo imperadore de li Romani -
ultimo dico per rispetto al tempo presente, non ostante che Ridolfo e Andolfo e
Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e de li suoi discendenti -,
domandato che fosse gentilezza, rispuose ch’era antica ricchezza e belli
costumi. 7. E dico che altri fu di più lieve savere: che,
pensando e rivolgendo questa diffinizione in ogni parte, levò via
l’ultima particula, cioè li belli costumi, e tennesi a la prima,
cioè a l’antica ricchezza; e, secondo che lo testo pare dubitare, forse
per non avere li belli costumi non volendo perdere lo nome di gentilezza,
diffinio quella secondo che per lui facea, cioè possessione d’antica
ricchezza. 8. E dico che questa oppinione è quasi di tutti,
dicendo che dietro da costui vanno tutti coloro che fanno altrui gentile per
essere di progenie lungamente stata ricca, con ciò sia cosa che quasi
tutti così latrano. 9. Queste due oppinioni - avvegna che l’una,
come detto è, del tutto sia da non curare - due gravissime ragioni pare
che abbiano in aiuto: la prima è che dice lo Filosofo che quello che
pare a li più, impossibile è del tutto essere falso; la seconda
ragione è l’autoritade de la diffinizione de lo imperadore. 10. E
perchè meglio si veggia poi la vertude de la veritade, che ogni
autoritade convince, ragionare intendo quanto l’una e l’altra di queste ragioni
aiutatrice e possente è. E, prima, [poi che] de la imperiale autoritade
sapere non si può se non si ritruovano le sue radici, di quelle per
intenzione in capitolo speziale è da trattare.
CAPITOLO IV.
1. Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade,
secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che a uno
fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo per
sè è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con
ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo
satisfare non può. E però dice lo Filosofo che l’uomo
naturalmente è compagnevole animale. 2. E sì come un uomo
a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una
casa a sua sufficienza richiede una vicinanza: altrimenti molti difetti
sosterrebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una
vicinanza [a] sè non può in tutto satisfare, conviene a
satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue
arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circavicine
cittadi; e però fu fatto lo regno. 3. Onde, con ciò sia
cosa che l’animo umano in terminata possessione di terra non si queti, ma
sempre desideri gloria d’acquistare, sì come per esperienza vedemo,
discordie e guerre conviene surgere intra regno e regno, le quali sono
tribulazioni de le cittadi, e per le cittadi de le vicinanze, e per le
vicinanze de le case, [e per le case] de l’uomo; e così s’impedisce la
felicitade. 4. Il perchè, a queste guerre e le loro cagioni torre
via, conviene di necessitade tutta la terra, e quanto a l’umana generazione a
possedere è dato, essere Monarchia, cioè uno solo principato, e
uno prencipe avere; lo quale, tutto possedendo e più desiderare non
possendo, li regi tegna contenti ne li termini de li regni, sì che pace
intra loro sia, ne la quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze
s’amino, in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo qual preso,
l’uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato. 5.
E a queste ragioni si possono reducere parole del Filosofo ch’egli ne la
Politica dice, che quando più cose ad uno fine sono ordinate, una di
quelle conviene essere regolante, o vero reggente, e tutte l’altre rette e
regolate. Sì come vedemo in una nave, che diversi offici e diversi fini
di quella a uno solo fine sono ordinati, cioè a prendere loro desiderato
porto per salutevole via: dove, sì come ciascuno officiale ordina la
propria operazione nel proprio fine, così è uno che tutti questi
fini considera, e ordina quelli ne l’ultimo di tutti; e questo è lo
nocchiero, a la cui voce tutti obedire deono. 6. Questo vedemo ne le
religioni, ne li esserciti, in tutte quelle cose che sono, come detto è,
a fine ordinate. Per che manifestamente vedere si può che a perfezione
de la universale religione de la umana spezie conviene essere uno, quasi
nocchiero, che, considerando le diverse condizioni del mondo, a li diversi e
necessari offici ordinare abbia del tutto universale e inrepugnabile officio di
comandare. 7. E questo officio per eccellenza Imperio è chiamato,
sanza nulla addizione, però che esso è di tutti li altri
comandamenti comandamento. E così chi a questo officio è posto
è chiamato Imperadore, però che di tutti li comandamenti elli
è comandatore, e quello che esso dice a tutti è legge, e per
tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prendere
vigore e autoritade. E così si manifesta la imperiale maiestade e
autoritade essere altissima ne l’umana compagnia.
8. Veramente potrebbe alcuno gavillare dicendo che,
tutto che al mondo officio d’imperio si richeggia, non fa ciò
l’autoritade de lo romano principe ragionevolemente somma, la quale s’intende
dimostrare; però che la romana potenzia non per ragione nè per
decreto di convento universale fu acquistata, ma per forza, che a la ragione
pare esser contraria.
CAPITOLO V.
1. Non è maraviglia se la divina provedenza,
che del tutto l’angelico e lo umano accorgimento soperchia, occultamente a noi
molte volte procede, con ciò sia cosa che spesse volte l’umane
operazioni a li uomini medesimi ascondono la loro intenzione; ma da
maravigliare è forte, quando la essecuzione de lo etterno consiglio
tanto manifesto procede c[on] la nostra ragione. 2. E però io nel
cominciamento di questo capitolo posso parlare con la bocca di Salomone, che in
persona de la Sapienza dice ne li suoi Proverbi: «Udite: però che di
grandi cose io debbo parlare».
3. Volendo la ’nmensurabile bontà divina
l’umana creatura a sè riconformare, che per lo peccato de la
prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in
quello altissimo e congiuntissimo consistorio de la Trinitade, che ’l Figliuolo
di Dio in terra discendesse a fare questa concordia. 4. E però
che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia
essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando
ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è
di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade
che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma. 5. E
però [che] anche l’albergo dove il celestiale rege intrare dovea
convenia essere mondissimo e purissimo, ordinata fu una progenie santissima, de
la quale dopo molti meriti nascesse una femmina ottima di tutte l’altre, la
quale fosse camera del Figliuolo di Dio: e questa progenie fu quella di David,
del qual nasce[tt]e la baldezza e l’onore de l’umana generazione, cioè
Maria. 6. E però è scritto in Isaia: «Nascerà virga
de la radice di Iesse, e fiore de la sua radice salirà»; e Iesse fu
padre del sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David
nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu
origine de la cittade romana, sì come testimoniano le scritture. Per che
assai è manifesto la divina elezione del romano imperio per lo
nascimento de la santa cittade che fu contemporaneo a la radice de la progenie
di Maria. 7. E incidentemente è da toccare che, poi che esso
cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora
quando di là su discese Colui che l’ha fatto e che ’l governa; sì
come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare. 8.
Nè ’l mondo mai non fu nè sarà sì perfettamente
disposto come allora che a la voce d’un solo, principe del roman popolo e comandatore,
fu ordinato, sì come testimonia Luca evangelista. E però [che]
pace universale era per tutto, che mai, più, non fu nè fia, la
nave de l’umana compagnia dirittamente per dolce cammino a debito porto correa.
9. Oh ineffabile e incomprensibile sapienza di Dio che a una ora, per la
tua venuta, in Siria suso e qua in Italia tanto dinanzi ti preparasti! E oh
stoltissime e vilissime bestiuole che a guisa d’uomo voi pascete, che
presummete contra nostra fede parlare e volete sapere, filando e zappando, ciò
che Iddio, che con tanta prudenza hae ordinato! Maladetti siate voi, e la
vostra presunzione, e chi a voi crede!
10. E come detto è di sopra nel fine del
precedente [capitolo del presente] trattato, non solamente speziale nascimento,
ma speziale processo ebbe da Dio; chè brievemente, da Romolo
incominciando, che fu di quella primo padre, infino a la sua perfettissima
etade, cioè al tempo del predetto suo imperadore, non pur per umane ma
per divine operazioni andò lo suo processo. 11. Che se
consideriamo li sette regi che prima la governaro, cioè Romolo, Numa,
Tullo, Anco e li re Tarquini, che furono quasi baiuli e tutori de la sua
puerizia, noi trovare potremo per le scritture de le romane istorie,
massimamente per Tito Livio, coloro essere stati di diverse nature, secondo
l’opportunitade del pr[o]cedente tempo. 12. Se noi consideriamo poi
[quella] per la maggiore adolescenza sua, poi che da la reale tutoria fu
emancipata, da Bruto primo consolo infino a Cesare primo prencipe sommo, noi
troveremo lei essaltata non con umani cittadini, ma con divini, ne li quali non
amore umano, ma divino era inspirato in amare lei. E ciò non potea
nè dovea essere se non per ispeziale fine, da Dio inteso in tanta
celestiale infusione. 13. E chi dirà che fosse sanza divina inspirazione,
Fabrizio infinita quasi moltitudine d’oro rifiutare, per non volere abbandonare
sua patria? Curio, da li Sanniti tentato di corrompere, grandissima
quantità d’oro per carità de la patria rifiutare, dicendo che li
romani cittadini non l’oro, ma li possessori de l’oro possedere voleano? e
Muzio la sua mano propria incendere, perchè fallato avea lo colpo che
per liberare Roma pensato avea? 14. Chi dirà di Torquato,
giudicatore del suo figliuolo a morte per amore del publico bene, sanza divino
aiutorio ciò avere sofferto? e Bruto predetto similemente? Chi
dirà de li Deci e de li Drusi, che puosero la loro vita per la patria?
Chi dirà del cattivato Regolo, da Cartagine mandato a Roma per commutare
li presi cartaginesi a sè e a li altri presi romani, avere contra
sè per amore di Roma, dopo la legazione ritratta, consigliato, solo da
[umana, e non da] divina natura mosso? 15. Chi dirà di Quinzio
Cincinnato, fatto dittatore e tolto da lo aratro, e dopo lo tempo de l’officio,
spontaneamente quello rifiutando a lo arare essere ritornato? Chi dirà
di Cammillo, bandeggiato e cacciato in essilio, essere venuto a liberare Roma
contra li suoi nimici, e dopo la sua liberazione, spontaneamente essere
ritornato in essilio per non offendere la senatoria autoritade, sanza divina
istigazione? 16. O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà
di te parlare? Certo maggiormente di te parlare non si può che tacere, e
seguire Ieronimo quando nel proemio de la Bibbia, là dove di Paolo
tocca, dice che meglio è tacere che poco dire. 17. Certo e
manifesto esser dee, rimembrando la vita di costoro e de li altri divini
cittadini, non sanza alcuna luce de la divina bontade, aggiunta sopra la loro
buona natura, essere tante mirabili operazioni state; e manifesto esser dee,
questi eccellentissimi essere stati strumenti con li quali procedette la divina
provedenza ne lo romano imperio, dove più volte parve esse braccia di
Dio essere presenti. 18. E non puose Iddio le mani proprie a la
battaglia dove li Albani con li Romani, dal principio, per lo capo del regno
combattero, quando uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma? Non
puose Iddio le mani proprie, quando li Franceschi, tutta Roma presa, prendeano
di furto Campidoglio di notte, e solamente la voce d’una oca fè ciò
sentire? 19. E non puose Iddio le mani, quando, per la guerra d’Annibale
avendo perduti tanti cittadini che tre moggia d’anella in Africa erano portati,
li Romani volsero abbandonare la terra, se quel benedetto Scipione giovane non
avesse impresa l’andata in Africa per la sua franchezza? E non puose Iddio le
mani quando uno nuovo cittadino di picciola condizione, cioè Tullio,
contra tanto cittadino quanto era Catellina la romana libertà difese?
Certo sì. 20. Per che più chiedere non si dee, a vedere
che spezial nascimento e spezial processo, da Dio pensato e ordinato, fosse
quello de la santa cittade. Certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne
le mura sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov’ella siede sia
degno oltre quello che per li uomini è predicato e approvato.
CAPITOLO VI.
1. Di sopra, nel terzo capitolo di questo trattato,
promesso fue di ragionare de l’altezza de la imperiale autoritade e de la
filosofica; e però, ragionato de la imperiale, procedere oltre si
conviene la mia digressione, a vedere di quella del Filosofo, secondo la
promessione fatta. 2. E qui è prima da vedere che questo vocabulo
vuole dire, però che qui è maggiore mestiere di saperlo che sopra
lo ragionamento de la imperiale, la quale per la sua maiestade non pare esser
dubitata. 3. È dunque da sapere che ‘autoritade’ non è
altro che ‘atto d’autore’. Questo vocabulo, cioè ‘autore’, sanza quella
terza lettera C, può discendere da due principii: l’uno si è
d’uno verbo molto lasciato da l’uso in gramatica, che significa tanto quanto
‘legare parole’, cioè ‘auieo’. E chi ben guarda lui, ne la sua prima
voce apertamente vedrà che elli stesso lo dimostra, che solo di legame
di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali, che sono anima e
legame d’ogni parole, e composto d’esse per modo volubile, a figurare imagine
di legame. 4. Chè, cominciando da l’A, ne l’U quindi si rivolve,
e viene diritto per I ne l’E, quindi si rivolve e torna ne l’O; sì che
veramente imagina questa figura: A, E, I, O, U, la quale è figura di
legame. E in quanto ‘autore’ viene e discende da questo verbo, si prende solo
per li poeti, che con l’arte musaica le loro parole hanno legate: e di questa
significazione al presente non s’intende. 5. L’altro principio, onde
‘autore’ discende, sì come testimonia Uguiccione nel principio de le sue
Derivazioni, è uno vocabulo greco che dice ‘autentin’, che tanto vale in
latino quanto ‘degno di fede e d’obedienza’. E così, ‘autore’, quinci
derivato, si prende per ogni persona degna d’essere creduta e obedita. E da
questo viene questo vocabulo del quale al presente si tratta, cioè
‘autoritade’; per che si può vedere che ‘autoritade’ vale tanto quanto
‘atto degno di fede e d’obedienza’. [Onde, quand’io provi che Aristotile
è dignissimo di fede e d’obedienza,] manifesto è che le sue
parole sono somma e altissima autoritade.
6. Che Aristotile sia dignissimo di fede e
d’obedienza così provare si può. Intra operarii e artefici di
diverse arti e operazioni, ordinate a una operazione od arte finale, l’artefice
o vero operatore di quella massimamente dee essere da tutti obedito e creduto,
sì come colui che solo considera l’ultimo fine di tutti li altri fini.
Onde al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e
tutti quelli mestieri che a l’arte di cavalleria sono ordinati. 7. E
però che tutte l’umane operazioni domandano uno fine, cioè quello
de l’umana vita al quale l’uomo è ordinato in quanto elli è uomo,
lo maestro e l’artefice che quello ne dimostra e considera, massimamente
obedire e credere si dee. Questi è Aristotile: dunque esso è
dignissimo di fede e d’obedienza. 8. E a vedere come Aristotile è
maestro e duca de la ragione umana, in quanto intende a la sua finale
operazione, si conviene sapere che questo nostro fine, che ciascuno disia
naturalmente, antichissimamente fu per li savi cercato. E però che li
disideratori di quello che sono in tanto numero e li appetiti sono quasi tutti
singularmente diversi, avvegna che universalmente siano pur [uno], ma[lag]evole
fu molto a scernere quello dove dirittamente ogni umano appetito si riposasse. 9.
Furono dunque filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone,
che videro e credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida
onestade; cioè rigidamente, sanza respetto alcuno, la verità e la
giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di
nulla passione avere sentore. 10. E diffiniro così questo onesto:
‘quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è
da laudare’. E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici, e fu di loro
quello glorioso Catone di cui non fui di sopra oso di parlare. 11. Altri
filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu
primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; chè, veggendo che
ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito
fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine
essere voluptade (non dico ‘voluntade’, ma scrivola per P), cioè diletto
sanza dolore. 12. E però [che] tra ’l diletto e lo dolore non
ponea mezzo alcuno, dicea che ‘voluptade’ non era altro che ‘non dolore’,
sì come pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che
da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano, disceso del
sangue del glorioso Torquato del quale feci menzione di sopra. 13. Altri
furono, e cominciamento ebbero da Socrate e poi dal suo successore Platone,
che, agguardando più sottilmente, e veggendo che ne le nostre operazioni
si potea peccare e peccavasi nel troppo e nel poco, dissero che la nostra
operazione sanza soperchio e sanza difetto, misurata col mezzo per nostra
elezione preso, ch’è virtù, era quel fine di che al presente si
ragiona; e chiamaronlo ‘operazione con virtù’. 14. E questi
furono Academici chiamati, sì come fue Platone e Speusippo suo nepote:
chiamati per luogo così dove Plato studiava, cioè Academia;
nè da Socrate presero vocabulo, però che ne la sua filosofia
nulla fu affermato. 15. Veramente Aristotile, che Stagirite ebbe
sopranome, e Zenocrate Calcedonio, suo compagnone, [e per lo studio loro], e
per lo ’ngegno [singulare] e quasi divino che la natura in Aristotile messo
avea, questo fine conoscendo per lo modo socratico quasi e academico, limaro e
a perfezione la filosofia morale redussero, e massimamente Aristotile. E
però che Aristotile cominciò a disputare andando in qua e in lae,
chiamati furono - lui dico, e li suoi compagni - Peripatetici, che tanto vale
quanto ‘deambulatori’. 16. E però che la perfezione di questa
moralitade per Aristotile terminata fue, lo nome de li Academici si spense, e
tutti quelli che a questa setta si presero Peripatetici sono chiamati; e tiene
questa gente oggi lo reggimento del mondo in dottrina per tutte parti, e
puotesi appellare quasi cattolica oppinione. Per che vedere si può,
Aristotile essere additatore e conduttore de la gente a questo segno. E questo
mostrare si volea.
17. Per che, tutto
ricogliendo, è manifesto lo principale intento, cioè che
l’autoritade del filosofo sommo di cui s’intende sia piena di tutto vigore. E
non repugna a la imperiale autoritade; ma quella sanza questa è
pericolosa, e questa sanza quella è quasi debile, non per sè, ma
per la disordinanza de la gente; sì che l’una con l’altra congiunta
utilissime e pienissime sono d’ogni vigore. 18. E però si scrive
in quello di Sapienza: «Amate lo lume de la sapienza, voi tutti che siete
dinanzi a’ populi». Ciò è a dire: Congiungasi la filosofica
autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere. 19. Oh
miseri che al presente reggete! e oh miserissimi che retti siete! chè
nulla filosofica autoritade si congiunge con li vostri reggimenti nè per
propio studio nè per consiglio, sì che a tutti si può dire
quella parola de lo Ecclesiaste: «Guai a te, terra, lo cui re è
fanciullo, e li cui principi la domane mangiano!»; e a nulla terra si
può dire quella che seguita: «Beata la terra lo cui re è nobile e
li cui principi [cibo] usano i[n] suo tempo, a bisogno e non a lussuria!». 20.
