PRIVILEGIA NE IRROGANTO di
Mauro Novelli BIBLIOTECA
DANTE
LA DIVINA
COMMEDIA
CANTO I
[Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la
quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le
virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama
Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]
Nel mezzo del
cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a
dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant' è
amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.
Io non so ben
ridir com' i' v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch'i'
fui al piè d'un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor compunto,
guardai in alto
e vidi le sue spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la
paura un poco queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta pieta.
E come quei che
con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa e guata,
così
l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi
ch'èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi
al cominciar de l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si
partia dinanzi al volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.
Temp' era dal
principio del mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando l'amor divino
mosse di prima
quelle cose belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l'ora del tempo
e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un leone.
Questi parea
che contra me venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne tremesse.
Ed una lupa,
che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse
tanto di gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de l'altezza.
E qual è
quei che volontieri acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;
tal mi fece la
bestia sanza pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol tace.
Mentre ch'i'
rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi
costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi:
«Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub
Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e
cantai di quel giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.
Ma tu perché
ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se' tu quel
Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri
poeti onore e lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se' lo mio
maestro e 'l mio autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto onore.
Vedi la bestia
per cu' io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien
tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco selvaggio;
ché questa
bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;
e ha natura sì
malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che pria.
Molti son li
animali a cui s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non
ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.
Di quella umile
Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la
caccerà per ogne villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima dipartilla.
Ond' io per lo
tuo me' penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le
disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color
che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi
se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello
imperador che là sù regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città per me si vegna.
In tutte parti
impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi elegge!».
E io a lui:
«Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni
là dov' or dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse,
e io li tenni dietro.
CANTO II
[Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima
cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo
canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del
cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.]
Lo giorno se
n'andava, e l'aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m'apparecchiava
a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto
ingegno, or m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai:
«Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di
Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se
l'avversario d'ogne male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale
non pare
indegno ad omo d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel per padre eletto:
la quale e 'l
quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del maggior Piero.
Per quest'
andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo
Vas d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché
venirvi? o chi 'l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l crede.
Per che, se del
venire io m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».
E qual è
quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec'
ïo 'n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S'i' ho ben la
parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade offesa;
la qual molte
fïate l'omo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia quand' ombra.
Da questa tema
acciò che tu ti solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra
color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li
occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
"O anima
cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo lontana,
l'amico mio, e
non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per paura;
e temo che non
sia già sì smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con
la tua parola ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.
I' son Beatrice
che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando
sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia' io:
"O donna
di virtù sola per cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,
tanto m'aggrada
il tuo comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la
cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu
vuo' saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir qua entro.
Temer si dee di
sole quelle cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son paurose.
I' son fatta da
Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.
Donna è
gentil nel ciel che si compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese
Lucia in suo dimando
e disse: — Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando —.
Lucia, nimica
di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica Rachele.
Disse: —
Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto,
ch'uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la
pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? —.
Al mondo non
fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole fatte,
venni qua
giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".
Poscia che
m'ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.
E venni a te
così com' ella volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che
è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai
tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».
Quali fioretti
dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec' io
di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona franca:
«Oh pietosa
colei che mi soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti porse!
Tu m'hai con
disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo proposto.
Or va, ch'un
sol volere è d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
intrai per lo
cammino alto e silvestro.
CANTO III
[Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de
l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere
di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli
parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.]
'Per me si va
ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse
il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me
non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.
Queste parole
di colore oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».
Ed elli a me,
come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti
al loco ov' i' t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de l'intelletto».
E poi che la
sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri,
pianti e alti guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue,
orribili favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un
tumulto, il qual s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch'avea
d'error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel duol sì vinta?».
Ed elli a me:
«Questo misero modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono
a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i
ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».
E io: «Maestro,
che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non
hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.
Fama di loro il
mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che
riguardai, vidi una 'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea indegna;
e dietro le
venìa sì lunga tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse disfatta.
Poscia ch'io
v'ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente
intesi e certo fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici sui.
Questi
sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran ivi.
Elle rigavan
lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch'a
riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch'i' sappia
quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com' i' discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me:
«Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d'Acheronte».
Allor con li
occhi vergognosi e bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.
Ed ecco verso
noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate
mai veder lo cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.
E tu che se'
costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi partiva,
disse: «Per
altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E 'l duca lui:
«Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Quinci fuor
quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell'
anime, ch'eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole crude.
Bestemmiavano
Dio e lor parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si
ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio,
con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s'adagia.
Come d'autunno
si levan le foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il
mal seme d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen
vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna.
«Figliuol mio»,
disse 'l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui d'ogne paese;
e pronti sono a
trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non
passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».
Finito questo,
la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra
lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come
l'uom cui sonno piglia.
CANTO IV
[Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno,
luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti
uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non
conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo
molte anime.]
Ruppemi l'alto
sonno ne la testa
un greve truono, sì ch'io mi riscossi
come persona ch'è per forza desta;
e l'occhio
riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero è
che 'n su la proda mi trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.
Oscura e
profonda era e nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna cosa.
«Or discendiam
qua giù nel cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai secondo».
E io, che del
color mi fui accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser conforto?».
Ed elli a me:
«L'angoscia de le genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andiam, ché la via
lunga ne sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che l'abisso cigne.
Quivi, secondo
che per ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan tremare;
ciò
avvenia di duol sanza martìri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine e di viri.
Lo buon maestro
a me: «Tu non dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che più andi,
ch'ei non
peccaro; e s'elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede che tu credi;
e s'e' furon
dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai
difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi
prese al cor quando lo 'ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.
«Dimmi, maestro
mio, dimmi, segnore»,
comincia' io per volere esser certo
di quella fede che vince ogne errore:
«uscicci mai
alcuno, o per suo merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che 'ntese il mio parlar coverto,
rispuose: «Io
era nuovo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria coronato.
Trasseci
l'ombra del primo parente,
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e ubidente;
Abraàm
patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fé,
e altri molti,
e feceli beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati».
Non lasciavam
l'andar perch' ei dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti spessi.
Non era lunga
ancor la nostra via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre vincia.
Di lungi
n'eravamo ancora un poco,
ma non sì ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea quel loco.
«O tu ch'onori
scïenzïa e arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me:
«L'onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu
per me udita:
«Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era dipartita».
Poi che la voce
fu restata e queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro
cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è
Omero poeta sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.
Però che
ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così
vid' i' adunar la bella scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila vola.
Da ch'ebber
ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di tanto;
e più
d'onore ancora assai mi fenno,
ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.
Così
andammo infino a la lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com' era 'l parlar colà dov' era.
Venimmo al
piè d'un nobile castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel fiumicello.
Questo passammo
come terra dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca verdura.
Genti v'eran
con occhi tardi e gravi,
di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci
così da l'un de' canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti quanti.
Colà
diritto, sovra 'l verde smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso m'essalto.
I' vidi Eletra
con molti compagni,
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi grifagni.
Vidi Cammilla e
la Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto
che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l Saladino.
Poi ch'innalzai
un poco più le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran,
tutti onor li fanno:
quivi vid' ïo Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;
Democrito che
'l mondo a caso pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e Zenone;
e vidi il buono
accoglitor del quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca morale;
Euclide
geomètra e Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che 'l gran comento feo.
Io non posso
ritrar di tutti a pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il dir vien meno.
La sesta
compagnia in due si scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura che trema.
E vegno in
parte ove non è che luca.
CANTO V
[Canto quinto, nel quale mostra del
secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne
la persona di più famosi gentili uomini.]
Così
discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi
Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo ch'avvinghia.
Dico che quando
l'anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco
d'inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi
a lui ne stanno molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù volte.
«O tu che vieni
al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto offizio,
«guarda com'
entri e di cui tu ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo
suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian
le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in
loco d'ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera
infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon
davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch'a
così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li
stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di
là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru
van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo guai,
ombre portate
da la detta briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì gastiga?».
«La prima di
color di cui novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte favelle.
A vizio di
lussuria fu sì rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era condotta.
Ell' è
Semiramìs, di cui si legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan corregge.
L'altra
è colei che s'ancise amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs lussurïosa.
Elena vedi, per
cui tanto reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine combatteo.
Vedi
Parìs, Tristano»; e più di mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita dipartille.
Poscia ch'io
ebbi 'l mio dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I' cominciai:
«Poeta, volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggieri».
Ed elli a me:
«Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto
come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol niega!».
Quali colombe dal
disio chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal voler portate;
cotali uscir de
la schiera ov' è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso grido.
«O animal
grazïoso e benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico
il re de l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che
udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra
dove nata fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci sui.
Amor, ch'al cor
gentil ratto s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende.
Amor, ch'a
nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m'abbandona.
Amor condusse
noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand' io
intesi quell' anime offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando
rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi
a loro e parla' io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al
tempo d'i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me:
«Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore.
Ma s'a conoscer
la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo
un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più
fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo
il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi
basciò tutto tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che
l'uno spirto questo disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io morisse.
E caddi come
corpo morto cade.
CANTO VI
[Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e
tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un
fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio
Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la
città di Fiorenza.]
Al tornar de la
mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse,
novi tormenti e
novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati.
Io sono al
terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l'è nova.
Grandine
grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.
Cerbero, fiera
crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha
vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la
pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci
scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E 'l duca mio
distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.
Qual è
quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna,
cotai si fecer
quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde.
Noi passavam su
per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean
per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se'
per questo 'nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto».
E io a lui:
«L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu
se' che 'n sì dolente
loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me:
«La tua città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini
mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima
trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi:
«Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de
la città partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita».
E quelli a me:
«Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione.
Poi appresso
convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte
terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti.
Giusti son due,
e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi».
Qui puose fine
al lagrimabil suono.
E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e 'l
Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni,
dimmi ove sono
e fa ch'io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca».
E quelli: «Ei
son tra l'anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu
sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo».
Li diritti
occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi.
E 'l duca disse
a me: «Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta:
ciascun
rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba».
Sì
trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura;
per ch'io
dissi: «Maestro, esti tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?».
Ed elli a me:
«Ritorna a tua scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa
gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta».
Noi aggirammo a
tondo quella strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo
Pluto, il gran nemico.
CANTO VII
[Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e
alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de
la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.]
«Pape
Satàn, pape Satàn aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per
confortarmi: «Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender questa roccia».
Poi si rivolse
a quella 'nfiata labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è
sanza cagion l'andare al cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo strupo».
Quali dal vento
le gonfiate vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera crudele.
Così
scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto insacca.
Ahi giustizia
di Dio! tante chi stipa
nove travaglie e pene quant' io viddi?
e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l'onda
là sovra Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
Qui vid' i'
gente più ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand' urli,
voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi
'ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e «Perché burli?».
Così
tornavan per lo cerchio tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea
ciascun, quand' era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo cor quasi compunto,
dissi: «Maestro
mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la sinistra nostra».
Ed elli a me:
«Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce
lor chiaro l'abbaia,
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor
cherci, che non han coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo soperchio».
E io: «Maestro,
tra questi cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti mali».
Ed elli a me:
«Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno
verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi.
Mal dare e mal
tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi,
figliuol, veder la corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente si rabuffa;
ché tutto l'oro
ch'è sotto la luna
e che già fu, di quest' anime stanche
non poterebbe farne posare una».
«Maestro mio»,
diss' io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?».
E quelli a me:
«Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tu mia sentenza ne 'mbocche.
Colui lo cui
saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch'ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo
igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse
a tempo li ben vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i senni umani;
per ch'una gente
impera e l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l'angue.
Vostro saver
non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue
permutazion non hanno triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest' è
colei ch'è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella
s'è beata e ciò non ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo
omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo star si vieta».
Noi ricidemmo
il cerchio a l'altra riva
sovr' una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei deriva.
L'acqua era
buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via diversa.
In la palude va
c'ha nome Stige
questo tristo ruscel, quand' è disceso
al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di
mirare stava inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si
percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a brano a brano.
Lo buon maestro
disse: «Figlio, or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo credi
che sotto
l'acqua è gente che sospira,
e fanno pullular quest' acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u' che s'aggira.
Fitti nel limo
dicon: "Tristi fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci
attristiam ne la belletta negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con parola integra».
Così
girammo de la lorda pozza
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
Venimmo al piè
d'una torre al da sezzo.
CANTO VIII
[Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e
alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona
d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio
Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno
detta Dite.]
Io dico,
seguitando, ch'assai prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso a la cima
per due
fiammette che i vedemmo porre,
e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio tòrre.
E io mi volsi
al mar di tutto 'l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell' altro foco? e chi son quei che 'l fenno?».
Ed elli a me:
«Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti nasconde».
Corda non pinse
mai da sé saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com' io vidi una nave piccioletta
venir per
l'acqua verso noi in quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta, anima fella!».
«Flegïàs,
Flegïàs, tu gridi a vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol passando il loto».
Qual è
colui che grande inganno ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l'ira accolta.
Lo duca mio
discese ne la barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand' io fui dentro parve carca.
Tosto che 'l
duca e io nel legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi
corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni anzi ora?».
E io a lui:
«S'i' vegno, non rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango».
E io a lui:
«Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo tutto».
Allor distese
al legno ambo le mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».
Lo collo poi
con le braccia mi cinse;
basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n te s'incinse!
Quei fu al
mondo persona orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui furïosa.
Quanti si
tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili dispregi!».
E io: «Maestro,
molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago».
Ed elli a me:
«Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda».
Dopo ciò
poco vid' io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti
gridavano: «A Filippo Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co' denti.
Quivi il
lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio intento sbarro.
Lo buon maestro
disse: «Omai, figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col grande stuolo».
E io: «Maestro,
già le sue meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco uscite
fossero». Ed ei
mi disse: «Il foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo basso inferno».
Noi pur
giugnemmo dentro a l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che ferro fosse.
Non sanza prima
far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui è l'intrata».
Io vidi
più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno
de la morta gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero
un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni
per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor,
se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca
mio, che più di sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi stette,
non mi
lasciar», diss' io, «così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme nostre insieme ratto».
E quel segnor
che lì m'avea menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n'è dato.
Ma qui
m'attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen
va, e quivi m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti
quello ch'a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le
porte que' nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la
terra e le ciglia avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le dolenti case!».
E a me disse:
«Tu, perch' io m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension dentro s'aggiri.
Questa lor
tracotanza non è nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr' essa
vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui
ne fia la terra aperta».
CANTO IX
[Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite,
la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la
qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a
Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra
fiata.]
Quel color che
viltà di fuor mi pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo ristrinse.
Attento si
fermò com' uom ch'ascolta;
ché l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la nebbia folta.
«Pur a noi
converrà vincer la punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
Oh
quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».
I' vidi ben
sì com' ei ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le prime diverse;
ma nondimen
paura il suo dir dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che non tenne.
«In questo
fondo de la trista conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza cionca?».
Questa question
fec' io; e quei «Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per qual io vado.
Ver è
ch'altra fïata qua giù fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l'ombre a' corpi sui.
Di poco era di
me la carne nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del cerchio di Giuda.
Quell' è
'l più basso loco e 'l più oscuro,
e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin; però ti fa sicuro.
Questa palude
che 'l gran puzzo spira
cigne dintorno la città dolente,
u' non potemo intrare omai sanz' ira».
E altro disse,
ma non l'ho a mente;
però che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima rovente,
dove in un
punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre
verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte.
E quei, che ben
conobbe le meschine
de la regina de l'etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine.
Quest' è
Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto.
Con l'unghie si
fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch'i' mi strinsi al poeta per sospetto.
«Vegna Medusa:
sì 'l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l'assalto».
«Volgiti 'n
dietro e tien lo viso chiuso;
ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così
disse 'l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi.
O voi ch'avete
li 'ntelletti sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi strani.
E già
venìa su per le torbide onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le sponde,
non altrimenti
fatto che d'un vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun rattento
li rami
schianta, abbatte e porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li pastori.
Li occhi mi
sciolse e disse: «Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove quel fummo è più acerbo».
Come le rane
innanzi a la nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna s'abbica,
vid' io
più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le piante asciutte.
Dal volto
rimovea quell' aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea lasso.
Ben m'accorsi
ch'elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch'i' stessi queto ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi
parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe alcun ritegno.
«O cacciati del
ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l'orribil soglia,
«ond' esta oltracotanza in voi s'alletta?
Perché recalcitrate
a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v'ha cresciuta doglia?
Che giova ne le
fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e 'l gozzo».
Poi si rivolse
per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d'omo cui altra cura stringa e morda
che quella di
colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole sante.
Dentro li
'ntrammo sanz' alcuna guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza serra,
com' io fui
dentro, l'occhio intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di tormento rio.
Sì come
ad Arli, ove Rodano stagna,
sì com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini bagna,
fanno i
sepulcri tutt' il loco varo,
così facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era più amaro;
ché tra li
avelli fiamme erano sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun' arte.
Tutti li lor
coperchi eran sospesi,
e fuor n'uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e d'offesi.
E io: «Maestro,
quai son quelle genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri dolenti?».
E quelli a me:
«Qui son li eresïarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
più che non credi son le tombe carche.
Simile qui con
simile è sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch'a la man destra si fu vòlto,
passammo tra i
martìri e li alti spaldi.
CANTO X
[Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la
pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata
predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.]
Ora sen va per
un secreto calle,
tra 'l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle.
«O virtù
somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei disiri.
La gente che
per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia face».
E quelli a me:
«Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da
questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno.
Però a
la dimanda che mi faci
quinc' entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci».
E io: «Buon
duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a ciò disposto».
«O Tosco che
per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco.
La tua loquela
ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto».
Subitamente
questo suono uscìo
d'una de l'arche; però m'accostai,
temendo, un poco più al duca mio.
Ed el mi disse:
«Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l vedrai».
Io avea
già il mio viso nel suo fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a gran dispitto.
E l'animose man
del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com' io al
piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».
Io ch'era
d'ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levò le ciglia un poco in suso;
poi disse:
«Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi».
«S'ei fur
cacciati, ei tornar d'ogne parte»,
rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell' arte».
Allor surse a
la vista scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in ginocchie levata.
Dintorno mi
guardò, come talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto spento,
piangendo
disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' è? e perché non è teco?».
E io a lui: «Da
me stesso non vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno».
Le sue parole e
'l modo de la pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena.
Di
sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?».
Quando
s'accorse d'alcuna dimora
ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
Ma quell' altro
magnanimo, a cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa;
e sé
continüando al primo detto,
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto.
Ma non
cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell' arte pesa.
E se tu mai nel
dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr' a' miei in ciascuna sua legge?».
Ond' io a lui:
«Lo strazio e 'l grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch'ebbe
sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso.
Ma fu' io solo,
là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto».
«Deh, se riposi
mai vostra semenza»,
prega' io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia sentenza.
El par che voi
veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo».
«Noi veggiam,
come quei c'ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando
s'appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano.
Però
comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta».
Allor, come di
mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co' vivi ancor congiunto;
e s'i' fui,
dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava
già ne l'error che m'avete soluto».
E già 'l
maestro mio mi richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu' istava.
Dissemi: «Qui
con più di mille giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi taccio».
Indi s'ascose;
e io inver' l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico.
Elli si mosse;
e poi, così andando,
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando.
«La mente tua
conservi quel ch'udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò 'l dito:
«quando sarai
dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio».
Appresso mosse
a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a una valle fiede,
che 'nfin
là sù facea spiacer suo lezzo.
CANTO XI
[Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto
d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi
più che altrove; e solve una questione.]
In su
l'estremità d'un'alta ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele stipa;
e quivi, per
l'orribile soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in dietro, ad un coperchio
d'un grand'
avello, ov' io vidi una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la via dritta'.
«Lo nostro
scender conviene esser tardo,
sì che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e poi no i fia riguardo».
Così 'l
maestro; e io «Alcun compenso»,
dissi lui, «trova che 'l tempo non passi
perduto». Ed elli: «Vedi ch'a ciò penso».
«Figliuol mio,
dentro da cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado, come que' che lassi.
Tutti son pien
di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son costretti.
D'ogne malizia,
ch'odio in cielo acquista,
ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode
è de l'uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più dolor li assale.
Di
vïolenti il primo cerchio è tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al
prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta ragione.
Morte per forza
e ferute dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e
ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere
in sé man vïolenta
e ne' suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva
sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov' esser de' giocondo.
Puossi far
forza ne la deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua bontade;
e però
lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond'
ogne coscïenza è morsa,
può l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di
retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida
ipocresia,
lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura.
Per l'altro
modo quell' amor s'oblia
che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si cria;
onde nel
cerchio minore, ov' è 'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è consunto».
E io: «Maestro,
assai chiara procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e 'l popol ch'e' possiede.
Ma dimmi: quei
de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con sì aspre lingue,
perché non
dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a tal foggia?».
Ed elli a me
«Perché tanto delira»,
disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra
di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
le tre disposizion che 'l ciel non vole,
incontenenza,
malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi
ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
che sù di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben
perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
la divina vendetta li martelli».
«O sol che sani
ogne vista turbata,
tu mi contenti sì quando tu solvi,
che, non men che saver, dubbiar m'aggrata.
Ancora in
dietro un poco ti rivolvi»,
diss' io, «là dove di' ch'usura offende
la divina bontade, e 'l groppo solvi».
«Filosofia», mi
disse, «a chi la 'ntende,
nota, non pure in una sola parte,
come natura lo suo corso prende
dal divino
'ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
tu troverai, non dopo molte carte,
che l'arte
vostra quella, quanto pote,
segue, come 'l maestro fa 'l discente;
sì che vostr' arte a Dio quasi è nepote.
Da queste due,
se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
prender sua vita e avanzar la gente;
e perché
l'usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
dispregia, poi ch'in altro pon la spene.
Ma seguimi
oramai che 'l gir mi piace;
ché i Pesci guizzan su per l'orizzonta,
e 'l Carro tutto sovra 'l Coro giace,
e 'l balzo via
là oltra si dismonta».
CANTO XII
[Canto XII, ove tratta del discendimento nel settimo cerchio
d'inferno, e de le pene di quelli che fecero forza in persona de' tiranni, e
qui tratta di Minotauro e del fiume del sangue, e come per uno centauro furono
scorti e guidati sicuri oltre il fiume.]
Era lo loco ov'
a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v'er' anco,
tal, ch'ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è
quella ruina che nel fianco
di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del
monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel
burrato era la scesa;
e 'n su la punta de la rotta lacca
l'infamïa di Creti era distesa
che fu concetta
ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l'ira dentro fiacca.
Lo savio mio
inver' lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia 'l duca d'Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti,
bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene».
Qual è
quel toro che si slaccia in quella
c'ha ricevuto già 'l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid' io lo
Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch'e' 'nfuria, è buon che tu ti cale».
Così
prendemmo via giù per lo scarco
di quelle pietre, che spesso moviensi
sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia
pensando; e quei disse: «Tu pensi
forse a questa ruina, ch'è guardata
da quell' ira bestial ch'i' ora spensi.
Or vo' che
sappi che l'altra fïata
ch'i' discesi qua giù nel basso inferno,
questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco
pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
levò a Dite del cerchio superno,
da tutte parti
l'alta valle feda
tremò sì, ch'i' pensai che l'universo
sentisse amor, per lo qual è chi creda
più
volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li
occhi a valle, ché s'approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia».
Oh cieca
cupidigia e ira folle,
che sì ci sproni ne la vita corta,
e ne l'etterna poi sì mal c'immolle!
Io vidi
un'ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto 'l piano abbraccia,
secondo ch'avea detto la mia scorta;
e tra 'l
piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette,
come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci
calar, ciascun ristette,
e de la schiera tre si dipartiro
con archi e asticciuole prima elette;
e l'un
gridò da lungi: «A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
Ditel costinci; se non, l'arco tiro».
Lo mio maestro
disse: «La risposta
farem noi a Chirón costà di presso:
mal fu la voglia tua sempre sì tosta».
Poi mi
tentò, e disse: «Quelli è Nesso,
che morì per la bella Deianira,
e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo,
ch'al petto si mira,
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
quell' altro è Folo, che fu sì pien d'ira.
Dintorno al
fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
del sangue più che sua colpa sortille».
Noi ci
appressammo a quelle fiere isnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s'ebbe
scoperta la gran bocca,
disse a' compagni: «Siete voi accorti
che quel di retro move ciò ch'el tocca?
Così non
soglion far li piè d'i morti».
E 'l mio buon duca, che già li er' al petto,
dove le due nature son consorti,
rispuose: «Ben
è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
necessità 'l ci 'nduce, e non diletto.
Tal si
partì da cantare alleluia
che mi commise quest' officio novo:
non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella
virtù per cu' io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
danne un de' tuoi, a cui noi siamo a provo,
e che ne mostri
là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
ché non è spirto che per l'aere vada».
Chirón si volse
in su la destra poppa,
e disse a Nesso: «Torna, e sì li guida,
e fa cansar s'altra schiera v'intoppa».
Or ci movemmo
con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente
sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: «E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio.
Quivi si
piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte
c'ha 'l pel così nero,
è Azzolino; e quell' altro ch'è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal
figliastro sù nel mondo».
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
«Questi ti sia or primo, e io secondo».
Poco più
oltre il centauro s'affisse
sovr' una gente che 'nfino a la gola
parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci
un'ombra da l'un canto sola,
dicendo: «Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che 'n su Tamisi ancor si cola».
Poi vidi gente
che di fuor del rio
tenean la testa e ancor tutto 'l casso;
e di costoro assai riconobb' io.
Così a
più a più si facea basso
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
e quindi fu del fosso il nostro passo.
«Sì come
tu da questa parte vedi
lo bulicame che sempre si scema»,
disse 'l centauro, «voglio che tu credi
che da quest'
altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch'el si raggiunge
ove la tirannia convien che gema.
La divina
giustizia di qua punge
quell' Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che
col bollor diserra,
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra».
Poi si rivolse
e ripassossi 'l guazzo.
CANTO XIII
[Canto XIII, ove tratta de l'esenzia del secondo girone
ch'è nel settimo circulo, dove punisce coloro ch'ebbero contra sé medesimi
violenta mano, ovvero non uccidendo sé ma guastando i loro beni.]
Non era ancor
di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato.
Non fronda
verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e 'nvolti;
non pomi v'eran, ma stecchi con tòsco.
Non han
sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che 'n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte
Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late,
e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto 'l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani.
E 'l buon
maestro «Prima che più entre,
sappi che se' nel secondo girone»,
mi cominciò a dire, «e sarai mentre
che tu verrai
ne l'orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai
cose che torrien fede al mio sermone».
Io sentia
d'ogne parte trarre guai
e non vedea persona che 'l facesse;
per ch'io tutto smarrito m'arrestai.
Cred' ïo
ch'ei credette ch'io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse.
Però
disse 'l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d'una d'este piante,
li pensier c'hai si faran tutti monchi».
Allor porsi la
mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e 'l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?».
Da che fatto fu
poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e
or siam fatti sterpi:
ben dovrebb' esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi».
Come d'un
stizzo verde ch'arso sia
da l'un de' capi, che da l'altro geme
e cigola per vento che va via,
sì de la
scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond' io lasciai la cima
cadere, e stetti come l'uom che teme.
«S'elli avesse
potuto creder prima»,
rispuose 'l savio mio, «anima lesa,
ciò c'ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in
te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch'a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu
fosti, sì che 'n vece
d'alcun' ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece».
E 'l tronco:
«Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch' ïo un poco a ragionar m'inveschi.
Io son colui
che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto
suo quasi ogn' uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch'i' ne perde' li sonni e ' polsi.
La meretrice
che mai da l'ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio,
infiammò
contra me li animi tutti;
e li 'nfiammati infiammar sì Augusto,
che ' lieti onor tornaro in tristi lutti.
L'animo mio,
per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici
d'esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d'onor sì degno.
E se di voi
alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che 'nvidia le diede».
Un poco attese,
e poi «Da ch'el si tace»,
disse 'l poeta a me, «non perder l'ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace».
Ond' ïo a
lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch'a me satisfaccia;
ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora».
Perciò
ricominciò: «Se l'om ti faccia
liberamente ciò che 'l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come
l'anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s'alcuna mai di tai membra si spiega».
Allor
soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte
l'anima feroce
dal corpo ond' ella stessa s'è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la
selva, e non l'è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in
vermena e in pianta silvestra:
l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l'altre
verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.
Qui le
strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta».
Noi eravamo
ancora al tronco attesi,
credendo ch'altro ne volesse dire,
quando noi fummo d'un romor sorpresi,
similemente a
colui che venire
sente 'l porco e la caccia a la sua posta,
ch'ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da
la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi:
«Or accorri, accorri, morte!».
E l'altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: «Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a
le giostre dal Toppo!».
E poi che forse li fallia la lena,
di sé e d'un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a
loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
come veltri ch'uscisser di catena.
In quel che
s'appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor
la mia scorta per mano,
e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.
«O Iacopo»,
dicea, «da Santo Andrea,
che t'è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?».
Quando 'l
maestro fu sovr' esso fermo,
disse: «Chi fosti, che per tante punte
soffi con sangue doloroso sermo?».
Ed elli a noi:
«O anime che giunte
siete a veder lo strazio disonesto
c'ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele
al piè del tristo cesto.
I' fui de la città che nel Batista
mutò 'l primo padrone; ond' ei per questo
sempre con
l'arte sua la farà trista;
e se non fosse che 'n sul passo d'Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,
que' cittadin
che poi la rifondarno
sovra 'l cener che d'Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
Io fei gibetto
a me de le mie case».
CANTO XIV
[Canto XIV, ove tratta de la qualità del terzo girone,
contento nel settimo circulo; e quivi si puniscono coloro che fanno forza ne la
deitade, negando e bestemmiando quella; e nomina qui spezialmente il re Capaneo
scelleratissimo in questo preditto peccato.]
Poi che la
carità del natio loco
mi strinse, raunai le fronde sparte
e rende'le a colui, ch'era già fioco.
Indi venimmo al
fine ove si parte
lo secondo giron dal terzo, e dove
si vede di giustizia orribil arte.
A ben
manifestar le cose nove,
dico che arrivammo ad una landa
che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa
selva l'è ghirlanda
intorno, come 'l fosso tristo ad essa;
quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era
una rena arida e spessa,
non d'altra foggia fatta che colei
che fu da' piè di Caton già soppressa.
O vendetta di
Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
ciò che fu manifesto a li occhi mei!
D'anime nude
vidi molte gregge
che piangean tutte assai miseramente,
e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in
terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
e altra andava continüamente.
Quella che giva
'ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto 'l
sabbion, d'un cader lento,
piovean di foco dilatate falde,
come di neve in alpe sanza vento.
Quali
Alessandro in quelle parti calde
d'Indïa vide sopra 'l süo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde,
per ch'ei
provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
mei si stingueva mentre ch'era solo:
tale scendeva
l'etternale ardore;
onde la rena s'accendea, com' esca
sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo
mai era la tresca
de le misere mani, or quindi or quinci
escotendo da sé l'arsura fresca.
I' cominciai:
«Maestro, tu che vinci
tutte le cose, fuor che ' demon duri
ch'a l'intrar de la porta incontra uscinci,
chi è
quel grande che non par che curi
lo 'ncendio e giace dispettoso e torto,
sì che la pioggia non par che 'l marturi?».
E quel medesmo,
che si fu accorto
ch'io domandava il mio duca di lui,
gridò: «Qual io fui vivo, tal son morto.
Se Giove
stanchi 'l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
onde l'ultimo dì percosso fui;
o s'elli
stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
chiamando "Buon Vulcano, aiuta, aiuta!",
sì com'
el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
non ne potrebbe aver vendetta allegra».
Allora il duca
mio parlò di forza
tanto, ch'i' non l'avea sì forte udito:
«O Capaneo, in ciò che non s'ammorza
la tua
superbia, se' tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
sarebbe al tuo furor dolor compito».
Poi si rivolse
a me con miglior labbia,
dicendo: «Quei fu l'un d'i sette regi
ch'assiser Tebe; ed ebbe e par ch'elli abbia
Dio in
disdegno, e poco par che 'l pregi;
ma, com' io dissi lui, li suoi dispetti
sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien
dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
ma sempre al bosco tien li piedi stretti».
Tacendo
divenimmo là 've spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del
Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e
ambo le pendici
fatt' era 'n pietra, e ' margini da lato;
per ch'io m'accorsi che 'l passo era lici.
«Tra tutto
l'altro ch'i' t'ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
lo cui sogliare a nessuno è negato,
cosa non fu da
li tuoi occhi scorta
notabile com' è 'l presente rio,
che sovra sé tutte fiammelle ammorta».
Queste parole
fuor del duca mio;
per ch'io 'l pregai che mi largisse 'l pasto
di cui largito m'avëa il disio.
«In mezzo mar
siede un paese guasto»,
diss' elli allora, «che s'appella Creta,
sotto 'l cui rege fu già 'l mondo casto.
Una montagna
v'è che già fu lieta
d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse
già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal
monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver' Dammiata
e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa
è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e 'l petto,
poi è di rame infino a la forcata;
da indi in
giuso è tutto ferro eletto,
salvo che 'l destro piede è terra cotta;
e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto.
Ciascuna parte,
fuor che l'oro, è rotta
d'una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in
questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin,
là dove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta».
E io a lui: «Se
'l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?».
Ed elli a me:
«Tu sai che 'l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo,
non se' ancor
per tutto 'l cerchio vòlto;
per che, se cosa n'apparisce nova,
non de' addur maraviglia al tuo volto».
E io ancor:
«Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l'un taci,
e l'altro di' che si fa d'esta piova».
«In tutte tue
question certo mi piaci»,
rispuose, «ma 'l bollor de l'acqua rossa
dovea ben solver l'una che tu faci.
Letè
vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l'anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa».
Poi disse:
«Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
e sopra loro
ogne vapor si spegne».
CANTO XV
[Canto XV, ove tratta di quello medesimo girone e di quello
medesimo cerchio; e qui sono puniti coloro che fanno forza ne la deitade,
spregiando natura e sua bontade, sì come sono li soddomiti.]
Ora cen porta
l'un de' duri margini;
e 'l fummo del ruscel di sopra aduggia,
sì che dal foco salva l'acqua e li argini.
Quali Fiamminghi
tra Guizzante e Bruggia,
temendo 'l fiotto che 'nver' lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
e quali Padoan
lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine
eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
Già
eravam da la selva rimossi
tanto, ch'i' non avrei visto dov' era,
perch' io in dietro rivolto mi fossi,
quando
incontrammo d'anime una schiera
che venian lungo l'argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera
guardare uno
altro sotto nuova luna;
e sì ver' noi aguzzavan le ciglia
come 'l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così
adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!».
E io, quando 'l
suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che 'l viso abbrusciato non difese
la conoscenza
süa al mio 'ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?».
E quelli: «O
figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna 'n dietro e lascia andar la traccia».
I' dissi lui:
«Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m'asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco».
«O figliuol»,
disse, «qual di questa greggia
s'arresta punto, giace poi cent' anni
sanz' arrostarsi quando 'l foco il feggia.
Però va
oltre: i' ti verrò a' panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni».
Io non osava
scender de la strada
per andar par di lui; ma 'l capo chino
tenea com' uom che reverente vada.
El
cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l'ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra 'l cammino?».
«Là
sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos' io lui, «mi smarri' in una valle,
avanti che l'età mia fosse piena.
Pur ier mattina
le volsi le spalle:
questi m'apparve, tornand' ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle».
Ed elli a me:
«Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m'accorsi ne la vita bella;
e s'io non
fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t'avrei a l'opera conforto.
Ma quello
ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si
farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama
nel mondo li chiama orbi;
gent' è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna
tanto onor ti serba,
che l'una parte e l'altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l'erba.
Faccian le
bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s'alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva
la sementa santa
di que' Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta».
«Se fosse tutto
pieno il mio dimando»,
rispuos' io lui, «voi non sareste ancora
de l'umana natura posto in bando;
ché 'n la mente
m'è fitta, e or m'accora,
la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m'insegnavate
come l'uom s'etterna:
e quant' io l'abbia in grado, mentr' io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che
narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s'a lei arrivo.
Tanto vogl' io
che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch'a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è
nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e 'l villan la sua marra».
Lo mio maestro
allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
poi disse: «Bene ascolta chi la nota».
Né per tanto di
men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me:
«Saper d'alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
ché 'l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che
tutti fur cherci
e litterati grandi e di gran fama,
d'un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va
con quella turba grama,
e Francesco d'Accorso anche; e vedervi,
s'avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che
dal servo de' servi
fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più
direi; ma 'l venire e 'l sermone
più lungo esser non può, però ch'i' veggio
là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con
la quale esser non deggio.
Sieti raccomandato il mio Tesoro,
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio».
Poi si rivolse,
e parve di coloro
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
quelli che
vince, non colui che perde.
CANTO XVI
[Canto XVI, ove tratta di quello medesimo girone e di quello
medesimo cerchio e di quello medesimo peccato.]
Già era
in loco onde s'udia 'l rimbombo
de l'acqua che cadea ne l'altro giro,
simile a quel che l'arnie fanno rombo,
quando tre
ombre insieme si partiro,
correndo, d'una torma che passava
sotto la pioggia de l'aspro martiro.
Venian ver'
noi, e ciascuna gridava:
«Sòstati tu ch'a l'abito ne sembri
essere alcun di nostra terra prava».
Ahimè,
che piaghe vidi ne' lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
Ancor men duol pur ch'i' me ne rimembri.
A le lor grida
il mio dottor s'attese;
volse 'l viso ver' me, e «Or aspetta»,
disse, «a costor si vuole esser cortese.
E se non fosse
il foco che saetta
la natura del loco, i' dicerei
che meglio stesse a te che a lor la fretta».
Ricominciar,
come noi restammo, ei
l'antico verso; e quando a noi fuor giunti,
fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i
campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando,
ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che 'n contraro il collo
faceva ai piè continüo vïaggio.
E «Se miseria
d'esto loco sollo
rende in dispetto noi e nostri prieghi»,
cominciò l'uno, «e 'l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra
il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se', che i vivi piedi
così sicuro per lo 'nferno freghi.
Questi, l'orme
di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la
buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
L'altro,
ch'appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto
son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
la fiera moglie più ch'altro mi nuoce».
S'i' fossi
stato dal foco coperto,
gittato mi sarei tra lor di sotto,
e credo che 'l dottor l'avria sofferto;
ma perch' io mi
sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai:
«Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che
questo mio segnor mi disse
parole per le quali i' mi pensai
che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra
sono, e sempre mai
l'ovra di voi e li onorati nomi
con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele
e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
ma 'nfino al centro pria convien ch'i' tomi».
«Se lungamente
l'anima conduca
le membra tue», rispuose quelli ancora,
«e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e
valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
o se del tutto se n'è gita fora;
ché Guiglielmo
Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
assai ne cruccia con le sue parole».
«La gente nuova
e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,
Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».
Così
gridai con la faccia levata;
e i tre, che ciò inteser per risposta,
guardar l'un l'altro com' al ver si guata.
«Se l'altre
volte sì poco ti costa»,
rispuoser tutti, «il satisfare altrui,
felice te se sì parli a tua posta!
Però, se
campi d'esti luoghi bui
e torni a riveder le belle stelle,
quando ti gioverà dicere "I' fui",
fa che di noi a
la gente favelle».
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non
saria possuto dirsi
tosto così com' e' fuoro spariti;
per ch'al maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva,
e poco eravam iti,
che 'l suon de l'acqua n'era sì vicino,
che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume
c'ha proprio cammino
prima dal Monte Viso 'nver' levante,
da la sinistra costa d'Apennino,
che si chiama
Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba
là sovra San Benedetto
de l'Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;
così,
giù d'una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell' acqua tinta,
sì che 'n poc' ora avria l'orecchia offesa.
Io avea una
corda intorno cinta,
e con essa pensai alcuna volta
prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch'io
l'ebbi tutta da me sciolta,
sì come 'l duca m'avea comandato,
porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond' ei si
volse inver' lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
la gittò giuso in quell' alto burrato.
«E' pur convien
che novità risponda»,
dicea fra me medesmo, «al novo cenno
che 'l maestro con l'occhio sì seconda».
Ahi quanto
cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l'ovra,
ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me:
«Tosto verrà di sovra
ciò ch'io attendo e che il tuo pensier sogna;
tosto convien ch'al tuo viso si scovra».
Sempre a quel
ver c'ha faccia di menzogna
de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote,
però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer
nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
s'elle non sien di lunga grazia vòte,
ch'i' vidi per
quell' aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come
torna colui che va giuso
talora a solver l'àncora ch'aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
che 'n
sù si stende e da piè si rattrappa.
CANTO XVII
[Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto
Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio
alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio
Gerione sopra '1 quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni
prestatori e usurai del settimo cerchio.]
«Ecco la fiera
con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».
Sì
cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
vicino al fin d'i passeggiati marmi.
E quella sozza
imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,
ma 'n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era
faccia d'uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d'un serpente tutto l'altro fusto;
due branche
avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più
color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta
stanno a riva i burchi,
che parte sono in acqua e parte in terra,
e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero
s'assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.
Nel vano tutta
sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch'a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse:
«Or convien che si torca
la nostra via un poco insino a quella
bestia malvagia che colà si corca».
Però
scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a
lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi 'l
maestro «Acciò che tutta piena
esperïenza d'esto giron porti»,
mi disse, «va, e vedi la lor mena.
Li tuoi
ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
che ne conceda i suoi omeri forti».
Così
ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
andai, dove sedea la gente mesta.
Per li occhi
fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a' vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti
fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel
viso a certi li occhi porsi,
ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi
che dal collo a
ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.
E com' io
riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro
che d'un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo
di mio sguardo il curro,
vidine un'altra come sangue rossa,
mostrando un'oca bianca più che burro.
E un che d'una
scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: «Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e
perché se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi
Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi 'ntronan li orecchi
gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,
che
recherà la tasca con tre becchi!"».
Qui distorse la bocca e di fuor trasse
la lingua, come bue che 'l naso lecchi.
E io, temendo
no 'l più star crucciasse
lui che di poco star m'avea 'mmonito,
torna'mi in dietro da l'anime lasse.
Trova' il duca
mio ch'era salito
già su la groppa del fiero animale,
e disse a me: «Or sie forte e ardito.
Omai si scende
per sì fatte scale;
monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
sì che la coda non possa far male».
Qual è
colui che sì presso ha 'l riprezzo
de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
e triema tutto pur guardando 'l rezzo,
tal divenn' io
a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I' m'assettai
in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.
Ma esso,
ch'altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch'i' montai
con le braccia m'avvinse e mi sostenne;
e disse:
«Gerïon, moviti omai:
le rote larghe, e lo scender sia poco;
pensa la nova soma che tu hai».
Come la
navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
e poi ch'al tutto si sentì a gioco,
là 'v'
era 'l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
e con le branche l'aere a sé raccolse.
Maggior paura
non credo che fosse
quando Fetonte abbandonò li freni,
per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro
misero le reni
sentì spennar per la scaldata cera,
gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,
che fu la mia,
quando vidi ch'i' era
ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
ogne veduta fuor che de la fera.
Ella sen va
notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n'accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta.
Io sentia
già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.
Allor fu' io
più timido a lo stoscio,
però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
ond' io tremando tutto mi raccoscio.
E vidi poi, ché
nol vedea davanti,
lo scendere e 'l girar per li gran mali
che s'appressavan da diversi canti.
Come 'l falcon
ch'è stato assai su l'ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,
discende lasso
onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello;
così ne
puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone,
si
dileguò come da corda cocca.
CANTO XVIII
[Canto XVIII, ove si descrive come è fatto il luogo di
Malebolge e tratta de' ruffiani e ingannatori e lusinghieri, ove dinomina in
questa setta messer Venedico Caccianemico da Bologna e Giasone greco e Alessio
de li Interminelli da Lucca, e tratta come sono state loro pene.]
Luogo è
in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge.
Nel dritto
mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l'ordigno.
Quel cinghio
che rimane adunque è tondo
tra 'l pozzo e 'l piè de l'alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per
guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine
quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da' lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da
imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ' fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.
In questo
luogo, de la schiena scossi
di Gerïon, trovammoci; e 'l poeta
tenne a sinistra, e io dietro mi mossi.
A la man destra
vidi nova pieta,
novo tormento e novi frustatori,
di che la prima bolgia era repleta.
Nel fondo erano
ignudi i peccatori;
dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto,
di là con noi, ma con passi maggiori,
come i Roman
per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un
lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,
da l'altra sponda vanno verso 'l monte.
Di qua, di
là, su per lo sasso tetro
vidi demon cornuti con gran ferze,
che li battien crudelmente di retro.
Ahi come facean
lor levar le berze
a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
Mentr' io
andava, li occhi miei in uno
furo scontrati; e io sì tosto dissi:
«Già di veder costui non son digiuno».
Per ch'ïo
a figurarlo i piedi affissi;
e 'l dolce duca meco si ristette,
e assentio ch'alquanto in dietro gissi.
E quel frustato
celar si credette
bassando 'l viso; ma poco li valse,
ch'io dissi: «O tu che l'occhio a terra gette,
se le fazion
che porti non son false,
Venedico se' tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?».
Ed elli a me:
«Mal volontier lo dico;
ma sforzami la tua chiara favella,
che mi fa sovvenir del mondo antico.
I' fui colui
che la Ghisolabella
condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.
E non pur io
qui piango bolognese;
anzi n'è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese
a dicer 'sipa'
tra Sàvena e Reno;
e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno».
Così
parlando il percosse un demonio
de la sua scurïada, e disse: «Via,
ruffian! qui non son femmine da conio».
I' mi raggiunsi
con la scorta mia;
poscia con pochi passi divenimmo
là 'v' uno scoglio de la ripa uscia.
Assai
leggeramente quel salimmo;
e vòlti a destra su per la sua scheggia,
da quelle cerchie etterne ci partimmo.
Quando noi
fummo là dov' el vaneggia
di sotto per dar passo a li sferzati,
lo duca disse: «Attienti, e fa che feggia
lo viso in te
di quest' altri mal nati,
ai quali ancor non vedesti la faccia
però che son con noi insieme andati».
Del vecchio
ponte guardavam la traccia
che venìa verso noi da l'altra banda,
e che la ferza similmente scaccia.
E 'l buon
maestro, sanza mia dimanda,
mi disse: «Guarda quel grande che vene,
e per dolor non par lagrime spanda:
quanto aspetto
reale ancor ritene!
Quelli è Iasón, che per cuore e per senno
li Colchi del monton privati féne.
Ello
passò per l'isola di Lenno
poi che l'ardite femmine spietate
tutti li maschi loro a morte dienno.
Ivi con segni e
con parole ornate
Isifile ingannò, la giovinetta
che prima avea tutte l'altre ingannate.
Lasciolla
quivi, gravida, soletta;
tal colpa a tal martiro lui condanna;
e anche di Medea si fa vendetta.
Con lui sen va
chi da tal parte inganna;
e questo basti de la prima valle
sapere e di color che 'n sé assanna».
Già eravam
là 've lo stretto calle
con l'argine secondo s'incrocicchia,
e fa di quello ad un altr' arco spalle.
Quindi sentimmo
gente che si nicchia
ne l'altra bolgia e che col muso scuffa,
e sé medesma con le palme picchia.
Le ripe eran
grommate d'una muffa,
per l'alito di giù che vi s'appasta,
che con li occhi e col naso facea zuffa.
Lo fondo
è cupo sì, che non ci basta
loco a veder sanza montare al dosso
de l'arco, ove lo scoglio più sovrasta.
Quivi venimmo;
e quindi giù nel fosso
vidi gente attuffata in uno sterco
che da li uman privadi parea mosso.
E mentre ch'io
là giù con l'occhio cerco,
vidi un col capo sì di merda lordo,
che non parëa s'era laico o cherco.
Quei mi
sgridò: «Perché se' tu sì gordo
di riguardar più me che li altri brutti?».
E io a lui: «Perché, se ben ricordo,
già t'ho
veduto coi capelli asciutti,
e se' Alessio Interminei da Lucca:
però t'adocchio più che li altri tutti».
Ed elli allor,
battendosi la zucca:
«Qua giù m'hanno sommerso le lusinghe
ond' io non ebbi mai la lingua stucca».
Appresso
ciò lo duca «Fa che pinghe»,
mi disse, «il viso un poco più avante,
sì che la faccia ben con l'occhio attinghe
di quella sozza
e scapigliata fante
che là si graffia con l'unghie merdose,
e or s'accoscia e ora è in piedi stante.
Taïde
è, la puttana che rispuose
al drudo suo quando disse "Ho io grazie
grandi apo te?": "Anzi maravigliose!".
E quinci sian
le nostre viste sazie».
CANTO XIX
[Canto XIX, nel quale sgrida contra li simoniachi in persona di
Simone Mago, che fu al tempo di san Pietro e di santo Paulo, e contra tutti
coloro che simonia seguitano, e qui pone le pene che sono concedute a coloro
che seguitano il sopradetto vizio, e dinomaci entro papa Niccola de li Orsini
di Roma perché seguitò simonia; e pone de la terza bolgia de l'inferno.]
O Simon mago, o
miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per
argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già
eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch'a punto sovra mezzo 'l fosso piomba.
O somma
sapïenza, quanta è l'arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le
coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean
men ampi né maggiori
che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d'i battezzatori;
l'un de li
quali, ancor non è molt' anni,
rupp' io per un che dentro v'annegava:
e questo sia suggel ch'ogn' omo sganni.
Fuor de la
bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava.
Le piante erano
a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il
fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è
colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss' io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me:
«Se tu vuo' ch'i' ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de' suoi torti».
