PRIVILEGIA NE IRROGANTO di
Mauro Novelli
BIBLIOTECA
Vincenzo Cuoco
SAGGIO STORICO
SULLA
RIVOLUZIONE DI NAPOLI
SECONDA EDIZIONE
CON AGGIUNTE DELL'AUTORE
1806
Caedo
cur vestram rempublicam tantam perdidistis tam cito?
POMPONIO
ATTICO, presso CICERONE, De senectute.
PREFAZIONE
ALLA SECONDA
EDIZIONE
Quando questo Saggio
fu pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul medesimo furon
molti e diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del
quale l'autore ha professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori. Il
tempo però ed il maggior numero han resa giustizia, non al mio ingegno
né alla mia dottrina (ché né quello né questa abbondavano nel mio libro), ma
alla imparzialitá ed alla sinceritá colla quale io avea in esso narrati
avvenimenti che per me non eran stati al certo indifferenti.
Della prima
edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e, ad onta delle molte
richieste che ne avea, io avrei ancora differita per qualche altro tempo la
seconda, se alcuni, che han tentato ristamparla senza il mio assentimento, non
mi avessero costretto ad accelerarla.
Dopo la prima
edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha pronunziati, ed ho cercato,
per quanto era in me, di usarne per rendere il mio libro quanto piú si potesse
migliore.
Alcuni
avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá io non nego che
nella prima edizione alcuni fatti ho omessi, perché li ignorava; altri ho
taciuti, perché ho creduto prudente il tacerli; altri ho trasandati, perché li
reputava poco importanti; altri finalmente ho appena accennati. Ho composto il
mio libro senza aver altra guida che la mia memoria: era impossibile saper
tutti gl'infiniti accidenti di una rivoluzione, e tutti rammentarli. Molti de'
medesimi ho saputi posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a quelli
che giá avea narrati. Ad onta però di tutte le aggiunzioni fatte, io ben
mi avveggo che coloro, i quali desideravano maggior numero di fatti nella prima
edizione, ne desidereranno ancora in questa seconda. Ma il mio disegno non
è stato mai quello di scriver la storia della rivoluzione di Napoli,
molto meno una leggenda. Gli avvenimenti di una rivoluzione sono infiniti di
numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono contemporaneamente infiniti
uomini? Ma, per questa stessa ragione, è impossibile che tra tanti
avvenimenti non vi sieno molti poco importanti e molti altri che si
rassomiglian tra loro. I primi li ho trascurati, i secondi li ho riuniti sotto
le rispettive loro classi. Piú che delle persone, mi sono occupato delle cose e
delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse desideravano
esser nominati; è piaciuto a moltissimi, che amavano di non esserlo. I
nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è nominato che
all'istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere
e dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è
tale, quale i tempi, le idee, i costumi, gli accidenti voglion che sia: quando
avete ben descritti questi, a che giova nominar gli uomini? Io sono fermamente
convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di
sostituire ai nomi propri delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne
ritrarrebbe, sarebbe la medesima. Finalmente, nella considerazione e nella
narrazione degli avvenimenti, mi sono piú occupato degli effetti e delle
cagioni delle cose che di que' piccioli accidenti che non sono né effetti né
cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli
forniscono il modo di poter usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a
riflettere.
Dopo tali
osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad aggiugnere eran in
minor numero di quello che si crede. Ragionando con molti di coloro i quali
avrebbero desiderati piú fatti, spesso mi sono avveduto che ciò che essi
desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi desideravano nomi, dettagli,
ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione distrarrò
io l'attenzione del lettore tra un numero infinito d'inezie e lo
distoglierò da quello ch'io reputo vero scopo di ogni istoria, dalla
osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un momento solo,
ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il
nome di «storia»; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di
scriverne. Ma è forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia
una storia?
Una censura mi
fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome essa nasceva da un
equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con quell'avvertimento che,
nella prima edizione, leggesi al principio del secondo volume, e che ora
inserisco qui:
Tutte le volte
che in quest'opera si parla di «nome», di «opinione», di «grado», s'intende
sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul
popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle
controrivoluzioni.
Taluni, per non
aver fatta questa riflessione, hanno creduto che, quando nel primo tomo, pagina
34, io parlo di coloro che furono perseguitati dall'inquisizione di Stato, e li
chiamo «giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna», abbia voluto
dichiararli persone di niun merito, quasi della feccia del popolo, che
desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era
contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte si ripete che in
Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna; che niuna
nazione conta tanti che bramassero una riforma per solo amor della patria; che
in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú de'
repubblicani... Nell'istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano
sparsi in Napoli piú che altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli,
sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi
repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle
province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché
l'eccesso istesso de' lumi, che superava l'esperienza dell'etá, faceva lor
credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il
popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre
senza il popolo una rivoluzione; e questo appunto è quello che rende
inescusabile la tirannica persecuzione destata contro di loro.
Chi legge con
attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non
ho fatto che riferire quello che allora disse in difesa de' repubblicani il
rispettabile presidente del Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano
dall'ignorare le persone o dal volerle offendere.
Sarebbe
stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli...
fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era
il popolo napoletano, si richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa
somma si può dir, senza far loro alcun torto, che essi non l'aveano. La
ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia
trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un
miserabile sovrano.
Si può
occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a
produrre una rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima
magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un reggente di Vicaria, molto
inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore al
reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.
Lo stesso si
dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna,
Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti fossero
uomini senza nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali a produr la
rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era necessario, ed
a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de'
lazzaroni del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma
intanto Paggio, e non Pagano, era l'uomo del popolo, il quale bestemmia sempre
tutto ciò che ignora.
Credo superfluo
poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i miei; ma è necessario
ricordare che, in un'opera destinata alla veritá ed all'istruzione, è
necessario riferire tanto i giudizi miei quanto quelli del popolo. Ciascuno
sará al suo luogo: è necessario saperli distinguere e riconoscere; e
perciò è necessario aver la pazienza di leggere l'opera intera, e
non giudicarne da tratti separati.
Questo Saggio
è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il
quale, senza che ne conoscesse l'autore credette il libro degno degli studi
suoi: piú grato gli sono, perché lo ha tradotto in modo da farlo apparir degno
dell'approvazione de' letterati di Germania; de' favorevoli giudizi de' quali
io andrei superbo, se non sapessi che si debbono in grandissima parte ai nuovi
pregi che al mio libro ha saputo dare l'elegante traduttore. Pure, tra gli
elogi che il libro ha ottenuti, non è mancata qualche censura, ed una,
tra le altre, scritta collo stile di un cavalier errante che unisce la ragione
alla spada, leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato: La
Minerva. L'articolo è sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io
non conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo istesso valentissimo
scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto egualmente a sostener contro di
me colla penna e colla spada che il signor barone di Mack sia un eccellente
condottiero di armata, ad onta che nel mio libro io avessi tentato di far
credere il contrario. In veritá, io dichiaro che valuto pochissimo i talenti
militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio Saggio, avea
presenti al mio pensiero la campagna di Napoli e la seconda campagna delle
Fiandre, ambedue dirette da Mack: vedeva nell'una e nell'altra gli stessi
rovesci e le stesse cagioni di rovesci; e credei poter ragionevolmente
conchiudere che la colpa fosse del generale. Ciò che è effetto di
sola fortuna non si ripete con tanta simiglianza due volte. Quando poi pervenne
in Milano l'articolo del signor Dietrikstein, era giá aperta l'ultima campagna.
L'amico, che mi comunicò l'articolo, avrebbe desiderato che io avessi
fatta qualche risposta. Ma, due giorni appresso, il cannone della piazza
annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all'amico l'articolo, e vi
scrissi a' piè della pagina: «La risposta è fatta».
Questo mio
libro non deve esser considerato come una storia, ma bensí come una raccolta di
osservazioni sulla storia. Gli avvenimenti posteriori han dimostrato che io ho
osservato con imparzialitá e non senza qualche acume. Gran parte delle cose che
io avea previste si sono avverate; l'esperimento delle cose posteriori ha
confermati i giudizi che avea pronunziati sulle antecedenti. Mentre quasi tutta
l'Europa teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io il primo, ho
vendicato l'onor della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui
sofferte nelle sue campagne non eran tanto effetto di fortuna quanto
d'ignoranza. Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi era in
tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt'i
tentativi de' collegati dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte
le vittorie che avessero potuto ottenere; e tutto ciò perché le vittorie
consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si perdono
inutilmente se son prive di consiglio, né vi è consiglio ove o non vi
è scopo o lo scopo è tale che non possa ottenersi.
Desidero che
chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti de' quali nel medesimo si
parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverá che spesso il
giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di
questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie
osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi errori: sempre
lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa alternativa di speranze e
di timore, e quella sempre temeraria, questo sempre precipitoso; moltissima
fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e perciò nessuna cura
delle forze proprie; non mai un'operazione ben concertata; nella prima lega, il
trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di ogni
ragione e di ogni opportunitá; nella seconda, l'invasione dello Stato
pontificio fatta prima che l'Austria pensasse a mover le sue armate, le
operazioni del picciolo corpo che Damas comandava in Arezzo incominciate quando
le forze austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato
segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché si pensava di
infrangerlo; i russi e gl'inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era
stata decisa in Austerlitz; l'inutile macchia di traditore, e l'inopportunitá
del tradimento, e l'obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni di
uomini divenire, per colpa de' suoi ministri, quasi il fattore degl'inglesi e
cedere il comando delle sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un
generale russo. Ricercate le cagioni di tutti questi avvenimenti, e trovate
esser sempre le stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere
dall'Inghilterra, ove avea messe in serbo le sue ricchezze; l'ignoranza delle
forze della propria nazione, la nessuna cura di migliorare la di lei sorte, di
ridestare negli animi degli abitanti l'amor della patria, della milizia e della
gloria; lo stato di violenza che naturalmente dovea sorgere da quella specie di
lotta, che era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un
ministro straniero che volea tenerlo nella miseria e nell'oppressione; la
diffidenza che questo stesso ministro avea ispirata nell'animo de' sovrani
contro la sua nazione; tutto insomma quello che io avea predetto, dicendo che
la condotta di quel gabinetto avrebbe finalmente perduto un'altra volta, ed
irreparabilmente, il Regno.
Avrei potuto
aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella degli avvenimenti
posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione a' tempi ne' quali
avrò piú ozio e maggior facilitá di istruirmene io stesso, ritornato che
sarò nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso
sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto cangiare al
libro che avea pubblicato nel 1800. Quando io componeva quel libro, il gran
Napoleone era appena ritornato dall'Egitto; quando si stampava, egli avea
appena prese le redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima
impresa di ricomporre le idee e gli ordini della Francia e dell'Europa. Ma io
ho il vanto di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente
ha fatte; ed, in tempi ne' quali tutt'i princípi erano esagerati, ho il vanto
di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è
compagna inseparabile della sapienza e della giustizia, e che si può
dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo
grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl'iddii han
data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di
moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritte al
mio amico Russo sul progetto di costituzione composto dall'illustre e
sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come un
monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quegli ordini che allora
credevansi costituzionali non eran che anarchici. La Francia non ha
incominciato ad aver ordine, l'Italia non ha incominciato ad aver vita, se non
dopo Napoleone; e, tra li tanti benefíci che egli all'Italia ha fatti, non
è l'ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia
patria Giuseppe.
Lettera dell'autore a N.Q.
Quando io
incominciai ad occuparmi della storia della rivoluzione di Napoli, non ebbi
altro scopo che quello di raddolcire l'ozio e la noia dell'emigrazione.
È dolce cosa rammentar nel porto le tempeste passate. Io avea ottenuto
il mio intento; né avrei pensato ad altro, se tu e gli altri amici, ai quali io
lessi il manoscritto, non aveste creduto che esso potesse esser utile a qualche
altro oggetto.
Come va il
mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i
francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e
dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva piú a
lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima
parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha
fatto sí che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo,
seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che
quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. «Tutto è
concatenato nel mondo», diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio!
In altri tempi non
avrei permesso certamente che l'opera mia vedesse la luce. Fino a ier l'altro,
invece di princípi, non abbiamo avuto che l'esaltazione
de' princípi; cercavamo la libertá e non avevamo che sètte.
Uomini, non tanto amici della libertá quanto nemici dell'ordine inventavano una
parola per fondare una setta, e si proclamavan capi di una setta per aver
diritto di distruggere chiunque seguisse una setta diversa. Quegli uomini, ai
quali l'Europa rimprovererá eternamente la morte di Vergniaud, di Condorcet, di
Lavoisier e di Bailly; quegli uomini, che riunirono entro lo stesso tempio alle
ceneri di Rousseau e di Voltaire quelle di Marat e ricusarono di raccogliervi
quelle di Montesquieu, non erano certamente gli uomini da' quali l'Europa
sperar poteva la sua felicitá.
Un nuovo ordine di
cose ci promette maggiori e piú durevoli beni. Ma credi tu che l'oscuro autore
di un libro possa mai produrre la felicitá umana? In qualunque ordine di cose,
le idee del vero rimangono sempre sterili o generan solo qualche inutile
desiderio negli animi degli uomini dabbene, se accolte e protette non vengano
da coloro ai quali è affidato il freno delle cose mortali.
Se io potessi
parlare a colui a cui questo nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblio ed il
disprezzo appunto di tali idee fece sí che la nuova sorte, che la sua mano e la
sua mente avean data all'Italia, quasi divenisse per costei, nella di lui
lontananza, sorte di desolazione, di ruina e di morte, se egli stesso non
ritornava a salvarla.
- Un uomo - gli
direi, - che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto
il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ali de' venti, simile alla
folgore, ha dissipati, dispersi, atterriti coloro che eransi uniti a perdere
quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha
fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare per il
bene dell'umanitá. Dopo aver infrante le catene all'Italia, ti rimane ancora a
renderle la libertá cara e sicura, onde né per negligenza perda né per forza le
sia rapito il tuo dono. Che se la mia patria, come piccolissima parte di quel
grande insieme di cui si occupano i tuoi pensieri, è destino che debba
pur servire all'ordine generale delle cose, e se è scritto ne' fati di
non poter avere tutti quei beni che essa spera, abbia almeno per te
alleviamento a quei tanti mali onde ora è oppressa! Tu vedi, sotto il
piú dolce cielo e nel piú fertile suolo dell'Europa, la giustizia divenuta
istrumento dell'ambizione di un ministro scellerato, il dritto delle genti
conculcato, il nome francese vilipeso, un'orribile carneficina d'innocenti
ch'espiano colla morte e tra tormenti le colpe non loro; e, nel momento istesso
in cui ti parlo, diecimila gemono ancora ed invocano, se non un liberatore,
almeno un intercessore potente.
Un grande uomo
dell'antichitá che tu eguagli per cuore e vinci per mente, uno che, come te,
prima vinse i nemici della patria e poscia riordinò quella patria per la
quale avea vinto, Gerone di Siracusa, per prezzo della vittoria riportata sopra
i cartaginesi, impose loro l'obbligo di non ammazzare piú i propri figli. Egli allora stipulò per lo genere umano.
Se tu ti contenti
della sola gloria di conquistatore, mille altri troverai, i quali han fatto, al
pari di te, tacere la terra al loro cospetto; ma, se a questa gloria vorrai
aggiungere anche quella di fondatore di saggi governi e di ordinatore di
popoli, allora l'umanitá riconoscente ti assegnerá, nella memoria de' posteri,
un luogo nel quale avrai pochissimi rivali o nessuno.
L'adulazione
rammenta ai potenti quelle virtú de' loro maggiori, che essi non sanno piú
imitare; la filosofia rammenta ai grandi uomini le virtú proprie, perché
proseguano sempre piú costanti nella magnanima loro impresa...
NB. Ogni
volta che si parlerá di moneta di Napoli, il conto s'intenda sempre in ducati:
ogni ducato corrisponde a quattro lire di Francia.
1
INTRODUZIONE
Io imprendo a
scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una
nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina(1). Si vedrá in meno di un
anno un gran regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l'Italia;
un'armata di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di
soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i suoi Stati
senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava;
il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli uomini
distruggere l'opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo
dispotismo e piú feroce.
Le grandi
rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo quel luogo istesso che
tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti secoli le
generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell'anno: esse non
hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento
straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai
nostri sguardi; ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler
distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le
leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti.
Ma una catastrofe
fisica è, per l'ordinario, piú esattamente osservata e piú veracemente
descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar questa, segue
sempre i moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú interessano
il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne ha per lo piú che
l'elogio o la satira. Troppo vicini ai fatti de' quali vogliam fare il
racconto, noi siamo oppressi dal loro numero istesso; non ne vediamo l'insieme;
ne ignoriamo le cagioni e gli effetti; non possiamo distinguere gli utili
dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché il tempo non li abbia separati
l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio ciò che non merita di
esser conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno
della memoria ed utile all'istruzione di tutt'i secoli.
La posteritá, che
ci deve giudicare, scriverá la nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di
prepararle il materiale de' fatti, cosí sia permesso di prevenirne il giudizio.
Senza pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia
permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi
sembrano piú importanti, ed indicare ciò che ne' medesimi vi sia da
lodare, ciò che vi sia da biasimare. La posteritá, esente da passioni,
non è sempre libera da pregiudizi in favor di colui che rimane ultimo
vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono state
infelici.
Dichiaro che non
sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e l'umanitá non ne abbiano
uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho
veduto e de' quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei
miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare.
Coloro i quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona
causa, per mancanza di lumi o di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali
o son morti gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito oppresso,
mi debbono perdonare se nemmen per amicizia offendo quella veritá che deve
esser sempre cara a chiunque ama la patria, e debbono esser lieti se, non avendo
potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno esser utili
cogli esempi de' loro errori e delle sventure loro.
Di qualunque
partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá
osservare come i falsi consigli, i capricci del momento, l'ambizione de'
privati, la debolezza de' magistrati, l'ignoranza de' propri doveri e della
propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai regni; ed i
nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza
non fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza
quella virtú che tutto consacra al bene universale.
II
STATO DELL'EUROPA DOPO IL 1793
Ma, prima di
trattar della nostra rivoluzione, convien risalire un poco piú alto e trattenersi
un momento sugli avvenimenti che la precedettero; veder qual era lo stato della
nazione, quali cagioni la involsero nella guerra, quali mali soffriva, quali
beni sperava: cosí il lettore sará in istato di meglio conoscere le sue cause e
giudicar piú sanamente de' suoi effetti.
La Francia, fin
dal 1789, avea fatta la piú gran rivoluzione di cui ci parli la storia. Non vi
era esempio di rivoluzione, che, volendo tutto riformare, avea tutto distrutto.
Le altre aveano combattuto e vinto un pregiudizio con un altro pregiudizio,
un'opinione con un'altra opinione, un costume con un altro costume: questa avea
nel tempo istesso attaccato e rovesciato l'altare, il trono, i diritti e le
proprietá delle famiglie, e finanche i nomi che nove secoli avean resi rispettabili
agli occhi de' popoli.
La rivoluzione
francese, sebbene prevista da alcuni pochi saggi, ai quali il volgo non suole
prestar fede, scoppiò improvvisa e sbalordí tutta l'Europa. Tutti gli
altri sovrani, parte per parentela che li univa a Luigi decimosesto, parte per
proprio interesse, temettero un esempio che potea divenir contagioso.
Si credette facile
impresa estinguere un incendio nascente. Si sperò molto sui torbidi
interni che agitavano la Francia, non tornando in mente ad alcuno che
all'avvicinar dell'inimico esterno l'orgoglio nazionale avrebbe riuniti tutt'i
partiti divisi. Si sperò molto nella decadenza delle arti e del
commercio, nella mancanza assoluta di tutto, in cui era caduta la Francia; si
sperò a buon conto vincerla per miseria e per fame, senza ricordarsi che
il periglio rende gli entusiasti guerrieri, e la fame rende i guerrieri eroi.
Una guerra esterna, mossa con eguale ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile.
L'Inghilterra
meditava conquiste immense e vantaggi infiniti nel suo commercio sulla ruina di
una nazione che sola allora era la sua rivale. La corte di Londra, piú che ogni
altra corte di Europa, temer dovea il contagio delle nuove opinioni, che si
potean dire quasi nate nel seno dell'Inghilterra; e, per renderle odiose al
popolo inglese, mezzo migliore non ritrovò che risvegliare l'antica
rivalitá nazionale, onde farle odiare, se non come irragionevoli, almen come
francesi. Pitt vedeva che gli abitanti della Gran Brettagna, e specialmente
gl'irlandesi e scozzesi, eran disposti a fare altrettanto: la rivoluzione
sarebbe scoppiata in Inghilterra, se gl'inglesi quasi non avessero sdegnato
d'imitare i francesi(2).
L'Inghilterra,
sebbene non fosse stata la prima a dichiarar la guerra, fu però la prima
a soffiare il fuoco della discordia. L'Austria seguí l'invito della sua antica
e naturale alleata. Le corti di Europa non conoscevano le repubbliche. Dalla
perdita inevitabile della Francia speravano un guadagno sicuro. La Prussia
l'avea giá ottenuto nel congresso di Pilnitz colla divisione della Polonia.
L'Inghilterra e la Prussia mossero lo statolder, il quale volea distrarre con
una guerra esterna gli animi non troppo tranquilli de' batavi, resi da poco
suoi sudditi, ed amava veder distrutti coloro che potevan essere un giorno non
deboli protettori de' medesimi.
La Prussia e
l'Austria strascinarono i piccoli principi dell'impero, i quali, piú che dalla
perdita di pochi, incerti, inutili dritti, che la rivoluzione di Francia avea
lor tolti in Alsazia ed in Lorena, erano mossi dall'oro degl'inglesi, ai quali
da lungo tempo erano avvezzi a vendere il sangue de' propri sudditi. Il re di
Sardegna seguí le vie di sua antica politica, ed avvezzo ad ingrandirsi tra le
dissensioni della Francia e dell'Austria, alle quali vendeva alternativamente i
suoi soccorsi, tenne sulle prime il partito della lega, che gli parve il piú
forte. Finalmente anche la Spagna seguí l'impulso generale; e la guerra fu
risoluta.
Si aprí la
campagna con grandissime vittorie degli alleati; ma ben presto furono seguite
dai piú terribili rovesci. I francesi seppero distaccar la Prussia dalla lega;
la quale, ottenuta la sua porzione di Polonia, comprese che, tra due potenze di
prim'ordine che si laceravano e distruggevano a vicenda, suo meglio era quello
di rimaner neutrale.
La corte di Spagna
s'ingelosí ben presto dell'Inghilterra, che sola voleva ritrar profitto dalla
guerra comune. La condotta degl'inglesi in Tolone fece scoppiare il malumore
che da lungo tempo covava nel suo seno, e Carlo quarto non volle piú impiegar
le sue forze ad accrescere una nazione che egli dovea temere piú della
francese. Mentre i suoi eserciti erano battuti per terra, le sue flotte
rimanevano inoperose per mare; mentre i francesi guadagnavano in Europa, egli
avrebbe potuto aver un compenso in America e dar fine cosí alla guerra con una
vicendevole restituzione, senza quelle perdite che fu costretto a soffrire per
ottenere la pace. Il desiderio de' francesi era appunto quello che molti lor
dichiarassero la guerra e niuno la facesse con tutte le sue forze; cosí ogni
nuovo nemico dava ai francesi una nuova vittoria, e quella lega, che dovea
abbassarli, serviva ad ingrandirli.
La guerra era
ormai divenuta, come nell'antica Roma, indispensabile alla Francia, tra perché
teneva luogo di tutte le arti e di tutto il commercio, che prima formavano la
sussistenza del popolo, tra perché un governo quasi sempre fazioso la
considerava come un mezzo di occupare e distrarre gli animi troppo attivi degli
abitanti ed allontanare i torbidi che soglion fermentar nella pace. Quindi si
sviluppò quel sistema di democratizzazione universale, di cui i politici
si servivan per interesse, a cui i filosofi applaudivano per soverchia buona
fede; sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell'opinione, che suol
produrre, e talora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una
monarchia universale.
III
STATO D'ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
In breve tempo li
francesi si videro vincitori e padroni delle Fiandre, dell'Olanda, della Savoia
e di tutto l'immenso tratto ch'è lungo la sinistra sponda del Reno. Non
ebbero però in Italia sí rapidi successi; e le loro armate stettero tre
anni a' piedi delle Alpi, che non potettero superare, e che forse non avrebbero
superate giammai, se il genio di Bonaparte non avesse chiamata anche in questi
luoghi la vittoria.
Quando l'impresa
d'Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si trovò
alla testa di un'armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla
Francia nel momento del suo maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza
ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi
avventurieri, risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello
specialmente di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non
val nulla.
Se le campagne di
Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in
paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali conquistarono
la Macedonia. Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea
nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali né nazioni guerriere: solo
nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata, nazione agguerrita ed
audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio,
sapevano almeno la pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la tattica,
cangiò la pratica dell'arte; e le pesanti evoluzioni de' tedeschi
divennero inutili come le falangi de' macedoni in faccia ai romani. Supera le
Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una
guerra di cinque anni, privato di buona porzione de' suoi domini, abbandonato
dagli austriaci, ridotti a difendere il loro paese, a sottoscrivere un
armistizio, forse necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo
di deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea
fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non fu che una serie continua di
vittorie.
L'Italia era
divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano
opporre qualche resistenza. Bonaparte fu sí destro da dividere i loro
interessi. Questa è la sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le
quali han giá guadagnata la riputazione delle armi: ciascuno brama la loro
amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme. Cosí i romani han
combattuto sempre i loro nemici ad uno ad uno e li han vinti tutti. Il papa
tentò di stringere una lega italica. Concorrevano volentieri a questa
alleanza le corti di Napoli e di Sardegna, la prima delle quali
s'incaricò d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di questa
repubblica alle proposizioni del residente napolitano risposero che nel senato
veneto era giá quasi un secolo che non parlavasi di alleanza, che si sarebbe
proposta inutilmente; ma che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri
principi, non era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma, quando il
gabinetto di Vienna ebbe cognizione di tali trattative, vi si oppose acremente
e mostrò con parole e con fatti che piú della rivoluzione francese
temeva l'unione italiana!
Allora si vide
quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice, non solo perché divisi
in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il piú grave
de' mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel che è
peggio, protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema generale di Europa,
senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitú e la
protezione, avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in
questi ultimi tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de'
nostri avi antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte
dell'universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini,
quando, divisi tra noi, ma indipendenti da tutto il rimanente dell'Europa,
eravamo italiani, liberi ed armati.
Gli austriaci,
rimasti soli, non poterono sostener l'impeto nemico: tutta la Lombardia fu
invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo. Bonaparte era
giá poco lontano da Vienna, l'Europa aspettava da momento a momento azioni piú
strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una pace, colla quale
essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e dell'importante
piazza di Magonza, e l'Austria riconosceva l'indipendenza della repubblica
cisalpina, in compenso della quale le si davano i domíni della repubblica
veneta. Questa, col risolversi troppo tardi alla guerra, altro non avea fatto
che dare ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua ruina.
Per qual forza di
destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea
distrutta ogni virtú ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato
nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie,
le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la
gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de' sudditi e, piú che ogni
nemico esterno, temer doveano la virtú de' propri sudditi? Non so che avverrá
dell'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la
distruzione di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sará sempre per
l'Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il
primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien
poi l'oprar virtuoso e nobile; io credo esser giá sommo vantaggio il veder
tolto l'antico errore per cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del
volgo fama di sapienti reggitori di Stato.
Il trattato di
Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le potenze contraenti. L'Austria,
sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se rimaneva ancora qualche altro
oggetto a determinarsi, era facile prevedere che a spese de' piú piccoli
principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche dippiú. Ma era facile
egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla
guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri
di pace.
Il governo che
allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco,
rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come
l'aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di
entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che essi
bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli ordini di Roma.
Quindi i romani conservarono meglio e piú lungamente l'apparenza di liberatori
de' popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per
vendere a piú caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una
contraddizione tra i proclami de' generali e le negoziazioni de' ministri, tra
le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue
contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di
speranze e di timori.
Giá da questo
ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio avea sol per poco sospesa la
democratizzazione di tutta l'Italia. Il re di Sardegna non era che il ministro
della repubblica francese in Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano
nulla. Berthier finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio
governo teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato
dell'Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla deve riunirla, e non si
può riunire senza cangiare il governo di Roma. L'indifferenza colla
quale l'Italia riguardò tale avvenimento mostrò bene qual
progresso le nuove opinioni avean fatto negli animi degl'italiani.
IV
NAPOLI - REGINA
Rimaneva il regno
di Napoli; e forse, almen per quel tempo, i francesi non aveano né interesse né
forza né volontá di attaccarlo. Ma la parentela coi sovrani di Francia,
l'influenza preponderante del gabinetto inglese, il carattere della regina,
tutto contribuiva a fomentare nella corte di Napoli l'odio che fin da principio,
piú caldo che ogni altra corte di Europa, avea spiegato contro la rivoluzione
francese. La regina, nel viaggio che avea fatto per la Germania e per l'Italia
in occasione del matrimonio delle sue figlie, era stata la prima motrice di
quella lega che poi si vide scoppiare contro la Francia. La forza costrinse la
corte di Napoli a sottoscrivere una neutralitá, quando Latouche venne con una
squadra in faccia alla stessa capitale. Forse allora temette piú di quel che
dovea: se avesse prolungate per due altri giorni le trattative, la stagione ed
i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che troppo imprudentemente si
era avventurata entro un golfo pericoloso in una stagione pericolosissima.
La presa di Tolone
fece rompere di nuovo la neutralitá. Al pari delle altre corti, quella di
Napoli inviò delle truppe a sostenere una sciagurata impresa piú
mercantile che guerriera, la quale, nel modo in cui fu immaginata e diretta,
potea esser utile solo agl'inglesi. Nella primavera seguente inviò due
brigate di cavalleria nella Cisalpina in soccorso dell'imperatore: esse si
condussero molto bene. Ma le vittorie di Bonaparte in Italia fecero ricadere la
corte ne' suoi timori, e si affrettò a conchiudere una pace nel tempo
appunto in cui l'imperatore avea maggior bisogno de' suoi aiuti; nel tempo in
cui, non presa ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le forze imperiali in
Italia, poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre un potente e forse
pericoloso diversivo. Il governo francese ad una corte che non sapeva far la
guerra seppe vendere quella pace, che esso avrebbe dovuto e che forse era
pronto a comprare.
Perché si ebbe
tanta paura della flotta di Latouche? Perché si credeva che in Napoli vi
fossero cinquantamila pronti a prender l'armi in di lui favore. Non vi era
nessuno, nessuno... Qual fu nella trattativa di questa pace il grande oggetto
del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di circa duecento
scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze. Che non si fece, che non
si pagò per far sí che il Direttorio non insistesse, come allora era di
moda, per la liberazione de' «rei di opinione»? La regina non approvava quella
pace, e forse avea ragione; ma credette aver ottenuto molto, avendo ottenuto il
diritto di poter incrudelire inutilmente contro pochi giovinetti che conveniva
disprezzare... Non si perdano mai di vista questi fatti. La corte di Napoli non
sapeva né che temere né che sperare: come si poteva pretendere che agisse
saviamente?
La corte di Napoli
era la corte delle irresoluzioni, della viltá ed, in conseguenza, delle
perfidie. La regina ed il re eran concordi solo nell'odiare i francesi; ma
l'odio del re era indolente, quello della regina attivissimo: il primo si
sarebbe contentato di tenerli lontani, la seconda volea vederli distrutti. Ne'
momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, piú de' timori, la sua
indolenza; al primo favore di fortuna, al primo raggio di nuove e liete
speranze, per cagione della stessa indolenza, abbandonava di nuovo gli affari
alla regina.
Acton fomentava
nel re un'indolenza che accresceva l'imperio suo e della regina; e questa, per
desiderio di comandare, non si avvedeva che Acton turbava tutte le cose e
spingeva ad inevitabile rovina il re, il Regno e lei stessa. La regina era
ambiziosa; ma l'ambizione è un vizio o una virtú, secondo le vie che
sceglie, secondo il bene o il male che produce. Ella venne la prima volta da
Germania col disegno d'invadere il trono, né si ristette finché, per mezzo
degl'intrighi e dell'ascendente che una colta educazione le dava sull'animo del
marito, non giunse a cangiar tutt'i rapporti interni ed esterni dello Stato.
Il marchese
Tanucci previde le funeste conseguenze del genio novatore della giovine regina,
e volle opporvisi fin da quel momento in cui pretese di aver entrata e voto nel
Consiglio di Stato. Era questa una novitá inudita nel regno di Napoli, e molto
piú nella famiglia di Borbone, ma la regina vinse e giurò vendicarsi di
Tanucci: né la sua etá, né il suo merito, né li suoi lunghi e fedeli servizi
poterono salvar questo vecchio amico di Carlo terzo ed aio, per cosí dire, di
suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia.
Sotto un re,
debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non esservi da temere, non
da sperare, se non dalla regina; e tutti furono a lei venduti. Ella creò
anche al di fuori nuovi sostegni all'impero.
Tutti gl'interessi
politici univano il regno di Napoli a quello di Francia e di Spagna, e questi
legami potevano formar la felicitá della nazione coi vantaggi del commercio e
della pace. Ma gl'interessi della nazione poteano bene essere quelli del re,
non mai però quelli della regina: ella volea nuovi rapporti politici,
che la sostenessero, se bisognasse, contro il re e, se fosse possibile, anche
contro la nazione. Noi diventammo ligi dell'Austria, potenza lontana, dalla
quale la nazione nostra nulla potea sperare e tutto dovea temere; potenza, la
quale, involta in continue guerre, ci strascinava ogni momento a prender parte
negl'interessi altrui, senza poter mai sperare di veder difesi li nostri. La
preponderanza che l'Austria andava acquistando sulle nostre coste offese la
Spagna; ma la regina, lungi dal temere il suo sdegno, lo fomentò, lo
spinse agli estremi, onde togliere al re ogni via di ravvedimento.
I ministri del re
doveano esser i favoriti della regina; ma questa sacrificava sempre i suoi
favoriti ai disegni suoi. L'ultimo è stato il piú fortunato di tutti,
non perché avesse piú merito, ma perché avea piú audacia degli altri, li quali
non combattevano con lui ad armi eguali, perché non si permettevano tutto
ciò ch'egli ardiva fare. Conservavano ancora costoro qualche vecchio
sentimento di giustizia, di amicizia, di pubblico bene: come contrastare con
uno che tutto sacrificava alla distruzione de' suoi nemici ed al favore della sua
sovrana?(3).
Giovanni Acton
venne dalla Toscana, cioè da uno Stato che non avea marina, a crearne
una in Napoli. Avea due titoli, oltre un terzo che gli attribuisce la fama, a
meritare il favore della regina: era, tra' ministri del re, il solo straniero e
seppe prima degli altri comprendere che in Napoli la regina era tutto ed il re
era un nulla. Giunse nel tempo in cui ardevano piú che mai i disgusti colla
corte di Spagna. Sambuca, che allora era primo ministro, prese il partito
spagnuolo: fu male accorto e vile; perdette la grazia della regina e poco
dipoi, come era inevitabile, anche quella del re. Si vide per poco suo
successore Caracciolo: ma costui, rotto dagli anni e per natura portato
all'indolenza, in una corte ove non si voleva il bene né si soffriva il vero,
non fu che l'ombra di un gran nome e serví, senza saperlo o almeno senza
curarlo, a far risplendere Acton, che la regina voleva esaltare, ma che ancora
non poteva vincere la riputazione de' piú vecchi. La morte di Caracciolo diede
luogo finalmente ai suoi disegni: Acton fu posto alla testa degli affari, il
vecchio De Marco confinato ai minuti dettagli di casa reale, tutti gli altri
ministri non furono che creature di Acton. La sola parte d'ingegno, che Acton
veramente possedeva, era quella di conoscer gli uomini. Non vi era alcuno che
meglio di lui sapesse definire il carattere morale de' suoi favoriti. Riputava
Castelcicala vile e crudele nella sua viltá; Vanni entusiasta, ambizioso e
crudele per furore quanto lo era Castelcicala per riflessione; Simonetti e
Corradini ambedue uomini dabbene, ma il primo indolente, il secondo pedante, ed
incapaci ambedue di opporsi a lui. Si serví di Castelcicala fin da che era
ministro in Londra.
V
STATO DEL REGNO - AVVILIMENTO DELLA NAZIONE
Acton e la regina
quasi congiurarono insieme per perdere il Regno. La regina spiegò il piú
alto disprezzo per tutto ciò ch'era nazionale. Si voleva un genio? Dovea
darcisi dall'Arno. Si voleva un uomo dabbene? Dovea venirci dall'Istro. Ci
vedemmo inondati da una folla di stranieri, i quali occuparono tutte le
cariche, assorbirono tutte le rendite senz'avere verun talento e verun costume,
insultarono coloro ai quali rapivano la sussistenza. Il merito nazionale fu
obbliato, fu depresso e poté credersi felice quando non fu perseguitato(4).
Quel nobile
sentimento di orgoglio, che solo ispira le grandi azioni, facendocene credere
capaci; quel sentimento, che solo ispira lo spirito pubblico e l'amor della
patria; quel sentimento, che in altri tempi ci fece esser grandi e che oggi fa
grandi tante altre nazioni di Europa, delle quali fummo un tempo e maestri e
signori, era interamente estinto presso di noi. Noi diventammo a vicenda or
francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo piú nulla. Tante volte e sí
altamente per venti anni ci era ripetuto che noi non valevamo nulla, che quasi
si era giunto a farcelo credere.
La nazione
napoletana sviluppò prima una frivola mania per le mode degli esteri.
Questo produceva un male al nostro commercio ed alle nostre manifatture: in
Napoli un sartore non sapeva cucire un abito, se il disegno non fosse venuto da
Londra o da Parigi. Dall'imitazione delle vesti si passò a quella del
costume e delle maniere, indi all'imitazione delle lingue: si apprendeva il
francese e l'inglese, mentre era piú vergognoso il non sapere l'italiano(5). L'imitazione delle lingue portò seco finalmente
quella delle opinioni. La mania per le nazioni estere prima avvilisce, indi
ammiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le
cose sue. La regina fu la prima ad aprir la porta a quelle novitá, che ella
stessa poi con tanto furore ha perseguitate. Una nazione, che troppo ammira le
cose straniere, alle cagioni di rivoluzione che porta seco il corso politico di
ogni popolo aggiunge anche quelle degli altri popoli. Quanti tra noi erano
democratici solo perché lo erano i francesi? Sopra cento teste voi dovete
contare, in ogni nazione, cinquanta donne e quarantotto uomini piú frivoli
delle donne: essi non ragionano in altro modo che in questo: - In... si pettina
meglio, si veste meglio, si cucina meglio, si parla meglio: la prova n'è
che noi ci pettiniamo, mangiamo, ci vestiamo com'essi fanno. Come è possibile
che quella nazione non pensi e non operi meglio di noi?(6).