Ponetevi mente, nemici di Dio, a’ fianchi, voi che le verghe de’ reggimenti
d’Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri
principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e
annumerate quante volte lo die questo fine de l’umana vita per li vostri
consiglieri v’è additato! Meglio sarebbe a voi come rondine volare
basso, che come nibbio altissime rote fare sopra le cose vilissime.
CAPITOLO VII.
1. Poi che veduto è quanto è da
reverire l’autoritade imperiale e la filosofica, che paiono aiutare le proposte
oppinioni, è da ritornare al diritto calle de lo inteso processo. 2.
Dico dunque che questa ultima oppinione del vulgo è tanto durata, che
sanza altro respetto, sanza inquisizione d’alcuna ragione, gentile è
chiamato ciascuno che figlio sia o nepote d’alcuno valente uomo, tutto che esso
sia da niente. E questo è quello che dice: Ed è tanto durata
La così falsa oppinion tra nui, Che l’uom chiama colui Omo gentil che
può dicere: ‘Io fui Nepote, o figlio, di cotal valente’, Benchè
sia da niente. 3. Per che è da notare che pericolosissima
negligenza è lasciare la mala oppinione prendere piede; che così
come l’erba multiplica nel campo non cultato, e sormonta, e cuopre la spiga del
frumento sì che, disparte agguardando, lo frumento non pare, e perdesi
lo frutto finalmente; così la mala oppinione ne la mente, non gastigata
e corretta, sì cresce e multiplica sì che le spighe de la
ragione, cioè la vera oppinione si nasconde e quasi sepulta si perde. 4.
Oh com’è grande la mia impresa in questa canzone, a volere omai
così trifoglioso campo sarchiare come quello de la comune sentenza,
sì lungamente da questa cultura abbandonato! Certo non del tutto questo
mondare intendo, ma solo in quelle parti dove le spighe de la ragione non sono
del tutto sorprese: cioè coloro dirizzare intendo ne’ quali alcuno
lumetto di ragione per buona loro natura vive ancora, chè de li altri
tanto è da curare quanto di bruti animali; però che non minore
maraviglia mi sembra reducere a ragione [colui in cui è la luce di
ragione] del tutto spenta, che reducere in vita colui che quattro dì
è stato nel sepulcro.
5. Poi che la mala condizione di questa populare
oppinione è narrata, subitamente, quasi come cosa orribile, quella
percuot[o] fuori di tutto l’ordine de la riprovagione, dicendo: Ma vilissimo
sembra, a chi ’l ver guata, a dare a intendere la sua intollerabile
malizia, dicendo costoro mentire massimamente; però che non solamente
colui è vile, cioè non gentile, che disceso di buoni è
malvagio, ma eziandio è vilissimo: e pongo essemplo del cammino mostrato
[e poscia errato]. 6. Dove, a ciò mostrare, far mi conviene una
questione, e rispondere a quella, in questo modo. Una pianura è con
certi sentieri: campo con siepi, con fossati, con pietre, con legname, con
tutti quasi impedimenti, fuori de li suoi stretti sentieri. Nevato è
sì, che tutto cuopre la neve e rende una figura in ogni parte, sì
che d’alcuno sentiero vestigio non si vede. 7. Viene alcuno da l’una
parte de la campagna e vuole andare a una magione che è da l’altra
parte; e per sua industria, cioè per accorgimento e per bontade
d’ingegno, solo da sè guidato, per lo diritto cammino si va là
dove intende, lasciando le vestigie de li suoi passi diretro da sè.
Viene un altro appresso costui, e vuole a questa magione andare, e non li
è mestiere se non seguire li vestigi lasciati; e, per suo difetto, lo
cammino che altri sanza scorta ha saputo tenere, questo scorto erra, e tortisce
per li pruni e per le ruine, e a la parte dove dee non va. 8. Quale di
costoro si dee dicere valente? Rispondo: quegli che andò dinanzi. Questo
altro come si chiamerà? Rispondo: vilissimo. Perchè non si chiama
non valente, cioè vile? Rispondo: perchè non valente, cioè
vile, sarebbe da chiamare colui che, non avendo alcuna scorta, non fosse ben
camminato; ma però che questi l’ebbe, lo suo errore e lo suo difetto non
può salire, e però è da dire non vile, ma vilissimo. 9.
E così quelli che dal padre o d’alcuno suo maggiore [buono è
disceso ed è malvagio], non solamente è vile, ma vilissimo, e
degno d’ogni dispetto e vituperio più che altro villano. E perchè
l’uomo da questa infima viltade si guardi, comanda Salomone a colui che ’l
valente antecessore hae avuto, nel vigesimo secondo capitolo de li Proverbi:
«Non trapasserai li termini antichi che puosero li padri tuoi»; e dinanzi dice,
nel quarto capitolo del detto libro: «La via de’ giusti», cioè de’
valenti, «quasi luce splendiente procede, e quella de li malvagi è
oscura. Elli non sanno dove rovinano». 10. Ultimamente, quando si dice: E
tocca a tal, ch’è morto e va per terra, a maggiore detrimento dico
questo cotale vilissimo essere morto, parendo vivo. Onde è da sapere che
veramente morto lo malvagio uomo dire si puote, e massimamente quelli che da la
via del buono suo antecessore si parte. 11. E ciò si può
così mostrare. Sì come dice Aristotile nel secondo de l’Anima,
«vivere è l’essere de li viventi»; e per ciò che vivere è
per molti modi (sì come ne le piante vegetare, ne li animali vegetare e
sentire e muovere, ne li uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, o vero
intelligere), e le cose si deono denominare da la più nobile parte,
manifesto è che vivere ne li animali è sentire - animali, dico,
bruti -, vivere ne l’uomo è ragione usare. 12. Dunque, se ’l
vivere è l’essere [dei viventi e vivere ne l’uomo è ragione
usare, ragione usare è l’essere] de l’uomo, e così da quello uso
partire è partire da essere, e così è essere morto. E non
si parte da l’uso del ragionare chi non ragiona lo fine de la sua vita? e non si
parte da l’uso de la ragione chi non ragiona il cammino che fare dee? Certo si
parte; e ciò si manifesta massimamente c[on] colui che ha le vestigie
innanzi, e non le mira. 13. E però dice Salomone nel quinto
capitolo de li Proverbi: «Quelli muore che non ebbe disciplina, e ne la
moltitudine de la sua stoltezza sarà ingannato». Ciò è a
dire: Colui è morto che non si fè discepolo, che non segue lo
maestro; e questo vilissimo è quello. 14. Potrebbe alcuno dicere:
Come è morto e va? Rispondo che è morto [uomo] e rimaso bestia.
Chè, sì come dice lo Filosofo nel secondo de l’Anima, le potenze
de l’anima stanno sopra sè come la figura de lo quadrangulo sta sopra lo
triangulo, e lo pentangulo, cioè la figura che ha cinque canti, sta sopra
lo quadrangulo: e così la sensitiva sta sopra la vegetativa, e la
intellettiva sta sopra la sensitiva. 15. Dunque, come levando l’ultimo
canto del pentangulo rimane quadrangulo e non più pentangulo,
così levando l’ultima potenza de l’anima, cioè la ragione, non
rimane più uomo, ma cosa con anima sensitiva solamente, cioè
animale bruto. E questa è la sentenza del secondo verso de la canzone
impresa, nel quale si pongono l’altrui oppinioni.
CAPITOLO VIII.
1. Lo più bello ramo che de la radice
razionale consurga si è la discrezione. Chè, sì come dice
Tommaso sopra lo prologo de l’Etica, “conoscere l’ordine d’una cosa ad altra
è proprio atto di ragione», e è questa discrezione. Uno de’
più belli e dolci frutti di questo ramo è la reverenza che dee lo
minore a lo maggiore. 2. Onde Tullio, nel primo de li Offici, parlando
de la bellezza che in su l’onestade risplende, dice la reverenza essere di
quella; e così come questa è bellezza d’onestade, così lo
suo contrario è turpezza e menomanza de l’onesto, lo quale contrario inreverenza,
o vero tracotanza dicere in nostro volgare si può. 3. E
però esso Tullio nel medesimo luogo dice: «Mettere a negghienza di
sapere quello che li altri sentono di lui, non solamente è di persona
arrogante, ma di dissoluta»; che non vuole altro dire, se non che arroganza e
dissoluzione è se medesimo non conoscere, ch’è principio ed
è la misura d’ogni reverenza. 4. Per che io volendo, con tutta
reverenza e a lo Principe e al Filosofo portando, la malizia d’alquanti de la
mente levare, per fondarvi poi suso la luce de la veritade, prima che a
riprovare le proposte oppinioni proceda, mostrerò come, quelle
riprovando, nè contra l’imperiale maiestade nè contra lo Filosofo
si ragiona inreverentemente. 5. Che se in alcuna parte di tutto questo
libro inreverente mi mostrasse, non sarebbe tanto laido quanto in questo
trattato; nel quale, di nobilitade trattando, me nobile e non villano deggio
mostrare. E prima mostrerò me non presummere [contra l’autorità
del Filosofo; poi mostrerò me non presummere] contra la maiestade
imperiale.
6. Dico adunque che quando lo Filosofo dice: «Quello
che pare a li più, impossibile è del tutto essere falso», non
intende dicere del parere di fuori, cioè sensuale, ma di quello dentro,
cioè razionale; con ciò sia cosa che ’l sensuale parere secondo
la più gente, sia molte volte falsissimo, massimamente ne li sensibili
comuni, là dove lo senso spesse volte è ingannato. 7. Onde
sapemo che a la più gente lo sole pare di larghezza, nel diametro, d’un
piede, e sì è ciò falsissimo. Chè, secondo lo
cercamento e la invenzione che ha fatto l’umana ragione con l’altre sue arti,
lo diametro del corpo del sole è cinque volte quanto quello de la terra,
e anche una mezza volta; [onde], con ciò sia cosa che la terra per lo
diametro suo sia semilia cinquecento miglia, lo diametro del sole, che a la
sensuale apparenza appare di quantità d’un piede, è trentacinque
milia settecento cinquanta miglia. 8. Per che manifesto è
Aristotile non avere inteso de la sensuale apparenza; e però, se io
intendo solo a la sensuale apparenza riprovare, non faccio contra la intenzione
del Filosofo, e però nè la riverenza che a lui si dee non
offendo. E che io sensuale apparenza intenda riprovare è manifesto. 9.
Chè costoro, che così giudicano, non giudicano se non per quello
che sentono di queste cose che la fortuna può dare e torre; che
perchè veggiono fare le parentele e li alti matrimonii, li edifici
mirabili, le possessioni larghe, le signorie grandi, credono quelle essere
cagioni di nobilitade, anzi essa nobilitade credono quelle essere. Chè
s’elli giudicassero con l’apparenza razionale, dicerebbero lo contrario,
cioè la nobilitade essere cagione di questo, sì come di sotto in
questo trattato si vedrà.
10. E come io, secondo che vedere si può,
contra la reverenza del Filosofo non parlo ciò riprovando, così
non parlo contra la reverenza de lo Imperio: e la ragione mostrare intendo. Ma
però che, dinanzi da l’avversario s[e] ragiona, lo rettorico dee molta
cautela usare nel suo sermone, acciò che l’avversario quindi non prenda
materia di turbare la veritade, io, che al volto di tanti avversarii parlo in
questo trattato, non posso [brievemente] parlare; onde, se le mie digressioni
sono lunghe, nullo si maravigli. 11. Dico adunque che, a mostrare me non
essere inreverente a la maiestade de lo Imperio, prima è da vedere che
è ‘reverenza’. Dico che reverenza non è altro che confessione di
debita subiezione per manifesto segno. E veduto questo, da distinguere è
intra loro ‘inreverente’ [e ‘non reverente’. Lo inreverente] dice privazione,
lo non reverente dice negazione. E però la inreverenza è
disconfessare la debita subiezione, per manifesto segno, dico, e la non
reverenza è negare la debita subiezione. 12. Puote l’uomo
disdicere la cosa doppiamente: per uno modo puote l’uomo disdicere offendendo a
la veritade, quando de la debita confessione si priva, e questo propriamente
è ‘disconfessare’; per un altro modo puote l’uomo disdicere non
offendendo a la veritade, quando quello che non è non si confessa, e
questo è proprio ‘negare’: sì come disdicere l’uomo sè
essere del tutto mortale, è negare, propriamente parlando. 13.
Per che se io niego la reverenza de lo Imperio, non sono inreverente, ma sono
non reverente: che non è contro a la reverenza, con ciò sia cosa
che quella non offenda; sì come lo non vivere non offende la vita, ma
offende quella la morte, che è di quella privazione. Onde altro è
morte e altro è non vivere; che non vivere è ne le pietre. 14.
E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel
subietto de l’abito, e le pietre non sono subietto di vita, per che non
‘morte’, ma ‘non vivere’ dicere si deono; similemente io, che in questo caso a
lo Imperio reverenza avere non debbo, se la disdico, inreverente non sono, ma
sono non reverente, che non è tracotanza nè cosa da biasimare. 15.
Ma tracotanza sarebbe l’essere reverente (se reverenza si potesse dicere),
però che in maggiore e in vera [in]reverenza si cadrebbe, cioè de
la natura e de la veritade, sì come di sotto si vedrà. E da
questo fallo si guardò quello maestro de li filosofi, Aristotile, nel
principio de l’Etica quando dice: «Se due sono li amici, e l’uno è la
verità, a la verità è da consentire». 16.
Veramente, perchè detto ho ch’i’ sono non reverente, che è la
reverenza negare, cioè negare la debita subiezione per manifesto segno,
da vedere è come questo è negare e non disconfessare, cioè
da vedere come, in questo caso, io non sia debitamente a la imperiale
maiestà subietto. E perchè lunga conviene essere la ragione, per
proprio capitolo immediatamente intendo ciò mostrare.
CAPITOLO IX.
4. E a vedere li termini de le nostre operazioni,
è da sapere che solo quelle sono nostre operazioni che subiacciono a la
ragione e a la volontade; che se in noi è l’operazione digestiva, questa
non è umana, ma naturale. 5. Ed è da sapere che la nostra
ragione a quattro maniere d’operazioni, diversamente da considerare, è
ordinata: chè operazioni sono che ella solamente considera, e non fa
nè può fare alcuna di quelle, sì come sono le cose
naturali e le soprannaturali e le matematice; e operazioni che essa considera e
fa nel proprio atto suo, le quali si chiamano razionali, sì come sono
arti di parlare; e operazioni sono che ella considera e fa in materia di fuori
di sè, sì come sono arti meccanice. 6. E queste tutte
operazioni, avvegna che ’l considerare loro subiaccia a la nostra volontade,
elle per loro a nostra volontade non subiacciono: chè, perchè noi
volessimo che le cose gravi salissero per natura suso, e perchè noi
volessimo che ’l silogismo con falsi principii conchiudesse veritade
dimostrando, e perchè noi volessimo che la casa sedesse così
forte pendente come diritta, non sarebbe; però che di queste operazioni
non fattori propriamente, ma li trovatori semo. Altri l’ordinò e fece
maggior fattore. 7. Sono anche operazioni che la nostra [ragione]
considera ne l’atto de la volontade, sì come offendere e giovare,
sì come star fermo e fuggire a la battaglia, sì come stare casto
e lussuriare, e queste del tutto soggiacciono a la nostra volontade; e
però semo detti da loro buoni e rei perch’elle sono proprie nostre del
tutto, perchè, quanto la nostra volontade ottenere puote, tanto le
nostre operazioni si stendono. 8. E con ciò sia cosa che in tutte
queste volontarie operazioni sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da
fuggire (la quale equitade per due cagioni si può perdere, o per non
sapere quale essa si sia o per non volere quella seguitare), trovata fu la
Ragione scritta, e per mostrarla e per comandarla. Onde dice Augustino: «Se
questa - cioè equitade - li uomini la conoscessero, e conosciuta
servassero, la Ragione scritta non sarebbe mestiere»; e però è
scritto nel principio del Vecchio Digesto: «La ragione scritta è arte di
bene e d’equitade».
11. E da considerare è che quanto la cosa
è più propia de l’arte o del maestro, tanto è maggiore in
quella la subiezione; chè, multiplicata la cagione, multiplica
l’effetto. Onde è da sapere che cose sono che sono sì pure arti,
che la natura è instrumento de l’arte: sì come vogare con remo,
dove l’arte fa suo instrumento de la impulsione, che è naturale moto;
sì come nel trebbiare lo frumento, che l’arte fa suo instrumento del
caldo, che è natural qualitade; e in queste massimamente a lo prencipe e
maestro de l’arte esser si dee subietto. 12. E cose sono dove l’arte
è instrumento de la natura, e queste sono meno arti; e in esse sono meno
subietti li artefici a loro prencipe; sì com’è dare lo seme a la
terra (qui si vuole attendere la volontà de la natura), sì come
uscire è di porto (qui si vuole attendere la naturale disposizione del
tempo). E però vedemo in queste cose spesse volte contenzione tra li
artefici, e domandare consiglio lo maggiore al minore. 13. Altre cose
sono che non sono de l’arte, e paiono avere con quella alcuna parentela, e
quinci sono li uomini molte volte ingannati; e in queste li discenti a lo
artefice, o vero maestro, subietti non sono, nè credere a lui sono
tenuti quanto è per l’arte: sì come pescare pare aver parentela
col navicare, e conoscere la vertù de l’erbe pare aver parentela con
l’agricoltura; che non hanno insieme alcuna regola, con ciò sia cosa che
’l pescare sia sotto l’arte de la venagione e sotto suo comandare, e lo
conoscere la vertù de l’erbe sia sotto la medicina o vero sotto
più nobile dottrina.