E io: «Tanto
m'è bel, quanto a te piace:
tu se' segnore, e sai ch'i' non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo
in su l'argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro
ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se'
che 'l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia' io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come
'l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch'è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el
gridò: «Se' tu già costì ritto,
se' tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se' tu
sì tosto di quell' aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a 'nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec' io,
quai son color che stanno,
per non intender ciò ch'è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio
disse: «Dilli tosto:
"Non son colui, non son colui che credi"»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo
spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper
ch'i' sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch'i' fui vestito del gran manto;
e veramente fui
figliuol de l'orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l'avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo
mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là
giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch'i' credea che tu fossi,
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.
Ma più
è 'l tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui
verrà di più laida opra,
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón
sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s'i'
mi fui qui troppo folle,
ch'i' pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore
in prima da san Pietro
ch'ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non "Viemmi retro".
Né Pier né li
altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l'anima ria.
Però ti
sta, ché tu se' ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch'esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse
ch'ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei
parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor
s'accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l'acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con
le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v'avete
dio d'oro e d'argento;
e che altro è da voi a l'idolatre,
se non ch'elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin,
di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr' io li
cantava cotai note,
o ira o coscïenza che 'l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I' credo ben ch'al
mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con
ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s'ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si
stancò d'avermi a sé distretto,
sì men portò sovra 'l colmo de l'arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi
soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro
vallon mi fu scoperto.
CANTO XX
[Canto XX, dove si tratta de l'indovini e sortilegi e de
l'incantatori, e de l'origine di Mantova, di che trattare diede cagione Manto
incantatrice; e di loro pene e miseria e de la condizione loro misera, ne la
quarta bolgia, in persona di Michele di Scozia e di più altri.]
Di nova pena mi
conven far versi
e dar matera al ventesimo canto
de la prima canzon, ch'è d'i sommersi.
Io era
già disposto tutto quanto
a riguardar ne lo scoperto fondo,
che si bagnava d'angoscioso pianto;
e vidi gente
per lo vallon tondo
venir, tacendo e lagrimando, al passo
che fanno le letane in questo mondo.
Come 'l viso mi
scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso,
ché da le reni
era tornato 'l volto,
e in dietro venir li convenia,
perché 'l veder dinanzi era lor tolto.
Forse per forza
già di parlasia
si travolse così alcun del tutto;
ma io nol vidi, né credo che sia.
Se Dio ti
lasci, lettor, prender frutto
di tua lezione, or pensa per te stesso
com' io potea tener lo viso asciutto,
quando la
nostra imagine di presso
vidi sì torta, che 'l pianto de li occhi
le natiche bagnava per lo fesso.
Certo io
piangea, poggiato a un de' rocchi
del duro scoglio, sì che la mia scorta
mi disse: «Ancor se' tu de li altri sciocchi?
Qui vive la
pietà quand' è ben morta;
chi è più scellerato che colui
che al giudicio divin passion comporta?
Drizza la
testa, drizza, e vedi a cui
s'aperse a li occhi d'i Teban la terra;
per ch'ei gridavan tutti: "Dove rui,
Anfïarao?
perché lasci la guerra?".
E non restò di ruinare a valle
fino a Minòs che ciascheduno afferra.
Mira c'ha fatto
petto de le spalle;
perché volse veder troppo davante,
di retro guarda e fa retroso calle.
Vedi Tiresia,
che mutò sembiante
quando di maschio femmina divenne,
cangiandosi le membra tutte quante;
e prima, poi,
ribatter li convenne
li duo serpenti avvolti, con la verga,
che rïavesse le maschili penne.
Aronta è
quel ch'al ventre li s'atterga,
che ne' monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,
ebbe tra '
bianchi marmi la spelonca
per sua dimora; onde a guardar le stelle
e 'l mar non li era la veduta tronca.
E quella che
ricuopre le mammelle,
che tu non vedi, con le trecce sciolte,
e ha di là ogne pilosa pelle,
Manto fu, che
cercò per terre molte;
poscia si puose là dove nacqu' io;
onde un poco mi piace che m'ascolte.
Poscia che 'l
padre suo di vita uscìo
e venne serva la città di Baco,
questa gran tempo per lo mondo gio.
Suso in Italia
bella giace un laco,
a piè de l'Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c'ha nome Benaco.
Per mille
fonti, credo, e più si bagna
tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l'acqua che nel detto laco stagna.
Loco è
nel mezzo là dove 'l trentino
pastore e quel di Brescia e 'l veronese
segnar poria, s'e' fesse quel cammino.
Siede
Peschiera, bello e forte arnese
da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva 'ntorno più discese.
Ivi convien che
tutto quanto caschi
ciò che 'n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.
Tosto che
l'acqua a correr mette co,
non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
Non molto ha
corso, ch'el trova una lama,
ne la qual si distende e la 'mpaluda;
e suol di state talor esser grama.
Quindi passando
la vergine cruda
vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d'abitanti nuda.
Lì, per
fuggire ogne consorzio umano,
ristette con suoi servi a far sue arti,
e visse, e vi lasciò suo corpo vano.
Li uomini poi
che 'ntorno erano sparti
s'accolsero a quel loco, ch'era forte
per lo pantan ch'avea da tutte parti.
Fer la
città sovra quell' ossa morte;
e per colei che 'l loco prima elesse,
Mantüa l'appellar sanz' altra sorte.
Già fuor
le genti sue dentro più spesse,
prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
Però
t'assenno che, se tu mai odi
originar la mia terra altrimenti,
la verità nulla menzogna frodi».
E io: «Maestro,
i tuoi ragionamenti
mi son sì certi e prendon sì mia fede,
che li altri mi sarien carboni spenti.
Ma dimmi, de la
gente che procede,
se tu ne vedi alcun degno di nota;
ché solo a ciò la mia mente rifiede».
Allor mi disse:
«Quel che da la gota
porge la barba in su le spalle brune,
fu — quando Grecia fu di maschi vòta,
sì ch'a
pena rimaser per le cune —
augure, e diede 'l punto con Calcanta
in Aulide a tagliar la prima fune.
Euripilo ebbe
nome, e così 'l canta
l'alta mia tragedìa in alcun loco:
ben lo sai tu che la sai tutta quanta.
Quell' altro
che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco.
Vedi Guido
Bonatti; vedi Asdente,
ch'avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
Vedi le triste
che lasciaron l'ago,
la spuola e 'l fuso, e fecersi 'ndivine;
fecer malie con erbe e con imago.
Ma vienne omai,
ché già tiene 'l confine
d'amendue li emisperi e tocca l'onda
sotto Sobilia Caino e le spine;
e già
iernotte fu la luna tonda:
ben ten de' ricordar, ché non ti nocque
alcuna volta per la selva fonda».
Sì mi
parlava, e andavamo introcque.
CANTO XXI
[Canto XXI, il quale tratta de le pene ne le quali sono puniti
coloro che commisero baratteria, nel quale vizio abbomina li lucchesi; e qui
tratta di dieci demoni, ministri a l'offizio di questo luogo; e cogliesi qui il
tempo che fue compilata per Dante questa opera.]
Così di
ponte in ponte, altro parlando
che la mia comedìa cantar non cura,
venimmo; e tenavamo 'l colmo, quando
restammo per
veder l'altra fessura
di Malebolge e li altri pianti vani;
e vidila mirabilmente oscura.
Quale ne
l'arzanà de' Viniziani
bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non
ponno — in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da
proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa — :
tal, non per
foco ma per divin' arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.
I' vedea lei,
ma non vedëa in essa
mai che le bolle che 'l bollor levava,
e gonfiar tutta, e riseder compressa.
Mentr' io
là giù fisamente mirava,
lo duca mio, dicendo «Guarda, guarda!»,
mi trasse a sé del loco dov' io stava.
Allor mi volsi
come l'uom cui tarda
di veder quel che li convien fuggire
e cui paura sùbita sgagliarda,
che, per veder,
non indugia 'l partire:
e vidi dietro a noi un diavol nero
correndo su per lo scoglio venire.
Ahi quant' elli
era ne l'aspetto fero!
e quanto mi parea ne l'atto acerbo,
con l'ali aperte e sovra i piè leggero!
L'omero suo,
ch'era aguto e superbo,
carcava un peccator con ambo l'anche,
e quei tenea de' piè ghermito 'l nerbo.
Del nostro
ponte disse: «O Malebranche,
ecco un de li anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch'i' torno per anche
a quella terra,
che n'è ben fornita:
ogn' uom v'è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita».
Là
giù 'l buttò, e per lo scoglio duro
si volse; e mai non fu mastino sciolto
con tanta fretta a seguitar lo furo.
Quel
s'attuffò, e tornò sù convolto;
ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: «Qui non ha loco il Santo Volto!
qui si nuota
altrimenti che nel Serchio!
Però, se tu non vuo' di nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio».
Poi l'addentar
con più di cento raffi,
disser: «Coverto convien che qui balli,
sì che, se puoi, nascosamente accaffi».
Non altrimenti
i cuoci a' lor vassalli
fanno attuffare in mezzo la caldaia
la carne con li uncin, perché non galli.
Lo buon maestro
«Acciò che non si paia
che tu ci sia», mi disse, «giù t'acquatta
dopo uno scheggio, ch'alcun schermo t'aia;
e per nulla
offension che mi sia fatta,
non temer tu, ch'i' ho le cose conte,
perch' altra volta fui a tal baratta».
Poscia
passò di là dal co del ponte;
e com' el giunse in su la ripa sesta,
mestier li fu d'aver sicura fronte.
Con quel furore
e con quella tempesta
ch'escono i cani a dosso al poverello
che di sùbito chiede ove s'arresta,
usciron quei di
sotto al ponticello,
e volser contra lui tutt' i runcigli;
ma el gridò: «Nessun di voi sia fello!
Innanzi che
l'uncin vostro mi pigli,
traggasi avante l'un di voi che m'oda,
e poi d'arruncigliarmi si consigli».
Tutti gridaron:
«Vada Malacoda!»;
per ch'un si mosse — e li altri stetter fermi —
e venne a lui dicendo: «Che li approda?».
«Credi tu,
Malacoda, qui vedermi
esser venuto», disse 'l mio maestro,
«sicuro già da tutti vostri schermi,
sanza voler
divino e fato destro?
Lascian' andar, ché nel cielo è voluto
ch'i' mostri altrui questo cammin silvestro».
Allor li fu
l'orgoglio sì caduto,
ch'e' si lasciò cascar l'uncino a' piedi,
e disse a li altri: «Omai non sia feruto».
E 'l duca mio a
me: «O tu che siedi
tra li scheggion del ponte quatto quatto,
sicuramente omai a me ti riedi».
Per ch'io mi
mossi e a lui venni ratto;
e i diavoli si fecer tutti avanti,
sì ch'io temetti ch'ei tenesser patto;
così
vid' ïo già temer li fanti
ch'uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
I' m'accostai
con tutta la persona
lungo 'l mio duca, e non torceva li occhi
da la sembianza lor ch'era non buona.
Ei chinavan li
raffi e «Vuo' che 'l tocchi»,
diceva l'un con l'altro, «in sul groppone?».
E rispondien: «Sì, fa che gliel' accocchi».
Ma quel demonio
che tenea sermone
col duca mio, si volse tutto presto
e disse: «Posa, posa, Scarmiglione!».
Poi disse a
noi: «Più oltre andar per questo
iscoglio non si può, però che giace
tutto spezzato al fondo l'arco sesto.
E se l'andare
avante pur vi piace,
andatevene su per questa grotta;
presso è un altro scoglio che via face.
Ier, più
oltre cinqu' ore che quest' otta,
mille dugento con sessanta sei
anni compié che qui la via fu rotta.
Io mando verso
là di questi miei
a riguardar s'alcun se ne sciorina;
gite con lor, che non saranno rei».
«Tra'ti avante,
Alichino, e Calcabrina»,
cominciò elli a dire, «e tu, Cagnazzo;
e Barbariccia guidi la decina.
Libicocco vegn'
oltre e Draghignazzo,
Cirïatto sannuto e Graffiacane
e Farfarello e Rubicante pazzo.
Cercate 'ntorno
le boglienti pane;
costor sian salvi infino a l'altro scheggio
che tutto intero va sovra le tane».
«Omè,
maestro, che è quel ch'i' veggio?»,
diss' io, «deh, sanza scorta andianci soli,
se tu sa' ir; ch'i' per me non la cheggio.
Se tu se'
sì accorto come suoli,
non vedi tu ch'e' digrignan li denti
e con le ciglia ne minaccian duoli?».
Ed elli a me:
«Non vo' che tu paventi;
lasciali digrignar pur a lor senno,
ch'e' fanno ciò per li lessi dolenti».
Per l'argine
sinistro volta dienno;
ma prima avea ciascun la lingua stretta
coi denti, verso lor duca, per cenno;
ed elli avea
del cul fatto trombetta.
CANTO XXII
[Canto XXII, nel quale abomina quelli di Sardigna e tratta alcuna
cosa de la sagacitade de' barattieri in persona d'uno navarrese, e de'
barattieri medesimi questo canta.]
Io vidi
già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo;
corridor vidi
per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra;
quando con
trombe, e quando con campane,
con tamburi e con cenni di castella,
e con cose nostrali e con istrane;
né già
con sì diversa cennamella
cavalier vidi muover né pedoni,
né nave a segno di terra o di stella.
Noi andavam con
li diece demoni.
Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa
coi santi, e in taverna coi ghiottoni.
Pur a la pegola
era la mia 'ntesa,
per veder de la bolgia ogne contegno
e de la gente ch'entro v'era incesa.
Come i dalfini,
quando fanno segno
a' marinar con l'arco de la schiena
che s'argomentin di campar lor legno,
talor
così, ad alleggiar la pena,
mostrav' alcun de' peccatori 'l dosso
e nascondea in men che non balena.
E come a l'orlo
de l'acqua d'un fosso
stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l'altro grosso,
sì
stavan d'ogne parte i peccatori;
ma come s'appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I' vidi, e anco
il cor me n'accapriccia,
uno aspettar così, com' elli 'ncontra
ch'una rana rimane e l'altra spiccia;
e Graffiacan,
che li era più di contra,
li arruncigliò le 'mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I' sapea
già di tutti quanti 'l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.
«O Rubicante,
fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!»,
gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: «Maestro
mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
venuto a man de li avversari suoi».
Lo duca mio li
s'accostò allato;
domandollo ond' ei fosse, e quei rispuose:
«I' fui del regno di Navarra nato.
Mia madre a
servo d'un segnor mi puose,
che m'avea generato d'un ribaldo,
distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui
famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
di ch'io rendo ragione in questo caldo».
E
Cirïatto, a cui di bocca uscia
d'ogne parte una sanna come a porco,
li fé sentir come l'una sdruscia.
Tra male gatte
era venuto 'l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia
e disse: «State in là, mentr' io lo 'nforco».
E al maestro
mio volse la faccia;
«Domanda», disse, «ancor, se più disii
saper da lui, prima ch'altri 'l disfaccia».
Lo duca dunque:
«Or dì: de li altri rii
conosci tu alcun che sia latino
sotto la pece?». E quelli: «I' mi partii,
poco è,
da un che fu di là vicino.
Così foss' io ancor con lui coperto,
ch'i' non temerei unghia né uncino!».
E Libicocco
«Troppo avem sofferto»,
disse; e preseli 'l braccio col runciglio,
sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo
anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde 'l decurio loro
si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand' elli un
poco rappaciati fuoro,
a lui, ch'ancor mirava sua ferita,
domandò 'l duca mio sanza dimoro:
«Chi fu colui
da cui mala partita
di' che facesti per venire a proda?».
Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
quel di
Gallura, vasel d'ogne froda,
ch'ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse
e lasciolli di piano,
sì com' e' dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso
donno Michel Zanche
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
Omè,
vedete l'altro che digrigna;
i' direi anche, ma i' temo ch'ello
non s'apparecchi a grattarmi la tigna».
E 'l gran
proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
disse: «Fatti 'n costà, malvagio uccello!».
«Se voi volete
vedere o udire»,
ricominciò lo spaürato appresso,
«Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i
Malebranche un poco in cesso,
sì ch'ei non teman de le lor vendette;
e io, seggendo in questo loco stesso,
per un ch'io
son, ne farò venir sette
quand' io suffolerò, com' è nostro uso
di fare allor che fori alcun si mette».
Cagnazzo a cotal
motto levò 'l muso,
crollando 'l capo, e disse: «Odi malizia
ch'elli ha pensata per gittarsi giuso!».
Ond' ei,
ch'avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: «Malizioso son io troppo,
quand' io procuro a' mia maggior trestizia».
Alichin non si
tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: «Se tu ti cali,
io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma
batterò sovra la pece l'ali.
Lascisi 'l collo, e sia la ripa scudo,
a veder se tu sol più di noi vali».
O tu che leggi,
udirai nuovo ludo:
ciascun da l'altra costa li occhi volse,
quel prima, ch'a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese
ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun
di colpa fu compunto,
ma quei più che cagion fu del difetto;
però si mosse e gridò: «Tu se' giunto!».
Ma poco i
valse: ché l'ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti
l'anitra di botto,
quando 'l falcon s'appressa, giù s'attuffa,
ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato
Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
che quei campasse per aver la zuffa;
e come 'l
barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
e fu con lui sopra 'l fosso ghermito.
Ma l'altro fu
bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo
sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
sì avieno inviscate l'ali sue.
Barbariccia,
con li altri suoi dolente,
quattro ne fé volar da l'altra costa
con tutt' i raffi, e assai prestamente
di qua, di
là discesero a la posta;
porser li uncini verso li 'mpaniati,
ch'eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo
lor così 'mpacciati.
CANTO XXIII
[Canto XXIII, nel quale tratta de la divina vendetta contra
l'ipocriti; del quale peccato sotto il vocabulo di due cittadini di Bologna
abomina l'auttore li bolognesi, e li giudei sotto il nome d'Anna e di Caifas; e
qui è la sesta bolgia.]
Taciti, soli,
sanza compagnia
n'andavam l'un dinanzi e l'altro dopo,
come frati minor vanno per via.
Vòlt'
era in su la favola d'Isopo
lo mio pensier per la presente rissa,
dov' el parlò de la rana e del topo;
ché più
non si pareggia 'mo' e 'issa'
che l'un con l'altro fa, se ben s'accoppia
principio e fine con la mente fissa.
E come l'un
pensier de l'altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava
così: «Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
sì fatta, ch'assai credo che lor nòi.
Se l'ira sovra
'l mal voler s'aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
che 'l cane a quella lievre ch'elli acceffa».
Già mi
sentia tutti arricciar li peli
de la paura e stava in dietro intento,
quand' io dissi: «Maestro, se non celi
te e me
tostamente, i' ho pavento
d'i Malebranche. Noi li avem già dietro;
io li 'magino sì, che già li sento».
E quei: «S'i'
fossi di piombato vetro,
l'imagine di fuor tua non trarrei
più tosto a me, che quella dentro 'mpetro.
Pur mo venieno
i tuo' pensier tra ' miei,
con simile atto e con simile faccia,
sì che d'intrambi un sol consiglio fei.
S'elli è
che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l'altra bolgia scendere,
noi fuggirem l'imaginata caccia».
Già non
compié di tal consiglio rendere,
ch'io li vidi venir con l'ali tese
non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di
sùbito mi prese,
come la madre ch'al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il
figlio e fugge e non s'arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;
e giù
dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
che l'un de' lati a l'altra bolgia tura.
Non corse mai
sì tosto acqua per doccia
a volger ruota di molin terragno,
quand' ella più verso le pale approccia,
come 'l maestro
mio per quel vivagno,
portandosene me sovra 'l suo petto,
come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i
piè suoi giunti al letto
del fondo giù, ch'e' furon in sul colle
sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché l'alta
provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
poder di partirs' indi a tutti tolle.
Là
giù trovammo una gente dipinta
che giva intorno assai con lenti passi,
piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean
cappe con cappucci bassi
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate
son, sì ch'elli abbaglia;
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
che Federigo le mettea di paglia.
Oh in etterno
faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso
quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
di compagnia ad ogne mover d'anca.
Per ch'io al
duca mio: «Fa che tu trovi
alcun ch'al fatto o al nome si conosca,
e li occhi, sì andando, intorno movi».
E un che 'ntese
la parola tosca,
di retro a noi gridò: «Tenete i piedi,
voi che correte sì per l'aura fosca!
Forse ch'avrai
da me quel che tu chiedi».
Onde 'l duca si volse e disse: «Aspetta,
e poi secondo il suo passo procedi».
Ristetti, e
vidi due mostrar gran fretta
de l'animo, col viso, d'esser meco;
ma tardavali 'l carco e la via stretta.
Quando fuor
giunti, assai con l'occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
poi si volsero in sé, e dicean seco:
«Costui par
vivo a l'atto de la gola;
e s'e' son morti, per qual privilegio
vanno scoperti de la grave stola?».
Poi disser me:
«O Tosco, ch'al collegio
de l'ipocriti tristi se' venuto,
dir chi tu se' non avere in dispregio».
E io a loro:
«I' fui nato e cresciuto
sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa,
e son col corpo ch'i' ho sempre avuto.
Ma voi chi
siete, a cui tanto distilla
quant' i' veggio dolor giù per le guance?
e che pena è in voi che sì sfavilla?».
E l'un rispuose
a me: «Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
fan così cigolar le lor bilance.
Frati godenti
fummo, e bolognesi;
io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi
come suole
esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
ch'ancor si pare intorno dal Gardingo».
Io cominciai:
«O frati, i vostri mali... »;
ma più non dissi, ch'a l'occhio mi corse
un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide,
tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
e 'l frate Catalan, ch'a ciò s'accorse,
mi disse: «Quel
confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
porre un uom per lo popolo a' martìri.
Attraversato
è, nudo, ne la via,
come tu vedi, ed è mestier ch'el senta
qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il
socero si stenta
in questa fossa, e li altri dal concilio
che fu per li Giudei mala sementa».
Allor vid' io
maravigliar Virgilio
sovra colui ch'era disteso in croce
tanto vilmente ne l'etterno essilio.
Poscia
drizzò al frate cotal voce:
«Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
s'a la man destra giace alcuna foce
onde noi
amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri
che vegnan d'esto fondo a dipartirci».
Rispuose
adunque: «Più che tu non speri
s'appressa un sasso che da la gran cerchia
si move e varca tutt' i vallon feri,
salvo che 'n
questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
che giace in costa e nel fondo soperchia».
Lo duca stette
un poco a testa china;
poi disse: «Mal contava la bisogna
colui che i peccator di qua uncina».
E 'l frate: «Io
udi' già dire a Bologna
del diavol vizi assai, tra ' quali udi'
ch'elli è bugiardo e padre di menzogna».
Appresso il
duca a gran passi sen gì,
turbato un poco d'ira nel sembiante;
ond' io da li 'ncarcati mi parti'
dietro a le
poste de le care piante.
CANTO XXIV
[Canto XXIV, nel quale tratta de le pene che puniscono li furti,
dove trattando de' ladroni sgrida contro a' Pistolesi sotto il vocabulo di
Vanni Fucci, per la cui lingua antidice del tempo futuro; ed è la
settima bolgia.]
In quella parte
del giovanetto anno
che 'l sole i crin sotto l'Aquario tempra
e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina
in su la terra assempra
l'imagine di sua sorella bianca,
ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a
cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
biancheggiar tutta; ond' ei si batte l'anca,
ritorna in
casa, e qua e là si lagna,
come 'l tapin che non sa che si faccia;
poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo 'l
mondo aver cangiata faccia
in poco d'ora, e prende suo vincastro
e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi
fece sbigottir lo mastro
quand' io li vidi sì turbar la fronte,
e così tosto al mal giunse lo 'mpiastro;
ché, come noi
venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
dolce ch'io vidi prima a piè del monte.
Le braccia
aperse, dopo alcun consiglio
eletto seco riguardando prima
ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei
ch'adopera ed estima,
che sempre par che 'nnanzi si proveggia,
così, levando me sù ver' la cima
d'un ronchione,
avvisava un'altra scheggia
dicendo: «Sovra quella poi t'aggrappa;
ma tenta pria s'è tal ch'ella ti reggia».
Non era via da
vestito di cappa,
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto,
potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse
che da quel precinto
più che da l'altro era la costa corta,
non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché
Malebolge inver' la porta
del bassissimo pozzo tutta pende,
lo sito di ciascuna valle porta
che l'una costa
surge e l'altra scende;
noi pur venimmo al fine in su la punta
onde l'ultima pietra si scoscende.
La lena m'era
del polmon sì munta
quand' io fui sù, ch'i' non potea più oltre,
anzi m'assisi ne la prima giunta.
«Omai convien
che tu così ti spoltre»,
disse 'l maestro; «ché, seggendo in piuma,
in fama non si vien, né sotto coltre;
sanza la qual
chi sua vita consuma,
cotal vestigio in terra di sé lascia,
qual fummo in aere e in acqua la schiuma.
E però
leva sù; vinci l'ambascia
con l'animo che vince ogne battaglia,
se col suo grave corpo non s'accascia.
Più
lunga scala convien che si saglia;
non basta da costoro esser partito.
Se tu mi 'ntendi, or fa sì che ti vaglia».
Leva'mi allor,
mostrandomi fornito
meglio di lena ch'i' non mi sentia,
e dissi: «Va, ch'i' son forte e ardito».
Su per lo
scoglio prendemmo la via,
ch'era ronchioso, stretto e malagevole,
ed erto più assai che quel di pria.
Parlando andava
per non parer fievole;
onde una voce uscì de l'altro fosso,
a parole formar disconvenevole.
Non so che
disse, ancor che sovra 'l dosso
fossi de l'arco già che varca quivi;
ma chi parlava ad ire parea mosso.
Io era
vòlto in giù, ma li occhi vivi
non poteano ire al fondo per lo scuro;
per ch'io: «Maestro, fa che tu arrivi
da l'altro
cinghio e dismontiam lo muro;
ché, com' i' odo quinci e non intendo,
così giù veggio e neente affiguro».
«Altra
risposta», disse, «non ti rendo
se non lo far; ché la dimanda onesta
si de' seguir con l'opera tacendo».
Noi discendemmo
il ponte da la testa
dove s'aggiugne con l'ottava ripa,
e poi mi fu la bolgia manifesta:
e vidivi entro
terribile stipa
di serpenti, e di sì diversa mena
che la memoria il sangue ancor mi scipa.
Più non
si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante
pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l'Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa
cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le
man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e 'l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un
ch'era da nostra proda,
s'avventò un serpente che 'l trafisse
là dove 'l collo a le spalle s'annoda.
Né O sì
tosto mai né I si scrisse,
com' el s'accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a
terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e 'n quel medesmo ritornò di butto.
Così per
li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado
in sua vita non pasce,
ma sol d'incenso lagrime e d'amomo,
e nardo e mirra son l'ultime fasce.
E qual è
quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch'a terra il tira,
o d'altra oppilazion che lega l'omo,
quando si leva,
che 'ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch'elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era 'l
peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant' è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il
domandò poi chi ello era;
per ch'ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi
piacque e non umana,
sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al
duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù 'l pinse;
ch'io 'l vidi uomo di sangue e di crucci».
E 'l peccator,
che 'ntese, non s'infinse,
ma drizzò verso me l'animo e 'l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse:
«Più mi duol che tu m'hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l'altra vita tolto.
Io non posso
negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch' io fui
ladro a la sagrestia d'i belli arredi,
e falsamente
già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da' luoghi bui,
apri li orecchi
al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d'i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte
vapor di Val di Magra
ch'è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo
Picen fia combattuto;
ond' ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch'ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l'ho
perché doler ti debbia!».
CANTO XXV
[Canto XXV, dove si tratta di quella medesima materia che detta
è nel capitolo dinanzi a questo, e tratta contr' a' fiorentini, ma in
prima sgrida contro a la città di Pistoia; ed è quella medesima
bolgia.]
Al fine de le
sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch'a te le squadro!».
Da indi in qua
mi fuor le serpi amiche,
perch' una li s'avvolse allora al collo,
come dicesse 'Non vo' che più diche';
e un'altra a le
braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.
Ahi Pistoia,
Pistoia, ché non stanzi
d'incenerarti sì che più non duri,
poi che 'n mal fare il seme tuo avanzi?
Per tutt' i
cerchi de lo 'nferno scuri
non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da' muri.
El si
fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov' è, ov' è l'acerbo?».
Maremma non
cred' io che tante n'abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
Sovra le
spalle, dietro da la coppa,
con l'ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s'intoppa.
Lo mio maestro
disse: «Questi è Caco,
che, sotto 'l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco.
Non va co' suoi
fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch'elli ebbe a vicino;
onde cessar le
sue opere biece
sotto la mazza d'Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».
Mentre che
sì parlava, ed el trascorse,
e tre spiriti venner sotto noi,
de' quai né io né 'l duca mio s'accorse,
se non quando
gridar: «Chi siete voi?»;
per che nostra novella si ristette,
e intendemmo pur ad essi poi.
Io non li
conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l'un nomar un altro convenette,
dicendo:
«Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch'io, acciò che 'l duca stesse attento,
mi puosi 'l dito su dal mento al naso.
Se tu se' or,
lettore, a creder lento
ciò ch'io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che 'l vidi, a pena il mi consento.
Com' io tenea
levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l'uno, e tutto a lui s'appiglia.
Co' piè
di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l'una e l'altra guancia;
li diretani a
le cosce distese,
e miseli la coda tra 'mbedue
e dietro per le ren sù la ritese.
Ellera
abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l'orribil fiera
per l'altrui membra avviticchiò le sue.
Poi s'appiccar,
come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l'un né l'altro già parea quel ch'era:
come procede
innanzi da l'ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e 'l bianco more.
Li altri due 'l
riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se' né due né uno».
Già eran
li due capi un divenuti,
quando n'apparver due figure miste
in una faccia, ov' eran due perduti.
Fersi le
braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e 'l ventre e 'l casso
divenner membra che non fuor mai viste.
Ogne primaio
aspetto ivi era casso:
due e nessun l'imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo.
Come 'l ramarro
sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa,
sì
pareva, venendo verso l'epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe;
e quella parte
onde prima è preso
nostro alimento, a l'un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso.
Lo trafitto 'l
mirò, ma nulla disse;
anzi, co' piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l'assalisse.
Elli 'l
serpente e quei lui riguardava;
l'un per la piaga e l'altro per la bocca
fummavan forte, e 'l fummo si scontrava.
Taccia Lucano
ormai là dov' e' tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch'or si scocca.
Taccia di Cadmo
e d'Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo 'nvidio;
ché due nature
mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch'amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte.
Insieme si
rispuosero a tai norme,
che 'l serpente la coda in forca fesse,
e 'l feruto ristrinse insieme l'orme.
Le gambe con le
cosce seco stesse
s'appiccar sì, che 'n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse.
Togliea la coda
fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar
le braccia per l'ascelle,
e i due piè de la fiera, ch'eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li
piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l'uom cela,
e 'l misero del suo n'avea due porti.
Mentre che 'l
fummo l'uno e l'altro vela
di color novo, e genera 'l pel suso
per l'una parte e da l'altra il dipela,
l'un si
levò e l'altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso.
Quel ch'era
dritto, il trasse ver' le tempie,
e di troppa matera ch'in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie;
ciò che
non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne.
Quel che
giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia;
e la lingua,
ch'avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l'altro si richiude; e 'l fummo resta.
L'anima ch'era
fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l'altro dietro a lui parlando sputa.
Poscia li volse
le novelle spalle,
e disse a l'altro: «I' vo' che Buoso corra,
com' ho fatt' io, carpon per questo calle».
Così
vid' io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra.
E avvegna che
li occhi miei confusi
fossero alquanto e l'animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
ch'i' non
scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato;
l'altr' era
quel che tu, Gaville, piagni.
CANTO XXVI
[Canto XXVI, nel quale si tratta de l'ottava bolgia contro a
quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro
a' fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d'Ulisse e Diomedes
pone loro pene.]
Godi, Fiorenza,
poi che se' sì grande
che per mare e per terra batti l'ali,
e per lo 'nferno tuo nome si spande!
Tra li ladron
trovai cinque cotali
tuoi cittadini onde mi ven vergogna,
e tu in grande orranza non ne sali.
Ma se presso al
mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.
E se già
fosse, non saria per tempo.
Così foss' ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com' più m'attempo.
Noi ci
partimmo, e su per le scalee
che n'avea fatto iborni a scender pria,
rimontò 'l duca mio e trasse mee;
e proseguendo
la solinga via,
tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio
lo piè sanza la man non si spedia.
Allor mi dolsi,
e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi,
e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio,
perché non
corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m'ha dato 'l ben, ch'io stessi nol m'invidi.
Quante 'l
villan ch'al poggio si riposa,
nel tempo che colui che 'l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca
cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov' e' vendemmia e ara:
di tante fiamme
tutta risplendea
l'ottava bolgia, sì com' io m'accorsi
tosto che fui là 've 'l fondo parea.
E qual colui
che si vengiò con li orsi
vide 'l carro d'Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea
sì con li occhi seguire,
ch'el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move
ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra 'l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra
'l ponte a veder surto,
sì che s'io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz' esser urto.
E 'l duca che
mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch'elli è inceso».
«Maestro mio»,
rispuos' io, «per udirti
son io più certo; ma già m'era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è 'n
quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov' Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me:
«Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l'ira;
e dentro da la
lor fiamma si geme
l'agguato del caval che fé la porta
onde uscì de' Romani il gentil seme.
Piangevisi
entro l'arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d'Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S'ei posson
dentro da quelle faville
parlar», diss' io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che 'l priego vaglia mille,
che non mi
facci de l'attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver' lei mi piego!».
Ed elli a me:
«La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l'accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare
a me, ch'i' ho concetto
ciò che tu vuoi; ch'ei sarebbero schivi,
perch' e' fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la
fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete
due dentro ad un foco,
s'io meritai di voi mentre ch'io vissi,
s'io meritai di voi assai o poco
quando nel
mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l'un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior
corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima
qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti' da
Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di
figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero
dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per
l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e
l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni
eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segnò li suoi riguardi
acciò
che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O
frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri
sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la
vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni
fec' io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra
poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle
già de l'altro polo
vedea la notte, e 'l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte
racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,
quando
n'apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci
allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé
girar con tutte l'acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com' altrui piacque,
infin che 'l
mar fu sovra noi richiuso».
CANTO XXVII
[Canto XXVII, dove tratta di que' medesimi aguatatori e falsi
consiglieri d'inganni in persona del conte Guido da Montefeltro.]
Già era
dritta in sù la fiamma e queta
per non dir più, e già da noi sen gia
con la licenza del dolce poeta,
quand'
un'altra, che dietro a lei venìa,
ne fece volger li occhi a la sua cima
per un confuso suon che fuor n'uscia.
Come 'l bue
cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l'avea temperato con sua lima,
mugghiava con
la voce de l'afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;
così,
per non aver via né forame
dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertïan le parole grame.
Ma poscia
ch'ebber colto lor vïaggio
su per la punta, dandole quel guizzo
che dato avea la lingua in lor passaggio,
udimmo dire: «O
tu a cu' io drizzo
la voce e che parlavi mo lombardo,
dicendo "Istra ten va, più non t'adizzo",
perch' io sia
giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo!
Se tu pur mo in
questo mondo cieco
caduto se' di quella dolce terra
latina ond' io mia colpa tutta reco,
dimmi se
Romagnuoli han pace o guerra;
ch'io fui d'i monti là intra Orbino
e 'l giogo di che Tever si diserra».
Io era in giuso
ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino».
E io, ch'avea
già pronta la risposta,
sanza indugio a parlare incominciai:
«O anima che se' là giù nascosta,
Romagna tua non
è, e non fu mai,
sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni;
ma 'n palese nessuna or vi lasciai.
Ravenna sta
come stata è molt' anni:
l'aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co' suoi vanni.
La terra che fé
già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
E 'l mastin
vecchio e 'l nuovo da Verrucchio,
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d'i denti succhio.
Le città
di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
E quella cu' il
Savio bagna il fianco,
così com' ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
Ora chi se', ti
priego che ne conte;
non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte».
Poscia che 'l
foco alquanto ebbe rugghiato
al modo suo, l'aguta punta mosse
di qua, di là, e poi diè cotal fiato:
«S'i' credesse
che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse;
ma però
che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s'i' odo il vero,
sanza tema d'infamia ti rispondo.
Io fui uom
d'arme, e poi fui cordigliero,
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero,
se non fosse il
gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m'intenda.
Mentre ch'io
forma fui d'ossa e di polpe
che la madre mi diè, l'opere mie
non furon leonine, ma di volpe.
Li accorgimenti
e le coperte vie
io seppi tutte, e sì menai lor arte,
ch'al fine de la terra il suono uscie.
Quando mi vidi
giunto in quella parte
di mia etade ove ciascun dovrebbe
calar le vele e raccoglier le sarte,
ciò che
pria mi piacëa, allor m'increbbe,
e pentuto e confesso mi rendei;
ahi miser lasso! e giovato sarebbe.
Lo principe d'i
novi Farisei,
avendo guerra presso a Laterano,
e non con Saracin né con Giudei,
ché ciascun suo
nimico era Cristiano,
e nessun era stato a vincer Acri
né mercatante in terra di Soldano,
né sommo
officio né ordini sacri
guardò in sé, né in me quel capestro
che solea fare i suoi cinti più macri.
Ma come
Costantin chiese Silvestro
d'entro Siratti a guerir de la lebbre,
così mi chiese questi per maestro
a guerir de la
sua superba febbre;
domandommi consiglio, e io tacetti
perché le sue parole parver ebbre.
E' poi ridisse:
"Tuo cuor non sospetti;
finor t'assolvo, e tu m'insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss'
io serrare e diserrare,
come tu sai; però son due le chiavi
che 'l mio antecessor non ebbe care".
Allor mi pinser
li argomenti gravi
là 've 'l tacer mi fu avviso 'l peggio,
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi
di quel peccato
ov' io mo cader deggio,
lunga promessa con l'attender corto
ti farà trïunfar ne l'alto seggio".
Francesco venne
poi, com' io fu' morto,
per me; ma un d'i neri cherubini
li disse: "Non portar: non mi far torto.
Venir se ne dee
giù tra ' miei meschini
perché diede 'l consiglio frodolente,
dal quale in qua stato li sono a' crini;
ch'assolver non
si può chi non si pente,
né pentere e volere insieme puossi
per la contradizion che nol consente".
Oh me dolente!
come mi riscossi
quando mi prese dicendomi: "Forse
tu non pensavi ch'io löico fossi!".
A Minòs
mi portò; e quelli attorse
otto volte la coda al dosso duro;
e poi che per gran rabbia la si morse,
disse:
"Questi è d'i rei del foco furo";
per ch'io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro».
Quand' elli
ebbe 'l suo dir così compiuto,
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo 'l corno aguto.
Noi passamm'
oltre, e io e 'l duca mio,
su per lo scoglio infino in su l'altr' arco
che cuopre 'l fosso in che si paga il fio
a quei che
scommettendo acquistan carco.
CANTO XXVIII
[Canto XXVIII, nel quale tratta le qualitadi de la nona bolgia,
dove l'auttore vide punire coloro che commisero scandali, e' seminatori di
scisma e discordia e d'ogne altro male operare.]
Chi poria mai
pur con parole sciolte
dicer del sangue e de le piaghe a pieno
ch'i' ora vidi, per narrar più volte?
Ogne lingua per
certo verria meno
per lo nostro sermone e per la mente
c'hanno a tanto comprender poco seno.
S'el s'aunasse
ancor tutta la gente
che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente
per li Troiani
e per la lunga guerra
che de l'anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,
con quella che
sentio di colpi doglie
per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l'altra il cui ossame ancor s'accoglie
a Ceperan,
là dove fu bugiardo
ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz' arme vinse il vecchio Alardo;
e qual forato
suo membro e qual mozzo
mostrasse, d'aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
Già
veggia, per mezzul perdere o lulla,
com' io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe
pendevan le minugia;
la corata pareva e 'l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che
tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: «Or vedi com' io mi dilacco!
vedi come
storpiato è Mäometto!
Dinanzi a me sen va piangendo Alì,
fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li
altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo
è qua dietro che n'accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand' avem
volta la dolente strada;
però che le ferite son richiuse
prima ch'altri dinanzi li rivada.
Ma tu chi se'
che 'n su lo scoglio muse,
forse per indugiar d'ire a la pena
ch'è giudicata in su le tue accuse?».
«Né morte 'l
giunse ancor, né colpa 'l mena»,
rispuose 'l mio maestro, «a tormentarlo;
ma per dar lui esperïenza piena,
a me, che morto
son, convien menarlo
per lo 'nferno qua giù di giro in giro;
e quest' è ver così com' io ti parlo».
Più fuor
di cento che, quando l'udiro,
s'arrestaron nel fosso a riguardarmi
per maraviglia, oblïando il martiro.
«Or dì a
fra Dolcin dunque che s'armi,
tu che forse vedra' il sole in breve,
s'ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di
vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch'altrimenti acquistar non saria leve».
Poi che l'un
piè per girsene sospese,
Mäometto mi disse esta parola;
indi a partirsi in terra lo distese.
Un altro, che forata
avea la gola
e tronco 'l naso infin sotto le ciglia,
e non avea mai ch'una orecchia sola,
ristato a
riguardar per maraviglia
con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,
ch'era di fuor d'ogne parte vermiglia,
e disse: «O tu
cui colpa non condanna
e cu' io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m'inganna,
rimembriti di
Pier da Medicina,
se mai torni a veder lo dolce piano
che da Vercelli a Marcabò dichina.
E fa saper a'
due miglior da Fano,
a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l'antiveder qui non è vano,
gittati saran
fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d'un tiranno fello.
Tra l'isola di
Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor
che vede pur con l'uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà
venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch'al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco».
E io a lui:
«Dimostrami e dichiara,
se vuo' ch'i' porti sù di te novella,
chi è colui da la veduta amara».
Allor puose la
mano a la mascella
d'un suo compagno e la bocca li aperse,
gridando: «Questi è desso, e non favella.
Questi,
scacciato, il dubitar sommerse
in Cesare, affermando che 'l fornito
sempre con danno l'attender sofferse».
Oh quanto mi
pareva sbigottito
con la lingua tagliata ne la strozza
Curïo, ch'a dir fu così ardito!
E un ch'avea
l'una e l'altra man mozza,
levando i moncherin per l'aura fosca,
sì che 'l sangue facea la faccia sozza,
gridò:
«Ricordera'ti anche del Mosca,
che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",
che fu mal seme per la gente tosca».
E io li
aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;
per ch'elli, accumulando duol con duolo,
sen gio come persona trista e matta.
Ma io rimasi a
riguardar lo stuolo,
e vidi cosa ch'io avrei paura,
sanza più prova, di contarla solo;
se non che
coscïenza m'assicura,
la buona compagnia che l'uom francheggia
sotto l'asbergo del sentirsi pura.
Io vidi certo,
e ancor par ch'io 'l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia;
e 'l capo
tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».
Di sé facea a
sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com' esser può, quei sa che sì governa.
Quando diritto
al piè del ponte fue,
levò 'l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue,
che fuoro: «Or
vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s'alcuna è grande come questa.
E perché tu di
me novella porti,
sappi ch'i' son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma' conforti.
Io feci il
padre e 'l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d'Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli.
Perch' io
parti' così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch'è in questo troncone.
Così
s'osserva in me lo contrapasso».
CANTO XXIX
[Canto XXIX, ove tratta de la decima bolgia, dove si puniscono i
falsi fabricatori di qualunque opera, e isgrida e riprende l'autore i Sanesi.]
La molta gente
e le diverse piaghe
avean le luci mie sì inebrïate,
che de lo stare a piangere eran vaghe.
Ma Virgilio mi
disse: «Che pur guate?
perché la vista tua pur si soffolge
là giù tra l'ombre triste smozzicate?
Tu non hai
fatto sì a l'altre bolge;
pensa, se tu annoverar le credi,
che miglia ventidue la valle volge.
E già la
luna è sotto i nostri piedi;
lo tempo è poco omai che n'è concesso,
e altro è da veder che tu non vedi».
«Se tu avessi»,
rispuos' io appresso,
«atteso a la cagion per ch'io guardava,
forse m'avresti ancor lo star dimesso».
Parte sen giva,
e io retro li andava,
lo duca, già faccendo la risposta,
e soggiugnendo: «Dentro a quella cava
dov' io tenea
or li occhi sì a posta,
credo ch'un spirto del mio sangue pianga
la colpa che là giù cotanto costa».
Allor disse 'l
maestro: «Non si franga
lo tuo pensier da qui innanzi sovr' ello.
Attendi ad altro, ed ei là si rimanga;
ch'io vidi lui
a piè del ponticello
mostrarti e minacciar forte col dito,
e udi' 'l nominar Geri del Bello.
Tu eri allor
sì del tutto impedito
sovra colui che già tenne Altaforte,
che non guardasti in là, sì fu partito».
«O duca mio, la
vïolenta morte
che non li è vendicata ancor», diss' io,
«per alcun che de l'onta sia consorte,
fece lui
disdegnoso; ond' el sen gio
sanza parlarmi, sì com' ïo estimo:
e in ciò m'ha el fatto a sé più pio».
Così
parlammo infino al loco primo
che de lo scoglio l'altra valle mostra,
se più lume vi fosse, tutto ad imo.
Quando noi
fummo sor l'ultima chiostra
di Malebolge, sì che i suoi conversi
potean parere a la veduta nostra,
lamenti
saettaron me diversi,
che di pietà ferrati avean li strali;
ond' io li orecchi con le man copersi.
Qual dolor
fora, se de li spedali
di Valdichiana tra 'l luglio e 'l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una
fossa tutti 'nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n'usciva
qual suol venir de le marcite membre.
Noi discendemmo
in su l'ultima riva
del lungo scoglio, pur da man sinistra;
e allor fu la mia vista più viva
giù ver'
lo fondo, la 've la ministra
de l'alto Sire infallibil giustizia
punisce i falsador che qui registra.
Non credo ch'a
veder maggior tristizia
fosse in Egina il popol tutto infermo,
quando fu l'aere sì pien di malizia,
che li animali,
infino al picciol vermo,
cascaron tutti, e poi le genti antiche,
secondo che i poeti hanno per fermo,
si ristorar di
seme di formiche;
ch'era a veder per quella oscura valle
languir li spirti per diverse biche.
Qual sovra 'l
ventre e qual sovra le spalle
l'un de l'altro giacea, e qual carpone
si trasmutava per lo tristo calle.
Passo passo
andavam sanza sermone,
guardando e ascoltando li ammalati,
che non potean levar le lor persone.
Io vidi due
sedere a sé poggiati,
com' a scaldar si poggia tegghia a tegghia,
dal capo al piè di schianze macolati;
e non vidi
già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso,
né a colui che mal volontier vegghia,
come ciascun
menava spesso il morso
de l'unghie sopra sé per la gran rabbia
del pizzicor, che non ha più soccorso;
e sì traevan
giù l'unghie la scabbia,
come coltel di scardova le scaglie
o d'altro pesce che più larghe l'abbia.
«O tu che con
le dita ti dismaglie»,
cominciò 'l duca mio a l'un di loro,
«e che fai d'esse talvolta tanaglie,
dinne s'alcun
Latino è tra costoro
che son quinc' entro, se l'unghia ti basti
etternalmente a cotesto lavoro».
«Latin siam
noi, che tu vedi sì guasti
qui ambedue», rispuose l'un piangendo;
«ma tu chi se' che di noi dimandasti?».
E 'l duca
disse: «I' son un che discendo
con questo vivo giù di balzo in balzo,
e di mostrar lo 'nferno a lui intendo».
Allor si ruppe
lo comun rincalzo;
e tremando ciascuno a me si volse
con altri che l'udiron di rimbalzo.
Lo buon maestro
a me tutto s'accolse,
dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»;
e io incominciai, poscia ch'ei volse:
«Se la vostra
memoria non s'imboli
nel primo mondo da l'umane menti,
ma s'ella viva sotto molti soli,
ditemi chi voi
siete e di che genti;
la vostra sconcia e fastidiosa pena
di palesarvi a me non vi spaventi».
«Io fui
d'Arezzo, e Albero da Siena»,
rispuose l'un, «mi fé mettere al foco;
ma quel per ch'io mori' qui non mi mena.
Vero è
ch'i' dissi lui, parlando a gioco:
"I' mi saprei levar per l'aere a volo";
e quei, ch'avea vaghezza e senno poco,
volle ch'i' li
mostrassi l'arte; e solo
perch' io nol feci Dedalo, mi fece
ardere a tal che l'avea per figliuolo.
Ma ne l'ultima
bolgia de le diece
me per l'alchìmia che nel mondo usai
dannò Minòs, a cui fallar non lece».
E io dissi al
poeta: «Or fu già mai
gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d'assai!».
Onde l'altro
lebbroso, che m'intese,
rispuose al detto mio: «Tra'mene Stricca
che seppe far le temperate spese,
e
Niccolò che la costuma ricca
del garofano prima discoverse
ne l'orto dove tal seme s'appicca;
e tra'ne la
brigata in che disperse
Caccia d'Ascian la vigna e la gran fonda,
e l'Abbagliato suo senno proferse.
Ma perché sappi
chi sì ti seconda
contra i Sanesi, aguzza ver' me l'occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:
sì
vedrai ch'io son l'ombra di Capocchio,
che falsai li metalli con l'alchìmia;
e te dee ricordar, se ben t'adocchio,
com' io fui di
natura buona scimia».
CANTO XXX
[Canto XXX, ove tratta di quella medesima materia e gente.]
Nel tempo che
Iunone era crucciata
per Semelè contra 'l sangue tebano,
come mostrò una e altra fïata,
Atamante
divenne tanto insano,
che veggendo la moglie con due figli
andar carcata da ciascuna mano,
gridò:
«Tendiam le reti, sì ch'io pigli
la leonessa e ' leoncini al varco»;
e poi distese i dispietati artigli,
prendendo l'un
ch'avea nome Learco,
e rotollo e percosselo ad un sasso;
e quella s'annegò con l'altro carco.
E quando la
fortuna volse in basso
l'altezza de' Troian che tutto ardiva,
sì che 'nsieme col regno il re fu casso,
Ecuba trista,
misera e cattiva,
poscia che vide Polissena morta,
e del suo Polidoro in su la riva
del mar si fu
la dolorosa accorta,
forsennata latrò sì come cane;
tanto il dolor le fé la mente torta.