VI
INQUISIZIONE DI STATO
I nostri affetti,
preso che abbiano un corso, piú non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e
dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore. La regina, che non amava la
nazione, temeva di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso, ha
bisogno, al pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò
male della nazione fu da lei ben accolto.
Le novitá delle
opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi mezzi ai
cortigiani per guadagnare il suo cuore. Acton non mancò di servirsene
per perder Medici e qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il
freno e si portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un esempio. I
nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di far delle corse a cavallo
per Chiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto Acton volle
dar a credere alla corte, che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual
rapporto tra le corse de' nostri giovani napolitani e quelle de' greci? E,
quando anche quelle fossero state un'imitazione di queste, qual male? qual
pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su queste corse,
come se si fosse trattato della marcia di venti squadroni nemici che piombassero
sulla capitale.
Alcuni giovani
entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie, leggevano ne' fogli periodici
gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di loro o,
ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro
parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza grado,
senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale
di sangue col nome di «Giunta di Stato» per giudicarli, come se avessero giá
ucciso il re e rovesciata la costituzione.
Pochi magistrati,
tra coloro che componevano la Giunta, amanti veracemente del re e della patria,
vedendo che il primo, il vero, il solo delitto di Stato era quello di seminar
diffidenze tra il sovrano e la nazione, ardirono prendere la difesa
dell'innocenza e proporre al re che la pena de' rei di Stato mal si applicava a
pochi giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che di aver
parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato ciò che
era meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero corretti
coll'etá e coll'esperienza, che avrebbe smentite le brillanti ma fallaci teorie
onde erano le loro menti invasate. I mali di opinione si guariscono col
disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai i filosofi.
Ma, se voi perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il
sentimento produce l'entusiasmo; l'entusiasmo si comunica; vi inimicate chi
soffre la persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo
indifferente che la condanna; e finalmente l'opinione perseguitata diventa
generale e trionfa.
Ma, ove si tratta
di delitto di Stato, le piú evidenti ragioni rimangono inefficaci. Imperciocché
di rado un tal delitto esiste, e di rado avviene che un uomo attenti con atto
non equivoco alla costituzione o al sovrano di una nazione: il piú delle volte
si tratta di parole che vaglion meno delle minacce, o di pensieri che vagliono
anche meno delle parole. Tali cose vagliono quanto le fa valere il timore di
chi regna(7). Guai a chi ha ascoltato una volta le voci del timore!
Quanto piú ha temuto, piú dovrá temere. Molto temeva la regina di Napoli, ed
Acton voleva che temesse di piú. Le frequenti impressioni di sospetti e di
timori, che aveva sofferte, avevano quasi alterato il di lei fisico e turbata
interamente la serie e l'associazione delle sue idee. Persone degne di fede mi
narrano che non senza pericolo di dispiacerle taluno le attestava la fedeltá
de' sudditi suoi.
Si volle del
sangue, e se n'ebbe. Furono condannati a morte tre infelici, tra' quali il
virtuoso Emmanuele de Deo, a cui si fece offrire la vita purché rivelasse i
suoi complici, e che in faccia all'istessa morte seppe preferirla all'infamia.
Ecco un esempio di
ciò che possa e che produca il timore negli animi, una volta turbati.
Nel giorno dell'esecuzione della sentenza si presero quelle precauzioni che altre
volte si erano trascurate e che anche allora erano superflue. Si temeva che il
popolo volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si temeva una
sedizione di circa cinquantamila rivoluzionari, che per lo meno si diceva dover
esser in Napoli. Intanto, le truppe che quasi assediavano la cittá, gli ordini
minaccevoli del governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto
piú leggiero, che in altri tempi sarebbe stato indifferente, doveva turbarlo;
temeva i sollevatori, temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il minimo
timore dovea produrre, come difatti produsse, in una gran massa di popolo
un'agitazione tumultuosa. Cosí i sospetti del governo rendono piú sospettoso il
popolo. Da quell'epoca il popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da se
stesso senza veruna polizia, fu piú difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche
feste furono fatte con maggiori precauzioni, ma non furono perciò piú
tranquille.
Si sciolse la
prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da tanti orrori; ma, pochi
mesi dopo, si vide in campo una nuova congiura ed una Giunta piú terribile
della prima. Si vollero allontanati tutti que' magistrati che conservavano
ancora qualche sentimento di giustizia e di umanitá. Si mostrò di volere
i scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala, Vanni, Guidobaldi
si misero alla loro testa. La nazione fu assediata da un numero infinito di
spie e di delatori, che contavano i passi, registravano le parole, notavano il
colore del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi fu piú sicurezza. Gli
odii privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta, e coloro che
non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi, che la sete
dell'oro e l'ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni. Che si può
difatti conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dá le ricchezze,
le cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un uomo onesto a
chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si risponde che «si
faccia prima del merito»? Per «farsi del merito» s'intendeva divenir delatore,
cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito
aveano tanti, i nomi de' quali la giusta vendetta della posteritá non deve
permettere che cadano nell'obblio. La regina, indispettita contro un sentimento
di virtú che la massima parte della nazione ancora conservava, diceva
pubblicamente che «ella sarebbe un giorno giunta a distruggere quell'antico
pregiudizio per cui si reputava infame il mestiere di delatore». Tutte queste e
molte altre simili cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in
picciola parte vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose,
o vere o false che sieno, sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da
molti si credono, perché rendono piú audaci gli scellerati e piú timidi i
buoni. Che se esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que'
ministri i quali colla loro condotta dánno occasione a dirle e ragione a
crederle. Per cagioni intanto di queste voci, una parte della nazione si
armò contro l'altra; non vi furono piú che spie ed uomini onesti, e chi
era onesto era in conseguenza un «giacobino». Vanni avea detto mille volte alla
regina che il Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir veridico, e
colla sua condotta li creò.
Tutt'i castelli,
tutte le carceri furono ripiene d'infelici. Si gittarono in orribili prigioni,
privi di luce e di tutto ciò ch'era necessario alla vita, e vi
languirono per anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né la loro
condanna, senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi
tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e sarebbero usciti
tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era
allor il direttor supremo di tali affari, non si curava piú di chi era giá in
carcere; non pensava che a carcerarne degli altri: ardí dire che «almeno
dovevano arrestarsene ventimila». Se il fratello, se il figlio, se il padre, se
la moglie di qualche infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione
della di lui sorte, un tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se si
ricorreva al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò
anche era inutile, perché per Vanni rispondeva la regina, la quale credeva che
Vanni operasse bene. Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura
da scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva
sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni, il quale
meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era ordita un'inquisizione,
diretta piú a fomentare i timori della regina che a calmarli, tremava ogni
volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea trovare il reo, e
temea che si fosse ricercata la veritá(8).
Sembrerá a molti
inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere
morale di quell'uomo era singolare. Egli riuniva un'estrema ambizione ad una
crudeltá estrema e, per colmo delle sciagure dell'umanitá, era un entusiasta.
Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir
piú grande di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non
potendo o non sapendo soddisfare l'ambizione loro con azioni veramente grandi,
si sforzano di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e
le corrompono.
Vanni
incominciò ad acquistar fama di giudice integro e severissimo colla
condotta che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per qualche anno
direttore della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San Leucio. Il
primo errore forse lo commise il re, affidando tale impresa al principe di
Tarsia anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il quale, non
essendo fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello che
ne dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo cavaliere, cioè un
onestissimo spensierato, incapace di malversare un soldo, ma incapace al tempo
istesso d'impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne' conti una
mancanza di circa cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di
liquidare i conti. Non eravi affare piú semplice, perché Tarsia era un uomo che
poteva e voleva pagare. Pure Vanni prolungò l'affare non so per quanti
anni: cadde il trono, e l'affare di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto
non eravi genere di vessazioni e d'insulti ai quali non sottoponesse la
famiglia di Tarsia, perché, dicesi, tale era l'intenzione di Acton. Gli uomini
di buon senso, alcuni dicevano: - Che imbecille! - altri: - Che impostore! - Ma
nella corte si faceva dire: - Che giudice integro! Con quanto zelo, con quanta
fermezza affronta il principe di Tarsia, un grande di Spagna, un grande
officiale del palazzo! - Come se l'ingiustizia che si commette contro i grandi
non possa derivar dalle stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella che
si commette contro i piccioli.
Si avea bisogno
d'un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la ragione istessa per la quale
non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta che Vanni entrò
nell'assemblea de' magistrati che dovean giudicare, si mostrò tutto
affannato, cogli occhi mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la
giustizia, soggiunse: - Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli
che ha corsi il mio re. - «Il mio re»: questo era il modo col quale egli usava
chiamarlo dopo che gli fu affidata l'inquisizione di Stato. - Il vostro re! -
gli disse un giorno il presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per
la carica e per cento anni di vita irreprensibile - il vostro re! Che volete
intender mai con questa parola, che, sotto apparenza di zelo, nasconde tanta
superbia? E perché non dite «il nostro re»? Egli è re di tutti noi, e
tutti l'amiamo egualmente. - Queste poche parole bastano per far giudicare di
due uomini; ma, in un governo debole, colui che pronunzia piú alto «il mio re»
suole vincere chi si contenta di dire «il nostro re».
Lo sguardo di
Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore del volto
pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo
irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni
tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt'i suoi affetti atterrivano
e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar di piú di un anno in una stessa
casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de' signorotti di Fera e di
Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno!
Ma la macchina di
quattro anni dovea finalmente sciogliersi. Gl'interessati fremevano; gli uomini
di buon senso ridevano di una nuova specie di delitto di Stato che in quattro
anni d'inquisizione non si era ancora scoperto; nel popolaccio istesso andava
raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea mostrato contro i rei, e
quasi incominciava a sentir pietá di tanti infelici, i quali non vedendo
condannati, incominciava a credere innocenti. Acton, che da principio era stato
il principal autore dell'inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi
disegni, vedendola innoltrar piú di quel che conveniva e non volendo e non
potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala. Costui, il piú
vile degli uomini, avea bisogno, per guadagnare il favore della regina, di quel
mezzo che Acton avea adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in
conseguenza dovea spingerne l'abuso piú oltre, e lo spinse. Fece di tutto
perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a delitto la religiositá
di coloro che diedero il voto per la veritá; giunse a minacciare un castigo
agli avvocati da lui stesso destinati, perché difendevano i rei con zelo. Ma la
nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di pazienza, ne
diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di virtú. Nulla potette
smuovere la costanza de' giudici e lo zelo degli avvocati. Quando si vide la
veritá trionfare, ed uscir liberi quei che si volevano morti, Castelcicala, per
giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale finalmente si era
occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la colpa ricadde sopra
costui.
Vanni avea
accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri,
Chinigò, gli uomini forse i piú rispettabili che Napoli avesse e per
dottrina e per integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento
forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni
rimaneva vincitore, avrebbe compíta l'opera della perdita del Regno e della
rovina del trono. Per buona sorte era giunto all'estremo, e rovinò se stesso
per aver voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri
uomini utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti
al re? Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per
effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe
fatto.
Vanni fu deposto
ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo
esilio, ma invano. L'anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico,
il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per
soddisfazione della giustizia e per bene dell'umanitá, avrebbe meritato da
altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l'entrata de'
francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia,
e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva:
«L'ingratitudine di una corte perfida, l'avvicinamento di un nemico terribile,
la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi
è di peso. Non s'incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio
serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato». Ma gli altri inquisitori
di Stato risero della sua morte, ne rise Castelcicala; e l'inquisizione
continuò collo stesso furore, finché i francesi non furono a Capua.
VII
CAGIONI ED EFFETTI DELLA PERSECUZIONE
Io mi arresto; la
mia mente inorridisce alla memoria di tanti orrori. Ma donde mai è nato
tanto furore negli animi de' sovrani d'Europa contro la rivoluzione francese?
Molte altre nazioni aveano cangiata forma di governo; non vi è quasi
secolo che non conti un cangiamento: ma né quei cangiamenti aveano mai
interessati altri che le corti direttamente offese, né aveano prodotto nelle
altre nazioni alcun sospetto ed alcuna persecuzione. Pochi anni prima, i saggi
americani avean fatta una rivoluzione poco diversa dalla francese, e la corte
di Napoli vi avea pubblicamente applaudito: nessuno avea temuto allora che i
napolitani volessero imitare i rivoluzionari della Virginia. Il pericolo de'
sovrani è forse cresciuto in proporzione de' loro timori?
I francesi
illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto
della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali
trovavasi la loro nazione.
Quella Francia,
che ci si presentava come un modello di governo monarchico, era una monarchia
che conteneva piú abusi, piú contraddizioni: la rivoluzione non aspettava che
una causa occasionale per iscoppiare. Grandi cause occasionali furono la
debolezza del re, l'alterigia, or prepotente or debole anch'essa, della regina
e di Artois, l'ambizione dello scellerato ed inetto Orléans, il debito delle
finanze, Necker, l'Assemblea de' notabili e, molto piú, gli Stati generali. Ma,
prima che queste cagioni esistessero, eravi giá antica infinita materia di
rivoluzione accumulata da molti secoli: la Francia riposava sopra una cenere
fallace, che copriva un incendio devastatore.
Tra tanti che
hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che
niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non giá
ne' fatti degli uomini, i quali possono modificare solo le apparenze, ma nel
corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura?
La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie
opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non giá
di quella di Francia, perché nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di
Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha descritto una monarchia assoluta,
creata da Richelieu e rinforzata da Luigi decimoquarto in un momento; una
monarchia surta, al pari di tutte le altre di Europa, dall'anarchia feudale,
senza però averla distrutta, talché, mentre tutti gli altri sovrani si
erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel
tempo istesso nemici ed i feudatari, ivi piú potenti che altrove, ed il popolo
ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la
guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltá singolare,
la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era piú
numerosa, ed a cui apparteneva chiunque voleva, talché ogni uomo, appena che
fosse ricco, diventava nobile, ed il popolo perdea cosí financo la ricchezza;
un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva
dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi
militari di privativa de' nobili, i civili venali ed ereditari, in modo che
all'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti
questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e
che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne
avevano altro, e che erano moltissimi; la discussione delle opinioni a cui le
dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, poiché su
di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima
persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte,
nell'atto che si predicava la massima tolleranza dai filosofi; quindi la
massima contraddizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra
le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione
che dovea produrre l'urto vicendevole di tutte le parti, uno stato di violenza
nella nazione intera, ed in séguito o il languore della distruzione o lo
scoppio di una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio(9).
La Francia avea
nel tempo istesso infiniti abusi da riformare. Quanto maggiore è il
numero degli abusi, tanto piú astratti debbono essere i princípi della riforma
ai quali si deve rimontare, come quelli che debbono comprendere maggior numero
di idee speciali. I francesi furono costretti a dedurre i princípi loro dalla
piú astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel qual cadono per l'ordinario
gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di
confonder le proprie idee colle leggi della natura. Tutto ciò che avean
fatto o volean fare credettero esser dovere e diritto di tutti gli uomini.
Chi paragona la Dichiarazione
de' diritti dell'uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverá
che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese
è la formola algebraica dell'americana. Forse quell'altra Dichiarazione
che avea progettata Lafayette era molto migliore.
Idee tanto
astratte portano seco loro due inconvenienti: sono piú facili ad eludersi dai
scellerati, sono piú facili ad adattarsi a tutt'i capricci de' potenti; i
turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le
piú strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda
il corso della rivoluzione francese ne sará convinto.
I sovrani
credettero, come i francesi, che la loro rivoluzione fosse un affare di
opinione, un'opera di ragione, e la perseguitarono. Ignorarono le cagioni vere
della rivoluzione francese e ne temettero gli effetti per quello stesso motivo
per il quale non avrebbero dovuto temerli. Quando e dove mai la ragione ha avuto
una setta? Quanto piú astratte sono le idee della riforma, quanto piú rimote
dalla fantasia e da' sensi, tanto meno sono atte a muovere un popolo. Non
l'abbiamo noi veduto in Italia, in Francia istessa? Nel modo in cui i francesi
aveano esposti i santi princípi dell'umanitá, tanto era sperabile che gli altri
popoli si rivoluzionassero, quanto
sarebbe credibile che le nostre pitture di ruote di carozze si perfezionino per
i princípi di prospettiva dimostrati col calcolo differenziale ed integrale.
Se il re di
Napoli avesse conosciuto lo stato della sua nazione, avrebbe capito che non mai
avrebbe essa né potuto né voluto imitar gli esempi della Francia. La
rivoluzione di Francia s'intendeva da pochi, da pochissimi si approvava, quasi
nessuno la desiderava; e, se vi era taluno che la desiderasse, la desiderava
invano, perché una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il
popolo non si move per raziocinio, ma per bisogno. I bisogni della nazione
napolitana eran diversi da quelli della francese: i raziocini de' rivoluzionari
eran divenuti tanto astrusi e tanto furenti, che non li potea piú comprendere.
Questo pel popolo. Per quella classe poi che era superiore al popolo, io credo,
e fermamente credo, che il maggior numero de' medesimi non avrebbe mai approvate
le teorie dei rivoluzionari di Francia. La scuola delle scienze morali e
politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente
delle idee di Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar fede alle
promesse né applaudire alle operazioni de' rivoluzionari di Francia, tostoché
abbandonarono le idee della monarchia costituzionale. Allo stesso modo la
scuola antica di Francia, quella per esempio di Montesquieu, non avrebbe
applaudito mai alla rivoluzione. Essa rassomigliava all'italiana, perché
ambedue rassomigliavan molto alla greca e latina.
In una rivoluzione
è necessitá distinguere le operazioni dalle massime. Quelle sono figlie
delle circostanze, le quali non sono mai simili presso due popoli; queste sono
sempre piú diverse di quelle, perché il numero delle idee è sempre molto
maggiore di quello delle operazioni ed, in conseguenza, piú facile la
diversitá, piú difficile la rassomiglianza. Non vi è popolo il quale non
conti nella sua storia molte rivoluzioni: quando se ne paragonano le
operazioni, esse si trovan somiglianti: paragonate le idee e le massime, si
trovano sempre diversissime.
Chiunque vede una
rivoluzione in uno Stato vicino deve temere o delle operazioni o delle idee. I
mezzi per opporsi alle operazioni sono tutti militari: qualunque sieno le idee
che due popoli seguono, vincerá quello che saprá meglio far la guerra; e quello
la fará meglio, che avrá migliori ordini, piú amor di patria, piú valore e piú
disciplina. Il mezzo per opporsi al contagio delle idee (lo dirò io?)
non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto piú sia
possibile. La discussione fará nascere le idee contrarie: è effetto
dell'amor proprio: due uomini sono sempre piú concordi al principio della
discussione che alla fine. Nate una volta queste massime contrarie, prenderanno
il carattere di massime nazionali; accresceranno l'amor della patria, perché
quelle nazioni piú ne hanno che piú differiscono dalle altre: accresceranno
l'odio contro le nazioni straniere, la fiducia nelle proprie forze, l'energia
nazionale; non solamente si eviterá il contagio delle opinioni, ma si riparerá
anche alla forza delle operazioni. Mi si dice che il marchese del Gallo, quando
ebbe letto l'elenco di coloro che trovavansi arrestati per cospiratori, ridendone
al pari di tutti i buoni, propose al re di mandarli viaggiando. - Se son
giacobini - egli diceva, - mandateli in Francia: ne ritorneranno realisti.-
Questo consiglio è pieno di ragione e di buon senso, e fa onore al cuore
ed alla mente del marchese del Gallo. Vince una rivoluzione colui che meno la
teme. I sovrani colla persecuzione fanno diventar sentimenti le idee, ed i
sentimenti si cangiano in sètte: il loro timore li tradisce, e cadono
talora vittime delle stesse loro precauzioni eccessive. Si proibirono in Napoli
tutti i fogli periodici: si voleva che il popolo non avesse neanche novella de'
francesi. Cosí un oggetto, che, osservato da vicino, avrebbe destato pietá o
riso, fu come il fascio di sarmenti di Esopo, che dall'alto mare sembrava un
vascello. Un'indomabile curiositá ne spinge a voler conoscere ciò che ci
si nasconde, e l'uomo suppone sempre piú belle e piú buone quelle cose che sono
coperte da un velo.
Ma io immagino
talora, invece de' nostri re, nelle crisi attuali dell'Europa, Filippo di
Macedonia. La Grecia a' di lui tempi era divisa tra i spartani ed ateniesi, i
quali facevano la guerra per opinioni di governo ed uniti ai filosofi, che in
quell'epoca discutevano le costituzioni greche, come appunto oggi li nostri
filosofi discutono le nostre, stancavano i greci con guerre sanguinose e con
cavillose dottrine. Cosí sempre suole avvenire: tra le varie rivoluzioni si
obbliano le antiche idee, si perdono i costumi e, ridotte una volta le cose a
tale stato, gli intriganti, tra' quali i potenti tengono il primo luogo,
guadagnano sempre, perché alla fine i popoli si riducono a seguir quelli che
loro offrono maggiori beni sul momento; e cosí il massimo amore della libertá,
producendo l'esaltazione de' princípi, ne accelera la distruzione e rimena una
piú dura servitú. Filippo con tali mezzi acquistò l'impero della Grecia.
È una
disgrazia pel genere umano quando la guerra porta seco il cambiamento o della
forma di governo o della religione: allora perde il suo oggetto vero, che
è la difesa di una nazione, ed ai mali della guerra esterna si
aggiungono i mali anche piú terribili dell'interna. Allora lo spirito di
partito rende la persecuzione necessaria, e la persecuzione fomenta nuovo
spirito di partito; allora sono que' tempi crudeli anche nella pace. L'alta
Italia ci ha rinnovati gli stessi esempi di Sparta ed Atene, quando le sue
repubbliche, invece di restringersi a difender la loro costituzione, sotto il
nome or di guelfi or di ghibellini, vollero riformare l'altrui; e gli stessi
errori ebbero nell'Italia gli stessi effetti. Scala, Visconti, Baglioni, ecc.,
rinnovarono gli esempi di Filippo.
Tali epoche
politiche sono meno contrarie di quello che si crede ai sovrani che sanno
regnare. Ma in tali epoche vince sempre il piú umano, ed io oso dire il piú
giusto. Oggi i repubblicani sono piú generosi e perdonano ai realisti; i re con
una stolta crudeltá non dánno veruna tregua ai repubblicani: questo fará sí che
essi avranno in breve freddi amici ed accaniti nemici. Quando l'armata del
pretendente scese in Inghilterra, faceva impiccare tutt'i prigionieri di
Hannover; Giorgio liberava tutt'i prigionieri del pretendente: questo solo
fatto, dice molto bene Voltaire, basta a far decidere della giustizia de' due
partiti, pronosticare la loro sorte futura(10).
VIII
AMMINISTRAZIONE
Mentre da una
parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la nazione, dall'altra si
ammiseriva col disordine in tutt'i rami di amministrazione pubblica. La nazione
napolitana dalla venuta di Carlo terzo incominciava a respirare dai mali
incredibili che per due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu
abbassata l'autoritá de' baroni, che prima non lasciava agli abitanti né
proprietá reale né personale. Si resero certe le imposizioni ordinarie con un
nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si potesse avere, era
però il migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolí l'uso
delle imposizioni straordinarie che, sotto il nome di «donativi», avean tolte
somme immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna(11). Libera la nazione dalle oppressioni de' baroni, dalle
avanie del fisco, dalla perenne estrazione di denaro, incominciò a
sviluppare la sua attivitá: si vide risorgere l'agricoltura, animarsi il
commercio; la sussistenza divenne piú agiata, i spiriti piú colti, gli animi
piú dolci. L'esserci noi separati dalla Spagna, e l'essersi la Spagna tolta
alla famiglia di Austria e data a quella di Borbone, ed il patto di famiglia
avean reso alla nostra nazione quella pace di cui avevamo bisogno per
ristorarci dai mali sofferti; e la neutralitá, che ci fu permessa di serbare
nell'ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l'Inghilterra per le colonie
americane, prodotto avea nella nostra nazione un aumento considerabile di
ricchezze. In cinquant'anni avevamo fatti progressi rapidissimi, e vi era
ragione di sperare di doverne fare anche di piú.
La nostra nazione
passava, per cosí dire, dalla fanciullezza alla sua gioventú. Ma questo stato
di adolescenza politica è appunto lo stato piú pericoloso e quello da
cui piú facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le nazioni
escono dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo cosí la sussistenza
sicura: non passano alla coltura se non accrescendo i loro bisogni. Ma i
bisogni si sviluppano piú rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono
dalle sole nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le loro
forze, ci comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi
loro, il che per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo
questi, non si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai
quell'equilibrio di forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanitá
degl'individui e la prosperitá delle nazioni: i passi che faremo verso la
coltura non faranno che renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce
e sterile diventerá per noi piú nociva della barbarie. Uno Stato che non fa
tutto ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato di
tutta l'Italia; e questo stato era piú pericoloso per Napoli, perché piú
risorse avea dalla natura e piú estesa era la sfera della sua attivitá.
Ma il governo di
Napoli avea perduto gran parte delle sue forze, sopprimendo lo sviluppo delle
facoltá individuali coll'avvilimento dello spirito pubblico: tutto rimaneva a
fare al governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea far tutto.
Le nazioni ancora
barbare amano di essere sgravate dai tributi, perché non hanno desidèri
superflui; le nazioni colte si contentano di pagar molto, purché quest'aumento
di tributo accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale. Il segreto di
una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione in
proporzione dell'esazione: non è tanto la somma de' tributi, quanto
l'uso de' medesimi per rapporto alla nazione, quello che determina lo stato
delle sue finanze(12).
Un governo savio
ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di amministrazione, avrebbe
sviluppata l'energia nazionale, ci avrebbe esentati dai vettigali che pagavamo
agli esteri per le loro manifatture, avrebbe protette le nostre arti,
migliorate le nostre produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe
divenuto piú ricco e piú potente, e la nazione piú felice. Questo era appunto
quello che la nazione bramava(13). L'epoca in cui giunse
Acton era l'epoca degli utili progetti: qual «progettista» egli si
spacciò e qual «progettista» fu accolto; ma i suoi progetti,
ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine,
perché cagioni di nuove inutili spese.
Acton ci voleva
dare una marina. La natura avea formata la nazione per la marina, ma non aveva
formato Acton per la nazione. La marina dovea prima di tutto proteggere quel
commercio che allora avevamo, il quale, essendo di derrate e quasi tutte
privative del Regno, o poca o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le
quali per lo piú un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici erano i
barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande quanto la piccola
marina corsara, che Acton distrusse(14). La marina armata
dovea crescere in proporzione della marina mercantile e del commercio, senza di
cui la marina guerriera è inutile e non si può sostenere. Acton,
invece di estendere il nostro commercio, lo restrinse coi suoi errori
diplomatici, col suo genio dispotico, colla sua mala fede, colla viltá con cui
sposò gl'interessi degli stranieri in pregiudizio de' nostri. Acton non
conosceva né la nazione né le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo
porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei
di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano
stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se,
invece di seguire il piano delle creature di Acton, si, fosse seguíto il piano
dei romani, che era quello della natura.
La marina, come
Acton l'avea immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo piccola
per farci del bene, troppo grande per farci del male: eccitava la rivalitá delle
grandi potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per vincere, ma
almeno per poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una pace profonda:
con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina piccola,
dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto, esser trascinati nel
vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt'i mali della guerra, senza poter
mai sperare i vantaggi della vittoria.
Lo stesso piano
Acton seguí nella riforma delle truppe di terra. Carlo terzo ne avea fissato il
numero a circa trentamila uomini; ma, come sempre suole avvenire nei piccoli
Stati, i quali godono lunghissima pace, gli ordini di guerra si erano
rilasciati, e di truppe effettive non esistevano piú di quindicimila uomini.
Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu organizzata in modo da
non lasciarci nulla da invidiare agli esteri. Ma il numero delle altre truppe
fu accresciuto solo in apparenza, per ricoprire un'alta malversazione ed una
profusione la quale non avea né leggi né limiti. Acton piú degli altri ministri
vi si era prestato; e questa non fu l'ultima delle ragioni per cui
meritò tanta protezione sí potente e sí lunga.
Dalla morte di Iaci(15) incominciarono le riforme di abiti e di tattica. Veniva
ogni anno dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera un nuovo
generale, il quale ora rialzava di due pollici il cappello, ora raccorciava di
due dita l'uniforme, ora... Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante
novitá, che un anno dopo sapeva doversi dichiarare inutili(16).
Questi generali
conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i primi gradi
della truppa. Gli altri erano accordati agli allievi del collegio militare,
dove la gioventú era invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non
acquistava certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle fatiche, che
si acquista solo coll'etá e coi lunghi servigi. Il genio e le cognizioni
debbono formare i generali: ma il coraggio e l'amor della fatica formano gli
uffiziali. Il gran principio: che in tempo di pace l'anzianitá debba esser la
norma delle promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale, quando non avesse avuto il dispotismo nel cuore,
l'avea nella testa. Si videro vecchi capitani, abbandonati alla loro miseria,
dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non sapevano altro che
la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la norma sensibile del
giusto, si apre il campo al favore ed all'intrigo), i quali non sapevano
neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio e di qualche titolo
anche piú infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel grado. I gradi,
che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si videro de'
reggimenti interi mancare della metá degli officiali, mentre coloro che dovevan
esser promossi domandavano invano il premio delle loro fatiche. Acton
rispondeva a costoro che «aspettassero la pubblicazione del loro piano»; piano
ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e che, senza
esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa, disgustata la nazione,
dissipato l'erario dello Stato!
Tutto nel regno di
Napoli era malversazione o progetti chimerici piú nocivi della malversazione;
ed intanto ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo bisogno di
strade: il marchese della Sambuca ne vide la necessitá, fu posta una
imposizione di circa trecentomila ducati all'anno: l'opera fu incominciata, se
ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l'opera fu sospesa e la contribuzione
convertita ad un altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi
le strade a loro spese, promettendo intanto di continuare a pagare alla corte,
sebbene giá convertita ad altro uso, l'imposizione che era addetta alle strade;
promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s'impose, si fosse promesso di
dover finire colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo progetto
fosse stato rifiutato? Si può immaginare nazione piú ragionevole e piú
buona e ministero piú stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di Napoli
alcuni errori nelle massime ed alcuni vizi nell'organizzazione, i quali
impedivano i progressi della pubblica felicitá. Avean data origine ai medesimi
altri tempi ed altre circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma
gli errori ed i vizi sussistevano ancora.
Simile a tutt'i
governi i quali hanno un impero superiore alle proprie forze, il governo di
Spagna, ne' tempi della dinastia austriaca, avea procurato di distruggere
ciò che non poteva conservare. Si era estinto ogni valor militare. A
contenere una nobiltá generosa e potente, il primo de' viceré spagnuoli, Pietro
di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i lacci di una giurisprudenza
cavillosa la quale, nel tempo istesso che offriva facili ed abbondanti
ricchezze a coloro che non ne avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e
moltiplicava oltre il dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato,
perché potevano divenir ricche senza esser industriose o, ciò che val lo
stesso, senza che la loro industria producesse nulla. Tutti gli affari del
Regno si discussero nel fòro, e nel fòro si disputò sopra
tutti gli affari. Derivaron da ciò molti mali. Tutto ciò che non
era materia di disputa forense fu trascurato: agricoltura, arti, commercio,
scienze utili, tutto ciò fu considerato piuttosto come oggetto di
sterile o voluttuosa curiositá che come studi utili alla prosperitá pubblica e
privata. Si è letto per qualche secolo sulla porta delle nostre scuole
un distico latino, nel quale la goffaggine dello stile eguagliava la stoltezza
del pensiero, e che diceva: «Galeno dá le ricchezze, Giustiniano dá gli onori;
tutti gli altri non dánno che paglia». E, se mai taluno, ad onta della mancanza
di istruzione, concepiva qualche idea di pubblica utilitá, non poteva eseguirla
senza prima soggettarsi ad un esame, il quale, perché fatto innanzi a giudici e
con tutte le formole giudiziarie, diventava litigio. Si voleva fare un ponte?
si dovea litigare. Si voleva fare una strada? si dovea litigare. Ciascuno del
popolo ha in Napoli il diritto di opporsi al bene che voi volete fare.
Carlo terzo fece
grandissimi beni al Regno: egli riordinò l'amministrazione della
giustizia, tolse gli abusi della giurisdizione ecclesiastica, frenò
quelli della feudale, protesse le arti e l'industria; e piú bene avrebbe fatto,
se il suo regno fosse stato piú lungo e se molti de' ministri, che lo
servivano, non avessero ancora seguite in gran parte le massime dell'antica
politica spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui amico, quello tra' suoi
ministri a cui piú deve il Regno, errava credendo che il regno di Napoli non
dovesse esser mai un regno militare. È nota la risposta che egli soleva
dare a chiunque gli parlava di guerra: - Principoni, armate e cannoni; principini,
ville e casini. - La sua massima era falsa, perché né il re di Napoli poteva
chiamarsi «principino», né i principini sono dispensati della cura della
propria difesa. Tanucci, piú diplomatico che militare, confidava piú ne'
trattati che nella propria forza; ignorava che la sola forza è quella
che fa ottener vantaggiosi trattati; ignorava la forza del Regno che
amministrava ed, invece di un'esistenza propria e sicura, gliene dava una
dipendente dall'arbitrio altrui ed incerta.
Continuò
Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il giudiziario, ed il
fòro continuò ad esser il centro di tutti gli affari. Il potere
giudiziario tende, per sua intrinseca natura, a conservar le cose nello stato
nel quale si trovano; l'amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende
sempre a migliorarle: il primo pronunzia sempre sentenze irrevocabili; il
secondo non fa che tentativi, i quali si possono e talora si debbono cangiare
ogni giorno. Se questi due poteri, per loro natura tanto diversi, li riunite,
corrompete l'uno e l'altro.
Tutto in Napoli si
dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da questo ne veniva che tutte
le operazioni amministrative eran lente e riuscivan male. Il governo era tanto
lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari oggetti della medesima o
non erano affidati a nessuno o erano commessi agli stessi giudici; quindi
l'utile amministrazione o non avea chi la promovesse o era promossa
languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare.
L'altro difetto,
che vi era nell'organizzazione del governo di Napoli, era la mancanza di un
centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i rami
dell'amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di
Stato. Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun
ministro era indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto
essere il risultato della deliberazione comune di tutt'i ministri, ciascun
ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun ministro li faceva a suo
modo; i regolamenti di un ministro eran contrari a quelli di un altro, perché
la principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto piú
poteva l'autoritá de' suoi colleghi e distruggere le operazioni del suo
antecessore. Cosí non vi era nelle operazioni del governo né unitá né costanza:
il ministro della guerra distruggeva ciò che faceva il ministro delle
finanze, e quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro
della guerra. Tra tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno
piú innanzi di tutti gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era
quegli che dava, come suol dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli
affari; tono e carattere che un momento di poi cangiava, perché cangiava il
favore. Né valeva, ad assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la
ragionevolezza della medesima. Vi fu mai legge piú giusta di quella che
obbligava i giudici a ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente
sentenze e non capricci? Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici:
Simonetti ne li sciolse. Si può credere che Simonetti pensasse di buona
fede che i giudici non fossero obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge?
Simonetti dunque tradí la sua propria coscienza, tradí il re, perché la legge,
che egli abolí, non era opera sua, ma bensí di Tanucci.
Gli esempi di
simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a questo solo,
perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che
i difetti di organizzazione de' quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da
non rispettar piú neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò che tutt'i
ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l'amministrazione della
giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle
azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione,
nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa pel
militare, pel prete, per l'uomo che possedeva una greggia, per l'uomo che non
ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli le corti giudicatrici
piú che non furono moltiplicati in Roma gl'iddii ai tempi di Cicerone, per cui
questo grand'uomo si doleva di non potersi fare un passo senza timore di urtare
qualche divinitá; e, nel contrasto continuo tra tanti tribunali, spesso era ben
difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser giudicato. Io ho degli
esempi di «quistioni di tribunale», le quali han durato diciotto anni.
Nuovi disordini, e
maggiori. In una monarchia, quello che nella giurisprudenza romana chiamavasi
«rescritto del principe» deve avere vigore di legge; ma i principi saggi fanno
pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi particolari, onde
è che in tutte le monarchie trovasi, per legge quasi fondamentale dello
Stato, stabilito che il rescritto non debba mai trasportarsi da un caso
all'altro. Nel regno di Napoli i rescritti eransi moltiplicati all'infinito:
ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva rescritti invece di
leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran l'opera de' commessi, e vi
è stato tra essi taluno il quale per molti anni è stato il vero,
il solo legislatore di tutto il Regno.
Io mi trattengo
molto sopra queste che sembran picciole cose, perché da esse dipendono le grandi.
Cambiate le prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza
del Regno e vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il potere
amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello piú
attivo, questo piú regolare; che tutte le parti dell'amministrazione avessero
avuto un centro comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse
stato il re; e che i ministri, non piú indipendenti l'uno dall'altro e tutti
rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme e costante;
imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar preponderare or questo or
quell'altro ministro, avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe
cambiato. Imperciocché io son persuaso che, nello stato presente delle idee e
de' costumi dell'Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il
quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa produrre,
perché deve farsi dai ministri, i quali amano piú il posto che il regno e piú
la persona propria che il posto. È necessitá dunque costringerveli colla
forza degli ordini pubblici, il vero fine de' quali, per chi intende, non
è altro che garantire il re contro la negligenza e la mala volontá de'
ministri. Con picciolissime riforme voi producete un grandissimo bene, e tutte
le riforme di uno Stato tendono ad un sol fine, cioè che il re sia
veramente re. Ma, per questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono
sempre; onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili quelle grandissime crisi,
per le quali spesso s'immolano dieci generazioni per rendere forse felice
l'undecima. Veritá funesta e per i principi e per i popoli! Le rovine di quelli
e di questi per l'ordinario sono l'effetto de' ministri e di coloro che si
millantano amici dei re(17).