14. Queste cose simigliantemente, che de l’altre arti
sono ragionate, vedere si possono ne l’arte imperiale; chè regole sono
in quella che sono pure arti, sì come sono le leggi de’ matrimonii, de
li servi, de le milizie, de li successori in dignitade, e di queste in tutto
siamo a lo Imperadore subietti, sanza dubbio e sospetto alcuno. 15.
Altre leggi sono che sono quasi seguitatrici di natura, sì come
constituire l’uomo d’etade sofficiente a ministrare, e di queste non semo in
tutto subietti. Altre molte sono che paiono avere alcuna parentela con l’arte
imperiale - e qui fu ingannato ed è chi crede che la sentenza imperiale
sia in questa parte autentica -: sì come [diffinire] giovinezza e
gentilezza, sovra le quali nullo imperiale giudicio è da consentire, in
quanto elli è imperadore: però, quello che è di [Cesare
sia renduto a Cesare, e quello che è di] Dio sia renduto a Dio. 16.
Onde non è da credere nè da consentire a Nerone imperadore, che
disse che giovinezza era bellezza e fortezza del corpo, ma a colui che dicesse
che giovinezza è colmo de la naturale vita, che sarebbe filosofo. E
però è manifesto che diffinire di gentilezza non è de
l’arte imperiale; e se non è de l’arte, trattando di quella, a lui non
siamo subietti; e se non [siamo] subietti, reverire lui in ciò non siamo
tenuti: e questo è quello [che cerc]ando s’andava. 17. Per che
omai con tutta licenza e con tutta franchezza d’animo è da ferire nel
petto a le usate oppinioni, quelle per terra versando, acciò che la
verace, per questa mia vittoria, tegna lo campo de la mente di coloro per c[ui]
fa questa luce avere vigore.
CAPITOLO X.
1. Poi che poste sono l’altrui oppinioni di
nobilitade, e mostrato è quelle riprovare a me esser licito,
verrò a quella parte ragionare che ciò ripruova; che comincia,
sì come detto è di sopra: Chi diffinisce: ‘Omo è legno
animato’. E però, è da sapere che l’oppinione de lo
Imperadore - avvegna che con difetto quella ponga - ne l’una particula,
cioè là dove disse belli costumi, toccò de li costumi
di nobilitade, e però in quella parte riprovare non s’intende. 2.
L’altra particula, che di natura di nobilitade è del tutto diversa,
s’intende riprovare; la quale due cose pare dicere quando dice antica
ricchezza, cioè tempo e divizie, le quali a nobilitade sono del
tutto diverse, come detto è e come di sotto si mostrerà. E
però riprovando si fanno due parti: prima si ripruovano le divizie, e
poi si ripruova lo tempo essere cagione di nobilitade. La seconda parte
comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 3. E da
sapere è che, riprovate le divizie, è riprovata non solamente
l’oppinione de lo Imperadore in quella parte che le divizie tocca, ma eziandio
quella del vulgo interamente che solo ne le divizie si fondava. La prima parte
in due si divide: che ne la prima generalmente si dice lo ’mperadore essere
stato erroneo ne la diffinizione di nobilitade; secondamente si mostra ragione
perchè. E comincia questa seconda parte: Chè le divizie,
sì come si crede.
4. Dico adunque, Chi diffinisce: ‘Omo è legno
animato’, che prima dice non vero, cioè falso, in quanto dice
‘legno’; e poi parla non intero, cioè con difetto, in quanto dice
‘animato’, non dicendo ‘razionale’, che è differenza per la quale uomo
da la bestia si parte. 5. Poi dico che per questo modo fu erroneo in
diffinire quelli che tenne impero: non dicendo ‘imperadore’, ma ‘quelli
che tenne imperio’, a mostrare (come detto è di sopra) questa cosa
determinare essere fuori d’imperiale officio. Poi dico similemente lui errare,
che puose de la nobilitade falso subietto, cioè ‘antica ricchezza’, e
poi procede[tt]e a ‘defettiva forma’, o vero differenza, cioè ‘belli
costumi’, che non comprendono ogni formalitade di nobilitade, ma molto picciola
parte, sì come di sotto si mostrerà. 6. E non è da
lasciare, tutto che ’l testo si taccia, che messere lo Imperadore in questa
parte non errò pur ne le parti de la diffinizione, ma eziandio nel modo
di diffinire, avvegna che, secondo la fama che di lui grida, elli fosse loico e
clerico grande: chè la diffinizione de la nobilitade più
degnamente si farebbe da li effetti che da’ principii, con ciò sia cosa
che essa paia avere ragione di principio, che non si può notificare per
cose prime, ma per posteriori. 7. Poi quando dico: Chè le
divizie, sì come si crede, mostro come elle non possono causare
nobilitade, perchè sono vili; e mostro quelle non poterla torre,
perchè son disgiunte molto da nobilitade. E pruovo quelle essere vili
per uno loro massimo e manifestissimo difetto; e questo fo quando dico: Che
siano vili appare. 8. Ultimamente conchiudo, per virtù di
quello che detto è di sopra, l’animo diritto non mutarsi per loro
transmutazione; che è pruova di quello che detto è di sopra,
quelle essere da nobilitade disgiunte, per non seguire l’effetto de la
congiunzione. Ove è da sapere che, sì come vuole lo Filosofo,
tutte le cose che fanno alcuna cosa, conviene essere prima quelle perfettamente
in quello essere; onde dice nel settimo de la Metafisica: «Quando una cosa si
genera da un’altra, generasi di quella, essendo in quello essere». 9.
Ancora è da sapere che ogni cosa che si corrompe, sì si corrompe,
precedente alcuna alterazione, e ogni cosa che è alterata conviene
essere congiunta con l’altera[nte cag]ione, sì come vuole lo Filosofo
nel settimo de la Fisica e nel primo De Generatione. Queste cose proposte,
così procedo, e dico che le divizie, come altri credea, non possono dare
nobilitade; e a mostrare maggiore diversitade avere con quella, dico che non la
possono torre a chi l’ha. 10. Dare non la possono, con ciò sia
cosa che naturalmente siano vili, e per la viltade siano contrarie a la
nobilitade. E qui s’intende viltade per degenerazione, la quale a la nobilitade
s’oppone; con ciò sia cosa che l’uno contrario non sia fattore de l’altro
nè possa essere, per la prenarrata cagione la quale brevemente
s’aggiugne al testo, dicendo: Poi chi pinge figura, [Se non
può esser lei, non la può porre]. 11. Onde nullo
dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse
prima tale, quale la figura essere dee. Ancora torre non la possono,
però che da lungi sono di nobilitade, e per la ragione prenarrata che
[ciò che] altera o corrompe alcuna cosa convegna essere congiunto con
quella. 12. E però soggiugne: Nè la diritta torre Fa
piegar rivo che da lungi corre; che non vuole altro dire, se non rispondere
a ciò che detto è dinanzi, che le divizie non possono torre
nobilitade, dicendo quasi quella nobilitade essere torre diritta, e le divizie
fiume da lungi corrente.
CAPITOLO XI.
1. Resta omai solamente a provare come le divizie
sono vili, e come disgiunte sono e lontane da nobilitade; e ciò si
pruova in due particulette del testo, a le quali si conviene al presente
intendere. E poi quelle esposte, sarà manifesto ciò che detto ho,
cioè le divizie essere vili e lontane da nobilitade; e per questo
saranno le ragioni di sopra contra le divizie perfettamente provate. 2.
Dico adunque: Che siano vili appare ed imperfette. E a manifestare
ciò che dire s’intende, è da sapere che la viltade di ciascuna cosa
da la imperfezione di quella si prende, e così la nobilitade da la
perfezione: onde tanto quanto la cosa è perfetta, tanto è in sua
natura nobile; quanto imperfetta, tanto vile. E però se le divizie sono
imperfette, manifesto è che siano vili. 3. E che elle siano
imperfette, brievemente pruova lo testo quando dice: Chè, quantunque
collette, Non posson quietar, ma dan più cura; in che non solamente
la loro imperfezione è manifesta, ma la loro condizione essere
imperfettissima, e però essere quelle vilissime. E ciò testimonia
Lucano, quando dice, a quelle parlando: «Sanza contenzione periro le leggi; e
voi ricchezze, vilissima parte de le cose, moveste battaglia». 4.
Puotesi brevemente la loro imperfezione in tre cose vedere apertamente: e
prima, ne lo indiscreto loro avvenimento; secondamente, nel pericoloso loro
accrescimento; terziamente, ne la dannosa loro possessione. E prima ch’io
ciò dimostri, è da dichiarare un dubbio che pare consurgere: che,
con ciò sia cosa che l’oro, le margherite e li campi perfettamente forma
e atto abbiano in loro essere, non pare vero dicere che siano imperfette. 5.
E però si vuole sapere che, quanto è per esse in loro
considerate, cose perfette sono, e non sono ricchezze, ma oro e margherite; ma
in quanto sono ordinate a la possessione de l’uomo, sono ricchezze, e per
questo modo sono piene d’imperfezione. Chè non è inconveniente
una cosa, secondo diversi rispetti, essere perfetta e imperfetta.
6. Dico che la loro imperfezione primamente si
può notare ne la indiscrezione del loro avvenimento, nel quale nulla
distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre, la quale
iniquitade è proprio effetto d’imperfezione. 7. Che se si
considerano li modi per li quali esse vegnono, tutti si possono in tre maniere
ricogliere: chè o vengono da pura fortuna, sì come quando sanza
intenzione o speranza vegnono per invenzione alcuna non pensata; o vengono da
fortuna che è da ragione aiutata, sì come per testamenti o per
mutua successione; o vegnono da fortuna aiutatrice di ragione, sì come
quando per licito o per illicito procaccio: licito dico, quando è per
arte o per mercatantia o per servigio meritante; illicito dico, quando è
per furto o per rapina. 8. E in ciascuno di questi tre modi si vede
quella iniquitade che io dico, chè più volte a li malvagi che a
li buoni le celate ricchezze che si truovano o che si ritruovano si
rappresentano; e questo è sì manifesto, che non ha mestiere di
pruova. Veramente io vidi lo luogo, ne le coste d’un monte che si chiama
Falterona, in Toscana, dove lo più vile villano di tutta la contrada,
zappando, più d’uno staio di santalene d’argento finissimo vi
trovò, che forse più di dumilia anni l’aveano aspettato. 9.
E per vedere questa iniquitade, disse Aristotile che «quanto l’uomo più
subiace a lo ’ntelletto, tanto meno subiace a la fortuna». E dico che
più volte a li malvagi che a li buoni pervengono li retaggi, legati e
caduti; e di ciò non voglio recare innanzi alcuna testimonianza, ma
ciascuno volga li occhi per la sua vicinanza, e vedrà quello che io mi
taccio per non abominare alcuno. 10. Così fosse piaciuto a Dio
che quello che addomandò lo Provenzale fosse stato, che chi non è
reda de la bontade perdesse lo retaggio de l’avere! E dico che più volte
a li malvagi che a li buoni pervegnono a punto li procacci; chè li non
liciti a li buoni mai non pervegnono, però che li rifiutano. 11.
E quale buono uomo mai per forza o per fraude procaccerà? Impossibile
sarebbe ciò, chè solo per la elezione de la illicita impresa
più buono non sarebbe. E li liciti rade volte pervegnono a li buoni,
perchè, con ciò sia cosa che molta sollicitudine quivi si
richeggia, e la sollicitudine del buono sia diritta a maggiori cose, rade volte
sofficientemente quivi lo buono è sollicito. 12. Per che è
manifesto in ciascuno modo quelle ricchezze iniquamente avvenire; e però
Nostro Segnore inique le chiamò, quando disse: «Fatevi amici de la
pecunia de la iniquitade», invitando e confortando li uomini a liber[ali]tade
di benefici, che sono generatori d’amici. 13. E quanto fa bello cambio
chi di queste imperfettissime cose dà per avere e per acquistare cose
perfette, sì come li cuori de’ valenti uomini! Lo cambio ogni die si
può fare. Certo nuova mercatantia è questa de l’altre, che,
credendo comperare uno uomo per lo beneficio, mille e mille ne sono comperati. 14.
E c[u]i non è ancora [ne]l cuore Alessandro per li suoi reali benefici?
Cui non è ancora lo buono re di Castella, o il Saladino, o il buono
Marchese di Monferrato, o il buono Conte di Tolosa, o Beltramo dal Bornio, o
Galasso di Montefeltro? Quando de le loro messioni si fa menzione, certo non
solamente quelli che ciò farebbero volentieri, ma quelli prima morire
vorrebbero che ciò fare, amore hanno a la memoria di costoro.
CAPITOLO XII.
1. Come detto è, la imperfezione de le
ricchezze non solamente nel loro avvenimento si può comprendere, ma
eziandio nel pericoloso loro accrescimento; e però che in ciò
più si può vedere di loro difetto, solo di questo fa menzione lo testo,
dicendo quelle, quantunque collette, non solamente non quietare, ma dare
più sete e rendere altri più defettivo e insufficiente. 2.
E qui si vuole sapere che le cose defettive possono aver li loro difetti per
modo, che ne la prima faccia non paiono, ma sotto pretesto di perfezione la imperfezione
si nasconde; e possono avere quelli sì, che del tutto sono discoperti,
sì che apertamente ne la prima faccia si conosce la imperfezione. 3.
E quelle cose che prima non mostrano li loro difetti sono più
pericolose, però che di loro, molte fiate prendere guardia non si
può; sì come vedemo nel traditore, che ne la faccia dinanzi si
mostra amico, sì che fa di sè fede avere, e sotto pretesto
d’amistade chiude lo difetto de la inimistade. E per questo modo le ricchezze
pericolosamente nel loro accrescimento sono imperfette, che, sommettendo
ciò che promettono, apportano lo contrario. 4. Promettono le
false traditrici sempre, in certo numero adunate, rendere lo raunatore pieno
d’ogni appagamento; e con questa promissione conducono l’umana volontade in vizio
d’avarizia. E per questo le chiama Boezio, in quello De Consolatione,
pericolose, dicendo: «Ohmè! chi fu quel primo che li pesi de l’oro
coperto e le pietre che si voleano ascondere, preziosi pericoli, cavoe?». 5.
Promettono le false traditrici, se bene si guarda, di torre ogni sete e ogni
mancanza, e apportare ogni saziamento e bastanza; e questo fanno nel principio
a ciascuno uomo, questa promissione in certa quantità di loro
accrescimento affermando: e poi che quivi sono adunate, in loco di saziamento e
di refrigerio danno e recano sete di casso febricante intollerabile; e in loco
di bastanza recano nuovo termine, cioè maggiore quantitade a desiderio,
e, con questa, paura grande e sollicitudine sopra l’acquisto. Si che veramente
non quietano, ma più danno cura, la qual prima sanza loro non si avea. 6.
E però dice Tullio in quello De Paradoxo, abominando le ricchezze: «Io
in nullo tempo per fermo nè le pecunie di costoro, nè le magioni
magnifiche, nè le ricchezze, nè le signorie, nè
l’allegrezze de le quali massimamente sono astretti, tra cose buone o
desiderabili esser dissi; con ciò sia cosa che certo io vedesse li
uomini ne l’abondanza di queste cose massimamente desiderare quelle di che
abondano. Però che in nullo tempo si compie nè si sazia la sete
de la cupiditate; nè solamente per desiderio d’accrescere quelle cose
che hanno si tormentano, ma eziandio tormento hanno ne la paura di perdere
quelle». 7. E queste tutte parole sono di Tullio, e così
giacciono in quello libro che detto è. E a maggiore testimonianza di
questa imperfezione, ecco Boezio in quello De Consolatione dicente: «Se quanta
rena volve lo mare turbato dal vento, se quante stelle rilucono, la dea de la
ricchezza largisca, l’umana generazione non cesserà di piangere». 8.
E perchè più testimonianza, a ciò ridurre per pruova, si
conviene, lascisi stare quanto contra esse Salomone e suo padre grida; quanto
contra esse Seneca, massimamente a Lucillo scrivendo; quanto Orazio, quanto
Iuvenale e, brievemente, quanto ogni scrittore, ogni poeta; e quanto la verace
Scrittura divina chiama contra queste false meretrici, piene di tutti defetti;
e pongasi mente, per avere oculata fede, pur a la vita di coloro che dietro a
esse vanno, come vivono sicuri quando di quelle hanno raunate, come s’appagano,
come si riposano. 9. E che altro cotidianamente pericola e uccide le
cittadi, le contrade, le singulari persone, tanto quanto lo nuovo raunamento
d’avere appo alcuno? Lo quale raunamento nuovi desiderii discuopre, a lo fine
de li quali sanza ingiuria d’alcuno venire non si può. E che altro
intende di meditare l’una e l’altra Ragione, Canonica dico e Civile, tanto
quanto a riparare a la cupiditade che, raunando ricchezze, cresce? 10.
Certo assai lo manifesta e l’una e l’altra Ragione, se li loro cominciamenti,
dico de la loro scrittura, si leggono. Oh com’è manifesto, anzi
manifestissimo, quelle in accrescendo essere del tutto imperfette, quando di
loro altro che imperfezione nascere non può, quanto che accolte siano! E
questo è quello che lo testo dice.
11. Veramente qui surge in dubbio una questione, da
non trapassare sanza farla e rispondere a quella. Potrebbe dire alcuno
calunniatore de la veritade che se, per crescere desiderio acquistando, le
ricchezze sono imperfette e però vili, che per questa ragione sia
imperfetta e vile la scienza, ne l’acquisto de la quale sempre cresce lo
desiderio di quella; onde Seneca dice: «Se l’uno de li piedi avesse nel
sepulcro, apprendere vorrei». 12. Ma non è vero che la scienza
sia vile per imperfezione: dunque, per la distruzione del consequente, lo
crescere desiderio non è cagione di viltade a le ricchezze. Che sia
perfetta, è manifesto per lo Filosofo nel sesto de l’Etica, che dice la
scienza essere perfetta ragione di certe cose.
CAPITOLO XIII.
6. Ben puote ancora calunniare l’avversario dicendo
che, avvegna che molti desiderii si compiano ne lo acquisto de la scienza, mai
non si viene a l’ultimo: che è quasi simile a la ’mperfezione di quello
che non si termina e che è pur uno. 7. Ancora qui si risponde,
che non è vero ciò che si oppone, cioè che mai non si
viene a l’ultimo: chè li nostri desiderii naturali, sì come di
sopra nel terzo trattato è mostrato, sono a certo termine discendenti; e
quello de la scienza è naturale, sì che certo termine quello
compie, avvegna che pochi, per male camminare, compiano la giornata. 8.