Ma né di Tebe
furie né troiane
si vider mäi in alcun tanto crude,
non punger bestie, nonché membra umane,
quant' io vidi
in due ombre smorte e nude,
che mordendo correvan di quel modo
che 'l porco quando del porcil si schiude.
L'una giunse a
Capocchio, e in sul nodo
del collo l'assannò, sì che, tirando,
grattar li fece il ventre al fondo sodo.
E l'Aretin che
rimase, tremando
mi disse: «Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando».
«Oh», diss' io
lui, «se l'altro non ti ficchi
li denti a dosso, non ti sia fatica
a dir chi è, pria che di qui si spicchi».
Ed elli a me:
«Quell' è l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre, fuor del dritto amore, amica.
Questa a peccar
con esso così venne,
falsificando sé in altrui forma,
come l'altro che là sen va, sostenne,
per guadagnar
la donna de la torma,
falsificare in sé Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma».
E poi che i due
rabbiosi fuor passati
sovra cu' io avea l'occhio tenuto,
rivolsilo a guardar li altri mal nati.
Io vidi un,
fatto a guisa di lëuto,
pur ch'elli avesse avuta l'anguinaia
tronca da l'altro che l'uomo ha forcuto.
La grave
idropesì, che sì dispaia
le membra con l'omor che mal converte,
che 'l viso non risponde a la ventraia,
faceva lui
tener le labbra aperte
come l'etico fa, che per la sete
l'un verso 'l mento e l'altro in sù rinverte.
«O voi che
sanz' alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss' elli a noi, «guardate e attendete
a la miseria
del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch'i' volli,
e ora, lasso!, un gocciol d'acqua bramo.
Li ruscelletti
che d'i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi
stanno innanzi, e non indarno,
ché l'imagine lor vie più m'asciuga
che 'l male ond' io nel volto mi discarno.
La rigida
giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov' io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.
Ivi è
Romena, là dov' io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch'io il corpo sù arso lasciai.
Ma s'io vedessi
qui l'anima trista
di Guido o d'Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro
c'è l'una già, se l'arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c'ho le membra legate?
S'io fossi pur
di tanto ancor leggero
ch'i' potessi in cent' anni andare un'oncia,
io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui
tra questa gente sconcia,
con tutto ch'ella volge undici miglia,
e men d'un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor
tra sì fatta famiglia;
e' m'indussero a batter li fiorini
ch'avevan tre carati di mondiglia».
E io a lui: «Chi
son li due tapini
che fumman come man bagnate 'l verno,
giacendo stretti a' tuoi destri confini?».
«Qui li trovai
— e poi volta non dierno — »,
rispuose, «quando piovvi in questo greppo,
e non credo che dieno in sempiterno.
L'una è
la falsa ch'accusò Gioseppo;
l'altr' è 'l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
E l'un di lor,
che si recò a noia
forse d'esser nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l'epa croia.
Quella
sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui:
«Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
ho io il braccio a tal mestiere sciolto».
Ond' ei
rispuose: «Quando tu andavi
al fuoco, non l'avei tu così presto;
ma sì e più l'avei quando coniavi».
E l'idropico:
«Tu di' ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
là 've del ver fosti a Troia richesto».
«S'io dissi
falso, e tu falsasti il conio»,
disse Sinon; «e son qui per un fallo,
e tu per più ch'alcun altro demonio!».
«Ricorditi,
spergiuro, del cavallo»,
rispuose quel ch'avëa infiata l'epa;
«e sieti reo che tutto il mondo sallo!».
«E te sia rea
la sete onde ti crepa»,
disse 'l Greco, «la lingua, e l'acqua marcia
che 'l ventre innanzi a li occhi sì t'assiepa!».
Allora il
monetier: «Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
ché, s'i' ho sete e omor mi rinfarcia,
tu hai l'arsura
e 'l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
non vorresti a 'nvitar molte parole».
Ad ascoltarli
er' io del tutto fisso,
quando 'l maestro mi disse: «Or pur mira,
che per poco che teco non mi risso!».
Quand' io 'l
senti' a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
ch'ancor per la memoria mi si gira.
Qual è
colui che suo dannaggio sogna,
che sognando desidera sognare,
sì che quel ch'è, come non fosse, agogna,
tal mi fec' io,
non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
me tuttavia, e nol mi credea fare.
«Maggior
difetto men vergogna lava»,
disse 'l maestro, «che 'l tuo non è stato;
però d'ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion
ch'io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t'accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
ché voler
ciò udire è bassa voglia».
CANTO XXXI
[Canto XXXI, ove tratta de' giganti che guardano il pozzo de
l'inferno, ed è il nono cerchio.]
Una medesma
lingua pria mi morse,
sì che mi tinse l'una e l'altra guancia,
e poi la medicina mi riporse;
così od'
io che solea far la lancia
d'Achille e del suo padre esser cagione
prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il
dosso al misero vallone
su per la ripa che 'l cinge dintorno,
attraversando sanza alcun sermone.
Quiv' era men
che notte e men che giorno,
sì che 'l viso m'andava innanzi poco;
ma io senti' sonare un alto corno,
tanto
ch'avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la
dolorosa rotta, quando
Carlo Magno perdé la santa gesta,
non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in
là volta la testa,
che me parve veder molte alte torri;
ond' io: «Maestro, dì, che terra è questa?».
Ed elli a me:
«Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben,
se tu là ti congiungi,
quanto 'l senso s'inganna di lontano;
però alquanto più te stesso pungi».
Poi caramente
mi prese per mano
e disse: «Pria che noi siam più avanti,
acciò che 'l fatto men ti paia strano,
sappi che non
son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
da l'umbilico in giuso tutti quanti».
Come quando la
nebbia si dissipa,
lo sguardo a poco a poco raffigura
ciò che cela 'l vapor che l'aere stipa,
così
forando l'aura grossa e scura,
più e più appressando ver' la sponda,
fuggiemi errore e crescémi paura;
però
che, come su la cerchia tonda
Montereggion di torri si corona,
così la proda che 'l pozzo circonda
torreggiavan di
mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva
già d'alcun la faccia,
le spalle e 'l petto e del ventre gran parte,
e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo,
quando lasciò l'arte
di sì fatti animali, assai fé bene
per tòrre tali essecutori a Marte.
E s'ella
d'elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove
l'argomento de la mente
s'aggiugne al mal volere e a la possa,
nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua
mi parea lunga e grossa
come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l'altre ossa;
sì che
la ripa, ch'era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison
s'averien dato mal vanto;
però ch'i' ne vedea trenta gran palmi
dal loco in giù dov' omo affibbia 'l manto.
«Raphèl
maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E 'l duca mio
ver' lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand' ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al
collo, e troverai la soga
che 'l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che 'l gran petto ti doga».
Poi disse a me:
«Elli stessi s'accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s'usa.
Lasciànlo
stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
come 'l suo ad altrui, ch'a nullo è noto».
Facemmo adunque
più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d'un balestro
trovammo l'altro assai più fero e maggio.
A cigner lui
qual che fosse 'l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
dinanzi l'altro e dietro il braccio destro
d'una catena
che 'l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che 'n su lo scoperto
si ravvolgëa infino al giro quinto.
«Questo superbo
volle esser esperto
di sua potenza contra 'l sommo Giove»,
disse 'l mio duca, «ond' elli ha cotal merto.
Fïalte ha
nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a' dèi;
le braccia ch'el menò, già mai non move».
E io a lui:
«S'esser puote, io vorrei
che de lo smisurato Brïareo
esperïenza avesser li occhi mei».
Ond' ei
rispuose: «Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
che ne porrà nel fondo d'ogne reo.
Quel che tu
vuo' veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
salvo che più feroce par nel volto».
Non fu tremoto
già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
come Fïalte a scuotersi fu presto.
Allor temett'
io più che mai la morte,
e non v'era mestier più che la dotta,
s'io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo
più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle,
sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
«O tu che ne la
fortunata valle
che fece Scipïon di gloria reda,
quand' Anibàl co' suoi diede le spalle,
recasti
già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l'alta guerra
de' tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch'avrebber
vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire
a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama;
però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti
può nel mondo render fama,
ch'el vive, e lunga vita ancor aspetta
se 'nnanzi tempo grazia a sé nol chiama».
Così
disse 'l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese 'l duca mio,
ond' Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio,
quando prender si sentio,
disse a me: «Fatti qua, sì ch'io ti prenda»;
poi fece sì ch'un fascio era elli e io.
Qual pare a
riguardar la Carisenda
sotto 'l chinato, quando un nuvol vada
sovr' essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo
a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
ch'i' avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente
al fondo che divora
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, lì fece dimora,
e come albero
in nave si levò.
CANTO XXXII
[Canto XXXII, nel quale tratta de' traditori di loro schiatta e
de' traditori de la loro patria, che sono nel pozzo de l'inferno.]
S'ïo
avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,
io premerei di
mio concetto il suco
più pienamente; ma perch' io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non
è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne
aiutino il mio verso
ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte
mal creata plebe
che stai nel loco onde parlare è duro,
mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo
giù nel pozzo scuro
sotto i piè del gigante assai più bassi,
e io mirava ancora a l'alto muro,
dicere udi'mi:
«Guarda come passi:
va sì, che tu non calchi con le piante
le teste de' fratei miseri lassi».
Per ch'io mi
volsi, e vidimi davante
e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.
Non fece al
corso suo sì grosso velo
di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto 'l freddo cielo,
com' era quivi;
che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l'orlo fatto cricchi.
E come a
gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin
là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in
giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.
Quand' io
m'ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a' piedi, e vidi due sì stretti,
che 'l pel del capo avieno insieme misto.
«Ditemi, voi
che sì strignete i petti»,
diss' io, «chi siete?». E quei piegaro i colli;
e poi ch'ebber li visi a me eretti,
li occhi lor,
ch'eran pria pur dentro molli,
gocciar su per le labbra, e 'l gelo strinse
le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno
spranga mai non cinse
forte così; ond' ei come due becchi
cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch'avea
perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
disse: «Perché cotanto in noi ti specchi?
Se vuoi saper
chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.
D'un corpo
usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d'esser fitta in gelatina:
non quelli a
cui fu rotto il petto e l'ombra
con esso un colpo per la man d'Artù;
non Focaccia; non questi che m'ingombra
col capo
sì, ch'i' non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
se tosco se', ben sai omai chi fu.
E perché non mi
metti in più sermoni,
sappi ch'i' fu' il Camiscion de' Pazzi;
e aspetto Carlin che mi scagioni».
Poscia vid' io
mille visi cagnazzi
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
e verrà sempre, de' gelati guazzi.
E mentre
ch'andavamo inver' lo mezzo
al quale ogne gravezza si rauna,
e io tremava ne l'etterno rezzo;
se voler fu o
destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
forte percossi 'l piè nel viso ad una.
Piangendo mi
sgridò: «Perché mi peste?
se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?».
E io: «Maestro
mio, or qui m'aspetta,
sì ch'io esca d'un dubbio per costui;
poi mi farai, quantunque vorrai, fretta».
Lo duca stette,
e io dissi a colui
che bestemmiava duramente ancora:
«Qual se' tu che così rampogni altrui?».
«Or tu chi se'
che vai per l'Antenora,
percotendo», rispuose, «altrui le gote,
sì che, se fossi vivo, troppo fora?».
«Vivo son io, e
caro esser ti puote»,
fu mia risposta, «se dimandi fama,
ch'io metta il nome tuo tra l'altre note».
Ed elli a me:
«Del contrario ho io brama.
Lèvati quinci e non mi dar più lagna,
ché mal sai lusingar per questa lama!».
Allor lo presi
per la cuticagna
e dissi: «El converrà che tu ti nomi,
o che capel qui sù non ti rimagna».
Ond' elli a me:
«Perché tu mi dischiomi,
né ti dirò ch'io sia, né mosterrolti
se mille fiate in sul capo mi tomi».
Io avea
già i capelli in mano avvolti,
e tratti glien' avea più d'una ciocca,
latrando lui con li occhi in giù raccolti,
quando un altro
gridò: «Che hai tu, Bocca?
non ti basta sonar con le mascelle,
se tu non latri? qual diavol ti tocca?».
«Omai», diss'
io, «non vo' che più favelle,
malvagio traditor; ch'a la tua onta
io porterò di te vere novelle».
«Va via»,
rispuose, «e ciò che tu vuoi conta;
ma non tacer, se tu di qua entro eschi,
di quel ch'ebbe or così la lingua pronta.
El piange qui
l'argento de' Franceschi:
"Io vidi", potrai dir, "quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi".
Se fossi
domandato "Altri chi v'era?",
tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
Gianni de'
Soldanier credo che sia
più là con Ganellone e Tebaldello,
ch'aprì Faenza quando si dormia».
Noi eravam
partiti già da ello,
ch'io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l'un capo a l'altro era cappello;
e come 'l pan
per fame si manduca,
così 'l sovran li denti a l'altro pose
là 've 'l cervel s'aggiugne con la nuca:
non altrimenti
Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l'altre cose.
«O tu che
mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi 'l perché», diss' io, «per tal convegno,
che se tu a
ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con
ch'io parlo non si secca».
CANTO XXXIII
[Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in
loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e
grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.]
La bocca
sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto.
Poi
cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli.
Ma se le mie
parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlar e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi
tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo.
Tu dei saper
ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per
l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però
quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso.
Breve pertugio
dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,
m'avea mostrato
per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame.
Questi pareva a
me maestro e donno,
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne
magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol
corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui
desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch'eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se' crudel,
se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran
desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti'
chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa,
sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?".
Perciò
non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di
raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per
lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser:
"Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".
Queta'mi allor
per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi?
Poscia che
fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?".
Quivi
morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto dì e 'l sesto; ond' io mi diedi,
già
cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno».
Quand' ebbe
detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti.
Ahi Pisa,
vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,
muovasi la
Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona!
Che se 'l conte
Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce.
Innocenti facea
l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella.
Noi passammo
oltre, là 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata.
Lo pianto
stesso lì pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia;
ché le lagrime
prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
rïempion sotto 'l ciglio tutto il coppo.
E avvegna che,
sì come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo,
già mi
parea sentire alquanto vento;
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?».
Ond' elli a me:
«Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove».
E un de' tristi
de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v'è l'ultima posta,
levatemi dal
viso i duri veli,
sì ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli».
Per ch'io a
lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna».
Rispuose
adunque: «I' son frate Alberigo;
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo».
«Oh», diss' io
lui, «or se' tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto.
Cotal vantaggio
ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropòs mossa le dea.
E perché tu
più volentier mi rade
le 'nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade
come fec'
ïo, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto.
Ella ruina in
sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna.
Tu 'l dei
saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch'el fu sì racchiuso».
«Io credo»,
diss' io lui, «che tu m'inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni».
«Nel fosso
sù», diss' el, «de' Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche,
che questi
lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece.
Ma distendi
oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano.
Ahi Genovesi,
uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
Ché col
peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par
vivo ancor di sopra.
CANTO XXXIV
[Canto XXXIV e ultimo de la prima cantica di Dante Alleghieri di
Fiorenza, nel qual canto tratta di Belzebù principe de' dimoni e de'
traditori di loro signori, e narra come uscie de l'inferno.]
«Vexilla
regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse 'l maestro mio, «se tu 'l discerni».
Come quando una
grossa nebbia spira,
o quando l'emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che 'l vento gira,
veder mi parve
un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era,
e con paura il metto in metro,
là dove l'ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a
giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com' arco, il volto a' piè rinverte.
Quando noi
fummo fatti tanto avante,
ch'al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch'ebbe il bel sembiante,
d'innanzi mi si
tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t'armi».
Com' io divenni
allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch'i' non lo scrivo,
però ch'ogne parlar sarebbe poco.
Io non mori' e
non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s'hai fior d'ingegno,
qual io divenni, d'uno e d'altro privo.
Lo 'mperador
del doloroso regno
da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti
non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant' esser dee quel tutto
ch'a così fatta parte si confaccia.
S'el fu
sì bel com' elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve
a me gran maraviglia
quand' io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;
l'altr' eran
due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra
parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.
Sotto ciascuna
uscivan due grand' ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid' io mai cotali.
Non avean
penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito
tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca
dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi
il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell' anima
là sù c'ha maggior pena»,
disse 'l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due
c'hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l'altro
è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com' a lui
piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l'ali fuoro aperte assai,
appigliò
sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra 'l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi
fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l'anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa
ov' elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com' om che sale,
sì che 'n inferno i' credea tornar anche.
«Attienti ben,
ché per cotali scale»,
disse 'l maestro, ansando com' uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì
fuor per lo fóro d'un sasso
e puose me in su l'orlo a sedere;
appresso porse a me l'accorto passo.
Io levai li
occhi e credetti vedere
Lucifero com' io l'avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s'io divenni
allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch'io avea passato.
«Lèvati
sù», disse 'l maestro, «in piede:
la via è lunga e 'l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era
camminata di palagio
là 'v' eravam, ma natural burella
ch'avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch'io de
l'abisso mi divella,
maestro mio», diss' io quando fui dritto,
«a trarmi d'erro un poco mi favella:
ov' è la
ghiaccia? e questi com' è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc' ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me:
«Tu imagini ancora
d'esser di là dal centro, ov' io mi presi
al pel del vermo reo che 'l mondo fóra.
Di là
fosti cotanto quant' io scesi;
quand' io mi volsi, tu passasti 'l punto
al qual si traggon d'ogne parte i pesi.
E se' or sotto
l'emisperio giunto
ch'è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto 'l cui colmo consunto
fu l'uom che
nacque e visse sanza pecca;
tu haï i piedi in su picciola spera
che l'altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da
man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim' era.
Da questa parte
cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a
l'emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch'appar di qua, e sù ricorse».
Luogo è
là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d'un
ruscelletto che quivi discende
per la buca d'un sasso, ch'elli ha roso,
col corso ch'elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io
per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d'alcun riposo,
salimmo
sù, el primo e io secondo,
tanto ch'i' vidi de le cose belle
che porta 'l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi
uscimmo a riveder le stelle.
[Explicit prima pars Comedie Dantis Alagherii
Dantis Alagherii in qua tractatum est de Inferis]
LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
PURGATORIO
CANTO I
[Comincia la seconda parte overo cantica de la Comedia di Dante
Allaghieri di Firenze, ne la quale parte si purgano li commessi peccati e vizi
de' quali l'uomo è confesso e pentuto con animo di sodisfazione; e
contiene XXXIII canti. Qui sono quelli che sperano di venire quando che sia a
le beate genti.]
Per correr
miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e
canterò di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta
poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il
mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color
d'orïental zaffiro,
che s'accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei
ricominciò diletto,
tosto ch'io usci' fuor de l'aura morta
che m'avea contristati li occhi e 'l petto.
Lo bel pianeto
che d'amar conforta
faceva tutto rider l'orïente,
velando i Pesci ch'erano in sua scorta.
I' mi volsi a
man destra, e puosi mente
a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente.
Goder pareva 'l
ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se' di mirar quelle!
Com' io da loro
sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l'altro polo,
là onde 'l Carro già era sparito,
vidi presso di
me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba
e di pel bianco mista
portava, a' suoi capelli simigliante,
de' quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le
quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch'i' 'l vedea come 'l sol fosse davante.
«Chi siete voi
che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss' el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v'ha
guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi
d'abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio
allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e 'l ciglio.
Poscia rispuose
lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da
ch'è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com' ell' è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide
mai l'ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com'
io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i' mi son messo.
Mostrata ho lui
tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com' io l'ho
tratto, saria lungo a dirti;
de l'alto scende virtù che m'aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia
gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch'è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu 'l sai, ché
non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara.
Non son li
editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua,
che 'n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar
per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d'esser mentovato là giù degni».
«Marzïa
piacque tanto a li occhi miei
mentre ch'i' fu' di là», diss' elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di
là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n'usci' fora.
Ma se donna del
ciel ti move e regge,
come tu di', non c'è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa
che tu costui ricinghe
d'un giunco schietto e che li lavi 'l viso,
sì ch'ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si
converria, l'occhio sorpriso
d'alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch'è di quei di paradiso.
Questa isoletta
intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l'onda,
porta di giunchi sovra 'l molle limo:
null' altra
pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch'a le percosse non seconda.
Poscia non sia
di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così
sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El
cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a' suoi termini bassi».
L'alba vinceva
l'ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per
lo solingo piano
com' om che torna a la perduta strada,
che 'nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi
fummo là 've la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in
su l'erbetta sparte
soavemente 'l mio maestro pose:
ond' io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver' lui
le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l'inferno mi nascose.
Venimmo poi in
sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse
sì com' altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l'umile pianta, cotal si rinacque
subitamente
là onde l'avelse.
CANTO II
[Canto secondo, nel quale tratta
de la prima qualitade cioè dilettazione di vanitade, nel quale
peccato inviluppati sono puniti proprio fuori del purgatorio in uno piano, e in
persona di costoro nomina il Casella, uomo di corte.]
Già era
'l sole a l'orizzonte giunto
lo cui meridïan cerchio coverchia
Ierusalèm col suo più alto punto;
e la notte, che
opposita a lui cerchia,
uscia di Gange fuor con le Bilance,
che le caggion di man quando soverchia;
sì che
le bianche e le vermiglie guance,
là dov' i' era, de la bella Aurora
per troppa etate divenivan rance.
Noi eravam
lunghesso mare ancora,
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Ed ecco, qual,
sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra 'l suol marino,
cotal
m'apparve, s'io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che 'l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com'
io un poco ebbi ritratto
l'occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d'ogne lato
ad esso m'appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Lo mio maestro
ancor non facea motto,
mentre che i primi bianchi apparver ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò:
«Fa, fa che le ginocchia cali.
Ecco l'angel di Dio: piega le mani;
omai vedrai di sì fatti officiali.
Vedi che sdegna
li argomenti umani,
sì che remo non vuol, né altro velo
che l'ali sue, tra liti sì lontani.
Vedi come l'ha
dritte verso 'l cielo,
trattando l'aere con l'etterne penne,
che non si mutan come mortal pelo».
Poi, come
più e più verso noi venne
l'uccel divino, più chiaro appariva:
per che l'occhio da presso nol sostenne,
ma chinail
giuso; e quei sen venne a riva
con un vasello snelletto e leggero,
tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva.
Da poppa stava
il celestial nocchiero,
tal che faria beato pur descripto;
e più di cento spirti entro sediero.
'In exitu
Isräel de Aegypto'
cantavan tutti insieme ad una voce
con quanto di quel salmo è poscia scripto.
Poi fece il
segno lor di santa croce;
ond' ei si gittar tutti in su la piaggia:
ed el sen gì, come venne, veloce.
La turba che
rimase lì, selvaggia
parea del loco, rimirando intorno
come colui che nove cose assaggia.
Da tutte parti
saettava il giorno
lo sol, ch'avea con le saette conte
di mezzo 'l ciel cacciato Capricorno,
quando la nova
gente alzò la fronte
ver' noi, dicendo a noi: «Se voi sapete,
mostratene la via di gire al monte».
E Virgilio
rispuose: «Voi credete
forse che siamo esperti d'esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo,
innanzi a voi un poco,
per altra via, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
L'anime, che si
fuor di me accorte,
per lo spirare, ch'i' era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
E come a
messagger che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al
viso mio s'affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi oblïando d'ire a farsi belle.
Io vidi una di
lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane,
fuor che ne l'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia,
credo, mi dipinsi;
per che l'ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente
disse ch'io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s'arrestasse.
Rispuosemi:
«Così com' io t'amai
nel mortal corpo, così t'amo sciolta:
però m'arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio,
per tornar altra volta
là dov' io son, fo io questo vïaggio»,
diss' io; «ma a te com' è tanta ora tolta?».
Ed elli a me:
«Nessun m'è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m'ha negato esto passaggio;
ché di giusto
voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond' io, ch'era
ora a la marina vòlto
dove l'acqua di Tevero s'insala,
benignamente fu' da lui ricolto.
A quella foce
ha elli or dritta l'ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova
legge non ti toglie
memoria o uso a l'amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò
ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
'Amor che ne
la mente mi ragiona'
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro
e io e quella gente
ch'eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam
tutti fissi e attenti
a le sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual
negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch'esser non lascia a voi Dio manifesto».
Come quando,
cogliendo biado o loglio,
li colombi adunati a la pastura,
queti, sanza mostrar l'usato orgoglio,
se cosa appare
ond' elli abbian paura,
subitamente lasciano star l'esca,
perch' assaliti son da maggior cura;
così
vid' io quella masnada fresca
lasciar lo canto, e fuggir ver' la costa,
com' om che va, né sa dove rïesca;
né la nostra
partita fu men tosta.
CANTO III
[Canto III, nel quale si tratta de la seconda qualitade,
cioè di coloro che per cagione d'alcuna violenza che ricevettero,
tardaro di qui a loro fine a pentersi e confessarsi de' loro falli, sì
come sono quelli che muoiono in contumacia di Santa Chiesa scomunicati, li
quali sono puniti in quel piano. In essempro di cotali peccatori nomina tra
costoro il re Manfredi.]
Avvegna che la
subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i' mi ristrinsi
a la fida compagna:
e come sare' io sanza lui corso?
chi m'avria tratto su per la montagna?
El mi parea da
sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t'è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi
suoi lasciar la fretta,
che l'onestade ad ogn' atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo 'ntento
rallargò, sì come vaga,
e diedi 'l viso mio incontr' al poggio
che 'nverso 'l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che
dietro fiammeggiava roggio,
rotto m'era dinanzi a la figura,
ch'avëa in me de' suoi raggi l'appoggio.
Io mi volsi
dallato con paura
d'essere abbandonato, quand' io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e 'l mio
conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch'io ti guidi?
Vespero
è già colà dov' è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l'ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi
a me nulla s'aombra,
non ti maravigliar più che d'i cieli
che l'uno a l'altro raggio non ingombra.
A sofferir
tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch'a noi si sveli.
Matto è
chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti,
umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disïar
vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per lutto:
io dico
d'Aristotile e di Plato
e di molt' altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo
intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che 'ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e
Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da
qual man la costa cala»,
disse 'l maestro mio fermando 'l passo,
«sì che possa salir chi va sanz' ala?».
E mentre ch'e'
tenendo 'l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra
m'apparì una gente
d'anime, che movieno i piè ver' noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss'
io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò
allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch'ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel
popol di lontano,
i' dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si
strinser tutti ai duri massi
de l'alta ripa, e stetter fermi e stretti
com' a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti,
o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch'i' credo che per voi tutti s'aspetti,
ditene dove la
montagna giace,
sì che possibil sia l'andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le
pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l'altre stanno
timidette atterrando l'occhio e 'l muso;
e ciò
che fa la prima, e l'altre fanno,
addossandosi a lei, s'ella s'arresta,
semplici e quete, e lo 'mperché non sanno;
sì vid'
io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l'andare onesta.
Come color
dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l'ombra era da me a la grotta,
restaro, e
trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo 'l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra
domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che 'l lume del sole in terra è fesso.
Non vi
maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così 'l
maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
E un di loro
incominciò: «Chiunque
tu se', così andando, volgi 'l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi
ver' lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l'un de' cigli un colpo avea diviso.
Quand' io mi
fui umilmente disdetto
d'averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo 'l petto.
Poi sorridendo
disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond' io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia
bella figlia, genitrice
de l'onor di Cicilia e d'Aragona,
e dichi 'l vero a lei, s'altro si dice.
Poscia ch'io
ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon
li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se 'l pastor di
Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l'ossa del
corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia
e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo 'l Verde,
dov' e' le trasmutò a lume spento.
Per lor
maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l'etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è
che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch'al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo
ch'elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se
tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m'hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per
quei di là molto s'avanza».
CANTO IV
[Canto IV, dove si tratta de la soprascritta seconda qualitade,
dove si purga chi per negligenza di qui a la morte si tardòe a
confessare; tra i quali si nomina il Belacqua, uomo di corte.]
Quando per
dilettanze o ver per doglie,
che alcuna virtù nostra comprenda,
l'anima bene ad essa si raccoglie,
par ch'a nulla
potenza più intenda;
e questo è contra quello error che crede
ch'un'anima sovr' altra in noi s'accenda.
E però,
quando s'ode cosa o vede
che tegna forte a sé l'anima volta,
vassene 'l tempo e l'uom non se n'avvede;
ch'altra
potenza è quella che l'ascolta,
e altra è quella c'ha l'anima intera:
questa è quasi legata e quella è sciolta.
Di ciò
ebb' io esperïenza vera,
udendo quello spirto e ammirando;
ché ben cinquanta gradi salito era
lo sole, e io
non m'era accorto, quando
venimmo ove quell' anime ad una
gridaro a noi: «Qui è vostro dimando».
Maggiore aperta
molte volte impruna
con una forcatella di sue spine
l'uom de la villa quando l'uva imbruna,
che non era la
calla onde salìne
lo duca mio, e io appresso, soli,
come da noi la schiera si partìne.
Vassi in Sanleo
e discendesi in Noli,
montasi su in Bismantova e 'n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch'om voli;
dico con l'ale
snelle e con le piume
del gran disio, di retro a quel condotto
che speranza mi dava e facea lume.
Noi salavam per
entro 'l sasso rotto,
e d'ogne lato ne stringea lo stremo,
e piedi e man volea il suol di sotto.
Poi che noi
fummo in su l'orlo suppremo
de l'alta ripa, a la scoperta piaggia,
«Maestro mio», diss' io, «che via faremo?».
Ed elli a me:
«Nessun tuo passo caggia;
pur su al monte dietro a me acquista,
fin che n'appaia alcuna scorta saggia».
Lo sommo er'
alto che vincea la vista,
e la costa superba più assai
che da mezzo quadrante a centro lista.
Io era lasso,
quando cominciai:
«O dolce padre, volgiti, e rimira
com' io rimango sol, se non restai».
«Figliuol mio»,
disse, «infin quivi ti tira»,
additandomi un balzo poco in sùe
che da quel lato il poggio tutto gira.
Sì mi
spronaron le parole sue,
ch'i' mi sforzai carpando appresso lui,
tanto che 'l cinghio sotto i piè mi fue.
A seder ci
ponemmo ivi ambedui
vòlti a levante ond' eravam saliti,
che suole a riguardar giovare altrui.
Li occhi prima
drizzai ai bassi liti;
poscia li alzai al sole, e ammirava
che da sinistra n'eravam feriti.
Ben s'avvide il
poeta ch'ïo stava
stupido tutto al carro de la luce,
ove tra noi e Aquilone intrava.
Ond' elli a me:
«Se Castore e Poluce
fossero in compagnia di quello specchio
che sù e giù del suo lume conduce,
tu vedresti il
Zodïaco rubecchio
ancora a l'Orse più stretto rotare,
se non uscisse fuor del cammin vecchio.
Come ciò
sia, se 'l vuoi poter pensare,
dentro raccolto, imagina Sïòn
con questo monte in su la terra stare
sì,
ch'amendue hanno un solo orizzòn
e diversi emisperi; onde la strada
che mal non seppe carreggiar Fetòn,
vedrai come a
costui convien che vada
da l'un, quando a colui da l'altro fianco,
se lo 'ntelletto tuo ben chiaro bada».
«Certo, maestro
mio», diss' io, «unquanco
non vid' io chiaro sì com' io discerno
là dove mio ingegno parea manco,
che 'l mezzo
cerchio del moto superno,
che si chiama Equatore in alcun' arte,
e che sempre riman tra 'l sole e 'l verno,
per la ragion
che di', quinci si parte
verso settentrïon, quanto li Ebrei
vedevan lui verso la calda parte.
Ma se a te
piace, volontier saprei
quanto avemo ad andar; ché 'l poggio sale
più che salir non posson li occhi miei».
Ed elli a me:
«Questa montagna è tale,
che sempre al cominciar di sotto è grave;
e quant' om più va sù, e men fa male.
Però,
quand' ella ti parrà soave
tanto, che sù andar ti fia leggero
com' a seconda giù andar per nave,
allor sarai al
fin d'esto sentiero;
quivi di riposar l'affanno aspetta.
Più non rispondo, e questo so per vero».
E com' elli
ebbe sua parola detta,
una voce di presso sonò: «Forse
che di sedere in pria avrai distretta!».
Al suon di lei
ciascun di noi si torse,
e vedemmo a mancina un gran petrone,
del qual né io né ei prima s'accorse.
Là ci
traemmo; e ivi eran persone
che si stavano a l'ombra dietro al sasso
come l'uom per negghienza a star si pone.
E un di lor,
che mi sembiava lasso,
sedeva e abbracciava le ginocchia,
tenendo 'l viso giù tra esse basso.
«O dolce segnor
mio», diss' io, «adocchia
colui che mostra sé più negligente
che se pigrizia fosse sua serocchia».
Allor si volse
a noi e puose mente,
movendo 'l viso pur su per la coscia,
e disse: «Or va tu sù, che se' valente!».
Conobbi allor
chi era, e quella angoscia
che m'avacciava un poco ancor la lena,
non m'impedì l'andare a lui; e poscia
ch'a lui fu'
giunto, alzò la testa a pena,
dicendo: «Hai ben veduto come 'l sole
da l'omero sinistro il carro mena?».
Li atti suoi
pigri e le corte parole
mosser le labbra mie un poco a riso;
poi cominciai: «Belacqua, a me non dole
di te omai; ma
dimmi: perché assiso
quiritto se'? attendi tu iscorta,
o pur lo modo usato t'ha' ripriso?».
Ed elli: «O
frate, andar in sù che porta?
ché non mi lascerebbe ire a' martìri
l'angel di Dio che siede in su la porta.
Prima convien
che tanto il ciel m'aggiri
di fuor da essa, quanto fece in vita,
per ch'io 'ndugiai al fine i buon sospiri,
se
orazïone in prima non m'aita
che surga sù di cuor che in grazia viva;
l'altra che val, che 'n ciel non è udita?».
E già il
poeta innanzi mi saliva,
e dicea: «Vienne omai; vedi ch'è tocco
meridïan dal sole e a la riva
cuopre la notte
già col piè Morrocco».
CANTO V
[Canto V, ove si tratta de la terza qualitade, cioè di
coloro che per cagione di vendicarsi d'alcuna ingiuria insino a la morte
mettono in non calere di riconoscere sé esser peccatori e soddisfare a Dio; de
li quali nomina in persona messer Iacopo di Fano e Bonconte di Montefeltro.]
Io era
già da quell' ombre partito,
e seguitava l'orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando 'l dito,
una
gridò: «Ve' che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi
rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e 'l lume ch'era rotto.
«Perché l'animo
tuo tanto s'impiglia»,
disse 'l maestro, «che l'andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a
me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre
l'omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l'un de l'altro insolla».
Che potea io
ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l'uom di perdon talvolta degno.
E 'ntanto per
la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando 'Miserere' a verso a verso.
Quando
s'accorser ch'i' non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d'i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro,
in forma di messaggi,
corsero incontr' a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E 'l mio
maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che 'l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la
sua ombra restaro,
com' io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi
non vid' io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d'agosto,
che color non
tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente
che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse 'l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che
vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s'alcun
di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t'arresti?
Noi fummo tutti
già per forza morti,
e peccatori infino a l'ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti,
sì che,
pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n'accora».
E io: «Perché
ne' vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s'a voi piace
cosa ch'io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io
farò per quella pace
che, dietro a' piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno
incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che 'l voler nonpossa non ricida.
Ond' io, che
solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie
di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s'adori
pur ch'i' possa purgar le gravi offese.
Quindi fu' io;
ma li profondi fóri
ond' uscì 'l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov'
io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m'avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s'io fosse
fuggito inver' la Mira,
quando fu' sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al
palude, e le cannucce e 'l braco
m'impigliar sì ch'i' caddi; e lì vid' io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un
altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l'alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Io fui di
Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch'io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui:
«Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos'
elli, «a piè del Casentino
traversa un'acqua c'ha nome l'Archiano,
che sovra l'Ermo nasce in Apennino.
Là 've
'l vocabol suo diventa vano,
arriva' io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la
vista e la parola;
nel nome di Maria fini', e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò
vero, e tu 'l ridì tra ' vivi:
l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno
gridava: "O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti
di costui l'etterno
per una lagrimetta che 'l mi toglie;
ma io farò de l'altro altro governo!".
Ben sai come ne
l'aere si raccoglie
quell' umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove 'l freddo il coglie.
Giunse quel mal
voler che pur mal chiede
con lo 'ntelletto, e mosse il fummo e 'l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle,
come 'l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e 'l ciel di sopra fece intento,
sì che
'l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a' fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi
grandi si convenne,
ver' lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio
gelato in su la foce
trovò l'Archian rubesto; e quel sospinse
ne l'Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch'i' fe' di me
quando 'l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu
sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò 'l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di
me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che 'nnanellata pria
disposando
m'avea con la sua gemma».
CANTO VI
[Canto VI, dove si tratta di quella medesima qualitade, dove si
purga la predetta mala volontà di vendicare la 'ngiuria, e per questo si
ritarda sua confessione, e dove truova e nomina Sordella da Mantua.]
Quando si parte
il gioco de la zara,
colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;
con l'altro se
ne va tutta la gente;
qual va dinanzi, e qual di dietro il prende,
e qual dallato li si reca a mente;
el non
s'arresta, e questo e quello intende;
a cui porge la man, più non fa pressa;
e così da la calca si difende.
Tal era io in
quella turba spessa,
volgendo a loro, e qua e là, la faccia,
e promettendo mi sciogliea da essa.
Quiv' era
l'Aretin che da le braccia
fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l'altro ch'annegò correndo in caccia.
Quivi pregava
con le mani sporte
Federigo Novello, e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
Vidi conte Orso
e l'anima divisa
dal corpo suo per astio e per inveggia,
com' e' dicea, non per colpa commisa;
Pier da la
Broccia dico; e qui proveggia,
mentr' è di qua, la donna di Brabante,
sì che però non sia di peggior greggia.
Come libero fui
da tutte quante
quell' ombre che pregar pur ch'altri prieghi,
sì che s'avacci lor divenir sante,
io cominciai:
«El par che tu mi nieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo orazion pieghi;
e questa gente
prega pur di questo:
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m'è 'l detto tuo ben manifesto?».
Ed elli a me:
«La mia scrittura è piana;
e la speranza di costor non falla,
se ben si guarda con la mente sana;
ché cima di
giudicio non s'avvalla
perché foco d'amor compia in un punto
ciò che de' sodisfar chi qui s'astalla;
e là
dov' io fermai cotesto punto,
non s'ammendava, per pregar, difetto,
perché 'l priego da Dio era disgiunto.
Veramente a
così alto sospetto
non ti fermar, se quella nol ti dice
che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.
Non so se
'ntendi: io dico di Beatrice;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo monte, ridere e felice».
E io: «Segnore,
andiamo a maggior fretta,
ché già non m'affatico come dianzi,
e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».
«Noi anderem
con questo giorno innanzi»,
rispuose, «quanto più potremo omai;
ma 'l fatto è d'altra forma che non stanzi.
Prima che sie
là sù, tornar vedrai
colui che già si cuopre de la costa,
sì che ' suoi raggi tu romper non fai.
Ma vedi
là un'anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne 'nsegnerà la via più tosta».
Venimmo a lei:
o anima lombarda,
come ti stavi altera e disdegnosa
e nel mover de li occhi onesta e tarda!
Ella non ci
dicëa alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo sguardando
a guisa di leon quando si posa.
Pur Virgilio si
trasse a lei, pregando
che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di nostro
paese e de la vita
ci 'nchiese; e 'l dolce duca incominciava
«Mantüa…», e l'ombra, tutta in sé romita,
surse ver' lui
del loco ove pria stava,
dicendo: «O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!»; e l'un l'altro abbracciava.
Ahi serva
Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell' anima
gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non
stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera,
intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché
ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz' esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che
dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come
esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto
tedesco ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio
da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Ch'avete tu e
'l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.
Vieni a veder
Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel,
vieni, e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com' è oscura!
Vieni a veder
la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».
Vieni a veder
la gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito
m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è
preparazion che ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso?
Ché le
città d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia,
ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han
giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan
lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».
Or ti fa lieta,
ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.
Atene e
Lacedemona, che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te,
che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte,
del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti
ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar
volta suo dolore scherma.
CANTO VII
[Canto VII, dove si purga la quarta qualitade di coloro che, per
propria negligenza, di die in die di qui all'ultimo giorno di loro vita tardaro
indebitamente loro confessione; li quali si purgano in uno vallone intra fiori
ed erbe; dove nomina il re Carlo e molti altri.]
Poscia che
l'accoglienze oneste e liete
furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: «Voi, chi siete?».
«Anzi che a
questo monte fosser volte
l'anime degne di salire a Dio,
fur l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son
Virgilio; e per null' altro rio
lo ciel perdei che per non aver fé».
Così rispuose allora il duca mio.
Qual è
colui che cosa innanzi sé
sùbita vede ond' e' si maraviglia,
che crede e non, dicendo «Ella è… non è…»,
tal parve
quelli; e poi chinò le ciglia,
e umilmente ritornò ver' lui,
e abbracciòl là 've 'l minor s'appiglia.
«O gloria di
Latin», disse, «per cui
mostrò ciò che potea la lingua nostra,
o pregio etterno del loco ond' io fui,
qual merito o
qual grazia mi ti mostra?
S'io son d'udir le tue parole degno,
dimmi se vien d'inferno, e di qual chiostra».
«Per tutt' i
cerchi del dolente regno»,
rispuose lui, «son io di qua venuto;
virtù del ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma
per non fare ho perduto
a veder l'alto Sol che tu disiri
e che fu tardi per me conosciuto.
Luogo è
là giù non tristo di martìri,
ma di tenebre solo, ove i lamenti
non suonan come guai, ma son sospiri.
Quivi sto io
coi pargoli innocenti
dai denti morsi de la morte avante
che fosser da l'umana colpa essenti;
quivi sto io
con quei che le tre sante
virtù non si vestiro, e sanza vizio
conobber l'altre e seguir tutte quante.
Ma se tu sai e
puoi, alcuno indizio
dà noi per che venir possiam più tosto
là dove purgatorio ha dritto inizio».
Rispuose: «Loco
certo non c'è posto;
licito m'è andar suso e intorno;
per quanto ir posso, a guida mi t'accosto.
Ma vedi
già come dichina il giorno,
e andar sù di notte non si puote;
però è buon pensar di bel soggiorno.
Anime sono a
destra qua remote;
se mi consenti, io ti merrò ad esse,
e non sanza diletto ti fier note».
«Com' è
ciò?», fu risposto. «Chi volesse
salir di notte, fora elli impedito
d'altrui, o non sarria ché non potesse?».
E 'l buon
Sordello in terra fregò 'l dito,
dicendo: «Vedi? sola questa riga
non varcheresti dopo 'l sol partito:
non però
ch'altra cosa desse briga,
che la notturna tenebra, ad ir suso;
quella col nonpoder la voglia intriga.
Ben si poria
con lei tornare in giuso
e passeggiar la costa intorno errando,
mentre che l'orizzonte il dì tien chiuso».
Allora il mio
segnor, quasi ammirando,
«Menane», disse, «dunque là 've dici
ch'aver si può diletto dimorando».
Poco allungati
c'eravam di lici,
quand' io m'accorsi che 'l monte era scemo,
a guisa che i vallon li sceman quici.
«Colà»,
disse quell' ombra, «n'anderemo
dove la costa face di sé grembo;
e là il novo giorno attenderemo».
Tra erto e
piano era un sentiero schembo,
che ne condusse in fianco de la lacca,
là dove più ch'a mezzo muore il lembo.
Oro e argento
fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido e sereno,
fresco smeraldo in l'ora che si fiacca,
da l'erba e da
li fior, dentr' a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto,
come dal suo maggiore è vinto il meno.
Non avea pur
natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno incognito e indistinto.
'Salve,
Regina' in sul verde e 'n su' fiori
quindi seder cantando anime vidi,
che per la valle non parean di fuori.
«Prima che 'l
poco sole omai s'annidi»,
cominciò 'l Mantoan che ci avea vòlti,
«tra color non vogliate ch'io vi guidi.
Di questo balzo
meglio li atti e ' volti
conoscerete voi di tutti quanti,
che ne la lama giù tra essi accolti.
Colui che
più siede alto e fa sembianti
d'aver negletto ciò che far dovea,
e che non move bocca a li altrui canti,
Rodolfo
imperador fu, che potea
sanar le piaghe c'hanno Italia morta,
sì che tardi per altri si ricrea.
L'altro che ne
la vista lui conforta,
resse la terra dove l'acqua nasce
che Molta in Albia, e Albia in mar ne porta:
Ottacchero ebbe
nome, e ne le fasce
fu meglio assai che Vincislao suo figlio
barbuto, cui lussuria e ozio pasce.
E quel nasetto
che stretto a consiglio
par con colui c'ha sì benigno aspetto,
morì fuggendo e disfiorando il giglio:
guardate
là come si batte il petto!
L'altro vedete c'ha fatto a la guancia
de la sua palma, sospirando, letto.
Padre e suocero
son del mal di Francia:
sanno la vita sua viziata e lorda,
e quindi viene il duol che sì li lancia.
Quel che par
sì membruto e che s'accorda,
cantando, con colui dal maschio naso,
d'ogne valor portò cinta la corda;
e se re dopo
lui fosse rimaso
lo giovanetto che retro a lui siede,
ben andava il valor di vaso in vaso,
che non si puote
dir de l'altre rede;
Iacomo e Federigo hanno i reami;
del retaggio miglior nessun possiede.
Rade volte
risurge per li rami
l'umana probitate; e questo vole
quei che la dà, perché da lui si chiami.
Anche al nasuto
vanno mie parole
non men ch'a l'altro, Pier, che con lui canta,
onde Puglia e Proenza già si dole.
Tant' è
del seme suo minor la pianta,
quanto, più che Beatrice e Margherita,
Costanza di marito ancor si vanta.
Vedete il re de
la semplice vita
seder là solo, Arrigo d'Inghilterra:
questi ha ne' rami suoi migliore uscita.
Quel che
più basso tra costor s'atterra,
guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra
fa pianger
Monferrato e Canavese».
CANTO VIII
[Canto VIII, dove si tratta de la quinta qualitade, cioè di
coloro che, per timore di non perdere onore e signoria e offizi e massimalmente
per non ritrarre le mani da l'utilità de la pecunia, si tardaro a
confessare di qui a l'ultima ora di loro vita e non facendo penitenza di lor
peccati; dove nomina iudice Nino e Currado marchese Malespini.]
Era già
l'ora che volge il disio
ai navicanti e 'ntenerisce il core
lo dì c'han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo
peregrin d'amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
quand' io
incominciai a render vano
l'udire e a mirare una de l'alme
surta, che l'ascoltar chiedea con mano.
Ella giunse e
levò ambo le palme,
ficcando li occhi verso l'orïente,
come dicesse a Dio: 'D'altro non calme'.
'Te lucis ante' sì
devotamente
le uscìo di bocca e con sì dolci note,
che fece me a me uscir di mente;
e l'altre poi
dolcemente e devote
seguitar lei per tutto l'inno intero,
avendo li occhi a le superne rote.
Aguzza qui,
lettor, ben li occhi al vero,
ché 'l velo è ora ben tanto sottile,
certo che 'l trapassar dentro è leggero.
Io vidi quello
essercito gentile
tacito poscia riguardare in sùe,
quasi aspettando, palido e umìle;
e vidi uscir de
l'alto e scender giùe
due angeli con due spade affocate,
tronche e private de le punte sue.
Verdi come
fogliette pur mo nate
erano in veste, che da verdi penne
percosse traean dietro e ventilate.
L'un poco sovra
noi a star si venne,
e l'altro scese in l'opposita sponda,
sì che la gente in mezzo si contenne.
Ben discernëa
in lor la testa bionda;
ma ne la faccia l'occhio si smarria,
come virtù ch'a troppo si confonda.
«Ambo vegnon
del grembo di Maria»,
disse Sordello, «a guardia de la valle,
per lo serpente che verrà vie via».
Ond' io, che
non sapeva per qual calle,
mi volsi intorno, e stretto m'accostai,
tutto gelato, a le fidate spalle.
E Sordello
anco: «Or avvalliamo omai
tra le grandi ombre, e parleremo ad esse;
grazïoso fia lor vedervi assai».
Solo tre passi
credo ch'i' scendesse,
e fui di sotto, e vidi un che mirava
pur me, come conoscer mi volesse.
Temp' era
già che l'aere s'annerava,
ma non sì che tra li occhi suoi e ' miei
non dichiarisse ciò che pria serrava.
Ver' me si
fece, e io ver' lui mi fei:
giudice Nin gentil, quanto mi piacque
quando ti vidi non esser tra ' rei!
Nullo bel
salutar tra noi si tacque;
poi dimandò: «Quant' è che tu venisti
a piè del monte per le lontane acque?».
«Oh!», diss' io
lui, «per entro i luoghi tristi
venni stamane, e sono in prima vita,
ancor che l'altra, sì andando, acquisti».
E come fu la
mia risposta udita,
Sordello ed elli in dietro si raccolse
come gente di sùbito smarrita.
L'uno a
Virgilio e l'altro a un si volse
che sedea lì, gridando: «Sù, Currado!
vieni a veder che Dio per grazia volse».
Poi,
vòlto a me: «Per quel singular grado
che tu dei a colui che sì nasconde
lo suo primo perché, che non lì è guado,
quando sarai di
là da le larghe onde,
dì a Giovanna mia che per me chiami
là dove a li 'nnocenti si risponde.
Non credo che
la sua madre più m'ami,
poscia che trasmutò le bianche bende,
le quai convien che, misera!, ancor brami.
Per lei assai
di lieve si comprende
quanto in femmina foco d'amor dura,
se l'occhio o 'l tatto spesso non l'accende.
Non le
farà sì bella sepultura
la vipera che Melanesi accampa,
com' avria fatto il gallo di Gallura».
Così
dicea, segnato de la stampa,
nel suo aspetto, di quel dritto zelo
che misuratamente in core avvampa.