IX
FINANZE
Chi paragona la
somma de' tributi che noi pagavamo con quella che pagavano le altre nazioni di
Europa, crederá che noi non eravamo i piú oppressi. Chi paragona la somma delle
imposizioni che noi pagavamo ai tempi di Carlo terzo con quella che poscia
pagammo ai tempi di Ferdinando, vedrá forse che la differenza tra quella e
questa non era grandissima. Ma intanto i bisogni della nazione eran cresciuti,
erano cresciuti i bisogni della corte: quella veniva a pagare piú, perché in
realtá avea meno superfluo; questa veniva ad esiger meno. Il poco che esigeva
era malversato; non si pensava a restituire alla nazione ciocché da lei si
prendeva; era facile il prevedere che tra poco le rendite non erano bastanti,
ed il bisogno delle nuove imposizioni sarebbe stato tanto maggiore nella corte
quanto maggiore sarebbe stata nel popolo l'impotenza di pagarle.
S'incominciò
dal cangiare per specolazione taluni dazi indiretti, i quali sembravano gravosi
(tali erano, per esempio, quelli sul tabacco e sulla manna), e furono commutati
in dazi diretti, che rendevano quasi il doppio. S'impose un dazio sulla caccia,
che fino a quell'epoca era stata libera; ma non si pensò a regolarla,
perché il dazio interessava la corte ed il regolamento interessava la nazione.
S'impose un dazio sull'estrazione de' nostri generi, mentre se ne doveva
imporre uno sull'introduzione de' generi esteri. Si ricorse finanche alla
risorsa della «crociata», di cui non credo che vi possa essere risorsa piú
vile, o che il governo creda o che non creda esser dell'onore della divinitá
de' cattolici che in taluni giorni dell'anno si mangino solo alcuni cattivi
cibi che ci vendono gli eretici.
Si ricercarono per
tutto il Regno i fondi che due, tre, quattro, dieci secoli prima erano stati
posseduti dal fisco, e si aprí una persecuzione contro le cose non meno crudele
di quella contro le persone. Finché questa persecuzione fu contro i soli
feudatari ed ecclesiastici, fu tollerabile; ma gli agenti del fisco, dopo che
ebbero assicurato il dominio, come essi dicevano, del re, annullarono
spietatamente tutt'i contratti e, beffandosi di ogni buona fede, turbarono il
povero colono, il quale fu costretto a ricomprarsi con una lite o col danaro
quel terreno che era stato innaffiato dal sudore de' suoi maggiori e che formar
dovea l'unica sussistenza de' figli suoi.
Forse un giorno
non si crederá che il furore delle revindiche era giunto a segno che i
cavalieri dell'ordine costantiniano, immaginando
non so qual parentela tra Ferdinando quarto, gran maestro dell'ordine, e
sant'Antonio abate, diedero a credere al re che tutt'i beni, i quali nel
Regno fossero sotto l'invocazione di questo santo, si appartenessero a lui; ed
egli, in ricompensa del consiglio e delle cure che mettevano i cavalieri in
ricercare tali beni ovunque fossero, credette utile allo Stato, ed in
conseguenza giusto, toglier tali beni a coloro che utilmente li coltivavano, e
darli ad altri, i quali, essendo cavalieri costantiniani, avevano il diritto di
vivere oziosi.
Le municipalitá
presso di noi avevano molti fondi pubblici, che le stesse popolazioni
amministravano, la rendita de' quali serviva a pagare i pubblici pesi. Molti
altri ve n'erano, sotto nome di «luoghi pii», addetti alla pubblica
beneficenza, fin da que' tempi ne' quali la sola religione, sotto nome di
«caritá», potea indurre gli uomini a far un'opera utile a' loro simili ed il
solo nome di un santo potea raffrenar gli europei ancora barbari
dall'usurparli. Mille abusi ivi erano, e nell'oggetto e nell'amministrazione di
tali fondi; ma essi intanto formavano parte della ricchezza nazionale, ed il
privarne la nazione, senza che altronde avesse avuto niun accrescimento di arti
e di commercio onde supplirvi, era lo stesso che impoverirla. Il tempo, che
tutt'i mali riforma meglio dell'uomo, avrebbe corretto anche questo.
Una parte di
questi fondi pubblici fu occupata dalla corte, e questo non fu il maggior male;
l'altra, sotto pretesto di essere male amministrata dalle popolazioni, fu fatta
amministrare dalla Camera de' conti e da un tribunale chiamato «misto», ma che,
nella miscela de' suoi subalterni, tutt'altro avea che gente onesta.
L'amministrazione dalle mani delle comuni passò in quelle de' commessi
di questi tribunali, i quali continuarono a rubare impunemente, e tutto il
vantaggio, che dalle nuove riforme si ritrasse, fu che si rubò da pochi,
dove prima si rubava da molti; si rubò dagli oziosi, dove prima si
rubava dagl'industriosi; il danaro fu dissipato tra i vizi ed il lusso della
capitale, dove che prima s'impiegava nelle province; la nazione divenne piú
povera, e lo Stato non divenne piú ricco.
Lo stesso era
avvenuto per i fondi allodiali e gesuitici(18). Tutto nel regno di Napoli tendeva alla concentrazione di
tutt'i rami di amministrazione in una sola mano. Ma questa mano, non potendo
tutto fare da sé, dovea per necessitá servirsi di agenti non fedeli, e la
nazione allora cade in quel deplorabile stato, in cui dagl'impieghi sperasi non
tanto l'onore di servir la patria quanto il diritto di spogliarla. Allora la
nazione è inondata da quelle «vespe» giudicatrici, che tanto ci fanno
ridere sulle scene di Aristofane.
La nostra capitale
incominciava ad essere affollata da quest'insetti, i quali, colla speranza di
un miserabile impiego subalterno, trascurano ogni fatica: intanto i vizi ed i
capricci crescono coll'ozio, ed, il miserabile soldo che hanno non crescendo in
proporzione, sono costretti a tenere nell'esercizio del loro impiego una
condotta la quale accresca la loro fortuna a spese della fortuna dello Stato e
del costume della nazione. Io giudico della corruzione di un governo dal numero
di coloro che domandano un impiego per vivere: l'onesto cittadino non dovrebbe
pensare a servir la patria se non dopo di avere giá onde sussistere. Roma,
nell'antica santitá de' suoi costumi, non concedeva ad altri quest'onore. Cosí
il disordine dell'amministrazione è la piú grande cagione di pubblica
corruzione.
Sul principio il
disordine nelle finanze attaccò i piú ricchi; ma, siccome la loro classe
formava anche la classe degl'industriosi, e da questi il rimanente del popolo
viveva, cosí il disordine attaccò l'anima dello Stato, e tra poco tutte
le membra doveano risentirsene egualmente.
Nulla bastava alla
corte di Napoli. Non bastò il danaro ritratto dallo spoglio delle
Calabrie; si rimisero in uso i «donativi»; non passò anno senza che ve
ne fosse uno. Finalmente neanche i «donativi» furono sufficienti, ed
incominciaron le operazioni de' banchi.
I banchi di Napoli
erano depositi di danaro di privati, ai quali il governo non prestava altro che
la sua protezione. Erano sette corpi morali, che tutti insieme possedevano
circa tredici milioni di ducati ed ai quali la nazione ne avea affidati
ventiquattro. Le loro carte godevano il massimo credito, tra perché ipotecate
sopra fondi immensi, tra perché un corpo morale si crede superiore a quegli accidenti
a cui talora va soggetto un privato, tra perché tenevano sempre i banchi il
danaro di cui si dichiaravano per depositari e che non potevano convertire in
altro uso. Fino al 1793 essi furono riputati sacri.
La regina
pensò da banchi privati farli diventar banchi di corte. Il primo uso che
ne fece fu di gravarli di qualche pensione in beneficio di qualche favorito; il
secondo fu di costringerli a far degl'imprestiti a qualche altro favorito meno
vile o piú intrigante; il terzo, di far contribuire grosse somme per i progetti
di Acton, che si chiamavano «bisogni dello Stato», quasi che il danaro dei
banchi non fosse danaro di quegl'istessi privati ch'erano stati giá tassati.
Indi incominciarono le operazioni segrete. Si fecero estrazioni immense di
danaro: quando non vi fu piú danaro, si fecero fabbricar carte, onde venderle
come danaro. Le carte circolanti giungevano a circa trentacinque milioni di
ducati, de' quali non esisteva un soldo.
Allora
incominciò un agio fino a quel tempo ignoto alla nazione, e che in breve
crebbe a segno di assorbire due terzi del valore della carta. La corte, lungi
dal riparare al male allorché era sul nascere, l'accrebbe, continuando tutto
giorno a metter fuori delle carte vuote e facendole convertire in contanti per
mezzo de' suoi agenti a qualunque agio ne venisse richiesto. Si vide lo stesso
sovrano divenir agiotatore: se avesse voluto far fallire una nazione nemica,
non potea fare altrimenti.
L'agio era tanto
piú pesante quanto che non si trattava di biglietti di azione, non di biglietti
di corte, la sorte de' quali avesse interessati soli pochi renditieri; si
trattava di attaccare in un colpo solo tutto il numerario e di rovesciar tutte
le proprietá, tutto il commercio, tutta la circolazione di una nazione
agricola, la quale di sua natura ha sempre la circolazione piú languida delle
altre. La corte si scosse quando il male era irreparabile. Diede i suoi
allodiali per ipoteca delle carte vuote; ma né que' fondi potean ritrovare cosí
facilmente compratori, né, venduti, riparato avrebbero alla mala fede.
Conveniva persuadere al popolo che di carte vuote non se ne sarebbero piú
fatte, cioè conveniva persuadere o che la corte non avrebbe avuto piú
bisogno o che, avendo bisogno, non avrebbe adoperato l'espediente di far nuove
carte. Lo stato delle cose avrebbe fatto temere il bisogno, la condotta della
corte faceva dubitar della sua fede. Come fidarsi di una corte, la quale,
avendo giá incominciata la vendita de' beni ecclesiastici, invece di lacerar due
milioni e mezzo di carte ritratte dalla vendita, li rimise di nuovo in
circolazione? Cosí questa porzione di debito pubblico venne a duplicarsi,
poiché rimasero a peso della nazione le carte e si alienò l'equivalente
de' fondi.
Non manca taluno,
il quale ha creduto la vendita de' beni ecclesiastici essere stata effetto, non
giá di cura che si avesse di riempire il vuoto de' banchi, ma bensí di timore
che essi servissero di pretesto e di stimolo ad una rivoluzione. Quanto meno vi
sará da guadagnare, dicevasi, tanto minore sará il numero di coloro che
desiderano una rivoluzione. L'uomo che si dice autor di questo consiglio
conosceva egli la rivoluzione, gli uomini, la sua patria?
X
Continuazione. - COMMERCIO
Il disordine de'
banchi, quindici anni prima, forse o non vi sarebbe stato o sarebbe stato piú
tollerabile, perché la nazione avea allora un erario sufficiente a riempire il
vuoto che ne' banchi si faceva, o almeno a mantenervi sempre tanto danaro
quanto era necessario per la circolazione. È una veritá riconosciuta da
tutti, che ne' pubblici depositi può mancare una porzione del contante
senza che perciò la carta perda il suo credito; ma conviene che la
circolazione sia in piena attivitá e che, mentre una parte della nazione
restituisce le sue carte, un'altra depositi nuovi effetti. Ora, in Napoli da
alcuni anni era cessata del tutto l'introduzione delle nuove specie, poiché
estinta era ogni industria nazionale, e quei rapporti di commercio che soli ci
eran rimasti colle altre nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e,
piú de' tremuoti, l'economia distruttiva della corte avean desolate le
Calabrie; due delle piú fertili province eran divenute deserte. Il
disseccamento delle paludi Pontine e la coltura che Pio sesto vi aveva
introdotta ci avean tolto o almeno diminuito un ramo utilissimo di esportazione
de' nostri grani. Noi avevamo altre volte un commercio lucrosissimo colla
Francia, e quello che sulla Francia guadagnavamo compensava ciò che
perdevamo cogli inglesi, cogli olandesi e coi tedeschi. La rivoluzione di
Francia, distruggendo le manifatture di Marsiglia e di Lione, fece decadere il
nostro commercio d'olio e di sete. Conveniva dare maggiore attivitá alle nostre
manifatture di seta ed istituir delle fabbriche di sapone: esse sarebbero divenute
quasi privative per noi, ed avremmo ritratto almeno questo vantaggio dalla
rivoluzione francese(19). Ma quest'oggetto non
importava ad Acton. Conveniva serbare un'esatta neutralitá, la quale, ne' primi
anni della rivoluzione francese, avrebbe dato un immenso smercio de' nostri
grani. Ma Acton e la regina credevano poter far morire i francesi di fame.
Intanto i francesi destarono i ragusei ed i levantini, dai quali ebbero il
grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora tutto il lucro che potevamo
ragionevolmente sperare, ed oggi ci troviamo di aver acquistati in questo ramo
di commercio de' concorrenti, tanto piú pericolosi in quanto che abitano un
suolo egualmente fertile e sono piú poveri di noi. Ci si permise il solo
commercio cogl'inglesi, poiché il commercio di Olanda era anche nelle mani
dell'Inghilterra, cioè ci si permise quel solo commercio che ci si
avrebbe dovuto vietare: anzi, siccome l'opinione della corte era venduta
agl'inglesi, cosí l'opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le
brillanti bagatelle del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi
siamo stati di tanto debitori agl'inglesi, quanto nel tempo appunto in cui meno
potevamo pagare. Questo disquilibrio di commercio ha tolto in otto o nove anni
alla nazione napolitana quasi dieci milioni di suo danaro effettivo, oltre
tanto, e forse anche piú, che avrebbe dovuto e che avrebbe potuto guadagnare,
se il vero interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di chi la
governava.
A tutti questi
mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e condotta in modo che
distruggeva il Regno, senza poterci far sperare giammai né la vittoria né la
pace. Si manteneva da quattro anni un esercito di sessantamila uomini ozioso
nelle frontiere, ed il suo mantenimento costava quanto quello di qualunque
esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace del Regno,
la quale si dovea fondar solo sulla buona fede del re, si richiesero nuovi
soccorsi al popolo; e si ottennero. Si richiese non solo l'argento delle
chiese, ma anche quello de' privati, dando loro in prezzo delle carte che non
avevano alcun valore; e si ottenne(20). S'impose una decima
su tutti i fondi del Regno, la quale produceva quasi il quarto di tutti gli
altri tributi che giá si pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono
piccole, si dissiparono, si perdettero, passando per mani negligenti o
infedeli.
Si spogliarono le
campagne di cavalli, di muli, di bovi, che parte morirono per mancanza di cibo,
parte si rivendettero da quegl'istessi che ne avean fatta la requisizione.
Si tolsero nella
prima leva le migliori braccia all'agricoltura, allo Stato la piú utile
gioventú, che, strappata dal seno delle loro famiglie, fu condotta a morire in
San Germano, Sessa e Teano: l'aria pestilenziale di que' luoghi e la mancanza
di tutte le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne distrussero piú
di trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto perdere tanti.
Allora si vide
quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante della sua patria, ma nel
tempo istesso nemica di opressioni e d'ingiustizie. Erano due anni da che si
era ordinata una leva di sedicimila uomini, ma questa leva, commessa ad agenti
venali, non era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti ostacoli, che
pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle loro reclute.
Gli abitanti delle province del regno di Napoli non amavano di fare il soldato
mercenario, servo de' capricci di un generale tedesco, che non conosce altra
ordinanza che il suo bastone. La corte vide il male; la nuova leva fu commessa
alle municipalitá o sia alle stesse popolazioni, ed i nuovi coscritti furon
dichiarati «volontari», da dover servire alla difesa della patria fino alla
pace. Al nome di «patria», al nome di «volontari», tutti corsero, e si ebbe in
pochissimi giorni quasi il doppio del numero ordinato colla leva. Ma questi
stessi, un anno dopo, disgustati dai cattivi trattamenti della corte, e piú dalla
sua mala fede, per la maggior parte disertarono. Essi erano volontari da servir
fino alla pace; la pace si era conchiusa, ed essi chiesero il loro congedo. Un
governo savio l'avrebbe volentieri accordato, sicuro di riaverli al nuovo
bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il potere della buona fede e
della giustizia: anziché esserne amato, credeva piú sicuro esser temuto dai
suoi popoli, e ne fu odiato. Tanti disertori, per evitare il rigore delle
persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno fu pieno di ladri e le
frontiere rimasero prive di soldati.
I cortigiani
diedero torto ai soldati, perché volevano adular la corte(21); gli esteri diedero torto ai soldati, perché volevano
avvilir la nazione; e molti tra' nostri, che pure hanno fama di pensatori,
diedero torto ai soldati, perché non conoscevano la nazione ed adulavano gli
esteri. Questi piccoli tratti caratterizzano le nazioni, gli uomini che le
governano e quelli che le giudicano.
XI
GUERRA
Tale era lo stato
del Regno sul cadere dell'estate del 1798, quando la vittoria di Nelson ne'
mari di Alessandria(22), lo scarso numero
della truppa francese in Italia, le promesse venali di qualche francese, la
nuova alleanza colla Russia e, piú di tutto, gl'intrighi del gabinetto inglese,
fecero credere al re di Napoli esser venuto il momento opportuno a ristabilire
le cose d'Italia.
Da una parte, la
repubblica romana, teatro delle prime operazioni militari, piú che di uno
Stato, presentava l'apparenza di un deserto, i pochi uomini abitatori del
quale, invece di opporsi all'invasore, dovean ricevere chiunque loro portasse
del pane. Dall'altra, l'imperatore di Germania rivolgeva di nuovo pensieri di
guerra: né egli né il Direttorio volevan piú la pace; e si osservava che,
mentre i plenipotenziari delle due potenze stavano inutilmente in Rastadt, i
francesi occupavano la Svizzera ed i russi marciavano verso il Reno.
Il re di Napoli,
per completare il suo esercito, ordinò una leva di quarantamila uomini,
la quale fu eseguita in tutto il Regno in un giorno solo. In tal modo sulle
frontiere, al cader di ottobre, trovaronsi riuniti circa settantamila uomini.
Mancava a queste
truppe un generale, e, credendosi che non si potesse trovare in Napoli, si
chiese alla Germania. Mack giunse come un genio tutelare del Regno.
Il piano della
guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar le sue truppe nel tempo
stesso che l'imperatore avrebbe aperta la campagna dalla sua parte. Il duca di
Toscana ed il re di Sardegna doveano avere anch'essi parte nell'operazione, ed
a tale oggetto facevano delle leve segrete ne' loro Stati; e si erano inviati
dalla corte di Napoli settemila uomini sotto il comando del general Naselli, il
quale occupò Livorno ed a tempo opportuno doveva, insieme colle truppe
toscane, marciar sopra Bologna e riunirsi alla grande armata. Si era creduto
necessario, sotto apparenza di difesa, occupare militarmente la Toscana, perché
quel governo era, tra tutti i governi italiani, il piú sinceramente alieno dai
pensieri di guerra; e questo avea reso il ministero toscano tanto odioso al
governo di Napoli, che poco mancò che non si vedessero dei corpi di
truppa spedirsi da Napoli in Livorno a solo fine di obbligare il granduca a
deporre Manfredini. In tal modo i francesi, circondati ed attaccati in tutti i
punti, dovevano sloggiar dall'Italia.
Ma l'imperatore
intanto non si movea, tra perché forse opportuna non era ancora la stagione,
tra perché aspettava i russi che non erano giunti ancora. Il Consiglio di
Vienna avea risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si
sa come, si ottennero lettere piú autorevoli delle risoluzioni del Consiglio,
le quali permettevano all'esercito napolitano di muoversi prima; e queste
lettere erano state chieste ed ottenute con tanta segretezza, che il ministero
istesso di Vienna non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la
marcia delle truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri ne ebbe chi allora
risedeva in Vienna per la corte di Napoli. Il ministro Thugut diceva che questa
corte avea tradita la causa di tutta l'Europa e che meritava di esser
abbandonata al suo destino. La protezione dell'imperatore Paolo primo, presso
il quale principal mediatrice fu la granduchessa Elena Paolowna, allora
arciduchessa palatina, salvò la corte dagli effetti di questa minaccia.
L'ambasciatore napolitano si giustificò, mostrando ordini in faccia ai
quali quelli del Consiglio dovean tacere. Ma rimase e rimarrá sempre incerto e
disputabile perché mai, contro gli stessi propri interessi, da Napoli si
chiedevano e da Vienna si davano ordini segreti, contrari al piano
pubblicamente risoluto, da tutti accettato, da tutti riconosciuto per piú
vantaggioso. Intendevasi, con ciò, ingannar l'inimico o se stesso?
È probabile
che la corte di Napoli ardesse di soverchia impazienza di discacciar i francesi
dall'Italia. È probabile ancora che tanta impazienza non nascesse da
solo odio, ma anche da desiderio di trarre da una vittoria, la quale credevasi
sicura, un profitto, che forse l'Austria non avrebbe volentieri conceduto, ma,
trovandolo giá preso, lo avrebbe tollerato. Siccome nelle leghe non si dá mai
piú di quello che uno si prende, cosí de' collegati ciascuno si affretta a
prendere quanto piú può e quanto piú presto è possibile; la
vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sé,
si obbliano gl'interessi di tutti. Ma, in tale ipotesi, perché mai l'Austria
acconsentí alla dimanda di Napoli? Non è neanche inverosimile che Mack,
sempre fertile in progetti, credesse facile discacciar i francesi; e, sicuro
de' primi successi (e chi non l'avrebbe creduto, quando Mack non si conosceva
ancora?), amava piú d'invitare l'imperatore a goderne i frutti che dividerne la
gloria.
Sopra ogni altra
congettura però è verosimile che la corte di Napoli operasse
spesso senza l'intelligenza dell'imperatore di Germania, perché, mentre da una
parte prestava il suo nome alla lega che si era stretta nel Nord e della quale
era il centro principale in Vienna, dall'altra manteneva un suo ambasciatore in
Parigi, il quale, quando la pace fu giá rotta, potette ottenere dal Direttorio
ordini tali al generale in capo dell'armata d'Italia, che gl'impedivano
d'invadere il regno di Napoli e limitavano le sue operazioni militari a
respingere solamente l'aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu, non
si sa bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora, ordini di tale
natura, quando anche s'ignorino le trattative precedenti, è certo che
non si possono ottenere senza supporre o che il Direttorio ignorasse
interamente i disegni ed i movimenti del gabinetto di Napoli, il che è
incredibile, o che avesse risoluto d'abbandonar l'Italia, talché la corte di
Napoli, piú che sugli aiuti degli alleati, fondasse le speranze de' suoi
vantaggi sull'abbandono del governo francese, e volesse perciò
procurarseli da sé sola, onde non esser costretta a dividerli cogli altri.
È certo che la guerra con Napoli fu fatta contro gli ordini del
Direttorio; che Championnet non ebbe altri che lo autorizzasse a farla se non
il generale in capo Joubert, e che in faccia al Direttorio dovette scusarsi
colla ragione di quella necessitá, che spesso spinge un generale oltre i limiti
delle istruzioni superiori; e fu assoluto, perché facilmente si giustifica ogni
audacia che abbia ottenuto prospero successo.
Ma tutte
queste cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né a tutti i ministri del re
erano confidate. Miserabile condizione di tempi, ne' quali la sorte de' popoli
dipende piú dall'intrigo che dal valor vero, e vedesi un governo, il quale
poteva tutto ragionevolmente sperare dalle forze proprie e dall'opportunitá
delle circostanze, avvilirsi a cercar la vittoria dai capricci e dalle promesse
degli uomini, meno stabili della stessa fortuna! Se la corte di Napoli,
consultando le proprie forze e la propria ragione, anziché la guerra, l'avesse
guerreggiata, ne avrebbe ottenuti successi o piú felici o meno disastrosi.
Difatti il maggior numero de' consiglieri del re, sia che ignorassero le
segrete ragioni sulle quali si fondavano tutte le speranze del buon successo,
sia che non vi mettessero molta fede, rimasero fermi nel parere della pace. Ma
Acton ebbe cura di allontanarli. Quando si decise la guerra, non intervennero
molti degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il generale Pignatelli,
il marchese del Gallo eran per la pace. Per la pace furono il maresciallo
Parisi ed il general Colli, chiamati in Consiglio, sebbene non consiglieri. Ma
la regina, Mack, Acton, Castelcicala formarono la pluralitá e strascinarono
l'animo del re.
- Che vi pare di
questa guerra giá risoluta? - domandò molti giorni dipoi la regina ad
Ariola, che era ministro di guerra e che intanto non ne sapeva ancor nulla.
Ariola, che avrebbe voluto tacere, spronato a parlare, le disse che da tal
guerra vi era piú da temere che da sperare.
- Il re potrebbe -
disse Ariola - sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma tutto gli manca
per l'offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I francesi, pochi di numero,
son tutti soldati avvezzi alla guerra ed alla fatica; l'esercito nostro
è per metá composto di reclute strappate appena da un mese dal seno
delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirá che ad imbarazzare
i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere piú sensibile la mancanza in
cui siamo di buoni officiali, il numero de' quali non abbiam potuto raddoppiare
in un momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si
aspetta che queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che
l'imperatore si muova il primo? Tanta fretta si ha dunque di vincere, che non
si ha cura neanche di render sicura la vittoria? Tanto certo è della
vittoria Mack, che si avvia senza neanche pensare alla possibilitá di un
rovescio? Si apre una guerra nelle frontiere, è necessario che uno de'
due Stati immediatamente sia invaso; ed intanto niuna cura egli si ha preso
della difesa dell'interno del Regno, che tutto è aperto, ed, al primo
rovescio che noi avremo, il nemico sará nel cuore de' nostri Stati. A noi non
sará molto facile, soli e senza il soccorso dell'imperatore, discacciar
l'inimico dall'Italia, e, finché ciò non si ottenga, nulla si potrá dir
fatto. Molte vittorie bisognano a noi: una sola basta all'inimico. Quanto piú
l'inimico si avanzerá, tanto piú facile troverá la strada alla vittoria; ma
quando piú ci avanzeremo noi, tanto maggiori e piú numerosi ostacoli
incontraremo: la sorte dell'inimico si decide in un momento; la nostra, sebbene
prospera, avrá bisogno di molto tempo. Intanto Mack, quasi potesse terminar la
guerra in pochi giorni, si avvia verso un paese desolato, ove è penuria
di tutto, senza aver prima pensato a provvedersi, ed in una stagione in cui
difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti. Egli si avvia a
conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio. -
Quale fu l'effetto
di questo discorso? Mack ed Acton se ne offesero, Acton minacciò Ariola,
Ariola se ne dolse col re e, mentre il re gli dava ragione, Acton in sua
presenza gli tolse il portafoglio. Pochi giorni dipoi, l'esperimento
confermò la veracitá de' suoi pronostici. Il re, fuggito da Roma, giunse
a Caserta: si ricorda di Ariola e lo invoca come l'unico suo liberatore. Ariola
parte pel campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il Regno da
un'invasione. Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack non vi era, né
alcuno sapeva indicare ove mai si trovasse. Intanto vede ritornar l'esercito
tutto disperso. Crede necessario tornare in Caserta e non perder tempo. Poche
ore dopo la di lui partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della
guerra era un vile, il quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è
arrestato. Né è improbabile che a questa disgrazia di Ariola abbia
prestata la sua mano anche Acton, se è vero ciò che taluni
dicono, che, accusato egli di aver mal diretti alcuni preparativi militari,
abbia voluto farne creder colpevole Ariola ed abbia afferrata potentemente
l'occasione di poter far sequestrare le di lui carte, onde non si venisse mai
in chiaro del vero autore. Credeva egli con un delitto di cortigiano conservar
la fama di generale?
XII
Continuazione.
La guerra fu
risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di Napoli, con equivoche
parole, dichiara che egli voleva conservar l'amicizia che aveva colla
repubblica francese, ma che si credeva oltraggiato per l'occupazione di Malta,
isola che apparteneva al regno di Sicilia, e non poteva soffrire che fossero
invase le terre del papa, che amava come suo antico alleato e rispettava come
capo della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per restituire il
territorio romano al legittimo
sovrano (si lascia in dubbio se questo sovrano fosse o no il papa); ed invita
qualunque forza armata a ritirarsi dal territorio romano, perché, in altro
caso, se le sarebbe dichiarata la guerra. Simile proclama non si era veduto in
nessun secolo della diplomazia, a meno che i romani non ne avessero formato
uno, allorché ordinarono agli altri greci di non molestar gli acarnanii, perché
tra i popoli della Grecia erano stati i soli che non avevano inviate truppe
all'assedio di Troia.
Questo proclama fu
pubblicato a' 21 novembre. A' 22 tutto l'esercito partí e, diviso in sette
colonne, per sette punti diversi entrò nel territorio romano. Le colonne
che mossero da San Germano e da Gaeta si avanzarono rapidissimamente. Né la
stagione dirottamente piovosa, né i fiumi che s'incontrarono pel cammino, né la
difficoltá de' trasporti di artiglieria e viveri in cammini impraticabili per
profondissimo fango, fecero arrestar gli ordini di Mack. Egli non faceva che
correre: si lasciava indietro l'artiglieria, cominciavano a mancare i viveri,
il soldato era privo di tutto, avea bisogno di riposo; e Mack correva. Le
colonne di Micheroux e di Sanfilippo erano state giá battute negli Apruzzi. La
voce pubblica di questo rovescio incolpò i generali; ma è certo
che posteriormente la condotta di Micheroux è stata esaminata da un
Consiglio di guerra ed è stata trovata irreprensibile. Di Sanfilippo non
sappiamo nulla. Ma la voce pubblica in questi casi non merita mai intera fede,
perché il popolo giudica per l'ordinario dall'esito e spesso dá piú lode e piú
biasimo di quello che taluno merita. Mack, il quale non avea pensato mai a
stabilire una ferma comunicazione tra i diversi corpi del suo esercito ed un
concerto tra le varie loro operazioni, non seppe se non tardi un avvenimento il
quale dovea cangiar tutto il suo piano, ed intanto continuava a correre. Giunse
a' 27 di novembre in Roma. S'impiegarono cinque giorni in un cammino che ne
avrebbe richiesto quindici. Non si concessero che cinque ore di riposo sotto le
armi alla truppa, e fu costretta di nuovo a correre a Civita Castellana. Per la
strada i viveri mancarono del tutto: i provvisionieri dell'esercito chiedevano
invano a Mack ove dovessero inviarli; gli ordini del generale erano tanto
rapidi, che, mentre si eseguiva il primo, si era giá dato il secondo, il terzo,
il quarto, il quinto; i viveri si perdevano inutili per le strade, ed i soldati
e i cavalli intanto morivano di fame. Quando giunsero a Civita Castellana, i
nostri da tre giorni non avean veduto pane. Essi erano nell'assoluta
impossibilitá di poter reggere a fronte di un nemico fresco, che conosceva il
luogo e che distrusse il nostro esercito, raggirandolo qua e lá per siti ove il
maggior numero era inutile.
Mack non seppe
ispirar coraggio ad una truppa nuova, esercitandola con piccole scaramucce
contro i piccoli corpi nemici che incontrò da Terracina a Roma e che,
messi per insensato consiglio in libertá, produssero due mali gravissimi: il
primo de' quali fu quello di non avvezzare le truppe sue alla vittoria quando
questa era facile e sicura; il secondo, di accrescer il numero de' nemici nel
momento delle grandi e pericolose azioni. Non seppe Mack far battere due
colonne nello stesso tempo: furon tutte disfatte in dettaglio. Mack ignorava i
luoghi dove si trovava e, sull'orlo del precipizio, credeva e faceva credere al
re che le cose andavano prospere. Per la resistenza che i francesi avean fatta
all'esercito del re delle Due Sicilie, costui dichiarò loro la guerra a'
7 dicembre, cioè quando la guerra per le disfatte ricevute era giá
terminata, e dovea pensarsi alla pace. Dopo due altri giorni, tutto l'esercito
fu in rotta, e Mack non trovò altra risorsa che correre indietro, come
prima avea corso in avanti. In meno di un mese, Ferdinando partí, corse,
arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de' suoi e, poco
sicuro dell'altro, fu quasi sul punto di fuggire fino al terzo suo regno di
Gerusalemme per ritrovare un asilo.
Io non sono un
uomo di guerra: gli altri leggeranno la storia di tali avvenimenti nelle Memorie
di Bonamy ed in quelle del nostro Pignatelli, che vide i fatti e che era capace
di giudicarne. Mack ha pubblicato anch'egli la sua Memoria. Egli
calunnia la nazione e l'esercito. Ma l'esercito, alla testa del quale fu
battuto, non era quello stesso esercito col quale, mentre taluno lo consigliava
a procedere piú adagio, egli avea detto di voler conquistare l'Italia in
quindici giorni?(23).
Quest'uomo, che un
momento prima sfidava tutte le potenze della terra, al primo rovescio perdette
tutto il suo genio. Sebbene battuto, pure conservava tuttavia forze
infinitamente superiori; e, se non poteva vincere, poteva almeno resistere:
cogli avanzi del suo esercito poteva fermarsi a Velletri oppure al Garigliano,
ove potea per lungo tempo contendere il passo: potea salvar Gaeta e salvare il
Regno. Ma egli, che nella sua fortuna non avea fatto altro che correre, nella
disgrazia non seppe far altro che fuggire; né si fermò se non giunse a
Capua, dove pensava difendersi e dove non si trattenne che un momento.
Capua si
poteva facilmente difendere e di lá forse si potea con migliori auspíci
ritentar di nuovo la sorte delle armi. Ad un proclama che si pubblicò
per la leva in massa, tutto il Regno fu sulle armi. Gli apruzzesi si opposero
alla divisione di Rusca e, se non riuscirono ad impedirgli il passo, fecero
però sí che gli costasse molto caro. Tra le montagne impraticabili della
provincia dell'Aquila non si pervenne mai ad estinguere l'insorgenza, e la
stessa capitale della provincia non fu che per pochi giorni in poter de'
francesi, ridotti a doversi difendere entro il castello. L'altra divisione, che
venne per Terracina e Gaeta, si avanzò fino a Capua, ma non potette
impedire l'insorgenza, che era scoppiata ad Itri e Castelforte; e
gl'insorgenti, che cedettero per poco le pianure, si rifuggirono nelle loro
montagne, donde tornarono poco dopo ad infestare la coda dell'esercito
francese, che vide rotta ogni comunicazione coll'alta Italia. Un corpo di
truppe difendeva con valore e con felice successo il passo di Caiazzo. Capua
avea quasi dodicimila uomini di guarnigione. Tutti gli abitanti delle contrade
di Nola e di Caserta eransi levati in massa, ed eravi ancora un corpo di truppe
intatto comandato da Gams.
Io dirò
cosa che ai posteri sembrerá inverosimile, ma che intanto mi è stata
giurata da quasi tutt'i capuani. Se Capua non fu presa per sorpresa non fu
merito di Mack, ma di un semplice tamburo o cannoniere che fosse stato, il
quale di proprio movimento die' fuoco ad un cannone de' posti avanzati verso
San Giuseppe e fece sí che i francesi si arrestassero. Mack certamente non avea
data alcuna disposizione di difesa.
Io lo ripeto: non
sono uomo di guerra, né imprendo ad esaminar ad una ad una le operazioni e gli
accidenti della campagna. Ma io credo che gli accidenti debbano mettersi a
calcolo e che la somma finale dell'esito dipenda meno dagli accidenti che dal
piano generale. Mack peccò naturalmente nell'estender troppo la linea
delle sue operazioni, talché il minimo urto dell'inimico gliela ruppe. Ebbe piú
cura dell'inimico che gli stava a fronte che di quello che gli stava sui
fianchi, mentre forse questo era sempre piú terribile di quello; quindi
è che egli si avanzò sempre rapidissimamente, e questa stessa rapiditá,
che alcuni chiaman vittoria, fu la cagione principale delle sue inopinate
irreparabili disfatte. Battuto in un punto, Mack fu battuto in tutta la linea,
perché tutta la linea gli fu rotta. Quando Mack preparava un piano tanto vasto
per combattere un inimico debolissimo, molti dissero che Mack era un gran
generale, perché molti sono quelli che misurano la grandezza di una mente dalla
grandezza delle forze che move: io dissi che era poco savio, perché la saviezza
consiste nel produrre il massimo effetto col minimo delle forze. Mack è
un generale da brillare in un gabinetto, perché in un gabinetto appunto, e
prima dell'azione, predomina nelle menti del maggior numero l'errore di
confonder la grandezza della macchina colla grandezza dell'artefice. Non manca
Mack di quelle cognizioni teoretiche della scienza militare che impongono tanto
facilmente al maggior numero. È sicuro di ottenere in suo favore la
pluralitá de' voti un generale il quale vi parli sempre di matematica,
geografia, storia, che vi rammenta i nomi antichi di tutt'i sciti, vi enumera
tutte le grandi battaglie che gli hanno illustrati ed, a confermar ogni
evoluzione che gli vien fatta d'immaginare, vi adduce l'esempio di Eugenio, di
Montecuccoli, di Cesare, di Annibale e di Scipione. Il buon senso per altro
pare che ci dovrebbe indurre a diffidare dei piani di campagna troppo eruditi:
essi per necessitá son troppo noti anche all'inimico, ed in conseguenza
inutili. Tutto il vero segreto della guerra, dice Macchiavelli, consiste in due
cose: fare tutto ciò che l'inimico non può sospettar che tu
faccia, lasciargli fare tutto ciò che tu hai previsto che egli voglia
fare: col primo precetto renderai inutile ogni sua difesa, col secondo ogni
offesa. Questi capitani soverchiamente sistematici hanno anche un altro difetto,
ed è quello di dar un nesso, una concatenazione troppo stretta alle loro
idee: si mandano il loro piano a memoria e, se avviene che una volta la fortuna
della guerra lo tocchi, rassomigliano i fanciulli che han perduto il filo della
loro lezione e son costretti ad arrestarsi. Vuoi conoscere a segni infallibili
uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contraddizione ed i consigli
altrui: il criterio della veritá è per lui, non giá la concordanza tra
le sue idee e le cose, ma bensí tra le sue idee medesime. Prima dell'azione
sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi, perché non pensano
che le cose possan esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perché, non
avendo prevista questa diversitá, non vi si trovan preparati. Affettano ne'
loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perché
trascurano tutte le differenze che esistono nella natura. Numerano gli uomini e
non li valutano: piú che nell'uomo confidan nell'esercito, piú che nella virtú
dell'animo confidano in quella del corpo e piú che nel valore confidan nella
tattica. Questi duci piú potenti in parole che in opere prevalgon sempre, per
disgrazia delle nazioni, o quando gli ordini militari di uno Stato sono tali
che tutta l'esecuzione di una guerra dipenda da un'assemblea e da un Consiglio,
o quando coloro che reggono la somma delle cose non sono esenti da ogni spirito
di partito; e questo non è certamente il minore de' mali che lo spirito
di partito e gli ordini mal congegnati soglion produrre.