E chi intende lo Commentatore nel terzo de l’Anima, questo intende da lui. E
però dice Aristotile nel decimo de l’Etica, contra Simonide poeta
parlando, che «l’uomo si dee traere a le divine cose quanto può»; in che
mostra che a certo fine bada la nostra potenza. E nel primo de l’Etica dice che
«’l disciplinato chiede di sapere certezza ne le cose, secondo che [ne] la loro
natura di certezza si riceva»; in che mostra che non solamente da la parte de
l’uomo desiderante, ma deesi fine attendere da la parte de lo scibile
desiderato. 9. E però Paulo dice: «Non più sapere che
sapere si convegna, ma sapere a misura». Sì che, per qualunque modo lo
desiderare de la scienza si prende, o generalmente o particularmente, a
perfezione viene. E però la scienza ha perfetta e nobile perfezione, e
per suo desiderio sua perfezione non perde, come le maladette ricchezze.
10. Le quali come ne la loro possessione siano
dannose, brievemente è da mostrare, che è la terza nota de la
loro imperfezione. Puotesi vedere la loro possessione essere dannosa per due
ragioni: l’una, che è cagione di male; l’altra, che è privazione
di bene. Cagione è di male, chè fa, pur vegliando, lo possessore
timido e odioso. 11. Quanta paura è quella di colui che appo
sè sente ricchezza, in camminando, in soggiornando, non pur vegliando ma
dormendo, non pur di perdere l’avere ma la persona per l’avere! Ben lo sanno li
miseri mercatanti che per lo mondo vanno, che le foglie che ’l vento fa menare,
li fa tremare, quando seco ricchezze portano; e quando sanza esse sono, pieni
di sicurtade, cantando e sollazzando fanno loro cammino più brieve. 12.
E però dice lo Savio: «Se voto camminatore entrasse ne lo cammino, dinanzi
a li ladroni canterebbe». E ciò vuol dire Lucano nel quinto libro,
quando commenda la povertà di sicuranza, dicendo: «Oh sicura
facultà de la povera vita! oh stretti abitaculi e masserizie! oh non
ancora intese ricchezze de li Iddei! A quali tempii o a quali muri poteo questo
avvenire, cioè non temere con alcuno tumulto, bussando la mano di
Cesare?» E quello dice Lucano quando ritrae come Cesare di notte a la casetta
del pescatore Amiclas venne, per passare lo mare Adriano. 13. E quanto
odio è quello che ciascuno al possessore de la ricchezza porta, o per
invidia o per desiderio di prendere quella possessione! Certo tanto è,
che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la morte del padre
intende: e di questo grandissime e manifestissime esperienze possono avere li
Latini, e da la parte di Po e da la parte di Tevero! E però Boezio nel
secondo de la sua Consolazione dice: «Per certo l’avarizia fa li uomini
odiosi».
14. Anche è privazione di bene la loro
possessione. Chè, possedendo quelle, larghezza non si fa, che è
vertude ne la quale è perfetto bene e la quale fa li uomini splendienti
e amati; che non può essere possedendo quelle, ma quelle lasciando di
possedere. Onde Boezio nel medesimo libro dice: «Allora è buona la
pecunia, quando, transmutata ne li altri per uso di larghezza, più non
si possiede». Per che assai è manifesto la loro viltade per tutte le sue
note. 15. E però l’uomo di diritto appetito e di vera conoscenza
quelle mai non ama, e, non amandole, non si unisce ad esse, ma quelle sempre di
lungi da sè essere vuole, se non in quanto ad alcuno necessario servigio
sono ordinate. Ed è cosa ragionevole, però che lo perfetto con lo
imperfetto non si può congiugnere; onde vedemo che la torta linea con la
diritta non si congiunge mai, e se alcuno congiungimento v’è, non
è da linea a linea, ma da punto a punto. 16. E però
seguita che l’animo che è diritto, cioè d’appetito, e verace,
cioè di conoscenza, per loro perdita non si disface; sì come lo
testo pone nel fine di questa parte. E per questo effetto intende di provare lo
testo che elle siano fiume corrente di lungi da la diritta torre de la ragione,
o vero di nobilitade; e per questo, che esse divizie non possono torre la
nobilitade a chi l’ha. E per questo modo disputasi e ripruovasi contra le
ricchezze per la presente canzone.
CAPITOLO XIV.
1. Riprovato l’altrui errore quanto è in
quella parte che a le ricchezze s’appoggiava, [seguita che si riprovi quanto
è] in quella parte, che tempo diceva essere cagione di nobilitade,
dicendo antica ricchezza. E questa riprovagione si fa in quella parte
che comincia: Nè voglion che vil uom gentil divegna. 2. E
in prima si ripruova ciò per una ragione di costoro medesimi che
così errano; poi, a maggiore loro confusione, questa loro ragione anche
si distrugge: e ciò si fa quando dice: Ancor, segue di ciò che
innanzi ho messo. Ultimamente conchiude manifesto essere lo loro errore, e
però essere tempo d’intendere a la veritade: e ciò si fa quando
dice: Per che a ’ntelletti sani.
3. Dico adunque: Nè voglion che vil uom
gentil divegna. Dove è da sapere che oppinione di questi erranti
è che uomo prima villano mai gentile uomo dicer non si possa; nè
uomo che figlio sia di villano similemente dicere mai non si possa gentile. E
ciò rompe la loro sentenza medesima, quando dicono che tempo si richiede
a nobilitade, ponendo questo vocabulo ‘antico’; però ch’è
impossibile per processo di tempo venire a la generazione di nobilitade per
questa loro ragione che detta è, la quale toglie via che villano uomo
mai possa esser gentile per opera che faccia, o per alcuno accidente, e toglie
via la mutazione di villano padre in gentile figlio. 4. Chè se lo
figlio del villano è pur villano, e lo figlio fia pur figlio di villano
e così fia anche villano, e anche suo figlio, e così sempre, e
mai non s’avrà a trovare là dove nobilitade per processo di tempo
si cominci. 5. E se l’avversario, volendosi difendere, dicesse che la
nobilitade si comincerà in quel tempo che si dimenticherà lo
basso stato de li antecessori, rispondo che ciò fia contra loro
medesimi, che pur di necessitade quivi sarà transmutazione di viltade in
gentilezza, d’un uomo in altro o di padre a figlio, ch’è contra
ciò che essi pongono.
6. E se l’avversario pertinacemente si difendesse,
dicendo che bene vogliono questa transmutazione potersi fare quando lo basso
stato de li antecessori corre in oblivione, avvegna che ’l testo ciò non
curi, degno è che la chiosa a ciò risponda. E però
rispondo così: che di ciò che dicono seguitano quattro
grandissimi inconvenienti, sì che buona ragione essere non può. 7.
L’uno si è che quanto la natura umana fosse migliore tanto sarebbe
più malagevole e più tarda generazione di gentilezza; che
è massimo inconveniente, con ciò sia cosa, com’ho no[t]ato, che
la cosa quanto è migliore tanto è più cagione di bene; e
nobilitade intra li beni sia commemorata. 8. E che ciò fosse
così si pruova. Se la gentilezza o ver nobilitade, che per una cosa
intendo, si generasse per oblivione, più tosto sarebbe generata la
nobilitade quanto li uomini fossero più smemorati, [chè] tanto
più tosto ogni oblivione verrebbe. Dunque, quanto li uomini smemorati
più fossero, più tosto sarebbero nobili; e per contrario, quanto
con più buona memoria, tanto più tardi nobili si farebbero.
9. Lo secondo si è, che ’n nulla cosa, fuori
de li uomini, questa distinzione si potrebbe fare, cioè nobile o vile;
che è molto inconveniente, con ciò sia cosa che in ciascuna
spezie di cose veggiamo l’imagine di nobilitade e di viltade: onde spesse volte
diciamo uno nobile cavallo e uno vile, e uno nobile falcone e uno vile, e una
nobile margherita e una vile. 10. E che non si potesse fare questa
distinzione, così si pruova. Se l’oblivione de li bassi antecessori
è cagione di nobilitade, e là ovunque bassezza d’antecessori mai
non fu, non può essere l’oblivione di quelli - con ciò sia cosa
che l’oblivione sia corruzione di memoria, e in questi altri animali e piante e
minere bassezza e altezza non si noti, però che in uno sono naturati
solamente ed iguale stato -, in loro generazione di nobilitade essere non
può; e così nè viltade, con ciò sia cosa che l’una
e l’altra si guardi come abito e privazione, che sono ad uno medesimo subietto
possibili; e però in loro de l’una e de l’altra non potrebbe essere distinzione.
11. E se l’avversario volesse dicere che ne l’altre cose nobilità
s’intende per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s’intende
perchè di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si
vorrebbe non con le parole ma col coltello a tanta bestialitade, quanta
è dare a la nobilitade de l’altre cose bontade per cagione, e a quella
de li uomini principio di dimenticanza.
12. Lo terzo si è che molte volte verrebbe
prima lo generato che lo generante; che è del tutto impossibile; e
ciò si può così mostrare. Pognamo che Gherardo da Cammino
fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del
Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi sarà
oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo? e chi non parlerà
meco, dicendo quello essere stato nobile? Certo nullo, quanto vuole sia
presuntuoso, però che egli fu, e fia sempre la sua memoria. 13. E
se la oblivione del suo basso antecessore non fosse venuta, sì come si
suppone, ed ello fosse grande di nobilitade e la nobilitade in lui si vedesse
così apertamente come aperta si vede, prima sarebbe stata in lui che ’l
generante suo fosse stato: e questo è massimamente impossibile.
14. Lo quarto si è che tale uomo sarebbe tenuto
nobile morto che non fu nobile vivo; che più inconveniente essere non
potrebbe; e ciò così si mostra. Pognamo che ne la etade di
Dardano de’ suoi antecessori bassi fosse memoria, e pognamo che ne la etade di
Laomedonte questa memoria fosse disfatta, e venuta l’oblivione. Secondo
l’oppinione avversa, Laomedonte fu gentile e Dardano fu villano in loro vita.
Noi, a li quali la memoria de li loro anticessori, dico di là da
Dardano, [anche non è rimasa, dir dovremmo che Dardano] vivendo fosse
villano e morto sia nobile. 15. E non è contro a ciò, che
si dice Dardano esser stato figlio di Giove, chè ciò è
favola, de la quale, filosoficamente disputando, curare non si dee; e pur se
volesse a la favola fermare l’avversario, di certo quello che la favola cuopre
disfà tutte le sue ragioni. E così è manifesto, la ragione
che ponea la oblivione causa di nobilitade essere falsa ed erronea.
CAPITOLO XV.
1. Da poi che, per la loro medesima sentenza, la
canzone ha riprovato tempo non richiedersi a nobilitade, incontanente seguita a
confondere la premessa loro oppinione, acciò che di loro false ragioni
nulla ruggine rimagna ne la mente che a la verità sia disposta; e questo
fa quando dice: Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo. 2.
Ove è da sapere che, se uomo non si può fare di villano gentile o
di vile padre non può nascere gentile figlio, sì come messo
è dinanzi per loro oppinione, che de li due inconvenienti l’uno seguire
conviene: l’uno sì è che nulla nobilitade sia; l’altro sì
è che ’l mondo sempre sia stato con più uomini, sì che da
uno solo la umana generazione discesa non sia. 3. E ciò si
può mostrare. Se nobilitade non si genera di nuovo, sì come
più volte è detto che la loro oppinione vuole (non generandosi di
vile uomo in lui medesimo, nè di vile padre in figlio), sempre è
l’uomo tale quale nasce, e tale nasce quale è lo padre; e così
questo processo d’una condizione è venuto infino dal primo parente: per
che tale quale fu lo primo generante, cioè Adamo, conviene essere tutta
l’umana generazione, chè da lui a li moderni non si puote trovare per
quella ragione alcuna transmutanza. 4. Dunque, se esso Adamo fu nobile,
tutti siamo nobili, e se esso fu vile, tutti siamo vili; che non è altro
che torre via la distinzione di queste condizioni, e così è torre
via quelle. E questo dice, che di quello ch’e messo dinanzi seguita che siam
tutti gentili o ver villani. 5. E se questo non è, [e] pur
alcuna gente è da dire nobile e alcuna è da dir vile, di
necessitade, da poi che la transmutazione di viltade in nobilitade è
tolta via, conviene l’umana generazione da diversi principii essere discesa,
cioè da uno nobile e da uno vile. E ciò dice la canzone, quando
dice: O che non fosse ad uom cominciamento, cioè uno solo: non
dice ‘cominciamenti’. E questo è falsissimo appo lo Filosofo, appo la
nostra Fede che mentire non puote, appo la legge e credenza antica de li
Gentili. 6. Chè, avvegna che ’l Filosofo non pogna lo processo da
uno primo uomo, pur vuole una sola essenza essere in tutti li uomini, la quale
diversi principii avere non puote; e Plato vuole che tutti li uomini da una
sola Idea dependano, e non da più, che è dare loro uno solo
principio. E sanza dubbio forte riderebbe Aristotile udendo fare spezie due de
l’umana generazione, sì come de li cavalli e de li asini; che, perdonimi
Aristotile, asini ben si possono dire coloro che così pensano. 7.
Che appo la nostra fede, la quale del tutto è da conservare, sia
falsissimo, per Salomone si manifesta, che là dove distinzione fa di
tutti li uomini a li animali bruti, chiama quelli tutti figli d’Adamo; e
ciò fa quando dice: «Chi sa se li spiriti de li figliuoli d’Adamo vadano
suso, e quelli de le bestie vadano giuso?». 8. E che appo li Gentili
falso fosse, ecco la testimonianza d’Ovidio nel primo del suo Metamorfoseos,
dove tratta la mondiale constituzione secondo la credenza pagana, o vero de li
Gentili, dicendo: «Nato è l’uomo» - non disse ‘li uomini’; disse ‘nato’,
e ‘l’uomo’ - «o vero che questo l’artefice de le cose di seme divino fece, o
vero che la recente terra, di poco dipartita dal nobile corpo sottile e diafano,
li semi del cognato cielo ritenea. La quale, mista con l’acqua del fiume, lo
figlio di Iapeto, cioè Prometeus, compuose in imagine de li Dei, che
tutto governano». Dove manifestamente pone lo primo uomo uno solo essere stato.
9. E però dice la canzone: Ma ciò io non consento,
cioè che cominciamento ad uomo non fosse. E soggiugne la canzone: Ned
ellino altressì, se son cristiani: e dice ‘cristiani’ e non
‘filosofi’ o vero ‘Gentili’, [de li quali] le sentenze anco [non] sono in
contro, però che la cristiana sentenza è di maggiore vigore, ed
è rompitrice d’ogni calunnia, mercè de la somma luce del cielo
che quella allumina.
10. Poi quando dico: Per che a ’ntelletti sani
È manifesto i lor diri esser vani, conchiudo lo loro errore essere
confuso, e dico che tempo è d’aprire li occhi a la veritade; questo dice
quando dico: E dicer voglio omai, sì com’io sento. Dico adunque
che, per quello che detto è, è manifesto a li sani intelletti che
i detti di costoro sono vani, cioè sanza midolla di veritade. E dico sani
non sanza cagione. 11. Onde è da sapere che lo nostro intelletto
si può dir sano e infermo: e dico intelletto per la nobile parte de
l’anima nostra, che con uno vocabulo ‘mente’ si può chiamare. Sano dire
si può, quando per malizia d’animo o di corpo impedito non è ne
la sua operazione; che è conoscere quello che le cose sono, sì
come vuole Aristotile nel terzo de l’Anima. 12. Chè, secondo la
malizia de l’anima, tre orribili infermitadi ne la mente de li uomini ho
vedute. L’una è di naturale [jat]tanza causata: chè sono molti
tanto presuntuosi, che si credono tutto sapere, e per questo le non certe cose
affermano per certe; lo qual vizio Tullio massimamente abomina nel primo de li
Offici e Tommaso nel suo Contra-li-Gentili dicendo: «Sono molti tanto di suo
ingegno presuntuosi, che credono col suo intelletto poter misurare tutte le
cose, estimando tutto vero quello che a loro pare, falso quello che a loro non
pare». 13. E quinci nasce che mai a dottrina non vegnono; credendo da
sè sufficientemente essere dottrinati, mai non domandano, mai non
ascoltano, disiano essere domandati e, anzi la domandagione compiuta, male
rispondono. E per costoro dice Salomone ne li Proverbii: «Vedesti l’uomo ratto
a rispondere? di lui stoltezza, più che correzione, è da [sperare]».
14. L’altra è di naturale pusillanimitade causata: chè
sono molti tanto vilmente ostinati, che non possono credere che nè per
loro nè per altrui si possano le cose sapere; e questi cotali mai per
loro non cercano nè ragionano, mai quello che altri dice non curano. E
contra costoro Aristotile parla nel primo de l’Etica, dicendo quelli essere
insufficienti uditori de la morale filosofia. Costoro sempre come bestie in
grossezza vivono, d’ogni dottrina disperati. 15. La terza è da
levitade di natura causata: chè sono molti di sì lieve fantasia
che in tutte le loro ragioni transvanno, e anzi che silogizzino hanno
conchiuso, e di quella conclusione vanno transvolando ne l’altra, e pare loro
sottilissimamente argomentare, e non si muovono da neuno principio, e nulla
cosa veramente veggiono vera nel loro imaginare. 16. E di costoro dice
lo Filosofo che non è da curare nè da avere con essi faccenda,
dicendo nel primo de la Fisica, che «contra quelli che niega li principii
disputare non si conviene». E di questi cotali sono molti idioti che non
saprebbero l’a. b. c., e vorrebbero disputare in geometria, in astrologia e in
fisica.