Li occhi miei
ghiotti andavan pur al cielo,
pur là dove le stelle son più tarde,
sì come rota più presso a lo stelo.
E 'l duca mio:
«Figliuol, che là sù guarde?».
E io a lui: «A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde».
Ond' elli a me:
«Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov' eran quelle».
Com' ei parlava,
e Sordello a sé il trasse
dicendo: «Vedi là 'l nostro avversaro»;
e drizzò il dito perché 'n là guardasse.
Da quella parte
onde non ha riparo
la picciola vallea, era una biscia,
forse qual diede ad Eva il cibo amaro.
Tra l'erba e '
fior venìa la mala striscia,
volgendo ad ora ad or la testa, e 'l dosso
leccando come bestia che si liscia.
Io non vidi, e
però dicer non posso,
come mosser li astor celestïali;
ma vidi bene e l'uno e l'altro mosso.
Sentendo fender
l'aere a le verdi ali,
fuggì 'l serpente, e li angeli dier volta,
suso a le poste rivolando iguali.
L'ombra che
s'era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna
che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant' è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò
ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato
Currado Malaspina;
non son l'antico, ma di lui discesi;
a' miei portai l'amor che qui raffina».
«Oh!», diss' io
lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch'ei non sien palesi?
La fama che la
vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro,
s'io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura
sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e 'l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or
va; che 'l sol non si ricorca
sette volte nel letto che 'l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta
cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d'altrui sermone,
se corso di
giudicio non s'arresta».
CANTO IX
[Canto IX, nel quale pone l'auttore uno suo significativo sogno; e
poi come pervennero a l'entrata del purgatorio proprio, descrivendo come ne
l'entrata di purgatorio trovoe uno angelo che con la punta de la spada che
portava in mano scrisse ne la fronte di Dante sette P.]
La concubina di
Titone antico
già s'imbiancava al balco d'orïente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
di gemme la sua
fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
e la notte, de'
passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov' eravamo,
e 'l terzo già chinava in giuso l'ale;
quand' io, che
meco avea di quel d'Adamo,
vinto dal sonno, in su l'erba inchinai
là 've già tutti e cinque sedavamo.
Ne l'ora che
comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de' suo' primi guai,
e che la mente
nostra, peregrina
più da la carne e men da' pensier presa,
a le sue visïon quasi è divina,
in sogno mi
parea veder sospesa
un'aguglia nel ciel con penne d'oro,
con l'ali aperte e a calare intesa;
ed esser mi
parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
Fra me pensava:
'Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d'altro loco
disdegna di portarne suso in piede'.
Poi mi parea
che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
Ivi parea che
ella e io ardesse;
e sì lo 'ncendio imaginato cosse,
che convenne che 'l sonno si rompesse.
Non altrimenti
Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
quando la madre
da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
che mi scoss'
io, sì come da la faccia
mi fuggì 'l sonno, e diventa' ismorto,
come fa l'uom che, spaventato, agghiaccia.
Dallato m'era
solo il mio conforto,
e 'l sole er' alto già più che due ore,
e 'l viso m'era a la marina torto.
«Non aver
tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
Tu se' omai al
purgatorio giunto:
vedi là il balzo che 'l chiude dintorno;
vedi l'entrata là 've par digiunto.
Dianzi, ne
l'alba che procede al giorno,
quando l'anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond' è là giù addorno
venne una
donna, e disse: "I' son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l'agevolerò per la sua via".
Sordel rimase e
l'altre genti forme;
ella ti tolse, e come 'l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
Qui ti
posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e 'l sonno ad una se n'andaro».
A guisa d'uom
che 'n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
mi cambia' io;
e come sanza cura
vide me 'l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver' l'altura.
Lettor, tu vedi
ben com' io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s'io la rincalzo.
Noi ci
appressammo, ed eravamo in parte
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
vidi una porta,
e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch'ancor non facea motto.
E come l'occhio
più e più v'apersi,
vidil seder sovra 'l grado sovrano,
tal ne la faccia ch'io non lo soffersi;
e una spada
nuda avëa in mano,
che reflettëa i raggi sì ver' noi,
ch'io dirizzava spesso il viso in vano.
«Dite costinci:
che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov' è la scorta?
Guardate che 'l venir sù non vi nòi».
«Donna del
ciel, di queste cose accorta»,
rispuose 'l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: "Andate là: quivi è la porta"».
«Ed ella i
passi vostri in bene avanzi»,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a' nostri gradi innanzi».
Là ne
venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch'io mi specchiai in esso qual io paio.
Era il secondo
tinto più che perso,
d'una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
Lo terzo, che
di sopra s'ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante
come sangue che fuor di vena spiccia.
Sovra questo
tenëa ambo le piante
l'angel di Dio sedendo in su la soglia
che mi sembiava pietra di diamante.
Per li tre
gradi sù di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che 'l serrame scioglia».
Divoto mi
gittai a' santi piedi;
misericordia chiesi e ch'el m'aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
Sette P ne la
fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se' dentro, queste piaghe» disse.
Cenere, o terra
che secca si cavi,
d'un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
L'una era d'oro
e l'altra era d'argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch'i' fu' contento.
«Quandunque
l'una d'este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss' elli a noi, «non s'apre questa calla.
Più cara
è l'una; ma l'altra vuol troppa
d'arte e d'ingegno avanti che diserri,
perch' ella è quella che 'l nodo digroppa.
Da Pier le
tegno; e dissemi ch'i' erri
anzi ad aprir ch'a tenerla serrata,
pur che la gente a' piedi mi s'atterri».
Poi pinse
l'uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi 'n dietro si guata».
E quando fuor
ne' cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non
rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi
attento al primo tuono,
e 'Te Deum laudamus' mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a
punto mi rendea
ciò ch'io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
ch'or sì
or no s'intendon le parole.
CANTO X
[Canto X, dove si tratta del primo girone del proprio purgatorio,
il quale luogo discrive l'auttore sotto certi intagli d'antiche imagini; e qui
si purga la colpa de la superbia.]
Poi fummo
dentro al soglio de la porta
che 'l mal amor de l'anime disusa,
perché fa parer dritta la via torta,
sonando la
senti' esser richiusa;
e s'io avesse li occhi vòlti ad essa,
qual fora stata al fallo degna scusa?
Noi salavam per
una pietra fessa,
che si moveva e d'una e d'altra parte,
sì come l'onda che fugge e s'appressa.
«Qui si
conviene usare un poco d'arte»,
cominciò 'l duca mio, «in accostarsi
or quinci, or quindi al lato che si parte».
E questo fece i
nostri passi scarsi,
tanto che pria lo scemo de la luna
rigiunse al letto suo per ricorcarsi,
che noi fossimo
fuor di quella cruna;
ma quando fummo liberi e aperti
sù dove il monte in dietro si rauna,
ïo
stancato e amendue incerti
di nostra via, restammo in su un piano
solingo più che strade per diserti.
Da la sua
sponda, ove confina il vano,
al piè de l'alta ripa che pur sale,
misurrebbe in tre volte un corpo umano;
e quanto
l'occhio mio potea trar d'ale,
or dal sinistro e or dal destro fianco,
questa cornice mi parea cotale.
Là
sù non eran mossi i piè nostri anco,
quand' io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo
candido e addorno
d'intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.
L'angel che
venne in terra col decreto
de la molt' anni lagrimata pace,
ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi
pareva sì verace
quivi intagliato in un atto soave,
che non sembiava imagine che tace.
Giurato si
saria ch'el dicesse 'Ave!';
perché iv' era imaginata quella
ch'ad aprir l'alto amor volse la chiave;
e avea in atto
impressa esta favella
'Ecce ancilla Deï', propriamente
come figura in cera si suggella.
«Non tener pur
ad un loco la mente»,
disse 'l dolce maestro, che m'avea
da quella parte onde 'l cuore ha la gente.
Per ch'i' mi
mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m'era colui che mi movea,
un'altra storia
ne la roccia imposta;
per ch'io varcai Virgilio, e fe'mi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato
lì nel marmo stesso
lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa,
per che si teme officio non commesso.
Dinanzi parea
gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a' due mie' sensi
faceva dir l'un 'No', l'altro 'Sì, canta'.
Similemente al
fummo de li 'ncensi
che v'era imaginato, li occhi e 'l naso
e al sì e al no discordi fensi.
Lì
precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l'umile salmista,
e più e men che re era in quel caso.
Di contra,
effigïata ad una vista
d'un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.
I' mossi i
piè del loco dov' io stava,
per avvisar da presso un'altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv' era
storïata l'alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria;
i' dico di
Traiano imperadore;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata e di dolore.
Intorno a lui
parea calcato e pieno
di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro
sovr' essi in vista al vento si movieno.
La miserella
intra tutti costoro
pareva dir: «Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch'è morto, ond' io m'accoro»;
ed elli a lei
rispondere: «Or aspetta
tanto ch'i' torni»; e quella: «Segnor mio»,
come persona in cui dolor s'affretta,
«se tu non
torni?»; ed ei: «Chi fia dov' io,
la ti farà»; ed ella: «L'altrui bene
a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»;
ond' elli: «Or
ti conforta; ch'ei convene
ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova:
giustizia vuole e pietà mi ritene».
Colui che mai
non vide cosa nova
produsse esto visibile parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Mentr' io mi
dilettava di guardare
l'imagini di tante umilitadi,
e per lo fabbro loro a veder care,
«Ecco di qua,
ma fanno i passi radi»,
mormorava il poeta, «molte genti:
questi ne 'nvïeranno a li alti gradi».
Li occhi miei,
ch'a mirare eran contenti
per veder novitadi ond' e' son vaghi,
volgendosi ver' lui non furon lenti.
Non vo'
però, lettor, che tu ti smaghi
di buon proponimento per udire
come Dio vuol che 'l debito si paghi.
Non attender la
forma del martìre:
pensa la succession; pensa ch'al peggio
oltre la gran sentenza non può ire.
Io cominciai:
«Maestro, quel ch'io veggio
muovere a noi, non mi sembian persone,
e non so che, sì nel veder vaneggio».
Ed elli a me:
«La grave condizione
di lor tormento a terra li rannicchia,
sì che ' miei occhi pria n'ebber tencione.
Ma guarda fiso
là, e disviticchia
col viso quel che vien sotto a quei sassi:
già scorger puoi come ciascun si picchia».
O superbi
cristian, miseri lassi,
che, de la vista de la mente infermi,
fidanza avete ne' retrosi passi,
non v'accorgete
voi che noi siam vermi
nati a formar l'angelica farfalla,
che vola a la giustizia sanza schermi?
Di che l'animo
vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
Come per
sostentar solaio o tetto,
per mensola talvolta una figura
si vede giugner le ginocchia al petto,
la qual fa del
non ver vera rancura
nascere 'n chi la vede; così fatti
vid' io color, quando puosi ben cura.
Vero è
che più e meno eran contratti
secondo ch'avien più e meno a dosso;
e qual più pazïenza avea ne li atti,
piangendo parea
dicer: 'Più non posso'.
CANTO XI
[Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de'
superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch'è uno de' rami de la
superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani
di Siena e molti altri.]
«O Padre
nostro, che ne' cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch'ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia 'l
tuo nome e 'l tuo valore
da ogne creatura, com' è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver' noi
la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo
voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de' suoi.
Dà oggi
a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s'affanna.
E come noi lo
mal ch'avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra
virtù che di legger s'adona,
non spermentar con l'antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest' ultima
preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a
sé e noi buona ramogna
quell' ombre orando, andavan sotto 'l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente
angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là
sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c'hanno al voler buona radice?
Ben si de' loro
atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se
giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l'ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da
qual mano inver' la scala
si va più corto; e se c'è più d'un varco,
quel ne 'nsegnate che men erto cala;
ché questi che
vien meco, per lo 'ncarco
de la carne d'Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole,
che rendero a queste
che dette avea colui cu' io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A
man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s'io non
fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti,
ch'ancor vive e non si noma,
guardere' io, per veder s'i' 'l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e
nato d'un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se 'l nome suo già mai fu vosco.
L'antico sangue
e l'opere leggiadre
d'i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn' uomo ebbi
in despetto tanto avante,
ch'io ne mori', come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono
Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien
ch'io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch'io nol fe' tra ' vivi, qui tra ' morti».
Ascoltando chinai
in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li 'mpaccia,
e videmi e
conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
«Oh!», diss' io
lui, «non se' tu Oderisi,
l'onor d'Agobbio e l'onor di quell' arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss'
elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l'onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare'
io stato sì cortese
mentre ch'io vissi, per lo gran disio
de l'eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia
qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria
de l'umane posse!
com' poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etati grosse!
Credette
Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha
tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà del nido.
Non è il
mondan romore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai
tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il 'pappo' e 'l 'dindi',
pria che passin
mill' anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del
cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond' era sire
quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com' ora è putta.
La vostra
nominanza è color d'erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui:
«Tuo vero dir m'incora
bona umiltà, e gran tumor m'appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli
è», rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è
così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se
quello spirito ch'attende,
pria che si penta, l'orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona
orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea
più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s'affisse;
e lì,
per trar l'amico suo di pena,
ch'e' sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non
dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ' tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest' opera li
tolse quei confini».
CANTO XII
[Canto XII, ove si tratta del secondo girone dove si sono
intagliate certe imagini antiche de' superbi; e quivi si puniscono li superbi
medesimi.]
Di pari, come
buoi che vanno a giogo,
m'andava io con quell' anima carca,
fin che 'l sofferse il dolce pedagogo.
Ma quando
disse: «Lascia lui e varca;
ché qui è buono con l'ali e coi remi,
quantunque può, ciascun pinger sua barca»;
dritto
sì come andar vuolsi rife'mi
con la persona, avvegna che i pensieri
mi rimanessero e chinati e scemi.
Io m'era mosso,
e seguia volontieri
del mio maestro i passi, e amendue
già mostravam com' eravam leggeri;
ed el mi disse:
«Volgi li occhi in giùe:
buon ti sarà, per tranquillar la via,
veder lo letto de le piante tue».
Come, perché di
lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch'elli eran pria,
onde lì
molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a' pïi dà de le calcagne;
sì vid'
io lì, ma di miglior sembianza
secondo l'artificio, figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che
fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l'un lato.
Vedëa
Brïareo fitto dal telo
celestïal giacer, da l'altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo,
vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d'i Giganti sparte.
Vedea
Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O
Nïobè, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl,
come in su la propria spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aragne,
sì vedea io te
già mezza ragna, trista in su li stracci
de l'opera che mal per te si fé.
O
Roboàm, già non par che minacci
quivi 'l tuo segno; ma pien di spavento
nel porta un carro, sanza ch'altri il cacci.
Mostrava ancor
lo duro pavimento
come Almeon a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i
figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quivi il lasciaro.
Mostrava la
ruina e 'l crudo scempio
che fé Tamiri, quando disse a Ciro:
«Sangue sitisti, e io di sangue t'empio».
Mostrava come
in rotta si fuggiro
li Assiri, poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.
Vedeva Troia in
cenere e in caverne;
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì si discerne!
Qual di pennel
fu maestro o di stile
che ritraesse l'ombre e ' tratti ch'ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti
e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant' io calcai, fin che chinato givi.
Or superbite, e
via col viso altero,
figliuoli d'Eva, e non chinate il volto
sì che veggiate il vostro mal sentero!
Più era
già per noi del monte vòlto
e del cammin del sole assai più speso
che non stimava l'animo non sciolto,
quando colui
che sempre innanzi atteso
andava, cominciò: «Drizza la testa;
non è più tempo di gir sì sospeso.
Vedi
colà un angel che s'appresta
per venir verso noi; vedi che torna
dal servigio del dì l'ancella sesta.
Di reverenza il
viso e li atti addorna,
sì che i diletti lo 'nvïarci in suso;
pensa che questo dì mai non raggiorna!».
Io era ben del
suo ammonir uso
pur di non perder tempo, sì che 'n quella
materia non potea parlarmi chiuso.
A noi
venìa la creatura bella,
biancovestito e ne la faccia quale
par tremolando mattutina stella.
Le braccia
aperse, e indi aperse l'ale;
disse: «Venite: qui son presso i gradi,
e agevolemente omai si sale.
A questo invito
vegnon molto radi:
o gente umana, per volar sù nata,
perché a poco vento così cadi?».
Menocci ove la
roccia era tagliata;
quivi mi batté l'ali per la fronte;
poi mi promise sicura l'andata.
Come a man
destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,
si rompe del
montar l'ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
ch'era sicuro il quaderno e la doga;
così
s'allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l'altro girone;
ma quinci e quindi l'alta pietra rade.
Noi volgendo
ivi le nostre persone,
'Beati pauperes spiritu!' voci
cantaron sì, che nol diria sermone.
Ahi quanto son
diverse quelle foci
da l'infernali! ché quivi per canti
s'entra, e là giù per lamenti feroci.
Già
montavam su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo più lieve
che per lo pian non mi parea davanti.
Ond' io:
«Maestro, dì, qual cosa greve
levata s'è da me, che nulla quasi
per me fatica, andando, si riceve?».
Rispuose:
«Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
saranno, com' è l'un, del tutto rasi,
fier li tuoi
piè dal buon voler sì vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
ma fia diletto loro esser sù pinti».
Allor fec' io
come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
se non che ' cenni altrui sospecciar fanno;
per che la mano
ad accertar s'aiuta,
e cerca e truova e quello officio adempie
che non si può fornir per la veduta;
e con le dita
de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che 'ncise
quel da le chiavi a me sovra le tempie:
a che
guardando, il mio duca sorrise.
CANTO XIII
[Canto XIII, dove si tratta del sopradetto girone secondo, e quivi
si punisce la colpa della invidia; dove nomina madonna Sapìa, moglie di
messer Viviano de' Ghinibaldi da Siena, e molti altri.]
Noi eravamo al
sommo de la scala,
dove secondamente si risega
lo monte che salendo altrui dismala.
Ivi così
una cornice lega
dintorno il poggio, come la primaia;
se non che l'arco suo più tosto piega.
Ombra non
lì è né segno che si paia:
parsi la ripa e parsi la via schietta
col livido color de la petraia.
«Se qui per
dimandar gente s'aspetta»,
ragionava il poeta, «io temo forse
che troppo avrà d'indugio nostra eletta».
Poi fisamente
al sole li occhi porse;
fece del destro lato a muover centro,
e la sinistra parte di sé torse.
«O dolce lume a
cui fidanza i' entro
per lo novo cammin, tu ne conduci»,
dicea, «come condur si vuol quinc' entro.
Tu scaldi il
mondo, tu sovr' esso luci;
s'altra ragione in contrario non ponta,
esser dien sempre li tuoi raggi duci».
Quanto di qua
per un migliaio si conta,
tanto di là eravam noi già iti,
con poco tempo, per la voglia pronta;
e verso noi
volar furon sentiti,
non però visti, spiriti parlando
a la mensa d'amor cortesi inviti.
La prima voce
che passò volando
'Vinum non habent' altamente disse,
e dietro a noi l'andò reïterando.
E prima che del
tutto non si udisse
per allungarsi, un'altra 'I' sono Oreste'
passò gridando, e anco non s'affisse.
«Oh!», diss'
io, «padre, che voci son queste?».
E com' io domandai, ecco la terza
dicendo: 'Amate da cui male aveste'.
E 'l buon
maestro: «Questo cinghio sferza
la colpa de la invidia, e però sono
tratte d'amor le corde de la ferza.
Lo fren vuol
esser del contrario suono;
credo che l'udirai, per mio avviso,
prima che giunghi al passo del perdono.
Ma ficca li
occhi per l'aere ben fiso,
e vedrai gente innanzi a noi sedersi,
e ciascun è lungo la grotta assiso».
Allora
più che prima li occhi apersi;
guarda'mi innanzi, e vidi ombre con manti
al color de la pietra non diversi.
E poi che fummo
un poco più avanti,
udia gridar: 'Maria, òra per noi':
gridar 'Michele' e 'Pietro' e 'Tutti santi'.
Non credo che
per terra vada ancoi
omo sì duro, che non fosse punto
per compassion di quel ch'i' vidi poi;
ché, quando fui
sì presso di lor giunto,
che li atti loro a me venivan certi,
per li occhi fui di grave dolor munto.
Di vil ciliccio
mi parean coperti,
e l'un sofferia l'altro con la spalla,
e tutti da la ripa eran sofferti.
Così li
ciechi a cui la roba falla,
stanno a' perdoni a chieder lor bisogna,
e l'uno il capo sopra l'altro avvalla,
perché 'n
altrui pietà tosto si pogna,
non pur per lo sonar de le parole,
ma per la vista che non meno agogna.
E come a li
orbi non approda il sole,
così a l'ombre quivi, ond' io parlo ora,
luce del ciel di sé largir non vole;
ché a tutti un
fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.
A me pareva,
andando, fare oltraggio,
veggendo altrui, non essendo veduto:
per ch'io mi volsi al mio consiglio saggio.
Ben sapev' ei
che volea dir lo muto;
e però non attese mia dimanda,
ma disse: «Parla, e sie breve e arguto».
Virgilio mi
venìa da quella banda
de la cornice onde cader si puote,
perché da nulla sponda s'inghirlanda;
da l'altra
parte m'eran le divote
ombre, che per l'orribile costura
premevan sì, che bagnavan le gote.
Volsimi a loro
e: «O gente sicura»,
incominciai, «di veder l'alto lume
che 'l disio vostro solo ha in sua cura,
se tosto grazia
resolva le schiume
di vostra coscïenza sì che chiaro
per essa scenda de la mente il fiume,
ditemi, ché mi
fia grazioso e caro,
s'anima è qui tra voi che sia latina;
e forse lei sarà buon s'i' l'apparo».
«O frate mio,
ciascuna è cittadina
d'una vera città; ma tu vuo' dire
che vivesse in Italia peregrina».
Questo mi parve
per risposta udire
più innanzi alquanto che là dov' io stava,
ond' io mi feci ancor più là sentire.
Tra l'altre
vidi un'ombra ch'aspettava
in vista; e se volesse alcun dir 'Come?',
lo mento a guisa d'orbo in sù levava.
«Spirto», diss'
io, «che per salir ti dome,
se tu se' quelli che mi rispondesti,
fammiti conto o per luogo o per nome».
«Io fui
sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui,
avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non
creda ch'io t'inganni,
odi s'i' fui, com' io ti dico, folle,
già discendendo l'arco d'i miei anni.
Eran li
cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co' loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch'e' volle.
Rotti fuor
quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch'io
volsi in sù l'ardita faccia,
gridando a Dio: "Omai più non ti temo!",
come fé 'l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con
Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò
non fosse, ch'a memoria m'ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe.
Ma tu chi se',
che nostre condizioni
vai dimandando, e porti li occhi sciolti,
sì com' io credo, e spirando ragioni?».
«Li occhi»,
diss' io, «mi fieno ancor qui tolti,
ma picciol tempo, ché poca è l'offesa
fatta per esser con invidia vòlti.
Troppa è
più la paura ond' è sospesa
l'anima mia del tormento di sotto,
che già lo 'ncarco di là giù mi pesa».
Ed ella a me:
«Chi t'ha dunque condotto
qua sù tra noi, se giù ritornar credi?».
E io: «Costui ch'è meco e non fa motto.
E vivo sono; e
però mi richiedi,
spirito eletto, se tu vuo' ch'i' mova
di là per te ancor li mortai piedi».
«Oh, questa
è a udir sì cosa nuova»,
rispuose, «che gran segno è che Dio t'ami;
però col priego tuo talor mi giova.
E cheggioti,
per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a' miei propinqui tu ben mi rinfami.
Tu li vedrai
tra quella gente vana
che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch'a trovar la Diana;
ma più
vi perderanno li ammiragli».
CANTO XIV
[Canto XIV, dove si tratta del sopradetto girone, e qui si purga
la sopradetta colpa della invidia; dove nomina messer Rinieri da Calvoli e
molti altri.]
«Chi è
costui che 'l nostro monte cerchia
prima che morte li abbia dato il volo,
e apre li occhi a sua voglia e coverchia?».
«Non so chi
sia, ma so ch'e' non è solo;
domandal tu che più li t'avvicini,
e dolcemente, sì che parli, acco'lo».
Così due
spirti, l'uno a l'altro chini,
ragionavan di me ivi a man dritta;
poi fer li visi, per dirmi, supini;
e disse l'uno:
«O anima che fitta
nel corpo ancora inver' lo ciel ten vai,
per carità ne consola e ne ditta
onde vieni e
chi se'; ché tu ne fai
tanto maravigliar de la tua grazia,
quanto vuol cosa che non fu più mai».
E io: «Per
mezza Toscana si spazia
un fiumicel che nasce in Falterona,
e cento miglia di corso nol sazia.
Di sovr' esso
rech' io questa persona:
dirvi ch'i' sia, saria parlare indarno,
ché 'l nome mio ancor molto non suona».
«Se ben lo
'ntendimento tuo accarno
con lo 'ntelletto», allora mi rispuose
quei che diceva pria, «tu parli d'Arno».
E l'altro disse
lui: «Perché nascose
questi il vocabol di quella riviera,
pur com' om fa de l'orribili cose?».
E l'ombra che
di ciò domandata era,
si sdebitò così: «Non so; ma degno
ben è che 'l nome di tal valle pèra;
ché dal
principio suo, ov' è sì pregno
l'alpestro monte ond' è tronco Peloro,
che 'n pochi luoghi passa oltra quel segno,
infin là
've si rende per ristoro
di quel che 'l ciel de la marina asciuga,
ond' hanno i fiumi ciò che va con loro,
vertù
così per nimica si fuga
da tutti come biscia, o per sventura
del luogo, o per mal uso che li fruga:
ond' hanno
sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.
Tra brutti
porci, più degni di galle
che d'altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.
Botoli trova
poi, venendo giuso,
ringhiosi più che non chiede lor possa,
e da lor disdegnosa torce il muso.
Vassi caggendo;
e quant' ella più 'ngrossa,
tanto più trova di can farsi lupi
la maladetta e sventurata fossa.
Discesa poi per
più pelaghi cupi,
trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
Né
lascerò di dir perch' altri m'oda;
e buon sarà costui, s'ancor s'ammenta
di ciò che vero spirto mi disnoda.
Io veggio tuo
nepote che diventa
cacciator di quei lupi in su la riva
del fiero fiume, e tutti li sgomenta.
Vende la carne
loro essendo viva;
poscia li ancide come antica belva;
molti di vita e sé di pregio priva.
Sanguinoso esce
de la trista selva;
lasciala tal, che di qui a mille anni
ne lo stato primaio non si rinselva».
Com' a
l'annunzio di dogliosi danni
si turba il viso di colui ch'ascolta,
da qual che parte il periglio l'assanni,
così
vid' io l'altr' anima, che volta
stava a udir, turbarsi e farsi trista,
poi ch'ebbe la parola a sé raccolta.
Lo dir de l'una
e de l'altra la vista
mi fer voglioso di saper lor nomi,
e dimanda ne fei con prieghi mista;
per che lo
spirto che di pria parlòmi
ricominciò: «Tu vuo' ch'io mi deduca
nel fare a te ciò che tu far non vuo'mi.
Ma da che Dio
in te vuol che traluca
tanto sua grazia, non ti sarò scarso;
però sappi ch'io fui Guido del Duca.
Fu il sangue
mio d'invidia sì rïarso,
che se veduto avesse uom farsi lieto,
visto m'avresti di livore sparso.
Di mia semente
cotal paglia mieto;
o gente umana, perché poni 'l core
là 'v' è mestier di consorte divieto?
Questi è
Rinier; questi è 'l pregio e l'onore
de la casa da Calboli, ove nullo
fatto s'è reda poi del suo valore.
E non pur lo
suo sangue è fatto brullo,
tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;
ché dentro a
questi termini è ripieno
di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
Ov' è 'l
buon Lizio e Arrigo Mainardi?
Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
Quando in
Bologna un Fabbro si ralligna?
quando in Faenza un Bernardin di Fosco,
verga gentil di picciola gramigna?
Non ti
maravigliar s'io piango, Tosco,
quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d'Azzo che vivette nosco,
Federigo
Tignoso e sua brigata,
la casa Traversara e li Anastagi
(e l'una gente e l'altra è diretata),
le donne e '
cavalier, li affanni e li agi
che ne 'nvogliava amore e cortesia
là dove i cuor son fatti sì malvagi.
O Bretinoro,
ché non fuggi via,
poi che gita se n'è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
Ben fa
Bagnacaval, che non rifiglia;
e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s'impiglia.
Ben faranno i
Pagan, da che 'l demonio
lor sen girà; ma non però che puro
già mai rimagna d'essi testimonio.
O Ugolin de'
Fantolin, sicuro
è 'l nome tuo, da che più non s'aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Ma va via,
Tosco, omai; ch'or mi diletta
troppo di pianger più che di parlare,
sì m'ha nostra ragion la mente stretta».
Noi sapavam che
quell' anime care
ci sentivano andar; però, tacendo,
facëan noi del cammin confidare.
Poi fummo fatti
soli procedendo,
folgore parve quando l'aere fende,
voce che giunse di contra dicendo:
'Anciderammi
qualunque m'apprende';
e fuggì come tuon che si dilegua,
se sùbito la nuvola scoscende.
Come da lei
l'udir nostro ebbe triegua,
ed ecco l'altra con sì gran fracasso,
che somigliò tonar che tosto segua:
«Io sono
Aglauro che divenni sasso»;
e allor, per ristrignermi al poeta,
in destro feci, e non innanzi, il passo.
Già era
l'aura d'ogne parte queta;
ed el mi disse: «Quel fu 'l duro camo
che dovria l'uom tener dentro a sua meta.
Ma voi prendete
l'esca, sì che l'amo
de l'antico avversaro a sé vi tira;
e però poco val freno o richiamo.
Chiamavi 'l
cielo e 'ntorno vi si gira,
mostrandovi le sue bellezze etterne,
e l'occhio vostro pur a terra mira;
onde vi batte
chi tutto discerne».
CANTO XV
[Canto XV, il quale tratta de la essenza del terzo girone, luogo
diputato a purgare la colpa e peccato de l'ira; e dichiara Virgilio a Dante uno
dubbio nato di parole dette nel precedente canto da Guido del Duca, e una
visione ch'aparve in sogno a l'auttore, cioè Dante.]
Quanto tra
l'ultimar de l'ora terza
e 'l principio del dì par de la spera
che sempre a guisa di fanciullo scherza,
tanto pareva
già inver' la sera
essere al sol del suo corso rimaso;
vespero là, e qui mezza notte era.
E i raggi ne
ferien per mezzo 'l naso,
perché per noi girato era sì 'l monte,
che già dritti andavamo inver' l'occaso,
quand' io
senti' a me gravar la fronte
a lo splendore assai più che di prima,
e stupor m'eran le cose non conte;
ond' io levai
le mani inver' la cima
de le mie ciglia, e fecimi 'l solecchio,
che del soverchio visibile lima.
Come quando da
l'acqua o da lo specchio
salta lo raggio a l'opposita parte,
salendo su per lo modo parecchio
a quel che
scende, e tanto si diparte
dal cader de la pietra in igual tratta,
sì come mostra esperïenza e arte;
così mi
parve da luce rifratta
quivi dinanzi a me esser percosso;
per che a fuggir la mia vista fu ratta.
«Che è
quel, dolce padre, a che non posso
schermar lo viso tanto che mi vaglia»,
diss' io, «e pare inver' noi esser mosso?».
«Non ti
maravigliar s'ancor t'abbaglia
la famiglia del cielo», a me rispuose:
«messo è che viene ad invitar ch'om saglia.
Tosto
sarà ch'a veder queste cose
non ti fia grave, ma fieti diletto
quanto natura a sentir ti dispuose».
Poi giunti
fummo a l'angel benedetto,
con lieta voce disse: «Intrate quinci
ad un scaleo vie men che li altri eretto».
Noi montavam,
già partiti di linci,
e 'Beati misericordes!' fue
cantato retro, e 'Godi tu che vinci!'.
Lo mio maestro
e io soli amendue
suso andavamo; e io pensai, andando,
prode acquistar ne le parole sue;
e dirizza'mi a
lui sì dimandando:
«Che volse dir lo spirto di Romagna,
e 'divieto' e 'consorte' menzionando?».
Per ch'elli a
me: «Di sua maggior magagna
conosce il danno; e però non s'ammiri
se ne riprende perché men si piagna.
Perché
s'appuntano i vostri disiri
dove per compagnia parte si scema,
invidia move il mantaco a' sospiri.
Ma se l'amor de
la spera supprema
torcesse in suso il disiderio vostro,
non vi sarebbe al petto quella tema;
ché, per quanti
si dice più lì 'nostro',
tanto possiede più di ben ciascuno,
e più di caritate arde in quel chiostro».
«Io son d'esser
contento più digiuno»,
diss' io, «che se mi fosse pria taciuto,
e più di dubbio ne la mente aduno.
Com' esser
puote ch'un ben, distributo
in più posseditor, faccia più ricchi
di sé che se da pochi è posseduto?».
Ed elli a me:
«Però che tu rificchi
la mente pur a le cose terrene,
di vera luce tenebre dispicchi.
Quello infinito
e ineffabil bene
che là sù è, così corre ad amore
com' a lucido corpo raggio vene.
Tanto si
dà quanto trova d'ardore;
sì che, quantunque carità si stende,
cresce sovr' essa l'etterno valore.
E quanta gente
più là sù s'intende,
più v'è da bene amare, e più vi s'ama,
e come specchio l'uno a l'altro rende.
E se la mia
ragion non ti disfama,
vedrai Beatrice, ed ella pienamente
ti torrà questa e ciascun' altra brama.
Procaccia pur
che tosto sieno spente,
come son già le due, le cinque piaghe,
che si richiudon per esser dolente».
Com' io voleva
dicer 'Tu m'appaghe',
vidimi giunto in su l'altro girone,
sì che tacer mi fer le luci vaghe.
Ivi mi parve in
una visïone
estatica di sùbito esser tratto,
e vedere in un tempio più persone;
e una donna, in
su l'entrar, con atto
dolce di madre dicer: «Figliuol mio,
perché hai tu così verso noi fatto?
Ecco, dolenti,
lo tuo padre e io
ti cercavamo». E come qui si tacque,
ciò che pareva prima, dispario.
Indi m'apparve
un'altra con quell' acque
giù per le gote che 'l dolor distilla
quando di gran dispetto in altrui nacque,
e dir: «Se tu
se' sire de la villa
del cui nome ne' dèi fu tanta lite,
e onde ogne scïenza disfavilla,
vendica te di
quelle braccia ardite
ch'abbracciar nostra figlia, o Pisistràto».
E 'l segnor mi parea, benigno e mite,
risponder lei
con viso temperato:
«Che farem noi a chi mal ne disira,
se quei che ci ama è per noi condannato?».
Poi vidi genti
accese in foco d'ira
con pietre un giovinetto ancider, forte
gridando a sé pur: «Martira, martira!».
E lui vedea
chinarsi, per la morte
che l'aggravava già, inver' la terra,
ma de li occhi facea sempre al ciel porte,
orando a l'alto
Sire, in tanta guerra,
che perdonasse a' suoi persecutori,
con quello aspetto che pietà diserra.
Quando l'anima
mia tornò di fori
a le cose che son fuor di lei vere,
io riconobbi i miei non falsi errori.
Lo duca mio,
che mi potea vedere
far sì com' om che dal sonno si slega,
disse: «Che hai che non ti puoi tenere,
ma se' venuto
più che mezza lega
velando li occhi e con le gambe avvolte,
a guisa di cui vino o sonno piega?».
«O dolce padre
mio, se tu m'ascolte,
io ti dirò», diss' io, «ciò che m'apparve
quando le gambe mi furon sì tolte».
Ed ei: «Se tu
avessi cento larve
sovra la faccia, non mi sarian chiuse
le tue cogitazion, quantunque parve.
Ciò che
vedesti fu perché non scuse
d'aprir lo core a l'acque de la pace
che da l'etterno fonte son diffuse.
Non dimandai
"Che hai?" per quel che face
chi guarda pur con l'occhio che non vede,
quando disanimato il corpo giace;
ma dimandai per
darti forza al piede:
così frugar conviensi i pigri, lenti
ad usar lor vigilia quando riede».
Noi andavam per
lo vespero, attenti
oltre quanto potean li occhi allungarsi
contra i raggi serotini e lucenti.
Ed ecco a poco
a poco un fummo farsi
verso di noi come la notte oscuro;
né da quello era loco da cansarsi.
Questo ne tolse
li occhi e l'aere puro.
CANTO XVI
[Canto XVI, dove si tratta del sopradetto terzo girone e del
purgare la detta colpa de l'ira; e qui Marco Lombardo solve uno dubbio a
Dante.]
Buio d'inferno
e di notte privata
d'ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant' esser può di nuvol tenebrata,
non fece al
viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch'ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l'occhio
stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s'accostò e l'omero m'offerse.
Sì come
cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che 'l molesti, o forse ancida,
m'andava io per
l'aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci,
e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l'Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur 'Agnus
Dei' eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono
spirti, maestro, ch'i' odo?»,
diss' io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d'iracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se'
che 'l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per
una voce detto fue;
onde 'l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O
creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti
seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l'udir ci terrà giunti in quella vece».
Allora
incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l'infernale ambascia.
E se Dio m'ha
in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch'i' veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar
chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s'i' vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte».
«Lombardo fui,
e fu' chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l'arco.
Per montar
sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I' ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui:
«Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s'io non me ne spiego.
Prima era
scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov' io l'accoppio.
Lo mondo
è ben così tutto diserto
d'ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che
m'addite la cagione,
sì ch'i' la veggia e ch'i' la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir,
che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete
ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così
fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i
vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch'i' 'l dica,
lume v'è dato a bene e a malizia,
e libero voler;
che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza
e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura.
Però, se
'l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a
lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l'anima
semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene
in pria sente sapore;
quivi s'inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne
legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son,
ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che 'l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l'unghie fesse;
per che la
gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond' ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder
che la mala condotta
è la cagion che 'l mondo ha fatto reo,
e non natura che 'n voi sia corrotta.
Soleva Roma,
che 'l buon mondo feo,
due soli aver, che l'una e l'altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L'un l'altro ha
spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l'un con l'altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però
che, giunti, l'un l'altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch'ogn' erba si conosce per lo seme.
In sul paese
ch'Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può
sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d'appressarsi.
Ben v'èn
tre vecchi ancora in cui rampogna
l'antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da
Palazzo e 'l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì
oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio»,
diss' io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual
Gherardo è quel che tu per saggio
di' ch'è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar
m'inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro
sopranome io nol conosco,
s'io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l'albor
che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l'angelo è ivi) prima ch'io li paia».
Così
tornò, e più non volle udirmi.
CANTO XVII
[Canto XVII, dove tratta de la qualità del quarto girone,
dove si purga la colpa de la accidia, dove si ristora l'amore de lo imperfetto
bene; e qui dichiara una questione che indi nasce.]
Ricorditi,
lettor, se mai ne l'alpe
ti colse nebbia per la qual vedessi
non altrimenti che per pelle talpe,
come, quando i
vapori umidi e spessi
a diradar cominciansi, la spera
del sol debilemente entra per essi;
e fia la tua
imagine leggera
in giugnere a veder com' io rividi
lo sole in pria, che già nel corcar era.
Sì,
pareggiando i miei co' passi fidi
del mio maestro, usci' fuor di tal nube
ai raggi morti già ne' bassi lidi.
O imaginativa
che ne rube
talvolta sì di fuor, ch'om non s'accorge
perché dintorno suonin mille tube,
chi move te, se
'l senso non ti porge?
Moveti lume che nel ciel s'informa,
per sé o per voler che giù lo scorge.
De l'empiezza
di lei che mutò forma
ne l'uccel ch'a cantar più si diletta,
ne l'imagine mia apparve l'orma;
e qui fu la mia
mente sì ristretta
dentro da sé, che di fuor non venìa
cosa che fosse allor da lei ricetta.
Poi piovve
dentro a l'alta fantasia
un crucifisso, dispettoso e fero
ne la sua vista, e cotal si moria;
intorno ad esso
era il grande Assüero,
Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo,
che fu al dire e al far così intero.
E come questa
imagine rompeo
sé per sé stessa, a guisa d'una bulla
cui manca l'acqua sotto qual si feo,
surse in mia
visïone una fanciulla
piangendo forte, e dicea: «O regina,
perché per ira hai voluto esser nulla?
Ancisa t'hai
per non perder Lavina;
or m'hai perduta! Io son essa che lutto,
madre, a la tua pria ch'a l'altrui ruina».
Come si frange il
sonno ove di butto
nova luce percuote il viso chiuso,
che fratto guizza pria che muoia tutto;
così
l'imaginar mio cadde giuso
tosto che lume il volto mi percosse,
maggior assai che quel ch'è in nostro uso.
I' mi volgea
per veder ov' io fosse,
quando una voce disse «Qui si monta»,
che da ogne altro intento mi rimosse;
e fece la mia
voglia tanto pronta
di riguardar chi era che parlava,
che mai non posa, se non si raffronta.
Ma come al sol
che nostra vista grava
e per soverchio sua figura vela,
così la mia virtù quivi mancava.
«Questo
è divino spirito, che ne la
via da ir sù ne drizza sanza prego,
e col suo lume sé medesmo cela.
Sì fa
con noi, come l'uom si fa sego;
ché quale aspetta prego e l'uopo vede,
malignamente già si mette al nego.
Or accordiamo a
tanto invito il piede;
procacciam di salir pria che s'abbui,
ché poi non si poria, se 'l dì non riede».
Così
disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala;
e tosto ch'io al primo grado fui,
senti'mi presso
quasi un muover d'ala
e ventarmi nel viso e dir: 'Beati
pacifici, che son sanz' ira mala!'.
Già eran
sovra noi tanto levati
li ultimi raggi che la notte segue,
che le stelle apparivan da più lati.
'O virtù
mia, perché sì ti dilegue?',
fra me stesso dicea, ché mi sentiva
la possa de le gambe posta in triegue.
Noi eravam dove
più non saliva
la scala sù, ed eravamo affissi,
pur come nave ch'a la piaggia arriva.
E io attesi un
poco, s'io udissi
alcuna cosa nel novo girone;
poi mi volsi al maestro mio, e dissi:
«Dolce mio padre,
dì, quale offensione
si purga qui nel giro dove semo?
Se i piè si stanno, non stea tuo sermone».
Ed elli a me:
«L'amor del bene, scemo
del suo dover, quiritta si ristora;
qui si ribatte il mal tardato remo.
Ma perché
più aperto intendi ancora,
volgi la mente a me, e prenderai
alcun buon frutto di nostra dimora».
«Né creator né
creatura mai»,
cominciò el, «figliuol, fu sanza amore,
o naturale o d'animo; e tu 'l sai.
Lo naturale
è sempre sanza errore,
ma l'altro puote errar per malo obietto
o per troppo o per poco di vigore.
Mentre ch'elli
è nel primo ben diretto,
e ne' secondi sé stesso misura,
esser non può cagion di mal diletto;
ma quando al
mal si torce, o con più cura
o con men che non dee corre nel bene,
contra 'l fattore adovra sua fattura.
Quinci comprender
puoi ch'esser convene
amor sementa in voi d'ogne virtute
e d'ogne operazion che merta pene.
Or, perché mai
non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l'odio proprio son le cose tute;
e perché
intender non si può diviso,
e per sé stante, alcuno esser dal primo,
da quello odiare ogne effetto è deciso.
Resta, se
dividendo bene stimo,
che 'l mal che s'ama è del prossimo; ed esso
amor nasce in tre modi in vostro limo.
È chi,
per esser suo vicin soppresso,
spera eccellenza, e sol per questo brama
ch'el sia di sua grandezza in basso messo;
è chi
podere, grazia, onore e fama
teme di perder perch' altri sormonti,
onde s'attrista sì che 'l contrario ama;
ed è chi
per ingiuria par ch'aonti,
sì che si fa de la vendetta ghiotto,
e tal convien che 'l male altrui impronti.
Questo triforme
amor qua giù di sotto
si piange: or vo' che tu de l'altro intende,
che corre al ben con ordine corrotto.
Ciascun
confusamente un bene apprende
nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende.
Se lento amore
a lui veder vi tira
o a lui acquistar, questa cornice,
dopo giusto penter, ve ne martira.
Altro ben
è che non fa l'uom felice;
non è felicità, non è la buona
essenza, d'ogne ben frutto e radice.
L'amor ch'ad
esso troppo s'abbandona,
di sovr' a noi si piange per tre cerchi;
ma come tripartito si ragiona,
tacciolo,
acciò che tu per te ne cerchi».
CANTO XVIII
[Canto XVIII, il quale tratta del sopradetto quarto girone, ove si
purga la soprascritta colpa e peccato de l'accidia; e qui mostra Virgilio che
è perfetto amore; dove nomina l'abate da San Zeno di Verona.]
Posto avea fine
al suo ragionamento
l'alto dottore, e attento guardava
ne la mia vista s'io parea contento;
e io, cui nova
sete ancor frugava,
di fuor tacea, e dentro dicea: 'Forse
lo troppo dimandar ch'io fo li grava'.
Ma quel padre
verace, che s'accorse
del timido voler che non s'apriva,
parlando, di parlare ardir mi porse.
Ond' io:
«Maestro, il mio veder s'avviva
sì nel tuo lume, ch'io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti
prego, dolce padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogne buono operare e 'l suo contraro».
«Drizza», disse,
«ver' me l'agute luci
de lo 'ntelletto, e fieti manifesto
l'error de' ciechi che si fanno duci.
L'animo,
ch'è creato ad amar presto,
ad ogne cosa è mobile che piace,
tosto che dal piacere in atto è desto.
Vostra
apprensiva da esser verace
tragge intenzione, e dentro a voi la spiega,
sì che l'animo ad essa volger face;
e se, rivolto,
inver' di lei si piega,
quel piegare è amor, quell' è natura
che per piacer di novo in voi si lega.
Poi, come 'l
foco movesi in altura
per la sua forma ch'è nata a salire
là dove più in sua matera dura,
così
l'animo preso entra in disire,
ch'è moto spiritale, e mai non posa
fin che la cosa amata il fa gioire.
Or ti puote
apparer quant' è nascosa
la veritate a la gente ch'avvera
ciascun amore in sé laudabil cosa;
però che
forse appar la sua matera
sempre esser buona, ma non ciascun segno
è buono, ancor che buona sia la cera».
«Le tue parole
e 'l mio seguace ingegno»,
rispuos' io lui, «m'hanno amor discoverto,
ma ciò m'ha fatto di dubbiar più pregno;
ché, s'amore
è di fuori a noi offerto
e l'anima non va con altro piede,
se dritta o torta va, non è suo merto».
Ed elli a me:
«Quanto ragion qui vede,
dir ti poss' io; da indi in là t'aspetta
pur a Beatrice, ch'è opra di fede.
Ogne forma
sustanzïal, che setta
è da matera ed è con lei unita,
specifica vertute ha in sé colletta,
la qual sanza
operar non è sentita,
né si dimostra mai che per effetto,
come per verdi fronde in pianta vita.
Però,
là onde vegna lo 'ntelletto
de le prime notizie, omo non sape,
e de' primi appetibili l'affetto,
che sono in voi
sì come studio in ape
di far lo mele; e questa prima voglia
merto di lode o di biasmo non cape.
Or perché a
questa ogn' altra si raccoglia,
innata v'è la virtù che consiglia,
e de l'assenso de' tener la soglia.
Quest' è
'l principio là onde si piglia
ragion di meritare in voi, secondo
che buoni e rei amori accoglie e viglia.
Color che
ragionando andaro al fondo,
s'accorser d'esta innata libertate;
però moralità lasciaro al mondo.
Onde, poniam
che di necessitate
surga ogne amor che dentro a voi s'accende,
di ritenerlo è in voi la podestate.
La nobile
virtù Beatrice intende
per lo libero arbitrio, e però guarda
che l'abbi a mente, s'a parlar ten prende».
La luna, quasi
a mezza notte tarda,
facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com' un secchion che tuttor arda;
e correa contra
'l ciel per quelle strade
che 'l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ' Sardi e ' Corsi il vede quando cade.
E quell' ombra
gentil per cui si noma
Pietola più che villa mantoana,
del mio carcar diposta avea la soma;
per ch'io, che
la ragione aperta e piana
sovra le mie quistioni avea ricolta,
stava com' om che sonnolento vana.
Ma questa
sonnolenza mi fu tolta
subitamente da gente che dopo
le nostre spalle a noi era già volta.
E quale Ismeno
già vide e Asopo
lungo di sè di notte furia e calca,
pur che i Teban di Bacco avesser uopo,
cotal per quel
giron suo passo falca,
per quel ch'io vidi di color, venendo,
cui buon volere e giusto amor cavalca.
Tosto fur sovr'
a noi, perché correndo
si movea tutta quella turba magna;
e due dinanzi gridavan piangendo:
«Maria corse
con fretta a la montagna;
e Cesare, per soggiogare Ilerda,
punse Marsilia e poi corse in Ispagna».
«Ratto, ratto,
che 'l tempo non si perda
per poco amor», gridavan li altri appresso,
«che studio di ben far grazia rinverda».
«O gente in cui
fervore aguto adesso
ricompie forse negligenza e indugio
da voi per tepidezza in ben far messo,
questi che
vive, e certo i' non vi bugio,
vuole andar sù, pur che 'l sol ne riluca;
però ne dite ond' è presso il pertugio».
Parole furon
queste del mio duca;
e un di quelli spirti disse: «Vieni
di retro a noi, e troverai la buca.
Noi siam di
voglia a muoverci sì pieni,
che restar non potem; però perdona,
se villania nostra giustizia tieni.
Io fui abate in
San Zeno a Verona
sotto lo 'mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.
E tale ha
già l'un piè dentro la fossa,
che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d'avere avuta possa;
perché suo
figlio, mal del corpo intero,
e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero».
Io non so se
più disse o s'ei si tacque,
tant' era già di là da noi trascorso;
ma questo intesi, e ritener mi piacque.
E quei che
m'era ad ogne uopo soccorso
disse: «Volgiti qua: vedine due
venir dando a l'accidïa di morso».