XIII
FUGA DEL RE
I governi son
simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman la rovina
dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de' francesi, invece
d'ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá. A forza di
temerli, li rese piú terribili di quello che erano.
Una persona di
corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser prudente
consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i
francesi e, con tale idea, l'essersi imaginato quel gergo equivoco col quale fu
scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento
dell'attacco il vero oggetto della spedizione. - Ebbene! - dissero i soldati
quando lo seppero - ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! -
Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno
mostrato piú coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio,
invece di scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto
anche dippiú, se il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza
tra l'avvezzare un popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non
ne abbia: il primo produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel
pericolo succede lo sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora
dalla fama delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma
coll'accrescerla. Una volta che si temeva vicino l'arrivo di Iuba, ragunati a
concione i soldati: - Sappiate - loro disse - che tra pochi giorni sará qui il
re con dieci legioni, trentamila cavalli, centomila armati alla leggiera e
trecento elefanti. Cessate quindi di piú vaneggiare per saper quali sieno le
sue forze. - Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha
però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha limite
alcuno. Cosí voglion esser governati tutt'i popoli.
Lo stesso timore,
che la corte ebbe ne' primi rovesci, le ispirò il consiglio di una leva
in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s'invitarono i popoli ad
armarsi e difendere contro gl'invasori i loro beni, le loro famiglie, la
religione de' padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri
popoli ch'essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di
risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai
di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un
popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun'educazione, non vive che a
spese de' disordini del governo e de' pregiudizi della religione.
Ma questo istesso
fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di
Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua rovina. Il
popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un
re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a cavallo
e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria.
Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in
sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte dell'Acerra. Tra le
tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare essersi
dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che
erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e generale
abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri esser
tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriottismo, di cui il popolo
napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri
popolari, soggiunse: - Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli
e ministro di guerra il conte dell'Acerra? - Queste parole, raccolte da'
satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad
accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno!
Fu facile trarre a
questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere l'insurrezione
del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente ad arrestare
Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson:
moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima giá da lungo
tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere di Vienna alterate in
occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della
politica del ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu
arrestato sul molo nel punto in cui s'imbarcava per passare sul legno di
Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin sotto il
palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di «Morano i traditori!»,
«Viva la santa fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra; vide l'imponente
forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò a temerla.
Allora la partenza fu risoluta.
Furono imbarcati sui
legni inglesi e portoghesi i mobili piú preziosi de' palazzi di Caserta e di
Napoli e le raritá piú pregevoli de' musei di Portici e Capodimonte, le gioie
della corona e venti milioni e forse piú di moneta e metalli preziosi non
ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di
Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata la nazione con un
disordine generale nell'amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne'
banchi; avea ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza,
rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato piú a
fuggire che a restare! S'imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico
giá alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un
avviso, col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per
poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il
general Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno.
Il popolo
mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che
dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne' primi giorni che il re per
tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo
perché si restasse; ma gl'inglesi, i quali giá lo consideravano come lor prigioniere,
allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non gli fu mai
permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la memoria delle
cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati
e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietá. Il popolo lo vide
partire a' 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia.
XIV
ANARCHIA DI NAPOLI ED ENTRATA DE' FRANCESI
Nella storia
dell'Italia, gli avvenimenti della fine del secolo decimottavo somiglian quelli
della fine del secolo decimoquinto. In ambedue le epoche gli stessi avvenimenti
furon prodotti dalle stesse cagioni e seguíti dai medesimi effetti. In amendue
le epoche il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel
decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono la guerra;
nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i partiti: in quello,
il re avea tentato tutt'i mezzi per evitar la guerra; in questo, tutti li avea
messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e
nel re aragonese e nel borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato
coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu
perduto quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il conservarlo,
poiché è impossibile credere che non si avesse potuto facilmente
conservare quel Regno, che, anche dopo la perdita fattane, si è potuto
tanto facilmente ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la perdita del
Regno una vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non
irragionevole nell'epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne'
tempi nostri. Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali
avean tramata una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea punita
una congiura che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che
non si poteva eseguire. In amendue le epoche alla difesa del Regno è
mancata l'energia piuttosto ne' consigli del re che nelle azioni de' popoli.
Finalmente in ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato dai
vincitori, perché costretti a ritirar le loro forze nell'Italia superiore.
Io vorrei che,
ogni qual volta succede un simile avvenimento, si rileggesse la seguente, non
saprei dir se dottrina o profezia di Macchiavelli: «Credevano - dice egli - i
nostri principi italiani, prima che essi assaggiassero i colpi delle
oltramontane guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti pensare una
cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne' detti e nelle parole
arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e di oro,
dormire e mangiare con maggior splendore che gli altri, tenere assai lascivie
intorno, governarsi coi sudditi avaramente, superbamente, marcirsi nell'ozio,
dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato
loro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di
oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di
qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i grandi spaventi, le subite
fughe e le miracolose perdite; e cosí tre potentissimi Stati, che erano in
Italia, sono stati piú volte saccheggiati e guasti». Non è meraviglia
che gli stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi effetti e che un
potentissimo regno sia rovinato nel tempo stesso, in cui, con ordini piú savi,
tale era lo stato politico di Europa, dovea ingrandirsi. «La meraviglia
è - continua Macchiavelli - che quelli che restano» anzi quegli stessi
che han sofferto il male, «stanno nello stesso errore, e vivono nello stesso
disordine».
La Cittá(24) avea assunto il governo municipale di Napoli: erasi
formata una milizia nazionale per mantenere il buon ordine. Il popolo ne' primi
giorni riconosceva l'autoritá della Cittá; tutto in apparenza era tranquillo:
ma il fuoco ardeva sotto le ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi
che il pericoloso onore, a cui era stato destinato, era forse l'ultimo tratto
del suo rivale Acton per perderlo. Egli avrebbe potuto vendicarsi del suo
rivale, render al suo re uno di quei servigi segnalati e straordinari, per i
quali un uomo acquista quasi il nome ed i diritti di fondator di una dinastia,
renderne un altro egualmente grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la
guerra o finirla, risparmiando l'anarchia e tutti i mali dell'anarchia: le
circostanze nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma egli non seppe
concepire che pensieri ordinari.
Si disse che la
regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete di sollevare il
popolo, di consegnargli le armi, di produrre l'anarchia, di far incendiare
Napoli, di non farvi rimanere anima vivente «da notaro in sopra»... Sia che
queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi inevitabili
conseguenze dell'insurrezione che la regina, partendo, organizzava, è
certo però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute;
e, nell'osservare le vicende di una rivoluzione, meritano eguale attenzione le
voci vere e le false, perché, essendo, a differenza de' tempi tranquilli,
l'opinione del popolo grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene
egualmente importante e ciò che è vero e ciò che si crede
tale.
Pochi giorni dopo
si videro i primi funesti effetti degli ordini della regina nell'incendio de'
vascelli e delle barche cannoniere, che non eransi potute, per la troppo
precipitevole fuga, trasportare in Sicilia. Poche ore bastarono a consumare
ciò che tanti anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il
conte Thurn da un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l'incendio;
ed allo splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo napolitano
vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del
suo destino.
Il popolo non
amava piú il re, non volea neanche udirlo nominare; ma, ripiena la mente delle
impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la patria e
odiava i francesi. Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile
partito. Insursero delle gare tra la Cittá ed il vicario generale. Questi volea
usurparsi dritti che non avea, quasi che allora non fosse stato piú utile ed
anche piú glorioso cedere tutti quelli che avea: quella si ricordava che tra'
suoi privilegi eravi anche quello di non dover mai esser governata dai viceré.
La Cittá allora spiegò molta energia. Perché dunque allora non surse la
repubblica? Il popolo avrebbe senza dubbio seguíto il partito della Cittá. Ma,
tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una oligarchia, la quale non
avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province, dove l'odio contro i baroni
era la caratteristica comune di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui
trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi un'oligarchia, sarebbe stato
necessario rinunciare alla feudalitá. Altri non osavano; e vi fu anche chi
propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di Spagna, quasi che questo
progetto fosse allora, non dico lodevole, ma eseguibile. Ne' momenti di
grandissima trepidazione, quando discordi sono le idee e molti i partiti,
difficile è sempre ritrovar la via di mezzo e, piú che altrove, era
difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i francesi
indispensabili a fondare repubbliche.
Intanto Capua si
difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si era anche lusingato di
maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e non mai
manca chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso
per Napoli l'armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario
Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto
del Regno che giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino
all'imboccatura dell'Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il
vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di
franchi.
Non mai vicario
alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli consigliava a
contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi; la prudenza
gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da nuove inutili
sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi era
neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il
re erasi messo in mano degl'inglesi, lo metteva nella dura necessitá di perdere
o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo stesso errore
pel quale erasi perduto l'ultimo dei re della dinastia aragonese, quello
cioè di mettersi in braccio di uno de' due che si disputavano il di lui
Regno; quell'errore dal quale il savio Guicciardini ripete l'ultima rovina di
quella famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle occasioni
che ne' tempi posteriori la fortuna le offrí a ricuperare il trono. Perché
dunque il vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e
lasciar libero lo sfogo all'odio che il popolaccio avea contro i francesi,
quando questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da
poterlo frenare? Volea la guerra civile, l'anarchia? Tali erano gli ordini
della regina?
Il popolo si
credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai generali, dai soldati, da tutti.
La venuta de' commissari francesi, spediti ad esigere le somme promesse,
accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse ai
castelli a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si oppose,
perché non avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il re; il
popolaccio corse a Caivano(25) per deporre Mack, il
quale, sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che fuggire(26). Ogni vincolo sociale fu rotto. Orde forsennate di
popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le strade della cittá, gridando
«Viva la santa fede!», «Viva il popolo napolitano!». Si scelsero per loro capi
Moliterni e Roccaromana, giovani cavalieri che allora erano gl'idoli del
popolo, perché avean mostrato del valore a Capua ed a Caiazzo contro i
francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i trascorsi popolari, ma la
calma non durò che due giorni. I francesi erano giá quasi alle porte di
Napoli.
S'inviò al
loro quartier generale una deputazione composta da' principali demagoghi,
perché rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello
che era stato promesso coi patti dell'armistizio e qualche somma di piú. La
risposta de' francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea
essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della
ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l'insulto; e
ciò finí d'inferocire il popolo.
Non mancavano
agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori, non mancava quello spirito
di rapina che caratterizza tutt'i popoli della terra, non mancavano preti e
monaci fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso in
nome del Dio degli eserciti, accrescevano colla speranza l'audacia e
coll'audacia il furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea tenute delle
sessioni, piú non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece
tutto da sé. La cittá intera non offrí che un vasto spettacolo di saccheggi,
d'incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra le vittime
del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della Torre e
Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro
virtú e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato.
Alcuni
repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan
beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo
gli stessi sentimenti per dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e
di Roccaromana, s'introdussero nel forte Sant'Elmo, sotto vari pretesti e finti
nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni.
Championnet avea desiderato che, prima ch'ei si movesse verso Napoli, fosse
stato sicuro di questo castello, che domina tutta la cittá. Molti altri corsero
ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne.
Tutt'i buoni
desideravano l'arrivo de' francesi. Essi erano giá alle porte. Ma il popolo,
ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò
tanto coraggio, che si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá
aperta trattenne per due giorni l'entrata del nemico vincitore, ne
contrastò a palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse che
Sant'Elmo non era piú suo, quando si avvide che da tutt'i punti di Napoli i
repubblicani facevan fuoco alle sue spalle, vinto anziché scoraggito, si
ritirò, meno avvilito dai vincitori che indispettito contro coloro ch'esso
credeva traditori.
XV
PERCHÉ NAPOLI DOPO LA FUGA DEL RE NON SI ORGANIZZÒ A
REPUBBLICA?
Il re era partito,
il popolo non lo desiderava piú. Egli avea spinto fino al furore l'amor
d'indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all'antica schiavitú.
Quando il popolo napolitano spedí la deputazione a Championnet, non volle dir
altro che questo: - La repubblica francese avea guerra col re di Napoli, ed
ecco che il re è partito; la nazione francese non avea guerra colla
nazione napolitana, ed intanto perché mai i soldati francesi voglion vincere
coloro che offrono volontari la loro amicizia? - Questo linguaggio era saggio,
ed i napolitani, senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani
dalla repubblica.
Ma, siccome in
ogni operazione umana vi si richiede la forza e l'idea, cosí per produrre una
rivoluzione è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i
quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per
istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso
formarsi. Piú facili sono le rivoluzioni in un popolo che da poco abbia perduta
una forma di governo, perché allora le idee del popolo son tratte facilmente
dall'abolito governo, di cui tuttavia fresca conserva la memoria. Perciò
«ogni rivoluzione - al dir di Macchiavelli - lascia l'addentellato per
un'altra». Quanto piú lunga è stata l'oppressione da cui si risorge, quanto
maggiore è la diversitá tra la forma del governo distrutto e quella che
si vuole stabilire, tanto piú incerte, piú instabili sono le idee del popolo, e
tanto piú difficile è ridurlo all'uniformitá, onde avere e concerto ed
effetto nelle sue operazioni. Questa è la ragione per cui e piú
sollecito e piú felice fine hanno avuto le rivoluzioni di quei popoli, ne'
quali o vi era ancor fresca memoria di governo migliore, o i rivoluzionari
attaccati si sono ad alcuni dritti (come la Gran carta, che è
stata la bussola di tutte le rivoluzioni inglesi) o a talune magistrature e
taluni usi (come fecero gli olandesi), che essi aveano conservati quasi a
fronte del dispotismo usurpatore.
Le idee della
rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto
trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera,
erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano
lontanissime da' sensi, e, quel ch'è piú, si aggiungevano ad esse, come
leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro
popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri.
Le contrarietá ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle
cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell'operazione, e che intanto
vi entrarono.
Quanto maggiore
è questa varietá, tanto maggiore è la difficoltá di riunire il
popolo e tanto maggior forza ci vuole per vincerla. Se le idee fossero
uniformi, potrebbero tutti agire senza concerto, perché tutti agirebbero
concordemente alle loro idee; ma, quando sono difformi, è necessario che
agisca uno solo. Di rado avviene che una rivoluzione si possa condurre a fine
se non da una persona sola: la stessa libertá non si può fondare che per
mezzo del dispotismo. Il popolo ondeggia lungo tempo in partiti: diresti quasi
che la nazione vada a distruggersi, ne vedi giá scorrere il sangue; finché una
persona si eleva, acquista dell'ascendente sul popolo, fissa le idee, ne
riunisce le forze: col tempo, o costui forma la felicitá della patria o, se
vuole opprimerla, talora ne rimane oppresso. Ma egli ha giá indicata la strada,
ed allora il popolo può agire da sé.
Quest'uomo non si
trova se non dopo replicati infelici esperimenti, dopo lungo ondeggiar di
vicende, quando i suoi fatti medesimi lo abbiano svelato: le guerre civili
mettono ciascuno nel posto che gli conviene. Se taluno si voglia far conoscere
e seguire dal popolo ne' primi moti di una rivoluzione, a meno che la
rivoluzione sia religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore:
convien che abbia gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt'altro che
pel merito.
Il modo piú certo
e piú efficace per guadagnar la pubblica opinione è una regolaritá di
giurisdizione, che taluno ancora conservi nel passar dagli ordini antichi ai
nuovi. La Cittá era nelle circostanze di poter farsi seguire da tutto il
popolo; dopo la Cittá, poteva Moliterni: ma né Moliterni ebbe idea di far
nulla, né la Cittá, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche, seppe
determinarsi a quelle che il tempo richiedeva.
Parve che in
Napoli niuno si fosse preparato a questo avvenimento; e, quando si videro in
mezzo al vortice, tutti si abbandonarono in balía delle onde. Non è
molto onorevole a dirsi per lo genere umano, ma pure è vero: quasi tutte
le nazioni, nelle loro crisi politiche, allora sono giunte piú facilmente al
loro termine quando si è trovato tra loro un uomo profondamente
ambizioso, il quale, prevedendo da lontano gli avvenimenti, vi si sia preparato
e, riunendo tutte le forze a proprio vantaggio, abbia prodotto poi il vantaggio
della nazione: poiché, o è stato saggio e virtuoso, ed ha fondata la sua
grandezza sulla felicitá della patria; o è stato uno stolto, uno
scellerato, ed è caduto vittima de' suoi progetti. Ma allora, lo ripeto,
egli avea giá insegnata la strada.
In Napoli
Pignatelli, viceré, non ebbe neanche il pensiero di far nulla; la Cittá non
seppe risolversi; Moliterni non ardí; niun altro si mostrò; tra'
repubblicani molti, che menavan piú rumore, erano piú francesi(27) che repubblicani, ed ai veri repubblicani allora una folla
infinita si era rimescolata di mercatanti di
rivoluzione, che desideravano per calcolo un cangiamento. Era giá
passato il primo momento: troppo innanzi era trascorso il popolo; gli stessi
saggi disperavano di poterlo piú frenare, gli stessi buoni desideravano una
forza esterna che lo contenesse.
Forse i
francesi istessi eran giá troppo vicini. Quell'operazione che avrebbe potuto
riuscire a' 25 di dicembre, allorché la Cittá la fece da re, facendo aprir di
suo ordine le cacce del sovrano giá partito, difficilmente potea eseguirsi
allorché i francesi erano a Capua. Per quanto disinteressata fosse stata la
Cittá nelle sue operazioni e lontana dalle sue idee di oligarchia, volendo però
formar la felicitá della nazione, non potea né dovea allontanarsi dalle idee
nazionali; e troppo queste idee sarebbero state lontane dall'idee di molti
altri. Ora i piú leggeri dispareri si conciliano con difficoltá, quando vi sia
una forza esterna pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se non
per diseguaglianza di forza o per vicendevole stanchezza di combattere: molte
offese si tollerano e, tollerando, molti mali si evitano, sol perché non
possiamo sul momento farne vendetta; e la concordia tra gli uomini è
meno effetto di saviezza che di necessitá. Le potenze estere, pronte in tutt'i
tempi a prender parte, prima nelle gare tra fazione e fazione di una medesima
cittá, indi nelle dispute tra uno Stato e l'altro, hanno distrutta prima la
libertá e poscia l'indipendenza dell'Italia. Niuna nazione piú della napolitana
ne ha provati gl'infelici effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un
titolo su quel regno, ogni gara che sorgeva tra' cittadini, vi era un estero
che vi prendeva parte: talora gli esteri stessi fomentavano le gare; i
cittadini, per essere piú forti, univano i loro disegni a quelli dell'estero,
simili al cavallo che, per vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone;
e cosí quel regno è stato per cinque secoli (quanti se ne contano
dall'estinzione della dinastia de' Normanni fino allo stabilimento di quella
dei Borboni) l'infelice teatro d'infinite guerre civili, senza che una di esse
abbia potuto giammai produrre un bene alla patria.
Io forse non
faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse
fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della
giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autoritá,
che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso
linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de' beni reali e
liberato lo avesse da que' mali che soffriva; forse allora il popolo, non
allarmato all'aspetto di novitá contro delle quali avea inteso dir tanto male,
vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della
guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi
non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte
migliore.
XVI
STATO DELLA NAZIONE NAPOLITANA
L'armata francese
entrò in Napoli a' 22 di gennaio. La prima cura di Championnet fu quella
d'«istallare» un governo provvisorio, il quale, nel tempo stesso che provvedeva
ai bisogni momentanei della nazione, doveva preparar la costituzione permanente
dello Stato. Una cura tanto importante fu affidata a venticinque persone, le
quali, divise in sei «comitati», si occupavano de' dettagli
dell'amministrazione ed esercitavano quello che chiamasi «potere esecutivo»;
riunite insieme, formavano l'assemblea
legislativa.
I sei comitati
erano: 1° centrale, 2° dell'interno, 3° di
guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di legislazione.
Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal
francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis,
Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano,
Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo.
Ma l'immaginare un
progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una
repubblica. In un governo in cui la volontá pubblica, o sia la legge, non ha e
non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontá
privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini liberi. Prima
d'innalzare sul territorio napolitano l'edificio della libertá, vi erano, nelle
antiche costituzioni, negl'invecchiati costumi e pregiudizi, negl'interessi
attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era
necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertá e da
Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli avea
de' potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente
gl'inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di
Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che
difficilmente sussistere.
Dall'epoca de'
romani in qua, la sorte dell'Italia meridionale dipende in gran parte da quella
della Sicilia. I romani ridussero l'Italia a giardino, il quale ben presto si
cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de' romani,
s'incominciò ad udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio
dell'Italia; detto quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la
seconda. Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma,
quando l'Italia bastava sola ad alimentare trenta milioni di uomini industriosi
e guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne' secoli di mezzo, chiunque fu
padrone della Sicilia turbò a suo talento l'Italia. Dalla Sicilia
Belisario distrusse il regno de' goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono
per tre secoli, finché i normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al
quale rimase unita fino all'epoca di Carlo primo d'Angiò. E chi potrebbe
negare che quella separazione non abbia influito a ritardare nel regno di
Napoli il progresso di quella civiltá, la quale, prima che in ogni regione
d'Italia, vi avevan destata il gran Federico di Svevia e la sventurata sua
progenie? I due regni furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa
Austriaca di Spagna. In que' tempi appunto Napoli incominciò ad
ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per sussistere
ha bisogno del formento e piú dell'olio delle province lontane che bagna
l'Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente
esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero
passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il
vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in
Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che
picciole e mal sicure rade.
Avea il re nel
Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l'antico governo in
preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi
erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean
deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da' proclami del re;
altre pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro
ispirava una conquista sí rapida ed accorte della debolezza della forza
francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un'ingiustizia, anche
apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione.
Il numero di
coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della
popolazione, era molto scarso; e, tosto che l'affare si fosse commesso alla
decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio
nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che,
per la sua singolaritá, merita d'esser ricordato.
Trovavansi in
Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di
procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che
impediscono colá l'uscita dal porto, impedirono la partenza de' còrsi, i
quali loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la
repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei
francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi,
sperando di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di
viaggio a piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono
alloggiati da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che
vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la
donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo
contadino del villaggio. Costui si recò immediatamente dai còrsi,
si inginocchiò al piú giovane e gli protestò tutti gli atti di riverenza
e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e, dubitando di maggiori
guai, appena partito il Girunda, senz'aspettare il giorno, se ne scapparono
immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del
supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo; ma
tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando a tutti se
visto avessero il principe ereditario col suo séguito, sparse una voce, che
tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove
passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il supposto
principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del momento a
sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in Mesagne, si
ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte,
cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo
egli partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava
suoi vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due
altri principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e
l'altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl'insurretti. Il primo
restò nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari,
conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione.
Con questa truppa,
che fu fatta composta di birri, degli uomini d'armi dei baroni, dei galeotti e
carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi
delle due province, riuscí loro facile l'impadronirsi di tutti i paesi che
proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio Martina ed
Acquaviva, le quali cittá giurato avevano piuttosto morire che riconoscer
gl'impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi coi
francesi, i quali erano giá padroni di una buona porzione della provincia di
Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di
Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il Boccheciampe
in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle
mani dei francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la
nuova della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l'antico Metaponto, e
andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera.
La nostra
rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon
fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo. Ma le vedute de' patrioti(28) e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano
diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa
ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne' tempi
del re, quell'istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il
piú grande ostacolo allo stabilimento della libertá. La nazione napolitana si
potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e
per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri,
cosí la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera,
e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni
erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e
che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Cosí la coltura di
pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi
disprezzava una coltura che non l'era utile e che non intendeva(29).
Le disgrazie de'
popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle piú utili veritá. Non si
può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare
la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel
popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è
destinata dalla natura a governarlo, sia coll'autoritá sia cogli esempi, ha
venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta
allora la metá della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime
da seguire, gli ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra
civile, ed allora tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i
savi che scelgono sempre i minori tra' mali, e gl'indifferenti i quali non
calcolano che sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una
potenza esterna, la quale non manca mai di profittare di simili torbidi o per
se stessa o per ristabilire il re discacciato.
Quell'amore di
patria, che nasce dalla pubblica educazione e che genera l'orgoglio nazionale
è quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt'i mali
che per la sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l'Europa collegata
contro di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi
è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de' tedeschi o
degl'inglesi. Niuno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser
convinto, se mai la vendetta dei diritti borbonici fosse stata la cagione e non
giá il pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere un
re, era inutile.
La nazione
napolitana, lungi dall'avere questa unitá nazionale, si potea considerar come
divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una
picciola estensione di terreno tutte le varietá: diverso è in ogni
provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha
sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque
ritrovasse nuovi benefíci della natura, ed il sistema feudale, che ne' secoli
scorsi, tra l'anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi
luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietá
ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la
proprietá ed i mezzi di sussistenza.
Conveniva, tra
tante contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse
tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta
riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di
noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva,
dall'altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzone.
Si avea una
popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era
però docile a riceverla da un'altra mano. I partiti decisi erano ambedue
scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir
questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da
veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de' due pretendenti,
avrebbe seguíto quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo
s'illude difficilmente, ma facilmente si governa.
Esso non ancora
comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un
sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse
farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti
i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti,
esso ne avrebbe ben accettato il dono.
Le insorgenze
ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della
guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a
forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá di odiare da
vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e
vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione
intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non
iscoppiarono che molto tempo dopo.
Vi furono anche
molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l'entusiasmo della libertá,
che prevennero l'arrivo de' francesi nella capitale e si sostennero colle sole
loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era
resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza
imponente, se si avesse saputo trarne profitto.
La popolazione
immensa della capitale era piú istupidita che attiva. Essa guardava ancora con
ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale,
dir si poteva che il popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di
quello delle province, perché meno oppresso da' tributi e piú vezzeggiato da
una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo piú sulla feccia del
popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che
meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto
dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che non sia desiderato
anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepí di quella
popolazione, fece sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le
province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si ebbe infatti
la controrivoluzione.
XVII
IDEE DE' PATRIOTI
Quali dunque esser
doveano le operazioni da farsi per spingere avanti la rivoluzione del regno di
Napoli?
Il primo passo era
quello di far sí che tutti i patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o
almeno che per essi vi fosse convenuto il governo.
Tra i nostri
patrioti (ci si permetta un'espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e
che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra,
moltissimi l'aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione
era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi;
alcuni lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per
esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno
confondeva la libertá colla licenza, e credeva acquistar colla rivoluzione il
diritto d'insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la
rivoluzione era un affare di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che
piú lo aveva colpito nell'antico governo. Non intendo con ciò offendere
la mia nazione: questo è un carattere di tutte le rivoluzioni; ma, al
contrario, qual altra può, al pari della nostra, presentare un numero
maggiore o anche eguale di persone che solo amavano l'ordine e la patria?
Si prendeva
però, come suol avvenire, per oggetto principale della riforma
ciò che non era che un accessorio, ed all'accessorio si sagrificava il
principale. Seguendo le idee de' patrioti, non si sapeva né donde incominciare
né dove arrestarsi.
Che cosa è mai
una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha
pensieri, interessi, disegni diversi delle altre. Se a costoro si presenta un
capo che li voglia riunire, la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che
tutti abbiano un interesse comune, allora seguirá la rivoluzione ed andrá
avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti
rimarranno forse trascurati? No; ma ciascuno adatterá il suo interesse privato
al pubblico, la volontá particolare seguirá la generale, le riforme degli
accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerá in ordine.
Non vi è
governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma
non vi è governo il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti
partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare,
cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i
quali braman la rivoluzione per una ragione, l'aborrono per un'altra: passato
il primo momento dell'entusiasmo ed ottenuto l'oggetto principale, il quale,
perché comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza
desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di
tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se
stesso e poi anche agli altri: - Ma per ora potrebbe bastare... Il di piú, che
si vuol fare, è inutile..., è dannoso. - Comincia ad ascoltarsi
l'interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor
prezzo che sia possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi piú
forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú quello che ha perduto che
quello che ha guadagnato. Le volontá individuali si cangiano, incominciano a
discordar tra loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o non
può avere altro garante ed altro esecutore che la volontá individuale,
le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi, i
poteri caderanno nel languore; il languore o menerá all'anarchia, o, per evitar
l'anarchia, sará necessitá affidare l'esecuzione delle leggi ad una forza
estranea, che non è piú quella del popolo libero; e voi non avrete piú
repubblica.
Ecco tutto il
segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e
farlo; egli allora vi seguirá: distinguere ciò che vuole il popolo da
ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole;
egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché discacciò i Tarquini da
Roma, pensò a provvedere il popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un re
sul trono, lo credevano però ancor necessario nell'altare.
La mania di voler
tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si
rivolta contro la legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá
individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta il
rigore delle leggi; perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone
alla volontá sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e
lascia tutti gli altri alla volontá individuale del popolo. «Idque apud
imperitos 'humanitas' vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano
carattere di tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia
libertá risveglia in essi l'amore della libertá contro gli stessi loro
liberatori.
XVIII
RIVOLUZIONE FRANCESE
Io credeva di far
delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia
della rivoluzione di tutt'i popoli della terra, e specialmente della
rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non
han poco contribuito ai nostri mali.
Hanno voluto
imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di
male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i
nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si
è creduto che la rivoluzione francese fosse l'opera della filosofia,
mentre la filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo
stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe
un giorno divenuta.
La rivoluzione
francese aveva un'origine quasi legale,
che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali
della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il
popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle
assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o
almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee
erano state convocate.
Quello stesso
stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo
inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si
formò l'Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell'Assemblea. Che
vi sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco:
fin qui non vi è ancora rivoluzione.
Essa
incominciò allorché il re si separò dall'Assemblea: allora
incominciò la guerra civile, ed il partito dell'Assemblea seppe
guadagnare il popolo coll'idea della giustizia.
E fin qui il
popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosí, delle sue
idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava
ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati
dall'autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò
l'Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne
re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al
proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo
patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione
ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito
dell'Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo
interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del
1789, le trovo piú simili che non si pensa: s'incomincia la riforma in nome del
re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal
re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre
le nuove sono appoggiate alle antiche.
Le operazioni
de' popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini.
Se invertite, se turbate l'ordine e la serie delle medesime, se volete esporre
nell'Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed
invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o
venale declamatore. Al pari che l'uomo lo è nelle idee, un popolo
è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite;
l'esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore;
l'esterna solennitá delle formole sostiene un'operazione manifestamente
ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo
errore: quanto piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta
nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete
l'errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi
dichiareranno giustizia e pubblica necessitá quello che non è se non
capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché il popolo lo
approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando
l'errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è piú difficile,
perché è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in
cui la linea delle fallacie si separa da quella della veritá; ma, ricreduti una
volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema.
La Convenzione nazionale condannò Luigi decimosesto contro tutte quelle
leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora come avea
ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di
cattivissimo esempio in una repubblica - dice Macchiavelli - fare una legge e
non la osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l'ha
fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia fu
distrutto colla stessa sentenza che condannò l'infelice Luigi
decimosesto.
Nell'epoca istessa
in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono anche quelle
riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi
fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti non si
intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si correva
dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non
indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano
decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una
forza maggiore e contenne tutte le altre col timore.
Robespierre
ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole
delle cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo
non intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli
accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre
voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i
suoi fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le
cose senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di
«oltre rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e
perderlo?
Robespierre
salvò la Francia, facendo rivoltare tutt'i partiti contro di lui ed, in
conseguenza, riunendoli(30); ma Robespierre non
salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la costituzione sua.
Le idee erano
giunte all'estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di quello che il
popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il
pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le
leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de'
moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra
importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la
sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo.
L'uomo è di
tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti
all'estremo, s'indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser
libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam
libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo
romano: a me pare che si possa dire di tutt'i popoli della terra. Or che altro
avea fatto Robespierre, spingendo all'estremo il senso della libertá, se non
che accelerarne il cambiamento?
La vita e le
vicende de' popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è
tra l'estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt'i popoli
corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di
tutt'i popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi,
non aveva proprietá di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi
certe; ottenne la sicurezza delle persone e de' beni, ma rimaneva ancora senza
nozze, senza auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a
tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con
moderazione; e ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma
la rese, per la vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú
energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe
«eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l'eguaglianza di fatto:
s'incominciò a parlar di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era
giunto a quell'estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo
anno della rivoluzione francese, non si pensava che a stabilire quella
eguaglianza di diritto, alla quale tendevano irresistibilmente gli ordini
pubblici di tutta l'Europa; nel terzo però si pretendeva l'eguaglianza
di fatto: in tre anni voi passate dall'etá di Menenio Agrippa a quella de' Gracchi.
Che dico io mai? Nell'etá de' Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare i beni,
si riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo
ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne dall'eseguire la divisione
de' beni. In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in
dubbio la legittimitá delle doti, quella de' testamenti, l'istessa legge
fondamentale del dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee
della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di quelle de' Gracchi:
ed ecco perché, contando da quest'epoca, la repubblica francese ha avuto un
secolo meno di vita della romana.
Quando le
pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa
della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non
distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni
tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e
i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi
scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti.
Le idee di
Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione
francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però
era possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe
fatti de' francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci
di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma
a capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione
francese sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser
Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il
dittatore del mondo o pazzo.
Ho cercato nella
storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de' suoi amici
ed anche de' suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi
non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre
ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non
so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è
ben lontano dall'esser evidente che Robespierre, predicando libertá, non
tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro
ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir
colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza
distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell'autoritá, che Macchiavelli
chiama «pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell'uomo
nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi
dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá
divenir tirannici. Né l'uno né l'altro comprese la massima o di non offender
nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar
loro cagioni di quietare e fermare l'animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne'
cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che
volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l'impero col terrore; non eran
militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla
medesima sostituita l'inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che
è piú crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i
delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa
specie di tirannide, che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la piú
terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole.
Per gli uomini che
riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale ne
dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta
con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un eccesso
di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra contro
Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un
partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a
mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar
la sua libertá: sotto il Direttorio la sua indipendenza(31).
Questo è il
corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita
senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá
è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino,
esso non ritrova mai questo punto!
XIX
QUANTE ERANO LE IDEE DELLA NAZIONE?
Il male, che
producono le idee troppo astratte di libertá, è quello di toglierla
mentre la vogliono stabilire. La libertá è un bene, perché produce molti
altri beni, quali sono la sicurezza, l'agiata sussistenza, la popolazione, la
moderazione dei tributi, l'accrescimento dell'industria e tanti altri beni sensibili;
ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertá. Un uomo, il
quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di
amare la libertá, rassomiglierebbe l'Alcibiade di Marmontel, il quale voleva
esser amato «per se stesso».
La nazione
napolitana bramava veder riordinate le finanze, piú incomode per la cattiva
distribuzione che per la gravezza de' tributi; terminate le dissensioni che
nascevan dalla feudalitá, dissensioni che tenevano la nazione in uno stato di
guerra civile; divise piú equamente le immense terre che trovavansi accumulate
nelle mani degli ecclesiastici e del fisco. Questo era il voto di tutti:
quest'uso fecero della loro libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse
si democratizzarono, e dove o non pervennero o sol pervennero tardi gli agenti
del governo e de' francesi.
Molte popolazioni
si divisero i terreni, che prima appartenevano alle «cacce regie»(32). Molti si revindicarono le terre litigiose del feudo. Ma
io non ho cognizione di tutti gli avvenimenti, né importerebbe ripeterli,
essendo tutti gli stessi. In Picerno, appena il popolo intese l'arrivo de'
francesi, corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie al «Dio
d'Israele, che avea visitato e redento il suo popolo». Dalla chiesa
passò ad unirsi in parlamento, ed il primo atto della sua libertá fu
quello di chieder conto dell'uso che per sei anni si era fatto del pubblico
danaro. Non tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica de'
suoi diritti: chi fu presente a quell'adunanza udí con piacere ed ammirazione
rispondersi dal maggior numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: - Non
conviene a noi, che ci lagniamo dell'ingiustizia degli altri, il darne
l'esempio. - Il secondo uso della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del
feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la libertá istessa,
quello di battersi fino a che ebbero munizioni, e, quando non ebbero piú
munizioni, per aver del piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti
gli organi delle chiese... - I nostri santi - si disse - non ne hanno bisogno.
- Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche gl'istrumenti piú
necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini onde imporre al
nemico, si batterono in modo da ingannarlo piú col loro valore che colle vesti
loro.
Non son questi gli
estremi dell'amore della libertá? Ed a questo stesso segno molte altre
popolazioni pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le
stesse idee, i bisogni medesimi ed i medesimi desidèri.
Ma, mentre tutti
avean tali desidèri, moltissimi desideravano anche delle utili riforme,
che avessero risvegliata l'attivitá della nazione, che avessero tolto l'ozio
de' frati, l'incertezza delle proprietá, che avessero assicurata e protetta
l'agricoltura, il commercio; e questi formavano quella classe che presso di
tutte le nazioni è intermedia tra il popolo e la nobiltá. Questa classe,
se non è potente quanto la nobiltá e numerosa quanto il popolo, è
però dappertutto sempre la piú sensata. La libertá delle opinioni,
l'abolizione de' culti, l'esenzione dai pregiudizi era chiesta da pochissimi,
perché a pochissimi interessava. Quest'ultima riforma dovea seguire la libertá
giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva la forza, e questa non si potea
ottenere se non seguendo le idee del maggior numero. Ma si rovesciò
l'ordine, e si volle guadagnar gli animi di molti, presentando loro quelle idee
che erano idee di pochi.