17. E secondo malizia, o vero difetto di corpo,
può essere la mente non sana: quando per difetto d’alcuno principio da
la nativitade, sì come [ne’] mentecatti; quando per l’alterazione del
cerebro, sì come sono frenetici. E di questa infertade de la mente
intende la legge, quando lo Inforzato dice: «In colui che fa testamento, di
quel tempo nel quale lo testamento fa, sanitade di mente, non di corpo,
è a domandare». Per che a quelli intelletti che per malizia d’animo o di
corpo infermi non sono, liberi, espediti e sani a la luce de la veritade, dico
essere manifesto l’oppinione de la gente, che detto è, essere vana, cioè
sanza valore.
18. Appresso soggiugne, che io così li giudico
falsi e vani, e così li ripruovo; e ciò si fa quando si dice: E
io così per falsi li riprovo. E appresso dico che da venire è
a la veritade mostrare; e dico che mostrare [è] quello, cioè che
cosa è gentilezza, e come si può conoscere l’uomo in cui essa
è. E ciò dico quivi: E dicer voglio omai, sì com’io
sento.
CAPITOLO XVI.
1. «Lo rege si letificherà in Dio, e saranno
lodati tutti quelli che giurano in lui, però che serrata è la
bocca di coloro che parlano le inique cose». Queste parole posso io qui
veramente proponere; però che ciascuno vero rege dee massimamente amare
la veritade. Ond’è scritto nel libro di Sapienza: «Amate lo lume di
sapienza, voi che siete dinanzi a li populi»; e lume di sapienza è essa
veritade. Dico adunque che però si rallegrerà ogni rege che
riprovata è la falsissima e dannosissima oppinione de li malvagi e
ingannati uomini che di nobilitade hanno infino a ora iniquamente parlato.
2. Convienesi procedere al trattato de la veritade,
secondo la divisione fatta nel terzo capitolo di questo trattato. Questa
seconda parte adunque, che comincia: Dico ch’ogni vertù
principalmente, intende diterminare d’essa nobilitade secondo la veritade;
e partesi questa parte in due: che ne la prima s’intende mostrare che è
questa nobilitade; ne la seconda s’intende mostrare come conoscere si puote
colui dov’ella è: e comincia questa parte seconda: L’anima cui adorna
esta bontate. 3. La prima parte ha due parti ancora: che ne la prima
si cercano certe cose che sono mestiere a veder la diffinizione di nobilitade;
ne la seconda si cerca de la sua diffinizione: e comincia questa seconda parte:
È gentilezza dovunqu’è vertute.
9. Secondamente è da vedere come da camminare
è a trovare la diffinizione de l’umana nobilitade, a la quale intende lo
presente processo. Dico adunque che, con ciò sia cosa che in quelle cose
che sono d’una spezie, sì come sono tutti li uomini, non si può
per li principii essenziali la loro ottima perfezione diffinire, conviensi
quella e diffinire e conoscere per li loro effetti. 10. E però si
legge nel Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: «Guardatevi da li
falsi profeti» -: «A li frutti loro conoscerete quelli». E per lo cammino
diritto è da vedere, questa diffinizione che cercando si vae, per li
frutti: che sono morali vertù e intellettuali, de le quali essa nostra
nobilitade è seme, sì come ne la sua diffinizione sarà
pienamente manifesto. E queste sono quelle due cose che vedere si convenia
prima che ad altre si procedesse, sì come in questo capitolo di
sopra si dice.
CAPITOLO XVII.
1. Appresso che vedute sono quelle due cose che
parevano utili a vedere prima che sopra lo testo si procedesse, ad esso
esponere è da procedere. E dice e comincia adunque: Dico ch’ogni
vertù principalmente Vien da una radice: Vertute, dico, che fa l’uom
felice In sua operazione. E soggiungo: Questo è, secondo che
l’Etica dice, Un abito eligente, ponendo tutta la diffinizione de la morale
virtù, secondo che nel secondo de l’Etica è per lo Filosofo
diffinito.
4. Queste sono undici vertudi dal detto Filosofo
nomate. La prima si chiama Fortezza, la quale è arme e freno a moderare
l’audacia e la timiditate nostra, ne le cose che sono corr[u]zione de la nostra
vita. La seconda è Temperanza, che è regola e freno de la nostra
gulositade e de la nostra soperchievole astinenza ne le cose che conservano la
nostra vita. La terza si è Liberalitade, la quale è moderatrice
del nostro dare e del nostro ricevere le cose temporali. 5. La quarta si
è Magnificenza, la quale è moderatrice de le grandi spese, quelle
facendo e sostenendo a certo termine. La quinta si è Magnanimitade, la
quale è moderatrice e acquistatrice de’ grandi onori e fama. La sesta si
è Amativa d’onore, la quale è moderatrice e ordina noi a li onori
di questo mondo. La settima si è Mansuetudine, la quale modera la nostra
ira e la nostra troppa pazienza contra li nostri mali esteriori. 6.
L’ottava si è Affabilitade, la quale fa noi ben convenire con li altri.
La nona si è chiamata Veritade, la quale modera noi dal vantare noi
oltre che siamo e da lo diminuire noi oltre che siamo, in nostro sermone. La
decima si è chiamata Eutrapelia, la quale modera noi ne li sollazzi
facendo, quelli usando debitamente. L’undecima si è Giustizia, la quale
ordina noi ad amare e operare dirittura in tutte cose. 7. E ciascuna di
queste vertudi ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e
un altro in poco; e queste tutte sono li mezzi intra quelli, e nascono tutte da
uno principio, cioè da l’abito de la nostra buona elezione: onde
generalmente si può dicere di tutte che siano abito elettivo consistente
nel mezzo. 8. E queste sono quelle che fanno l’uomo beato, o vero
felice, ne la loro operazione, sì come dice lo Filosofo nel primo de
l’Etica quando diffinisce la Felicitade, dicendo che «Felicitade è
operazione secondo virtude in vita perfetta». Bene si pone Prudenza,
cioè senno, per molti, essere morale virtude, ma Aristotile dinumera
quella intra le intellettuali; avvegna che essa sia conduttrice de le morali virtù
e mostri la via per ch’elle si compongono e sanza quella essere non possono.
9. Veramente è da sapere che noi potemo avere
in questa vita due felicitadi, secondo due diversi cammini, buono e ottimo, che
a ciò ne menano: l’una è la vita attiva, e l’altra la contemplativa;
la quale, avvegna che per l’attiva si pervegna, come detto è, a buona
felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine, secondo che pruova lo
Filosofo nel decimo de l’Etica. 10. E Cristo l’afferma con la sua bocca,
nel Vangelio di Luca, parlando a Marta, e rispondendo a quella: «Marta, Marta,
sollicita se’ e turbiti intorno a molte cose: certamente una cosa è
necessaria», cioè ‘quello che fai’. E soggiugne: «Maria ottima parte ha
eletta, la quale non le sarà tolta». E Maria, secondo che dinanzi è
scritto a queste parole del Vangelio, a’ piedi di Cristo sedendo, nulla cura
del ministerio de la casa mostrava; ma solamente le parole del Salvatore
ascoltava. 11. Che se moralemente ciò volemo esponere, volse lo
nostro Segnore in ciò mostrare che la contemplativa vita fosse ottima,
tutto che buona fosse l’attiva: ciò è manifesto a chi ben vuole
porre mente a le evangeliche parole. Potrebbe alcuno però dire, contra
me argomentando: ‘Poichè la felicitade de la vita contemplativa è
più eccellente che quella de l’attiva, e l’una e l’altra possa essere e
sia frutto e fine di nobilitade, perchè non anzi si procedette per la
via de le virtù intellettuali che de le morali?’
CAPITOLO XVIII.
1. Nel precedente capitolo è diterminato
come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e
abituale elezione; e ciò importa lo testo presente infino a quella parte
che comincia: Dico che nobiltate in sua ragione.
6. Ultimamente dice, che quello ch’è detto
(cioè, che ogni vertù morale vegna da una radice, e che
vertù cotale e nobilitade convegnano in una cosa, come detto è di
sopra; e che però si convegna l’una reducere a l’altra, o vero ambe ad
uno terzo; e che se l’una vale quello che l’altra e più, di quella
[questa] proceda maggiormente che d’altro terzo), tutto sia per supposto,
cioè ordito e apparecchiato a quello che per innanzi s’intende. E
così termina questo verso e questa presente parte.
CAPITOLO XlX.
1. Poi che ne la precedente parte sono pertrattate
certe cose e diterminate, ch’erano necessarie a vedere come diffinire si possa
questa buona cosa di che si parla, procedere si conviene a la seguente parte,
che comincia: È gentilezza dovunqu’è vertute. 2. E
questa si vuole in due parti reducere: ne la prima si pruova certa cosa che
dinanzi è toccata e lasciata non provata; ne la seconda, conchiudendo,
si truova questa diffinizione che cercando si va. E comincia questa seconda
parte: Dunque verrà, come dal nero il perso.
3. Ad evidenza de la prima parte, da reducere a
memoria è che di sopra si dice che se nobilitade vale e si stende
più che vertute, [vertute] più tosto procederà da essa. La
qual cosa ora in questa parte pruova, cioè che nobilitade più si
stenda; e rende essemplo del cielo, dicendo che dovunque è vertude,
quivi è nobilitade. 4. E quivi si vuole sapere che, sì
come scritto è in Ragione e per regola di Ragione si tiene, in quelle
cose che per sè sono manifeste non è mestiere di pruova; e nulla
n’è più manifesta che nobilitade essere dove è vertude, e
ciascuna cosa volgarmente vedemo, in sua natura [virtuosa], nobile esser
chiamata. 5. Dice dunque: Sì com’è ’l cielo
dovunqu’è la stella, e non è questo vero e converso,
cioè rivolto, che dovunque è cielo sia la stella, così
è nobilitade dovunque è vertude, e non vertude dovunque
nobilitade: e con bello e convenevole essemplo, chè veramente è
cielo ne lo quale molte e diverse stelle rilucono. Riluce in essa le intellettuali
e le morali virtudi; riluce in essa le buone disposizioni da natura date,
cioè pietade e religione, e le laudabili passioni, cioè vergogna
e misericordia e altre molte; riluce in essa le corporali bontadi, cioè
bellezza, fortezza e quasi perpetua valitudine. 6. E tante sono le sue
stelle, che [n]el cielo si stendono, che certo non è da maravigliare se
molti e diversi frutti fanno ne la umana nobilitade; tante sono le nature e le
potenze di quella, in una sotto una semplice sustanza comprese e adunate, ne le
quali sì come in diversi rami fruttifica diversamente. Certo da dovvero
ardisco a dire che la nobilitade umana, quanto è da la parte di molti
suoi frutti, quella de l’angelo soperchia, tutto che l’angelica in sua unitade
sia più divina. 7. Di questa nobilitade nostra, che in tanti e tali
frutti fruttificava, s’accorse lo Salmista, quando fece quel Salmo che
comincia: «Segnore nostro Iddio, quanto è ammirabile lo nome tuo ne
l’universa terra!», là dove commenda l’uomo, quasi maravigliandosi del
divino affetto in essa umana creatura, dicendo: «Che cosa è l’uomo, che
tu, Dio, lo visiti? Tu l’hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e
d’onore l’hai coronato, e posto lui sopra l’opere de le mani tue». Veramente
dunque bella e convenevole comparazione fu del cielo a l’umana nobilitade.
8. Poi quando dice: E noi in donna e in età
novella, pruova ciò che dico, mostrando che la nobilitade si stenda
in parte dove virtù non sia. E dice poi: vedem questa salute: e
tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là dove è
vergogna, cioè tema di disnoranza, sì come è ne le donne e
ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna
non è virtù, ma certa passione buona. 9. E dice: E noi
in donna e in età novella, cioè in giovani; però che,
secondo che vuole lo Filosofo nel quarto de l’Etica, «vergogna non è
laudabile nè sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi», però
che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano.
CAPITOLO XX.
1. Quando appresso seguita: Dunque verrà,
come dal nero il perso, procede lo testo a la diffinizione di nobilitade,
la qual si cerca, e per la quale si potrà vedere che è questa
nobilitade di che tanta gente erroneamente parla. Dice dunque, conchiudendo da
quello che dinanzi detto è: dunque ogni vertude, o vero il gener loro,
cioè l’abito elettivo consistente nel mezzo, verrà da questa,
cioè nobilitade. 2. E rende essemplo ne li colori, dicendo:
sì come lo perso dal nero discende, così questa, cioè
vertude, discende da nobilitade. Lo perso è uno colore misto di purpureo
e di nero, ma vince lo nero, e da lui si dinomina; e così la
vertù è una cosa mista di nobilitade e di passione; ma
perchè la nobilitade vince in quella, è la vertù
dinominata da essa, e appellata bontade. 3. Poi appresso argomenta, per
quello che detto è, che nessuno, per poter dire: ‘Io sono di cotale
schiatta’, non dee credere essere con essa, se questi frutti non sono in lui. E
rende incontanente ragione, dicendo che quelli che hanno questa grazia,
cioè questa divina cosa, sono quasi come dei, sanza macula
di vizio; e ciò dare non può se non Iddio solo, appo cui non
è scelta di persone, sì come le divine Scritture manifestano. 4.
E non paia troppo alto dire ad alcuno, quando si dice: Ch’elli son quasi dei;
chè, sì come di sopra nel settimo capitolo del terzo
trattato si ragiona, così come uomini sono vilissimi e bestiali,
così uomini sono nobilissimi e divini, e ciò pruova Aristotile
nel settimo de l’Etica per lo testo d’Omero poeta. 5. Sì che non
dica quelli de li Uberti di Fiorenza, nè quelli de li Visconti da
Melano: ‘Perch’io sono di cotale schiatta, io sono nobile’; chè ’l
divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le
singulari persone, e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non
fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe.
6. Poi, quando dice: Chè solo Iddio a
l’anima la dona, ragione è del suscettivo, cioè del subietto
dove questo divino dono discende: ch’è bene divino dono, secondo la
parola de l’Apostolo: «Ogni ottimo dato e ogni dono perfetto di suso viene,
discendendo dal padre de’ lumi». 7. Dice adunque che Dio solo porge
questa grazia a l’anima di quelli cui vede stare perfettamente ne la sua
persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere. Chè, secondo
dice lo Filosofo nel secondo de l’Anima, «le cose convengono essere disposte a
li loro agenti, e a ricevere li loro atti»; onde se l’anima è
imperfettamente posta, non è disposta a ricevere questa benedetta e
divina infusione: sì come se una pietra margarita è male
disposta, o vero imperfetta, la vertù celestiale ricever non può,
sì come disse quel nobile Guido Guinizzelli in una sua canzone, che
comincia: Al cor gentil ripara sempre Amore. 8. Puote adunque
l’anima stare non bene ne la persona per manco di complessione, o forse per
manco di temporale: e in questa cotale questo raggio divino mai non risplende.
E possono dire questi cotali, la cui anima è privata di questo lume, che
essi siano sì come valli volte ad aquilone, o vero spelunche
sotterranee, dove la luce del sole mai non discende, se non ripercussa da altra
parte da quella illuminata.
9. Ultimamente conchiude, e dice che, per quello che
dinanzi detto è (cioè che le vertudi sono frutto di nobilitade, e
che Dio questa metta ne l’anima che ben siede), che ad alquanti,
cioè a quelli che hanno intelletto, che sono pochi, è manifesto
che nobilitade umana non sia altro che ‘seme di felicitade’, messo da Dio ne
l’anima ben posta, cioè lo cui corpo è d’ogni parte disposto
perfettamente. Chè se le vertudi sono frutto di nobilitade, e felicitade
è dolcezza [per quelle] comparata, manifesto è essa nobilitade
essere semente di felicitade, come detto è. 10. E se bene si
guarda, questa diffinizione tutte e quattro le cagioni, cioè materiale,
formale, efficiente e finale, comprende: materiale in quanto dice: ne
l’anima ben posta, che è materia e subietto di nobilitade: formale
in quanto dice che è seme; efficiente in quanto dice: Messo da
Dio ne l’anima; finale in quanto dice: di felicità. E
così è diffinita questa nostra bontade, la quale in noi
similemente discende da somma e spirituale Virtude, come virtude in pietra da
corpo nobilissimo celestiale.
CAPITOLO XXI.
1. Acciò che più perfettamente s’abbia
conoscenza de la umana bontade, secondo che in noi è principio di tutto
bene, la quale nobilitade si chiama, da chiarire è in questo speziale
capitolo come questa bontade discende in noi; e prima per modo naturale,
e poi per modo teologico, cioè divino e spirituale.
6. Non si maravigli alcuno, s’io parlo sì che
par forte ad intendere; chè a me medesimo pare maraviglia, come cotale
produzione si può pur conchiudere e con lo intelletto vedere. Non
è cosa da manifestare a lingua, lingua, dico, veramente volgare. Per che
io voglio dire come l’Apostolo: «O altezza de le divizie de la sapienza di Dio,
come sono incomprensibili li tuoi giudicii e investigabili le tue vie!». 7.
E però che la complessione del seme puote essere migliore e men buona, e
la disposizione del seminante puote essere migliore e men buona, e la
disposizione del Cielo a questo effetto puote essere buona, migliore e ottima
(la quale si varia per le constellazioni, che continuamente si transmutano);
incontra che de l’umano seme e di queste vertudi più pura [e men pura]
anima si produce; e, secondo la sua puritade, discende in essa la vertude
intellettuale possibile che detta è, e come detto è. 8. E
s’elli avviene che, per la puritade de l’anima ricevente, la intellettuale
vertude sia bene astratta e assoluta da ogni ombra corporea, la divina bontade
in lei multiplica, sì come in cosa sufficiente a ricevere quella, e
quindi sì multiplica ne l’anima questa intelligenza, secondo che
ricevere puote. E questo è quel seme di felicitade del quale al presente
si parla. 9. E ciò è concordevole a la sentenza di Tullio
in quello De Senectute, che, parlando in persona di Catone, dice:
«Imperciò celestiale anima discese in noi, de l’altissimo abitaculo
venuta in loco lo quale a la divina natura e a la etternitade è
contrario». E in questa cotale anima è la vertude sua propria, e la
intellettuale, e la divina, cioè quella influenza che detta è:
però è scritto nel libro de le Cagioni: «Ogni anima nobile ha tre
operazioni, cioè animale, intellettuale e divina». 10. E sono
alcuni di tale oppinione che dicono, se tutte le precedenti vertudi
s’accordassero sovra la produzione d’un’anima ne la loro ottima disposizione,
che tanto discenderebbe in quella de la deitade, che quasi sarebbe un altro
Iddio incarnato. E quasi questo è tutto ciò che per via naturale
dicere si puote.