Di retro a
tutti dicean: «Prima fue
morta la gente a cui il mar s'aperse,
che vedesse Iordan le rede sue.
E quella che
l'affanno non sofferse
fino a la fine col figlio d'Anchise,
sé stessa a vita sanza gloria offerse».
Poi
quando fuor da noi tanto divise
quell' ombre, che veder più non potiersi,
novo pensiero dentro a me si mise,
del qual
più altri nacquero e diversi;
e tanto d'uno in altro vaneggiai,
che li occhi per vaghezza ricopersi,
e 'l pensamento
in sogno trasmutai.
CANTO XIX
[Canto XIX, ove tratta de la essenza del quinto girone e qui si
purga la colpa de l'avarizia; dove nomina papa Adriano nato di Genova de' conti
da Lavagna.]
Ne l'ora che
non può 'l calor dïurno
intepidar più 'l freddo de la luna,
vinto da terra, e talor da Saturno
- quando i
geomanti lor Maggior Fortuna
veggiono in orïente, innanzi a l'alba,
surger per via che poco le sta bruna -,
mi venne in
sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e
come 'l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e
poscia tutta la drizzava
in poco d'ora, e lo smarrito volto,
com' amor vuol, così le colorava.
Poi ch'ell'
avea 'l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son»,
cantava, «io son dolce serena,
che ' marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse
del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s'ausa,
rado sen parte; sì tutto l'appago!».
Ancor non era
sua bocca richiusa,
quand' una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio,
Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L'altra
prendea, e dinanzi l'apria
fendendo i drappi, e mostravami 'l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n'uscia.
Io mossi li
occhi, e 'l buon maestro: «Almen tre
voci t'ho messe!», dicea, «Surgi e vieni;
troviam l'aperta per la qual tu entre».
Sù mi
levai, e tutti eran già pieni
de l'alto dì i giron del sacro monte,
e andavam col sol novo a le reni.
Seguendo lui,
portava la mia fronte
come colui che l'ha di pensier carca,
che fa di sé un mezzo arco di ponte;
quand' io udi'
«Venite; qui si varca»
parlare in modo soave e benigno,
qual non si sente in questa mortal marca.
Con l'ali
aperte, che parean di cigno,
volseci in sù colui che sì parlonne
tra due pareti del duro macigno.
Mosse le penne poi
e ventilonne,
'Qui lugent' affermando esser beati,
ch'avran di consolar l'anime donne.
«Che hai che
pur inver' la terra guati?»,
la guida mia incominciò a dirmi,
poco amendue da l'angel sormontati.
E io: «Con
tanta sospeccion fa irmi
novella visïon ch'a sé mi piega,
sì ch'io non posso dal pensar partirmi».
«Vedesti»,
disse, «quell'antica strega
che sola sovr' a noi omai si piagne;
vedesti come l'uom da lei si slega.
Bastiti, e
batti a terra le calcagne;
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege etterno con le rote magne».
Quale 'l
falcon, che prima a' pié si mira,
indi si volge al grido e si protende
per lo disio del pasto che là il tira,
tal mi fec' io;
e tal, quanto si fende
la roccia per dar via a chi va suso,
n'andai infin dove 'l cerchiar si prende.
Com' io nel
quinto giro fui dischiuso,
vidi gente per esso che piangea,
giacendo a terra tutta volta in giuso.
'Adhaesit
pavimento anima mea'
sentia dir lor con sì alti sospiri,
che la parola a pena s'intendea.
«O eletti di
Dio, li cui soffriri
e giustizia e speranza fa men duri,
drizzate noi verso li alti saliri».
«Se voi venite
dal giacer sicuri,
e volete trovar la via più tosto,
le vostre destre sien sempre di fori».
Così
pregò 'l poeta, e sì risposto
poco dinanzi a noi ne fu; per ch'io
nel parlare avvisai l'altro nascosto,
e volsi li
occhi a li occhi al segnor mio:
ond' elli m'assentì con lieto cenno
ciò che chiedea la vista del disio.
Poi ch'io potei
di me fare a mio senno,
trassimi sovra quella creatura
le cui parole pria notar mi fenno,
dicendo:
«Spirto in cui pianger matura
quel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi,
sosta un poco per me tua maggior cura.
Chi fosti e
perché vòlti avete i dossi
al sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetri
cosa di là ond' io vivendo mossi».
Ed elli a me:
«Perché i nostri diretri
rivolga il cielo a sé, saprai; ma prima
scias quod ego fui successor Petri.
Intra
Sïestri e Chiaveri s'adima
una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
Un mese e poco
più prova' io come
pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l'altre some.
La mia
conversïone, omè!, fu tarda;
ma, come fatto fui roman pastore,
così scopersi la vita bugiarda.
Vidi che
lì non s'acquetava il core,
né più salir potiesi in quella vita;
per che di questa in me s'accese amore.
Fino a quel
punto misera e partita
da Dio anima fui, del tutto avara;
or, come vedi, qui ne son punita.
Quel
ch'avarizia fa, qui si dichiara
in purgazion de l'anime converse;
e nulla pena il monte ha più amara.
Sì come
l'occhio nostro non s'aderse
in alto, fisso a le cose terrene,
così giustizia qui a terra il merse.
Come avarizia
spense a ciascun bene
lo nostro amore, onde operar perdési,
così giustizia qui stretti ne tene,
ne' piedi e ne
le man legati e presi;
e quanto fia piacer del giusto Sire,
tanto staremo immobili e distesi».
Io m'era
inginocchiato e volea dire;
ma com' io cominciai ed el s'accorse,
solo ascoltando, del mio reverire,
«Qual cagion»,
disse, «in giù così ti torse?».
E io a lui: «Per vostra dignitate
mia coscïenza dritto mi rimorse».
«Drizza le
gambe, lèvati sù, frate!»,
rispuose; «non errar: conservo sono
teco e con li altri ad una podestate.
Se mai quel
santo evangelico suono
che dice 'Neque nubent' intendesti,
ben puoi veder perch' io così ragiono.
Vattene omai:
non vo' che più t'arresti;
ché la tua stanza mio pianger disagia,
col qual maturo ciò che tu dicesti.
Nepote ho io di
là c'ha nome Alagia,
buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola
di là m'è rimasa».
CANTO XX
[Canto XX, ove si tratta del sopradetto girone e de la sopradetta
colpa de l'avarizia.]
Contra miglior
voler voler mal pugna;
onde contra 'l piacer mio, per piacerli,
trassi de l'acqua non sazia la spugna.
Mossimi; e 'l
duca mio si mosse per li
luoghi spediti pur lungo la roccia,
come si va per muro stretto a' merli;
ché la gente
che fonde a goccia a goccia
per li occhi il mal che tutto 'l mondo occupa,
da l'altra parte in fuor troppo s'approccia.
Maladetta sie
tu, antica lupa,
che più che tutte l'altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
O ciel, nel cui
girar par che si creda
le condizion di qua giù trasmutarsi,
quando verrà per cui questa disceda?
Noi andavam con
passi lenti e scarsi,
e io attento a l'ombre, ch'i' sentia
pietosamente piangere e lagnarsi;
e per ventura
udi' «Dolce Maria!»
dinanzi a noi chiamar così nel pianto
come fa donna che in parturir sia;
e seguitar:
«Povera fosti tanto,
quanto veder si può per quello ospizio
dove sponesti il tuo portato santo».
Seguentemente
intesi: «O buon Fabrizio,
con povertà volesti anzi virtute
che gran ricchezza posseder con vizio».
Queste parole
m'eran sì piaciute,
ch'io mi trassi oltre per aver contezza
di quello spirto onde parean venute.
Esso parlava
ancor de la larghezza
che fece Niccolò a le pulcelle,
per condurre ad onor lor giovinezza.
«O anima che
tanto ben favelle,
dimmi chi fosti», dissi, «e perché sola
tu queste degne lode rinovelle.
Non fia sanza
mercé la tua parola,
s'io ritorno a compiér lo cammin corto
di quella vita ch'al termine vola».
Ed elli: «Io ti
dirò, non per conforto
ch'io attenda di là, ma perché tanta
grazia in te luce prima che sie morto.
Io fui radice
de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio,
Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di
là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.
Figliuol fu' io
d'un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch'un renduto in panni bigi,
trova'mi
stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d'amici pieno,
ch'a la corona
vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la
gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.
Lì
cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in
Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg' io,
non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ' suoi.
Sanz' arme
n'esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non
terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.
L'altro, che
già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l'altre schiave.
O avarizia, che
puoi tu più farne,
poscia c'ha' il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?
Perché men paia
il mal futuro e 'l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo
un'altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l'aceto e 'l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo
Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio,
quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?
Ciò
ch'io dicea di quell' unica sposa
de lo Spirito Santo e che ti fece
verso me volger per alcuna chiosa,
tanto è
risposto a tutte nostre prece
quanto 'l dì dura; ma com' el s'annotta,
contrario suon prendemo in quella vece.
Noi repetiam
Pigmalïon allotta,
cui traditore e ladro e paricida
fece la voglia sua de l'oro ghiotta;
e la miseria de
l'avaro Mida,
che seguì a la sua dimanda gorda,
per la qual sempre convien che si rida.
Del folle
Acàn ciascun poi si ricorda,
come furò le spoglie, sì che l'ira
di Iosüè qui par ch'ancor lo morda.
Indi accusiam
col marito Saffira;
lodiam i calci ch'ebbe Elïodoro;
e in infamia tutto 'l monte gira
Polinestòr
ch'ancise Polidoro;
ultimamente ci si grida: "Crasso,
dilci, che 'l sai: di che sapore è l'oro?".
Talor parla
l'uno alto e l'altro basso,
secondo l'affezion ch'ad ir ci sprona
ora a maggiore e ora a minor passo:
però al
ben che 'l dì ci si ragiona,
dianzi non era io sol; ma qui da presso
non alzava la voce altra persona».
Noi eravam
partiti già da esso,
e brigavam di soverchiar la strada
tanto quanto al poder n'era permesso,
quand' io
senti', come cosa che cada,
tremar lo monte; onde mi prese un gelo
qual prender suol colui ch'a morte vada.
Certo non si
scoteo sì forte Delo,
pria che Latona in lei facesse 'l nido
a parturir li due occhi del cielo.
Poi
cominciò da tutte parti un grido
tal, che 'l maestro inverso me si feo,
dicendo: «Non dubbiar, mentr' io ti guido».
'Glorïa
in excelsis' tutti 'Deo'
dicean, per quel ch'io da' vicin compresi,
onde intender lo grido si poteo.
No' istavamo
immobili e sospesi
come i pastor che prima udir quel canto,
fin che 'l tremar cessò ed el compiési.
Poi ripigliammo
nostro cammin santo,
guardando l'ombre che giacean per terra,
tornate già in su l'usato pianto.
Nulla ignoranza
mai con tanta guerra
mi fé desideroso di sapere,
se la memoria mia in ciò non erra,
quanta pareami allor,
pensando, avere;
né per la fretta dimandare er' oso,
né per me lì potea cosa vedere:
così
m'andava timido e pensoso.
CANTO XXI
[Canto XXI, ove si tratta del sopradetto quinto girone, dove si
punisce e purga la predetta colpa de l'avarizia e la colpa de la prodigalitade;
dove truova Stazio poeta tolosano.]
La sete natural
che mai non sazia
se non con l'acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava,
e pungeami la fretta
per la 'mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
Ed ecco,
sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a' due ch'erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un'ombra,
e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: «O
frati miei, Dio vi dea pace».
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli 'l cenno ch'a ciò si conface.
Poi
cominciò: «Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l'etterno essilio».
«Come!», diss'
elli, e parte andavam forte:
«se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v'ha per la sua scala tanto scorte?».
E 'l dottor
mio: «Se tu riguardi a' segni
che questi porta e che l'angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch'e' regni.
Ma perché lei
che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l'anima sua,
ch'è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch'al nostro modo non adocchia.
Ond' io fui
tratto fuor de l'ampia gola
d'inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto 'l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu
sai, perché tai crolli
diè dianzi 'l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a' suoi piè molli».
Sì mi
diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei
cominciò: «Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d'usanza.
Libero è
qui da ogne alterazione:
di quel che 'l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d'altro, cagione.
Per che non
pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse
non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non
surge più avante
ch'al sommo d'i tre gradi ch'io parlai,
dov' ha 'l vicario di Pietro le piante.
Trema forse
più giù poco o assai;
ma per vento che 'n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando
alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia
sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l'alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben,
ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son
giaciuto a questa doglia
cinquecent' anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però
sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li 'nvii».
Così ne
disse; e però ch'el si gode
tanto del ber quant' è grande la sete,
non saprei dir quant' el mi fece prode.
E 'l savio
duca: «Omai veggio la rete
che qui vi 'mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti,
piacciati ch'io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se', ne le parole tue mi cappia».
«Nel tempo che
'l buon Tito, con l'aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond' uscì 'l sangue per Giuda venduto,
col nome che
più dura e più onora
era io di là», rispuose quello spirto,
«famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce
mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente
ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor
fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de
l'Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz' essa non fermai peso di dramma.
E per esser
vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando».
Volser Virgilio
a me queste parole
con viso che, tacendo, disse 'Taci';
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e
pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne' più veraci.
Io pur sorrisi
come l'uom ch'ammicca;
per che l'ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove 'l sembiante più si ficca;
e «Se tanto labore
in bene assommi»,
disse, «perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?».
Or son io d'una
parte e d'altra preso:
l'una mi fa tacer, l'altra scongiura
ch'io dica; ond' io sospiro, e sono inteso
dal mio
maestro, e «Non aver paura»,
mi dice, «di parlar; ma parla e digli
quel ch'e' dimanda con cotanta cura».
Ond' io: «Forse
che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch'io fei;
ma più d'ammirazion vo' che ti pigli.
Questi che
guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d'i dèi.
Se cagion altra
al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti».
Già
s'inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: «Frate,
non far, ché tu se' ombra e ombra vedi».
Ed ei surgendo:
«Or puoi la quantitate
comprender de l'amor ch'a te mi scalda,
quand' io dismento nostra vanitate,
trattando
l'ombre come cosa salda».
CANTO XXII
[Canto XXII, dove tratta de la qualità del sesto girone,
dove si punisce e purga la colpa e vizio de la gola; e qui narra Stazio sua
purgazione e sua conversione a la cristiana fede.]
Già era
l'angel dietro a noi rimaso,
l'angel che n'avea vòlti al sesto giro,
avendomi dal viso un colpo raso;
e quei c'hanno
a giustizia lor disiro
detto n'avea beati, e le sue voci
con 'sitiunt', sanz' altro, ciò forniro.
E io più
lieve che per l'altre foci
m'andava, sì che sanz' alcun labore
seguiva in sù li spiriti veloci;
quando Virgilio
incominciò: «Amore,
acceso di virtù, sempre altro accese,
pur che la fiamma sua paresse fore;
onde da l'ora
che tra noi discese
nel limbo de lo 'nferno Giovenale,
che la tua affezion mi fé palese,
mia
benvoglienza inverso te fu quale
più strinse mai di non vista persona,
sì ch'or mi parran corte queste scale.
Ma dimmi, e
come amico mi perdona
se troppa sicurtà m'allarga il freno,
e come amico omai meco ragiona:
come poté
trovar dentro al tuo seno
loco avarizia, tra cotanto senno
di quanto per tua cura fosti pieno?».
Queste parole
Stazio mover fenno
un poco a riso pria; poscia rispuose:
«Ogne tuo dir d'amor m'è caro cenno.
Veramente
più volte appaion cose
che danno a dubitar falsa matera
per le vere ragion che son nascose.
La tua dimanda
tuo creder m'avvera
esser ch'i' fossi avaro in l'altra vita,
forse per quella cerchia dov' io era.
Or sappi
ch'avarizia fu partita
troppo da me, e questa dismisura
migliaia di lunari hanno punita.
E se non fosse
ch'io drizzai mia cura,
quand' io intesi là dove tu chiame,
crucciato quasi a l'umana natura:
'Per che non
reggi tu, o sacra fame
de l'oro, l'appetito de' mortali?',
voltando sentirei le giostre grame.
Allor m'accorsi
che troppo aprir l'ali
potean le mani a spendere, e pente'mi
così di quel come de li altri mali.
Quanti
risurgeran coi crini scemi
per ignoranza, che di questa pecca
toglie 'l penter vivendo e ne li stremi!
E sappie che la
colpa che rimbecca
per dritta opposizione alcun peccato,
con esso insieme qui suo verde secca;
però,
s'io son tra quella gente stato
che piange l'avarizia, per purgarmi,
per lo contrario suo m'è incontrato».
«Or quando tu
cantasti le crude armi
de la doppia trestizia di Giocasta»,
disse 'l cantor de' buccolici carmi,
«per quello che
Clïò teco lì tasta,
non par che ti facesse ancor fedele
la fede, sanza qual ben far non basta.
Se così
è, qual sole o quai candele
ti stenebraron sì, che tu drizzasti
poscia di retro al pescator le vele?».
Ed elli a lui:
«Tu prima m'invïasti
verso Parnaso a ber ne le sue grotte,
e prima appresso Dio m'alluminasti.
Facesti come
quei che va di notte,
che porta il lume dietro e sé non giova,
ma dopo sé fa le persone dotte,
quando dicesti:
'Secol si rinova;
torna giustizia e primo tempo umano,
e progenïe scende da ciel nova'.
Per te poeta
fui, per te cristiano:
ma perché veggi mei ciò ch'io disegno,
a colorare stenderò la mano.
Già era
'l mondo tutto quanto pregno
de la vera credenza, seminata
per li messaggi de l'etterno regno;
e la parola tua
sopra toccata
si consonava a' nuovi predicanti;
ond' io a visitarli presi usata.
Vennermi poi
parendo tanto santi,
che, quando Domizian li perseguette,
sanza mio lagrimar non fur lor pianti;
e mentre che di
là per me si stette,
io li sovvenni, e i lor dritti costumi
fer dispregiare a me tutte altre sette.
E pria ch'io
conducessi i Greci a' fiumi
di Tebe poetando, ebb' io battesmo;
ma per paura chiuso cristian fu'mi,
lungamente
mostrando paganesmo;
e questa tepidezza il quarto cerchio
cerchiar mi fé più che 'l quarto centesmo.
Tu dunque, che
levato hai il coperchio
che m'ascondeva quanto bene io dico,
mentre che del salire avem soverchio,
dimmi dov'
è Terrenzio nostro antico,
Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico».
«Costoro e
Persio e io e altri assai»,
rispuose il duca mio, «siam con quel Greco
che le Muse lattar più ch'altri mai,
nel primo
cinghio del carcere cieco;
spesse fïate ragioniam del monte
che sempre ha le nutrice nostre seco.
Euripide
v'è nosco e Antifonte,
Simonide, Agatone e altri piùe
Greci che già di lauro ornar la fronte.
Quivi si
veggion de le genti tue
Antigone, Deïfile e Argia,
e Ismene sì trista come fue.
Védeisi quella
che mostrò Langia;
èvvi la figlia di Tiresia, e Teti,
e con le suore sue Deïdamia».
Tacevansi
ambedue già li poeti,
di novo attenti a riguardar dintorno,
liberi da saliri e da pareti;
e già le
quattro ancelle eran del giorno
rimase a dietro, e la quinta era al temo,
drizzando pur in sù l'ardente corno,
quando il mio
duca: «Io credo ch'a lo stremo
le destre spalle volger ne convegna,
girando il monte come far solemo».
Così
l'usanza fu lì nostra insegna,
e prendemmo la via con men sospetto
per l'assentir di quell' anima degna.
Elli givan
dinanzi, e io soletto
di retro, e ascoltava i lor sermoni,
ch'a poetar mi davano intelletto.
Ma tosto ruppe
le dolci ragioni
un alber che trovammo in mezza strada,
con pomi a odorar soavi e buoni;
e come abete in
alto si digrada
di ramo in ramo, così quello in giuso,
cred' io, perché persona sù non vada.
Dal lato onde
'l cammin nostro era chiuso,
cadea de l'alta roccia un liquor chiaro
e si spandeva per le foglie suso.
Li due poeti a
l'alber s'appressaro;
e una voce per entro le fronde
gridò: «Di questo cibo avrete caro».
Poi disse:
«Più pensava Maria onde
fosser le nozze orrevoli e intere,
ch'a la sua bocca, ch'or per voi risponde.
E le Romane
antiche, per lor bere,
contente furon d'acqua; e Danïello
dispregiò cibo e acquistò savere.
Lo secol primo,
quant' oro fu bello,
fé savorose con fame le ghiande,
e nettare con sete ogne ruscello.
Mele e locuste
furon le vivande
che nodriro il Batista nel diserto;
per ch'elli è glorïoso e tanto grande
quanto per lo
Vangelio v'è aperto».
CANTO XXIII
[Canto XXIII, dove si tratta del sopradetto girone e di quella
medesima colpa de la gola, e sgrida contro a le donne fiorentine; dove truova
Forese de' Donati di Fiorenze col quale molto parla.]
Mentre che li
occhi per la fronda verde
ficcava ïo sì come far suole
chi dietro a li uccellin sua vita perde,
lo più
che padre mi dicea: «Figliuole,
vienne oramai, ché 'l tempo che n'è imposto
più utilmente compartir si vuole».
Io volsi 'l
viso, e 'l passo non men tosto,
appresso i savi, che parlavan sìe,
che l'andar mi facean di nullo costo.
Ed ecco
piangere e cantar s'udìe
'Labïa mëa, Domine' per modo
tal, che diletto e doglia parturìe.
«O dolce padre,
che è quel ch'i' odo?»,
comincia' io; ed elli: «Ombre che vanno
forse di lor dover solvendo il nodo».
Sì come
i peregrin pensosi fanno,
giugnendo per cammin gente non nota,
che si volgono ad essa e non restanno,
così di
retro a noi, più tosto mota,
venendo e trapassando ci ammirava
d'anime turba tacita e devota.
Ne li occhi era
ciascuna oscura e cava,
palida ne la faccia, e tanto scema
che da l'ossa la pelle s'informava.
Non credo che
così a buccia strema
Erisittone fosse fatto secco,
per digiunar, quando più n'ebbe tema.
Io dicea fra me
stesso pensando: 'Ecco
la gente che perdé Ierusalemme,
quando Maria nel figlio diè di becco!'.
Parean
l'occhiaie anella sanza gemme:
chi nel viso de li uomini legge 'omo'
ben avria quivi conosciuta l'emme.
Chi crederebbe
che l'odor d'un pomo
sì governasse, generando brama,
e quel d'un'acqua, non sappiendo como?
Già era
in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del
profondo de la testa
volse a me li occhi un'ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m'è questa?».
Mai non l'avrei
riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l'aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla
tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non
contendere a l'asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch'io abbia;
ma dimmi il ver
di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua,
ch'io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos' io lui, «veggendola sì torta.
Però mi
dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr' io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d'altra voglia».
Ed elli a me:
«De l'etterno consiglio
cade vertù ne l'acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond' io sì m'assottiglio.
Tutta esta
gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e 'n sete qui si rifà santa.
Di bere e di
mangiar n'accende cura
l'odor ch'esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una
volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella
voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire 'Elì',
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui:
«Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu' anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la
possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l'ora
del buon dolor ch'a Dio ne rimarita,
come se' tu qua
sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond' elli a me:
«Sì tosto m'ha condotto
a ber lo dolce assenzo d'i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi
prieghi devoti e con sospiri
tratto m'ha de la costa ove s'aspetta,
e liberato m'ha de li altri giri.
Tanto è
a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia
di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov' io la lasciai.
O dolce frate,
che vuo' tu ch'io dica?
Tempo futuro m'è già nel cospetto,
cui non sarà quest' ora molto antica,
nel qual
sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l'andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare
fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le
svergognate fosser certe
di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se
l'antiveder qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.
Deh, frate, or
fa che più non mi ti celi!
vedi che non pur io, ma questa gente
tutta rimira là dove 'l sol veli».
Per ch'io a
lui: «Se tu riduci a mente
qual fosti meco, e qual io teco fui,
ancor fia grave il memorar presente.
Di quella vita
mi volse costui
che mi va innanzi, l'altr' ier, quando tonda
vi si mostrò la suora di colui»,
e 'l sol
mostrai; «costui per la profonda
notte menato m'ha d'i veri morti
con questa vera carne che 'l seconda.
Indi m'han
tratto sù li suoi conforti,
salendo e rigirando la montagna
che drizza voi che 'l mondo fece torti.
Tanto dice di
farmi sua compagna
che io sarò là dove fia Beatrice;
quivi convien che sanza lui rimagna.
Virgilio
è questi che così mi dice»,
e addita'lo; «e quest' altro è quell' ombra
per cuï scosse dianzi ogne pendice
lo vostro
regno, che da sé lo sgombra».
CANTO XXIV
[Canto XXIV nel quale si tratta del sopradetto sesto girone e di
quelli che si purgano del predetto peccato e vizio de la gola; e predicesi qui
alcune cose a venire de la città lucana.]
Né 'l dir
l'andar, né l'andar lui più lento
facea, ma ragionando andavam forte,
sì come nave pinta da buon vento;
e l'ombre, che
parean cose rimorte,
per le fosse de li occhi ammirazione
traean di me, di mio vivere accorte.
E io,
continüando al mio sermone,
dissi: «Ella sen va sù forse più tarda
che non farebbe, per altrui cagione.
Ma dimmi, se tu
sai, dov' è Piccarda;
dimmi s'io veggio da notar persona
tra questa gente che sì mi riguarda».
«La mia
sorella, che tra bella e buona
non so qual fosse più, trïunfa lieta
ne l'alto Olimpo già di sua corona».
Sì disse
prima; e poi: «Qui non si vieta
di nominar ciascun, da ch'è sì munta
nostra sembianza via per la dïeta.
Questi», e
mostrò col dito, «è Bonagiunta,
Bonagiunta da Lucca; e quella faccia
di là da lui più che l'altre trapunta
ebbe la Santa
Chiesa in le sue braccia:
dal Torso fu, e purga per digiuno
l'anguille di Bolsena e la vernaccia».
Molti altri mi
nomò ad uno ad uno;
e del nomar parean tutti contenti,
sì ch'io però non vidi un atto bruno.
Vidi per fame a
vòto usar li denti
Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
Vidi messer
Marchese, ch'ebbe spazio
già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.
Ma come fa chi
guarda e poi s'apprezza
più d'un che d'altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me aver contezza.
El mormorava; e
non so che «Gentucca»
sentiv' io là, ov' el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima»,
diss' io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch'io t'intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina
è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch'om la riprenda.
Tu te n'andrai
con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì
s'i' veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
'Donne ch'avete intelletto d'amore'».
E io a lui: «I'
mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando».
«O frate, issa
vegg' io», diss' elli, «il nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!
Io veggio ben
come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual
più a gradire oltre si mette,
non vede più da l'uno a l'altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
Come li augei
che vernan lungo 'l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,
così
tutta la gente che lì era,
volgendo 'l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.
E come l'uom
che di trottare è lasso,
lascia andar li compagni, e sì passeggia
fin che si sfoghi l'affollar del casso,
sì
lasciò trapassar la santa greggia
Forese, e dietro meco sen veniva,
dicendo: «Quando fia ch'io ti riveggia?».
«Non so»,
rispuos' io lui, «quant' io mi viva;
ma già non fïa il tornar mio tantosto,
ch'io non sia col voler prima a la riva;
però che
'l loco u' fui a viver posto,
di giorno in giorno più di ben si spolpa,
e a trista ruina par disposto».
«Or va», diss'
el; «che quei che più n'ha colpa,
vegg' ïo a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad
ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.
Non hanno molto
a volger quelle ruote»,
e drizzò li occhi al ciel, «che ti fia chiaro
ciò che 'l mio dir più dichiarar non puote.
Tu ti rimani
omai; ché 'l tempo è caro
in questo regno, sì ch'io perdo troppo
venendo teco sì a paro a paro».
Qual esce
alcuna volta di gualoppo
lo cavalier di schiera che cavalchi,
e va per farsi onor del primo intoppo,
tal si
partì da noi con maggior valchi;
e io rimasi in via con esso i due
che fuor del mondo sì gran marescalchi.
E quando
innanzi a noi intrato fue,
che li occhi miei si fero a lui seguaci,
come la mente a le parole sue,
parvermi i rami
gravidi e vivaci
d'un altro pomo, e non molto lontani
per esser pur allora vòlto in laci.
Vidi gente
sott' esso alzar le mani
e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani
che pregano, e
'l pregato non risponde,
ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.
Poi si
partì sì come ricreduta;
e noi venimmo al grande arbore adesso,
che tanti prieghi e lagrime rifiuta.
«Trapassate
oltre sanza farvi presso:
legno è più sù che fu morso da Eva,
e questa pianta si levò da esso».
Sì tra
le frasche non so chi diceva;
per che Virgilio e Stazio e io, ristretti,
oltre andavam dal lato che si leva.
«Ricordivi»,
dicea, «d'i maladetti
nei nuvoli formati, che, satolli,
Tesëo combatter co' doppi petti;
e de li Ebrei
ch'al ber si mostrar molli,
per che no i volle Gedeon compagni,
quando inver' Madïan discese i colli».
Sì
accostati a l'un d'i due vivagni
passammo, udendo colpe de la gola
seguite già da miseri guadagni.
Poi, rallargati
per la strada sola,
ben mille passi e più ci portar oltre,
contemplando ciascun sanza parola.
«Che andate
pensando sì voi sol tre?».
sùbita voce disse; ond' io mi scossi
come fan bestie spaventate e poltre.
Drizzai la
testa per veder chi fossi;
e già mai non si videro in fornace
vetri o metalli sì lucenti e rossi,
com' io vidi un
che dicea: «S'a voi piace
montare in sù, qui si convien dar volta;
quinci si va chi vuole andar per pace».
L'aspetto suo
m'avea la vista tolta;
per ch'io mi volsi dietro a' miei dottori,
com' om che va secondo ch'elli ascolta.
E quale, annunziatrice
de li albori,
l'aura di maggio movesi e olezza,
tutta impregnata da l'erba e da' fiori;
tal mi senti'
un vento dar per mezza
la fronte, e ben senti' mover la piuma,
che fé sentir d'ambrosïa l'orezza.
E senti' dir:
«Beati cui alluma
tanto di grazia, che l'amor del gusto
nel petto lor troppo disir non fuma,
esurïendo
sempre quanto è giusto!».
CANTO XXV
[Canto XXV, lo quale tratta de l'essenzia del settimo girone, dove
si punisce la colpa e peccato contro a natura ed ermafrodito sotto il vizio de
la lussuria; e prima tratta alquanto del precedente purgamento de' ghiotti,
dove Stazio poeta fae una distinzione sopra la natura umana.]
Ora era onde 'l
salir non volea storpio;
ché 'l sole avëa il cerchio di merigge
lasciato al Tauro e la notte a lo Scorpio:
per che, come
fa l'uom che non s'affigge
ma vassi a la via sua, che che li appaia,
se di bisogno stimolo il trafigge,
così
intrammo noi per la callaia,
uno innanzi altro prendendo la scala
che per artezza i salitor dispaia.
E quale il
cicognin che leva l'ala
per voglia di volare, e non s'attenta
d'abbandonar lo nido, e giù la cala;
tal era io con
voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l'atto
che fa colui ch'a dicer s'argomenta.
Non
lasciò, per l'andar che fosse ratto,
lo dolce padre mio, ma disse: «Scocca
l'arco del dir, che 'nfino al ferro hai tratto».
Allor
sicuramente apri' la bocca
e cominciai: «Come si può far magro
là dove l'uopo di nodrir non tocca?».
«Se
t'ammentassi come Meleagro
si consumò al consumar d'un stizzo,
non fora», disse, «a te questo sì agro;
e se pensassi
come, al vostro guizzo,
guizza dentro a lo specchio vostra image,
ciò che par duro ti parrebbe vizzo.
Ma perché
dentro a tuo voler t'adage,
ecco qui Stazio; e io lui chiamo e prego
che sia or sanator de le tue piage».
«Se la veduta
etterna li dislego»,
rispuose Stazio, «là dove tu sie,
discolpi me non potert' io far nego».
Poi
cominciò: «Se le parole mie,
figlio, la mente tua guarda e riceve,
lume ti fiero al come che tu die.
Sangue
perfetto, che poi non si beve
da l'assetate vene, e si rimane
quasi alimento che di mensa leve,
prende nel core
a tutte membra umane
virtute informativa, come quello
ch'a farsi quelle per le vene vane.
Ancor digesto,
scende ov' è più bello
tacer che dire; e quindi poscia geme
sovr' altrui sangue in natural vasello.
Ivi s'accoglie
l'uno e l'altro insieme,
l'un disposto a patire, e l'altro a fare
per lo perfetto loco onde si preme;
e, giunto lui,
comincia ad operare
coagulando prima, e poi avviva
ciò che per sua matera fé constare.
Anima fatta la
virtute attiva
qual d'una pianta, in tanto differente,
che questa è in via e quella è già a riva,
tanto ovra poi,
che già si move e sente,
come spungo marino; e indi imprende
ad organar le posse ond' è semente.
Or si spiega,
figliuolo, or si distende
la virtù ch'è dal cor del generante,
dove natura a tutte membra intende.
Ma come
d'animal divegna fante,
non vedi tu ancor: quest' è tal punto,
che più savio di te fé già errante,
sì che
per sua dottrina fé disgiunto
da l'anima il possibile intelletto,
perché da lui non vide organo assunto.
Apri a la
verità che viene il petto;
e sappi che, sì tosto come al feto
l'articular del cerebro è perfetto,
lo motor primo
a lui si volge lieto
sovra tant' arte di natura, e spira
spirito novo, di vertù repleto,
che ciò
che trova attivo quivi, tira
in sua sustanzia, e fassi un'alma sola,
che vive e sente e sé in sé rigira.
E perché meno
ammiri la parola,
guarda il calor del sole che si fa vino,
giunto a l'omor che de la vite cola.
Quando
Làchesis non ha più del lino,
solvesi da la carne, e in virtute
ne porta seco e l'umano e 'l divino:
l'altre potenze
tutte quante mute;
memoria, intelligenza e volontade
in atto molto più che prima agute.
Sanza restarsi,
per sé stessa cade
mirabilmente a l'una de le rive;
quivi conosce prima le sue strade.
Tosto che loco
lì la circunscrive,
la virtù formativa raggia intorno
così e quanto ne le membra vive.
E come l'aere,
quand' è ben pïorno,
per l'altrui raggio che 'n sé si reflette,
di diversi color diventa addorno;
così
l'aere vicin quivi si mette
e in quella forma ch'è in lui suggella
virtüalmente l'alma che ristette;
e simigliante
poi a la fiammella
che segue il foco là 'vunque si muta,
segue lo spirto sua forma novella.
Però che
quindi ha poscia sua paruta,
è chiamata ombra; e quindi organa poi
ciascun sentire infino a la veduta.
Quindi parliamo
e quindi ridiam noi;
quindi facciam le lagrime e ' sospiri
che per lo monte aver sentiti puoi.
Secondo che ci
affliggono i disiri
e li altri affetti, l'ombra si figura;
e quest' è la cagion di che tu miri».
E già
venuto a l'ultima tortura
s'era per noi, e vòlto a la man destra,
ed eravamo attenti ad altra cura.
Quivi la ripa
fiamma in fuor balestra,
e la cornice spira fiato in suso
che la reflette e via da lei sequestra;
ond' ir ne
convenia dal lato schiuso
ad uno ad uno; e io temëa 'l foco
quinci, e quindi temeva cader giuso.
Lo duca mio
dicea: «Per questo loco
si vuol tenere a li occhi stretto il freno,
però ch'errar potrebbesi per poco».
'Summae Deus
clementïae' nel seno
al grande ardore allora udi' cantando,
che di volger mi fé caler non meno;
e vidi spirti
per la fiamma andando;
per ch'io guardava a loro e a' miei passi,
compartendo la vista a quando a quando.
Appresso il
fine ch'a quell' inno fassi,
gridavano alto: 'Virum non cognosco';
indi ricominciavan l'inno bassi.
Finitolo, anco
gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco».
Indi al cantar
tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo
credo che lor basti
per tutto il tempo che 'l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da
sezzo si ricuscia.
CANTO XXVI
[Canto XXVI, dove tratta di quello medesimo girone e del
purgamento de' predetti peccati e vizi lussuriosi; dove nomina messer Guido
Guinizzelli da Bologna e molti altri.]
Mentre che
sì per l'orlo, uno innanzi altro,
ce n'andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch'io ti scaltro»;
feriami il sole
in su l'omero destro,
che già, raggiando, tutto l'occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con
l'ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt' ombre, andando, poner mente.
Questa fu la
cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me,
quanto potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai,
non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che 'n sete e 'n foco ardo.
Né solo a me la
tua risposta è uopo;
ché tutti questi n'hanno maggior sete
che d'acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com'
è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
Sì mi
parlava un d'essi; e io mi fora
già manifesto, s'io non fossi atteso
ad altra novità ch'apparve allora;
ché per lo
mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso.
Lì
veggio d'ogne parte farsi presta
ciascun' ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
così per
entro loro schiera bruna
s'ammusa l'una con l'altra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna.
Tosto che
parton l'accoglienza amica,
prima che 'l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s'affatica:
la nova gente:
«Soddoma e Gomorra»;
e l'altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché 'l torello a sua lussuria corra».
Poi, come grue
ch'a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver' l'arene,
queste del gel, quelle del sole schife,
l'una gente sen
va, l'altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a' primi canti
e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a
me, come davanti,
essi medesmi che m'avean pregato,
attenti ad ascoltar ne' lor sembianti.
Io, che due
volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d'aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase
acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci
sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m'acquista grazia,
per che 'l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra
maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che 'l ciel v'alberghi
ch'è pien d'amore e più ampio si spazia,
ditemi,
acciò ch'ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a' vostri terghi».
Non altrimenti
stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s'inurba,
che ciascun'
ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s'attuta,
«Beato te, che
de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria m'inchiese,
«per morir meglio, esperïenza imbarche!
La gente che
non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
"Regina" contra sé chiamar s'intese:
però si
parton "Soddoma" gridando,
rimproverando a sé com' hai udito,
e aiutan l'arsura vergognando.
Nostro peccato
fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l'appetito,
in obbrobrio di
noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s'imbestiò ne le 'mbestiate schegge.
Or sai nostri
atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo' saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di
me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch'a lo stremo».
Quali ne la
tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec' io, ma non a tanto insurgo,
quand' io odo
nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d'amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e
dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m'appressai.
Poi che di
riguardar pasciuto fui,
tutto m'offersi pronto al suo servigio
con l'affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me:
«Tu lasci tal vestigio,
per quel ch'i' odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue
parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d'avermi caro».
E io a lui: «Li
dolci detti vostri,
che, quanto durerà l'uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate»,
disse, «questi ch'io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d'amore e
prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch'avanzi.
A voce
più ch'al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch'arte o ragion per lor s'ascolti.
Così fer
molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l'ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai
sì ampio privilegio,
che licito ti sia l'andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un
dir d'un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per
dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l'acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al
mostrato innanzi un poco,
e dissi ch'al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
«Tan m'abellis vostre cortes deman,
qu'ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu'esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l'escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s'ascose
nel foco che li affina.
CANTO XXVII
[Canto XXVII, dove tratta d'una visione che apparve a Dante in
sogno, o come pervennero a la sommità del monte ed entraro nel Paradiso
Terrestre chiamato paradiso delitiarum.]
Sì come
quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l'alta Libra,
e l'onde in
Gange da nona rïarse,
sì stava il sole; onde 'l giorno sen giva,
come l'angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la
fiamma stava in su la riva,
e cantava 'Beati mundo corde!'
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia
«Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde»,
ci disse come
noi li fummo presso;
per ch'io divenni tal, quando lo 'ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man
commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso
me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi,
ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo
che se dentro a l'alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d'un capel calvo.
E se tu forse
credi ch'io t'inganni,
fatti ver' lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d'i tuoi panni.
Pon giù
omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscïenza.
Quando mi vide
star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro».
Come al nome di
Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che 'l gelso diventò vermiglio;
così, la
mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond' ei
crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa ch'è vinto al pome.
Poi dentro al
foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com'
fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant' era ivi lo 'ncendio sanza metro.
Lo dolce padre
mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Guidavaci una
voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
'Venite,
benedicti Patris mei',
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
«Lo sol sen
va», soggiunse, «e vien la sera;
non v'arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l'occidente non si annera».
Dritta salia la
via per entro 'l sasso
verso tal parte ch'io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch'era già basso.
E di pochi
scaglion levammo i saggi,
che 'l sol corcar, per l'ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che 'n
tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d'uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi
d'un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e 'l diletto.
Quali si stanno
ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a
l'ombra, mentre che 'l sol ferve,
guardate dal pastor, che 'n su la verga
poggiato s'è e lor di posa serve;
e quale il
mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo
tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d'alta grotta.
Poco parer
potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì
ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che 'l fatto sia, sa le novelle.
Ne l'ora,
credo, che de l'orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d'amor par sempre ardente,
giovane e bella
in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia
qualunque il mio nome dimanda
ch'i' mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a
lo specchio, qui m'addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell' è
d'i suoi belli occhi veder vaga
com' io de l'addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l'ovrare appaga».
E già
per li splendori antelucani,
che tanto a' pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre
fuggian da tutti lati,
e 'l sonno mio con esse; ond' io leva'mi,
veggendo i gran maestri già levati.
«Quel dolce
pome che per tanti rami
cercando va la cura de' mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio
inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler
sopra voler mi venne
de l'esser sù, ch'ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala
tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su 'l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il
temporal foco e l'etterno
veduto hai, figlio; e se' venuto in parte
dov' io per me più oltre non discerno.
Tratto t'ho qui
con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se' de l'erte vie, fuor se' de l'arte.
Vedi lo sol che
'n fronte ti riluce;
vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che
vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar
mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch'io te
sovra te corono e mitrio».
CANTO XXVIII
[Canto XXVIII, ove si tratta come la vita attiva distingue a
l'auttore la natura del fiume di Letè, il quale trovò nel detto
Paradiso, ove molto dimostra de la felicitade e del peccato di Adamo, e del
modo e ordine del detto luogo.]
Vago già
di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch'a li occhi temperava il novo giorno,
sanza
più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d'ogne parte auliva.
Un'aura dolce,
sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le
fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u' la prim' ombra gitta il santo monte;
non però
dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d'operare ogne lor arte;
ma con piena
letizia l'ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di
ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su 'l lito di Chiassi,
quand' Ëolo scilocco fuor discioglie.
Già
m'avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch'io
non potea rivedere ond' io mi 'ntrassi;
ed ecco
più andar mi tolse un rio,
che 'nver' sinistra con sue picciole onde
piegava l'erba che 'n sua ripa uscìo.
Tutte l'acque
che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si
mova bruna bruna
sotto l'ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè
ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d'i freschi mai;
e là
m'apparve, sì com' elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna
soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond' era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella
donna, che a' raggi d'amore
ti scaldi, s'i' vo' credere a' sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in
voglia di trarreti avanti»,
diss' io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch'io possa intender che tu canti.
Tu mi fai
rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».
Come si volge,
con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i
vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i
prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che 'l dolce suono
veniva a me co' suoi intendimenti.
Tosto che fu
là dove l'erbe sono
bagnate già da l'onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che
splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da
l'altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l'alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci
facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là 've passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio
da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch' allor non s'aperse.
«Voi siete
nuovi, e forse perch' io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l'umana natura per suo nido,
maravigliando
tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se'
dinanzi e mi pregasti,
dì s'altro vuoli udir; ch'i' venni presta
ad ogne tua question tanto che basti».
«L'acqua»,
diss' io, «e 'l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch'io udi' contraria a questa».
Ond' ella: «Io
dicerò come procede
per sua cagion ciò ch'ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede.
Lo sommo Ben,
che solo esso a sé piace,
fé l'uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr' a lui d'etterna pace.
Per sua difalta
qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.
Perché 'l
turbar che sotto da sé fanno
l'essalazion de l'acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l'uomo non
facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso 'l ciel tanto,
e libero n'è d'indi ove si serra.
Or perché in
circuito tutto quanto
l'aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d'alcun canto,
in questa
altezza ch'è tutta disciolta
ne l'aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch' è folta;
e la percossa
pianta tanto puote,
che de la sua virtute l'aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l'altra
terra, secondo ch'è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di
là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s'appiglia.
E saper dei che
la campagna santa
dove tu se', d'ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.
L'acqua che
vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch'acquista e perde lena;
ma esce di
fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant' ella versa da due parti aperta.
Da questa parte
con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l'altra d'ogne ben fatto la rende.
Quinci
Letè; così da l'altro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri
sapori esto è di sopra.
E avvegna ch'assai possa esser sazia
la sete tua perch' io più non ti scuopra,
darotti un
corollario ancor per grazia;
né credo che 'l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.
Quelli
ch'anticamente poetaro
l'età de l'oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu
innocente l'umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
Io mi rivolsi
'n dietro allora tutto
a' miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l'ultimo costrutto;
poi a la bella
donna torna' il viso.
CANTO XXIX
[Canto XXIX, dove si tratta sì come l'auttore contristato
si conduoleva e come vide li sette doni del Santo Spirito e Cristo e la
celestiale corte in forma di certe figure.]
Cantando come
donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
'Beati quorum tecta sunt peccata!'.
E come ninfe
che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse
contra 'l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento
tra ' suoi passi e ' miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch'a levante mi rendei.
Né ancor fu
così nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».
Ed ecco un
lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché 'l
balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: 'Che cosa è questa?'.
E una melodia
dolce correva
per l'aere luminoso; onde buon zelo
mi fé riprender l'ardimento d'Eva,
che là
dove ubidia la terra e 'l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo;
sotto 'l qual
se divota fosse stata,
avrei quelle ineffabili delizie
sentite prima e più lunga fïata.
Mentr' io
m'andava tra tante primizie
de l'etterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,
dinanzi a noi,
tal quale un foco acceso,
ci si fé l'aere sotto i verdi rami;
e 'l dolce suon per canti era già inteso.
O sacrosante
Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami.
Or convien che
Elicona per me versi,
e Uranìe m'aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.
Poco più
oltre, sette alberi d'oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch'era ancor tra noi e loro;
ma quand' i'
fui sì presso di lor fatto,
che l'obietto comun, che 'l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù
ch'a ragion discorso ammanna,
sì com' elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare 'Osanna'.
Di sopra fiammeggiava
il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi
d'ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei
l'aspetto a l'alte cose
che si movieno incontr' a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.
La donna mi
sgridò: «Perché pur ardi
sì ne l'affetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
Genti vid' io
allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.
L'acqua
imprendëa dal sinistro fianco,
e rendea me la mia sinistra costa,
s'io riguardava in lei, come specchio anco.
Quand' io da la
mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta,
e vidi le
fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l'aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che
lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l'arco il Sole e Delia il cinto.
Questi
ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.
Sotto
così bel ciel com' io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan:
«Benedicta tue
ne le figlie d'Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».
Poscia che i
fiori e l'altre fresche erbette
a rimpetto di me da l'altra sponda
libere fuor da quelle genti elette,
sì come
luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era
pennuto di sei ali;
le penne piene d'occhi; e li occhi d'Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor
forme più non spargo
rime, lettor; ch'altra spesa mi strigne,
tanto ch'a questa non posso esser largo;
ma leggi
Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i
troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch'a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
Lo spazio
dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch'al collo d'un grifon tirato venne.
Esso tendeva in
sù l'una e l'altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch'a nulla, fendendo, facea male.
Tanto salivan
che non eran viste;
le membra d'oro avea quant' era uccello,
e bianche l'altre, di vermiglio miste.
Non che Roma di
carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol
che, svïando, fu combusto
per l'orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in
giro da la destra rota
venian danzando; l'una tanto rossa
ch'a pena fora dentro al foco nota;
l'altr' era
come se le carni e l'ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da
la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l'altre toglien l'andare e tarde e ratte.
Da la sinistra
quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d'una di lor ch'avea tre occhi in testa.
Appresso tutto
il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
L'un si
mostrava alcun de' famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch'ell' ha più cari;
mostrava
l'altro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.
Poi vidi
quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette
col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e
d'altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da' cigli.
E quando il
carro a me fu a rimpetto,
un tuon s'udì, e quelle genti degne
parvero aver l'andar più interdetto,
fermandosi ivi
con le prime insegne.
CANTO XXX
[Canto XXX, dove narra come Beatrice apparve a Dante e Virgilio il
lasciò, e lo recitare per l'alta donna de la incostanza e difetto di
Dante, e qui l'auttore piange i suoi difetti con vergogna compuntiva.]
Quando il
settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d'altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva
lì ciascuno accorto
di suo dover, come 'l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo
s'affisse: la gente verace,
venuta prima tra 'l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro,
quasi da ciel messo,
'Veni, sponsa, de Libano' cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati
al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la
divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: 'Benedictus
qui venis!',
e fior gittando e di sopra e dintorno,
'Manibus, oh, date lilïa plenis!'.
Io vidi
già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l'altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del
sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l'occhio la sostenea lunga fïata:
così
dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido
vel cinta d'uliva
donna m'apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito
mio, che già cotanto
tempo era stato ch'a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li
occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d'antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la
vista mi percosse
l'alta virtù che già m'avea trafitto
prima ch'io fuor di püerizia fosse,
volsimi a la
sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a
Virgilio: 'Men che dramma
di sangue m'è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l'antica fiamma'.
Ma Virgilio
n'avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die'mi;
né quantunque
perdeo l'antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lagrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché
Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi
ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l'incora;
in su la sponda
del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna
che pria m'appario
velata sotto l'angelica festa,
drizzar li occhi ver' me di qua dal rio.
Tutto che 'l
vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne
l'atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e 'l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben!
Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d'accedere al monte?
non sapei tu che qui è l'uom felice?».
Li occhi mi
cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la
madre al figlio par superba,
com' ella parve a me; perché d'amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque;
e li angeli cantaro
di sùbito 'In te, Domine, speravi';
ma oltre 'pedes meos' non passaro.