Che sperare da
quel linguaggio che si teneva in tutt'i proclami diretti al nostro popolo?
«Finalmente siete liberi»... Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá:
essa è un sentimento e non un'idea; si fa provare coi fatti, non si
dimostra colle parole. «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»...
Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicitá?
«L'uomo riacquista tutt'i suoi diritti»... E quali? «Avrete un governo libero e
giusto, fondato sopra i princípi dell'uguaglianza; gl'impieghi non saranno il
patrimonio esclusivo de' nobili e de' ricchi, ma la ricompensa de' talenti e
della virtú»... Potente motivo per il popolo, il quale non si picca né di virtú
né di talenti, vuol esser ben governato, e non ambisce cariche! «Un santo
entusiasmo si manifesti in tutt'i luoghi, le bandiere tricolori s'innalzino,
gli alberi si piantino, le municipalitá, le guardie civiche si organizzino»...
Qual gruppo d'idee che il popolo o non intende o non cura! «I destini d'Italia
debbono adempirsi». «Scilicet id populo cordi est: ea cura quietos
sollicitat animos». «I pregiudizi, la religione, i costumi»... Piano! mio
caro declamatore; finora sei stato solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso(33).
Il corso delle
idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare
il grado di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono
le idee di tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E,
siccome coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed
hanno piú idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono piú beni,
cosí molte volte è necessario che i repubblicani per istabilir la
repubblica si scordino di loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo Bruto,
moltissimi ne previde, ma, finché fu solo a soffrire ed a prevedere, tacque;
molti ne soffrirono i patrizi prima che si lagnasse il popolo; finalmente il
fatto di Lucrezia fece ricordare ad ognuno che era marito: allora Bruto
parlò prima al popolo e lo mosse, poscia parlò al senato, e,
quando la rivoluzione fu compíta, ascoltò se stesso. Tutto si può
fare: la difficoltá è sola nel modo. Noi possiamo giugnere col tempo a
quelle idee alle quali sarebbe follia voler giugner oggi: impresso una volta il
moto, si passa da un avvenimento all'altro, e l'uomo diventa un essere
meramente passivo. Tutto il segreto consiste in saper donde si debba
incominciare.
Non si può
mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia una rivoluzione religiosa,
seguendo idee troppo generali, né seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu
incontrerai ad ogni passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni
d'interessi, che, non potendosi distruggere, è necessitá conciliare. Il
popolo è un fanciullo, e vi fa spesso delle difficoltá alle quali non
siete preparato. Molte nostre popolazioni non amavano l'albero perché non ne
intendevano l'oggetto, e talune, che s'indispettivano per non intenderlo, lo
biasimavano come magico; molte, invece dell'albero, avrebbero voluto un altro
emblema. È indifferente che una rivoluzione abbia un emblema o un altro,
ma è necessario che abbia quello che il popolo intende e vuole.
In molte
popolazioni eravi un male da riparare, un bene da procurare per poter allettare
il popolo: le stesse risorse non vi erano in altre popolazioni; né potevano la
legge o il governo occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era
giá compiuta. Le rivoluzioni attive sono sempre piú efficaci, perché il popolo
si dirige subito da se stesso a ciò che piú da vicino l'interessa. In
una rivoluzione passiva conviene che l'agente del governo indovini l'animo del
popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non saprebbe
procacciarsi.
Talora il bene
generale è in collisione cogl'interessi de' potenti. L'abolizione de'
feudi, per esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, piú del
feudatario, sono da temersi coloro che vivono sul feudo. Il popolo trae
ordinariamente la sussistenza da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il
feudatario vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il
bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque maggiore. Il
talento del riformatore è allora quello di rompere i lacci della
dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il
rispetto, l'amicizia, l'ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di
una popolazione.
Spesse volte ho
visto che una popolazione ama una riforma anziché un'altra. Molte popolazioni
desideravano la soppressione de' monasteri, molte non la volevano ancora:
piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il maggiore o minor bisogno
in cui erano de' terreni. Non urtate la pubblica opinione; crescerá col nuovo
ordine di cose il bisogno, e voi sarete sollecitato a distruggere ciò
che un momento prima si voleva conservare.
Basta dar
avviamento alle cose; di molte non si comprende oggi la necessitá o l'utile, e
si comprenderá domani: cosí avrete il vantaggio che farete far dal popolo
quello che vorreste far voi.
Non vi curate
degli accessorii, quando avete ottenuto il principale. Io, che ho voluto
esaminar la rivoluzione piú nelle idee de' popoli che in quelle de'
rivoluzionari, ho visto che il piú delle volte il malcontento nasceva dal
volersi fare talune operazioni senza talune apparenze e senza talune solennitá
che il popolo credeva necessarie. Avviene nelle rivoluzioni come avviene nella
filosofia, dove tutte le controversie nascono meno dalle idee che dalle parole.
I riformatori chiamano «forza di spirito» l'audacia colla quale attaccano le
solennitá antiche; io la chiamo «imbecillitá» di uno spirito che non sa
conciliarle colle cose nuove.
Il gran talento
del riformatore è quello di menare il popolo in modo che faccia da sé
quello che vorresti far tu. Ho visto molte popolazioni fare da per loro stesse
ciò che, fatto dal governo, avrebbero condannato. «Volendo - dice
Macchiavelli - che un errore non sia favorito da un popolo, gran rimedio è
fare che il popolo istesso lo abbia a giudicare». Ma a questo grande oggetto
non si perviene se non da chi ha giá vinto tanto la vanitá de' fanciulli di
preferir le apparenze alle cose reali, quanto la vanitá anche di quegli uomini
doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria e che la fanno
consistere nel far tutto da loro stessi.
Siccome nelle
rivoluzioni passive il gran pericolo è quello di oltrepassare il segno
in cui il popolo vuole fermarsi e dopo del quale vi abbandonerebbe, cosí il
miglior partito, il piú delle volte, è di restarsene al di qua. Il
governo avea ordinata la soppressione istantanea di molti monasteri; e questa,
commessa a persone non sempre fedeli, non avea prodotto que' vantaggi che se ne
speravano. Si poteano i conventi far rimanere, ma colla legge di non ricever
piú nuovi monaci; i loro fondi, con altra legge, si dichiaravano censiti a
coloro che ne erano affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá; e
cosí si otteneva la ripartizione de' terreni, l'abolizione del monistero a capo
di pochi anni, e frattanto ai monaci si avrebbe potuto vender anche caro questo
prolungamento di esistenza. Il voler far in un momento tutto ciò che si
può fare non è sempre senza pericolo, perché non è senza
pericolo che il popolo non abbia piú né che temere né che sperare da voi.
Il popolo è
ordinariamente piú saggio e piú giusto di quello che si crede. Talora le sue
disgrazie istesse lo correggono de' suoi errori. Ho veduto delle popolazioni
diventar repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano state
saccheggiate dagl'insorgenti. In Caiazzo taluni della piú vile feccia del
popolo insursero ed attaccarono le autoritá costituite; tutti gli altri erano
spettatori indolenti: gl'insorgenti soli furono i piú forti, vollero rapinare,
e questo ruppe il letargo degli altri. Allora gl'insorgenti non furono piú
soli: tutta la popolazione difese le autoritá costituite; ed, istruita dal
pericolo, Caiazzo divenne la popolazione piú attaccata alla repubblica.
Da tutto si
può trar profitto: tutto può esser utile ad un governo attivo,
che conosca la nazione e non abbia sistemi. Tutt'i popoli si rassomigliano; ma
gli effetti delle loro rivoluzioni sono diversi, perché diversi sono coloro che
le dirigono. Molti avvenimenti io potrei narrare in prova di ciò che ho
detto; ma si potrebbe dir tutto senza una noia mortale? Agli esteri bastano i
risultati; i nazionali, quando vogliano, possono applicare a ciascuno di essi i
fatti ed i nomi che giá sanno.
XX
PROGETTO DI GOVERNO PROVVISORIO
Nello stato in cui
era la nazione napolitana, la scelta delle persone che formar doveano il
governo provvisorio era piú importante che non si pensa. Noi riferiremo a
questo proposito ciò che taluno propose a Championnet ed a coloro che
consigliavano Championnet.
«Il primo passo in
una rivoluzione passiva è quello di guadagnar l'opinione del popolo; il
secondo è quello d'interessare nella rivoluzione il maggior numero delle
persone che sia possibile. Queste due operazioni, sebbene in apparenza diverse,
non sono però in realtá che una sola; poiché quello istesso che
interessa nella rivoluzione il maggior numero delle persone vi fa guadagnare
l'opinione del popolo, il quale, non potendo giudicar mai di una rivoluzione e
di un governo per princípi e per teorie, non potendo ne' primi giorni
giudicarne dagli effetti, deve per necessitá giudicarne dalle persone, ed
approvare quel governo che vede commesso a persone che egli è avvezzo a
rispettare.
«Tra gl'impiegati
del re di Napoli molti ve ne sono, i quali non hanno giammai fatta la guerra
alla rivoluzione; amici della patria perché amanti del bene, ed attaccati al
governo del re sol perché quel governo dava loro un mezzo onesto di
sussistenza. Molti di costoro meritano di esser impiegati per i loro talenti e
possono guadagnare alla rivoluzione l'opinione di molte classi del popolo.
«Il fòro ne
somministra moltissimi; e la classe del fòro, una volta guadagnata,
strascina seco il quinto della popolazione. Moltissimi ne somministra la classe
degli ecclesiastici, e vi è da sperare altrettanto di bene: il resto si
avrebbe dalla nobiltá (uso per l'ultima volta questa parola per indicare un
ceto che piú non deve esistere, ma che ha esistito finora) e dalla classe de'
negozianti. I nobili si crederanno meno offesi, quando si vedranno non del tutto
obbliati; ed i negozianti, finora disprezzati da' nobili, saranno superbi di un
onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la nazione sperar da loro
aiuti grandissimi ne' suoi bisogni. In Napoli questa è la classe amica
del popolo, poiché da questa classe dipende e vive quanto in Napoli vi sono
pescatori, marinai, facchini e di altri tali, che formano quella numerosa e
sempre mobile parte del popolo che chiamansi 'lazzaroni'. Utili anche sarebbero
molti ricchi proprietari delle province, i quali possono colá ciò che
possono i negozianti in Napoli, e potranno dare al governo quei lumi che non ha
e che non può avere altrimenti sulle medesime.
«Per effetto della
nostra mal diretta educazione pubblica, la cognizione delle nostre cose si
trova riunita al potere ed alla ricchezza: coloro che hanno per loro porzione
il sapere, per lo piú, tutto sanno fuorché ciò che saper si dee.
Allevati colla lettura de' libri inglesi e francesi, sapranno le manifatture di
Birmingham e di Manchester, e non quelle del nostro Arpino; vi parleranno
dell'agricoltura della Provenza, e non sapranno quella della Puglia; non vi
è tra loro chi non sappia come si elegga un re di Polonia o un
imperatore dei romani, e pochi sapranno come si eleggono gli amministratori di
una nostra municipalitá; tutti vi diranno il grado di longitudine e di
latitudine d'Othaiti: se domandate il grado di Napoli, nessuno saprá dirlo. Un
tempo i nostri si occuparono di tali cose, ed ebbimo scrittori di questi
oggetti prima che le altre nazioni di Europa ancora vi pensassero. Oggi
ciascuno sdegna di occuparsene, vago di una gloria straniera, quasi che si
potesse meritare maggior stima dagli altri popoli ripetendo loro male
ciò che essi sanno bene, che dicendo loro ciò che ancora non
sanno. Queste cognizioni intanto sono necessarie, e, per averle, o convien
ricorrere ai libri senza ordine e senza gusto scritti due secoli fa, o convien
dipendere da coloro i quali, per avere maneggiati gli affari del Regno e viste
diverse nostre regioni, conoscono e gli uomini e lo stato degli uomini. Per
difetto della nostra educazione, la scienza che noi abbiamo è inutile, e
siam costretti a mendicare le utili dagli altri.
«Ma, affinché le
cognizioni delle cose patrie non siano scompagnate dai lumi della filosofia
universale di Europa, ed affinché coloro de' quali abbiam bisogno per opinione
non diventino i nostri padroni per necessitá, affinché gli antichi interessi
(se pure costoro avessero interesse per l'antico governo) non opprimano i
nuovi, a costoro si unirá un doppio numero di savi e virtuosi patrioti: cosí
avremo il vantaggio del patriotismo nelle decisioni, ed il patriotismo avrá il
vantaggio delle cognizioni patrie nell'esame e dell'opinione pubblica
nell'esecuzione.
«Invece di fare
l'assemblea, che chiamar si potrebbe 'costituente', di venticinque persone, far
si potrebbe di ottanta, e combinare in tal modo insieme tutti questi vantaggi.
Un'assemblea provvisoria di ottanta non è troppo grande per una nazione
che dee averne una costituzionale piú che doppia: all'incontro una di
venticinque può sembrare troppo piccola, specialmente non essendosi
ancora pubblicata la costituzione. Il popolo potrá credere che si voglia
prender giuoco di lui e che si pensi ad escluderlo da tutto. Un generale
estero, che venisse egli solo a darci la legge, si tollererebbe come un re
conquistatore, e l'oppressione, in cui ciascuno vedrebbe gli altri tutti, gli
renderebbe tollerabile la propria; ma, subito che chiamate a parte della
sovranitá la nazione, conviene che usiate piú riguardi: o conviene dar a tutti
o a nessuno; i consigli di mezzo non tolgono l'oppressione e vi aggiungono
l'invidia».
Si passava ad
indicare, in tutte le classi, de' veri patrioti, i quali, senza esser ascritti
a verun club, amavano la patria ed avrebbero saputo renderla felice...
Ma i nomi di costoro sarebbe ora colpevole imprudenza rivelare.
XXI
MASSIME CHE SI SEGUIRONO
Io prego tutti
coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non credere che io intenda
scrivere la satira de' patrioti. Se il patriota è l'uomo che ama la
patria, non sono io stesso un patriota? Come potrei condannare un nome che
onora tanti amici, de' quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo
esser superbi che in Napoli la classe de' patrioti sia stata la classe
migliore: ivi, e forse ivi solamente, la rivoluzione non è stata fatta
da coloro che la desideravano sol perché non avevano che perdere. Ma in una
grande agitazione politica è impossibile che i scellerati non si
rimescolino ai buoni, come appunto, agitando un vaso, è impossibile che
la feccia non si rimescoli col fluido. Il grande oggetto delle leggi e del
governo è di far sí che, ad onta de' nomi comuni de' quali si vogliono
ricoprire, si possano sempre distinguere i buoni dai cattivi, e che si
riconosca per patriota solo colui che è degno di esserlo. Allora i
cattivi non corromperanno l'opera de' buoni. Allora il governo de' patrioti
sará il migliore de' governi, perché sará il governo di coloro che amano la
patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose umane, che spesso le
maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere i buoni, non fanno che
allontanarli e verificare l'antico adagio: che nelle rivoluzioni trionfano
sempre i pessimi.
Nelle altre
rivoluzioni i rivoluzionari non buoni han fatto sorgere princípi pessimi. In
quella di Napoli princípi non nostri e non buoni fecero perdere gli uomini
buoni. Nulla di migliore degl'individui che avevamo, perché i princípi loro
individuali erano retti: se le operazioni politiche non corrisposero alle loro
idee, ciò avvenne perché i princípi pubblici non erano di essi ed erano
fallaci. Questi princípi politici per necessitá doveano corromper tutto.
Alcuni falsi
patrioti o maligni speculatori, ai quali né la classe de' buoni né un solo del
governo aderí mai, dicevano che tutti gli aristocratici, che tutt'i vescovi,
tutt'i preti, tutt'i ricchi dovevano essere distrutti. Non erano contenti che
fossero eguagliati agli altri. La repubblica fiorentina operava una volta cogli
stessi principi; e la repubblica fiorentina fu perciò in una continua
guerra civile, che finalmente produsse la sua morte. Questo avviene
inevitabilmente tutte le volte che la repubblica non è fondata sopra la
giustizia; e non lo è mai ogni qual volta, dopo aver distrutta la
classe, continua a perseguitar l'individuo, non perché ami le distinzioni della
classe giá estinta, ma solo perché le apparteneva un giorno. I romani si
contentarono di far che i plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo
era il giusto e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i
patrizi sol perché erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che voler rimettere
il patriziato dopo averlo distrutto e voler far nascere la guerra civile.
Pretendevano
non doversi impiegar nessuno di coloro che aveano ben servito il re. Era giusto
che non s'impiegassero coloro, se mai ve ne erano, che lo aveano servito nei
suoi capricci, nelle sue dissolutezze, nelle sue tirannie; che doveano l'onore
di servire all'infamia onde si eran ricoperti. Ma molti, servendo il re, avean
servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto servire il
re, perché non meritavano servir la patria: l'escluder quelli, l'ammetter
questi, sol perché quelli aveano servito il re e questi non giá, non era lo
stesso che tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano
servirla?
Chi dunque dovea
impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La repubblica napolitana fu
considerata come una preda, la di cui divisione spettar dovea a pochissimi; e
questo fu il segnale, né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra
la parte numerosa della nazione e la parte debole.
Questo fece
mancare tutt'i buoni agenti della repubblica: se un uomo di genio e da bene
è raro in tutto il genere umano, come mai può ritrovarsi poi
facilmente in una classe poco numerosa? È vero che i clamori della folla
né esprimevano il voto de' buoni né eran di norma al governo; ma, in
circostanze precipitose ed incerte, quando la curiositá pubblica è
grandissima ed ignote sono ancora le massime di un governo nuovo, né vi
è tempo e modo da paragonare le voci ai fatti, i clamori, sebben falsi,
producono un male reale, perché il popolo li crede massime del governo e se ne
offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far sorgere una opinione
che dir si possa pubblica; fare che nel tempo istesso e parlassero molti,
perché le voci riunite producono effetto maggiore, e le parole fossero
concordi, onde l'effetto, per contrasto delle medesime, non venisse distrutto.
Questo, per altro, era in Napoli piú difficile ad ottenersi che altrove; tra
perché la rivoluzione non era attiva, ma passiva, né vi era, in conseguenza,
un'opinione predominante, ma si imitavano quelle di Francia, le quali erano
state molte e diverse, onde è che vi erano alcuni «terroristi», altri
«moderati», ecc.; tra perché le opinioni non eran libere, e spesso prevaleva
per effetto di forza quella che non era la piú comune; tra perché finalmente il
tempo fu brevissimo, e l'opinione pubblica, ovunque non vi è forza che
possa dirigerla, ha bisogno di tempo lunghissimo.
È
un'osservazione costante che il popolo non s'inganna mai ne' particolari; ma
una fazione s'inganna, e molto piú una fazione la quale riduce le virtú ed i talenti
tutti ad un solo nome, di cui usa egualmente e Catilina e Catone. Il vero
«patriotismo» è l'amor della patria, ed ama la patria chi vuole il suo
bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo separate da queste idee sensibili,
allora formate del patriotismo una parola chimerica, la quale apre il campo
alla calunnia ed impedisce all'uomo da bene, che non è fazioso, di
accostarsi al governo; allora si sostituisce al merito reale un merito di
opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale rimane sempre
dietro a quello dei ciarlatani.
Con questi mezzi
abbiam veduti allontanati dal corpo legislativo il virtuoso Vincenzio Russo ed
alcuni altri, tra' quali uno che, in quelle circostanze, avrebbe potuto esser
utile alla patria.
Se la nostra
rivoluzione fosse stata attiva, i nostri patrioti si sarebbero conosciuti
nell'azione precedente, il che non avrebbe lasciato luogo alla impostura, e si
sarebbero conosciuti per quello che ciascun valea. Si è detto realmente
che le guerre civili fanno sviluppare i geni di una nazione, non perché li
facciano nascere, ma perché li fanno conoscere; perché ciascuno nell'azione si
mette al posto che il suo genio gli assegna, e la scelta per lo piú suole
riuscir buona, perché si giudica dell'uomo dai suoi fatti.
Presso di noi l'uomo
era riputato patriota da che apparteneva ad un club. Ma, quando anche questa
invenzione inglese di club fosse stata atta a produrre un giorno una
rivoluzione, pure, non avendola prodotta, non potea far giudicare degli uomini
se non dalle parole. I nostri clubs non avean ancora superata la prima
prova delle congiure, che è quella di conservare il segreto tra il
numero: composti sulle prime da pochi individui, allorché incominciò la
persecuzione, si sciolsero. Quando venne la rivoluzione, si trovarono moltissimi,
i quali non aveano fatto altro che dare il loro nome negli ultimi tempi, uomini
che non si conoscevano neanche tra loro, e tra costoro fu facile a qualunque
audace rimescolarsi e dichiararsi patriota.
Cosí la patria fu
in pericolo di esser vittima dell'ambizione de' privati, poiché non si trattava
di soddisfar questa con servigi resi alla patria medesima, ma bensí con quelli
che taluno forsi voleva renderle; non si esaminava chi sapeva, chi potea, ma si
cercava chi voleva; ed in tale gara il piú audace mentitore, il piú sfacciato
millantatore doveano vincere il merito e la virtú sempre modesta.
XXII
ACCUSA DI ROTONDO - COMMISSIONE CENSORIA
S'incominciò
dai primi giorni della repubblica a fare una guerra a tutti gl'impiegati:
accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una carica non
dovea far altro che mettersi alla testa di un certo numero di patrioti e far
dello strepito. Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva,
cosí la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il numero e lo strepito,
prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché passino ad usarne
un'altra piú efficace e piú crudele. All'uomo ragionevole e dabbene non
rimaneva che involgersi nel suo mantello e tacere.
Prosdocimo
Rotondo, eletto rappresentante, offese l'invidia di qualche suo nemico. Si
mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba, che non conosceva Rotondo,
ma, entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea che ei fosse indegno della
carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un'accusa di tale natura
non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l'indegnitá di taluno potrá far sí che il
sovrano non lo elegga; ma, eletto che l'abbia, perché sia deposto prima del
tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa
però una volta l'accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve
esser libera l'accusa, ma punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo:
so però ch'egli insisteva perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla
carica, pubblicò il conto della sua amministrazione, e tutti tacquero.
Il presidente allora del comitato centrale vedea in questo affare, in apparenza
privato, quanto importasse conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non
vi è governo, ed intendeva bene che una folla di patrioti poteva
diventar fazione, subito che non fosse piú nazione. Ma, poco di poi, alcuni,
disperando di farsi amare e rendersi forti colla nazione, vollero adular la
fazione, e non si permise che dell'affare di Rotondo piú si parlasse. Palomba
partí pel dipartimento del quale era stato nominato commissario. Gli fu data,
è vero, la facoltá di proseguir l'accusa anche per mezzo de' suoi
procuratori: ma non si trattava di dargli una facoltá; era necessario imporgli
un'obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire, se prima non adempiva al
dovere che gl'imponeva l'accusa. In un governo giusto l'accusatore è nel
tempo istesso accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era degno o no di
seder tra i legislatori, Palomba non avea diritto di esser nominato commissario.
Dispiacque a Rotondo ed a tutt'i buoni un silenzio che sacrificava il governo
alla fazione e la fazione all'individuo.
Il segreto, una
sola volta svelato, tolse ogni freno all'intrigo. Napoli si vide piena di
adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le persone
del governo. Ma non si contentavano di mettere cosí un freno alla condotta di
coloro che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la
libertá de' partiti produce nella repubblica; non si contentavano di osservarsi
a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro censure voleano che
avessero la forza di accuse, e cosí lo studio delle parti dovea degenerare in
guerra civile.
Non vi fu piú uno
il quale non fosse accusato; ma, siccome le accuse non erano dirette dall'amore
della patria, cosí non erano fondate sulla ragione: motivi personali le
facevano nascere, gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a
ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi per autoritá degli
esteri. Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste, non potevano
però mai esser legali, perché, anche quando si eseguiva la legge,
parlava l'uomo. Cosí gli uomini non si avvezzavano mai a credere che a
soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che quella della
legge; e, senza questa intima e profonda persuasione, non vi è
repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le sètte non servono piú la
patria, ma bensí l'uomo che esse credono superiore alla legge, e quest'uomo
fomenta in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I partiti
corrompono l'uomo, e l'uomo corrompe la nazione. Gl'intriganti prendono le loro
misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i faziosi (importa poco di qual
partito essi siano: è fazioso chiunque non è del partito della
patria) trionfano; e, siccome l'unico mezzo di acquetarli è quello di
dar loro una carica, cosí si vedono elevati molti che la nazione non vuole e
che ruinano poi la nazione.
Male funesto, non
ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai obbliare,
onde esser piú cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che la forza
della rivoluzione spinge sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in
una rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si vede, un nome
che si può fingere, tengono spesso il luogo delle vere virtú e del
merito reale; in una rivoluzione prodotta da armi straniere, in cui è
inevitabile la sconsigliata profusione delle cariche: tra il conquistatore, il
quale spesso non sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che
ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui impiegati, i quali
rammentano piú i bisogni di un amico che quelli di uno Stato che odiavano, e,
pieni ancora dell'impazienza di obbedire, di rado sanno temperarsi nell'uso di
comandare.
Il governo, per
acquetare un poco i rumori, istituí una commissione di cinque persone per
esaminare coloro che doveano impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali
che dalla commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso per
sempre.
Questa istituzione
fu effetto delle circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti; il tempo era
breve; il bisogno di ben conoscere le persone urgente. La commissione della
quale parliamo, fu imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni
limitatissime, quasi private: ma essa divenne, contro la mente del governo, una
magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare, manteneva un
officio, riceveva petizioni, faceva decreti. L'istituzione cangiò
natura, e questo avvien sempre in tutte le istituzioni simili. Se, invece di
istituire una commissione, si fosse obbligato Palomba a proseguire l'accusa; se
fosse stato condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro
quinti de' clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe conosciuto meglio
le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine, specialmente ne' primi
giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce la vera cagione del
medesimo, e tutto attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il
quale deve persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era
sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma non eran
sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché li
princípi, dalli quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un governo
nuovo è necessitá far quanto meno si possa d'istituzioni tali che
possino divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla mano
di chi governa.
XXIII
LEGGI - FEDECOMMESSI
Io seguo il corso
delle mie idee anziché quello de' tempi. Tanti avvenimenti si sono accumulati e
quasi addensati in sí breve tempo, che essi, invece di succedersi,
s'incrocicchiano tra loro, né se ne può giudicar bene se non
osservandone i loro rapporti.
Il momento della
rivoluzione in un popolo è come un momento di tumulto in un'assemblea: i
dispareri, il calore della disputa, destano tanti e sí vari rumori, che
impossibile riesce far ascoltare la voce della ragione. Se allora un uomo
rispettabile per la sua prudenza e pel suo costume si mostra, gli animi si
acchetano, tutti l'ascoltano: il suo nome gli guadagna l'attenzione di tutti,
egli può far udire la voce della ragione. Nel primo momento l'opinione
è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel secondo conviene che la
ragione sostenga e confermi l'opinione.
Que' fatti che
finora abbiam riferiti aveano per iscopo il guadagnare la confidenza del popolo
prima che il governo avesse agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea
colle opere meritarsi quella confidenza che avea giá guadagnata... Esso si
occupò dell'abolizione de' fedecommessi e della feudalitá, che formavano
presso di noi i piú grandi ostacoli all'eguaglianza ed al governo repubblicano.
L'istituzione de'
fedecommessi porta seco lo spirito di conservar i beni nelle famiglie, spirito
non compatibile coll'eguaglianza nelle repubbliche ben ordinate. Forse, cosí in
Roma come in Sparta, l'amor dell'eguaglianza avea fatto nascere lo spirito
della conservazione de' beni. Ma i nostri fedecommessi non aveano di romano
altro che il nome e le formole esterne di ciò che chiamasi
«sostituzione»: queste antiche istituzioni, unite alle idee di nobiltá
ereditaria e di successione feudale, avean prodotto presso di noi un mostro, di
cui a torto incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte le ricchezze
sono territoriali, si erano i fedecommessi moltiplicati all'estremo, e
moltiplicato avevano ancora il numero de' celibi, degli oziosi, de' poveri, de'
litiganti, ecc.
La riforma fu
semplice e ragionevole. Non si distrusse la volontá de' testatori che fino a
quel tempo aveano ordinato de' fedecommessi, tra perché una legge nuova non
deve mai annullare i fatti precedenti, tra perché la riforma della proprietá
non deve distruggerne il fondamento, il quale altro non è che il
possesso autorizzato dal costume pubblico(34). Ma i beni de'
fedecommessi rimanendo liberi in mano de' possessori e la legge proibendo di
ordinarne de' nuovi, una sola generazione sarebbe stata sufficiente a produrre
quella divisione che si desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá,
si sarebbe mal volentieri accettata.
A' secondogeniti
ed a' legatari fu disposto darsi il capitale di quella parte del fedecommesso
di cui godevano la rendita: cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere
ai loro figli. Il calcolo de' capitali fu ordinato farsi sulla rendita alla
ragione del tre per cento; e cosí, in una nazione ove i fondi sono in commercio
alla ragione non minore del cinque e del sei per cento, le porzioni de'
legatari venivano indirettamente a duplicarsi, e si correggeva, senza violenza,
quella disuguaglianza che lo spirito di primogenitura avea introdotta nelle
porzioni de' figli di uno stesso padre.
Questa legge fu
saggia e ben accetta a tutti: i possessori stessi de' fedecommessi non
perdevano tanto colla cessione ai legatari, quanto guadagnavano coll'acquistar
la libera proprietá de' loro beni in una nazione che incominciava a sviluppare
qualche attivitá. I legami de' fedecommessi erano giá mal tollerati, e da'
dissipatori che volean abusare dei loro beni, e da' saggi i quali voleano
usarne in bene.
Forse sarebbe
stato giusto aggiugnere alla legge la condizione aggiuntavi dall'imperatore
Leopoldo, allorché fece la riforma dei fedecommessi di Toscana. Giudicando
questo ottimo sovrano che manca alla giustizia chiunque priva del diritto alla
successione un uomo nato e nodrito con esso, riserbò la capacitá di succedere
ai fedecommessi non solo ai possessori, ma anche ai chiamati giá nati o da
nascere da matrimoni contratti prima della legge, molti de' quali eransi fatti
colla speranza di una successione fedecommessaria.
Rimanevano ancora
alcuni altri oggetti da determinarsi: rimaneva a prendersi delle misure sui
tanti e sí ricchi monti di maritaggi che vi sono in Napoli e che altro in
realtá poi non sono che fedecommessi di famiglia e di gente... Ma tali oggetti
dipendevano dalla legge testamentaria, dallo stato della nazione e da tante
altre considerazioni, che era meglio aspettare tempo piú opportuno. Di rado
nella rivoluzione francese ed in quelle che sono scoppiate in conseguenza, di
rado si è peccato per soverchia lentezza in far le leggi: spessissimo per
soverchia precipitanza.
XXIV
LEGGE FEUDALE
La legge feudale
richiedeva piú lungo esame e presentava interessi piú difficili a conciliarsi.
Quella dei fedecommessi toglieva poco ai possessori dei medesimi, e quel poco
davalo ai figli ed ai fratelli loro: la legge dei feudi toglieva ai feudatari
moltissimo, e questo passava agli estranei, che talvolta erano i loro nemici.
Intanto, l'abolizione dei feudi era il voto generale della nazione. Gli
abitanti delle province ardevano di tanta impazienza, che aveano quasiché
strascinato il re a dare alla feudalitá de' colpi, i quali sentivano piú di
democrazia che di monarchia. Io dico ciò per un modo di dire, ma non son
certo che la feudalitá convenga piú all'una che all'altra di queste due forme
di governo. La forma di governo a cui la feudalitá meglio conviene è
l'aristocrazia: aristocratici erano i governi di tutta l'Europa nell'epoca in
cui la feudalitá prevaleva. Le monarchie presenti dell'Europa eransi elevate
sulle rovine della medesima: ove essa era rimasta intatta, il governo era
rimasto aristocratico, siccome in Polonia; ove era stata temperata, ma non
distrutta, era surto una specie di governo misto, come in Inghilterra e nella
Svezia: ove era stata interamente distrutta, era surto un governo
aristocratico, come in una grandissima parte dell'Europa, e specialmente in
quella parte che altre volte componeva l'immensa monarchia di Spagna, essa era
rimasta in uno stato singolare, dove, avendo perduti tutt'i diritti che
rappresentava in faccia al sovrano, avea conservati tutti quelli che una volta
avea sul popolo. Prendendo per punto di paragone un vassallo degl'imperatori
svevi, un pari della Gran Bretagna gli somiglia molto piú che un napolitano
quando è nel parlamento, il napolitano gli somiglia molto piú dell'inglese
quando è nelle sue terre.
Ma i primi diritti
sono gloriosi al feudatario e posson esser utilissimi ed al sovrano ed allo
Stato; i secondi sono al feudatario vergognosi, perché non è mai
glorioso tutto ciò che è oppressivo e nocivo allo Stato, al
sovrano, agli stessi baroni, perché tendono a distruggere l'industria, dalla
quale solamente dipende la vera prosperitá di una nazione. Questi diritti sono
i diritti dei popoli barbari. Ovunque si sviluppa l'industria, essi vanno a
cadere in obblio, ed è interesse degli stessi feudatari che ciò
succeda. In Russia gli stessi grandi possessori di terra hanno incominciato a
dar libertá e proprietá agli uomini che le abitano: con questa sola operazione,
han quasi triplicato il valore delle terre loro.
I feudatari prevedevano
che la rivoluzione li avrebbe obbligati a nuovi sacrifici, e bramavano che
fossero i minori possibili. Taluni repubblicani troppo ardenti avrebbero voluto
loro toglier tutto. Tra questi due estremi il mezzo era difficile a rinvenirsi.
Non vi era neanche un esempio da seguire: la Francia, ove i grandi feudatari
eran rimasti distrutti dalla guerra civile, non ebbe bisogno di leggi dopo
l'opera delle armi(35). Giuseppe secondo
nella Lombardia avea da lungo tempo eguagliata la condizione de' beni.
Molte popolazioni
incominciarono dal fatto, prendendo il possesso di tutti i beni de' baroni: se
tutte avessero fatto lo stesso, la legge sarebbe stata men difficile a
concepirsi. La forza autorizza molte cose che la ragione non deve ordinare, ed
il popolo stesso ama di veder approvati molti trascorsi che fremerebbe vedendo
comandati.
La discussione del
progetto di legge fu interessante. Le due parti contendenti seguivano opinioni
diverse, secondo i loro diversi interessi; i princípi erano opposti, e, come
suole avvenire allorché si va agli estremi, né sempre veri né sempre atti alla
quistione.
I feudatari
credevano che la conquista potesse essere un diritto; i repubblicani la
credevano sempre una forza, e, quando anche avesse potuto diventar diritto,
dicevano che, se un tempo i baroni aveano conquistata la nazione, ora la
nazione avea conquistati i baroni: una nuova conquista potea spogliare gli
usurpatori nel modo stesso e collo stesso diritto con cui essi spogliato aveano
altri usurpatori piú antichi.
I feudatari
credevano legittimi tutti i titoli che dipendevano dall'antico governo, che
essi riputavano del pari legittimo: i patrioti credevano illegittimo tutto
ciò che non era stato fatto da una repubblica. Se si udivano i
feudatari, tutto dovea conservarsi; se si udivano i patrioti, tutto dovea
distruggersi, poiché, dichiarato una volta illegittimo un governo, non vi era
ragione per cui parte dei suoi atti si dovesse abolire e parte conservare.
Questo era lo
stesso che far la causa degli usurpatori e dei governi e non dell'umanitá e
della nazione, che eran tradite per soverchio zelo dai loro stessi difensori.
Oggi si dice: - Un re non potea far questo; - domani un re avrebbe detto: -
Questo non si potea far da una repubblica. - Quando prenderemo noi per
principio la salute del popolo ed esamineremo, non ciò che un governo
potea, ma solo ciò che dovea fare?
Voler ricercare un
titolo di proprietá nella natura è lo stesso che voler distruggere la
proprietá: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa
proprietá se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato
delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò
che la salute pubblica imperiosamente non richiede, non può senza
tirannia esser sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni,
nulla hanno e nulla debbono aver di piú sacro che i costumi dei loro maggiori.
Se si riforma ciò che non è necessario riformare, la rivoluzione
avrá molti nemici e pochissimi amici.
La feudalitá
presso di noi presentava una massa immensa di possessi, di proprietá, di
esazioni, di preminenze, di diritti, acquistati, ricevuti, usurpati da diverse
mani ed in tempi diversi. I feudatari non furono in origine che semplici
possessori di fondi coll'obbligo della fedeltá, e, colla legge della
devoluzione, essi non differivano dagli altri proprietari se non per aver
ricevute dalla mano di un uomo quelle terre che altri ricevute avea dalla
sorte. Ma i grandi feudatari erano nel tempo istesso grandi officiali della
corona, ed, in tempi di anarchia o di debolezza, quei rappresentanti della
sovranitá, potenti ed inamovibili, fecero obbliar la sovranitá che
rappresentavano: quei diritti, che essi esercitavano come officiali della
corona, divennero prima diritti del feudatario, indi della sua famiglia,
finalmente del feudo. In tempi di continue guerre civili, i pochi uomini liberi
che eran rimasti nelle nostre regioni, non avendo né sicurezza né proprietá,
chiesero la protezione dei potenti e l'ottennero a prezzo di libertá.
Grandi erano
certamente questi abusi; ma tale era l'infelicitá dei tempi, tale la condizione
degli uomini, tale la desolazione delle nostre contrade, che essi dovettero
sembrar tollerabili effetti, e talora, giunti all'estremo, produssero il
ritorno del bene. Gli uomini moltiplicati dovettero estendere la loro industria
e reclamarono la loro libertá civile: è questo il primo passo che le
nazioni fanno verso la coltura. Un re di spirito generoso, che voleva elevarsi,
si rese forte col favore del popolo, che egli difese contro gli altri tiranni
minori, e le monarchie di Europa sorsero dalle rovine dell'aristocrazia
feudale. Noi vediamo nella nostra storia tutti i passi dati dal popolo, le
opposizioni de' baroni, l'ondeggiar perpetuo de' sovrani a seconda che temevano
o de' baroni o de' popoli, e la rapacitá del fisco, eterno traditore de' baroni,
de' popoli e dei re. La storia indica la strada da seguire uniforme alle idee
de' popoli; le stesse leggi feudali indicano la riforma della feudalitá; quella
riforma, che i popoli bramano, che i baroni non possono impugnare.