11. Per via teologica si può dire che, poi che
la somma deitade, cioè Dio, vede apparecchiata la sua creatura a
ricevere del suo beneficio, tanto largamente in quella ne mette quanto
apparecchiata è a riceverne. E però che da ineffabile caritate vegnono
questi doni, e la divina caritate sia appropriata a lo Spirito Santo, quindi
è che chiamati sono doni di Spirito Santo. 12. Li quali, secondo
che li distingue Isaia profeta, sono sette, cioè Sapienza, Intelletto,
Consiglio, Fortezza, Scienza, Pietade e Timore di Dio. Oh buone biade, e buona
e ammirabile sementa! e oh ammirabile e benigno seminatore, che non attende se
non che la natura umana li apparecchi la terra a seminare! e beati quelli che
tale sementa coltivano come si conviene! 13. Ove è da sapere che
’l primo e lo più nobile rampollo che germogli di questo seme, per
essere fruttifero, si è l’appetito de l’animo, lo quale in greco
è chiamato ‘hormen’. E se questo non è bene culto e sostenuto
diritto per buona consuetudine, poco vale la sementa, e meglio sarebbe non
essere seminato. 14. E però vuole santo Augustino, e ancora
Aristotile nel secondo de l’Etica, che l’uomo s’ausi a ben fare e a rifrenare
le sue passioni, acciò che questo tallo, che detto è, per buona
consuetudine induri, e rifermisi ne la sua rettitudine, sì che possa
fruttificare, e del suo frutto uscire la dolcezza de l’umana felicitade.
CAPITOLO XXII.
1. Comandamento è de li morali filosofi che de
li benefici hanno parlato, che l’uomo dee mettere ingegno e sollicitudine in
porgere li suoi benefici quanto puote [utili] più al ricevitore; onde
io, volendo a cotale imperio essere obediente, intendo questo mio Convivio per
ciascuna de le sue parti rendere utile quanto più mi sarà
possibile. 2. E però che in questa parte occorre a me di potere
alquanto ragionare [de l’umana felicitade, de la sua dolcezza ragionare]
intendo; chè più utile ragionamento fare non si può a
coloro che non la conoscono. Chè, sì come dice lo Filosofo nel
primo de l’Etica e Tullio in quello del Fine de’ Beni, male tragge al segno
quelli che nol vede; e così male può ire a questa dolcezza chi
prima non l’avvisa. 3. Onde, con ciò sia cosa che essa sia finale
nostro riposo, per lo quale noi vivemo e operiamo ciò che facemo,
utilissimo e necessario è questo segno vedere, per dirizzare a quello
l’arco de la nostra operazione. E massimamente è da gradire quelli che a
coloro che non veggiano l’addita.
4. Lasciando dunque stare l’oppinione che di quello
ebbe Epicuro filosofo, e di quello ebbe Zenone, venire intendo sommariamente a
la verace oppinione d’Aristotile e de li altri Peripatetici. Sì come
detto è di sopra, de la divina bontade, in noi seminata e infusa dal
principio de la nostra generazione, nasce uno rampollo, che li Greci chiamano
‘hormen’, cioè appetito d’animo naturale. 5. E sì come ne
le biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine ne
l’erba essendo, e poi si vengono per processo dissimigliando; così
questo naturale appetito, che de la divina grazia surge, dal principio quasi si
mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso,
sì come l’erbate quasi di diversi biadi, si simiglia. E non pur ne li
uomini, ma ne li uomini e ne le bestie ha similitudine; e [’n] questo appare,
che ogni animale, sì come elli è nato, razionale come bruto, se
medesimo ama, e teme e fugge quelle cose che a lui sono contrarie, e quelle
odia. 6. Procedendo poi, sì come detto è, comincia una
dissimilitudine tra loro, nel procedere di questo appetito, chè l’uno
tiene uno cammino e l’altro un altro. Sì come dice l’Apostolo: «Molti
corrono al palio, ma uno è quelli che ’l prende», così questi
umani appetiti per diversi calli dal principio se ne vanno, e uno solo calle
è quello che noi mena a la nostra pace. E però, lasciando stare
tutti li altri, col trattato è da tenere dietro a quello che bene
comincia.
7. Dico adunque che dal principio se stesso ama,
avvegna che indistintamente; poi viene distinguendo quelle cose che a lui sono
più amabili e meno, e più odibili [e meno], e seguita e fugge
più e meno, secondo la conoscenza distingue non solamente ne l’altre
cose, che secondamente ama, ma eziandio distingue in sè, che ama
principalmente. 8. E conoscendo in sè diverse parti, quelle che
in lui sono più nobili, più ama quelle; e con ciò sia cosa
che più [nobile] parte de l’uomo sia l’animo che ’l corpo, quello
più ama. E così, amando sè principalmente, e per sè
l’altre cose, e amando di sè la migliore parte più, manifesto
è che più ama l’animo che ’l corpo o che altra cosa: lo quale
animo naturalmente più che altra cosa dee amare. 9. Dunque, se la
mente si dil[et]ta sempre ne l’uso de la cosa amata, che è frutto
d’amore, [e] in quella cosa che massimamente è amata è l’uso
massimamente dilettoso, l’uso del nostro animo è massimamente dilettoso
a noi. E quello che massimamente è dilettoso a noi, quello è
nostra felicitade e nostra beatitudine, oltre la quale nullo diletto è
maggiore, nè nullo altro pare; sì come veder si puote, chi bene
riguarda la precedente ragione.
10. E non dicesse alcuno che ogni appetito sia animo;
chè qui s’intende animo solamente quello che spetta a la parte
razionale, cioè la volontade e lo intelletto; sì che se volesse
chiamare animo l’appetito sensitivo, qui non ha luogo, nè instanza puote
avere, chè nullo dubita che l’appetito razionale non sia più
nobile che ’l sensuale, e però più amabile: e così
è questo di che ora si parla. Veramente l’uso del nostro animo è
doppio, cioè pratico e speculativo (pratico è tanto quanto
operativo), l’uno e l’altro dilett[os]issimo, avvegna che quello del
contemplare sia più, sì come di sopra è narrato. 11.
Quello del pratico si è operare per noi virtuosamente, cioè
onestamente, con prudenza, con temperanza, con fortezza e con giustizia; quello
de lo speculativo si è non operare per noi, ma considerare l’opere di
Dio e de la natura. E questo [come] quell’altro è nostra beatitudine e
somma felicitade, sì come vedere si può; la quale è la
dolcezza del sopra notato seme, sì come omai manifestamente appare, a la
quale molte volte cotale seme non perviene per male essere coltivato, e per
essere disviata la sua pullulazione. 12. E similemente puote essere per
molta corr[e]zione e cultura; chè là dove questo seme dal
principio non cade, si puote inducere [n]el suo processo, sì che
perviene a questo frutto; ed è uno modo quasi d’insetare l’altrui natura
sopra diversa radice. E però nullo è che possa essere scusato;
chè se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote
avere per via d’insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che
s’insetassero, quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!
13. Veramente di questi usi l’uno è più
pieno di beatitudine che l’altro; sì come è lo speculativo, lo
quale sanza mistura alcuna è uso de la nostra nobilissima parte, la
quale, per lo radicale amore che detto è, massimamente è amabile,
sì com’è lo ’ntelletto. E questa parte in questa vita
perfettamente lo suo uso avere non puote - lo quale [è ved]ere [in
s]è Iddio ch’è sommo intelligibile -, se non in quanto considera
lui e mira lui per li suoi effetti. 14. E che noi domandiamo questa
beatitudine per somma, e non altra, cioè quella de la vita attiva, n’ammaestra
lo Vangelio di Marco, se bene quello volemo guardare. Dice Marco che Maria
Maddalena e Maria Iacobi e Maria Salomè andaro per trovare lo Salvatore
al monimento, e quello non trovaro; ma trovaro uno giovane vestito di bianco
che disse loro: «Voi domandate lo Salvatore, e io vi dico che non è qui;
e però non abbiate temenza, ma ite, e dite a li discepoli suoi e a Piero
che elli li precederà in Galilea; e quivi lo vedrete, sì come vi
disse». 15. Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la
vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al
monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di
corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non
la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo
la testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E
però Matteo disse: «L’angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse
la pietra e sedea sopra essa. E ’l suo aspetto era come folgore, e le sue
vestimenta erano come neve».
16. Questo angelo è questa nostra nobilitade
che da Dio viene, come detto è, che ne la nostra ragione parla, e dice a
ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine sue
ne la vita attiva, che non è qui; ma vada, e dicalo a li discepoli e a
Piero, cioè a coloro che ’l vanno cercando, e a coloro che sono sviati,
sì come Piero che l’avea negato, che in Galilea li precederà:
cioè che la beatitudine precederà noi in Galilea, cioè ne
la speculazione. 17. Galilea è tanto a dire quanto bianchezza.
Bianchezza è uno colore pieno di luce corporale più che nullo
altro; e così la contemplazione è più piena di luce
spirituale che altra cosa che qua giù sia. E dice: ‘Elli
precederà’; e non dice: ‘Elli sarà con voi’: a dare a intendere
che ne la nostra contemplazione Dio sempre precede, nè mai lui giugnere
potemo qui, lo quale è nostra beatitudine somma. E dice: ‘Quivi lo
vedrete, sì come disse’: cioè quivi avrete de la sua dolcezza,
cioè de la felicitade, sì come a voi è promesso qui;
cioè, sì come stabilito è che voi avere possiate. 18.
E così appare che nostra beatitudine (questa felicitade di cui si parla)
prima trovare potemo quasi imperfetta ne la vita attiva, cioè ne le
operazioni de le morali virtudi, e poi perfetta quasi ne le operazioni de le
intellettuali. Le quali due operazioni sono vie espedite e dirittissime a
menare a la somma beatitudine, la quale qui non si puote avere, come appare pur
per quello che detto è.
CAPITOLO XXIII.
1. Poi che dimostrata sufficientemente pare la diffinizione
di nobilitade, e quella per le sue parti, come possibile è stato,
è dichiarata, sì che vedere si puote omai che è lo nobile
uomo, da procedere pare a la parte del testo che comincia: L’anima cui
adorna esta bontate; ne la quale si mostrano li segni per li quali
conoscere si puote il nobile uomo che detto è. 2. E dividesi
questa parte in due: che ne la prima s’afferma che questa nobilitade luce e
risplende per tutta la vita del nobile, manifestamente; ne la seconda si
dimostra specificamente ne li suoi splendori, e comincia questa seconda parte: Ubidente,
soave e vergognosa.
3. Intorno de la prima è da sapere che questo
seme divino, di cui parlato è di sopra, ne la nostra anima incontanente
germoglia, mettendo e diversificando per ciascuna potenza de l’anima, secondo
la essigenza di quella. Germoglia dunque per la vegetativa, per la sensitiva e
per la razionale; e dibrancasi per le vertuti di quelle tutte, dirizzando
quelle tutte a le loro perfezioni, e in quelle sostenendosi sempre infino al
punto che, con quella parte de la nostra anima che mai non muore, a l’altissimo
e gloriosissimo seminadore al cielo ritorna. 4. E questo dice per quella
prima che detta è. Poi quando comincia: Ubidente, soave e vergognosa,
mostra quello per che potemo conoscere l’uomo nobile a li segni apparenti, che
sono, di questa bontade divina, operazione; e partesi questa parte in quattro,
secondo che per quattro etadi diversamente adopera, sì come per
l’adolescenza, per la gioventute, per la senettute e per lo senio. E comincia
la seconda parte: In giovinezza, temperata e forte; la terza comincia: E
ne la sua senetta; la quarta comincia: Poi ne la quarta parte de la vita.
In quest[o] è la sentenza di questa parte in generale. Intorno a la
quale si vuole sapere che ciascuno effetto, in quanto effetto è, riceve
la similitudine de la sua cagione, quanto è più possibile di
ritenere. 6. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita, sì
come detto è, ed ancora d’ogni vivente qua giù, sia causata dal
cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma
per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che ’l suo
movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e
dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando
e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d’arco assimiglianti. Tornando
dunque a la nostra, sola de la quale al presente s’intende, sì dico
ch’ella procede a imagine di questo arco, montando e discendendo.
7. Ed è da sapere che questo arco [di
giù, come l’arco] di su sarebbe eguale, se la materia de la nostra
seminale complessione non impedisse la regola de la umana natura. Ma
però che l’umido radicale [è] meno e più, e di migliore
qualitade e [men buona], e più ha durare [in uno] che in uno altro effetto
- lo qual è subietto e nutrimento del calore, che è nostra vita
-, avviene che l’arco de la vita d’un uomo è di minore e di maggiore
tesa che quello de l’altro. 8. E alcuna morte è violenta, o vero
per accidentale infertade affrettata; ma solamente quella che naturale è
chiamata dal vulgo, e che è, è quel termine del quale si dice per
lo Salmista: «Ponesti termine, lo quale passare non si può». E
però che lo maestro de la nostra vita Aristotile s’accorse di questo
arco di che ora si dice, parve volere che la nostra vita non fosse altro che
uno salire e uno scendere: però dice in quello dove tratta di Giovinezza
e di Vecchiezza, che giovinezza non è altro se non accrescimento di
quella. 9. Là dove sia lo punto sommo di questo arco, per quella
disaguaglianza che detta è di sopra, è forte da sapere; ma ne li
più io credo tra il trentesimo e quarantesimo anno, e io credo che ne li
perfettamente naturati esso ne sia nel trentacinquesimo anno. 10. E
muovemi questa ragione: che ottimamente naturato fue lo nostro salvatore
Cristo, lo quale volle morire nel trentaquattresimo anno de la sua etade;
chè non era convenevole la divinitade stare [in] cos[a] in
discresc[er]e, nè da credere è ch’elli non volesse dimorare in
questa nostra vita al sommo, poi che stato c’era nel basso stato de la
puerizia. 11. E ciò manifesta l’ora del giorno de la sua morte,
chè volle quella consimigliare con la vita sua; onde dice Luca che era
quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die. Onde si
può comprendere per quello ‘quasi’ che al trentacinquesimo anno di
Cristo era lo colmo de la sua etade.
12. Veramente questo arco non pur per mezzo si
distingue da le scritture; ma, seguendo le quattro combina[zioni] de le
contrarie qualitadi che sono ne la nostra composizione, a le quali pare essere
appropriata, dico a ciascuna, una parte de la nostra etade, in quattro parti si
divide, e chiamansi quattro etadi. 13. La prima è Adolescenza,
che s’appropria al caldo e a l’umido; la seconda si è Gioventute, che
s’appropria al caldo e al secco; la terza si è Senettute, che
s’appropria al freddo e al secco; la quarta si è Senio, che s’appropria
al freddo e a l’umido, secondo che nel quarto de la Metaura scrive Alberto. 14.
E queste parti si fanno simigliantemente ne l’anno, in primavera, in estate, in
autunno e in inverno; e nel die, ciò è infino a la terza, e poi
infino a la nona (lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte, per la ragione
che si discerne), e poi infino al vespero e dal vespero innanzi. E però
li gentili, cioè li pagani, diceano che ’l carro del sole avea quattro
cavalli: lo primo chiamavano Eoo, lo secondo Pirroi, lo terzo Eton, lo quarto
Flegon, secondo che scrive Ovidio nel secondo del Metamorfoseos. 15.
Intorno a le parti del giorno è brievemente da sapere che, come detto
è di sopra nel sesto del terzo trattato, la Chiesa usa, ne la
distinzione de le ore, [le ore] del dì temporali, che sono in ciascuno
die dodici, o grandi o piccole, secondo la quantitade del sole; e però
che la sesta ora, cioè lo mezzo die, è la più nobile di
tutto lo die e la più virtuosa, li suoi offici appressa quivi da ogni
parte, cioè da prima e di poi, quanto puote. 16. E però
l’officio de la prima parte del die, cioè la terza, si dice in fine di
quella; e quello de la terza parte e de la quarta si dice ne li principii. E
però si dice mezza terza, prima che suoni per quella parte; e mezza
nona, poi che per quella parte è sonato; e così mezzo vespero. E
però sappia ciascuno che, ne la diritta nona, sempre dee sonare nel
cominciamento de la settima ora del die: e questo basti a la presente
digressione.
1. Ritornando al proposito, dico che la umana vita si
parte per quattro etadi. La prima si chiama Adolescenzia, cioè
‘accrescimento di vita’; la seconda si chiama Gioventute, cioè ‘etade
che puote giovare’, cioè perfezione dare, e così s’intende
perfetta - chè nullo puote dare se non quello ch’elli ha -; la terza si
chiama Senettute; la quarta si chiama Senio, sì come di sopra detto
è.
2. De la prima nullo dubita, ma ciascuno savio s’accorda
ch’ella dura in fino al venticinquesimo anno; e però che infino a quel
tempo l’anima nostra intende a lo crescere e a lo abbellire del corpo, onde
molte e grandi transmutazioni sono ne la persona, non puote perfettamente la
razionale parte discernere. Per che la Ragione vuole che dinanzi a quella etade
l’uomo non possa certe cose fare sanza curatore di perfetta etade.
3. De la seconda, la quale veramente è colmo
de la nostra vita, diversamente è preso lo tempo da molti. Ma, lasciando
ciò che ne scrivono li filosofi e li medici, e tornando a la ragione
propria, dico che ne li più, ne li quali prendere si puote e dee ogni
naturale giudicio, quella etade è venti anni. E la ragione che
ciò mi dà si è che, se ’l colmo del nostro arco è
ne li trentacinque, tanto quanto questa etade ha di salita tanto dee avere di
scesa; e quella salita e quella scesa è quasi lo tenere de l’arco, nel
quale poco di flessione si discerne. 4. Avemo dunque che la gioventute
nel quarantacinquesimo anno si compie. E sì come l’adolescenzia è
in venticinque anni che precede, montando, a la gioventute, così lo
discendere, cioè la senettute, è [in] altrettanto tempo che
succede a la gioventute; e così si termina la senettute nel settantesimo
anno. 5. Ma però che l’adolescenza non comincia dal principio de
la vita, pigliandola per lo modo che detto è, ma presso a otto anni dopo
quell[o]; e però che la nostra natura si studia di salire, e a lo
scendere raffrena, però che lo caldo naturale è menomato, e puote
poco, e l’umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma p[ur]
in qualitade, sì ch’è meno vaporabile e consumabile), avviene che
oltre la senettute rimane de la nostra vita forse in quantitade di diece anni,
o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio. 6. Onde
avemo di Platone, del quale ottimamente si può dire che fosse naturato e
per la sua perfezione e per la fisonomia che di lui prese Socrate quando prima
lo vide, che esso vivette ottantuno anno, secondo che testimonia Tullio in
quello De Senectute. E io credo che se Cristo fosse stato non crucifisso, e
fosse vivuto lo spazio che la sua vita poteva secondo natura trapassare, elli
sarebbe a li ottantuno anno di mortale corpo in etternale transmutato.