Sì come
neve tra le vive travi
per lo dosso d'Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi,
liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui
sanza lagrime e sospiri
anzi 'l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che
'ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: 'Donna, perché sì lo stempre?',
lo gel che
m'era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma
in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
«Voi vigilate
ne l'etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia
risposta è con più cura
che m'intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d'una misura.
Non pur per
ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per
larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal
ne la sua vita nova
virtüalmente, ch'ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto
più maligno e più silvestro
si fa 'l terren col mal seme e non cólto,
quant' elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il
sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto
come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne
a spirto era salita,
e bellezza e virtù cresciuta m'era,
fu' io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi
suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né l'impetrare
ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai: sì poco a lui ne calse!
Tanto
giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo
visitai l'uscio d'i morti,
e a colui che l'ha qua sù condotto,
li preghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di
Dio sarebbe rotto,
se Letè si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento
che lagrime spanda».
CANTO XXXI
[Canto XXXI, ove si tratta sì come Beatrice riprende
l'auttore de le commesse colpe, e come la donna che avante li apparve il
bagna.]
«O tu che se'
di là dal fiume sacro»,
volgendo suo parlare a me per punta,
che pur per taglio m'era paruto acro,
ricominciò,
seguendo sanza cunta,
«dì, dì se questo è vero; a tanta accusa
tua confession conviene esser congiunta».
Era la mia
virtù tanto confusa,
che la voce si mosse, e pria si spense
che da li organi suoi fosse dischiusa.
Poco sofferse;
poi disse: «Che pense?
Rispondi a me; ché le memorie triste
in te non sono ancor da l'acqua offense».
Confusione e
paura insieme miste
mi pinsero un tal «sì» fuor de la bocca,
al quale intender fuor mestier le viste.
Come balestro
frange, quando scocca
da troppa tesa, la sua corda e l'arco,
e con men foga l'asta il segno tocca,
sì
scoppia' io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.
Ond' ella a me:
«Per entro i mie' disiri,
che ti menavano ad amar lo bene
di là dal qual non è a che s'aspiri,
quai fossi
attraversati o quai catene
trovasti, per che del passare innanzi
dovessiti così spogliar la spene?
E quali
agevolezze o quali avanzi
ne la fronte de li altri si mostraro,
per che dovessi lor passeggiare anzi?».
Dopo la tratta
d'un sospiro amaro,
a pena ebbi la voce che rispuose,
e le labbra a fatica la formaro.
Piangendo
dissi: «Le presenti cose
col falso lor piacer volser miei passi,
tosto che 'l vostro viso si nascose».
Ed ella: «Se
tacessi o se negassi
ciò che confessi, non fora men nota
la colpa tua: da tal giudice sassi!
Ma quando
scoppia de la propria gota
l'accusa del peccato, in nostra corte
rivolge sé contra 'l taglio la rota.
Tuttavia,
perché mo vergogna porte
del tuo errore, e perché altra volta,
udendo le serene, sie più forte,
pon giù
il seme del piangere e ascolta:
sì udirai come in contraria parte
mover dovieti mia carne sepolta.
Mai non
t'appresentò natura o arte
piacer, quanto le belle membra in ch'io
rinchiusa fui, e che so' 'n terra sparte;
e se 'l sommo
piacer sì ti fallio
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
Ben ti dovevi,
per lo primo strale
de le cose fallaci, levar suso
di retro a me che non era più tale.
Non ti dovea
gravar le penne in giuso,
ad aspettar più colpo, o pargoletta
o altra novità con sì breve uso.
Novo augelletto
due o tre aspetta;
ma dinanzi da li occhi d'i pennuti
rete si spiega indarno o si saetta».
Quali
fanciulli, vergognando, muti
con li occhi a terra stannosi, ascoltando
e sé riconoscendo e ripentuti,
tal mi stav'
io; ed ella disse: «Quando
per udir se' dolente, alza la barba,
e prenderai più doglia riguardando».
Con men di
resistenza si dibarba
robusto cerro, o vero al nostral vento
o vero a quel de la terra di Iarba,
ch'io non levai
al suo comando il mento;
e quando per la barba il viso chiese,
ben conobbi il velen de l'argomento.
E come la mia
faccia si distese,
posarsi quelle prime creature
da loro aspersïon l'occhio comprese;
e le mie luci,
ancor poco sicure,
vider Beatrice volta in su la fiera
ch'è sola una persona in due nature.
Sotto 'l suo
velo e oltre la rivera
vincer pariemi più sé stessa antica,
vincer che l'altre qui, quand' ella c'era.
Di penter
sì mi punse ivi l'ortica,
che di tutte altre cose qual mi torse
più nel suo amor, più mi si fé nemica.
Tanta
riconoscenza il cor mi morse,
ch'io caddi vinto; e quale allora femmi,
salsi colei che la cagion mi porse.
Poi, quando il
cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch'io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m'avea
nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l'acqua lieve come scola.
Quando fui
presso a la beata riva,
'Asperges me' sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch'io lo scriva.
La bella donna
ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch'io l'acqua inghiottissi.
Indi mi tolse,
e bagnato m'offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
«Noi siam qui
ninfe e nel ciel siamo stelle;
pria che Beatrice discendesse al mondo,
fummo ordinate a lei per sue ancelle.
Merrenti a li
occhi suoi; ma nel giocondo
lume ch'è dentro aguzzeranno i tuoi
le tre di là, che miran più profondo».
Così
cantando cominciaro; e poi
al petto del grifon seco menarmi,
ove Beatrice stava volta a noi.
Disser: «Fa che
le viste non risparmi;
posto t'avem dinanzi a li smeraldi
ond' Amor già ti trasse le sue armi».
Mille disiri
più che fiamma caldi
strinsermi li occhi a li occhi rilucenti,
che pur sopra 'l grifone stavan saldi.
Come in lo
specchio il sol, non altrimenti
la doppia fiera dentro vi raggiava,
or con altri, or con altri reggimenti.
Pensa, lettor,
s'io mi maravigliava,
quando vedea la cosa in sé star queta,
e ne l'idolo suo si trasmutava.
Mentre che
piena di stupore e lieta
l'anima mia gustava di quel cibo
che, saziando di sé, di sé asseta,
sé dimostrando
di più alto tribo
ne li atti, l'altre tre si fero avanti,
danzando al loro angelico caribo.
«Volgi,
Beatrice, volgi li occhi santi»,
era la sua canzone, «al tuo fedele
che, per vederti, ha mossi passi tanti!
Per grazia fa
noi grazia che disvele
a lui la bocca tua, sì che discerna
la seconda bellezza che tu cele».
O isplendor di
viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l'ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse
aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t'adombra,
quando ne
l'aere aperto ti solvesti?
[Canto XXXII, dove si tratta come Beatrice comandò a
l'auttore che scrivesse li miracoli che vide in quel luogo, e come elli con le
donne seguio il carro, e l'aguglia percosse il carro, e una volpe sen fuggio, e
de la puttana e del gigante.]
Tant' eran li
occhi miei fissi e attenti
a disbramarsi la decenne sete,
che li altri sensi m'eran tutti spenti.
Ed essi quinci
e quindi avien parete
di non caler - così lo santo riso
a sé traéli con l'antica rete! -;
quando per
forza mi fu vòlto il viso
ver' la sinistra mia da quelle dee,
perch' io udi' da loro un «Troppo fiso!»;
e la
disposizion ch'a veder èe
ne li occhi pur testé dal sol percossi,
sanza la vista alquanto esser mi fée.
Ma poi ch'al
poco il viso riformossi
(e dico 'al poco' per rispetto al molto
sensibile onde a forza mi rimossi),
vidi 'n sul
braccio destro esser rivolto
lo glorïoso essercito, e tornarsi
col sole e con le sette fiamme al volto.
Come sotto li
scudi per salvarsi
volgesi schiera, e sé gira col segno,
prima che possa tutta in sé mutarsi;
quella milizia
del celeste regno
che procedeva, tutta trapassonne
pria che piegasse il carro il primo legno.
Indi a le rote si
tornar le donne,
e 'l grifon mosse il benedetto carco
sì, che però nulla penna crollonne.
La bella donna
che mi trasse al varco
e Stazio e io seguitavam la rota
che fé l'orbita sua con minore arco.
Sì
passeggiando l'alta selva vòta,
colpa di quella ch'al serpente crese,
temprava i passi un'angelica nota.
Forse in tre
voli tanto spazio prese
disfrenata saetta, quanto eramo
rimossi, quando Bëatrice scese.
Io senti'
mormorare a tutti «Adamo»;
poi cerchiaro una pianta dispogliata
di foglie e d'altra fronda in ciascun ramo.
La coma sua,
che tanto si dilata
più quanto più è sù, fora da l'Indi
ne' boschi lor per altezza ammirata.
«Beato se',
grifon, che non discindi
col becco d'esto legno dolce al gusto,
poscia che mal si torce il ventre quindi».
Così
dintorno a l'albero robusto
gridaron li altri; e l'animal binato:
«Sì si conserva il seme d'ogne giusto».
E vòlto
al temo ch'elli avea tirato,
trasselo al piè de la vedova frasca,
e quel di lei a lei lasciò legato.
Come le nostre
piante, quando casca
giù la gran luce mischiata con quella
che raggia dietro a la celeste lasca,
turgide fansi,
e poi si rinovella
di suo color ciascuna, pria che 'l sole
giunga li suoi corsier sotto altra stella;
men che di rose
e più che di vïole
colore aprendo, s'innovò la pianta,
che prima avea le ramora sì sole.
Io non lo
'ntesi, né qui non si canta
l'inno che quella gente allor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi
ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
li occhi a cui pur vegghiar costò sì caro;
come pintor che
con essempro pinga,
disegnerei com' io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Però
trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno, e un chiamar: «Surgi: che fai?».
Quali a veder
de' fioretti del melo
che del suo pome li angeli fa ghiotti
e perpetüe nozze fa nel cielo,
Pietro e
Giovanni e Iacopo condotti
e vinti, ritornaro a la parola
da la qual furon maggior sonni rotti,
e videro
scemata loro scuola
così di Moïsè come d'Elia,
e al maestro suo cangiata stola;
tal torna' io,
e vidi quella pia
sovra me starsi che conducitrice
fu de' miei passi lungo 'l fiume pria.
E tutto in
dubbio dissi: «Ov' è Beatrice?».
Ond' ella: «Vedi lei sotto la fronda
nova sedere in su la sua radice.
Vedi la compagnia
che la circonda:
li altri dopo 'l grifon sen vanno suso
con più dolce canzone e più profonda».
E se più
fu lo suo parlar diffuso,
non so, però che già ne li occhi m'era
quella ch'ad altro intender m'avea chiuso.
Sola sedeasi in
su la terra vera,
come guardia lasciata lì del plaustro
che legar vidi a la biforme fera.
In cerchio le
facevan di sé claustro
le sette ninfe, con quei lumi in mano
che son sicuri d'Aquilone e d'Austro.
«Qui sarai tu
poco tempo silvano;
e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
Però, in
pro del mondo che mal vive,
al carro tieni or li occhi, e quel che vedi,
ritornato di là, fa che tu scrive».
Così
Beatrice; e io, che tutto ai piedi
d'i suoi comandamenti era divoto,
la mente e li occhi ov' ella volle diedi.
Non scese mai
con sì veloce moto
foco di spessa nube, quando piove
da quel confine che più va remoto,
com' io vidi
calar l'uccel di Giove
per l'alber giù, rompendo de la scorza,
non che d'i fiori e de le foglie nove;
e ferì
'l carro di tutta sua forza;
ond' el piegò come nave in fortuna,
vinta da l'onda, or da poggia, or da orza.
Poscia vidi
avventarsi ne la cuna
del trïunfal veiculo una volpe
che d'ogne pasto buon parea digiuna;
ma, riprendendo
lei di laide colpe,
la donna mia la volse in tanta futa
quanto sofferser l'ossa sanza polpe.
Poscia per indi
ond' era pria venuta,
l'aguglia vidi scender giù ne l'arca
del carro e lasciar lei di sé pennuta;
e qual esce di
cuor che si rammarca,
tal voce uscì del cielo e cotal disse:
«O navicella mia, com' mal se' carca!».
Poi parve a me
che la terra s'aprisse
tr'ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro sù la coda fisse;
e come vespa
che ritragge l'ago,
a sé traendo la coda maligna,
trasse del fondo, e gissen vago vago.
Quel che
rimase, come da gramigna
vivace terra, da la piuma, offerta
forse con intenzion sana e benigna,
si ricoperse, e
funne ricoperta
e l'una e l'altra rota e 'l temo, in tanto
che più tiene un sospir la bocca aperta.
Trasformato
così 'l dificio santo
mise fuor teste per le parti sue,
tre sovra 'l temo e una in ciascun canto.
Le prime eran
cornute come bue,
ma le quattro un sol corno avean per fronte:
simile mostro visto ancor non fue.
Sicura, quasi
rocca in alto monte,
seder sovresso una puttana sciolta
m'apparve con le ciglia intorno pronte;
e come perché
non li fosse tolta,
vidi di costa a lei dritto un gigante;
e basciavansi insieme alcuna volta.
Ma perché
l'occhio cupido e vagante
a me rivolse, quel feroce drudo
la flagellò dal capo infin le piante;
poi, di
sospetto pieno e d'ira crudo,
disciolse il mostro, e trassel per la selva,
tanto che sol di lei mi fece scudo
a la puttana e
a la nova belva.
CANTO XXXIII
[Canto XXXIII, il quale si è l'ultimo de la seconda
cantica, ove si racconta sì come Beatrice dichiaroe a Dante quelle cose
ch'elli vide, trattando e dimostrando le future vendette e de la ingiuria nel
predetto carro del grifone; e infine, veduti li quattro fiumi del Paradiso,
escono verso il cielo.]
'Deus,
venerunt gentes', alternando
or tre or quattro dolce salmodia,
le donne incominciaro, e lagrimando;
e Bëatrice,
sospirosa e pia,
quelle ascoltava sì fatta, che poco
più a la croce si cambiò Maria.
Ma poi che
l'altre vergini dier loco
a lei di dir, levata dritta in pè,
rispuose, colorata come foco:
'Modicum, et non videbitis me;
et iterum, sorelle mie dilette,
modicum, et vos videbitis me'.
Poi le si mise
innanzi tutte e sette,
e dopo sé, solo accennando, mosse
me e la donna e 'l savio che ristette.
Così sen
giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con
tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s'io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com'
io fui, com' io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t'attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color
che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me,
che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch'ad essa è buono».
Ed ella a me:
«Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com' om che sogna.
Sappi che 'l
vaso che 'l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n'ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà
tutto tempo sanza reda
l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch'io veggio
certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn' intoppo e d'ogne sbarro,
nel quale un
cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la
mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch' a lor modo lo 'ntelletto attuia;
ma tosto fier
li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e
sì come da me son porte,
così queste parole segna a' vivi
del viver ch'è un correre a la morte.
E aggi a mente,
quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch'è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba
quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l'uso suo la creò santa.
Per morder
quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l'anima prima
bramò colui che 'l morso in sé punio.
Dorme lo
'ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non
fossero acqua d'Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e 'l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante
circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l'interdetto,
conosceresti a l'arbor moralmente.
Ma perch' io
veggio te ne lo 'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t'abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e
se non scritto, almen dipinto,
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io:
«Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto
sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s'aiuta?».
«Perché
conoschi», disse, «quella scuola
c'hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra
via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond' io
rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch'i' stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu
ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo
foco s'argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente
oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più
corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s'affisser,
sì come s'affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne
al fin d'un'ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l'alpe porta.
Dinanzi ad esse
Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d'una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o
gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal
priego detto mi fu: «Priega
Matelda che 'l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna:
«Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l'acqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice:
«Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt' ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi
Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se' usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima
gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così,
poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
S'io avessi,
lettor, più lungo spazio
da scrivere, i' pur cantere' in parte
lo dolce ber che mai non m'avria sazio;
ma perché piene
son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l'arte.
Io ritornai da
la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto
a salire a le stelle.
[Explicit secunda pars Comedie Dantis Alagherii
in qua tractatum est de Purgatorio]
LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
PARADISO
CANTO I
[Comincia la terza cantica de la Commedia di Dante Alaghiere di
Fiorenza, ne la quale si tratta de' beati e de la celestiale gloria e de'
meriti e premi de' santi, e dividesi in nove parti. Canto primo, nel cui
principio l'auttore proemizza a la seguente cantica; e sono ne lo elemento del
fuoco e Beatrice solve a l'auttore una questione; nel quale canto l'auttore
promette di trattare de le cose divine invocando la scienza poetica,
cioè Appollo chiamato il deo de la Sapienza.]
La gloria di
colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che
più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché
appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente
quant' io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono
Appollo, a l'ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l'amato alloro.
Infino a qui
l'un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m'è uopo intrar ne l'aringo rimaso.
Entra nel petto
mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina
virtù, se mi ti presti
tanto che l'ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra'mi al
piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade
volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l'umane voglie,
che parturir
letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla
gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai
mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior
corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di
là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l'altra parte nera,
quando Beatrice
in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s'affisse unquanco.
E sì
come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de
l'atto suo, per li occhi infuso
ne l'imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr' uso.
Molto è
licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l'umana spece.
Io nol soffersi
molto, né sì poco,
ch'io nol vedessi sfavillar dintorno,
com' ferro che bogliente esce del foco;
e di
sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d'un altro sole addorno.
Beatrice tutta
ne l'etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto
tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l'erba
che 'l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar
significar per verba
non si poria; però l'essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.
S'i' era sol di
me quel che creasti
novellamente, amor che 'l ciel governi,
tu 'l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota
che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l'armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto
allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La
novità del suono e 'l grande lume
di lor cagion m'accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond' ella, che
vedea me sì com' io,
a quïetarmi l'animo commosso,
pria ch'io a dimandar, la bocca aprio
e
cominciò: «Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l'avessi scosso.
Tu non se' in
terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch'ad esso riedi».
S'io fui del
primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu' inretito
e dissi:
«Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com' io trascenda questi corpi levi».
Ond' ella,
appresso d'un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver' me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e
cominciò: «Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion
l'alte creature l'orma
de l'etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l'ordine
ch'io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono
a diversi porti
per lo gran mar de l'essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta
il foco inver' la luna;
questi ne' cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le
creature che son fore
d'intelligenza quest' arco saetta,
ma quelle c'hanno intelletto e amore.
La provedenza,
che cotanto assetta,
del suo lume fa 'l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c'ha maggior fretta;
e ora
lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è
che, come forma non s'accorda
molte fïate a l'intenzion de l'arte,
perch' a risponder la materia è sorda,
così da
questo corso si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì
come veder si può cadere
foco di nube, sì l'impeto primo
l'atterra torto da falso piacere.
Non dei
più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d'un rivo
se d'alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia
sarebbe in te se, privo
d'impedimento, giù ti fossi assiso,
com' a terra quïete in foco vivo».
Quinci rivolse
inver' lo cielo il viso.
CANTO II
[Canto secondo, ove tratta come Beatrice e l'auttore pervegnono al
cielo de la Luna, aprendo la veritade de l'ombra ch'appare in essa; e qui
comincia questa terza parte de la Commedia quanto al proprio dire.]
O voi che siete
in piccioletta barca,
desiderosi d'ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a
riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L'acqua ch'io
prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l'Orse.
Voialtri pochi
che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete
ben per l'alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l'acqua che ritorna equale.
Que'
glorïosi che passaro al Colco
non s'ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.
La concreata e
perpetüa sete
del deïforme regno cen portava
veloci quasi come 'l ciel vedete.
Beatrice in
suso, e io in lei guardava;
e forse in tanto in quanto un quadrel posa
e vola e da la noce si dischiava,
giunto mi vidi
ove mirabil cosa
mi torse il viso a sé; e però quella
cui non potea mia cura essere ascosa,
volta ver' me,
sì lieta come bella,
«Drizza la mente in Dio grata», mi disse,
«che n'ha congiunti con la prima stella».
Parev' a me che
nube ne coprisse
lucida, spessa, solida e pulita,
quasi adamante che lo sol ferisse.
Per entro sé
l'etterna margarita
ne ricevette, com' acqua recepe
raggio di luce permanendo unita.
S'io era corpo,
e qui non si concepe
com' una dimensione altra patio,
ch'esser convien se corpo in corpo repe,
accender ne
dovria più il disio
di veder quella essenza in che si vede
come nostra natura e Dio s'unio.
Lì si
vedrà ciò che tenem per fede,
non dimostrato, ma fia per sé noto
a guisa del ver primo che l'uom crede.
Io rispuosi:
«Madonna, sì devoto
com' esser posso più, ringrazio lui
lo qual dal mortal mondo m'ha remoto.
Ma ditemi: che
son li segni bui
di questo corpo, che là giuso in terra
fan di Cain favoleggiare altrui?».
Ella sorrise
alquanto, e poi «S'elli erra
l'oppinïon», mi disse, «d'i mortali
dove chiave di senso non diserra,
certo non ti
dovrien punger li strali
d'ammirazione omai, poi dietro ai sensi
vedi che la ragione ha corte l'ali.
Ma dimmi quel
che tu da te ne pensi».
E io: «Ciò che n'appar qua sù diverso
credo che fanno i corpi rari e densi».
Ed ella: «Certo
assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l'argomentar ch'io li farò avverso.
La spera ottava
vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.
Se raro e denso
ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.
Virtù
diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch'uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.
Ancor, se raro
fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d'oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto,
o, sì come comparte
lo grasso e 'l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
Se 'l primo
fosse, fora manifesto
ne l'eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.
Questo non
è: però è da vedere
de l'altro; e s'elli avvien ch'io l'altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.
S'elli è
che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;
e indi l'altrui
raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu
ch'el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
Da questa
instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch'esser suol fonte ai rivi di vostr' arti.
Tre specchi
prenderai; e i due rimovi
da te d'un modo, e l'altro, più rimosso,
tr'ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad
essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel
quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch'igualmente risplenda.
Or, come ai
colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così
rimaso te ne l'intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.
Dentro dal ciel
de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l'esser di tutto suo contento giace.
Lo ciel
seguente, c'ha tante vedute,
quell' esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.
Li altri giron
per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.
Questi organi
del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.
Riguarda bene
omai sì com' io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la
virtù d'i santi giri,
come dal fabbro l'arte del martello,
da' beati motor convien che spiri;
e 'l ciel cui
tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l'image e fassene suggello.
E come l'alma
dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così
l'intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Virtù
diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch'ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura
lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien
ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua
bontà, lo turbo e 'l chiaro».
CANTO III
[Canto terzo, nel quale si tratta di
quello medesimo cielo de la Luna e di certi spiriti che appariro in esso; e
solve qui una questione: cioè se li spiriti che sono in cielo di sotto
vorrebbero esser più sù ch'elli siano.]
Quel sol che
pria d'amor mi scaldò 'l petto,
di bella verità m'avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per
confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva' il capo a proferer più erto;
ma visïone
apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri
trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d'i
nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid' io
più facce a parlar pronte;
per ch'io dentro a l'error contrario corsi
a quel ch'accese amor tra l'omo e 'l fonte.
Sùbito
sì com' io di lor m'accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e
ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti
maravigliar perch' io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra 'l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve,
come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però
parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».
E io a l'ombra
che parea più vaga
di ragionar, drizza'mi, e cominciai,
quasi com' uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato
spirito, che a' rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s'intende mai,
grazïoso
mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond' ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra
carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I' fui nel
mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l'esser più bella,
ma riconoscerai
ch'i' son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri
affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte
che par giù cotanto,
però n'è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond' io a lei:
«Ne' mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da' primi concetti:
però non
fui a rimembrar festino;
ma or m'aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m'è più latino.
Ma dimmi: voi
che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle
altr' ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch'arder parea d'amor nel primo foco:
«Frate, la
nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta.
Se
disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non
capere in questi giri,
s'essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è
formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch'una fansi nostre voglie stesse;
sì che,
come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com' a lo re che 'n suo voler ne 'nvoglia.
E 'n la sua
volontade è nostra pace:
ell' è quel mare al qual tutto si move
ciò ch'ella crïa o che natura face».
Chiaro mi fu
allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d'un modo non vi piove.
Ma sì
com' elli avvien, s'un cibo sazia
e d'un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così
fec' io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita
e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al
morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch'ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per
seguirla, giovinetta
fuggi'mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a
mal più ch'a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest' altro
splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s'accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò
ch'io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l'ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur
al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest' è
la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò 'l terzo e l'ultima possanza».
Così
parlommi, e poi cominciò 'Ave,
Maria' cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia,
che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice
tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi
fece a dimandar più tardo.
CANTO IV
[Canto IV, dove in quello medesimo cielo due veritadi si
manifestano da Beatrice: l'una è del luogo de' beati, e l'altra si
è de la voluntate mista e de la obsuluta; e propone terza questione del
voto e se si puote satisfare al voto rotto e non osservato.]
Intra due cibi,
distanti e moventi
d'un modo, prima si morria di fame,
che liber' omo l'un recasse ai denti;
sì si
starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s'i'
mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d'un modo sospinto,
poi ch'era necessario, né commendo.
Io mi tacea, ma
'l mio disir dipinto
m'era nel viso, e 'l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
Fé sì
Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d'ira,
che l'avea fatto ingiustamente fello;
e disse: «Io
veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.
Tu argomenti:
"Se 'l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?".
Ancor di
dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l'anime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.
Queste son le
question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.
D'i Serafin
colui che più s'india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,
non hanno in
altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t'appariro,
né hanno a l'esser lor più o meno anni;
ma tutti fanno
bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l'etterno spiro.
Qui si
mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c'ha men salita.
Così
parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d'intelletto degno.
Per questo la
Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa
con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e l'altro che Tobia rifece sano.
Quel che Timeo
de l'anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che l'alma
a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua
sentenza è d'altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
S'elli intende
tornare a queste ruote
l'onor de la influenza e 'l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.
Questo
principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.
L'altra
dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.
Parere ingiusta
la nostra giustizia
ne li occhi d'i mortali, è argomento
di fede e non d'eretica nequizia.
Ma perché puote
vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.
Se
vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest' alme per essa scusate:
ché
volontà, se non vuol, non s'ammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.
Per che, s'ella
si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato
lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così
l'avria ripinte per la strada
ond' eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.
E per queste
parole, se ricolte
l'hai come dei, è l'argomento casso
che t'avria fatto noia ancor più volte.
Ma or ti
s'attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.
Io t'ho per
certo ne la mente messo
ch'alma beata non poria mentire,
però ch'è sempre al primo vero appresso;
e poi potesti
da Piccarda udire
che l'affezion del vel Costanza tenne;
sì ch'ella par qui meco contradire.
Molte
fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;
come Almeone,
che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.
A questo punto
voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson l'offense.
Voglia assoluta
non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.
Però,
quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de l'altra; sì che ver diciamo insieme».
Cotal fu
l'ondeggiar del santo rio
ch'uscì del fonte ond' ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.
«O amanza del
primo amante, o diva»,
diss' io appresso, «il cui parlar m'inonda
e scalda sì, che più e più m'avviva,
non è
l'affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.
Io veggio ben
che già mai non si sazia
nostro intelletto, se 'l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso,
come fera in lustra,
tosto che giunto l'ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per
quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch'al sommo pinge noi di collo in collo.
Questo
m'invita, questo m'assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
d'un'altra verità che m'è oscura.
Io vo' saper se
l'uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch'a la vostra statera non sien parvi».
Beatrice mi
guardò con li occhi pieni
di faville d'amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi
perdei con li occhi chini.
CANTO V
[Canto V, nel quale solve una questione premessa nel precedente
canto e ammaestra li cristiani intorno a li voti ch'elli fanno a Dio; ed
entrasi nel cielo di Mercurio, e qui comincia la seconda parte di questa
cantica.]
«S'io ti
fiammeggio nel caldo d'amore
di là dal modo che 'n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti
maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
Io veggio ben
sì come già resplende
ne l'intelletto tuo l'etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;
e s'altra cosa
vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.
Tu vuo' saper
se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l'anima sicuri di letigio».
Sì cominciò
Beatrice questo canto;
e sì com' uom che suo parlar non spezza,
continüò così 'l processo santo:
«Lo maggior don
che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch'e' più apprezza,
fu de la
volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti
parrà, se tu quinci argomenti,
l'alto valor del voto, s'è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar
tra Dio e l'omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che
render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c'hai offerto,
di maltolletto vuo' far buon lavoro.
Tu se' omai del
maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver ch'i' t'ho scoverto,
convienti ancor
sedere un poco a mensa,
però che 'l cibo rigido c'hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.
Apri la mente a
quel ch'io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.
Due cose si
convegnono a l'essenza
di questo sacrificio: l'una è quella
di che si fa; l'altr' è la convenenza.
Quest' ultima
già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella:
però
necessitato fu a li Ebrei
pur l'offerere, ancor ch'alcuna offerta
sì permutasse, come saver dei.
L'altra, che
per materia t'è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta.
Ma non trasmuti
carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;
e ogne
permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come 'l quattro nel sei non è raccolta.
Però
qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.
Non prendan li
mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;
cui più
si convenia dicer 'Mal feci',
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de' Greci,
onde pianse
Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
ch'udir parlar di così fatto cólto.
Siate,
Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch'ogne acqua vi lavi.
Avete il novo e
'l vecchio Testamento,
e 'l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala
cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che 'l Giudeo di voi tra voi non rida!
Non fate com'
agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!».
Così
Beatrice a me com' ïo scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
a quella parte ove 'l mondo è più vivo.
Lo suo tacere e
'l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;
e sì
come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna
mia vid' io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé 'l pianeta.
E se la stella
si cambiò e rise,
qual mi fec' io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come 'n
peschiera ch'è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid'
io ben più di mille splendori
trarsi ver' noi, e in ciascun s'udia:
«Ecco chi crescerà li nostri amori».
E sì
come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l'ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor,
se quel che qui s'inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te
vederai come da questi
m'era in disio d'udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
«O bene nato a
cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s'abbandoni,
del lume che
per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».
Così da
un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii».
«Io veggio ben
sì come tu t'annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch' e' corusca sì come tu ridi;
ma non so chi
tu se', né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a' mortai con altrui raggi».
Questo diss' io
diritto a la lumera
che pria m'avea parlato; ond' ella fessi
lucente più assai di quel ch'ell' era.
Sì come
il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come 'l caldo ha róse
le temperanze d'i vapori spessi,
per più
letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che 'l
seguente canto canta.
CANTO VI
[Canto VI, dove, nel cielo di Mercurio, Iustiniano imperadore
sotto brevità narra tutti li grandi fatti operati per li Romani sotto la
'nsegna de l'aquila, da l'avvenimento di Enea in Italia infino al tempo di
Longobardi; e alcune cose si dicono qui in laude di Romeo visconte del conte
Ramondo Berlinghieri di Proenza.]
«Poscia che
Costantin l'aquila volse
contr' al corso del ciel, ch'ella seguio
dietro a l'antico che Lavina tolse,
cento e cent'
anni e più l'uccel di Dio
ne lo stremo d'Europa si ritenne,
vicino a' monti de' quai prima uscìo;
e sotto l'ombra
de le sacre penne
governò 'l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e
son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch'i' sento,
d'entro le leggi trassi il troppo e 'l vano.
E prima ch'io a
l'ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;
ma 'l benedetto
Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti;
e ciò che 'n sua fede era,
vegg' io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.
Tosto che con
la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l'alto lavoro, e tutto 'n lui mi diedi;
e al mio Belisar
commendai l'armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch'i' dovessi posarmi.
Or qui a la
question prima s'appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,
perché tu veggi
con quanta ragione
si move contr' al sacrosanto segno
e chi 'l s'appropria e chi a lui s'oppone.
Vedi quanta
virtù l'ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l'ora
che Pallante morì per darli regno.
Tu sai ch'el
fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a' tre pugnar per lui ancora.
E sai ch'el fé
dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel ch'el
fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e
Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ' Fabi
ebber la fama che volontier mirro.
Esso
atterrò l'orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l'alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott' esso
giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto 'l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al
tempo che tutto 'l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé
da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi
ch'elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver' la
Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver' Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch'al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e
Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov' Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese
folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé
col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l'inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor
la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.
Con costui
corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò
che 'l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch'a lui soggiace,
diventa in
apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva
giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch'i' dico,
gloria di far vendetta a la sua ira.
Or qui t'ammira
in ciò ch'io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico.
E quando il
dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi
giudicar di quei cotali
ch'io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali.
L'uno al
pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l'altro appropria quello a parte,
sì ch'è forte a veder chi più si falli.
Faccian li
Ghibellin, faccian lor arte
sott' altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l'abbatta
esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch'a più alto leon trasser lo vello.
Molte
fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l'armi per suoi gigli!
Questa picciola
stella si correda
d'i buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda:
e quando li
disiri poggian quivi,
sì disvïando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi.
Ma nel
commensurar d'i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.
Quindi
addolcisce la viva giustizia
in noi l'affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci
fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la
presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu l'ovra grande e bella mal gradita.
Ma i Provenzai
che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui.
Quattro figlie
ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.
E poi il mosser
le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi
povero e vetusto;
e se 'l mondo sapesse il cor ch'elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda,
e più lo loderebbe».
CANTO VII
[Canto VII, nel quale Beatrice mostra come la vendetta fatta per
Tito de la morte di Gesù Cristo nostro Salvatore fue giusta, essendo la
morte di Gesù Cristo giusta per ricomperamento de l'umana generazione e
solvimento del peccato del primo padre.]
«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacòth!».
Così,
volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s'addua;
ed essa e
l'altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e
dicea 'Dille, dille!'
fra me, 'dille' dicea, 'a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille'.
Ma quella
reverenza che s'indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l'uom ch'assonna.
Poco sofferse
me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi d'un riso
tal, che nel foco faria l'uom felice:
«Secondo mio
infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
punita fosse, t'ha in pensier miso;
ma io ti
solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
di gran sentenza ti faran presente.
Per non
soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell' uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;
onde l'umana
specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch'al Verbo di Dio discender piacque
u' la natura,
che dal suo fattore
s'era allungata, unì a sé in persona
con l'atto sol del suo etterno amore.
Or drizza il
viso a quel ch'or si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
qual fu creata, fu sincera e buona;
ma per sé
stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
da via di verità e da sua vita.
La pena dunque
che la croce porse
s'a la natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente morse;
e così
nulla fu di tanta ingiura,
guardando a la persona che sofferse,
in che era contratta tal natura.
Però
d'un atto uscir cose diverse:
ch'a Dio e a' Giudei piacque una morte;
per lei tremò la terra e 'l ciel s'aperse.
Non ti dee
oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
poscia vengiata fu da giusta corte.
Ma io veggi' or
la tua mente ristretta
di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
del qual con gran disio solver s'aspetta.
Tu dici:
"Ben discerno ciò ch'i' odo;
ma perché Dio volesse, m'è occulto,
a nostra redenzion pur questo modo".
Questo decreto,
frate, sta sepulto
a li occhi di ciascuno il cui ingegno
ne la fiamma d'amor non è adulto.
Veramente,
però ch'a questo segno
molto si mira e poco si discerne,
dirò perché tal modo fu più degno.
La divina
bontà, che da sé sperne
ogne livore, ardendo in sé, sfavilla
sì che dispiega le bellezze etterne.
Ciò che
da lei sanza mezzo distilla
non ha poi fine, perché non si move
la sua imprenta quand' ella sigilla.
Ciò che
da essa sanza mezzo piove
libero è tutto, perché non soggiace
a la virtute de le cose nove.
Più
l'è conforme, e però più le piace;
ché l'ardor santo ch'ogne cosa raggia,
ne la più somigliante è più vivace.
Di tutte queste
dote s'avvantaggia
l'umana creatura, e s'una manca,
di sua nobilità convien che caggia.
Solo il peccato
è quel che la disfranca
e falla dissimìle al sommo bene,
per che del lume suo poco s'imbianca;
e in sua
dignità mai non rivene,
se non rïempie, dove colpa vòta,
contra mal dilettar con giuste pene.
Vostra natura,
quando peccò tota
nel seme suo, da queste dignitadi,
come di paradiso, fu remota;
né ricovrar
potiensi, se tu badi
ben sottilmente, per alcuna via,
sanza passar per un di questi guadi:
o che Dio solo
per sua cortesia
dimesso avesse, o che l'uom per sé isso
avesse sodisfatto a sua follia.
Ficca mo
l'occhio per entro l'abisso
de l'etterno consiglio, quanto puoi
al mio parlar distrettamente fisso.
Non potea
l'uomo ne' termini suoi
mai sodisfar, per non potere ir giuso
con umiltate obedïendo poi,
quanto
disobediendo intese ir suso;
e questa è la cagion per che l'uom fue
da poter sodisfar per sé dischiuso.
Dunque a Dio
convenia con le vie sue
riparar l'omo a sua intera vita,
dico con l'una, o ver con amendue.
Ma perché
l'ovra tanto è più gradita
da l'operante, quanto più appresenta
de la bontà del core ond' ell' è uscita,
la divina
bontà che 'l mondo imprenta,
di proceder per tutte le sue vie,
a rilevarvi suso, fu contenta.
Né tra l'ultima
notte e 'l primo die
sì alto o sì magnifico processo,
o per l'una o per l'altra, fu o fie:
ché più
largo fu Dio a dar sé stesso
per far l'uom sufficiente a rilevarsi,
che s'elli avesse sol da sé dimesso;
e tutti li
altri modi erano scarsi
a la giustizia, se 'l Figliuol di Dio
non fosse umilïato ad incarnarsi.
Or per empierti
bene ogne disio,
ritorno a dichiararti in alcun loco,
perché tu veggi lì così com' io.
Tu dici:
"Io veggio l'acqua, io veggio il foco,
l'aere e la terra e tutte lor misture
venire a corruzione, e durar poco;
e queste cose
pur furon creature;
per che, se ciò ch'è detto è stato vero,
esser dovrien da corruzion sicure".
Li angeli,
frate, e 'l paese sincero
nel qual tu se', dir si posson creati,
sì come sono, in loro essere intero;
ma li alimenti
che tu hai nomati
e quelle cose che di lor si fanno
da creata virtù sono informati.
Creata fu la
materia ch'elli hanno;
creata fu la virtù informante
in queste stelle che 'ntorno a lor vanno.
L'anima d'ogne
bruto e de le piante
di complession potenzïata tira
lo raggio e 'l moto de le luci sante;
ma vostra vita
sanza mezzo spira
la somma beninanza, e la innamora
di sé sì che poi sempre la disira.
E quinci puoi
argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l'umana carne fessi allora
che li primi
parenti intrambo fensi».
CANTO VIII
[Canto VIII, nel quale si manifestano alcune questioni per Carlo
giovane, re d'Ungheria, il quale si mostroe nel circulo di Venere; e qui
comincia la terza parte di questa cantica.]
Solea creder lo
mondo in suo periclo
che la bella Ciprigna il folle amore
raggiasse, volta nel terzo epiciclo;
per che non pur
a lei faceano onore
di sacrificio e di votivo grido
le genti antiche ne l'antico errore;
ma Dïone
onoravano e Cupido,
quella per madre sua, questo per figlio,
e dicean ch'el sedette in grembo a Dido;
e da costei
ond' io principio piglio
pigliavano il vocabol de la stella
che 'l sol vagheggia or da coppa or da ciglio.
Io non
m'accorsi del salire in ella;
ma d'esservi entro mi fé assai fede
la donna mia ch'i' vidi far più bella.
E come in
fiamma favilla si vede,
e come in voce voce si discerne,
quand' una è ferma e altra va e riede,
vid' io in essa
luce altre lucerne
muoversi in giro più e men correnti,
al modo, credo, di lor viste interne.
Di fredda nube
non disceser venti,
o visibili o no, tanto festini,
che non paressero impediti e lenti
a chi avesse
quei lumi divini
veduti a noi venir, lasciando il giro
pria cominciato in li alti Serafini;
e dentro a quei
che più innanzi appariro
sonava 'Osanna' sì, che unque poi
di rïudir non fui sanza disiro.
Indi si fece l'un
più presso a noi
e solo incominciò: «Tutti sem presti
al tuo piacer, perché di noi ti gioi.
Noi ci volgiam
coi principi celesti
d'un giro e d'un girare e d'una sete,
ai quali tu del mondo già dicesti:
'Voi che
'ntendendo il terzo ciel movete';
e sem sì pien d'amor, che, per piacerti,
non fia men dolce un poco di quïete».
Poscia che li
occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
rivolsersi a la
luce che promessa
tanto s'avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa.
E quanta e
quale vid' io lei far piùe
per allegrezza nova che s'accrebbe,
quando parlai, a l'allegrezze sue!
Così
fatta, mi disse: «Il mondo m'ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
La mia letizia
mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Assai m'amasti,
e avesti ben onde;
che s'io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra
riva che si lava
di Rodano poi ch'è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m'aspettava,
e quel corno
d'Ausonia che s'imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami
già in fronte la corona
di quella terra che 'l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella
Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra 'l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo
ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria,
che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: "Mora, mora!".
E se mio frate
questo antivedesse,
l'avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
ché veramente
proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch'a sua barca
carcata più d'incarco non si pogna.
La sua natura,
che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
«Però
ch'i' credo che l'alta letizia
che 'l tuo parlar m'infonde, segnor mio,
là 've ogne ben si termina e s'inizia,
per te si
veggia come la vegg' io,
grata m'è più; e anco quest' ho caro
perché 'l discerni rimirando in Dio.
Fatto m'hai
lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m'hai mosso
com' esser può, di dolce seme, amaro».
Questo io a
lui; ed elli a me: «S'io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
Lo ben che
tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le
nature provedute
sono in la mente ch'è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
per che
quantunque quest' arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
Se ciò
non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
e ciò
esser non può, se li 'ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
Vuo' tu che
questo ver più ti s'imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch'è uopo, stanchi».
Ond' elli
ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l'omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos' io; «e qui ragion non cheggio».
«E puot' elli
esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se 'l maestro vostro ben vi scrive».
Sì venne
deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch'un nasce
Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l'aere, il figlio perse.
La circular natura,
ch'è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l'un da l'altro ostello.
Quinci addivien
ch'Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Natura generata
il suo cammino
simil farebbe sempre a' generanti,
se non vincesse il proveder divino.
Or quel che
t'era dietro t'è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t'ammanti.
Sempre natura,
se fortuna trova
discorde a sé, com' ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se 'l mondo
là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Ma voi torcete
a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch'è da sermone;
onde la traccia
vostra è fuor di strada».
CANTO IX
[Canto IX, nel quale parla madonna Cunizza di Romano, antidicendo
alcuna cosa de la Marca di Trevigi; e parla Folco di Marsilia che fue vescovo
d'essa.]
Da poi che
Carlo tuo, bella Clemenza,
m'ebbe chiarito, mi narrò li 'nganni
che ricever dovea la sua semenza;
ma disse: «Taci
e lascia muover li anni»;
sì ch'io non posso dir se non che pianto
giusto verrà di retro ai vostri danni.
E già la
vita di quel lume santo
rivolta s'era al Sol che la rïempie
come quel ben ch'a ogne cosa è tanto.
Ahi anime
ingannate e fatture empie,
che da sì fatto ben torcete i cuori,
drizzando in vanità le vostre tempie!
Ed ecco un
altro di quelli splendori
ver' me si fece, e 'l suo voler piacermi
significava nel chiarir di fori.
Li occhi di
Bëatrice, ch'eran fermi
sovra me, come pria, di caro assenso
al mio disio certificato fermi.
«Deh, metti al
mio voler tosto compenso,
beato spirto», dissi, «e fammi prova
ch'i' possa in te refletter quel ch'io penso!».
Onde la luce
che m'era ancor nova,
del suo profondo, ond' ella pria cantava,
seguette come a cui di ben far giova:
«In quella
parte de la terra prava
italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
si leva un
colle, e non surge molt' alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.
D'una radice
nacqui e io ed ella:
Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d'esta stella;
ma lietamente a
me medesma indulgo
la cagion di mia sorte, e non mi noia;
che parria forse forte al vostro vulgo.
Di questa
luculenta e cara gioia
del nostro cielo che più m'è propinqua,
grande fama rimase; e pria che moia,
questo
centesimo anno ancor s'incinqua:
vedi se far si dee l'omo eccellente,
sì ch'altra vita la prima relinqua.
E ciò non
pensa la turba presente
che Tagliamento e Adice richiude,
né per esser battuta ancor si pente;
ma tosto fia
che Padova al palude
cangerà l'acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;
e dove Sile e
Cagnan s'accompagna,
tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
Piangerà
Feltro ancora la difalta
de l'empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s'entrò in malta.
Troppo sarebbe
larga la bigoncia
che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi 'l pesasse a oncia a oncia,
che
donerà questo prete cortese
per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
Sù sono
specchi, voi dicete Troni,
onde refulge a noi Dio giudicante;
sì che questi parlar ne paion buoni».
Qui si tacette;
e fecemi sembiante
che fosse ad altro volta, per la rota
in che si mise com' era davante.
L'altra
letizia, che m'era già nota
per cara cosa, mi si fece in vista
qual fin balasso in che lo sol percuota.
Per letiziar
là sù fulgor s'acquista,
sì come riso qui; ma giù s'abbuia
l'ombra di fuor, come la mente è trista.
«Dio vede
tutto, e tuo veder s'inluia»,
diss' io, «beato spirto, sì che nulla
voglia di sé a te puot' esser fuia.
Dunque la voce
tua, che 'l ciel trastulla
sempre col canto di quei fuochi pii
che di sei ali facen la coculla,
perché non
satisface a' miei disii?
Già non attendere' io tua dimanda,
s'io m'intuassi, come tu t'inmii».
«La maggior
valle in che l'acqua si spanda»,
incominciaro allor le sue parole,
«fuor di quel mar che la terra inghirlanda,
tra '
discordanti liti contra 'l sole
tanto sen va, che fa meridïano
là dove l'orizzonte pria far suole.
Di quella valle
fu' io litorano
tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
Ad un occaso
quasi e ad un orto
Buggea siede e la terra ond' io fui,
che fé del sangue suo già caldo il porto.
Folco mi disse
quella gente a cui
fu noto il nome mio; e questo cielo
di me s'imprenta, com' io fe' di lui;
ché più
non arse la figlia di Belo,
noiando e a Sicheo e a Creusa,
di me, infin che si convenne al pelo;
né quella
Rodopëa che delusa
fu da Demofoonte, né Alcide
quando Iole nel core ebbe rinchiusa.
Non però
qui si pente, ma si ride,
non de la colpa, ch'a mente non torna,
ma del valor ch'ordinò e provide.
Qui si rimira
ne l'arte ch'addorna
cotanto affetto, e discernesi 'l bene
per che 'l mondo di sù quel di giù torna.
Ma perché tutte
le tue voglie piene
ten porti che son nate in questa spera,
proceder ancor oltre mi convene.
Tu vuo' saper
chi è in questa lumera
che qui appresso me così scintilla
come raggio di sole in acqua mera.
Or sappi che
là entro si tranquilla
Raab; e a nostr' ordine congiunta,
di lei nel sommo grado si sigilla.
Da questo
cielo, in cui l'ombra s'appunta
che 'l vostro mondo face, pria ch'altr' alma
del trïunfo di Cristo fu assunta.
Ben si convenne
lei lasciar per palma
in alcun cielo de l'alta vittoria
che s'acquistò con l'una e l'altra palma,
perch' ella
favorò la prima gloria
di Iosüè in su la Terra Santa,
che poco tocca al papa la memoria.
La tua
città, che di colui è pianta
che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la 'nvidia tanto pianta,
produce e
spande il maladetto fiore
c'ha disvïate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
Per questo
l'Evangelio e i dottor magni
son derelitti, e solo ai Decretali
si studia, sì che pare a' lor vivagni.
A questo
intende il papa e ' cardinali;
non vanno i lor pensieri a Nazarette,
là dove Gabrïello aperse l'ali.
Ma Vaticano e
l'altre parti elette
di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,
tosto libere
fien de l'avoltero».
CANTO X
[Canto X, nel quale santo Tommaso d'Aquino de l'ordine de' Frati
Predicatori parla nel cielo del Sole; e qui comincia la quarta parte.]
Guardando nel
suo Figlio con l'Amore
che l'uno e l'altro etternalmente spira,
lo primo e ineffabile Valore
quanto per
mente e per loco si gira
con tant' ordine fé, ch'esser non puote
sanza gustar di lui chi ciò rimira.
Leva dunque,
lettore, a l'alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l'un moto e l'altro si percuote;
e lì
comincia a vagheggiar ne l'arte
di quel maestro che dentro a sé l'ama,
tanto che mai da lei l'occhio non parte.
Vedi come da
indi si dirama
l'oblico cerchio che i pianeti porta,
per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la
strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto
più o men lontano
fosse 'l partire, assai sarebbe manco
e giù e sù de l'ordine mondano.
Or ti riman,
lettor, sovra 'l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
s'esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t'ho
innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
quella materia ond' io son fatto scriba.
Lo ministro
maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
e col suo lume il tempo ne misura,
con quella
parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
in che più tosto ognora s'appresenta;
e io era con
lui; ma del salire
non m'accors' io, se non com' uom s'accorge,
anzi 'l primo pensier, del suo venire.
È
Bëatrice quella che sì scorge
di bene in meglio, sì subitamente
che l'atto suo per tempo non si sporge.
Quant' esser
convenia da sé lucente
quel ch'era dentro al sol dov' io entra'mi,
non per color, ma per lume parvente!
Perch' io lo
'ngegno e l'arte e l'uso chiami,
sì nol direi che mai s'imaginasse;
ma creder puossi e di veder si brami.
E se le
fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra 'l sol non fu occhio ch'andasse.
Tal era quivi
la quarta famiglia
de l'alto Padre, che sempre la sazia,
mostrando come spira e come figlia.
E Bëatrice
cominciò: «Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, ch'a questo
sensibil t'ha levato per sua grazia».