Non bastava una
legge che dichiarasse abolita la feudalitá: questa legge sarebbe stata piú
pomposa che utile. Poco rimaneva presso di noi che avesse l'apparenza feudale:
il difficile era riconoscer la feudalitá anche dove parea che non vi fosse. I
feudatari aveano de' diritti acquistati come officiali della corona e come
protettori de' popoli: tali diritti non doveano piú esistere in una forma di
governo, in cui la sovranitá veniva restituita al popolo ed il cittadino non
dovea aver altro protettore che la legge. I baroni possedevano delle terre: non
bastava che queste fossero eguagliate alla condizione delle altre. Se la
riforma fosse rimasta a questi termini, i baroni, sgravati dall'adoa e dalla
devoluzione, divenuti proprietari di terre libere, avrebbero guadagnato molto
piú di quello che loro dava l'esazione de' diritti incerti, vacillanti ed
odiosi: il popolo non avrebbe guadagnato nulla. In una nazione, in cui
l'industria è attiva, sará vantaggio del feudatario far coltivare le sue
terre dall'uomo libero, anziché dallo schiavo. Una nazione oziosa e povera
chiede esser sgravata dai tributi: una nazione ricca ed industriosa è
contenta di pagare, purché abbia mezzi di accrescer la sua industria.
Nell'immensa estensione di terreni che i baroni possedevano, non vi erano che
pochi i quali appartenessero al feudo: negli altri voi vedevate un cumulo di
diritti diversi accatastati l'uno sopra l'altro ed appartenenti a persone
diverse, tra le quali era facile il riconoscere che il piú potente dovea esser
l'usurpatore. Quindi veniva restituita alle popolazioni gran parte di quella
massa di terreni feudali, chiamati «demaniali de' feudi» e che ne formavano la
maggior parte; i boschi doveano per necessitá divenire oggetti di pubblica
ispezione; ai feudatari veniva a rimaner pure tanto di terreno da esser ricchi,
quando all'ozio avessero sostituita l'industria; e la nazione, senza legge
agraria, avrebbe avuta, se non la perfetta
eguaglianza, almeno quella moderazione di beni, che in una gran nazione
è piú utile, meno pericolosa e piú vicina alla vera eguaglianza.
Non mai si vide
piú chiaramente quanto il freddo e costante esame sia piú pericoloso agli
usurpatori che il caldo e momentaneo entusiasmo. I baroni avrebbero mille volte
amato ritornare ai princípi della «conquista» e della «legittimitá», che,
sebbene in apparenza piú distruttivi, erano piú facili a combattersi, piú
facili ad eludersi nell'esecuzione. Ma come combattere princípi evidenti, che
essi stessi aveano riconosciuti anche nell'abolito governo?
Ad onta di tutto
ciò, il progetto non passò senza grandi dispareri: la spirante
feudalitá avea tuttavia molti difensori. Talun legislatore credeva nulla
potersi decidere sulla feudalitá, perché nulla avea deciso la Francia:
invincibile argomento per un rappresentante di una nazione libera ed indipendente!
Pagano credeva non esser giunto ancora il tempo di decidere la controversia:
egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni de' diritti, ma voleva che
non si toccassero i terreni, quasi che un popolo non dovesse esser oppresso, ma
potesse essere legittimamente misero. Taluno volea che l'affare si fosse
commesso ad un tribunale, che si sarebbe di ciò incaricato; ma, se le
leggi sono fatte pel popolo, i giudizi sono fatti per i potenti, i quali, col
possesso, coi cavilli e talora colla prevaricazione, riacquistano coi giudizi
tutto ciò che il popolo avea guadagnato colle leggi.
Tanto importa che
le idee del legislatore sieno a livello con quelle della nazione e che i
progetti di legge contengano quelle idee medie, che tutti gli uomini sentono ed
a cui tutti convengono! Se si fosse rimasto agli estremi, la legge non si
sarebbe avuta o avrebbe prodotta una guerra civile; essa avrebbe portata con sé
l'apparenza dell'ingiustizia. Fondata su princípi che nessuno poteva negare,
gli stessi baroni piú avversi alla rivoluzione l'avrebbero sofferta, se non con
indifferenza (poiché chi potrebbe pretendere che taluno resti indifferente alla
perdita di tante ricchezze?), almeno con decoro.
Ma, nel tempo
appunto in cui il governo era occupato della discussione del progetto di questa
legge, Championnet fu richiamato, e Magdonald, che a lui successe, fu ben
lontano dal voler sanzionare ciò che il governo avea fatto. Si dovette
aspettare Abrial, il quale fu ragionevole e giusto. Ma intanto il tempo era
scorso, ed il timore di disgustar diecimila potenti fece perdere ai francesi ed
alla repubblica l'occasione di guadagnar gli animi di cinque milioni.
È
degna di osservazione la differenza che passa tra la discussione che sulla
feudalitá vi fu in Francia e quella che vi è stata tra noi. Parlando
della prima, Anquetil dice che la discussione dell'Assemblea incominciò
da una proposizione fatta per render sicura l'esazione delle rendite a coloro
che ne possedevano i diritti, e, passando da idea in idea, si finí coll'abolizione
di tutti i diritti. In Francia s'incominciò dalle massime moderate e si
passò alle esagerate; in Napoli da queste si ritornò a quelle. Ed
era ciò nell'ordine della natura, perché noi riprendevamo le idee dal
punto istesso nel quale le avean lasciate i francesi. Quindi è che tra
noi furono piú esagerate le opinioni de' privati che le idee del governo. Il
governo seguí la massima che le leggi sulle proprietá hanno una giustizia
propria, la quale consiste nel far sí che ciascuno perda il meno che sia possibile;
e, nel caso della riforma feudale, si può far in modo che guadagnino
ambedue i partiti. Io per me son sicuro che i feudatari potrebbero guadagnar
piú con una legge nuova che colle antiche. I diritti feudali si sostengono pel
solo uso del fòro. Da che fu imposto tra noi l'obbligo ai giudici di
dettar le loro sentenze sul testo espresso della legge, i diritti feudali sono
stati di giorno in giorno aboliti, e col tempo lo saranno tutti. Ma una legge
nuova dovea considerarsi piuttosto come una transazione che come un decreto; ed
il lunghissimo possesso poteva per essa acquistar forza di titolo. La nuova
legge feudale non dovea aver per iscopo né chimerica eguaglianza di beni né
revindica di domíni, ma solamente di liberare il popolo da tutto ciò che
turbava l'esercizio dell'autoritá pubblica, comprimeva e distruggeva
l'industria ed impediva la libera circolazione delle proprietá.
XXV
RELIGIONE
Oggi le idee de'
popoli di Europa sono giunte a tale stato, che non è possibile quasi una
rivoluzione politica senza che strascini seco un'altra rivoluzione religiosa,
doveché prima la rivoluzione religiosa era quella che per lo piú produceva la
politica. Da ciò forse nasce che le rivoluzioni moderne abbiano meno
durata delle antiche?(36).
In Francia la
parte della rivoluzione religiosa dovette esser violenta, perché violento era
lo stato della nazione a questo riguardo. Si riunivano in Francia tutti gli
estremi. Essa avea innalzata in Europa l'autoritá papale; essa era stata la
prima a scuoterne il giogo, ma scuotendolo non l'avea rotto come si era fatto
in Inghilterra, ma le antiche idee erano rimaste per materia di eterne dispute
su degli oggetti che conviene solamente credere. Il clero era continuamente
alle prese con Roma; i parlamenti lo erano col clero; la corte ondeggiava tra
il clero, i parlamenti e Roma. La nazione non si potea arrestare ai primi
passi, una volta dati: l'incredulitá venne dietro all'esame; ma, nata in mezzo
ai partiti, risvegliar dovette la gelosia dei potenti, e si vide in Francia la
massima tolleranza ne' filosofi e la massima intolleranza nel governo e nella
nazione. Poche nazioni di Europa possono, in questo pregio di barbara
intolleranza, contendere coi colti ed umani francesi.
La nazione
napolitana trovavasi in uno stato meno violento. La religione era un affare
individuale; e, siccome esso non interessava né il governo né la nazione, cosí
le ingiurie fatte agli dèi si lasciavano agli dèi istessi. Il
popolo napolitano amava la sua religione, ma la religione del popolo non era
che una festa, e, purché la festa se gli fosse lasciata, non si curava di
altro. In Napoli non vi era da temere nessuno de' mali che l'abuso della
religione ha persuasi a tanti popoli della terra.
Il fondo della
religione è uno, ma veste nelle varie regioni forme diverse a seconda
della diversa indole dei popoli. Essa rassomiglia molto alla favella di
ciascuno di essi. In Francia, per esempio, al pari della lingua, è piú
didascalica che in Italia; in Italia è piú poetica, cioè piú
liturgica, che in Francia. In Francia la religione interessa piú lo spirito che
il cuore ed i sensi; in Napoli, piú i sensi ed il cuore che lo spirito.
Qual altra nazione
di Europa si può vantare di non aver mai prodotta una setta di eresia e
di essersi sempre ribellata ogni volta che le si è parlato di
Sant'officio e d'Inquisizione? La nazione che ha eretto un tribunale nazionale
indipendente dal re contro questa barbara istituzione, che tutte le altre
nazioni di Europa hanno almen per qualche tempo riconosciuta e tollerata, deve
essere la piú umana di tutte.
In Napoli era
facile far delle riforme sulle ricchezze del clero tanto secolare quanto
regolare. Una gran parte della nazione era in lite col medesimo per ispogliarlo
delle sue rendite, né il rispetto per la religione e per i suoi ministri
l'arrestava. Perché dunque, quando queste riforme si vollero tentare dalla
repubblica, furono odiate? Perché i nostri repubblicani, seguendo sempre idee
troppo esagerate, voleano far due passi nel tempo in cui ne doveano far uno:
l'altro avrebbe dovuto venir da sé, e sarebbe venuto. Ma essi, mentre voleano
spogliare i preti, volean distruggere gli dèi; si uní l'interesse dei
primi e dei secondi, e si rese piú forte la causa dei primi. Ritorniamo sempre
allo stesso principio: si volea fare piú di quello che il popolo volea, e
conveniva retrocedere; si potea giugnere alla mèta, ma se ne ignorava la
strada.
Conforti credeva
che una religione non si possa riformare se non per mezzo di un'altra religione.
La religione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicitá del Vangelo;
riformate nel clero le soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente
miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi;
tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal governo e li
rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc.
ecc.: è la religione che meglio di ogni altra si adatta ad una forma di
governo moderato e liberale(37). Nessun'altra
religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertá. La pagana avea
per suo dogma fondamentale la forza: produceva degli schiavi indocili e dei
padroni tirannici. La religion cristiana ha per base la giustizia universale:
impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re, e rende quelli piú docili,
questi meno oppressori. La religione cristiana è stata la prima che
abbia detto agli uomini che Iddio non approva la schiavitú: per effetto della
religione cristiana, abbiamo nell'Europa moderna una specie di libertá diversa dall'antica;
ed è probabile che i primi cristiani, nella loro origine, altro non
fossero che persone le quali volevano, in tempi corrottissimi, ridurre la piú
superstiziosa idolatria alla semplicitá della pura ed eterna ragione, ed il piú
orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere umano (tale
era quello di Roma) alle norme della giustizia.
Ma gli uomini
(diceva Conforti) corrono sempre agli estremi. La filosofia, dopo aver
predicata la tolleranza, è diventata intollerante(38), senza ricordarsi che, se non è degno della
religione il forzar la religione, non è degno neanche della filosofia.
Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se
voi non gliela date, se ne formerá una da se stesso. Ma, quando voi gliela
date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno
al bene della nazione: se il popolo se la forma da sé, allora la religione sará
indifferente al governo e talora nemica. Cosí tutti gli abusi della religione
cristiana sono nati da quegli stessi mezzi che si voglion prendere oggi per
ripararli.
Conforti credeva
che la Francia istessa si sarebbe un giorno ricreduta de' suoi princípi, e che,
quando si credeva di aver distrutti i preti, altro non avea fatto che
accrescerne il desiderio, e che avrebbe dovuto renderli di nuovo, contentandosi
il governo di potersi restringere a quelle riforme alle quali si sarebbe dovuto
arrestare.
Ma gli altri erano
lontani dall'avere le idee di Conforti, né seppero mai determinarsi a prendere
su tale oggetto un espediente generale(39). Ondeggiando tra lo
stato della nazione e gli esempi della rivoluzion di Francia, abbandonarono
quest'oggetto importante alla condotta degli agenti subalterni; e questo fu il
peggior partito a cui si potessero appigliare. Un atto di forza avrebbe fatto
odiare e temere il governo: questa indolenza lo fece odiare e disprezzare nel
tempo istesso.
Il popolo si
stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e
provò tanto maggior odio contro i repubblicani quanto che vedeva le loro
operazioni essere effetti della sola loro volontá individuale. L'odio contro
gl'individui che governano, odio che poco può in un governo antico,
è pericolosissimo in un governo nuovo; perché, siccome il governo nuovo
è tale quale lo formano gl'individui che lo compongono, il popolo contro
gl'individui niun soccorso aspetta da un governo che conosce, e l'odio contro
di quelli diventa odio contro di questo.
È un
carattere indelebile dell'uomo quello di sostener con piú calore le opinioni
proprie che le altrui, piú le opinioni che crede nuove e particolari che le
antiche e comuni. Io credo, e fermamente credo, che, se le operazioni che
taluni agenti si permisero contro i preti fossero state ordinate dal governo,
il loro zelo sarebbe stato minore. La legge nulla determinava: il suo silenzio
proteggeva le persone ed i beni degli ecclesiastici; quindi quei pochi agenti
del governo, che voleano dare sfogo alle loro idee proprie, si doveano
restringere agl'insulti. Or gl'insulti ricadono piú direttamente contro gli
dèi, e le operazioni contro gli uomini. La condotta di molti repubblicani
era tanto piú pericolosa quanto che si restringeva alle sole parole: mentre si
minacciavano i preti, si lasciavano; ed essi ripetevano al popolo che gli
agenti del governo l'aveano piú colla religione che coi religiosi, perché,
mentre si lasciavano i beni, si attaccavano le opinioni. Si avrebbe dovuto far
precisamente il contrario, ed allora tutto sarebbe stato nell'ordine.
Il governo si
avvide, ma tardi, dell'errore: volle emendarsi e fece peggio. Il popolo
comprese che il governo operava piú per timore che per interna persuasione; e,
quando ciò si è compreso, tutto è perduto.
XXVI
TRUPPA
Un governo nuovo
ha piú bisogno di forza che un governo antico, perché l'esecuzione della legge,
per quanto sia giusta, non può esser mai con sicurezza affidata al pubblico
costume: gli scellerati, che non mancano giammai, hanno campo maggiore di
calunniarla e di eluderla; ed i deboli sono piú facilmente sedotti o trascinati
nell'ondeggiar dubbioso tra le antiche opinioni e le nuove.
I francesi
impedirono però ogni organizzazione di forza nella repubblica
napolitana. Il primo loro errore fu quello di temer troppo la capitale; il
secondo, di non temere abbastanza le province. Essi non aveano truppa per
inviarvene, e di ciò non poteano esser condannati; ma essi non permisero
che si organizzasse truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di
ciò non possono esser scusati.
Dagli avanzi
dell'esercito del re di Napoli si potea formare sul momento un corpo di
trentamila uomini, di persone che altro non chiedevano che vivere. Essi
formavano il fiore dell'esercito del re, poiché erano quelli appunto che erano
stati gli ultimi a deporre le armi. Tra questi, per il loro coraggio, si
distinsero i «camisciotti»: contesero a palmo a palmo il terreno fino al
castello del Carmine. Ciò dovea farli stimare, e li fece odiare. Furono
fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per la repubblica o mandarli
via. Si lasciarono liberi per Napoli, e furono stipendiati da coloro che in
segreto macchinavano la rivoluzione. Si tennero cosí i controrivoluzionari nel
seno istesso della capitale.
S'incominciò
a raccogliere i soldati del re in Capua, indi un'altra volta in Portici. La
repubblica napolitana era in istato di mantenerli; essi avrebbero potuto salvar
la patria, salvar l'Italia: ma, appena si vide incominciare l'operazione, che
fu proibita. A quei pochissimi soldati che si permise di ritenere non si
accordarono se non a stento le armi, che erano tutte nei castelli in potere dei
francesi.
Intanto si volea
disarmare la popolazione. Come farlo senza forze? Ma i francesi temeano
egualmente le popolazioni ed i patrioti; e questo loro soverchio timore fece
dipoi che le popolazioni si trovassero armate per offenderli, ed i patrioti per
difendersi disarmati. Si ordinava il disarmo, ed intanto i custodi francesi
delle armi, non conoscendo gli uomini e le cose in un paese per essi nuovo, le
vendevano; e ne compravano egualmente tanto il governo repubblicano, a cui era
giusto restituirle senza paga, quanto i traditori, a cui era ingiusto darle anche
con paga. I mercenari, che avrebbero potuto diventar nostri amici, non avendo
onde vivere, passarono a raddoppiar la forza dei nemici nostri.
Oltre di una
truppa di linea, si avrebbe potuto sollecitamente organizzare una gendarmeria:
allora quando ordinossi a tutt'i baroni di licenziare le loro genti d'armi,
costoro sarebbero passati volentieri al servizio della repubblica; essi non
sapevano far altro mestiere: abbandonati dalla repubblica, si riunirono
agl'insorgenti. Essi avrebbero potuto formare un corpo di cinque in seimila
uomini, e tutti valorosi.
Si ordinò
congedarsi gli armigeri baronali, e non si pensò alla loro sussistenza;
si soppressero i tribunali provinciali, e non si pensò alla sussistenza
di tanti individui che componevano le loro forze e che ascendevano ad un numero
anche maggiore degli armigeri... - Essi sono dei scellerati - diceva taluno, il
quale voleva anche i gendarmi eroi. Ma questi scellerati continuarono ad
esistere, poiché era impossibile ed inumano il distruggerli, ed esistettero a
danno della repubblica. Erasi obbliato il gran principio che «bisogna che tutto
il mondo viva».
L'avea del tutto
obbliato De Rensis, allorché pubblicò quel proclama con cui diceva agli
uffiziali del re che «a chiunque avesse servito il tiranno nulla a sperar
rimanea da un governo repubblicano». Questo linguaggio, in bocca di un ministro
di guerra, dir volea a mille e cinquecento famiglie, che aveano qualche nome e
molte aderenze nella capitale: - Se volete vivere, fate che ritorni il vostro
re. - Questo proclama segnò l'epoca della congiura degli uffiziali. Il
proclama fu corretto dal governo col fatto, poiché molti uffiziali del re
furono dalla repubblica impiegati. Ben si vide dalle persone che avean senno
esser stato esso piuttosto feroce nelle parole che nelle idee, effetto di
quella specie di eloquenza che allora predominava, e per la quale la parola la
piú energica si preferiva sempre alla piú esatta; ma, io lo ripeto, nelle
rivoluzioni passive, quando le opinioni sono varie ed ancora incerte, le parole
poco misurate posson produrre gravissimi mali. Le eccezioni, le quali si
reputan sempre figlie del favore, non distruggevano le impressioni prodotte una
volta dalla legge generale: molti rimasero ancora ondeggianti; moltissimi si
trovavano giá aver dati passi irretrattabili contro un governo che credevano
ingiusto. La durata della nostra repubblica non fu che di cinque mesi: nei
primi gli uffiziali non poterono ottener gradi; negli ultimi non vollero
accettarne.
Si vuole dippiú?
Degli stessi insorgenti si avrebbero potuto formare tanti amici. Essi seguivano
un capo, il quale per lo piú non era che un ambizioso: questo capo, quando non
avesse potuto estinguersi, si poteva guadagnare, e le sue forze si sarebbero
rivolte a difendere quella repubblica, che mostrava di voler distruggere.
XXVII
GUARDIA NAZIONALE
Il nostro governo
erasi ridotto a fondar tutte le speranze della patria sulla guardia nazionale.
Ma la guardia nazionale dev'essere la forza del popolo, e non mai quella del
governo.
Tutto fu ruinato
in Francia, quando il governo credette non dover avere altra forza: la Vandea
non fu mai ridotta, gli assassini ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú
sicurezza pubblica ed invece della tranquillitá si ebbero le sedizioni. Il
primo difetto di ogni guardia nazionale è l'esser piú atta
all'entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando non difende la
nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è armata
contro dell'altra, è impossibile evitare che ciascun partito non abbia
tra le forze dell'altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno
ritardino le operazioni.
La vera forza
della guardia nazionale risulta dall'uniformitá dell'opinione: ove non siasi
giunto ancora a tale uniformitá, convien usare molta scelta nella sua
formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per
volontario attaccamento alla causa, o che abbiano nella loro educazione
princípi di onestá e nel loro stato civile una cautela di responsabilitá. Quei
tali che Aristotile direbbe formare in ogni cittá la classe degli ottimi, se
non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori.
Io parlo sempre
de' princípi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica
infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale:
rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili,
quanto insomma vi era di meglio nella cittá, disperando dell'abolito governo,
voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il
doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l'opinione del
popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe
forse potuto formar la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialitá anche
nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si
ritirò, e non si ebbe l'avvertenza neanche di conservare il libro che
conteneva i loro nomi.
Si formarono
quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma
quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era
partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano piú.
Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari,
se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò
era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e
nel tempo stesso si ordinò un'imposizione per coloro che volessero
essere esentati: dico «volessero», perché i motivi di esenzione erano tali, che
ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter
essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne?
Coloro che poteano esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i
migliori del paese, ma essi per lo piú erano ricchi, e comprarono l'esenzione:
furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestá
né beni, e cosí la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici.
Si volle sforzar
la nazione, che solo si dovea invitare. L'imposizione riuscí gravosissima per
le province. Il governo era passato da un estremo all'altro: prima non volea
nessuno, poi voleva tutti. Era però da riflettersi che questa misura fu
presa quando giá incominciava a vedersi lo stato intero delle cose volgersi ad
inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera non vi è luogo a
calcolo, cosí in chi giudica non deve predominar il sistema. Il governo allora
giuocava, come suol dirsi, tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei
quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è poi
costretto a volere ciò che non può! Altre massime, altra
direzione nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di dover
fondare tutte le speranze della patria nella guardia nazionale; e forse la
patria sarebbesi salvata.
Se la guardia
nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in Napoli dovea prevedersi
inevitabilmente nociva, perché, essendo la rivoluzione passiva, la massima
parte della nazione dovea supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io
osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre
trovata piú diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o temevasi danno
dalle insorgenze. L'amor di sé ridestava l'amor della patria. Pure, ad onta di
tutto ciò, la guardia nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e
nella capitale fu piú numerosa e piú attiva di quello che si avrebbe potuto
sperare. Insomma, né il governo mancava di rette intenzioni, né il popolo di
buona volontá: l'errore era tutto nelle massime e nella prima direzione data
agli affari. A misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio,
vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che
intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che trar si possa
dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto quello di
vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo errore. Gli uomini
diventeranno piú saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un
picciolo avvenimento può produrre.
XXVIII
IMPOSIZIONI
Championnet,
entrando coll'armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due
milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era
assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense
depredazioni che il passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto
esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando
Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non
lo ritrattò; anzi stabilí quindici milioni per le province, a suo tempo.
Ma chi potrebbe
esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un'imposizione per se
stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano della
decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla
quantitá dei beni che nell'officio della decima trovavasi giá liquidata. Si
videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme
esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta
a chi avea sessantamila ducati all'anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi
ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era
piú giusto che dassero le prime l'esempio di contribuire con generositá ai
bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era
imposizione fu considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni
quanto i gradi di aristocrazia che taluno avea nel cuore. - Noi tassiamo
l'opinione - risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa
imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale,
fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea
commesso l'affare una massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di
un'armata vittoriosa e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il
campo all'arbitrio. Questo è il male che producono le imposizioni male
immaginate e mal dirette; quando anche evitate l'ingiustizia, non potete evitare
il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi dell'ingiustizia.
Difatti non vi era
in Napoli tanto danaro da pagar l'imposizione. Fu permesso di pagarla in
metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu nel tempo
istesso il tesoriere, il ricevitore, l'apprezzatore; ed il popolo credette che
tutto fosse trafficato non colla bilancia dell'equitá, ma con quella
dell'interesse dell'esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo
credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una
commissione composta di persone superiori ad ogni sospetto.
Mentre in
Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un ordine
del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche
l'attrasso di ciò che doveano all'antico. Quest'ordine fatale dovette
esser segnato in qualche momento d'inconsideratezza e per ragion di pratica. Si
seguí l'antico stile, lo stile di tutt'i governi: difatti fu un solo dei membri
componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa
certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli
altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una
rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima,
ed avea fatta sperare l'abolizione intera. La decima interessava piú la
capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá,
si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar
mai questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la
loro affezione?
In Ostuni Giuseppe
Ayroldi, uno de' principali della cittá e che conosceva gli uomini, si oppose
alla pubblicazione ed all'esecuzione dell'ordine. Egli ne prevedeva le funeste
conseguenze. Il governo non si rimosse; e quale ne fu l'effetto? Ostuni si
rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore popolare.
Esse nel tempo
stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e
generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione
vincitrice non ha quell'energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che
le passioni dei privati non turbino l'unitá delle pubbliche operazioni.
L'esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli
uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell'esercito di un re. Questi mali
portano sempre seco loro il disgusto de' popoli verso colui che ha vinto, e
impongono al vincitore verso l'umanitá l'obbligo di un compenso infinito, che
solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
XXIX
FAIPOULT(40)
Finalmente venne
Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo,
dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione
francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la
libertá; e, per conciliar la promessa e l'editto, si chiamava «frutto della
conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re.
Ma quali erano i
beni del re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la
reggia, che suo padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni
del re» i fondi dell'ordine di Malta e dell'ordine costantiniano, i quali erano
certamente de' privati(41); i monasteri, che
erano de' monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non perciò
diventavano beni del re; gli allodiali, de' quali il re non era che
amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni del re i
banchi, deposito del danaro de' privati, la fabbrica della porcellana e gli
avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso, ne'
momenti della maggior ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un
simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla
nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto
rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché
egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la
contraddizione che si osservava nell'editto di Faipoult.
Tale editto potea
far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si
oppose, e Championnet discacciò Faipoult.
O Championnet, tu
ora piú non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed
alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli
non ti ha però avvilito. Tu diventasti allora l'idolo della nazione nostra.
Il richiamo di
Championnet fu un male per la repubblica napolitana. Io non voglio decidere del
suo merito militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo era un
merito ben grande.
XXX
PROVINCE - FORMAZIONE DI DIPARTIMENTI
Ma quale intanto
era lo stato delle province? Esse finalmente doveano richiamar l'attenzione del
governo, forse, fino a quel punto, troppo occupato della sola capitale. Il
miglior partito sarebbe stato di farvi le minori novitá possibili; ma, come
sempre suole avvenire, s'incominciò dal farsene le piú grandi e le meno
necessarie. Il maggior numero delle rivoluzioni ha avuto un esito infelice per
la soverchia premura di cangiare i nomi delle cose.
S'incominciò
dalla riforma dei dipartimenti. Volle incaricarsi di quest'opera Bassal,
francese, che era venuto in compagnia di Championnet. Qual mania è mai
quella di molti di voler far tutto da loro! Quest'uomo, il quale non avea
veruna cognizione del nostro territorio, fece una divisione ineseguibile, ridicola.
Un viaggiatore, che dalla cima di un monte disegni di notte le valli sottoposte
che egli non abbia giammai vedute, non può far opera piú inetta(42).
La natura ha
diviso essa istessa il territorio del regno di Napoli: una catena non
interrotta di monti lo divide da Occidente ad Oriente dagli Apruzzi fino
all'estremitá delle Calabrie; i fiumi, che da questi monti scorrono ai due mari
che bagnano il nostro territorio a settentrione ed a mezzogiorno, formano le
suddivisioni minori. La natura dunque indicava i dipartimenti: la popolazione,
i rapporti fisici ed economici di ciascuna cittá o terra doveano indicare le
centrali ed i cantoni. Invece di ciò, si videro dipartimenti che
s'incrociavano, che si tagliavano a vicenda; una terra, che era poche miglia
discosta dalla centrale di un dipartimento, apparteneva ad un'altra da cui era
lontana cento miglia; le popolazioni della Puglia si videro appartenere agli
Apruzzi; le centrali non furono al centro, ma alle circonferenze; alcuni
cantoni non aveano popolazione, mentre moltissimi ne aveano soverchia, perché
sulla carta si vedevano notati i nomi dei paesi e non le loro qualitá. Si vuol
di piú? Molte centrali di cantoni non erano terre abitate, ma o monti o valli o
chiese rurali, ecc. ecc., che aveano un nome sulle carte; molte terre, avendo
un doppio nome, si videro appartenere a due cantoni diversi.
Dopo un mese, il
governo, che non avea potuto impedire l'opera del cittadino Bassal, la dovette
solennemente abolire, e fu necessitá ricorrere a quel metodo col quale avrebbe
dovuto incominciare, cioè d'incaricare di un'opera geografica i geografi
nostri. Frattanto si comandò che si conservasse l'antica divisione delle
province, la quale, sebbene difettosa, era però tollerabile. Ma intanto
si crede forsi picciolo male che il governo (poiché il popolo non conosceva né
era obbligato a conoscere Bassal), con ordini male immaginati, ineseguibili,
strani, perda nell'animo della popolazione quella opinione di saviezza che sola
può ispirare la confidenza?
XXXI
ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
Forse il miglior
metodo per organizzare le province era quello di far uso delle autoritá
costituite che giá vi erano. Tutte le province aveano di giá riconosciuto il
nuovo governo: le antiche autoritá o conveniva distruggerle tutte, o tutte
conservarle. Non so quale di questi due mezzi sarebbe stato il migliore: so che
non si seguí né l'uno né l'altro, ed i consigli mezzani non tolsero i nemici né
accrebbero gli amici.
Con un proclama
del nuovo governo si ordinò a tutte le antiche autoritá costituite delle
province che rimanessero in attivitá fino a nuova disposizione. Intanto
s'inviarono da per tutto dei «democratizzatori», i quali urtavano ad ogni
momento la giurisdizione delle autoritá antiche; e, siccome queste erano ancora
in attivitá, rivolsero tutto il loro potere a contrariar le operazioni dei
democratizzatori novelli. In tal modo si permise loro di conservar il potere,
per rivolgerlo contro la repubblica, quando ne fossero disgustati; e
s'inviarono i democratizzatori, perché avessero un'occasione di disgustarsi.
Quale strana idea
era quella dei democratizzatori? Io non ho mai compreso il significato di
questa parola. S'intendea forse parlar di coloro che andavano ad organizzar un
governo in una provincia? Ma di questi non ve ne abbisognava al certo uno per
terra. S'intendeva di colui che andava, per cosí dire, ad organizzare i popoli
e render gli animi repubblicani? Ma questa operazione né si potea sperare in
breve tempo né richiedeva un commissario del governo. Le buone leggi, i
vantaggi sensibili che un nuovo governo giusto ed umano procura ai popoli, le
parole di pochi e saggi cittadini, che, vivendo senz'ambizione nel seno delle
loro famiglie, rendonsi per le loro virtú degni dell'amore e della confidenza
dei loro simili, avrebbero fatto quello che il governo da sé né dovea tentare
né potea sperare.
Quando voi volete
produrre una rivoluzione, avete bisogno di partigiani; ma, quando volete
sostenere o menare avanti una rivoluzione giá fatta, avete bisogno di
guadagnare i nemici e gl'indifferenti. Per produrre la rivoluzione, avete
bisogno della guerra, che sol colle sètte si produce; per sostenerla,
avete bisogno della pace, che nasce dall'estinzione di ogni studio di parti. A
persuadere il popolo sono meno atti, perché piú sospetti, i partigiani che
gl'indifferenti. Quindi è che, in una rivoluzione passiva, voi dovete
far piú conto di coloro che non sono dalla vostra che di quelli che giá ci
sono; e, siccome fu un errore e l'istituzione della commissione censoria e la
prima pratica seguíta per la formazione della guardia nazionale, perché tendevano
a ristringer le cose tra coloro soli che eran dichiarati per la buona causa,
cosí fu anche un errore, e fu frequente presso di noi, l'impiegare colui che
volontariamente si offeriva, in preferenza di colui che volea esser richiesto,
ed il servirsi dell'opera dei giovani anziché di quella degli uomini maturi.
Non quelli che con facilitá, ma bensí che con difficoltá guadagnar si possono,
sono coloro che piú vagliono sugli animi del popolo. I giovani non vi mancano
mai nella rivoluzione; Russo li credeva perciò piú atti alla medesima:
se egli con ciò volea intendere che erano piú atti a produrla, avea
ragione; se poi credeva che fossero perciò piú atti a sostenerla,
s'ingannava. I giovani possono molto ove vi è bisogno di moto, non dove
vi è bisogno di opinione.
Giovanetti
inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono le province con
una «carta di democratizzazione», che Bisceglia, allora membro del comitato
centrale, concedeva a chiunque la dimandava. Essi non erano accompagnati da
verun nome; fortunati quando non erano preceduti da uno poco decoroso! Non
aveano veruna istruzione del governo: ciascuno operava nel suo paese secondo le
proprie idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che egli
desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi, chi ai semplici e severi costumi
dei provinciali, che chiamò «rozzezze»: s'incominciò dal
disprezzare quella stessa nazione che si dovea elevare all'energia
repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione straniera, che non
ancora conosceva se non perché era stata vincitrice; si urtò tutto
ciò che i popoli hanno di piú sacro, i loro dèi, i loro costumi,
il loro nome. Non mancò qualche malversazione, non mancò qualche
abuso di novella autoritá, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai
estinguibili tra le famiglie principali dei piccioli paesi. Gli animi
s'inasprirono. Il secondo governo vide il male che nasceva dall'errore del
primo: Abamonti specialmente richiamò quanti ne potette di questi tali
democratizzatori. Ma il male era giá troppo inoltrato; il vincolo sociale dei
dipartimenti erasi giá rotto, poiché si era giá tolta l'uniformitá della legge
e la riunione delle forze: non mancava che un passo per la guerra civile, ed
infatti poco tardò a scoppiare.
Come no? Una
popolazione scosse il giogo del giovanetto; le altre la seguirono: le
popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuta la fortuna di
non aver democratizzatori o di averli avuti savi si armarono contro le
insorgenti. Ma queste aveano idee comuni, poiché quelle dell'antico governo
eran comuni a tutte; s'intendevano tra loro; le loro operazioni erano
concertate. Nessuno di questi vantaggi avevano le popolazioni repubblicane. Le
antiche autoritá costituite, che conservavano tuttavia molto potere, erano,
almeno in segreto, per le prime. Qual meraviglia se, dopo qualche tempo, le
popolazioni insorgenti, sebbene sulle prime minori di numero e di forze,
oppressero le repubblicane?
Si volle tenere
una strada opposta a quella della natura. Questa forma le sue operazioni in
getto, ed il disegno del tutto precede sempre l'esecuzione delle parti: da noi
si vollero fare le parti prima che si fosse fatto il disegno.
XXXII
SPEDIZIONE CONTRO GL'INSORGENTI DI PUGLIA
La nazione
napolitana non era piú una: il suo territorio si potea dividere in democratico
ed insorgente. Ardeva l'insorgenza negli Apruzzi e comunicava con quella di
Sora e di Castelforte. Queste insorgenze si doveano in gran parte
all'inavvertenza ed al picciol numero dei francesi, i quali, spingendo sempre
innanzi le loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne dietro, non
pensarono ad organizzarvi un governo. Che vi lasciarono dunque? L'anarchia.
Questa non è possibile che duri piú di cinque giorni. Che ne dovea
avvenire? Dopo qualche giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si
accostasse piú all'antico governo, che i popoli sapeano, piuttosto che al
nuovo, che essi ignoravano; e l'idea dei nuovi conquistatori dovea associarsi
negli animi loro alla memoria di tutti i mali che avea prodotti l'anarchia.
Il cardinal Ruffo,
il quale ai primi giorni di febbraio avea occupata la Calabria dalla parte di
Sicilia, spingeva un'altra insorgenza verso il settentrione e veniva a riunirsi
alle altre insorgenze in Matera. Il governo troppo tardi avea spedito nelle
Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non gli voleano: per
che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu fortunato chi
salvò la vita. Monteleone, ricca e popolata cittá, ripiena di spirito
repubblicano, avea opposta una resistenza ostinata a Ruffo; ma, sola, senza
comunicazione, era stata costretta a cedere. E nello stesso modo cedettero
tutte le altre popolazioni di Calabria.
Tutte le
popolazioni repubblicane delle altre province, isolate, circondate, premute da
per tutto dagl'insorgenti, si vedevano minacciate dello stesso destino. Si
aggiungeva a ciò che le popolazioni insorgenti saccheggiavano,
manomettevano tutto; le popolazioni repubblicane erano virtuose. Ma, quando,
per effetto dei partiti, gli scellerati non si possono tenere a freno, essi si
dánno a quel partito i di cui princípi sono piú conformi ai loro propri, e
forzano, per cosí dire, gli dèi a non essere per quella causa che
approva Catone.
Si vollero
distruggere le insorgenze della Puglia e della Calabria come le piú pericolose,
come le piú lontane e le piú difficili a vincere, perché le piú vicine alla
Sicilia. Partirono da Napoli due picciole colonne, una francese, che prese il
cammino di Puglia, l'altra di napolitani, comandata da Schipani, che prese quello
di Calabria per Salerno. Ma la colonna di Puglia dovea anch'essa per
l'Adriatico ed il Ionio passar nella Calabria e riunirsi alla colonna di
Schipani.