7. Veramente, sì come di sopra detto è,
queste etadi possono essere più lunghe e più corte secondo la
complessione nostra e la composizione; ma, come elle siano in questa
proporzione, come detto è, in tutti mi pare da servare, cioè di
fare l’etadi in quelli cotali e più lunghe e meno secondo la integritade
di tutto lo tempo de la naturale vita. Per queste tutte etadi questa
nobilitade, di cui si parla, diversamente mostra li suoi effetti ne l’anima
nobilitata; e questo è quello che questa parte, sopra la quale al
presente si scrive, intende a dimostrare. 8. Dov’è da sapere che
la nostra buona e diritta natura ragionevolmente procede in noi, sì come
vedemo procedere la natura de le piante in quelle; e però altri costumi
e altri portamenti sono ragionevoli ad una etade più che ad altra, ne li
quali l’anima nobilitata ordinatamente procede per una semplice via, usando li
suoi atti ne li loro tempi ed etadi sì come a l’ultimo suo frutto sono
ordinati. E Tullio in ciò s’accorda in quello De Senectute. 9. E
lasciando lo figurato che di questo diverso processo de l’etadi tiene Virgilio
ne lo Eneida, e lasciando stare quello che Egidio eremita ne dice ne la prima
parte de lo Reggimento de’ Principi, e lasciando stare quello che ne tocca
Tullio in quello de li Offici, e seguendo solo quello che la ragione per
sè ne puote vedere, dico che questa prima etade è porta e via per
la quale s’entra ne la nostra buona vita. 10. E questa entrata conviene
avere di necessitade certe cose, le quali la buona natura, che non viene meno
ne le cose necessarie, ne dà; sì come vedemo che dà a la
vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e
lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto.
11. Dà adunque la buona natura a questa etade
quattro cose, necessarie a lo entrare ne la cittade del bene vivere. La prima
si è obedienza; la seconda soavitade; la terza vergogna; la quarta
adornezza corporale, sì come dice lo testo ne la prima particola. 12.
È dunque da sapere, che sì come quello che mai non fosse stato in
una cittade, non saprebbe tenere le vie sanza insegnamento di colui che l’hae
usata; così l’adolescente, che entra ne la selva erronea di questa vita,
non saprebbe tenere lo buono cammino, se da li suoi maggiori non li fosse
mostrato. Nè lo mostrare varrebbe, se a li loro comandamenti non fosse
obediente; e però fu a questa etade necessaria la obedienza. 13.
Ben potrebbe alcuno dire così: dunque potrà essere detto quelli
obediente che crederà li malvagi comandamenti, come quelli che
crederà li buoni? Rispondo che non fia quella obedienza, ma
transgressione: chè se lo re comanda una via e lo servo ne comanda
un’altra, non è da obedire lo servo; chè sarebbe disobedire lo re
e così sarebbe transgressione. 14. E però dice Salomone,
quando intende correggere suo figlio (e questo è lo primo suo
comandamento): «Audi, figlio mio, l’ammaestramento del tuo padre». E poi lo
rimuove incontanente da l’altrui reo consiglio e ammaestramento, dicendo: ‘Non
ti possano quello fare di lusinghe nè di diletto li peccatori, che tu
vadi con loro’. Onde, sì come, nato, tosto lo figlio a la tetta de la
madre s’apprende, così tosto, come alcuno lume d’animo in esso appare,
si dee volgere a la correzione del padre, e lo padre lui ammaestrare. 15.
E guardisi che non li dea di sè essemplo ne l’opera, che sia contrario a
le parole de la correzione: chè naturalmente vedemo ciascuno figlio
più mirare a le vestigie de li paterni piedi che a l’altre. E
però dice e comanda la Legge, che a ciò provede, che la persona
del padre sempre santa e onesta dee apparere a li suoi figli; e così
appare che la obedienza fue necessaria in questa etade. 16. E
però scrive Salomone ne li Proverbi, che quelli che umilemente e
obedientemente sostiene dal correttore le sue corrett[iv]e riprensioni,
«sarà glorioso»; e dice ‘sarà’, a dare ad intendere che elli
parla a lo adolescente, che non puote essere, ne la presente etade. E se alcuno
calunniasse: ‘Ciò che detto è, è pur del padre e non
d’altri’, dico che al padre si dee riducere ogni altra obedienza. 17.
Onde dice l’Apostolo a li Colossensi: «Figliuoli, obedite a li vostri padri per
tutte cose, per ciò che questo vuole Iddio». E se non è in vita
lo padre, riducere si dee a quelli che per lo padre è ne l’ultima
volontade in padre lasciato; e se lo padre muore intestato, riducere si dee a
colui cui la Ragione commette lo suo governo. 18. E poi deono essere
obediti maestri e maggiori, c[ui] in alcuno modo pare dal padre, o da quelli
che loco paterno tiene, essere commesso. Ma però che lungo è
stato lo capitolo presente per le utili digressioni che contiene, per
l’altro capitolo l’altre cose sono da ragionare.
CAPITOLO XXV.
1. Non solamente questa anima e natura buona in
adolescenza è obediente, ma eziandio soave; la quale cosa è
l’altra ch’è necessaria in questa etade a bene intrare ne la porta de la
gioventute. Necessaria è, poi che noi non potemo perfetta vita avere
sanza amici, sì come ne l’ottavo de l’Etica vuole Aristotile; e la
maggiore parte de l’amistadi si paiono seminare in questa etade prima, però
che in essa comincia l’uomo ad essere grazioso, o vero lo contrario: la quale
grazia s’acquista per soavi reggimenti, che sono dolce e cortesemente parlare,
dolce e cortesemente servire e operare. 2. E però dice Salomone a
lo adolescente figlio: «Li schernidori Dio li schernisce, e a li mansueti Dio
darà grazia». E altrove dice: «Rimuovi da te la mala bocca, e li altri
atti villani siano di lungi da te». Per che appare, che necessaria sia questa
soavitade, come detto è.
3. Anche è necessaria a questa etade la
passione de la vergogna; e però la buona e nobile natura in questa etade
la mostra, sì come lo testo dice. E però che la vergogna è
apertissimo segno in adolescenza di nobilitade, perchè quivi è
massimamente necessaria al buono fondamento de la nostra vita, a lo quale la
nobile natura intende, di quella è alquanto con diligenza da parlare. 4.
Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie al fondamento de la
nostra vita buona: l’una si è stupore; l’altra si è pudore; la
terza si è verecundia; avvegna che la volgare gente questa distinzione
non discerna. E tutte e tre queste sono necessarie a questa etade per questa
ragione: a questa etade è necessario d’essere reverente e disidiroso di
sapere; a questa etade è necessario d’essere rifrenato, sì che
non transvada; a questa etade è necessario d’essere penitente del fallo,
sì che non s’ausi a fallare. E tutte queste cose fanno le passioni sopra
dette, che vergogna volgarmente sono chiamate. 5. Chè lo stupore
è uno stordimento d’animo per grandi e maravigliose cose vedere o udire
o per alcuno modo sentire: che, in quanto paiono grandi, fanno reverente a
sè quelli che le sente; in quanto paiono mirabili, fanno voglioso di
sapere di quelle. E però li antichi regi ne le loro magioni faceano
magnifici lavorii d’oro e di pietre e d’artificio, acciò che quelli che
le vedessero divenissero stupidi, e però reverenti, e domandatori de le
condizioni onorevoli de lo rege. 6. E però dice Stazio, lo dolce
poeta, nel primo de la Tebana Istoria, che quando Adrasto, rege de li Argi, vide
Polinice coverto d’un cuoio di leone, e vide Tideo coverto d’un cuoio di porco
selvatico, e ricordossi del risponso che Apollo dato avea per le sue figlie,
che esso divenne stupido; e però più reverente e più
disideroso di sapere.
7. Lo pudore è uno ritraimento d’animo da
laide cose, con paura di cadere in quelle; sì come vedemo ne le vergini
e ne le donne buone e ne li adolescenti, che tanto sono pudici, che non
solamente là dove richesti o tentati sono di fallare, ma dove pure
alcuna imaginazione di venereo compimento avere si puote, tutti si dipingono ne
la faccia di palido o di rosso colore. 8. Onde dice lo sopra notato
poeta ne lo allegato libro primo di Tebe, che quando Aceste, nutrice d’Argia e
di Deifile, figlie d’Adrasto rege, le menò dinanzi da li occhi del santo
padre ne la presenza de li due peregrini, cioè Polinice e Tideo, le
vergini palide e rubicunde si fecero, e li loro occhi fuggiro da ogni altrui
sguardo, e solo ne la paterna faccia, quasi come sicuri, si tennero. 9.
Oh quanti falli rifrena esto pudore! quante disoneste cose e dimande fa tacere!
quante disoneste cupiditati raffrena! quante male tentazioni non pur ne la
pudica persona diffida, ma eziandio in quello che la guarda! quante laide
parole ritene! Chè, sì come dice Tullio nel primo de li Offici:
Nullo atto è laido, che non sia laido quello nominare; e però lo
pudico e nobile uomo mai non parla sì, che ad una donna non fossero
oneste le sue parole. Ahi quanto sta male a ciascuno nobile uomo che onore vada
cercando, menzionare cose che ne la bocca d’ogni donna stean male!
10. La verecundia è una paura di disonoranza
per fallo commesso; e di questa paura nasce un pentimento del fallo, lo quale
ha in sè una amaritudine che è gastigamento a più non
fallire. Onde dice questo medesimo poeta, in quella medesima parte, che quando
Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere, ch’elli dubitò
prima di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e
ancora per li falli d’Edippo suo padre, chè paiono rimanere in vergogna
del figlio; e non nominò suo padre, ma li antichi suoi e la terra e la
madre. Per che bene appare, vergogna essere necessaria in quella etade.
11. E non pure obedienza, soavitade e vergogna la
nobile natura in questa etade dimostra, ma dimostra bellezza e snellezza nel
corpo; sì come dice lo testo quando dice: E sua persona adorna. E
questo ‘adorna’ è verbo e non nome: verbo, dico, indicativo del tempo
presente in terza persona. Ove è da sapere che anco è necessaria
questa opera a la nostra buona vita; chè la nostra anima conviene grande
parte de le sue operazioni operare con organo corporale, e allora opera bene
che ’l corpo è bene per le sue parti ordinato e disposto. 12. E
quando elli è bene ordinato e disposto, allora è bello per tutto
e per le parti; chè l’ordine debito de le nostre membra rende uno
piacere non so di che armonia mirabile, e la buona disposizione, cioè la
sanitade, getta sopra quelle uno colore dolce a riguardare. 13. E
così dicere che la nobile natura lo suo corpo abbellisca e faccia conto
e accorto, non è altro a dire se non che l’acconcia a perfezione
d’ordine, e, co[sì questa come l’]altre cose che ragionate sono, appare
essere necessarie a l’adolescenza: le quali la nobile anima, cioè la
nobile natura, [dà, e] ad esse primamente intende, sì come cosa
che, come detto è, da la divina provedenza è seminata.
CAPITOLO XXVI.
1. Poi che sopra la prima particola di questa parte,
che mostra quello per che potemo conoscere l’uomo nobile a li segni apparenti,
è ragionato, da procedere è a la seconda parte, la quale
comincia: In giovinezza, temperata e forte. 2. Dice adunque che
sì come la nobile natura in adolescenza ubidente, soave e vergognosa,
e adornatrice de la sua persona si mostra, così ne la gioventute si fa temperata,
forte, amorosa, cortese e leale: le quali cinque cose paiono, e sono,
necessarie a la nostra perfezione, in quanto avemo rispetto a noi medesimi. 3.
E intorno di ciò si vuole sapere che tutto quanto la nobile natura
prepara ne la prima etade, è apparecchiato e ordinato per provedimento
di Natura universale, che ordina la particulare a sua perfezione. Questa
perfezione nostra si può doppiamente considerare. Puotesi considerare
secondo che ha rispetto a noi medesimi: e questa ne la nostra gioventute si dee
avere, che è colmo de la nostra vita. 4. Puotesi considerare
secondo che ha rispetto ad altri; e però che prima conviene essere
perfetto, e poi la sua perfezione comunicare ad altri, convienesi questa
secondaria perfezione avere appresso questa etade, cioè ne la senettute,
sì come di sotto si dicerà.
5. Qui adunque è da reducere a mente quello
che di sopra, nel ventiduesimo capitolo di questo trattato, si ragiona
de lo appetito che in noi dal nostro principio nasce. Questo appetito mai altro
non fa che cacciare e fuggire; e qualunque ora esso caccia quello che e quanto
si conviene, e fugge quello che e quanto si conviene, l’uomo è ne li
termini de la sua perfezione. 6. Veramente questo appetito conviene
essere cavalcato da la ragione; chè sì come uno sciolto cavallo,
quanto ch’ello sia di natura nobile, per sè, sanza lo buono cavalcatore,
bene non si conduce, così questo appetito, che irascibile e
concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, a la ragione obedire
conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere. 7.
Lo freno usa quando elli caccia, e chiamasi quello freno temperanza, la quale
mostra lo termine infino al quale è da cacciare; lo sprone usa quando
fugge, per lui tornare a lo loco onde fuggire vuole, e questo sprone si chiama
fortezza, o vero magnanimitate, la quale vertute mostra lo loco dove è
da fermarsi e da pugnare. 8. E così infrenato mostra Virgilio, lo
maggiore nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa
etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro
de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido
tanto di piacere quanto di sotto nel settimo trattato si dicerà, e
usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile
via e fruttuosa, come nel quarto de l’Eneida scritto è! 9. Quanto
spronare fu quello, quando esso Enea sostenette solo con Sibilla a intrare ne
lo Inferno a cercare de l’anima di suo padre Anchise, contra tanti pericoli,
come nel sesto de la detta istoria si dimostra! Per che appare che, ne la
nostra gioventute, essere a nostra perfezione ne convegna ‘temperati e forti’.
E questo fa e dimostra la buona natura, sì come lo testo dice
espressamente.
10. Ancora è a questa etade, a sua perfezione,
necessario d’essere amorosa; però che ad essa si conviene guardare
diretro e dinanzi, sì come cosa che è nel meridionale cerchio:
conviensi amare li suoi maggiori, da li quali ha ricevuto ed essere e
nutrimento e dottrina, sì che esso non paia ingrato; conviensi amare li
suoi minori, acciò che, amando quelli, dea loro de li suoi benefici, per
li quali poi ne la minore prosperitade esso sia da loro sostenuto e onorato. 11.
E questo amore mostra che avesse Enea lo nomato poeta nel quinto libro sopra
detto, quando lasciò li vecchi Troiani in Cicilia raccomandati ad
Aceste, e partilli da le fatiche; e quando ammaestrò in questo luogo
Ascanio, suo figliuolo, con li altri adolescentuli armeggiando. Per che appare
a questa etade necessario essere amare, come lo testo dice.
12. Ancora è necessario a questa etade essere
cortese; chè, avvegna che a ciascuna etade sia bello l’essere di cortesi
costumi, a questa è massimamente necessario; però che [lievemente
merita perdono l’adolescenza, se di cortesia manchi, per minoranza d’etade, e
però che,] nel contrario, non la puote avere la senettute, per la
gravezza sua e per la severitade che a lei si richiede; e così lo senio
maggiormente. 13. E questa cortesia mostra che avesse Enea questo
altissimo poeta, nel sesto sopra detto, quando dice che Enea rege, per onorare
lo corpo di Miseno morto, che era stato trombatore d’Ettore e poi s’era
raccomandato a lui, s’accinse e prese la scure ad aiutare tagliare le legne per
lo fuoco che dovea ardere lo corpo morto, come era di loro costume. Per che
bene appare questa essere necessaria a la gioventute, e però la nobile
anima in quella la dimostra, come detto è.
14. Ancora è necessario a questa etade essere
leale. Lealtade è seguire e mettere in opera quello che le leggi dicono,
e ciò massimamente si conviene a lo giovane: però che lo
adolescente, come detto è, per minoranza d’etade lievemente merita
perdono; lo vecchio per più esperienza dee essere giusto, e non
essaminatore di legge, se non in quanto lo suo diritto giudicio e la legge
è tutto uno quasi e, quasi sanza legge alcuna, dee giustamente sè
guidare: che non può fare lo giovane. E basti che esso seguiti la legge,
e in quella seguitare si diletti: sì come dice lo predetto poeta, nel
predetto quinto libro, che fece Enea, quando fece li giuochi in Cicilia ne
l’anniversario del padre; che ciò che promise per le vittorie, lealmente
diede poi a ciascuno vittorioso, sì come era di loro lunga usanza, che
era loro legge. 15. Per che è manifesto che a questa etade
lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza siano necessarie, sì
come dice lo testo che al presente è ragionato; e però la nobile
anima tutte le dimostra.
CAPITOLO XXVII.