Cor di mortal
non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
con tutto 'l suo gradir cotanto presto,
come a quelle
parole mi fec' io;
e sì tutto 'l mio amore in lui si mise,
che Bëatrice eclissò ne l'oblio.
Non le
dispiacque; ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
mia mente unita in più cose divise.
Io vidi
più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
più dolci in voce che in vista lucenti:
così
cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l'aere è pregno,
sì che ritenga il fil che fa la zona.
Ne la corte del
cielo, ond' io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
tanto che non si posson trar del regno;
e 'l canto di
quei lumi era di quelle;
chi non s'impenna sì che là sù voli,
dal muto aspetti quindi le novelle.
Poi, sì
cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
come stelle vicine a' fermi poli,
donne mi
parver, non da ballo sciolte,
ma che s'arrestin tacite, ascoltando
fin che le nove note hanno ricolte.
E dentro a l'un
senti' cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s'accende
verace amore e che poi cresce amando,
multiplicato in
te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
u' sanza risalir nessun discende;
qual ti negasse
il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora
se non com' acqua ch'al mar non si cala.
Tu vuo' saper
di quai piante s'infiora
questa ghirlanda che 'ntorno vagheggia
la bella donna ch'al ciel t'avvalora.
Io fui de li
agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
u' ben s'impingua se non si vaneggia.
Questi che
m'è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
è di Cologna, e io Thomas d'Aquino.
Se sì di
tutti li altri esser vuo' certo,
di retro al mio parlar ten vien col viso
girando su per lo beato serto.
Quell' altro
fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l'uno e l'altro foro
aiutò sì che piace in paradiso.
L'altro
ch'appresso addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
La quinta luce,
ch'è tra noi più bella,
spira di tale amor, che tutto 'l mondo
là giù ne gola di saper novella:
entro
v'è l'alta mente u' sì profondo
saver fu messo, che, se 'l vero è vero,
a veder tanto non surse il secondo.
Appresso vedi
il lume di quel cero
che giù in carne più a dentro vide
l'angelica natura e 'l ministero.
Ne l'altra
piccioletta luce ride
quello avvocato de' tempi cristiani
del cui latino Augustin si provide.
Or se tu
l'occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
già de l'ottava con sete rimani.
Per vedere ogne
ben dentro vi gode
l'anima santa che 'l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo ond'
ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.
Vedi oltre
fiammeggiar l'ardente spiro
d'Isidoro, di Beda e di Riccardo,
che a considerar fu più che viro.
Questi onde a
me ritorna il tuo riguardo,
è 'l lume d'uno spirto che 'n pensieri
gravi a morir li parve venir tardo:
essa è
la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
silogizzò invidïosi veri».
Indi, come
orologio che ne chiami
ne l'ora che la sposa di Dio surge
a mattinar lo sposo perché l'ami,
che l'una parte
e l'altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
che 'l ben disposto spirto d'amor turge;
così
vid' ïo la gloriosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch'esser non pò nota
se non
colà dove gioir s'insempra.
CANTO XI
[Canto XI, nel quale il detto frate in gloria di san Francesco
sotto brevitate racconta la sua vita tutta, e riprende i suoi frati, ché pochi
sono quelli che '1 seguitino.]
O insensata
cura de' mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a iura
e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e
chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s'affaticava e chi si dava a l'ozio,
quando, da
tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m'era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.
Poi che
ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s'era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti'
dentro a quella lumera
che pria m'avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così
com' io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai
voler che si ricerna
in sì aperta e 'n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch'al tuo sentir si sterna,
ove dinanzi
dissi: "U' ben s'impingua",
e là u' dissi: "Non nacque il secondo";
e qui è uopo che ben si distingua.
La provedenza,
che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che
andasse ver' lo suo diletto
la sposa di colui ch'ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e
anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L'un fu tutto
serafico in ardore;
l'altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.
De l'un
dirò, però che d'amendue
si dice l'un pregiando, qual ch'om prende,
perch' ad un fine fur l'opere sue.
Intra Tupino e
l'acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d'alto monte pende,
onde Perugia
sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa
costa, là dov' ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi
d'esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
Non era ancor
molto lontan da l'orto,
ch'el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal
donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la
sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l'amò più forte.
Questa, privata
del primo marito,
millecent' anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir
che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch'a tutto 'l mondo fé paura;
né valse esser
costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch' io
non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor
concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che 'l
venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota
ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.
Indi sen va
quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l'umile capestro.
Né li
gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi' di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente
sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la
gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda
corona redimita
fu per Onorio da l'Etterno Spiro
la santa voglia d'esto archimandrita.
E poi che, per
la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che 'l seguiro,
e per trovare a
conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l'italica erba,
nel crudo sasso
intra Tevero e Arno
da Cristo prese l'ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui
ch'a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch'el meritò nel suo farsi pusillo,
a' frati suoi,
sì com' a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l'amassero a fede;
e del suo
grembo l'anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai
qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il
nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com' el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.
Ma 'l suo
pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch'esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue
pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l'ovil di latte vòte.
Ben son di
quelle che temono 'l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie
parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch'è detto a la mente revoche,
in parte fia la
tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra' il corrègger che argomenta
"U' ben
s'impingua, se non si vaneggia"».
CANTO XII
[Canto XII, nel quale frate Bonaventura da Bagnoregio in gloria di
santo Dominico parla e brevemente la sua vita narra.]
Sì tosto
come l'ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro
tutta non si volse
prima ch'un'altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto
vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch'e' refuse.
Come si volgon
per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di
quel d'entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch'amor consunse come sol vapori,
e fanno qui la
gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s'allaga:
così di
quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l'estrema a l'intima rispuose.
Poi che 'l
tripudio e l'altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto
e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch'al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;
del cor de
l'una de le luci nove
si mosse voce, che l'ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;
e
cominciò: «L'amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l'altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.
Degno è
che, dov' è l'un, l'altro s'induca:
sì che, com' elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.
L'essercito di
Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la 'nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo
'mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch'era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
e, come
è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
In quella parte
ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,
non molto lungi
al percuoter de l'onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la
fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:
dentro vi
nacque l'amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a' suoi e a' nemici crudo;
e come fu
creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta.
Poi che le
sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u' si dotar di mutüa salute,
la donna che
per lui l'assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch'uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse
qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu
detto; e io ne parlo
sì come de l'agricola che Cristo
elesse a l'orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo
e famigliar di Cristo:
ché 'l primo amor che 'n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
Spesse
fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: 'Io son venuto a questo'.
Oh padre suo
veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!
Non per lo
mondo, per cui mo s'affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol
tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se 'l vignaio è reo.
E a la sedia
che fu già benigna
più a' poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare
o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò,
ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con
dottrina e con volere insieme,
con l'officio appostolico si mosse
quasi torrente ch'alta vena preme;
e ne li sterpi
eretici percosse
l'impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer
poi diversi rivi
onde l'orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l'una
rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe
assai esser palese
l'eccellenza de l'altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.
Ma l'orbita che
fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch'è la muffa dov' era la gromma.
La sua
famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si
vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l'arca li sia tolta.
Ben dico, chi
cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u' leggerebbe "I' mi son quel ch'i' soglio";
ma non fia da
Casal né d'Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch'uno la fugge e altro la coarta.
Io son la vita
di Bonaventura
da Bagnoregio, che ne' grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.
Illuminato e
Augustin son quici,
che fuor de' primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San
Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn
profeta e 'l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch'a la prim' arte degnò porre mano.
Rabano è
qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar
cotanto paladino
mi mosse l'infiammata cortesia
di fra Tommaso e 'l discreto latino;
e mosse meco
questa compagnia».
CANTO XIII
[Canto XIII, nel quale san Tommaso d'Aquino, de l'ordine d'i frati
predicatori solve una questione toccata di sopra da Salamone.]
Imagini, chi
bene intender cupe
quel ch'i' or vidi — e ritegna l'image,
mentre ch'io dico, come ferma rupe —,
quindici stelle
che 'n diverse plage
lo ciel avvivan di tanto sereno
che soperchia de l'aere ogne compage;
imagini quel
carro a cu' il seno
basta del nostro cielo e notte e giorno,
sì ch'al volger del temo non vien meno;
imagini la
bocca di quel corno
che si comincia in punta de lo stelo
a cui la prima rota va dintorno,
aver fatto di
sé due segni in cielo,
qual fece la figliuola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo;
e l'un ne
l'altro aver li raggi suoi,
e amendue girarsi per maniera
che l'uno andasse al primo e l'altro al poi;
e avrà
quasi l'ombra de la vera
costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov' io era:
poi ch'è
tanto di là da nostra usanza,
quanto di là dal mover de la Chiana
si move il ciel che tutti li altri avanza.
Lì si
cantò non Bacco, non Peana,
ma tre persone in divina natura,
e in una persona essa e l'umana.
Compié 'l
cantare e 'l volger sua misura;
e attesersi a noi quei santi lumi,
felicitando sé di cura in cura.
Ruppe il
silenzio ne' concordi numi
poscia la luce in che mirabil vita
del poverel di Dio narrata fumi,
e disse:
«Quando l'una paglia è trita,
quando la sua semenza è già riposta,
a batter l'altra dolce amor m'invita.
Tu credi che
nel petto onde la costa
si trasse per formar la bella guancia
il cui palato a tutto 'l mondo costa,
e in quel che,
forato da la lancia,
e prima e poscia tanto sodisfece,
che d'ogne colpa vince la bilancia,
quantunque a la
natura umana lece
aver di lume, tutto fosse infuso
da quel valor che l'uno e l'altro fece;
e però
miri a ciò ch'io dissi suso,
quando narrai che non ebbe 'l secondo
lo ben che ne la quinta luce è chiuso.
Or apri li
occhi a quel ch'io ti rispondo,
e vedräi il tuo credere e 'l mio dire
nel vero farsi come centro in tondo.
Ciò che
non more e ciò che può morire
non è se non splendor di quella idea
che partorisce, amando, il nostro Sire;
ché quella viva
luce che sì mea
dal suo lucente, che non si disuna
da lui né da l'amor ch'a lor s'intrea,
per sua bontate
il suo raggiare aduna,
quasi specchiato, in nove sussistenze,
etternalmente rimanendosi una.
Quindi discende
a l'ultime potenze
giù d'atto in atto, tanto divenendo,
che più non fa che brevi contingenze;
e queste
contingenze essere intendo
le cose generate, che produce
con seme e sanza seme il ciel movendo.
La cera di
costoro e chi la duce
non sta d'un modo; e però sotto 'l segno
idëale poi più e men traluce.
Ond' elli
avvien ch'un medesimo legno,
secondo specie, meglio e peggio frutta;
e voi nascete con diverso ingegno.
Se fosse a
punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù supprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;
ma la natura la
dà sempre scema,
similemente operando a l'artista
ch'a l'abito de l'arte ha man che trema.
Però se
'l caldo amor la chiara vista
de la prima virtù dispone e segna,
tutta la perfezion quivi s'acquista.
Così fu
fatta già la terra degna
di tutta l'animal perfezïone;
così fu fatta la Vergine pregna;
sì ch'io
commendo tua oppinïone,
che l'umana natura mai non fue
né fia qual fu in quelle due persone.
Or s'i' non
procedesse avanti piùe,
'Dunque, come costui fu sanza pare?'
comincerebber le parole tue.
Ma perché paia
ben ciò che non pare,
pensa chi era, e la cagion che 'l mosse,
quando fu detto "Chiedi", a dimandare.
Non ho parlato
sì, che tu non posse
ben veder ch'el fu re, che chiese senno
acciò che re sufficïente fosse;
non per sapere
il numero in che enno
li motor di qua sù, o se necesse
con contingente mai necesse fenno;
non si est
dare primum motum esse,
o se del mezzo cerchio far si puote
trïangol sì ch'un retto non avesse.
Onde, se
ciò ch'io dissi e questo note,
regal prudenza è quel vedere impari
in che lo stral di mia intenzion percuote;
e se al
"surse" drizzi li occhi chiari,
vedrai aver solamente respetto
ai regi, che son molti, e ' buon son rari.
Con questa
distinzion prendi 'l mio detto;
e così puote star con quel che credi
del primo padre e del nostro Diletto.
E questo ti sia
sempre piombo a' piedi,
per farti mover lento com' uom lasso
e al sì e al no che tu non vedi:
ché quelli
è tra li stolti bene a basso,
che sanza distinzione afferma e nega
ne l'un così come ne l'altro passo;
perch' elli
'ncontra che più volte piega
l'oppinïon corrente in falsa parte,
e poi l'affetto l'intelletto lega.
Vie più
che 'ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e' si move,
chi pesca per lo vero e non ha l'arte.
E di ciò
sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
li quali andaro e non sapëan dove;
sì fé
Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.
Non sien le
genti, ancor, troppo sicure
a giudicar, sì come quei che stima
le biade in campo pria che sien mature;
ch'i' ho veduto
tutto 'l verno prima
lo prun mostrarsi rigido e feroce,
poscia portar la rosa in su la cima;
e legno vidi
già dritto e veloce
correr lo mar per tutto suo cammino,
perire al fine a l'intrar de la foce.
Non creda donna
Berta e ser Martino,
per vedere un furare, altro offerere,
vederli dentro al consiglio divino;
ché quel
può surgere, e quel può cadere».
CANTO XIV
[Canto XIV, nel quale Salamone solve alcuna cosa dubitata; e
montasi ne la stella di Marte. La quinta parte comincia qui.]
Dal centro al
cerchio, e sì dal cerchio al centro
movesi l'acqua in un ritondo vaso,
secondo ch'è percosso fuori o dentro:
ne la mia mente
fé sùbito caso
questo ch'io dico, sì come si tacque
la glorïosa vita di Tommaso,
per la
similitudine che nacque
del suo parlare e di quel di Beatrice,
a cui sì cominciar, dopo lui, piacque:
«A costui fa
mestieri, e nol vi dice
né con la voce né pensando ancora,
d'un altro vero andare a la radice.
Diteli se la
luce onde s'infiora
vostra sustanza, rimarrà con voi
etternalmente sì com' ell' è ora;
e se rimane,
dite come, poi
che sarete visibili rifatti,
esser porà ch'al veder non vi nòi».
Come, da
più letizia pinti e tratti,
a la fïata quei che vanno a rota
levan la voce e rallegrano li atti,
così, a
l'orazion pronta e divota,
li santi cerchi mostrar nova gioia
nel torneare e ne la mira nota.
Qual si lamenta
perché qui si moia
per viver colà sù, non vide quive
lo refrigerio de l'etterna ploia.
Quell' uno e
due e tre che sempre vive
e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno,
non circunscritto, e tutto circunscrive,
tre volte era
cantato da ciascuno
di quelli spirti con tal melodia,
ch'ad ogne merto saria giusto muno.
E io udi' ne la
luce più dia
del minor cerchio una voce modesta,
forse qual fu da l'angelo a Maria,
risponder:
«Quanto fia lunga la festa
di paradiso, tanto il nostro amore
si raggerà dintorno cotal vesta.
La sua
chiarezza séguita l'ardore;
l'ardor la visïone, e quella è tanta,
quant' ha di grazia sovra suo valore.
Come la carne
glorïosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta;
per che
s'accrescerà ciò che ne dona
di gratüito lume il sommo bene,
lume ch'a lui veder ne condiziona;
onde la
visïon crescer convene,
crescer l'ardor che di quella s'accende,
crescer lo raggio che da esso vene.
Ma sì
come carbon che fiamma rende,
e per vivo candor quella soverchia,
sì che la sua parvenza si difende;
così
questo folgór che già ne cerchia
fia vinto in apparenza da la carne
che tutto dì la terra ricoperchia;
né potrà
tanta luce affaticarne:
ché li organi del corpo saran forti
a tutto ciò che potrà dilettarne».
Tanto mi parver
sùbiti e accorti
e l'uno e l'altro coro a dicer «Amme!»,
che ben mostrar disio d'i corpi morti:
forse non pur
per lor, ma per le mamme,
per li padri e per li altri che fuor cari
anzi che fosser sempiterne fiamme.
Ed ecco
intorno, di chiarezza pari,
nascere un lustro sopra quel che v'era,
per guisa d'orizzonte che rischiari.
E sì
come al salir di prima sera
comincian per lo ciel nove parvenze,
sì che la vista pare e non par vera,
parvemi
lì novelle sussistenze
cominciare a vedere, e fare un giro
di fuor da l'altre due circunferenze.
Oh vero
sfavillar del Santo Spiro!
come si fece sùbito e candente
a li occhi miei che, vinti, nol soffriro!
Ma Bëatrice
sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente.
Quindi ripreser
li occhi miei virtute
a rilevarsi; e vidimi translato
sol con mia donna in più alta salute.
Ben m'accors'
io ch'io era più levato,
per l'affocato riso de la stella,
che mi parea più roggio che l'usato.
Con tutto 'l
core e con quella favella
ch'è una in tutti, a Dio feci olocausto,
qual conveniesi a la grazia novella.
E non er' anco
del mio petto essausto
l'ardor del sacrificio, ch'io conobbi
esso litare stato accetto e fausto;
ché con tanto
lucore e tanto robbi
m'apparvero splendor dentro a due raggi,
ch'io dissi: «O Elïòs che sì li addobbi!».
Come distinta da
minori e maggi
lumi biancheggia tra ' poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì
costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo.
Qui vince la
memoria mia lo 'ngegno;
ché quella croce lampeggiava Cristo,
sì ch'io non so trovare essempro degno;
ma chi prende
sua croce e segue Cristo,
ancor mi scuserà di quel ch'io lasso,
vedendo in quell' albor balenar Cristo.
Di corno in
corno e tra la cima e 'l basso
si movien lumi, scintillando forte
nel congiugnersi insieme e nel trapasso:
così si
veggion qui diritte e torte,
veloci e tarde, rinovando vista,
le minuzie d'i corpi, lunghe e corte,
moversi per lo
raggio onde si lista
talvolta l'ombra che, per sua difesa,
la gente con ingegno e arte acquista.
E come giga e
arpa, in tempra tesa
di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,
così da'
lumi che lì m'apparinno
s'accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l'inno.
Ben m'accors'
io ch'elli era d'alte lode,
però ch'a me venìa «Resurgi» e «Vinci»
come a colui che non intende e ode.
Ïo
m'innamorava tanto quinci,
che 'nfino a lì non fu alcuna cosa
che mi legasse con sì dolci vinci.
Forse la mia
parola par troppo osa,
posponendo il piacer de li occhi belli,
ne' quai mirando mio disio ha posa;
ma chi s'avvede
che i vivi suggelli
d'ogne bellezza più fanno più suso,
e ch'io non m'era lì rivolto a quelli,
escusar puommi
di quel ch'io m'accuso
per escusarmi, e vedermi dir vero:
ché 'l piacer santo non è qui dischiuso,
perché si fa,
montando, più sincero.
CANTO XV
[Canto XV, nel quale messere Cacciaguida fiorentino parla laudando
l'antico costume di Fiorenza, in vituperio del presente vivere d'essa cittade
di Fiorenza.]
Benigna
volontade in che si liqua
sempre l'amor che drittamente spira,
come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose
a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a'
giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
ch'io le pregassi, a tacer fur concorde?
Bene è
che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
etternalmente, quello amor si spoglia.
Quale per li
seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella
che tramuti loco,
se non che da la parte ond' e' s'accende
nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno
che 'n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
de la costellazion che lì resplende;
né si partì
la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
che parve foco dietro ad alabastro.
Sì
pïa l'ombra d'Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
quando in Eliso del figlio s'accorse.
«O sanguis
meus, o superinfusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa?».
Così
quel lume: ond' io m'attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li
occhi suoi ardeva un riso
tal, ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e
a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
ch'io non lo 'ntesi, sì parlò profondo;
né per
elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché 'l suo concetto
al segno d'i mortal si soprapuose.
E quando l'arco
de l'ardente affetto
fu sì sfogato, che 'l parlar discese
inver' lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa
che per me s'intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
che nel mio seme se' tanto cortese!».
E seguì:
«Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
du' non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai,
figlio, dentro a questo lume
in ch'io ti parlo, mercé di colei
ch'a l'alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a
me tuo pensier mei
da quel ch'è primo, così come raia
da l'un, se si conosce, il cinque e 'l sei;
e però
ch'io mi sia e perch' io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi 'l
vero; ché i minori e ' grandi
di questa vita miran ne lo speglio
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché 'l
sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m'asseta
di dolce disïar, s'adempia meglio,
la voce tua
sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni 'l disio,
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a
Beatrice, e quella udio
pria ch'io parlassi, e arrisemi un cenno
che fece crescer l'ali al voler mio.
Poi cominciai
così: «L'affetto e 'l senno,
come la prima equalità v'apparse,
d'un peso per ciascun di voi si fenno,
però che
'l sol che v'allumò e arse,
col caldo e con la luce è sì iguali,
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e
argomento ne' mortali,
per la cagion ch'a voi è manifesta,
diversamente son pennuti in ali;
ond' io, che
son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io
a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia
in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi
disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent' anni e piùe
girato ha 'l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e
tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
tu li raccorci con l'opere tue.
Fiorenza dentro
da la cerchia antica,
ond' ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea
catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
che fosse a veder più che la persona.
Non faceva,
nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché 'l tempo e la dote
non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case
di famiglia vòte;
non v'era giunto ancor Sardanapalo
a mostrar ciò che 'n camera si puote.
Non era vinto
ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com' è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion
Berti vid' io andar cinto
di cuoio e d'osso, e venir da lo specchio
la donna sua sanza 'l viso dipinto;
e vidi quel d'i
Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate!
ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
era per Francia nel letto diserta.
L'una vegghiava
a studio de la culla,
e, consolando, usava l'idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;
l'altra,
traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
d'i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta
allor tal maraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così
riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi
diè, chiamata in alte grida;
e ne l'antico vostro Batisteo
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio
frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo
'mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai
incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
per colpa d'i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu' io da
quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
lo cui amor molt' anime deturpa;
e venni dal
martiro a questa pace».
CANTO XVI
[Canto XVI, nel quale il sopradetto messer Cacciaguida racconta
intorno di quaranta famiglie onorabili al suo tempo ne la cittade di Fiorenza,
de le quali al presente non è ricordo né fama.]
O poca nostra
nobiltà di sangue,
se glorïar di te la gente fai
qua giù dove l'affetto nostro langue,
mirabil cosa
non mi sarà mai:
ché là dove appetito non si torce,
dico nel cielo, io me ne gloriai.
Ben se' tu
manto che tosto raccorce:
sì che, se non s'appon di dì in die,
lo tempo va dintorno con le force.
Dal 'voi' che
prima a Roma s'offerie,
in che la sua famiglia men persevra,
ricominciaron le parole mie;
onde Beatrice,
ch'era un poco scevra,
ridendo, parve quella che tossio
al primo fallo scritto di Ginevra.
Io cominciai:
«Voi siete il padre mio;
voi mi date a parlar tutta baldezza;
voi mi levate sì, ch'i' son più ch'io.
Per tanti rivi
s'empie d'allegrezza
la mente mia, che di sé fa letizia
perché può sostener che non si spezza.
Ditemi dunque,
cara mia primizia,
quai fuor li vostri antichi e quai fuor li anni
che si segnaro in vostra püerizia;
ditemi de
l'ovil di San Giovanni
quanto era allora, e chi eran le genti
tra esso degne di più alti scanni».
Come s'avviva a
lo spirar d'i venti
carbone in fiamma, così vid' io quella
luce risplendere a' miei blandimenti;
e come a li
occhi miei si fé più bella,
così con voce più dolce e soave,
ma non con questa moderna favella,
dissemi: «Da
quel dì che fu detto 'Ave'
al parto in che mia madre, ch'è or santa,
s'allevïò di me ond' era grave,
al suo Leon
cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei
e io nacqui nel loco
dove si truova pria l'ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.
Basti d'i miei
maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color
ch'a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e 'l Batista,
eran il quinto di quei ch'or son vivi.
Ma la
cittadinanza, ch'è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l'ultimo artista.
Oh quanto fora
meglio esser vicine
quelle genti ch'io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle
dentro e sostener lo puzzo
del villan d'Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l'occhio aguzzo!
Se la gente
ch'al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto
è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l'avolo a la cerca;
sariesi
Montemurlo ancor de' Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d'Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la
confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade,
come del vostro il cibo che s'appone;
e cieco toro
più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi
Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le
schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose
tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come 'l
volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee
parer mirabil cosa
ciò ch'io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.
Io vidi li Ughi
e vidi i Catellini,
Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi,
già nel calare, illustri cittadini;
e vidi
così grandi come antichi,
con quel de la Sannella, quel de l'Arca,
e Soldanieri e Ardinghi e Bostichi.
Sovra la porta
ch'al presente è carca
di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,
erano i
Ravignani, ond' è disceso
il conte Guido e qualunque del nome
de l'alto Bellincione ha poscia preso.
Quel de la
Pressa sapeva già come
regger si vuole, e avea Galigaio
dorata in casa sua già l'elsa e 'l pome.
Grand' era
già la colonna del Vaio,
Sacchetti, Giuochi, Fifanti e Barucci
e Galli e quei ch'arrossan per lo staio.
Lo ceppo di che
nacquero i Calfucci
era già grande, e già eran tratti
a le curule Sizii e Arrigucci.
Oh quali io
vidi quei che son disfatti
per lor superbia! e le palle de l'oro
fiorian Fiorenza in tutt' i suoi gran fatti.
Così
facieno i padri di coloro
che, sempre che la vostra chiesa vaca,
si fanno grassi stando a consistoro.
L'oltracotata
schiatta che s'indraca
dietro a chi fugge, e a chi mostra 'l dente
o ver la borsa, com' agnel si placa,
già
venìa sù, ma di picciola gente;
sì che non piacque ad Ubertin Donato
che poï il suocero il fé lor parente.
Già era
'l Caponsacco nel mercato
disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.
Io dirò
cosa incredibile e vera:
nel picciol cerchio s'entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.
Ciascun che de
la bella insegna porta
del gran barone il cui nome e 'l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,
da esso ebbe
milizia e privilegio;
avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.
Già eran
Gualterotti e Importuni;
e ancor saria Borgo più quïeto,
se di novi vicin fosser digiuni.
La casa di che
nacque il vostro fleto,
per lo giusto disdegno che v'ha morti
e puose fine al vostro viver lieto,
era onorata,
essa e suoi consorti:
o Buondelmonte, quanto mal fuggisti
le nozze süe per li altrui conforti!
Molti sarebber
lieti, che son tristi,
se Dio t'avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch'a città venisti.
Ma conveniesi,
a quella pietra scema
che guarda 'l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.
Con queste
genti, e con altre con esse,
vid' io Fiorenza in sì fatto riposo,
che non avea cagione onde piangesse.
Con queste
genti vid' io glorïoso
e giusto il popol suo, tanto che 'l giglio
non era ad asta mai posto a ritroso,
né per
divisïon fatto vermiglio».
CANTO XVII
[Canto XVII, nel quale il predetto messer Cacciaguida solve
l'animo de l'auttore da una paura e confortalo a fare questa opera.]
Qual venne a
Climenè, per accertarsi
di ciò ch'avëa incontro a sé udito,
quei ch'ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e
tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia
donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch'ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché
nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t'ausi
a dir la sete, sì che l'uom ti mesca».
«O cara piota
mia che sì t'insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così
vedi le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch'io
era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l'anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor
di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch'io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la
voglia mia saria contenta
d'intender qual fortuna mi s'appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così
diss' io a quella luce stessa
che pria m'avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage,
in che la gente folle
già s'inviscava pria che fosse anciso
l'Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare
parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La
contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità
però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi,
sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s'apparecchia.
Qual si partio
Ipolito d'Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole
e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa
seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai
ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l'arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai
sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.
E quel che
più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta
ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr' a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n'avrà rossa la tempia.
Di sua
bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch'a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo
refugio e 'l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che 'n su la scala porta il santo uccello;
ch'in te
avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai
colui che 'mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l'opere sue.
Non se ne son
le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che 'l
Guasco l'alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d'argento né d'affanni.
Le sue
magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ' suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t'aspetta
e a' suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera'ne
scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse:
«Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le 'nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo'
però ch'a' tuoi vicini invidie,
poscia che s'infutura la tua vita
vie più là che 'l punir di lor perfidie».
Poi che,
tacendo, si mostrò spedita
l'anima santa di metter la trama
in quella tela ch'io le porsi ordita,
io cominciai,
come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio,
padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch'è più grave a chi più s'abbandona;
per che di
provedenza è buon ch'io m'armi,
sì che, se loco m'è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per
lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo
ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s'io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s'io al vero
son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che
rideva il mio tesoro
ch'io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d'oro;
indi rispuose:
«Coscïenza fusca
o de la propria o de l'altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen,
rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov' è la rogna.
Ché se la voce
tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo
grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d'onor poco argomento.
Però ti
son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l'anime che son di fama note,
che l'animo di
quel ch'ode, non posa
né ferma fede per essempro ch'aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro
argomento che non paia».
CANTO XVIII
[Canto XVIII, nel quale si monta ne la stella di Giove, e narrasi
come li luminari spirituali figuravano mirabilmente.]
Già si
godeva solo del suo verbo
quello specchio beato, e io gustava
lo mio, temprando col dolce l'acerbo;
e quella donna
ch'a Dio mi menava
disse: «Muta pensier; pensa ch'i' sono
presso a colui ch'ogne torto disgrava».
Io mi rivolsi a
l'amoroso suono
del mio conforto; e qual io allor vidi
ne li occhi santi amor, qui l'abbandono:
non perch' io
pur del mio parlar diffidi,
ma per la mente che non può redire
sovra sé tanto, s'altri non la guidi.
Tanto poss' io
di quel punto ridire,
che, rimirando lei, lo mio affetto
libero fu da ogne altro disire,
fin che 'l
piacere etterno, che diretto
raggiava in Bëatrice, dal bel viso
mi contentava col secondo aspetto.
Vincendo me col
lume d'un sorriso,
ella mi disse: «Volgiti e ascolta;
ché non pur ne' miei occhi è paradiso».
Come si vede
qui alcuna volta
l'affetto ne la vista, s'elli è tanto,
che da lui sia tutta l'anima tolta,
così nel
fiammeggiar del folgór santo,
a ch'io mi volsi, conobbi la voglia
in lui di ragionarmi ancora alquanto.
El
cominciò: «In questa quinta soglia
de l'albero che vive de la cima
e frutta sempre e mai non perde foglia,
spiriti son
beati, che giù, prima
che venissero al ciel, fuor di gran voce,
sì ch'ogne musa ne sarebbe opima.
Però
mira ne' corni de la croce:
quello ch'io nomerò, lì farà l'atto
che fa in nube il suo foco veloce».
Io vidi per la
croce un lume tratto
dal nomar Iosuè, com' el si feo;
né mi fu noto il dir prima che 'l fatto.
E al nome de
l'alto Macabeo
vidi moversi un altro roteando,
e letizia era ferza del paleo.
Così per
Carlo Magno e per Orlando
due ne seguì lo mio attento sguardo,
com' occhio segue suo falcon volando.
Poscia trasse
Guiglielmo e Rinoardo
e 'l duca Gottifredi la mia vista
per quella croce, e Ruberto Guiscardo.
Indi, tra
l'altre luci mota e mista,
mostrommi l'alma che m'avea parlato
qual era tra i cantor del cielo artista.
Io mi rivolsi
dal mio destro lato
per vedere in Beatrice il mio dovere,
o per parlare o per atto, segnato;
e vidi le sue
luci tanto mere,
tanto gioconde, che la sua sembianza
vinceva li altri e l'ultimo solere.
E come, per
sentir più dilettanza
bene operando, l'uom di giorno in giorno
s'accorge che la sua virtute avanza,
sì
m'accors' io che 'l mio girare intorno
col cielo insieme avea cresciuto l'arco,
veggendo quel miracol più addorno.
E qual è
'l trasmutare in picciol varco
di tempo in bianca donna, quando 'l volto
suo si discarchi di vergogna il carco,
tal fu ne li
occhi miei, quando fui vòlto,
per lo candor de la temprata stella
sesta, che dentro a sé m'avea ricolto.
Io vidi in
quella giovïal facella
lo sfavillar de l'amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli
surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì
dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima,
cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l'un di questi segni,
un poco s'arrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa
che li 'ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ' regni,
illustrami di
te, sì ch'io rilevi
le lor figure com' io l'ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi
dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
'DILIGITE
IUSTITIAM', primai
fur verbo e nome di tutto 'l dipinto;
'QUI IUDICATIS TERRAM', fur sezzai.
Poscia ne
l'emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d'oro distinto.
E vidi scendere
altre luci dove
era il colmo de l'emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch'a sé le move.
Poi, come nel
percuoter d'i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver
quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come 'l sol che l'accende sortille;
e quïetata
ciascuna in suo loco,
la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che
dipinge lì, non ha chi 'l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch'è forma per li nidi.
L'altra
bëatitudo, che contenta
pareva prima d'ingigliarsi a l'emme,
con poco moto seguitò la 'mprenta.
O dolce stella,
quali e quante gemme
mi dimostraro che nostra giustizia
effetto sia del ciel che tu ingemme!
Per ch'io prego
la mente in che s'inizia
tuo moto e tua virtute, che rimiri
ond' esce il fummo che 'l tuo raggio vizia;
sì
ch'un'altra fïata omai s'adiri
del comperare e vender dentro al templo
che si murò di segni e di martìri.
O milizia del
ciel cu' io contemplo,
adora per color che sono in terra
tutti svïati dietro al malo essemplo!
Già si solea
con le spade far guerra;
ma or si fa togliendo or qui or quivi
lo pan che 'l pïo Padre a nessun serra.
Ma tu che sol
per cancellare scrivi,
pensa che Pietro e Paulo, che moriro
per la vigna che guasti, ancor son vivi.
Ben puoi tu
dire: «I' ho fermo 'l disiro
sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,
ch'io non
conosco il pescator né Polo».
CANTO XIX
[Canto XIX, nel quale li spiriti ch'erano ne la stella di Iove
insieme conglutinati in forma d'aguglia, ad una voce solvono uno grande dubbio,
e abominano e infamano tutti li re cristiani che regnavano ne l'anno di Cristo
MCCC.]
Parea dinanzi a
me con l'ali aperte
la bella image che nel dolce frui
liete facevan l'anime conserte;
parea ciascuna
rubinetto in cui
raggio di sole ardesse sì acceso,
che ne' miei occhi rifrangesse lui.
E quel che mi
convien ritrar testeso,
non portò voce mai, né scrisse incostro,
né fu per fantasia già mai compreso;
ch'io vidi e
anche udi' parlar lo rostro,
e sonar ne la voce e «io» e «mio»,
quand' era nel concetto e 'noi' e 'nostro'.
E
cominciò: «Per esser giusto e pio
son io qui essaltato a quella gloria
che non si lascia vincere a disio;
e in terra
lasciai la mia memoria
sì fatta, che le genti lì malvage
commendan lei, ma non seguon la storia».
Così un
sol calor di molte brage
si fa sentir, come di molti amori
usciva solo un suon di quella image.
Ond' io
appresso: «O perpetüi fiori
de l'etterna letizia, che pur uno
parer mi fate tutti vostri odori,
solvetemi,
spirando, il gran digiuno
che lungamente m'ha tenuto in fame,
non trovandoli in terra cibo alcuno.
Ben so io che,
se 'n cielo altro reame
la divina giustizia fa suo specchio,
che 'l vostro non l'apprende con velame.
Sapete come
attento io m'apparecchio
ad ascoltar; sapete qual è quello
dubbio che m'è digiun cotanto vecchio».
Quasi falcone
ch'esce del cappello,
move la testa e con l'ali si plaude,
voglia mostrando e faccendosi bello,
vid' io farsi
quel segno, che di laude
de la divina grazia era contesto,
con canti quai si sa chi là sù gaude.
Poi
cominciò: «Colui che volse il sesto
a lo stremo del mondo, e dentro ad esso
distinse tanto occulto e manifesto,
non poté suo
valor sì fare impresso
in tutto l'universo, che 'l suo verbo
non rimanesse in infinito eccesso.
E ciò fa
certo che 'l primo superbo,
che fu la somma d'ogne creatura,
per non aspettar lume, cadde acerbo;
e quinci appar
ch'ogne minor natura
è corto recettacolo a quel bene
che non ha fine e sé con sé misura.
Dunque vostra
veduta, che convene
esser alcun de' raggi de la mente
di che tutte le cose son ripiene,
non pò
da sua natura esser possente
tanto, che suo principio non discerna
molto di là da quel che l'è parvente.
Però ne
la giustizia sempiterna
la vista che riceve il vostro mondo,
com' occhio per lo mare, entro s'interna;
che, ben che da
la proda veggia il fondo,
in pelago nol vede; e nondimeno
èli, ma cela lui l'esser profondo.
Lume non
è, se non vien dal sereno
che non si turba mai; anzi è tenèbra
od ombra de la carne o suo veleno.
Assai
t'è mo aperta la latebra
che t'ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;
ché tu dicevi:
"Un uom nasce a la riva
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi
voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non
battezzato e sanza fede:
ov' è questa giustizia che 'l condanna?
ov' è la colpa sua, se ei non crede?".
Or tu chi se',
che vuo' sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d'una spanna?
Certo a colui
che meco s'assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni
animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch'è da sé buona,
da sé, ch'è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto
è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
Quale sovresso
il nido si rigira
poi c'ha pasciuti la cicogna i figli,
e come quel ch'è pasto la rimira;
cotal si fece,
e sì leväi i cigli,
la benedetta imagine, che l'ali
movea sospinte da tanti consigli.
Roteando
cantava, e dicea: «Quali
son le mie note a te, che non le 'ntendi,
tal è il giudicio etterno a voi mortali».
Poi si quetaro
quei lucenti incendi
de lo Spirito Santo ancor nel segno
che fé i Romani al mondo reverendi,
esso
ricominciò: «A questo regno
non salì mai chi non credette 'n Cristo,
né pria né poi ch'el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti
gridan "Cristo, Cristo!",
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian
dannerà l'Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l'uno in etterno ricco e l'altro inòpe.
Che poran dir
li Perse a' vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?
Lì si
vedrà, tra l'opere d'Alberto,
quella che tosto moverà la penna,
per che 'l regno di Praga fia diserto.
Lì si
vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.
Lì si
vedrà la superbia ch'asseta,
che fa lo Scotto e l'Inghilese folle,
sì che non può soffrir dentro a sua meta.
Vedrassi la
lussuria e 'l viver molle
di quel di Spagna e di quel di Boemme,
che mai valor non conobbe né volle.
Vedrassi al
Ciotto di Ierusalemme
segnata con un i la sua bontate,
quando 'l contrario segnerà un emme.
Vedrassi
l'avarizia e la viltate
di quei che guarda l'isola del foco,
ove Anchise finì la lunga etate;
e a dare ad
intender quanto è poco,
la sua scrittura fian lettere mozze,
che noteranno molto in parvo loco.
E parranno a
ciascun l'opere sozze
del barba e del fratel, che tanto egregia
nazione e due corone han fatte bozze.
E quel di
Portogallo e di Norvegia
lì si conosceranno, e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.
Oh beata
Ungheria, se non si lascia
più malmenare! e beata Navarra,
se s'armasse del monte che la fascia!
E creder de'
ciascun che già, per arra
di questo, Niccosïa e Famagosta
per la lor bestia si lamenti e garra,
che dal fianco
de l'altre non si scosta».
CANTO XX
[Canto XX, nel quale ancora suonano nel becco de l'Aquila certe
parole per le quali apprende di conoscere alcuni di quelli spirti de li quali
quella Aquila è composta.]
Quando colui
che tutto 'l mondo alluma
de l'emisperio nostro sì discende,
che 'l giorno d'ogne parte si consuma,
lo ciel, che
sol di lui prima s'accende,
subitamente si rifà parvente
per molte luci, in che una risplende;
e questo atto
del ciel mi venne a mente,
come 'l segno del mondo e de' suoi duci
nel benedetto rostro fu tacente;
però che
tutte quelle vive luci,
vie più lucendo, cominciaron canti
da mia memoria labili e caduci.
O dolce amor
che di riso t'ammanti,
quanto parevi ardente in que' flailli,
ch'avieno spirto sol di pensier santi!
Poscia che i
cari e lucidi lapilli
ond' io vidi ingemmato il sesto lume
puoser silenzio a li angelici squilli,
udir mi parve
un mormorar di fiume
che scende chiaro giù di pietra in pietra,
mostrando l'ubertà del suo cacume.
E come suono al
collo de la cetra
prende sua forma, e sì com' al pertugio
de la sampogna vento che penètra,
così,
rimosso d'aspettare indugio,
quel mormorar de l'aguglia salissi
su per lo collo, come fosse bugio.
Fecesi voce
quivi, e quindi uscissi
per lo suo becco in forma di parole,
quali aspettava il core ov' io le scrissi.
«La parte in me
che vede e pate il sole
ne l'aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché d'i
fuochi ond' io figura fommi,
quelli onde l'occhio in testa mi scintilla,
e' di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce
in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l'arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il
merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch'è altrettanto.
Dei cinque che
mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s'accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce
quanto caro costa
non seguir Cristo, per l'esperïenza
di questa dolce vita e de l'opposta.
E quel che
segue in la circunferenza
di che ragiono, per l'arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che
'l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l'odïerno.
L'altro che
segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce
come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia 'l mondo indi distrutto.
E quel che vedi
ne l'arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce
come s'innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe
giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce
assai di quel che 'l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».
Quale allodetta
che 'n aere si spazia
prima cantando, e poi tace contenta
de l'ultima dolcezza che la sazia,
tal mi
sembiò l'imago de la 'mprenta
de l'etterno piacere, al cui disio
ciascuna cosa qual ell' è diventa.
E avvegna ch'io
fossi al dubbiar mio
lì quasi vetro a lo color ch'el veste,
tempo aspettar tacendo non patio,
ma de la bocca,
«Che cose son queste?»,
mi pinse con la forza del suo peso:
per ch'io di coruscar vidi gran feste.
Poi appresso,
con l'occhio più acceso,
lo benedetto segno mi rispuose
per non tenermi in ammirar sospeso:
«Io veggio che
tu credi queste cose
perch' io le dico, ma non vedi come;
sì che, se son credute, sono ascose.
Fai come quei
che la cosa per nome
apprende ben, ma la sua quiditate
veder non può se altri non la prome.
Regnum celorum vïolenza
pate
da caldo amore e da viva speranza,
che vince la divina volontate:
non a guisa che
l'omo a l'om sobranza,
ma vince lei perché vuole esser vinta,
e, vinta, vince con sua beninanza.
La prima vita
del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.
D'i corpi suoi
non uscir, come credi,
Gentili, ma Cristiani, in ferma fede
quel d'i passuri e quel d'i passi piedi.
Ché l'una de lo
'nferno, u' non si riede
già mai a buon voler, tornò a l'ossa;
e ciò di viva spene fu mercede:
di viva spene,
che mise la possa
ne' prieghi fatti a Dio per suscitarla,
sì che potesse sua voglia esser mossa.
L'anima
glorïosa onde si parla,
tornata ne la carne, in che fu poco,
credette in lui che potëa aiutarla;
e credendo
s'accese in tanto foco
di vero amor, ch'a la morte seconda
fu degna di venire a questo gioco.
L'altra, per
grazia che da sì profonda
fontana stilla, che mai creatura
non pinse l'occhio infino a la prima onda,
tutto suo amor
là giù pose a drittura:
per che, di grazia in grazia, Dio li aperse
l'occhio a la nostra redenzion futura;
ond' ei
credette in quella, e non sofferse
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.
Quelle tre
donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d'un millesmo.
O
predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali,
tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;
ed ènne
dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s'affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».
Così da
quella imagine divina,
per farmi chiara la mia corta vista,
data mi fu soave medicina.
E come a buon
cantor buon citarista
fa seguitar lo guizzo de la corda,
in che più di piacer lo canto acquista,
sì,
mentre ch'e' parlò, sì mi ricorda
ch'io vidi le due luci benedette,
pur come batter d'occhi si concorda,
con le parole
mover le fiammette.
CANTO XXI
[Canto XXI, nel quale si monta ne la stella di Saturno, che
è il settimo pianeto; e qui comincia la settima parte, e come Pietro
Dammiano solve alcune questioni.]
Già eran
li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l'animo con essi,
e da ogne altro intento s'era tolto.
E quella non
ridea; ma «S'io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza
mia, che per le scale
de l'etterno palazzo più s'accende,
com' hai veduto, quanto più si sale,
se non si
temperasse, tanto splende,
che 'l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende.
Noi sem levati
al settimo splendore,
che sotto 'l petto del Leone ardente
raggia mo misto giù del suo valore.
Ficca di retro
a li occhi tuoi la mente,
e fa di quelli specchi a la figura
che 'n questo specchio ti sarà parvente».
Qual savesse
qual era la pastura
del viso mio ne l'aspetto beato
quand' io mi trasmutai ad altra cura,
conoscerebbe
quanto m'era a grato
ubidire a la mia celeste scorta,
contrapesando l'un con l'altro lato.
Dentro al
cristallo che 'l vocabol porta,
cerchiando il mondo, del suo caro duce
sotto cui giacque ogne malizia morta,
di color d'oro
in che raggio traluce
vid' io uno scaleo eretto in suso
tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per
li gradi scender giuso
tanti splendor, ch'io pensai ch'ogne lume
che par nel ciel, quindi fosse diffuso.
E come, per lo
natural costume,
le pole insieme, al cominciar del giorno,
si movono a scaldar le fredde piume;
poi altre vanno
via sanza ritorno,
altre rivolgon sé onde son mosse,
e altre roteando fan soggiorno;
tal modo parve
me che quivi fosse
in quello sfavillar che 'nsieme venne,
sì come in certo grado si percosse.
E quel che
presso più ci si ritenne,
si fé sì chiaro, ch'io dicea pensando:
'Io veggio ben l'amor che tu m'accenne.
Ma quella ond'
io aspetto il come e 'l quando
del dire e del tacer, si sta; ond' io,
contra 'l disio, fo ben ch'io non dimando'.
Per ch'ella,
che vedëa il tacer mio
nel veder di colui che tutto vede,
mi disse: «Solvi il tuo caldo disio».
E io
incominciai: «La mia mercede
non mi fa degno de la tua risposta;
ma per colei che 'l chieder mi concede,
vita beata che
ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
la cagion che sì presso mi t'ha posta;
e dì
perché si tace in questa rota
la dolce sinfonia di paradiso,
che giù per l'altre suona sì divota».
«Tu hai l'udir
mortal sì come il viso»,
rispuose a me; «onde qui non si canta
per quel che Bëatrice non ha riso.
Giù per
li gradi de la scala santa
discesi tanto sol per farti festa
col dire e con la luce che mi ammanta;
né più
amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
sì come il fiammeggiar ti manifesta.
Ma l'alta
carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che 'l mondo governa,
sorteggia qui sì come tu osserve».
«Io veggio
ben», diss' io, «sacra lucerna,
come libero amore in questa corte
basta a seguir la provedenza etterna;
ma questo
è quel ch'a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola
a questo officio tra le tue consorte».
Né venni prima
a l'ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
girando sé come veloce mola;
poi rispuose
l'amor che v'era dentro:
«Luce divina sopra me s'appunta,
penetrando per questa in ch'io m'inventro,
la cui
virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch'i' veggio
la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien
l'allegrezza ond' io fiammeggio;
per ch'a la vista mia, quant' ella è chiara,
la chiarità de la fiamma pareggio.
Ma quell' alma
nel ciel che più si schiara,
quel serafin che 'n Dio più l'occhio ha fisso,
a la dimanda tua non satisfara,
però che
sì s'innoltra ne lo abisso
de l'etterno statuto quel che chiedi,
che da ogne creata vista è scisso.
E al mondo
mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
a tanto segno più mover li piedi.
La mente, che
qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
quel che non pote perché 'l ciel l'assumma».
Sì mi
prescrisser le parole sue,
ch'io lasciai la quistione e mi ritrassi
a dimandarla umilmente chi fue.
«Tra ' due liti
d'Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ' troni assai suonan più bassi,
e fanno un
gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così
ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe' sì fermo,
che pur con
cibi di liquor d'ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne' pensier contemplativi.
Render solea
quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco
fu' io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu' ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita
mortal m'era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne
Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion
quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d'i manti
loro i palafreni,
sì che due bestie van sott' una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».
A questa voce
vid' io più fiammelle
di grado in grado scendere e girarsi,
e ogne giro le facea più belle.
Dintorno a
questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
né io lo
'ntesi, sì mi vinse il tuono.
CANTO XXII
[Canto XXII, nel quale si tratta di quelli medesimi che nel
precedente capitolo, qui sotto il titolo di Santo Maccario e di Santo Romoaldo;
e infine dispitta il mondo e la sua picciolezza e le cose mondane, ripetendo e
mostrando tutti li pianeti per li quali è intrato; ed entra con Beatrice
nel segno d'i Gemini; e qui prende l'ottava parte di questa terza cantica.]
Oppresso di
stupore, a la mia guida
mi volsi, come parvol che ricorre
sempre colà dove più si confida;
e quella, come
madre che soccorre
sùbito al figlio palido e anelo
con la sua voce, che 'l suol ben disporre,
mi disse: «Non sai
tu che tu se' in cielo?
e non sai tu che 'l cielo è tutto santo,
e ciò che ci si fa vien da buon zelo?
Come t'avrebbe
trasmutato il canto,
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
poscia che 'l grido t'ha mosso cotanto;
nel qual, se
'nteso avessi i prieghi suoi,
già ti sarebbe nota la vendetta
che tu vedrai innanzi che tu muoi.
La spada di qua
sù non taglia in fretta
né tardo, ma' ch'al parer di colui
che disïando o temendo l'aspetta.
Ma rivolgiti
omai inverso altrui;
ch'assai illustri spiriti vedrai,
se com' io dico l'aspetto redui».
Come a lei
piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che 'nsieme
più s'abbellivan con mutüi rai.
Io stava come
quei che 'n sé repreme
la punta del disio, e non s'attenta
di domandar, sì del troppo si teme;
e la maggiore e
la più luculenta
di quelle margherite innanzi fessi,
per far di sé la mia voglia contenta.