Il comandante
della colonna francese, aiutato dai patrioti e soldati che conduceva Ettore
Carafa e dai patrioti di Foggia, distrusse la formidabile insorgenza di
Sansevero; indi, spingendosi piú oltre, prese Andria e poi Trani, e fu egli che
distrusse l'armata dei còrsi nelle vicinanze di Casamassima. Ma egli
abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava il
corriere pubblico, e che avrebbero dovuti esser sagri; e, quando gliene fu
chiesto conto, non potette dimostrare che essi erano degl'insorgenti. Il troppo
zelo di punir questi forsi lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici
dagl'inimici, ed, ove si trattava d'imposizioni, la condizione dei primi non fu
migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti
prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio
strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse
una cittá nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La stessa
condotta tenne in Conversano, cui, ad onta di esser stata assediata
dagl'insorgenti, impose la contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di
Bari non vi restò un paio di fibbie d'argento. Tutto fu dato per pagar
le contribuzioni imposte.
Le prime armi di
una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza e la giustizia; ed i nostri
traviati fratelli meritavano piú di esser corretti che distrutti. Facendo
altrimenti, si credevano vinti, mentre non erano che fugati. Trani fu
saccheggiata; questa bella, popolosa e ricca cittá fu distrutta; ma
gl'insorgenti di Trani rimanevano ancora: essi, all'avvicinarsi dei francesi,
si erano tutt'imbarcati, pronti a ritornare piú feroci, tosto che i francesi
avessero abbandonate le loro case.
Lo dirò io?
Le tante vittorie ottenute contro gl'insorgenti hanno distrutti piú uomini da
bene che scellerati. Questi, consci del loro delitto, pensano sempre per tempo
alla loro salvezza. L'uomo dabbene è còlto all'improvviso ed
inerme: la sua casa è saccheggiata del pari e forse anche prima di
quella dell'insorgente, perché l'uomo dabbene è quasi sempre il piú
ricco, e, quando l'insorgente ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui ha
sofferto il saccheggio.
Un buon governo
vuole esser forte ma non crudele, severo ma non terrorista. Le insorgenze di
Napoli si poteano ridurre a calcolo. Pochi erano i punti centrali delle
medesime, e chiunque conosceva i luoghi vedeva essere quegl'istessi che
nell'antico governo erano ripieni di uomini i piú oziosi e piú corrotti e, per
tal ragione, piú miserabili e piú facinorosi. Nei luoghi dove in tempo del re
vi eran piú ladri, contrabbandieri ed altra simile genia, in tempo della
repubblica vi furono piú insorgenti. Erano luoghi d'insorgenza Atina, Isernia,
Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero, ecc. Nei luoghi ove la
gente era industriosa ed, in conseguenza, agiata e ben costumata, si potea
scommettere cento contro uno che vi sarebbe stata una eterna tranquillitá.
I primi motori
dell'insorgenza furon coloro che avean tutto perduto colla ruina dell'antico
governo, e che nulla speravano dal nuovo: se questi furon molti, gran parte
della colpa ne fu del governo istesso, che non seppe far loro nulla sperare, e
che fece temere che il governo repubblicano fosse una fazione. Eppure la
repubblica avea tanto da dare, che era pericolosa follia credere di poter
sempre dare ai repubblicani!
Grandi strumenti
di controrivoluzione furono tutte le milizie dei tribunali provinciali, tutti
gli armigeri dei baroni, tutt'i soldati veterani che il nuovo ordine di cose
avea lasciati senza pane, tutti gli assassini che correvano con trasporto
dietro un'insorgenza, la quale dava loro occasione di poter continuare i loro
furti e quasi di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò
quasi tutte le centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila, Trani, dove
la residenza delle autoritá provinciali, delle loro forze e di quanto nelle
province eravi di scellerati, che ivi si trovavano in carcere e che,
nell'anarchia che accompagnò il cangiamento del governo, furono tutti
scapolati, riuniva piú malcontenti e piú facinorosi. Costoro strascinarono
tutti gli altri esseri pacifici e meramente passivi, intimoriti egualmente
dall'audacia dei briganti e dalla debolezza del governo nuovo.
Contro tali
insorgenze non vale tanto una spedizione militare che distrugga, quanto una
forza sedentaria che conservi: gl'insorgenti fuggivano alla vista di un
esercito: tostoché l'esercito era passato, una picciola forza, ma permanente,
loro avrebbe impedito di riunirsi e di agire. Il soldato non soffre le
stazioni: brama la guerra ed ama che il nemico si renda forte a segno di
meritare una spedizione, onde aver l'occasione di misurarsi, la gloria di
vincerlo ed il piacere di spogliarlo.
Il comandante
francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba, commissario del dipartimento
della Lucania, perché marciasse sopra Matera ad impedire che vi si formasse
un'insorgenza, che potea divenir pericolosa per quel dipartimento. Ma, Matera
non essendo ancora rivoltata, non vi andò, perché non avrebbe potuto
farla saccheggiare. E, quando, premurato dalle reiterate istanze di Palomba,
s'incaminò con tutte le forze che aveva, fu richiamato in Napoli.
L'insorgenza, che in Matera era tutta pronta e solo compressa dal timore della
vicinanza delle forze superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e
si riuní a quella della Calabria.
Ma perché non
marciò Palomba istesso colle sue forze sopra Matera? Perché Palomba,
come commissario, non avea saputo trovare i mezzi di riunirle e di sostenerle;
perché il suo generale Mastrangiolo tutt'altro era che generale. Caldi ambidue
del piú puro zelo repubblicano, colle piú pure intenzioni, ma privi di quella
pubblica opinione, che sola riunisce le forze altrui alle nostre, e di quel
consiglio, senza di cui non vagliono mai nulla né le forze nostre né le altrui,
tutti e due non sapeano far altro che gridare «Viva la repubblica!», ed intanto
aspettare che i francesi la fondassero, come se fosse possibile fondare una
repubblica colle forze di un'altra nazione! Nel dipartimento il piú democratico
della terra, colle forze imponenti di Altamura, di Avigliano, di Potenza, di
Muro, di Tito, Picerno, Santofele, ecc. ecc., Mastrangiolo perdette il suo
tempo nell'indolenza. I bravi uffiziali, che aveva attorno, lo avvertirono
invano del pericolo che lo premeva: l'insorgenza crebbe e lo costrinse a
fuggire.
XXXIII
SPEDIZIONE DI SCHIPANI
Schipani
rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del piú caldo zelo
per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista in una tragedia
di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione destinata a passar nelle
Calabrie, cioè nelle due province le piú difficili a ridursi ed a
governarsi per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea
seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di
numero alla forza nemica.
Schipani marcia:
prende Rocca di Aspide, prende Sicignano. A Castelluccia trova della gente
riunita e fortificata in una terra posta sulla cima di un monte di
difficilissimo accesso.
Vi erano
però mille strade per ridurla. Castelluccia era una picciola terra, che
potea senza pericolo lasciarsi dietro. Egli dovea marciare diritto alle
Calabrie, ove eranvi diecimila patrioti che lo attendevano; ove Ruffo non era
ancora molto forte, ed andava tentando appena una controrivoluzione, di cui
forse egli stesso disperava; e, discacciato una volta Ruffo, tutte le
insorgenze della parte meridionale della nostra regione andavano a cedere. Ma
Schipani non seppe conoscere il nemico che dovea combattere, né seppe, come
Scipione, trascurare Annibale per vincere Cartagine.
Tutt'i luoghi
intorno a Castelluccia erano ripieni di amici della rivoluzione. Campagna,
Albanella, Controne, Postiglione, Capaccio, ecc., potevano dare piú di tremila
uomini agguerriti: il commissario del Cilento ne avea giá pronti altri
quattrocento, ed anche di piú, se avesse voluto, ne avrebbe potuto riunire. Se
Schipani avesse avuto piú moderato desiderio di combattere e di vincere, e se
prima di distruggere i nemici avesse pensato a rendersi sicuro degli amici, che
gli offerivano i loro soccorsi, avrebbe potuto facilmente formare una forza
infinitamente superiore a quella che dovea combattere.
Avrebbe potuto
ridurre Castelluccia per fame, poiché non avea provvisioni che per pochi
giorni: avrebbe potuto prenderla circondandola e battendola dalla cima di un
monte che la domina; e questo consiglio gli fu suggerito dai cittadini di
Albanella e della Rocca, che si offrirono volontari a tale impresa. Qual
disgrazia che tal consiglio non sia nato da se stesso nella mente di Schipani!
Egli avea un'idea romanzesca della gloria, e riputava viltá il seguire un
consiglio che non fosse suo.
Questo suo
carattere fece sí che ricusasse l'offerta dei castelluccesi, i quali volean
rendersi, a condizione però che la truppa non fosse entrata nella terra;
e l'altra, offertagli da Sciarpa, capo di tutta quella insorgenza, di voler
unire le sue truppe alle truppe della repubblica, purché gli si fosse dato un compenso(43). Schipani rispose come Goffredo:
Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco.
Questo stesso
carattere gli fece immaginare un piano d'assalto della Castelluccia da quel
lato appunto per lo quale il prenderla era impossibile. I nostri fecero prodigi
di valore. Il nemico, forte per la sua situazione, distrusse la nostra truppa
colle pietre. Schipani fu costretto a ritirarsi; e, cadendo in un momento
dall'audacia nella disperazione, la sua ritirata fu quasi una fuga.
La spedizione
diretta da Schipani dovea esser comandata dal valoroso Pignatelli di Strongoli.
È stata una disgrazia per la nostra repubblica che Pignatelli, per
malattia sopravvenutagli, non poté allora prestarsi agli ordini del governo ed
al desiderio dei buoni.
Dopo questa
operazione, Schipani fu inviato contro gl'insorgenti di Sarno. Giunse a Palma,
incendiò due ritratti del re e della regina, che per caso vi si
ritrovarono, arringò al popolo e se ne ritornò indietro. Vi
andarono i francesi, saccheggiarono ed incendiarono Lauro, donde tutti gli
abitanti erano fuggiti, e non uccisero un solo insorgente. Cosí gl'insorgenti
di Lauro e di Sarno, non vinti, ma solo irritati, si unirono a quelli di
Castelluccia e delle contrade di Salerno, giá vincitori.
XXXIV
CONTINUAZIONE DELL'ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
In tale stato
erano le cose, quando le autoritá dipartimentali, giá inviate ne' dipartimenti,
incominciarono l'opera della organizzazione delle municipalitá.
Per una
rivoluzione non vi è oggetto piú importante della scelta de' munícipi.
Dipende da essi che la forza del governo sia applicata convenientemente in
tutt'i punti; dipende da essi di far amare o far odiare il governo. Il popolo
non conosce che il municipe, e giudica da lui di coloro che non conosce.
Per eleggere i
munícipi in una nazione, la quale giá anche nell'antica costituzione avea un
governo municipale, si volle seguire il metodo di un'altra che non conosceva
municipalitá prima della rivoluzione; e cosí, mentre si promettevano nuovi
diritti al popolo, se gli toglievano gli antichi. Era quasi fatalitá seguire le
idee, sebbene indifferenti, de' nostri liberatori!
L'elezione de'
munícipi fu affidata ad un collegio di elettori, che furono scelti dal governo.
- Qual è dunque questa libertá e questa sovranitá che ci promettete? -
dicevano le popolazioni. - Prima i munícipi erano eletti da noi; abbiam tanto
sofferto e tanto conteso per conservarci questo diritto contro i baroni e
contro il fisco! Oggi non lo abbiamo piú. Prima i munícipi rendevano conto a
noi stessi delle loro operazioni; oggi lo rendono al governo. Noi dunque colla
rivoluzione, anziché guadagnare, abbiam perduto? - Si volea spiegar loro il
sistema elettorale; si volea far comprendere come continuavano a dirsi eletti
da loro quelli che erano eletti dai suoi elettori: ma le popolazioni non
credevano né erano obbligate a credere ad una costituzione che ancora non si
era pubblicata. Si diceva che gli elettori dovessero un giorno esser eletti dal
popolo; ma intanto il popolo vedeva che erano eletti dal governo: il fatto era
contrario alla promessa. Quando anche la costituzione fosse stata giá
pubblicata, i popoli credevan sempre superfluo formar un corpo elettorale per
eleggere coloro che prima in modo piú popolare eleggevano essi stessi, e riputavano
sempre perdita il passare dal diritto dell'elezione immediata a quello di una
semplice elezione mediata.
Ho osservato in
quella occasione che le scelte de' munícipi fatte dal popolo furono meno
cattive di quelle fatte dai collegi elettorali, non perché i collegi fossero
intenzionati a far il male, ma perché erano nell'impossibilitá di fare il bene,
perché non conoscevano le persone che eleggevano e perché spesso eleggevano
persone che il popolo non conosceva. Io ripeto sempre lo stesso: nella nostra
rivoluzione gli uomini eran buoni, ma gli ordini eran cattivi. Io comprendo
l'utilitá di un collegio elettorale dipartimentale, che elegga o proponga que'
magistrati che soprastano alla repubblica intera; ma un collegio dipartimentale
che discenda ad eleggere i magistrati municipali mi sembra un'istituzione
antilogica, per la quale dalle idee delle specie, invece di risalire a quella
del genere, si voglia discendere a quella degl'individui, che debbon precedere
l'idea della specie. È vero che in taluni momenti si richieggono negli
uomini pubblici molte qualitá che il popolo o non conosce o non apprezza; ma
voi, che avete il governo della nazione, sapete molto poco, quando non sapete
far sí che l'elezione cada sulle persone degne della vostra confidenza, senza
alterare l'apparenza della libertá.
Che ne avvenne? I
collegi elettorali distrussero le elezioni fatte dal popolo, disgustarono il
popolo e gli uomini popolari che il popolo avea eletto. Se il collegio
elettorale chiedeva degli uomini probi, questi erano piú noti al popolo, coi
quali convivevano, che a sei persone inviate da Napoli, le quali non
conoscevano il popolo né erano conosciute dal medesimo; se chiedeva degli
uomini utili alla rivoluzione, quali potevano esser mai questi se non
quegl'istessi che il popolo amava e che il popolo rispettava?
Questa parola
«popolo», in tutt'i luoghi ed in tutt'i tempi, altro non dinota che quattro,
tre, due e talvolta una sola persona, che, per le sue virtú, pe' suoi talenti,
per le sue maniere, dispone degli animi di una popolazione intera: se non si
guadagnano costoro, invano si pretende guadagnare il popolo, e non senza
pericolo talora uno si lusinga di averlo guadagnato.
Dopo qualche
tempo i collegi elettorali furono aboliti; ma non si restituí l'antico diritto
alle popolazioni. Si credette male degli uomini il male che nasceva dalle cose.
S'inviarono de' commissari organizzatori, cui si diedero tutte le facoltá del
corpo elettorale; si commise ad un solo quel diritto che prima almeno
esercitavano sei; e, con ciò, l'esercizio, sebbene fosse piú giusto,
parve piú tirannico e piú capriccioso. Diverso sarebbe stato il giudizio del
popolo, se questi commissari fossero stati inviati prima. La loro istituzione
era piú conforme alla natura, alle antiche idee de' popoli, ai bisogni della
rivoluzione.
XXXV
MANCANZA DI COMUNICAZIONE
Ma il governo,
mentre si occupava della organizzazione apparente, trascurava o, per dir
meglio, era costretto a trascurare, la parte piú essenziale dell'organizzazione
vera, che consiste nel mantener libera la comunicazione tra le diverse parti di
una nazione. Sarebbe stato inescusabile il governo, se questa trascuratezza
fosse stata volontaria; ma essa era una conseguenza inevitabile della scarsezza
e della non buona direzione delle forze. Se poca forza, ben ripartita, la quale
avesse agito continuamente sopra tutt'i punti, o almeno sopra i punti
principali, sarebbe stata bastante a prevenire, ad impedire, a togliere ogni
male; molta, che agiva per masse e per momenti in un punto solo, non potea
produrre che un debole effetto e passeggiero.
Le province
ignoravano ciò che si ordinava nella capitale; la capitale ignorava
ciò che avveniva nelle province. Si crederebbe? Non si pubblicavano
neanche le leggi. Due mesi dopo la pubblicazione in Napoli della legge feudale,
non fu questa pubblicata in tutto il dipartimento del Volturno, vale a dire nel
dipartimento piú vicino; e la legge feudale era tutto nella nostra rivoluzione.
Questa legge, che
dovea esser nota ai popoli ai quali giovava, fu nota ai soli baroni che
offendeva, perché questi soli erano nella capitale. Questa sola circostanza
avrebbe di molto accelerata la controrivoluzione, se una parte non piccola
della primaria nobiltá non fosse stata per sentimento di virtú attaccata alla
repubblica, ad onta de' non piccoli sacrifici che le costava.
Intanto
circolavano per i dipartimenti tutte le carte che potevano denigrare il nuovo
ordine di cose, e passavano per le mani de' realisti, i quali accrescevano
colle loro insidiose interpretazioni i sospetti che ogni popolo ha per le
novitá.
Questa mancanza di
comunicazione fu quella che favorí l'impostura dei còrsi Boccheciampe e
De Cesare nella provincia di Lecce; e di questa profittarono il cardinal Ruffo
e tutti gli altri capi sollevatori, e riuscí loro facile il far credere che in
Napoli era ritornato il re e che il governo repubblicano erasi sciolto. Essi
erano creduti, perché il governo nelle province era muto, né piú si udiva la
sua voce. Ruffo dava a credere alle province che fosse estinta la repubblica:
il Monitore repubblicano, al contrario, dava a credere alla capitale che
fosse morto Ruffo. Ma l'errore di Ruffo spingeva gli uomini all'azione, e
quello de' repubblicani gli addormentava nell'indolenza; ed a Ruffo giovavano
egualmente e l'errore de' realisti e quello de' repubblicani.
XXXVI
POLIZIA
I realisti aveano
piú libera e piú estesa comunicazione pel nostro territorio che lo stesso
governo repubblicano. Le Calabrie erano loro aperte; aperto era tutto il
littorale del Mediterraneo da Castelvolturno fino a Mondragone, cosicché
gl'insorgenti di quei luoghi erano confortati ed aveano armi e munizioni
dagl'inglesi, padroni de' mari; aperto avea il mare anche Proni(44), che comandava l'insorgenza degli Apruzzi. Tutte queste
insorgenze si andavano stringendo intorno Napoli, ed in Napoli stessa aveano
delle corrispondenze segrete, che loro davano nuove sicure dell'interna
debolezza.
Nulla fu tanto
trascurato quanto la polizia nella capitale. In primo luogo non si pensò
a guadagnar quelle persone che sole potevano mantenerla. La polizia, al pari di
ogni altra funzione civile, richiede i suoi agenti opportuni, poiché non tutti
conoscono il paese e sanno le vie, per lo piú tortuose ed oscure, che calcano
gl'intriganti e gli scellerati. Felice quella nazione ove le idee ed i costumi
sono tanto uniformi agli ordini pubblici, che non vi sia bisogno di polizia.
Ma, dovunque essa vi è, non è e non deve esser altro che il
segreto di saper render utili pochi scellerati, impiegandoli ad osservare e
contenere i molti. Ma in Napoli gli scellerati e gl'intriganti furono odiati,
perseguitati, abbandonati. I nuovi agenti della polizia repubblicana erano
tutti coloro che aveano educazione e morale, perché essi erano quelli che soli
amavano la repubblica. Or le congiure si tramavano tra il popolaccio e tra
quelli che non aveano né costume né educazione, perché questi soli avea potuto
comprar l'oro di Sicilia e d'Inghilterra. Quindi le congiure si tramavano quasi
in un paese diverso, di cui gli agenti della polizia non conoscevano né gli
abitanti né la lingua; e la morale de' repubblicani, troppo superiore a quella
del popolo, è stata una delle cagioni della nostra ruina.
La seconda cagione
fu che il gran numero de' repubblicani si separò soverchio dal popolo;
onde ne avvenne che il popolo ebbe sempre dati sicuri per saper da chi
guardarsi. Questo fece sí che fosse ben esercitata quella parte della polizia
che si occupa della tranquillitá, perché per essa bastava il timore; mal
esercitata fu l'altra che invigila sulla sicurezza, perché per essa è
necessaria la confidenza. Il popolo, temendo, era tranquillo; ma, diffidando,
non parlava: cosí si sapeva ciò che esso faceva e s'ignorava ciò
che esso macchinava.
I francesi forse
temettero piú del dovere un popolo sempre vivo, sempre ciarliero; credettero
pericoloso che questo popolo, per necessitá di clima e per abitudine di
educazione, prolungasse i suoi divertimenti fino alle ore piú avanzate della notte.
Il popolo si vide attraversato nei suoi piaceri, che credeva e che erano
innocenti; cadde nella malinconia (stato sempre pericoloso in qualunque popolo
e precursore della disperazione; e non vi furono piú quei luoghi dove, tra
l'allegrezza e tra il vino, il piú delle volte si scoprono le congiure. Il
carattere e le intenzioni dei popoli non si possono conoscere se non se quando
essi sono a lor agio: in un popolo oppresso le congiure sono piú frequenti a
macchinarsi e piú difficili a scoprirsi.
È indubitato
che in Napoli erasi ordita una gran congiura, uno dei grandi agenti della quale
fu un certo Baccher. Baccher fu arrestato in buon punto: le fila dei congiurati
non furono scoperte; ma intanto la congiura rimase priva di effetto.
XXXVII
PROCIDA - SPEDIZIONE DI CUMA - MARINA
Il primo progetto
dei congiurati era quello che gl'inglesi dovessero occupar Ischia e Procida,
come difatti l'occuparono, onde aver maggior comoditá di mantenere una
corrispondenza in Napoli e di prestare a tempo opportuno la mano alle altre
operazioni. Questo inconveniente fu previsto; ma il governo non avea forze
sufficienti per custodir Procida: i francesi non compresero il pericolo di
perderla.
Gl'inglesi,
padroni di Procida, tentarono uno sbarco nel littorale opposto di Cuma e
Miseno. Un distaccamento di pochi nostri, che occupò il littorale, lo
impedí; e la corte di Sicilia dovette piú di una volta fremere per le disfatte
dei suoi superbi alleati.
Forse sarebbe
riuscito anche di discacciarli dall'isola. Ma la nostra marina era stata
distrutta dagli ultimi ordini del re; e nei primi giorni della nostra
repubblica le spese sempre esorbitanti, che seco porta un nuovo ordine di cose,
avean tolto ogni modo di poter far costruire anche una sola barca cannoniera. I
pochi e miseri avanzi della marina antica furono per indolenza di
amministrazione militare dissipati; e si vide vendere pubblicamente il legno,
le corde e finanche i chiodi dell'arsenale.
Caracciolo,
ritornato dalla Sicilia(45) e restituito alla
patria, ci rese le nostre speranze. Caracciolo valeva una flotta. Con pochi,
mal atti e mal serviti barconi, Caracciolo osò affrontar gl'inglesi:
l'officialitá di marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo.
Si attacca, si dura in un combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si
era dichiarata finalmente per noi, che pure eravamo i piú deboli: ma il vento
viene a strapparcela dalle mani nel punto della decisione; e Caracciolo
è costretto a ritirarsi, lasciando gl'inglesi malconci, e si potrebbe
dire anche vinti, se l'unico scopo della vittoria non fosse stato quello di
guadagnar Procida. Un altro momento, e Procida forse sarebbe stata occupata.
Quante grandi battaglie, che sugl'immensi campi del mare han deciso della sorte
degl'imperi, non si possono paragonare a questa picciola azione per
l'intelligenza e pel coraggio de' combattenti!
Il vento, che
impedí la riconquista di Procida, fu un vero male per noi, perché tratanto i
pericoli della patria si accrebbero. Le disgrazie diluviavano: dopo due o tre
giorni, si ebbero altri mali a riparare piú urgenti di Procida; e la nostra non
divisibile marina fu costretta a difendere il cratere della capitale.
XXXVIII
IDEE DI TERRORISMO
La storia di una
rivoluzione non è tanto storia dei fatti quanto delle idee. Non essendo
altro una rivoluzione che l'effetto delle idee comuni di un popolo, colui
può dirsi di aver tratto tutto il profitto dalla storia, che a forza di
replicate osservazioni sia giunto a saper conoscer il corso delle medesime.
Nell'individuo la storia dei fatti è la stessa che la storia delle idee
sue, perché egli non può esser in contraddizione con se stesso. Ma,
quando le nazioni operano in massa (e questo è il vero caso della
rivoluzione), allora vi sono contraddizioni ed uniformitá, simiglianze e
dissimiglianze; e da esse appunto dipende il tardo o sollecito, l'infelice o
felice evento delle operazioni.
La congiura di
Baccher, l'occupazione di Procida, i rapidi progressi dell'insorgenza aveano
scossi i patrioti, e, nella notte profonda in cui fino a quel punto avean
riposati tranquilli sulle parole dei generali francesi e del governo, videro
finalmente tutto il pericolo onde erano minacciati. Il primo sentimento di un
uomo che sia o che tema di esser offeso è sempre quello della vendetta,
la quale, se diventa massima di governo, produce il terrorismo.
Il governo
napolitano, quantunque composto di persone che tanto avean sofferto per
l'ingiusta persecuzione sotto la monarchia, credette viltá vendicarsi,
allorché, avendo il sommo potere nelle mani, una vendetta non costava che il
volerla. Pagano avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse ai suoi
nemici allorché rese la libertá a Siracusa, ed il divino tratto di Vespasiano,
quando, elevato all'impero, mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai
non avea piú che temere da lui. Noi incontriamo sempre i nostri governanti,
allorché ricerchiamo la morale individuale.
Ma molti patrioti
accusarono il governo di un «moderantismo» troppo rilasciato, a cui si
attribuivano tutt'i mali della repubblica. Siccome in Francia al «terrorismo»
era succeduta una rilasciatezza letargica e fatale di tutt'i princípi, cosí il
terrorismo era rimasto quasi in appannaggio alle anime piú ardentemente
patriotiche. Forse ciò avvenne anche perché il cuore umano mette l'idea
di una certa nobiltá nel sostenere un partito oppresso, per vendicarsi cosí del
partito trionfante che invidia: forse in Napoli si eran vedute salve talune
persone, che la giustizia, la pubblica opinione, la salute pubblica voleano
distrutte o almeno allontanate.
Ma vi era un mezzo
saggio tra i due estremi. Il terrorismo è il sistema di quegli uomini
che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo
prevenire i delitti, amano punirli; che, non sapendo render gli uomini
migliori, si tolgono l'imbarazzo che dánno i cattivi, distruggendo
indistintamente cattivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perché
è piú vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini,
perché è molto facile. Ma richiede sempre la forza con sé: ove questa
non vi sia, voi non farete che accelerare la vostra ruina. Tale era lo stato di
Napoli.
In Napoli le prime
leggi marziali de' generali in capo erano terroristiche, perché tali son sempre
e tali forse debbono essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre e non
produssero alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la legge, come
l'applicate, quando tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti
e salvare i rei? Robespierre avea la nazione intera esecutrice del terrorismo
suo. Quando le pene non sono livellate alle idee de' popoli, l'eccesso stesso
della pena ne rende piú difficile l'esecuzione e, per renderle piú efficaci,
convien renderle piú miti.
Negli ultimi tempi
si eresse in Napoli un «tribunale rivoluzionario», il quale procedeva cogli
stessi princípi e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di
Robespierre. Forse quando si eresse era troppo tardi, ed altro non fece che
tingersi inutilmente del sangue degli scellerati Baccher nell'ultimo giorno
della nostra esistenza civile, quando la prudenza consigliava un perdono, che
non potea esser piú dannoso. Ma, quand'anche un tal tribunale si fosse eretto
prima, la legge stessa, colla quale se ne ordinava l'erezione, sarebbe stato un
avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia contro il tribunale
eretto.
Il terrorismo
cogl'insorgenti si provò sempre inutile. «E che? - scrivea la saggia e
sventurata Pimentel - quando un metodo di cura non riesce, non se ne saprá
tentare un altro?».
Difatti si
accordò un'amnistia agl'insorgenti: non a tutti, perché sarebbe stata
inutile; ma a coloro che il governo ne avesse creduti degni, onde cosí ciascuno
si fosse affrettato a meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il
sospetto e la divisione tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per mezzo
di persone sagge ed energiche, le quali avessero potuto penetrare ed eseguire
gli ordini del governo in tutt'i punti del nostro territorio. Io lo ripeto: la
mancanza delle comunicazioni tra le diverse parti dello Stato e la mancanza
delle forze diffuse in molti punti per mantener tale comunicazione, la mancanza
a buon conto della diligenza e della severitá erano l'origine di tutti i nostri
mali e facevan credere necessario ad alcuni un terrorismo, il quale non avrebbe
fatto altro che accrescerli.
XXXIX
NUOVO GOVERNO COSTITUZIONALE
Forse con piú
ragione domandavano i patrioti la riforma del governo. Tralasciando i motivi
privati, che spingevano taluni a declamare piú di quello che conveniva, era
sicuro però che si voleva una riforma. Abrial finalmente giunse
commissario organizzatore del nostro Stato, e si accinse a farla.
Ma vi erano
nell'antico governo molti che godevano la pubblica confidenza, o perché la
meritassero, o perché l'avessero usurpata; e questi secondi (pochissimi per
altro di numero) erano, come sempre suole avvenire, piú accetti, piú illustri
de' primi, perché le lodi che loro si davano non rimanevano senza premio. -
Questi sono i primi che io toglierei - diceva acutamente, ma invano, in una
societá patriotica il cittadino Mazziotti. Un governo formato da un'assemblea
si riduce a cinque o sei teste, le quali dispongono delle altre: se queste
rimangono, voi inutilmente cangiate tutta l'assemblea.
Le intenzioni di
Abrial erano rette: Abrial fu quello che piú sinceramente amava la nostra
felicitá e quello di cui piú la nazione è rimasta contenta. Le sue
scelte furono molto migliori delle prime; e, se non furono tutte ottime, non fu
certo sua colpa, poiché né poteva conoscere il paese in un momento, né vi
dimorò tanto tempo quanto era necessario a conoscerlo.
Abrial divise i
poteri che Championnet avea riuniti. Il governo da lui formato fu il seguente:
nella commissione esecutiva, Abamonti; Agnese, napolitano, ma che aveva
dimorato da trent'anni in Francia, ove avea i beni e famiglia; Albanese; Ciaia;
Delfico, il quale non potette per le insorgenze di Apruzzo mai venire in
Napoli. I ministri furono: 1° dell'interno, De Filippis; 2° di giustizia e
polizia, Pigliacelli; 3° di guerra, marina ed affari esteri, Manthoné; 4° di
finanze, Macedonio. Tra i membri della commissione legislativa vi furono sempre
Pagano, Cirillo, Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti,
Magliani, Gambale, Marchetti... Gli altri si cambiarono spesso, e noi non li
riferiremo; tanto piú che, nello stato in cui era allora la nostra nazione,
poco potea il potere legislativo, e tutto il bene e tutto il male dipendeva
dall'esecutivo.
Con ciò
Abrial volle darci la forma della costituzione prima di avere una costituzione,
e con ciò rese i poteri inattivi, e discordi i poteri dei cittadini.
Questo involontario errore fu cagione di non piccoli mali, perché la divisione
de' poteri ci diede la debolezza nelle operazioni in un tempo appunto in cui
avevamo bisogno dell'unitá e dell'energia di un dittatore; ch'egli per altro
non poteva darci, perché, incaricato di eseguire le istruzioni del Direttorio
francese, avrebbe ben potuto modificare in parte gli ordini che si trovavano in
Francia stabiliti, ma non mai cangiarli intieramente. Talché tutti i fatti ci
conducono sempre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio:
cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i migliori architetti non
potevano innalzar edifizio che fosse durevole.
XL
SALE PATRIOTICHE
Taluni credevano
che col mezzo delle sale patriotiche si potesse «attivare» la rivoluzione; e
furono perciò stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non
veggo altro modo di attivare una rivoluzione che quello d'indurci il popolo: se
la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai rivoluzionari; se
è passiva, convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo, e, per
unirvisi, convien che si distinguano il meno che sia possibile. Le sale
patriotiche, e nell'uno e nell'altro caso, debbono essere le piazze.
Qual bene hanno
mai esse prodotto in Francia? Hanno, direbbe Macchiavelli, fatto degenerare in
sètte lo spirito di partito, che sempre vi è nelle repubbliche,
e, come sempre suole avvenire, hanno spinto i princípi agli estremi, hanno
fatto cangiar tre volte la costituzione, hanno a buon conto ritardata l'opera
della rivoluzione e forse l'hanno distrutta. Senza societá patriotiche, le
altre nazioni di Europa aveano dirette le loro rivoluzioni con princípi piú
saggi ad un fine piú felice.
Ma l'abuso delle
sale per attivare la rivoluzione dipendeva da un principio anche piú lontano.
L'oggetto della democrazia è l'eguaglianza; e, siccome in ogni societá
vi è una disuguaglianza sensibilissima tra le varie classi che la
compongono, cosí si giunge al governo regolare o abbassando gli ottimati al
popolo, o innalzando il popolo agli ottimati. Ma, siccome gli ottimati, insieme
coi diritti e colle ricchezze, hanno ancora princípi e costumi, cosí, quando le
cose si spingono all'estremo, non solo si sforzano a cedere i loro diritti e
divider le loro ricchezze (il che sarebbe giusto), ma anche a rinunciare ai
loro costumi.
Si volea
fraternizzare col popolo, e per «fraternizzare» s'intendeva prendere i vizi del
popolaccio, prender le sue maniere ed i suoi costumi; mezzi che possono talora
riuscire in una rivoluzione attiva, in cui il popolo, in grazia dello spirito
di partito, perdona l'indecenza, ma non mai in una rivoluzione passiva, in cui
il popolo, libero da passioni tumultuose, è piú retto giudice del buono
e dell'onesto. Doveasi perciò disprezzare il popolo? No, ma bastava
amarlo per esserne amato, distruggere i gradi per non disprezzarlo, e conservar
l'educazione per esserne stimato e per poter fargli del bene(46).
Ammirabile e
fortunata è stata per questo la repubblica romana, in cui i patrizi,
mentre cedevano ai loro diritti, forzavano il popolo ad amarli ed a rispettarli
pei loro talenti e per le loro virtú: il popolo cosí divenne libero e migliore.
Nella repubblica fiorentina tutte le rivoluzioni erano dirette da quella
«fraternizzazione», che s'intendeva in Firenze come s'intese un tratto in
Francia; e perciò la repubblica fiorentina ondeggiò tra perpetue
rivoluzioni, sempre agitata e non mai felice: il popolo, o presto o tardi, si
annoiava dei conduttori, che non aveano ottenuto il suo favore se non perché si
erano avviliti, ed, annoiato dei suoi capi, si annoiava del governo, ch'esso di
rado conosce per altro che per l'idea che ha di coloro che governano(47).
Si condussero
taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi erano per lo piú comperati
e, come è facile ad intendersi, non servivano che a discreditare
maggiormente la rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai, l'uomo del popolo
è l'uomo popolare.
Le sale
patriotiche attivavano la rivoluzione, attirando una folla di oziosi, che vi
correva a consumar cosí quella vita di cui non sapeva far uso. I giovani sopra
tutti corrono sempre ove è moto, e ripetono semplici tutto ciò
che loro si fa dire. Intanto pochi abili ambiziosi si prevalgono del nome di
conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito; e questo merito
appunto, perché troppo facile, perché inutile alla nazione, un governo saggio
non deve permettere o (ciò che val lo stesso) non deve curare: senza di
ciò, i faziosi se ne prevaleranno per oscurare, per avvilire, per
opprimere il merito reale. Taluni buoni, i quali vedevano l'abuso che delle
sale si potea fare, credettero bene di opporre una sala all'altra e, se fosse
stato possibile, riunirle tutte a quella ove lo spirito fosse piú puro ed i
princípi fossero piú retti; ed il desiderio della medicina fu tanto, che si
credette poter aver la salute dallo stesso male. Ma io lo ripeto: quando
l'istituzione è cattiva, rende inutili gli uomini buoni, perché o li
corrompe o li fa servire, illusi dall'apparenza del bene, ai disegni dei
cattivi.
«I vostri maggiori
- diceva il console Postumio al popolo di Roma - vollero che, fuori del caso
che il vessillo elevato sul Tarpeio v'invitasse alla coscrizione di un
esercito, o i tribuni indicessero un concilio alla plebe, o talun altro dei
magistrati convocasse tutto il popolo alla concione, voi non vi dobbiate riunir
cosí alla ventura ed a capriccio: essi credevano che, dovunque vi fosse
moltitudine, ivi esser vi dovesse un legittimo rettore della medesima». In
Francia le societá popolari, rese costituzionali da Robespierre, che avea quasi
voluto render costituzionale l'anarchia, o non produssero sulle prime molti
mali, o i mali che produssero non si avvertirono, perché, quando una nazione
soffre moltissimi mali, spesso un male serve di rimedio all'altro. In Napoli,
dove, per la natura della rivoluzione, le sale erano meno necessarie, si
corruppero piú sollecitamente(48).
Chi è
veramente patriota non perde il suo tempo a ciarlare nelle sale; ma vola a
battersi in faccia all'inimico, adempie ai doveri di magistrato, procura
rendersi utile alla patria coltivando il suo spirito ed il suo cuore: voi lo
ritrovate ov'è il bisogno della patria, non dove la folla lo chiama; e,
quando non ha verun dovere di cittadino da adempire, ha quelli di uomo, di
padre, di marito, di figlio, di amico. Il governo non lo vede; ma guai a lui se
non sa riconoscerlo e ritrovarlo! Il solo governo buono è quello agli
occhi del quale ogni altro uomo non si può confondere con questo, né
può usurpare la stima che se gli deve, se non facendo lo stesso; per cui
la prima parte di un ottimo governo è quella di far sí che non vi sieno
altre classi, altre divisioni che quelle della virtú, ed evitare a
quest'oggetto tutte le istituzioni che potrebbero riunire i virtuosi a coloro
che non lo sono, tutti i nomi finanche che potessero confonderli.
Io non confondo
colle sale patriotiche quei «circoli d'istruzione», ove la gioventú va ad
istruirsi, a prepararsi al maneggio negli affari, ad ascoltare le parole dei
vecchi ed accendersi di emulazione ai loro esempi, a rendersi utile ai loro
simili ed acquistare dai suoi coetanei quella stima che un giorno meriterá
dalla patria e dal governo. In Napoli se ne era aperto uno, e con felici
auspíci: il suo spirito era quello di proporre varie opere di beneficenza che
si esercitavano in favore del popolo: si soccorsero indigenti, si prestarono
senza mercede all'infima classe del popolo i soccorsi della medicina e dell'ostetricia.
Questa era l'istituzione che avrebbe dovuto perfezionarsi e moltiplicarsi(49).