1. Veduto e ragionato è assai sofficientemente
sopra quella particola che ’l testo pone, mostrando quelle probitadi che a la
gioventute presta la nobile anima; per che da intendere pare a la terza parte
che comincia: è ne la sua senetta, ne la quale intende lo testo
mostrare quelle cose che la nobile natura mostra e dee avere ne la terza etade,
cioè senettude. 2. E dice che l’anima nobile ne la senetta
sì è prudente, sì è giusta, sì è
larga, e allegra di dir bene in prode d’altrui e d’udire quello, cioè
che è affabile. E veramente queste quattro vertudi a questa etade sono
convenientissime. E a ciò vedere, è da sapere che, sì come
dice Tullio in quello De Senectute, «certo corso ha la nostra buona etade, e
una via semplice è quella de la nostra buona natura; e a ciascuna parte
de la nostra etade è data stagione a certe cose». 3. Onde
sì come a l’adolescenza dato è, com’è detto di sopra,
quello per che a perfezione e a maturitade venire possa, così a la
gioventute è data la perfezione, e [a la senettute] la maturitade
acciò che la dolcezza del suo frutto e a sè e ad altrui sia profittabile;
chè sì come Aristotile dice, l’uomo è animale civile, per
che a lui si richiede non pur a sè ma altrui essere utile. Onde si legge
di Catone che non a sè, ma a la patria e a tutto lo mondo nato esser
credea. 4. Dunque appresso la propria perfezione, la quale s’acquista ne
la gioventute, conviene venire quella che alluma non pur sè ma li altri;
e conviensi aprire l’uomo quasi com’una rosa che più chiusa stare non
puote, e l’odore che dentro generato è spandere: e questo conviene
essere in questa terza etade, che per mano corre. 5. Conviensi adunque
essere prudente, cioè savio: e a ciò essere si richiede buona
memoria de le vedute cose, buona conoscenza de le presenti e buona provedenza
de le future. E, sì come dice lo Filosofo nel sesto de l’Etica,
«impossibile è essere savio a chi non è buono», e però non
è da dire savio chi con sottratti e con inganni procede, ma è da
chiamare astuto; chè sì come nullo dicerebbe savio quelli che si
sapesse bene trarre de la punta d’uno coltello ne la pupilla de l’occhio,
così non è da dire savio quelli che ben sa una malvagia cosa
fare, la quale facendo, prima sè sempre che altrui offende.
6. Se bene si mira, da la prudenza vegnono li buoni
consigli, li quali conducono sè e altri a buono fine ne le umane cose e
operazioni; e questo è quello dono che Salomone, veggendosi al governo
del populo essere posto, chiese a Dio, sì come nel terzo libro de li
Regi è scritto. 7. Nè questo cotale prudente non attende
[chi] li domandi ‘Consigliami’, ma proveggendo per lui, sanza richesta colui
consiglia; sì come la rosa, che non pur a quelli che va a lei per lo suo
odore rende quello, ma eziandio a qualunque appresso lei va. 8. Potrebbe
qui dire alcuno medico o legista: ‘Dunque porterò io lo mio consiglio e
darollo eziandio che non mi sia chesto, e de la mia arte non averò
frutto?’ Rispondo, sì come dice nostro Signore: «A grado riceveste, a
grado e date». 9. Dico dunque, messer lo legista, che quelli consigli
che non hanno rispetto a la tua arte e che procedono solo da quel buono senno
che Dio ti diede (che è prudenza, de la quale si parla), tu non li dei
vendere a li figli di Colui che te l’ha dato: quelli che hanno rispetto a
l’arte, la quale hai comperata, vendere puoi; ma non sì che non si
convegnano alcuna volta decimare e dare a Dio, cioè a quelli miseri a
cui solo lo grado divino è rimaso.
10. Conviensi anche a questa etade essere giusto,
acciò che li suoi giudicii e la sua autoritade sia un lume e una legge a
li altri. E perchè questa singulare vertù, cioè giustizia,
fue veduta per li antichi filosofi apparire perfetta in questa etade, lo
reggimento de le cittadi commisero in quelli che in questa etade erano; e
però lo collegio de li rettori fu detto Senato. 11. Oh misera,
misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo,
qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! Ma però
che di giustizia nel penultimo trattato di questo volume si tratterà,
basti qui al presente questo poco avere toccato di quella.
12. Conviensi anche a questa etade essere largo;
però che allora si conviene la cosa quando più satisface al
debito de la sua natura, nè mai a lo debito de la larghezza non si
può satisfacere così come in questa etade. Chè se volemo
bene mirare al processo d’Aristotile nel quarto de l’Etica, e a quello di
Tullio in quello de li Offici, la larghezza vuole essere a luogo e a tempo,
tale che lo largo non noccia a sè nè ad altrui. 13. La
quale cosa avere non si puote sanza prudenza e sanza giustizia; le quali
virtudi anzi a questa etade avere perfette per via naturale è
impossibile. Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, che
rapite a li men possenti, che furate e occupate l’altrui ragioni; e di quelle
corredate conviti, donate cavalli e arme, robe e denari, portate le mirabili
vestimenta, edificate li mirabili edifici, e credetevi larghezza fare! 14.
E che è questo altro a fare che levare lo drappo di su l’altare e
coprire lo ladro la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, de le
vostre messioni, che del ladro che menasse a la sua casa li convitati, e la
tovaglia furata di su l’altare, con li segni ecclesiastici ancora, ponesse in
su la mensa e non credesse che altri se n’accorgesse. 15. Udite,
ostinati, che dice Tullio contro a voi nel libro de li Offici: «Sono molti,
certo desiderosi d’essere apparenti e gloriosi, che tolgono a li altri per dare
a li altri, credendosi buoni essere tenuti, [se li] arricchiscono per qual
ragione essere voglia. Ma ciò tanto è contrario a quello che far
si conviene, che nulla è più».
16. Conviensi anche a questa etade essere affabile,
ragionare lo bene, e quello udire volontieri: imperò che allora è
buono ragionare lo bene, quando esso è ascoltato. E questa etade pur ha
seco un’ombra d’autoritade, per la quale più pare che lei l’uomo ascolti
che nulla più tostana etade, e più belle e buone novelle pare
dover savere per la lunga esperienza de la vita. Onde dice Tullio in quello De
Senectute, in persona di Catone vecchio: «A me è ricresciuto e
volontà e diletto di stare in colloquio più ch’io non solea».
17. E che tutte e quattro queste cose convegnono a
questa etade, n’ammaestra Ovidio nel settimo Metamorfoseos, in quella favola
dove scrive come Cefalo d’Atene venne ad Eaco re per soccorso, ne la guerra che
Atene ebbe con Creti. Mostra che Eaco vecchio fosse prudente, quando, avendo per
pestilenza di corrompimento d’aere quasi tutto lo popolo perduto, esso
saviamente ricorse a Dio e a lui domandò lo ristoro de la morta gente; e
per lo suo senno, che a pazienza lo tenne e a Dio tornare lo fece, lo suo
popolo ristorato li fu maggiore che prima. 18. Mostra che esso fosse
giusto, quando dice che esso fu partitore a nuovo popolo e distributore de la
terra diserta sua. Mostra che fosse largo, quando disse a Cefalo dopo la
dimanda de lo aiuto: «O Atene, non domandate a me aiutorio, ma toglietevelo; e
non dite a voi dubitose le forze che ha questa isola. E tutto questo è
[lo] stato de le mie cose: forze non ci menomano, anzi ne sono a noi di
soperchio; e lo avversario è grande, e lo tempo da dare è, bene
avventuroso e sanza escusa». 19. Ahi quante cose sono da notare in
questa risposta! Ma a buono intenditore basti essere posto qui come Ovidio lo
pone. Mostra che fosse affabile, quando dice e ritrae per lungo sermone a
Cefalo la istoria de la pestilenza del suo popolo diligentemente, e lo ristoramento
di quello. 20. Per che assai è manifesto a questa etade essere
quattro cose convenienti; per che la nobile natura in essa le mostra, sì
come lo testo dice. E perchè più memorabile sia l’essemplo che
detto è, dice di Eaco re che questi fu padre di Telamon, [di Peleus] e
di Foco, del quale Telamon nacque Aiace, e di Peleus Achilles.
CAPITOLO XXVIII.
1. Appresso de la ragionata particola è da
procedere a l’ultima, cioè a quella che comincia: Poi ne la quarta
parte de la vita; per la quale lo testo intende mostrare quello che fa la
nobile anima ne l’ultima etade, cioè nel senio. 2. E dice ch’ella
fa due cose: l’una, che ella ritorna a Dio, sì come a quello porto onde
ella si partio quando venne ad intrare nel mare di questa vita; l’altra si
è che ella benedice lo cammino che ha fatto, però che è
stato diritto e buono e sanza amaritudine di tempesta. 3. E qui è
da sapere che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, la naturale
morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo. Ed è
così: [chè], come lo buono marinaio, come esso appropinqua al
porto, cala le sue vele, e soavemente, con debile conducimento, entra in
quello; così noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e
tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello
porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace. 4. E in ciò
avemo da la nostra propria natura grande ammaestramento di soavitade,
chè in essa cotale morte non è dolore nè alcuna
acerbitate, ma sì come uno pomo maturo leggiermente e sanza violenza si
dispicca dal suo ramo, così la nostra anima sanza doglia si parte dal
corpo ov’ella è stata. Onde Aristotile in quello De Iuventute et
Senectute dice che «sanza tristizia è la morte ch’è ne la
vecchiezza». 5. E sì come a colui che viene di lungo cammino,
anzi ch’entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini
di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare,
quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno per le sue buone
operazioni e contemplazioni: chè, già essendo a Dio renduta e
astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso
di Dio crede che siano. 6. Odi che dice Tullio, in persona di Catone
vecchio: «A me pare già vedere e levomi in grandissimo studio di vedere
li vostri padri, che io amai, e non pur quelli [che io stesso conobbi], ma
eziandio quelli di cui udi’ parlare». 7. Rendesi dunque a Dio la nobile
anima in questa etade, e attende lo fine di questa vita con molto desiderio e
uscir le pare de l’albergo e ritornare ne la propria mansione, uscir le pare di
cammino e tornare in cittade, uscir le pare di mare e tornare a porto. O miseri
e vili che con le vele alte correte a questo porto, e là ove dovereste
riposare, per lo impeto del vento rompete, e perdete voi medesimi là
dove tanto camminato avete! 8. Certo lo cavaliere Lancelotto non volse
entrare con le vele alte, nè lo nobilissimo nostro latino Guido
montefeltrano. Bene questi nobili calaro le vele de le mondane operazioni, che
ne la loro lunga etade a religione si rendero, ogni mondano diletto e opera
disponendo. 9. E non si puote alcuno escusare per legame di matrimonio,
che in lunga etade lo tegna; chè non torna a religione pur quelli che a
santo Benedetto, a santo Augustino, a santo Francesco e a santo Domenico si fa
d’abito e di vita simile, ma eziandio a buona e vera religione si può
tornare in matrimonio stando, chè Dio non volse religioso di noi se non
lo cuore. 10. E però dice santo Paulo a li Romani: «Non quelli
ch’è manifestamente, è Giudeo, nè quella ch’è manifesta
in carne è circuncisione; ma quelli ch’è in ascoso, è
Giudeo, e la circuncisione del cuore, in ispirito non in littera, è
circuncisione; la loda de la quale è non da li uomini, ma da Dio».
11. E benedice anco la nobile anima in questa etade li
tempi passati; e bene li può benedicere, però che, per quelli
rivolvendo la sua memoria, essa si rimembra de le sue diritte operazioni, sanza
le quali al porto, ove s’appressa, venire non si potea con tanta ricchezza
nè con tanto guadagno. 12. E fa come lo buono mercatante, che,
quando viene presso al suo porto, essamina lo suo procaccio e dice, ‘Se io non
fosse per cotal cammino passato, questo tesoro non avre’ io, e non avrei di
ch’io godesse ne la mia cittade, a la quale io m’appresso’; e però
benedice la via che ha fatta. 13. E che queste due cose convegnano a
questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la sua
Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo
che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Marzia s’intende la nobile
anima. 14. E potemo così ritrarre la figura a veritade. Marzia fu
vergine, e in quello stato si significa l’adolescenza; [poi si maritò] a
Catone, e in quello stato si significa la gioventute; fece allora figli, per li
quali si significano le vertudi che di sopra si dicono a li giovani convenire;
e partissi da Catone, e maritossi ad Ortensio, per che [si] significa che si
partì la gioventute e venne la senettute; fece figli di questo anche,
per che si significano le vertudi che di sopra si dicono convenire a la
senettute. 15. Morì Ortensio; per che si significa lo termine de
la senettute; e vedova fatta - per lo quale vedovaggio si significa lo senio -
tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si
significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo
terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo.
16. E che dice Marzia a Catone? «Mentre che in me fu
lo sangue», cioè la gioventute, «mentre che in me fu la maternale
vertute», cioè la senettute, che bene è madre de l’alte
[vertu]di, sì come di sopra è mostrato, «io» dice Marzia «feci e
compiei li tuoi comandamenti», cioè a dire che l’anima stette ferma a le
civili operazioni. Dice: «E tolsi due mariti», cioè a due etadi
fruttifera sono stata. 17. «Ora» dice Marzia «che ’l mio ventre è
lasso, e che io sono per li parti vota, a te mi ritorno, non essendo più
da dare ad altro sposo»; cioè a dire che la nobile anima, cognoscendosi
non avere più ventre da frutto, cioè li suoi membri sentendosi a
debile stato venuti, torna a Dio, colui che non ha mestiere de le membra
corporali. E dice Marzia: «Dammi li patti de li antichi letti, dammi lo nome
solo del maritaggio»; che è a dire che la nobile anima dire a Dio:
‘Dammi, Signor mio, omai lo riposo di te; dammi, almeno, che io in questa tanta
vita sia chiamata tua’. 18. E dice Marzia: «Due ragioni mi muovono a
dire questo: l’una si è che dopo di me si dica ch’io sia morta moglie di
Catone; l’altra, che dopo me si dica che tu non mi scacciasti, ma di buono
animo mi maritasti». 19. Per queste due cagioni si muove la nobile
anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa
fosse a Dio la sua [oper]azione. Oh sventurati e male nati, che innanzi volete
partirvi d’esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone! Nel nome di cui
è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare
si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte
etadi.
CAPITOLO XXIX.
1. Poi che mostrato [ha] lo testo quelli segni li
quali per ciascuna etade appaiono nel nobile uomo e per li quali conoscere si
puote, e sanza li quali essere non puote, come lo sole sanza luce e lo fuoco
sanza caldo, grida lo testo a la gente, a l’ultimo di ciò che di
nobilità è ritratto, e dice: ‘O voi che udito m’avete, vedete
quanti sono coloro che sono ingannati!’: cioè coloro che, per essere di
famose e antiche generazioni e per essere discesi di padri eccellenti, credono
essere nobili, nobilitade non avendo in loro. 2. E qui surgono due
quistioni, a le quali ne la fine di questo trattato è bello intendere.
Potrebbe dire ser Manfredi da Vico, che ora Pretore si chiama e Prefetto: ‘Come
che io mi sia, io reduco a memoria e rappresento li miei maggiori, che per loro
nobilitade meritaro l’officio de la Prefettura, e meritaro di porre mano a lo
coronamento de lo Imperio, meritaro di ricevere la rosa dal romano Pastore:
onore deggio ricevere e reverenza da la gente’. E questa è l’una
questione. 3. L’altra è, che potrebbe dire quelli da Santo
Nazzaro di Pavia, e quelli de li Piscitelli da Napoli: ‘Se la nobilitade
è quello che detto è, cioè seme divino ne la umana anima
graziosamente posto, e le progenie, o vero schiatte, non hanno anima, sì
come è manifesto, nulla progenie, o vero schiatta, nobile dicere si
potrebbe: e questo è contra l’oppinione di coloro che le nostre progenie
dicono essere nobilissime in loro cittadi’.
CAPITOLO XXX.
1. Come di sopra nel terzo capitolo di questo
trattato si dimostra, questa canzone ha tre parti principali. Per che,
ragionate le due (de le quali la prima cominciò nel capitolo predetto,
e la seconda nel sestodecimo; sicchè la prima per tredici e la seconda per
quattordici è determinata, sanza lo proemio del trattato de la canzone,
che in due capitoli si comprese), in questo trentesimo e ultimo capitolo, de la
terza parte principale brievemente è da ragionare, la quale per tornata
di questa canzone fatta fu ad alcuno adornamento, e comincia: Contra-li-erranti
mia, tu te n’andrai. 2. E qui primamente si vuole sapere che
ciascuno buono fabricatore, ne la fine del suo lavoro, quello nobilitare e
abbellire dee in quanto puote, acciò che più celebre e più
prezioso da lui si parta. E questo intendo, non come buono fabricatore ma come
seguitatore di quello, fare in questa parte.
3. Dico adunque: Contra-li-erranti mia. Questo
Contra-li-erranti è tutto una par[ola], e è nome d’esta
canzone, tolto per essemplo del buono frate Tommaso d’Aquino, che a uno suo
libro, che fece a confusione di tutti quelli che disviano da nostra Fede, puose
nome Contra-li-Gentili. 4. Dico adunque che ‘tu andrai’: quasi dica: ‘Tu
se’ omai perfetta, e tempo è di non stare ferma, ma di gire, chè la
tua impresa è grande’; e quando tu sarai In parte dove sia la donna
nostra, dille lo tuo mestiere. Ove è da notare che, sì come
dice nostro Signore, non si deono le margarite gittare innanzi a li porci,
però che a loro non è prode, e a le margarite è danno; e,
come dice Esopo poeta ne la prima Favola, più è prode al gallo
uno grano che una margarita, e però questa lascia e quello coglie. 5.
E in ciò considerando, a cautela di ciò comando a la canzone che
suo mestiere discuopra là dove questa donna, cioè la filosofia,
si troverà. Allora si troverà questa donna nobilissima quando si
truova la sua camera, cioè l’anima in cui essa alberga. Ed essa
filosofia non solamente alberga pur ne li sapienti, ma eziandio, come provato
è di sopra in altro trattato, essa è dovunque alberga l’amore di
quella. E a questi cotali dico che manifesti lo suo mestiere, perchè a
loro sarà utile la sua sentenza, e da loro ricolta.
6. E dico ad essa: Dì a questa donna, «Io
vo parlando de l’amica vostra». Bene è sua amica nobilitade; chè
tanto l’una con l’altra s’ama, che nobilitate sempre la dimanda, e filosofia
non volge lo sguardo suo dolcissimo a l’altra parte. Oh quanto e come bello
adornamento è questo che ne l’ultimo di questa canzone si dà ad
essa, chiamandola amica di quella la cui propria ragione è nel
secretissimo de la divina mente!
Testo secondo
l’edizione del Convivio Busnelli/Vandelli Firenze 19642
Testo scandito
e controllato da Roberto Gagliardi nell’aprile 1997