Poi dentro a
lei udi': «Se tu vedessi
com' io la carità che tra noi arde,
li tuoi concetti sarebbero espressi.
Ma perché tu,
aspettando, non tarde
a l'alto fine, io ti farò risposta
pur al pensier, da che sì ti riguarde.
Quel monte a
cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;
e quel son io
che sù vi portai prima
lo nome di colui che 'n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia
sopra me relusse,
ch'io ritrassi le ville circunstanti
da l'empio cólto che 'l mondo sedusse.
Questi altri
fuochi tutti contemplanti
uomini fuoro, accesi di quel caldo
che fa nascere i fiori e ' frutti santi.
Qui è
Maccario, qui è Romoaldo,
qui son li frati miei che dentro ai chiostri
fermar li piedi e tennero il cor saldo».
E io a lui:
«L'affetto che dimostri
meco parlando, e la buona sembianza
ch'io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così
m'ha dilatata mia fidanza,
come 'l sol fa la rosa quando aperta
tanto divien quant' ell' ha di possanza.
Però ti
priego, e tu, padre, m'accerta
s'io posso prender tanta grazia, ch'io
ti veggia con imagine scoverta».
Ond' elli:
«Frate, il tuo alto disio
s'adempierà in su l'ultima spera,
ove s'adempion tutti li altri e 'l mio.
Ivi è
perfetta, matura e intera
ciascuna disïanza; in quella sola
è ogne parte là ove sempr' era,
perché non
è in loco e non s'impola;
e nostra scala infino ad essa varca,
onde così dal viso ti s'invola.
Infin là
sù la vide il patriarca
Iacobbe porger la superna parte,
quando li apparve d'angeli sì carca.
Ma, per
salirla, mo nessun diparte
da terra i piedi, e la regola mia
rimasa è per danno de le carte.
Le mura che
solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura
tanto non si tolle
contra 'l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de' monaci sì folle;
ché quantunque
la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d'altro più brutto.
La carne d'i
mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier
cominciò sanz' oro e sanz' argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi 'l
principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov' è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
Veramente
Iordan vòlto retrorso
più fu, e 'l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui 'l soccorso».
Così mi
disse, e indi si raccolse
al suo collegio, e 'l collegio si strinse;
poi, come turbo, in sù tutto s'avvolse.
La dolce donna
dietro a lor mi pinse
con un sol cenno su per quella scala,
sì sua virtù la mia natura vinse;
né mai qua
giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
ch'agguagliar si potesse a la mia ala.
S'io torni mai,
lettore, a quel divoto
trïunfo per lo quale io piango spesso
le mie peccata e 'l petto mi percuoto,
tu non avresti
in tanto tratto e messo
nel foco il dito, in quant' io vidi 'l segno
che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O glorïose
stelle, o lume pregno
di gran virtù, dal quale io riconosco
tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva
e s'ascondeva vosco
quelli ch'è padre d'ogne mortal vita,
quand' io senti' di prima l'aere tosco;
e poi, quando
mi fu grazia largita
d'entrar ne l'alta rota che vi gira,
la vostra regïon mi fu sortita.
A voi
divotamente ora sospira
l'anima mia, per acquistar virtute
al passo forte che a sé la tira.
«Tu se'
sì presso a l'ultima salute»,
cominciò Bëatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;
e però,
prima che tu più t'inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei;
sì che
'l tuo cor, quantunque può, giocondo
s'appresenti a la turba trïunfante
che lieta vien per questo etera tondo».
Col viso
ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch'io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel
consiglio per migliore approbo
che l'ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia
di Latona incensa
sanza quell' ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L'aspetto del
tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com' si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi
m'apparve il temperar di Giove
tra 'l padre e 'l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette
mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
L'aiuola che ci
fa tanto feroci,
volgendom' io con li etterni Gemelli,
tutta m'apparve da' colli a le foci;
poscia rivolsi
li occhi a li occhi belli.
CANTO XXIII
[Canto XXIII, dove si tratta come l'auttore vide la Beata Virgine
Maria e li abitatori de la celestiale corte, de la quale mirabilemente favella
in questo canto; e qui si prende la nona parte di questa terza cantica.]
Come l'augello,
intra l'amate fronde,
posato al nido de' suoi dolci nati
la notte che le cose ci nasconde,
che, per veder
li aspetti disïati
e per trovar lo cibo onde li pasca,
in che gravi labor li sono aggrati,
previene il
tempo in su aperta frasca,
e con ardente affetto il sole aspetta,
fiso guardando pur che l'alba nasca;
così la
donna mïa stava eretta
e attenta, rivolta inver' la plaga
sotto la quale il sol mostra men fretta:
sì che,
veggendola io sospesa e vaga,
fecimi qual è quei che disïando
altro vorria, e sperando s'appaga.
Ma poco fu tra
uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
lo ciel venir più e più rischiarando;
e Bëatrice
disse: «Ecco le schiere
del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto
ricolto del girar di queste spere!».
Pariemi che 'l
suo viso ardesse tutto,
e li occhi avea di letizia sì pieni,
che passarmen convien sanza costrutto.
Quale ne' plenilunïi
sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid' i' sopra
migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l'accendea,
come fa 'l nostro le viste superne;
e per la viva
luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice,
dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è
la sapïenza e la possanza
ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
Come foco di
nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s'atterra,
la mente mia
così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.
«Apri li occhi
e riguarda qual son io;
tu hai vedute cose, che possente
se' fatto a sostener lo riso mio».
Io era come
quei che si risente
di visïone oblita e che s'ingegna
indarno di ridurlasi a la mente,
quand' io udi'
questa proferta, degna
di tanto grato, che mai non si stingue
del libro che 'l preterito rassegna.
Se mo sonasser
tutte quelle lingue
che Polimnïa con le suore fero
del latte lor dolcissimo più pingue,
per aiutarmi,
al millesmo del vero
non si verria, cantando il santo riso
e quanto il santo aspetto facea mero;
e così,
figurando il paradiso,
convien saltar lo sacrato poema,
come chi trova suo cammin riciso.
Ma chi pensasse
il ponderoso tema
e l'omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott' esso trema:
non è
pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l'ardita prora,
né da nocchier ch'a sé medesmo parca.
«Perché la
faccia mia sì t'innamora,
che tu non ti rivolgi al bel giardino
che sotto i raggi di Cristo s'infiora?
Quivi è
la rosa in che 'l verbo divino
carne si fece; quivi son li gigli
al cui odor si prese il buon cammino».
Così
Beatrice; e io, che a' suoi consigli
tutto era pronto, ancora mi rendei
a la battaglia de' debili cigli.
Come a raggio
di sol, che puro mei
per fratta nube, già prato di fiori
vider, coverti d'ombra, li occhi miei;
vid' io
così più turbe di splendori,
folgorate di sù da raggi ardenti,
sanza veder principio di folgóri.
O benigna
vertù che sì li 'mprenti,
sù t'essaltasti, per largirmi loco
a li occhi lì che non t'eran possenti.
Il nome del bel
fior ch'io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
l'animo ad avvisar lo maggior foco;
e come ambo le
luci mi dipinse
il quale e il quanto de la viva stella
che là sù vince come qua giù vinse,
per entro il
cielo scese una facella,
formata in cerchio a guisa di corona,
e cinsela e girossi intorno ad ella.
Qualunque
melodia più dolce suona
qua giù e più a sé l'anima tira,
parrebbe nube che squarciata tona,
comparata al
sonar di quella lira
onde si coronava il bel zaffiro
del quale il ciel più chiaro s'inzaffira.
«Io sono amore
angelico, che giro
l'alta letizia che spira del ventre
che fu albergo del nostro disiro;
e girerommi,
donna del ciel, mentre
che seguirai tuo figlio, e farai dia
più la spera supprema perché lì entre».
Così la
circulata melodia
si sigillava, e tutti li altri lumi
facean sonare il nome di Maria.
Lo real manto
di tutti i volumi
del mondo, che più ferve e più s'avviva
ne l'alito di Dio e nei costumi,
avea sopra di
noi l'interna riva
tanto distante, che la sua parvenza,
là dov' io era, ancor non appariva:
però non
ebber li occhi miei potenza
di seguitar la coronata fiamma
che si levò appresso sua semenza.
E come fantolin
che 'nver' la mamma
tende le braccia, poi che 'l latte prese,
per l'animo che 'nfin di fuor s'infiamma;
ciascun di quei
candori in sù si stese
con la sua cima, sì che l'alto affetto
ch'elli avieno a Maria mi fu palese.
Indi rimaser
lì nel mio cospetto,
'Regina celi' cantando sì dolce,
che mai da me non si partì 'l diletto.
Oh quanta
è l'ubertà che si soffolce
in quelle arche ricchissime che fuoro
a seminar qua giù buone bobolce!
Quivi si vive e
gode del tesoro
che s'acquistò piangendo ne lo essilio
di Babillòn, ove si lasciò l'oro.
Quivi
trïunfa, sotto l'alto Filio
di Dio e di Maria, di sua vittoria,
e con l'antico e col novo concilio,
colui che tien
le chiavi di tal gloria.
CANTO XXIV
[Canto XXIV, dove si tratta de la nona e ultima parte di questa
ultima cantica; ne la quale san Pietro Appostolo a priego di Beatrice essamina
l'auttore sopra la fede cattolica.]
«O sodalizio
eletto a la gran cena
del benedetto Agnello, il qual vi ciba
sì, che la vostra voglia è sempre piena,
se per grazia
di Dio questi preliba
di quel che cade de la vostra mensa,
prima che morte tempo li prescriba,
ponete mente a
l'affezione immensa
e roratelo alquanto: voi bevete
sempre del fonte onde vien quel ch'ei pensa».
Così
Beatrice; e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, volte, a guisa di comete.
E come cerchi
in tempra d'orïuoli
si giran sì, che 'l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l'ultimo che voli;
così
quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.
Di quella ch'io
notai di più carezza
vid' ïo uscire un foco sì felice,
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre
fïate intorno di Beatrice
si volse con un canto tanto divo,
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però
salta la penna e non lo scrivo:
ché l'imagine nostra a cotai pieghe,
non che 'l parlare, è troppo color vivo.
«O santa suora
mia che sì ne prieghe
divota, per lo tuo ardente affetto
da quella bella spera mi disleghe».
Poscia fermato,
il foco benedetto
a la mia donna dirizzò lo spiro,
che favellò così com' i' ho detto.
Ed ella: «O
luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch'ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di
punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
S'elli ama bene
e bene spera e crede,
non t'è occulto, perché 'l viso hai quivi
dov' ogne cosa dipinta si vede;
ma perché
questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch'a lui arrivi».
Sì come
il baccialier s'arma e non parla
fin che 'l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così
m'armava io d'ogne ragione
mentre ch'ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.
«Dì,
buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond' io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a
Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch' ïo spandessi
l'acqua di fuor del mio interno fonte.
«La Grazia che
mi dà ch'io mi confessi»,
comincia' io, «da l'alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».
E seguitai:
«Come 'l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede è
sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
Allora udi':
«Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
E io appresso:
«Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che l'esser
loro v'è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l'alta spene;
e però di sustanza prende intenza.
E da questa
credenza ci convene
silogizzar, sanz' avere altra vista:
però intenza d'argomento tene».
Allora udi':
«Se quantunque s'acquista
giù per dottrina, fosse così 'nteso,
non lì avria loco ingegno di sofista».
Così
spirò di quello amore acceso;
indi soggiunse: «Assai bene è trascorsa
d'esta moneta già la lega e 'l peso;
ma dimmi se tu
l'hai ne la tua borsa».
Ond' io: «Sì ho, sì lucida e sì tonda,
che nel suo conio nulla mi s'inforsa».
Appresso
uscì de la luce profonda
che lì splendeva: «Questa cara gioia
sopra la quale ogne virtù si fonda,
onde ti
venne?». E io: «La larga ploia
de lo Spirito Santo, ch'è diffusa
in su le vecchie e 'n su le nuove cuoia,
è
silogismo che la m'ha conchiusa
acutamente sì, che 'nverso d'ella
ogne dimostrazion mi pare ottusa».
Io udi' poi:
«L'antica e la novella
proposizion che così ti conchiude,
perché l'hai tu per divina favella?».
E io: «La prova
che 'l ver mi dischiude,
son l'opere seguite, a che natura
non scalda ferro mai né batte incude».
Risposto fummi:
«Dì, chi t'assicura
che quell' opere fosser? Quel medesmo
che vuol provarsi, non altri, il ti giura».
«Se 'l mondo si
rivolse al cristianesmo»,
diss' io, «sanza miracoli, quest' uno
è tal, che li altri non sono il centesmo:
ché tu intrasti
povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
che fu già vite e ora è fatta pruno».
Finito questo,
l'alta corte santa
risonò per le spere un 'Dio laudamo'
ne la melode che là sù si canta.
E quel baron
che sì di ramo in ramo,
essaminando, già tratto m'avea,
che a l'ultime fronde appressavamo,
ricominciò:
«La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca t'aperse
infino a qui come aprir si dovea,
sì ch'io
approvo ciò che fuori emerse;
ma or convien espremer quel che credi,
e onde a la credenza tua s'offerse».
«O santo padre,
e spirito che vedi
ciò che credesti sì, che tu vincesti
ver' lo sepulcro più giovani piedi»,
comincia' io,
«tu vuo' ch'io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
e anche la cagion di lui chiedesti.
E io rispondo:
Io credo in uno Dio
solo ed etterno, che tutto 'l ciel move,
non moto, con amore e con disio;
e a tal creder
non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dalmi
anche la verità che quinci piove
per
Moïsè, per profeti e per salmi,
per l'Evangelio e per voi che scriveste
poi che l'ardente Spirto vi fé almi;
e credo in tre
persone etterne, e queste
credo una essenza sì una e sì trina,
che soffera congiunto 'sono' ed 'este'.
De la profonda
condizion divina
ch'io tocco mo, la mente mi sigilla
più volte l'evangelica dottrina.
Quest' è
'l principio, quest' è la favilla
che si dilata in fiamma poi vivace,
e come stella in cielo in me scintilla».
Come 'l segnor
ch'ascolta quel che i piace,
da indi abbraccia il servo, gratulando
per la novella, tosto ch'el si tace;
così,
benedicendomi cantando,
tre volte cinse me, sì com' io tacqui,
l'appostolico lume al cui comando
io avea detto:
sì nel dir li piacqui!
CANTO XXV
[Canto XXV, che tratta come l'auttore parla con Beatrice e con
santo Iacopo Maggiore sopra certe questioni de le quali santo Iacopo solve la
prima.]
Se mai continga
che 'l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m'ha fatto per molti anni macro,
vinca la
crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov' io dormi' agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce
omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò 'l cappello;
però che
ne la fede, che fa conte
l'anime a Dio, quivi intra' io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
Indi si mosse
un lume verso noi
di quella spera ond' uscì la primizia
che lasciò Cristo d'i vicari suoi;
e la mia donna,
piena di letizia,
mi disse: «Mira, mira: ecco il barone
per cui là giù si vicita Galizia».
Sì come
quando il colombo si pone
presso al compagno, l'uno a l'altro pande,
girando e mormorando, l'affezione;
così
vid' ïo l'un da l'altro grande
principe glorïoso essere accolto,
laudando il cibo che là sù li prande.
Ma poi che 'l
gratular si fu assolto,
tacito coram me ciascun s'affisse,
ignito sì che vincëa 'l mio volto.
Ridendo allora
Bëatrice disse:
«Inclita vita per cui la larghezza
de la nostra basilica si scrisse,
fa risonar la
spene in questa altezza:
tu sai, che tante fiate la figuri,
quante Iesù ai tre fé più carezza».
«Leva la testa
e fa che t'assicuri:
ché ciò che vien qua sù del mortal mondo,
convien ch'ai nostri raggi si maturi».
Questo conforto
del foco secondo
mi venne; ond' io leväi li occhi a' monti
che li 'ncurvaron pria col troppo pondo.
«Poi che per
grazia vuol che tu t'affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l'aula più secreta co' suoi conti,
sì che,
veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
dì quel
ch'ell' è, dì come se ne 'nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì 'l secondo lume ancora.
E quella
pïa che guidò le penne
de le mie ali a così alto volo,
a la risposta così mi prevenne:
«La Chiesa
militante alcun figliuolo
non ha con più speranza, com' è scritto
nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:
però li
è conceduto che d'Egitto
vegna in Ierusalemme per vedere,
anzi che 'l militar li sia prescritto.
Li altri due
punti, che non per sapere
son dimandati, ma perch' ei rapporti
quanto questa virtù t'è in piacere,
a lui lasc' io,
ché non li saran forti
né di iattanza; ed elli a ciò risponda,
e la grazia di Dio ciò li comporti».
Come discente
ch'a dottor seconda
pronto e libente in quel ch'elli è esperto,
perché la sua bontà si disasconda,
«Spene», diss'
io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle
mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
'Sperino in
te', ne la sua tëodia
dice, 'color che sanno il nome tuo':
e chi nol sa, s'elli ha la fede mia?
Tu mi
stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch'io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».
Mentr' io
diceva, dentro al vivo seno
di quello incendio tremolava un lampo
sùbito e spesso a guisa di baleno.
Indi
spirò: «L'amore ond' ïo avvampo
ancor ver' la virtù che mi seguette
infin la palma e a l'uscir del campo,
vuol ch'io
respiri a te che ti dilette
di lei; ed emmi a grato che tu diche
quello che la speranza ti 'mpromette».
E io: «Le nove
e le scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l'anime che Dio s'ha fatte amiche.
Dice Isaia che
ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta:
e la sua terra è questa dolce vita;
e 'l tuo
fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa revelazion ci manifesta».
E prima,
appresso al fin d'este parole,
'Sperent in te' di sopr' a noi s'udì;
a che rispuoser tutte le carole.
Poscia tra esse
un lume si schiarì
sì che, se 'l Cancro avesse un tal cristallo,
l'inverno avrebbe un mese d'un sol dì.
E come surge e
va ed entra in ballo
vergine lieta, sol per fare onore
a la novizia, non per alcun fallo,
così
vid' io lo schiarato splendore
venire a' due che si volgieno a nota
qual conveniesi al loro ardente amore.
Misesi
lì nel canto e ne la rota;
e la mia donna in lor tenea l'aspetto,
pur come sposa tacita e immota.
«Questi
è colui che giacque sopra 'l petto
del nostro pellicano, e questi fue
di su la croce al grande officio eletto».
La donna mia
così; né però piùe
mosser la vista sua di stare attenta
poscia che prima le parole sue.
Qual è
colui ch'adocchia e s'argomenta
di vedere eclissar lo sole un poco,
che, per veder, non vedente diventa;
tal mi fec'
ïo a quell' ultimo foco
mentre che detto fu: «Perché t'abbagli
per veder cosa che qui non ha loco?
In terra
è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che 'l numero nostro
con l'etterno proposito s'agguagli.
Con le due
stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro».
A questa voce
l'infiammato giro
si quïetò con esso il dolce mischio
che si facea nel suon del trino spiro,
sì come,
per cessar fatica o rischio,
li remi, pria ne l'acqua ripercossi,
tutti si posano al sonar d'un fischio.
Ahi quanto ne
la mente mi commossi,
quando mi volsi per veder Beatrice,
per non poter veder, benché io fossi
presso di lei,
e nel mondo felice!
CANTO XXVI
[Canto XXVI, nel quale l'auttore ne conforta seguitare lo
innefabile amore, e dove trova Adamo il nostro primo padre, dicente a lui il
tempo de la sua felicitade e infelicitade.]
Mentr' io
dubbiava per lo viso spento,
de la fulgida fiamma che lo spense
uscì un spiro che mi fece attento,
dicendo:
«Intanto che tu ti risense
de la vista che haï in me consunta,
ben è che ragionando la compense.
Comincia
dunque; e dì ove s'appunta
l'anima tua, e fa ragion che sia
la vista in te smarrita e non defunta:
perché la donna
che per questa dia
regïon ti conduce, ha ne lo sguardo
la virtù ch'ebbe la man d'Anania».
Io dissi: «Al
suo piacere e tosto e tardo
vegna remedio a li occhi, che fuor porte
quand' ella entrò col foco ond' io sempr' ardo.
Lo ben che fa
contenta questa corte,
Alfa e O è di quanta scrittura
mi legge Amore o lievemente o forte».
Quella medesma
voce che paura
tolta m'avea del sùbito abbarbaglio,
di ragionare ancor mi mise in cura;
e disse: «Certo
a più angusto vaglio
ti conviene schiarar: dicer convienti
chi drizzò l'arco tuo a tal berzaglio».
E io: «Per
filosofici argomenti
e per autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me si 'mprenti:
ché 'l bene, in
quanto ben, come s'intende,
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontate in sé comprende.
Dunque a
l'essenza ov' è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è ch'un lume di suo raggio,
più che
in altra convien che si mova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a
l'intelletto mïo sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce
del verace autore,
che dice a Moïsè, di sé parlando:
'Io ti farò vedere ogne valore'.
Sternilmi tu
ancora, incominciando
l'alto preconio che grida l'arcano
di qui là giù sovra ogne altro bando».
E io udi': «Per
intelletto umano
e per autoritadi a lui concorde
d'i tuoi amori a Dio guarda il sovrano.
Ma dì
ancor se tu senti altre corde
tirarti verso lui, sì che tu suone
con quanti denti questo amor ti morde».
Non fu latente
la santa intenzione
de l'aguglia di Cristo, anzi m'accorsi
dove volea menar mia professione.
Però
ricominciai: «Tutti quei morsi
che posson far lo cor volgere a Dio,
a la mia caritate son concorsi:
ché l'essere
del mondo e l'esser mio,
la morte ch'el sostenne perch' io viva,
e quel che spera ogne fedel com' io,
con la predetta
conoscenza viva,
tratto m'hanno del mar de l'amor torto,
e del diritto m'han posto a la riva.
Le fronde onde
s'infronda tutto l'orto
de l'ortolano etterno, am' io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto».
Sì com'
io tacqui, un dolcissimo canto
risonò per lo cielo, e la mia donna
dicea con li altri: «Santo, santo, santo!».
E come a lume
acuto si disonna
per lo spirto visivo che ricorre
a lo splendor che va di gonna in gonna,
e lo svegliato
ciò che vede aborre,
sì nescïa è la sùbita vigilia
fin che la stimativa non soccorre;
così de
li occhi miei ogne quisquilia
fugò Beatrice col raggio d'i suoi,
che rifulgea da più di mille milia:
onde mei che
dinanzi vidi poi;
e quasi stupefatto domandai
d'un quarto lume ch'io vidi tra noi.
E la mia donna:
«Dentro da quei rai
vagheggia il suo fattor l'anima prima
che la prima virtù creasse mai».
Come la fronda
che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la soblima,
fec' io in
tanto in quant' ella diceva,
stupendo, e poi mi rifece sicuro
un disio di parlare ond' ïo ardeva.
E cominciai: «O
pomo che maturo
solo prodotto fosti, o padre antico
a cui ciascuna sposa è figlia e nuro,
divoto quanto
posso a te supplìco
perché mi parli: tu vedi mia voglia,
e per udirti tosto non la dico».
Talvolta un
animal coverto broglia,
sì che l'affetto convien che si paia
per lo seguir che face a lui la 'nvoglia;
e similmente
l'anima primaia
mi facea trasparer per la coverta
quant' ella a compiacermi venìa gaia.
Indi
spirò: «Sanz' essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
che tu qualunque cosa t'è più certa;
perch' io la
veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a l'altre cose,
e nulla face lui di sé pareglio.
Tu vuogli udir
quant' è che Dio mi puose
ne l'eccelso giardino, ove costei
a così lunga scala ti dispuose,
e quanto fu
diletto a li occhi miei,
e la propria cagion del gran disdegno,
e l'idïoma ch'usai e che fei.
Or, figliuol
mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.
Quindi onde
mosse tua donna Virgilio,
quattromilia trecento e due volumi
di sol desiderai questo concilio;
e vidi lui
tornare a tutt' i lumi
de la sua strada novecento trenta
fïate, mentre ch'ïo in terra fu'mi.
La lingua ch'io
parlai fu tutta spenta
innanzi che a l'ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo
effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale
è ch'uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v'abbella.
Pria ch'i'
scendessi a l'infernale ambascia,
I s'appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si
chiamò poi: e ciò convene,
ché l'uso d'i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.
Nel monte che
si leva più da l'onda,
fu' io, con vita pura e disonesta,
da la prim' ora a quella che seconda,
come 'l sol
muta quadra, l'ora sesta».
CANTO XXVII
[Canto XXVII, dove tratta sì come santo Pietro appostolo,
proverbiando li suoi successori papi, adempie l'animo de l'auttore di questo
libro.]
'Al Padre, al
Figlio, a lo Spirito Santo',
cominciò, 'gloria!', tutto 'l paradiso,
sì che m'inebrïava il dolce canto.
Ciò
ch'io vedeva mi sembiava un riso
de l'universo; per che mia ebbrezza
intrava per l'udire e per lo viso.
Oh gioia! oh
ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d'amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!
Dinanzi a li
occhi miei le quattro face
stavano accese, e quella che pria venne
incominciò a farsi più vivace,
e tal ne la
sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s'elli e Marte
fossero augelli e cambiassersi penne.
La provedenza,
che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte,
quand' ïo
udi': «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend' io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli ch'usurpa
in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt' ha del
cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde 'l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
Di quel color
che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid' ïo allora tutto 'l ciel cosperso.
E come donna
onesta che permane
di sé sicura, e per l'altrui fallanza,
pur ascoltando, timida si fane,
così
Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che 'n ciel fue
quando patì la supprema possanza.
Poi procedetter
le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
che la sembianza non si mutò piùe:
«Non fu la
sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d'oro usata;
ma per acquisto
d'esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra
intenzion ch'a destra mano
d'i nostri successor parte sedesse,
parte da l'altra del popol cristiano;
né che le
chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né ch'io fossi
figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond' io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di
pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue
nostro Caorsini e Guaschi
s'apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
Ma l'alta
provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com' io concipio;
e tu, figliuol,
che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch'io non ascondo».
Sì come
di vapor gelati fiocca
in giuso l'aere nostro, quando 'l corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù
vid' io così l'etera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.
Lo viso mio
seguiva i suoi sembianti,
e seguì fin che 'l mezzo, per lo molto,
li tolse il trapassar del più avanti.
Onde la donna,
che mi vide assolto
de l'attendere in sù, mi disse: «Adima
il viso e guarda come tu se' vòlto».
Da l'ora
ch'ïo avea guardato prima
i' vidi mosso me per tutto l'arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;
sì ch'io
vedea di là da Gade il varco
folle d'Ulisse, e di qua presso il lito
nel qual si fece Europa dolce carco.
E più mi
fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma 'l sol procedea
sotto i mie' piedi un segno e più partito.
La mente
innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o
arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,
tutte adunate,
parrebber nïente
ver' lo piacer divin che mi refulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.
E la
virtù che lo sguardo m'indulse,
del bel nido di Leda mi divelse,
e nel ciel velocissimo m'impulse.
Le parti sue
vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch'i' non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse.
Ma ella, che
vedëa 'l mio disire,
incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire:
«La natura del mondo,
che quïeta
il mezzo e tutto l'altro intorno move,
quinci comincia come da sua meta;
e questo cielo
non ha altro dove
che la mente divina, in che s'accende
l'amor che 'l volge e la virtù ch'ei piove.
Luce e amor
d'un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che 'l cinge solamente intende.
Non è
suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;
e come il tempo
tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.
Oh cupidigia,
che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!
Ben fiorisce ne
li uomini il volere;
ma la pioggia continüa converte
in bozzacchioni le sosine vere.
Fede e
innocenza son reperte
solo ne' parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.
Tale,
balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;
e tal,
balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
disïa poi di vederla sepolta.
Così si
fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto de la bella figlia
di quel ch'apporta mane e lascia sera.
Tu, perché non
ti facci maraviglia,
pensa che 'n terra non è chi governi;
onde sì svïa l'umana famiglia.
Ma prima che
gennaio tutto si sverni
per la centesma ch'è là giù negletta,
raggeran sì questi cerchi superni,
che la fortuna
che tanto s'aspetta,
le poppe volgerà u' son le prore,
sì che la classe correrà diretta;
e vero frutto
verrà dopo 'l fiore».
CANTO XXVIII
[Canto XXVIII, nel quale Beatrice distingue a l'auttore li nove
ordini de li angeli gloriosi che sono nel nono cielo e il loro offizio.]
Poscia che
'ncontro a la vita presente
d'i miseri mortali aperse 'l vero
quella che 'mparadisa la mia mente,
come in lo
specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n'alluma retro,
prima che l'abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge
per veder se 'l vetro
li dice il vero, e vede ch'el s'accorda
con esso come nota con suo metro;
così la
mia memoria si ricorda
ch'io feci riguardando ne' belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
E com' io mi
rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s'adocchi,
un punto vidi
che raggiava lume
acuto sì, che 'l viso ch'elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella
par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.
Forse cotanto
quanto pare appresso
alo cigner la luce che 'l dipigne
quando 'l vapor che 'l porta più è spesso,
distante
intorno al punto un cerchio d'igne
si girava sì ratto, ch'avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era
d'un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e 'l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva
il settimo sì sparto
già di larghezza, che 'l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così
l'ottavo e 'l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch'era
in numero distante più da l'uno;
e quello avea
la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s'invera.
La donna mia,
che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.
Mira quel
cerchio che più li è congiunto;
e sappi che 'l suo muovere è sì tosto
per l'affocato amore ond' elli è punto».
E io a lei: «Se
'l mondo fosse posto
con l'ordine ch'io veggio in quelle rote,
sazio m'avrebbe ciò che m'è proposto;
ma nel mondo
sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant' elle son dal centro più remote.
Onde, se 'l mio
disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,
udir convienmi
ancor come l'essemplo
e l'essemplare non vanno d'un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo».
«Se li tuoi
diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
Così la
donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch'io ti dicerò, se vuo' saziarti;
e intorno da esso t'assottiglia.
Li cerchi
corporai sono ampi e arti
secondo il più e 'l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti.
Maggior
bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s'elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui
che tutto quanto rape
l'altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu
a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t'appaion tonde,
tu vederai
mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza».
Come rimane
splendido e sereno
l'emisperio de l'aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond' è più leno,
per che si
purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che 'l ciel ne ride
con le bellezze d'ogne sua paroffia;
così
fec'ïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide.
E poi che le
parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L'incendio suo
seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che 'l numero loro
più che 'l doppiar de li scacchi s'inmilla.
Io sentiva
osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne' quai sempre fuoro.
E quella che
vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t'hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così
veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri
amori che 'ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che 'l primo ternaro terminonno;
e dei saper che
tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si
può veder come si fonda
l'esser beato ne l'atto che vede,
non in quel ch'ama, che poscia seconda;
e del vedere
è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L'altro
ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente
'Osanna' sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s'interna.
In essa
gerarcia son l'altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l'ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne' due
penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l'ultimo è tutto d'Angelici ludi.
Questi ordini
di sù tutti s'ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio
con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com' io.
Ma Gregorio da
lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto
secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch'ammiri:
ché chi 'l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai
del ver di questi giri».
CANTO XXIX
[Canto XXIX, ove si tratta de la superbia e cacciamento de li rei
e malvagi angeli e de la dilezione e gloria de' buoni; e infine si riprende
tutti coloro che predicando si partono dal santo Evangelio e dicono favole; e
contiencisi in questo canto certe declaragioni di certe oscuritadi del
celestiale regno.]
Quando ambedue
li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l'orizzonte insieme zona,
quant' è
dal punto che 'l cenìt inlibra
infin che l'uno e l'altro da quel cinto,
cambiando l'emisperio, si dilibra,
tanto, col
volto di riso dipinto,
si tacque Bëatrice, riguardando
fiso nel punto che m'avëa vinto.
Poi
cominciò: «Io dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir, perch' io l'ho visto
là 've s'appunta ogne ubi e ogne quando.
Non per aver a
sé di bene acquisto,
ch'esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir "Subsisto",
in sua
etternità di tempo fore,
fuor d'ogne altro comprender, come i piacque,
s'aperse in nuovi amor l'etterno amore.
Né prima quasi
torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest' acque.
Forma e
materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d'arco tricordo tre saette.
E come in
vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l'esser tutto non è intervallo,
così 'l
triforme effetto del suo sire
ne l'esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu
ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza tenne
la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima.
Ieronimo vi
scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
anzi che l'altro mondo fosse fatto;
ma questo vero
è scritto in molti lati
da li scrittor de lo Spirito Santo,
e tu te n'avvedrai se bene agguati;
e anche la
ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che ' motori
sanza sua perfezion fosser cotanto.
Or sai tu dove
e quando questi amori
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disïo già son tre ardori.
Né giugneriesi,
numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d'i vostri alimenti.
L'altra rimase,
e cominciò quest' arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circüir non si diparte.
Principio del
cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.
Quelli che vedi
qui furon modesti
a riconoscer sé da la bontate
che li avea fatti a tanto intender presti:
per che le
viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto,
sì c'hanno ferma e piena volontate;
e non voglio
che dubbi, ma sia certo,
che ricever la grazia è meritorio
secondo che l'affetto l'è aperto.
Omai dintorno a
questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz' altro aiutorio.
Ma perché 'n
terra per le vostre scole
si legge che l'angelica natura
è tal, che 'ntende e si ricorda e vole,
ancor
dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste
sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:
però non
hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che
là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma ne l'uno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate
giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l'amor de l'apparenza e 'l suo pensiero!
E ancor questo
qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
la divina Scrittura o quando è torta.
Non vi si pensa
quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
chi umilmente con essa s'accosta.
Per apparer
ciascun s'ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da' predicanti e 'l Vangelio si tace.
Un dice che la
luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s'interpuose,
per che 'l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la
luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l'Indi
come a' Giudei tale eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza
tanti Lapi e Bindi
quante sì fatte favole per anno
in pergamo si gridan quinci e quindi:
sì che
le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento,
e non le scusa non veder lo danno.
Non disse
Cristo al suo primo convento:
'Andate, e predicate al mondo ciance';
ma diede lor verace fondamento;
e quel tanto
sonò ne le sue guance,
sì ch'a pugnar per accender la fede
de l'Evangelio fero scudo e lance.
Ora si va con
motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Ma tale uccel
nel becchetto s'annida,
che se 'l vulgo il vedesse, vederebbe
la perdonanza di ch'el si confida:
per cui tanta
stoltezza in terra crebbe,
che, sanza prova d'alcun testimonio,
ad ogne promession si correrebbe.
Di questo
ingrassa il porco sant' Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
Ma perché siam
digressi assai, ritorci
li occhi oramai verso la dritta strada,
sì che la via col tempo si raccorci.
Questa natura
sì oltre s'ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi
quel che si revela
per Danïel, vedrai che 'n sue migliaia
determinato numero si cela.
La prima luce,
che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
quanti son li splendori a chi s'appaia.
Onde,
però che a l'atto che concepe
segue l'affetto, d'amar la dolcezza
diversamente in essa ferve e tepe.
Vedi l'eccelso
omai e la larghezza
de l'etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s'ha in che si spezza,
uno manendo in
sé come davanti».
CANTO XXX
[Canto XXX, ove narra come l'auttore vidde per conducimento di
Beatrice li splendori de la divinità e le seggie de l'anime de li
uomini, tra le quali vide già collocata quella de lo imperadore Arrigo
di Lunzimborgo con la sua corona.]
Forse semilia
miglia di lontano
ci ferve l'ora sesta, e questo mondo
china già l'ombra quasi al letto piano,
quando 'l mezzo
del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch'alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la
chiarissima ancella
del sol più oltre, così 'l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti
il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch'elli 'nchiude,
a poco a poco
al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto
infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza
ch'io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo
vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole
in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo
giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien
che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io
la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l'ardüa sua matera terminando,
con atto e voce
di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch'è pura luce:
luce
intellettüal, piena d'amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai
l'una e l'altra milizia
di paradiso, e l'una in quelli aspetti
che tu vedrai a l'ultima giustizia».
Come
sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l'atto l'occhio di più forti obietti,
così mi
circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m'appariva.
«Sempre l'amor
che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur
più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch'io compresi
me sormontar di sopr' a mia virtute;
e di novella
vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in
forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana
uscian faville vive,
e d'ogne parte si mettien ne' fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come
inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s'una intrava, un'altra n'uscia fori.
«L'alto disio
che mo t'infiamma e urge,
d'aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest'
acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche
soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch'entrano ed escono e 'l rider de l'erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé
sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è
fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l'usanza sua,
come fec' io,
per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l'onda
che si deriva perché vi s'immegli;
e sì
come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente
stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi
si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch'io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di
Dio, per cu' io vidi
l'alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com' ïo il vidi!
Lume è
là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E' si distende
in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio
tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in
acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne' fioretti opimo,
sì,
soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l'infimo
grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l'estreme foglie!
La vista mia ne
l'ampio e ne l'altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e 'l quale di quella allegrezza.
Presso e
lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de
la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è
colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è 'l convento de le bianche stole!
Vedi nostra
città quant' ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E 'n quel gran
seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v'è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà
l'alma, che fia giù agosta,
de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca
cupidigia che v'ammalia
simili fatti v'ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto
nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi
sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch'el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà
quel d'Alagna intrar più giuso».
CANTO XXXI
[Canto XXXI, il
quale tratta come l'auttore fue lasciato da Beatrice e trovò Santo
Bernardo, per lo cui conducimento rivide Beatrice ne la sua gloria; poi pone
una orazione che Dante fece a Beatrice che pregasse per lui lo nostro Segnore
Iddio e la nostra Donna sua Madre; e come vide la Divina Maestà.]
In forma dunque
di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l'altra, che
volando vede e canta
la gloria di colui che la 'nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come
schiera d'ape che s'infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s'insapora,
nel gran fior
discendeva che s'addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove 'l süo amor sempre soggiorna.
Le facce tutte
avean di fiamma viva
e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco,
che nulla neve a quel termine arriva.
Quando scendean
nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l'ardore
ch'elli acquistavan ventilando il fianco.
Né l'interporsi
tra 'l disopra e 'l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore:
ché la luce
divina è penetrante
per l'universo secondo ch'è degno,
sì che nulla le puote essere ostante.
Questo sicuro e
gaudïoso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno.
Oh trina luce
che 'n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
guarda qua giuso a la nostra procella!
Se i barbari, venendo
da tal plaga
che ciascun giorno d'Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond' ella è vaga,
veggendo Roma e
l'ardüa sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;
ïo, che al
divino da l'umano,
a l'etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
di che stupor
dovea esser compiuto!
Certo tra esso e 'l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto.
E quasi
peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com' ello stea,
su per la viva
luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
mo sù, mo giù e mo recirculando.
Vedëa visi a
carità süadi,
d'altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi.
La forma
general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgeami con
voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e
altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per
li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov' è
ella?», sùbito diss' io.
Ond' elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi
sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza
risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella
regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s'abbandona,
quanto
lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui
la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose
quant' i' ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m'hai di
servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt' i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua
magnificenza in me custodi,
sì che l'anima mia, che fatt' hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così
orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l'etterna fontana.
E 'l santo
sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi,
vola con li occhi
per questo giardino;
ché veder lui t'acconcerà lo sguardo
più al montar per lo raggio divino.
E la regina del
cielo, ond' ïo ardo
tutto d'amor, ne farà ogne grazia,
però ch'i' sono il suo fedel Bernardo».
Qual è
colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l'antica fame non sen sazia,
ma dice nel
pensier, fin che si mostra:
'Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?';
tal era io
mirando la vivace
carità di colui che 'n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
«Figliuol di
grazia, quest' esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur qua giù al fondo;
ma guarda i
cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
cui questo regno è suddito e devoto».
Io levai li
occhi; e come da mattina
la parte orïental de l'orizzonte
soverchia quella dove 'l sol declina,
così,
quasi di valle andando a monte
con li occhi, vidi parte ne lo stremo
vincer di lume tutta l'altra fronte.
E come quivi
ove s'aspetta il temo
che mal guidò Fetonte, più s'infiamma,
e quinci e quindi il lume si fa scemo,
così
quella pacifica oriafiamma
nel mezzo s'avvivava, e d'ogne parte
per igual modo allentava la fiamma;
e a quel mezzo,
con le penne sparte,
vid' io più di mille angeli festanti,
ciascun distinto di fulgore e d'arte.
Vidi a lor
giochi quivi e a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi;
e s'io avessi
in dir tanta divizia
quanta ad imaginar, non ardirei
lo minimo tentar di sua delizia.
Bernardo, come
vide li occhi miei
nel caldo suo caler fissi e attenti,
li suoi con tanto affetto volse a lei,
che ' miei di
rimirar fé più ardenti.
CANTO XXXII
[Canto XXXII, ove tratta come santo Bernardo mostrò a Dante
ordinatamente li luoghi de' beati del Vecchio e del Nuovo Testamento; e come a
la voce de l'Arcangelo Gabriello laudavano nostra Madonna, cioè la
Virgine Maria.]
Affetto al suo
piacer, quel contemplante
libero officio di dottore assunse,
e cominciò queste parole sante:
«La piaga che
Maria richiuse e unse,
quella ch'è tanto bella da' suoi piedi
è colei che l'aperse e che la punse.
Ne l'ordine che
fanno i terzi sedi,
siede Rachel di sotto da costei
con Bëatrice, sì come tu vedi.
Sarra e
Rebecca, Iudìt e colei
che fu bisava al cantor che per doglia
del fallo disse 'Miserere mei',
puoi tu veder
così di soglia in soglia
giù digradar, com' io ch'a proprio nome
vo per la rosa giù di foglia in foglia.
E dal settimo grado
in giù, sì come
infino ad esso, succedono Ebree,
dirimendo del fior tutte le chiome;
perché, secondo
lo sguardo che fée
la fede in Cristo, queste sono il muro
a che si parton le sacre scalee.
Da questa parte
onde 'l fiore è maturo
di tutte le sue foglie, sono assisi
quei che credettero in Cristo venturo;
da l'altra
parte onde sono intercisi
di vòti i semicirculi, si stanno
quei ch'a Cristo venuto ebber li visi.
E come quinci
il glorïoso scanno
de la donna del cielo e li altri scanni
di sotto lui cotanta cerna fanno,
così di
contra quel del gran Giovanni,
che sempre santo 'l diserto e 'l martiro
sofferse, e poi l'inferno da due anni;
e sotto lui
così cerner sortiro
Francesco, Benedetto e Augustino
e altri fin qua giù di giro in giro.
Or mira l'alto
proveder divino:
ché l'uno e l'altro aspetto de la fede
igualmente empierà questo giardino.
E sappi che dal
grado in giù che fiede
a mezzo il tratto le due discrezioni,
per nullo proprio merito si siede,
ma per
l'altrui, con certe condizioni:
ché tutti questi son spiriti asciolti
prima ch'avesser vere elezïoni.
Ben te ne puoi
accorger per li volti
e anche per le voci püerili,
se tu li guardi bene e se li ascolti.
Or dubbi tu e
dubitando sili;
ma io discioglierò 'l forte legame
in che ti stringon li pensier sottili.
Dentro a
l'ampiezza di questo reame
casüal punto non puote aver sito,
se non come tristizia o sete o fame:
ché per etterna
legge è stabilito
quantunque vedi, sì che giustamente
ci si risponde da l'anello al dito;
e però
questa festinata gente
a vera vita non è sine causa
intra sé qui più e meno eccellente.
Lo rege per cui
questo regno pausa
in tanto amore e in tanto diletto,
che nulla volontà è di più ausa,
le menti tutte
nel suo lieto aspetto
creando, a suo piacer di grazia dota
diversamente; e qui basti l'effetto.
E ciò
espresso e chiaro vi si nota
ne la Scrittura santa in quei gemelli
che ne la madre ebber l'ira commota.
Però,
secondo il color d'i capelli,
di cotal grazia l'altissimo lume
degnamente convien che s'incappelli.
Dunque, sanza
mercé di lor costume,
locati son per gradi differenti,
sol differendo nel primiero acume.
Bastavasi ne'
secoli recenti
con l'innocenza, per aver salute,
solamente la fede d'i parenti;
poi che le
prime etadi fuor compiute,
convenne ai maschi a l'innocenti penne
per circuncidere acquistar virtute;
ma poi che 'l
tempo de la grazia venne,
sanza battesmo perfetto di Cristo
tale innocenza là giù si ritenne.
Riguarda omai
ne la faccia che a Cristo
più si somiglia, ché la sua chiarezza
sola ti può disporre a veder Cristo».
Io vidi sopra
lei tanta allegrezza
piover, portata ne le menti sante
create a trasvolar per quella altezza,
che quantunque
io avea visto davante,
di tanta ammirazion non mi sospese,
né mi mostrò di Dio tanto sembiante;
e quello amor che
primo lì discese,
cantando 'Ave, Maria, gratïa plena',
dinanzi a lei le sue ali distese.
Rispuose a la
divina cantilena
da tutte parti la beata corte,
sì ch'ogne vista sen fé più serena.
«O santo padre,
che per me comporte
l'esser qua giù, lasciando il dolce loco
nel qual tu siedi per etterna sorte,
qual è
quell' angel che con tanto gioco
guarda ne li occhi la nostra regina,
innamorato sì che par di foco?».
Così
ricorsi ancora a la dottrina
di colui ch'abbelliva di Maria,
come del sole stella mattutina.
Ed elli a me:
«Baldezza e leggiadria
quant' esser puote in angelo e in alma,
tutta è in lui; e sì volem che sia,
perch' elli
è quelli che portò la palma
giuso a Maria, quando 'l Figliuol di Dio
carcar si volse de la nostra salma.
Ma vieni omai
con li occhi sì com' io
andrò parlando, e nota i gran patrici
di questo imperio giustissimo e pio.
Quei due che
seggon là sù più felici
per esser propinquissimi ad Agusta,
son d'esta rosa quasi due radici:
colui che da
sinistra le s'aggiusta
è il padre per lo cui ardito gusto
l'umana specie tanto amaro gusta;
dal destro vedi
quel padre vetusto
di Santa Chiesa a cui Cristo le chiavi
raccomandò di questo fior venusto.
E quei che vide
tutti i tempi gravi,
pria che morisse, de la bella sposa
che s'acquistò con la lancia e coi clavi,
siede lungh'
esso, e lungo l'altro posa
quel duca sotto cui visse di manna
la gente ingrata, mobile e retrosa.
Di contr' a
Pietro vedi sedere Anna,
tanto contenta di mirar sua figlia,
che non move occhio per cantare osanna;
e contro al
maggior padre di famiglia
siede Lucia, che mosse la tua donna
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
Ma perché 'l
tempo fugge che t'assonna,
qui farem punto, come buon sartore
che com' elli ha del panno fa la gonna;
e drizzeremo li
occhi al primo amore,
sì che, guardando verso lui, penètri
quant' è possibil per lo suo fulgore.
Veramente, ne
forse tu t'arretri
movendo l'ali tue, credendo oltrarti,
orando grazia conven che s'impetri
grazia da
quella che puote aiutarti;
e tu mi seguirai con l'affezione,
sì che dal dicer mio lo cor non parti».
E
cominciò questa santa orazione:
CANTO XXXIII
[Canto XXXIII, il quale è l'ultimo de la terza cantica e
ultima; nel quale canto santo Bernardo in figura de l'auttore fa una orazione a
la Vergine Maria, pregandola che sé e la Divina Maestade si lasci vedere
visibilemente.]
«Vergine Madre,
figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,
tu se' colei
che l'umana natura
nobilitasti sì, che 'l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo
si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se' a noi
meridïana face
di caritate, e giuso, intra ' mortali,
se' di speranza fontana vivace.
Donna, se'
tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz' ali.
La tua
benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te
misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s'aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che
da l'infima lacuna
de l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te,
per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l'ultima salute.
E io, che mai
per mio veder non arsi
più ch'i' fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne
nube li disleghi
di sua mortalità co' prieghi tuoi,
sì che 'l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti
priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua
guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio
diletti e venerati,
fissi ne l'orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a
l'etterno lume s'addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s'invii
per creatura l'occhio tanto chiaro.
E io ch'al fine
di tutt' i disii
appropinquava, sì com' io dovea,
l'ardor del desiderio in me finii.
Bernardo
m'accennava, e sorridea,
perch' io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia
vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l'alta luce che da sé è vera.
Da quinci
innanzi il mio veder fu maggio
che 'l parlar mostra, ch'a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è
colüi che sognando vede,
che dopo 'l sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,
cotal son io,
ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la
neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce
che tanto ti levi
da' concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua
mia tanto possente,
ch'una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per
tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per
l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E' mi ricorda
ch'io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch'i' giunsi
l'aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante
grazia ond' io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo
profondo vidi che s'interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l'universo si squaderna:
sustanze e
accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch'i' dico è un semplice lume.
La forma
universal di questo nodo
credo ch'i' vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch'i' godo.
Un punto solo
m'è maggior letargo
che venticinque secoli a la 'mpresa
che fé Nettuno ammirar l'ombra d'Argo.
Così la
mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce
cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che
'l ben, ch'è del volere obietto,
tutto s'accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch'è lì perfetto.
Omai
sarà più corta mia favella,
pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché
più ch'un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch'io mirava,
che tal è sempre qual s'era davante;
ma per la vista
che s'avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom' io, a me si travagliava.
Ne la profonda
e chiara sussistenza
de l'alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d'una contenenza;
e l'un da
l'altro come iri da iri
parea reflesso, e 'l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto
è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch'i' vidi,
è tanto, che non basta a dicer 'poco'.
O luce etterna
che sola in te sidi,
sola t'intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella
circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé,
del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è
'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond' elli indige,
tal era io a
quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;
ma non eran da
ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l'alta
fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e 'l velle,
sì come rota ch'igualmente è mossa,
l'amor che move
il sole e l'altre stelle.
[Explicit Liber Comedie Dantis Alagherii
de Florentia]