XLI
COSTITUZIONE - ALTRE LEGGI
Tali erano le idee
del popolo. Le cure della repubblica erano ormai divise da che si eran divisi i
poteri; e la commissione legislativa, sgravata dalle cure del governo, si era
tutta occupata della costituzione, il di cui progetto, formato dal nostro
Pagano, era giá compíto. Ma di questo si dará giudizio altrove, come di cosa
che, non essendosi né pubblicata né eseguita, niuna parte occupa negli
avvenimenti della nostra repubblica.
Altri bisogni piú
urgenti richiamavano l'attenzione della commissione legislativa.
Volle occuparsi a
riparare al disordine dei banchi. Fin dai primi giorni della rivoluzione, la
prima cura del governo fu di rassicurare la nazione, incerta ed agitata per la
sorte del debito dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della nazione.
Un tal debito fu dichiarato debito nazionale. Tale operazione fu da taluni
lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava piú il vantaggio o la
difficoltá dell'impresa: tutti però convenivano che una semplice
promessa potea tutt'al piú calmare per un momento la nazione, ma che essa
sarebbe poi divenuta doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati i
mezzi di adempirla. Allora tutta la vergogna e l'odiositá di un fallimento
sarebbe ricaduta sul nuovo governo, e si sarebbe intanto perduto il solo
momento favorevole, quale era quello di una rivoluzione, in cui la colpa e
l'odio del male si avrebbe potuto rivolgere contro il re fuggito, e gli uomini
l'avrebbero piú pazientemente tollerato, come uno di quegli avvenimenti
inseparabili dal rovescio di un impero, effetto piú del corso irresistibile
delle cose che della scelleraggine de' governanti. Cosí il governo non fece
allora che una promessa, e rimaneva ancora a far la legge.
Ma, quando volle
occuparsi della legge, non era forse il tempo opportuno. La nazione era
oppressa da mille mali, le opinioni erano vacillanti, tutto era inquietezza ed
agitazione. In tale stato di cose il far delle leggi utili e forti è
ottimo consiglio: sgravasi cosí la somma de' mali che opprimono il popolo e si
scema il motivo del malcontento; il farne delle inutili e delle inefficaci
è pericoloso, perché al malcontento, che giá si soffre per il male,
l'inutilitá del rimedio aggiunge la disperazione. Se non potete fare il bene,
non fate nulla: il popolo si lagnerá del male e non del medico.
La commissione
legislativa altro non fece (e, per dire il vero, allora che potea far di piú?)
che rinnovare per i beni, ch'eran divenuti nazionali, quella ipoteca che giá il
re avea accordata sugli stessi beni, quando erano regi. Gli esempi passati
poteano far comprendere che questa operazione sola era inutile. Questi beni non
poteano mai esser in commercio, perché riuniti in masse immense in pochi punti
del territorio napolitano; ed i possessori delle carte monetate erano molti,
divisi in tutt'i punti e non voleano fare acquisti immensi e lontani. Quando
furono esposti in vendita, in tempo del re, i fondi ecclesiastici, i quali non
aveano questo inconveniente, si ritrovarono piú facilmente i compratori. Si
aggiungeva a ciò l'incertezza della durata della repubblica, la quale
alienava maggiormente gli animi dei compratori; l'incertezza della sorte dei
beni che davansi in ipoteca, quasi contesi tra la nazione ed il francese: per
eseguir le vendite in tanti pericoli, conveniva offerire ai compratori vantaggi
immensi, e cosí tutt'i fondi nazionali non sarebbero stati sufficienti a soddisfare
una picciola parte del debito pubblico(50).
Il debito
nazionale in Napoli non era tale che non si avesse potuto soddisfare. Era piú
incomodo che gravoso. Conveniva una piú regolata amministrazione, e questa vi fu(51): infatti, in cinque mesi di repubblica, il governo, colle
rendite di sole due province, tolse dalla circolazione un milione e mezzo di
carte. Con tanta moralitá nel governo, si potea far quasi a meno della legge
per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col solo fatto, e che si
sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze interne ed esterne della
nazione fossero state meno infelici. Ma conveniva, nel tempo istesso, che tutta
la nazione avesse soddisfatto il debito nazionale; conveniva che questo debito
avesse toccato la nazione in tutt'i punti; e, dove prima gravitava solo sulla
circolazione, si fosse sofferto in parte dall'agricoltura e dalla proprietá:
cosí il debito, diviso in tanti, diveniva leggiero a ciascuno.
La nazione
napolitana è una nazione agricola. In tali nazioni la circolazione
è sempre piú languida che nelle nazioni manifatturiere o commercianti;
ed il danaro, o presto o tardi, va a colare, senza ritorno, nelle mani dei
possessori dei fondi. Difatti in Napoli, e specialmente nelle province, non
mancava il danaro: ma questo danaro era accumulato in poche mani, mentreché per
la circolazione non vi erano che carte. Conveniva attivare tutta la nazione, ed
offerire ai proprietari di fondi delle occasioni di spendere quel danaro che
tenevano inutilmente accumulato. Conveniva... Ma io non iscrivo un trattato di
finanze: scrivo solo ciò che può far conoscere la mia nazione.
XLII
ABOLIZIONE DEL TESTATICO, DELLA GABELLA DELLA FARINA E DEL
PESCE
Per giudicare
rettamente di un legislatore, conviene che ei sia indipendente; per far che le
sue leggi abbiano tutto l'effetto, conviene che egli sia libero. Quando o altri
uomini o le cose tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani, quando la
sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel legislatore, nelle di
cui mani è il cuore delle nazioni: i consigli son timidi, le misure
mezzane; tra l'imperiosa necessitá e l'occasione precipitosa, spesso il miglior
consiglio non è quello che si può seguire, o solo si segue quando
l'occasione è giá passata, e di tutte le operazioni voi altro non potete
rilevare che la puritá del cuore e la rettitudine dei suoi pensieri.
Cosí, non
altrimenti che la legge sui banchi, riuscirono inutili quasi tutte le altre
leggi immaginate per isgravare i popoli dai pesi che nell'antico governo
sofferiva. Io non ne eccettuo che la sola legge colla quale si abolí la gabella
del pesce; legge che produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica
gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale.
Quando si abolí la
gabella sulla farina, non si ottenne l'intento di far ribassare il prezzo de'
grani in Napoli, dove, per le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le strade
delle province, non potevano ivi piú entrar grani nuovi, e quei che esistevano
erano pochi ed avean giá pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora:
che «la gabella si era tolta quando non vi era piú farina».
Dal 1764 era in
Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento fosse in
parte effetto della maggior ricchezza della nazione, non si poteva però
mettere in controversia che l'aumento del prezzo degli altri generi non era
proporzionato all'aumento di quello del grano(52). Questo non era alterato, quando si paragonava al prezzo
del grano nelle altre nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si
paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione napolitana.
Tutto il male nasceva da che l'industria, ed in conseguenza la ricchezza, non
si era risvegliata e diffusa equabilmente sopra tutt'i generi ed in tutte le
persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella
capitale, non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto piú
caro che nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di
renditieri, di oziosi o di persone che, senza essere oziose, nulla producevano
e che non partecipavano dell'aumento dell'industria e della ricchezza
nazionale. Per rendere il popolo napolitano contento sull'articolo del pane, o
conveniva migliorarlo e renderlo cosí piú attivo e piú ricco, o conveniva
render piú misere le province: la prima operazione avrebbe reso il popolo
napolitano contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli antichi(53). La sola abolizione della gabella era nella capitale
un'operazione piú pomposa che utile.
Guardiamola nelle
province. Essa dovette esser inutile in quei luoghi nei quali non si pagava, e
questi formavano il numero maggiore; in quelli nei quali si pagava, dovette
riuscire piuttosto dannosa. Il ritratto della gabella serviva a pagare le
pubbliche imposizioni: proibir quella e pretender queste era un contradditorio;
rinunciare a queste era impossibile tra i tanti urgentissimi bisogni dai quali
era allora il governo premuto; obbligare le popolazioni a sostituire all'antico
metodo un nuovo, ed obbligarle a sostituirlo di loro autoritá (giacché colla
legge non si era preveduto questo caso), era pericoloso in un tempo in cui lo
spirito di partito né fa conoscere il giusto né lo fa amare. Un dio solo
avrebbe potuto persuadere alle popolazioni che una novitá non fosse stata
allora una ingiustizia patriotica. Infatti molte popolazioni, che per la
vicinanza alla capitale erano nello stato di portar i loro reclami al governo(54), chiesero che la gabella sulla farina si ristabilisse.
Nella costituzione
antica del regno di Napoli, ove si trattava d'imposizioni dirette, il sovrano
quasi altro non faceva che imporre il tributo: la ripartizione era determinata
da una legge quasi che fondamentale dello Stato, ed il modo di esigerlo era in
arbitrio di ciascuna popolazione. Non si esigeva dappertutto nello stesso modo:
una popolazione avea una gabella, un'altra ne avea un'altra; chi non avea
gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi pagava sui fondi, chi in
un modo, chi in un altro, secondo le sue circostanze, i suoi prodotti, i suoi
bisogni, i suoi costumi e talora i pregiudizi suoi. Questo metodo di amministrazione
avea i suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti si potean correggere, e
conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo rendeva però
meno sensibile.
Questo stato della
nazione fece sí che inutile riuscisse anche la legge sull'abolizione del
testatico. «Nessun testatico, nessuna imposizione personale avrá luogo nella
nazione napolitana». Questo stesso, e colle stesse parole, era stato detto
quasi tre secoli prima: quella legge era tuttavia in vigore nel Regno; ed
intanto, ad onta della medesima, si pagava l'imposizione personale. In pochi
luoghi si esigeva ancora sotto il nome di «testatico»; in molti si pagava
ricoperta del nome d'«industria»; in moltissimi si pagava pagando un dazio
indiretto sui generi di prima necessitá, che si consumano egualmente da chi
possiede e da chi non possiede: ove in un modo, ove in un altro, il testatico
si pagava dappertutto e non era in verun luogo nominato. La legge esisteva; ma
l'abuso, cangiando le parole, faceva una frode alla legge.
Prima di riformare
l'antico sistema delle nostre finanze, conveniva conoscerlo: la riforma dovea
essere simultanea ed intera. Tutte le parti di un sistema di finanze hanno
stretti rapporti tra loro e collo stato intero della nazione. Ma la maggior
parte degli Stati di Europa erano nati, non dalle unioni spontanee, ma dalla
conquista: il signore di un piccolo Stato avea oppressi gli altri con diversi
mezzi ed in diversi tempi; per lo piú si erano transatti colle popolazioni, che
avean conservati i loro usi, i dazi loro, i loro costumi. Una gran nazione non
fu che l'aggregato di tante piccole nazioni, che si consideravano come estranee
tra loro; ed il sovrano si considerava estraneo a tutte. Invece di leggi, si
chiedevano «privilegi»; il sistema delle finanze non era che un'unione di
diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi; i bisogni del momento, non
essendo mai quelli della nazione, facevano sí che, invece di correggersi gli
antichi abusi, se ne aggiugnessero dei nuovi; e tutto ciò produceva
quell'orribile caos di finanze, in cui, al dir di Vauban, era grande quell'uomo
che sapesse immaginar nuovi nomi per poter imporre un nuovo tributo senza
alterare gli antichi.
Era venuta l'epoca
fortunata della riforma; ma questa riforma né dovea esser fatta con leggi
particolari, le quali o presto o tardi si sarebbero contraddette, né in un
momento. Era l'opera di molto tempo. Sulle prime, per contentare il popolo, il
quale fra le novitá è sempre impaziente di veder segni sensibili di
utile, bastava dire che si pagassero solo due terzi delle antiche imposizioni.
Questa diminuzione di un terzo di tutt'i tributi avrebbe attirato alla
rivoluzione maggior numero di persone; mentre colla sola abolizione del
testatico e della gabella della farina non si giovava che ai poveri. In
séguito, quando il favore dei ricchi non era piú tanto necessario e l'odio loro
tanto pericoloso, i poveri si sarebbero del tutto sgravati. Un governo
stabilito deve esser giusto; un governo nuovo deve farsi amare: quello deve
dare a ciascuno ciò che è suo; questo deve dare a tutti. Una
commissione a quest'oggetto stabilita avrebbe fatto in séguito conoscere le
antiche finanze, i nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe formato un sistema
generale e durevole, su di cui si sarebbe potuta fondare la felicitá della nazione.
XLIII
RICHIAMO DE' FRANCESI
Ma eccoci alfine
ai giorni infelici della nostra repubblica: i mali da tanto tempo trascurati,
ormai ingigantiti, ci soverchiano e minacciano di opprimerci. Le Calabrie si
erano interamente perdute, e gl'insorgenti delle Calabrie comunicavano di giá
cogl'insorgenti di Salerno e di Cetara e si stendevano fino a Castellamare.
Questa stessa cittá fu occupata dagl'inglesi, e si vide la bandiera dei superbi
britanni sventolar vincitrice in faccia della stessa capitale.
I francesi
ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta. Ma, pochi giorni dopo, i
francesi furon costretti ad abbandonare il territorio napolitano, richiamati
nell'Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con pomposi proclami la
loro ritirata, gl'insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia
maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare s'inviò da Napoli
una forte guarnigione, la quale però fu ridotta a dover difendere la
sola cittá, quasi assediata dalle insorgenze che la circondavano.
Magdonald,
partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini in Sant'Elmo;
circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta.
Egli avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in effetti
altro non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati
dalla guernigione di Capua, venivano a Sant'Elmo, donde altri quattrocento
uomini partivano alternativamente per Capua.
Questa forza
sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso
di organizzar la forza nazionale. Poiché il far questo ci era stato tolto, la
forza rimasta era insufficiente.
I rovesci d'Italia
mostravano giá lo stato di languore, in cui la rilassatezza del governo
direttoriale avea gittata la Francia. La Francia diminuiva di forze in
proporzione che cresceva di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia,
che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di
esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi, invece di amarle, le
temettero.
I romani, di cui i
francesi volevano esser imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli
spagnuoli tennero una condotta diversa, ed avvilirono quelle nazioni che
doveano esser loro amiche. Ma ciò che potea ben riuscire per qualche
tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui allora si ritrovava l'Europa, non
poteva riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e potenti
ai loro confini.
Quando, in séguito
di una conquista, si vuole organizzare una repubblica, l'operazione è
sempre piú difficile che quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli
ad ubbidire, perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che
far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare. Ma non si
avvezzano i popoli a comandare senza dar loro l'indipendenza, la quale richiede
un sacrifizio, per lo piú doloroso, di autoritá per parte di colui che
conquista. E quindi è che quasi sempre vana riesce la libertá che si
riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi chi sappia comandare,
non vi sará nemmeno chi sappia ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo,
non si hanno che le volontá momentanee di coloro che comandano la forza
straniera; volontá che sono tanto piú ruinose quanto il comando è piú
vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo il merito della buona condotta. La
libertá invidia e la legge toglie gl'impieghi anche agli ottimi.
Questi cangiamenti
ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel governo delle nuove
repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i governanti nella repubblica
romana. Come sperare quella stabilitá di princípi, quella costanza di
operazioni, che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose?
Talora, oltre dei
governanti, si violentava anche la costituzione; e quello stesso Direttorio,
che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche la cisalpina.
Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere agl'intrighi ed alla
forza, e preferirono la libertá del loro giuramento al favore del conquistatore.
In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio potessero non esser
quelle dell'indipendenza e felicitá della nazione, tutt'i governanti giurarono
di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma possiamo
noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre debole;
ed il popolo intero come può amar una costituzione che non si abbia
scelta da se stesso e che non possa conservare né distruggere se non per volere
altrui?
Si aggiunga a
ciò che il principio fondamentale delle repubbliche, che è il
rispetto e l'amore pe' suoi cittadini, mentre rende un governo repubblicano
attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra' suoi, lo rende negligente
sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro che
erano suoi eguali e che temevano piú di lui che delle province desolate. Le
repubbliche italiane segnavano l'etá con sempre nuovo languore invece di
rassettarsi cogli anni, quanto piú vivevano piú si accostavano alla morte; e le
altre repubbliche d'Italia, dopo quattro anni di libertá, si trovarono tanto
deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione.
Se i francesi
avessero permesso alla repubblica cisalpina di organizzare una forza regolare,
se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero potuto piú lungo
tempo contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non impedivano
l'organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero assicurata la
vittoria al partito repubblicano. Ma il voler difendere la repubblica cisalpina,
la romana, la napolitana colle sole proprie forze; il voler temere egualmente
il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero
dei soggetti senza aumentar la forza(55).
Si parla tanto del
tradimento di Scherer: Scherer tradí il governo, ma la condotta di quel governo
avea di giá tradita una gran nazione.
La rivoluzione di
Napoli potea solo assicurar l'indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia
potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non
può esser affidato se non all'indipendenza italiana; a
quell'indipendenza, che tutte le potenze, quando seguissero piú il loro vero
interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa
riflettere converrá meco che, nella gran lotta politica che oggi agita
l'Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore che piú sinceramente
favorirá l'indipendenza italiana(56).
Il destino avea
finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea la Francia
non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i prodirettoriali governi
d'Italia non seppero comprenderne le intenzioni.
Dura necessitá ci
costrinse a trascurare tutti gli esterni rapporti che avrebbero potuto salvar
la nostra esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel
rimanente dell'Europa, e l'Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per
bocca dei nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese
non avevamo che gazzette o rapporti piú frivoli di una gazzetta e piú mendaci.
I generali francesi ci scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la
ragion della guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e
l'ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli furon date di
prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non della repubblica, almeno dei
repubblicani. Napoli avrebbe potuto salvar l'Italia; ma l'Italia cadde, ed
involse anche Napoli nella sua ruina.
XLIV
RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA
I francesi
dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed all'isola di Sora e
nelle gole di Castelforte perdettero non poca gente. Appena essi partirono,
nuove insorgenze scoppiarono in molti luoghi.
Roccaromana
suscitò l'insorgenza nelle sue terre alle mura di Capua. Egli divenne
l'istrumento piú grande della nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui
avea un nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per
sospetti troppo anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo e perderlo:
offendendo, non seppe metterlo nella impossibilitá di far male. Luigi de Gams
organizzò nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste
insorgenze, unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni
comunicazione tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto
dell'Italia.
La ritirata dei
francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di
Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la
legione, avea un nome e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni
vogliono, gelosia del governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove
poteva esser utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di
Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera. A questo
male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in
Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise; ma le spedizioni di questi due,
ritardate soverchio, non furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe
francesi, quando cioè era impossibile eseguirle.
Cosí sopra tutta
la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti
democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania
era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo a Mammone(57), comandante dell'insorgenza di Sora: con poco piú di
forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero
prodigi di valore, opponendosi all'unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato
non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo avesse
inviati loro non piú che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e
le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertá non
sarebbe perita. Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane
del Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l'insorgenza delle
Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era una cittá
piena di democratici: essa avea una guardia nazionale di duemila persone; era
una cittá che, per lo stato politico ed economico della provincia, potea trarsi
dietro la provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva
pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano Serracapriola, Casacalenda,
Agnone, Lanciano... Dall'altra parte, per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava
colle tante popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania.
Noi vorremmo poter nominare tutte le popolazioni e tutti gl'individui; ma né
tutto distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si
può dire: un tempo forse si saprá, e si potrá loro rendere giustizia.
Ma che fare? A
tutte queste forze mancava la mente, mancava la riunione tra tutti questi
punti, mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si crederá, ma
intanto è vero: una delle cagioni, che piú hanno contribuito a rovesciar
la nostra repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province
delle persone che riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gl'insorgenti
aveano tutti questi vantaggi.
XLV
CARDINAL RUFFO
Ruffo intanto
trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito seguendo la corte, era
ritornato quasiché solo nella Calabria; ma le terre nelle quali si era fermato
erano appunto le terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli diede qualche
seguace: a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan condannati nelle
isole della Sicilia, ai quali fu promesso il perdono; tutt'i scellerati
banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa l'impunitá. A Ruffo si
unirono il preside della provincia, Winspeare, e l'uditore Fiore. L'impunitá,
la rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso(58); tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò
con picciole operazioni, piú per tentare gli animi e le cose che per invadere.
Ma, vinte una volta le forze repubblicane perché divise e mal dirette, superata
Monteleone, attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria
ulteriore, e, passando quindi alla citeriore, attaccò e prese Cosenza,
sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima degli errori
del governo, perché disgustò il basso popolo coll'ordine di doversi
pagare anche gli arretrati delle imposizioni dovute al re, perché vi costituí
comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo scellerato ed
attaccato all'antico governo. Quando Ruffo era giá vicino a Cosenza, De Chiara
era alla testa di sette in ottomila patrioti, risoluti di vincere o di morire.
Ruffo aveva appena diecimila uomini. Quando queste truppe furono a vista, De
Chiara ordinò la ritirata; intanto ad un segno concertato scoppiò
la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i repubblicani si trovarono tra due
fuochi; ma, ciò non ostante, riguadagnano la cittá e si difendono tre
giorni. Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma, quando
il soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si ridussero a dover fare
prodigi di valore nella difesa di Rossano. Ma Rossano, rimasta sola, cadde
anch'essa: cadde Paola, una delle piú belle cittá di Calabria, incendiata dal
barbaro vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare. La
fama del successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di tutte le
Calabrie fino a Matera, dove incontrò il còrso De Cesare, di cui
parlammo nel paragrafo decimosesto(59).
Il disegno di
Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava un ostacolo a questo
disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa
piú ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non
avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri delle
loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mitraglia; ma
finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacché gli
abitanti ricusarono sempre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue
vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro giá da tutte le
parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un
esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la
cittá fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato né al sesso né all'etá.
Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali,
in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tuttavia: -
Viva la repubblica! - Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri
intrisi di sangue.
Dopo la caduta di
Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro,
Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa
comune. La stessa mancanza di provvisioni di guerra, che avea fatta perdere
Altamura, li costrinse a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore,
conservarono tanto di quell'ascendente che il valore dá sul numero, che fecero
una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro
persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi
di simili esempi di valore.
Intanto Micheroux
fece nell'Adriatico uno sbarco di russi, che occuparono Foggia. L'occupazione,
sia caso, sia arte, avvenne ne' giorni in cui la fiera richiamava colá gli
abitanti di tutte le altre province del Regno; e cosí la nuova dell'invasione,
sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche prima
delle armi.
Chi non sarebbesi
rivoltato allora contro il governo repubblicano, dopo i funesti esempi di
coloro che eran rimasti vittima del suo partito, vedendo dappertutto il nemico
vincitore e niuna difesa rimaner a sperarsi dagli amici? Si era giá nel caso
che i repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser
gl'insorgenti. Eppure l'amore per la repubblica era cosí grande, che faceva
ancora amare il governo, e tutt'i repubblicani morirono con lui.
Un poco di truppa
francese e patriotica che era in Campobasso fu costretta ad abbandonarla. Si
perdette anche il contado di Molise. Non si era pensato a guadagnar le
posizioni di Monteforte, Benevento, Cerreto ed Isernia, onde impedire le
comunicazioni di queste insorgenze tra loro. Ribollí l'insorgenza di Nola,
comunicando con quella di Puglia; e Napoli fu quasi che assediata.
XLVI
MINISTRO DELLA GUERRA
Si era esposto
mille volte al ministro della guerra tutto il pericolo che si correva per le
insorgenze troppo trascurate; ma egli credeva ed avea fatto credere al governo
non esser ciò altro che voci di allarmisti. Si giunse a promulgare una
legge severissima contro i medesimi; ma la legge dovea farsi perché gli
allarmisti non ingannassero il popolo, e non giá perché il governo fosse
ingannato dagli adulatori.
Il governo era su
questo oggetto molto mal servito da' suoi agenti tanto interni che esterni,
poiché per lo piú eransi affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano
che l'entusiasmo; ed essi piú del pericolo temevano la fatica di doverlo
prevedere.
I popoli non erano
creduti. Si chiesero de' soccorsi al governo per frenare l'insorgenza scoppiata
nel Cilento. Si proponeva al ministro che s'inviassero i francesi. - I francesi
- si rispondeva - non sono buoni a frenare l'insorgenza; - e si diceva il vero(60). - Vi anderanno dunque i patrioti? - I patrioti faranno
peggio. - Ma intanto il pessimo di tutt'i partiti fu quello di non prenderne
alcuno; ed il piú funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse
potuto giovare a distruggere l'insorgenza.
Il ministro della
guerra diceva sempre al governo che egli si occupava a formare un piano, che
avrebbe riparato a tutto. Prima parte però di ogni piano avrebbe dovuto
esser quella di far presto.
Si disse al
ministro che avesse occupata Ariano, e non curò di farlo; se gli disse
che avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva
che il nemico non fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò
se stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in Puglia,
non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli avea spediti
abbigliati alla russa. Gl'insorgenti erano giá alla Torre, lo stesso Ruffo co'
suoi calabresi era in Nola, Micheroux co' russi era al Cardinale, Aversa era
insorta ed aveva rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro
della guerra, a cui tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser altro
che pochi briganti, i quali non avrebbero ardito di attaccar la capitale. Quale
stranezza! Una centrale immensa, aperta da tutt'i lati, il di cui popolo vi
è nemico, a cui dopo un giorno si toglie l'acqua e dopo due giorni il
pane!...
XLVII
DISFATTA DI MARIGLIANO
Ma chi potea
smuovere il ministro della guerra dall'idea di difendere la repubblica nella
centrale? Egli volle anche difenderla in un modo tutto suo. Non impiegò
se non picciolissime forze, le quali, se prima sarebbero state bastanti ad
impedire che l'insorgenza nascesse, non erano poi sufficienti a combatterla.
Egli avea fatto
credere al governo ed alla nazione che potea disporre di ottomila uomini di
truppe di linea; ma questa colonna, colla quale si avrebbe potuto formare un
campo per difendere Napoli, non si vide mai intera. Molti credettero che si
avrebbe potuto riunire gran numero di patrioti, se si dichiarasse la patria in
pericolo; ma, sia timore, sia soverchia confidenza, questo linguaggio franco
non si volle mai adottare dal governo, e solo si ridusse ad ordinare che ad un
tiro designato di cannone tutti della milizia nazionale dovessero condursi ai
loro posti, e gli altri del popolo ritirarsi nelle loro case, né uscirne, sotto
pena della vita, prima del nuovo segno. Misura piú allarmante di qualunque
dichiarazione di pericolo, poiché, non dichiarandolo, lasciava libero il capo
alla fantasia alterata d'immaginarlo piú grande di quello che era; misura che
non dovea usarsi se non negli estremi casi e che, essendosi usata
imprudentemente la prima volta, quando bisogno non vi era, fece sí che si fosse
usata quasi che inutilmente, quando poi vi fu bisogno(61).
Intanto le infinitesimali colonne spedite da Manthoné
furono ad una ad una distrutte. Quella comandata da Spanò fu battuta a
Monteforte; l'altra, comandata da Belpulsi, che dovea esser per lo meno di
mille e duecento uomini, vanguardia di un corpo piú numeroso, e che poi si
trovò essere in tutto di duecentocinquanta, fu costretta a retrocedere
da Marigliano, ove non potea piú reggere in faccia a tutta la forza di Ruffo.
La sola colonna di Schipani resse nella Torre dell'Annunziata, perché era
composta di numero maggiore, perché non poteva esser circondata se prima non si
guadagnava Marigliano e perché finalmente era sotto la protezione delle barche
cannoniere, le quali allontanavano l'inimico dalla strada che va lungo il mare.
La nostra marina continuò a ben meritare della patria e, finché vi
rimase il minimo legno, tenne sempre lontani gl'inglesi. E chi mai
demeritò della patria, all'infuori di coloro che alla patria non
appartenevano?
Ma finalmente
Ruffo, padrone di Nola e di Marigliano, si avanzò da quella via verso
Portici, tagliando cosí la ritirata alla colonna di Schipani e togliendole ogni
comunicazione con Napoli. Tra Portici e Napoli vi era il picciol forte di
Vigliena, difeso da pochi patrioti; e, ad onta delle forze infinitamente superiori
di Ruffo, sostennero oltre ogni credere il forte: quando furono ridotti alla
necessitá di cederlo, risolverono di farlo saltar per aria. L'autore di questa
ardita risoluzione fu Martelli.
Non minor valore
dimostrò la colonna di Schipani: si aprí per sei miglia la strada in
mezzo ai nemici, prese de' cannoni, giunse a Portici. Le nuove che si aveano di
Napoli, la quale si credeva giá presa, indussero alcuni vili a gridar «viva il
re» e costrinsero gli altri a rendersi prigionieri di guerra.
XLVIII
CAPITOLAZIONE
Ma Napoli non era
presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte infelice nel dí 13 giugno al
ponte della Maddalena, e furono costretti a ritirarsi nei castelli. Il governo
si era giá ritirato nel Castello nuovo. Il solo castello del Carmine, il quale
altro non è che una batteria di mare e che per la via di terra non si
può difendere, era caduto nelle mani degl'insorgenti.
E quale castello
di Napoli, all'infuori di Sant'Elmo si può difendere? Il partito
migliore sarebbe stato quello di abbandonar la cittá, e, fatta una colonna di
patrioti, che allora forse per la necessitá sarebbe divenuta numerosissima,
guadagnar Capua per la via di Aversa o di Pozzuoli. Questo era stato il
progetto di Girardon, che comandava in Capua le poche forze francesi rimaste
nel territorio della repubblica napolitana. Se questo progetto fosse stato
eseguito, Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro di stragi,
d'incendi, di scelleraggini e di crudeltá; ed ora non piangeremmo la perdita di
tanti cittadini.
Durante l'assedio
dei castelli il popolo napolitano, unito agl'insorgenti, commise delle barbarie
che fan fremere: incrudelí financo contro le donne, alzò nelle pubbliche
piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degl'infelici, parte gittati vivi
e parte moribondi. Tutte queste scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi
di Ruffo ed alla presenza degl'inglesi.
I due castelli
Nuovo e dell'Uovo, difesi dai patrioti, fecero intanto per qualche giorno la
piú vigorosa resistenza. Se i patrioti avessero avuto un poco piú di forza,
avrebbero potuto riguadagnar Napoli: ma essi non erano che appena cinquecento
uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava in Sant'Elmo, non permise piú
ai suoi francesi di unirsi ai nostri.
Si sono tanto
ammirati i trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero
anche dippiú: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una
volta far riconoscere la repubblica napolitana.
La capitolazione
fu sottoscritta nella fine di giugno. Si promise l'amnistia; si diede a
ciascuno la libertá di partire o di restare, come piú gli piaceva; e tanto a
coloro che partissero quanto a coloro che restassero si promise la sicurezza
delle persone e degli averi. La capitolazione fu sottoscritta da Ruffo, vicario
generale del re di Napoli; da Micheroux, generale delle sue armi;
dall'ammiraglio russo; dal comandante delle forze turche; da Food, comandante i
legni inglesi che si trovarono all'azione; e da Mégeant, il quale, in nome
della repubblica francese, entrò garante della napolitana. Furon dati
per parte di Ruffo degli ostaggi per la sicurezza dell'esecuzione del trattato,
e questi furon consegnati a Mégeant(62).
Per eseguire il
trattato fu stabilito un armistizio, ma nell'armistizio si preparò il
tradimento. Appena che la regina seppe l'occupazione di Napoli, inviò da
Palermo milady Hamilton a raggiungere Nelson. - Voglio prima perdere - avea
detto la regina ad Hamilton - tutti e due i regni che avvilirmi a capitolar coi
ribelli. - Che Hamilton si prestasse a servir la regina, era cosa non insolita;
essa finalmente non disponeva che dell'onor suo: ma che Nelson, il quale avea
trovata la capitolazione giá sottoscritta, prostituisse ad Hamilton l'onor suo,
l'onor delle sue armi, l'onor della sua nazione; questo è ciò che
il mondo non aspettava, e che il governo e la nazione inglese non dovea soffrire(63).
Nelson col resto
della sua flotta giunse nella rada di Napoli durante l'armistizio, e
dichiarò che un trattato fatto senza di lui, che era ammiraglio in capo,
non dovea esser valido; quasi che l'onorato e valoroso Food, che era persona
legittima a ricevere i castelli, non lo fosse poi ad osservare le condizioni
della resa; quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte
ed illegittima per l'altra, e, non volendo mantener le promesse fatte alla
repubblica napolitana, non fosse necessario restituire ai suoi agenti tutto
ciò che per tali promesse aveano giá consegnato. Acton diceva e faceva
dire al re, che era a bordo dei vascelli inglesi, circondato però dalle
creature di Carolina: che «un re non capitola mai coi suoi ribelli»(64). Egli infatti era padrone di non capitolare; ma si poteva
domandare se mai, quando un re abbia capitolato, debba o no mantenere la sua
parola!
Intanto i patrioti
per Napoli erano arrestati; la partenza di quei che eransi imbarcati si
differiva; Mégeant che avea gli ostaggi nelle sue mani, Mégeant che avea ancora
forza per resistere, che poteva e doveva essere il garante della capitolazione,
Mégeant dormiva. Nel tempo dell'armistizio permise che i nemici erigessero le
batterie sotto il suo forte. Fu attaccato, fu battuto, non fece una sortita,
appena sparò un cannone, fu vinto, si rese.
Segnò una
capitolazione vergognosissima al nome francese. Quando dovea rimaner solo per
ricoprirsi di obbrobrio, perché non capitolò insieme cogli altri forti?
Restituí gli ostaggi, ad onta che vedesse i patrioti non ancora partiti e ad
onta che resistesse ancora Capua, ove gli ostaggi si poteano conservare.
Promise di consegnare i patrioti che erano in Sant'Elmo, e li consegnò.
Fu visto scorrere tra le file dei suoi soldati, e riconoscere ed indicare
qualche infelice che si era nascosto alle ricerche, travestito tra quei bravi
francesi, coi quali avea sparso il suo sangue. Neanche Matera, antico ufficiale
francese, fu risparmiato, ad onta dell'onor nazionale che dovea salvarlo e del
diritto di tutte le genti. Fu imbarcato colla sua truppa, partí solo colla sua
truppa, e non domandò neanche dei napolitani.
E vi è
taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che Mégeant sia un traditore? E
quest'uomo intanto ancora «disonora, portandolo, l'uniforme francese», che
è l'uniforme della gloria e dell'onore?(65). Bravi ed onorati militari destinati a giudicarlo, avvertite:
il giudizio, che voi pronuncerete sopra di lui, sará il giudizio che cinque
milioni di uomini pronunzieranno sopra di voi!
XLIX
PERSECUZIONE DE' REPUBBLICANI
Dopo la partenza
di Mégeant, si spiegò tutto l'orrore del destino che minacciava i
repubblicani.
Fu eretta una
delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma giá da due mesi un certo
Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne
umana in Procida, ove condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli
abiti repubblicani ai munícipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo
della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella
perfetta indifferenza. - Egli è un furbo - diceva Speziale: - è
bene che muoia. - Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa.
Quest'ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per
ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu
osservato che dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a
Speziale che mai si dovea fare di lui: - Scannatelo - egli rispose.
Ma la Giunta che
si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini
dabbene, che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser
giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se
prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non
rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i
popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa cosí
la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le
rivoluzioni.
Allora fu che
Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza
del re. Ma qual clemenza, qual generositá sperare da chi non osservava un
trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di
mostrarsi superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che
debbono per legge: cosí sotto l'apparenza del capriccio nascondono la viltá, e
promettono piú di quel che debbono per non osservare quello che hanno promesso.
Rendasi giustizia a Paolo primo. Egli conobbe quando importasse che i popoli
prestassero fede alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu sempre per
la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della flotta inglese
compresero quanta infamia si sarebbe rovesciata sulla loro nazione, giacché il
loro ammiraglio era il vero, l'unico autore di tanta violazione del diritto
delle genti; e si misero in aperta sedizione.
La Giunta intanto
rammentava al governo le leggi della giustizia; ed invitata a formare una
classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante ve ne
erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser posti in libertá,
come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che di un
fatto avvenuto dopo l'arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non potea
chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea
imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli, dopo
che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè
quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il di
lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan
distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a
delitto, perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi
avean professata democrazia, perché democrazia professavano i vincitori: se i
vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguite
idee diverse. L'opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non
era volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto ubbidire al
vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo
dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni e le antiche
idee, è lo stesso che voler fomentare l'insubordinazione, e
coll'insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra
i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la
distruzione di tutta l'Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva,
perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se
invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i
nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla
caparbietá l'affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe
punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l'antico
sovrano? La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria,
e non giá femminilmente dispettosa la disfatta.
I princípi della
Giunta eran quelli della ragione, e non giá della corte. In questa i partiti
eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta
una volta, ne volesse l'osservanza: difatti era inutile coprirsi di obbrobrio
per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva
lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina, che non avrebbe
voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non dispiaceva che si fosse
fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni, che furon date alla
Giunta, da persone degne di fede si assicura che furono scritte da Castelcicala.
In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro
i quali avean seguíta la repubblica: bastava che taluno avesse portata la
coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta, ammetteva che il re era
partito; ma, per averne una ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era
rimasto sempre presente in Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di
conquista, quando si trattava di distruggere tutt'i privilegi della Cittá e del
Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l'Europa «privilegi», mentre
dovrebbero esser diritti, perché fondati sulle promesse dei re; ma, quando si
trattava di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai stato perduto(66). Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a morte
egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla.
Nelson, unico
autore dell'infrazione del trattato, quell'istesso Nelson che avea condotto il
re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai,
partendo o ritornando, ebbe mai la minima cura dell'onor di lui: giacché,
partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di
affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva.
Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi
con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai
lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi
sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean
sofferti! Tutti gl'infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati
a lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l'ultimo
respiro. Non s'intese mai da lui una sola parola di pietá. Era quello il tempo,
il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in
mezzo ai legni pieni d'infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per
la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell'acqua, per gl'insetti,
sotto la piú ardente canicola, nell'ardente clima di Napoli. Egli avea
degl'infelici ai ferri finanche nel suo legno.
Con tali princípi,
la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto, delle noiose cure che
la Giunta si prendeva per la salute dell'umanitá. Gli uomini dabbene, che la
componevano, furono allontanati: non rimase altro che Fiore, il quale da
piccioli princípi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro,
donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era ritornato in
Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò
Guidobaldi, seco menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori,
che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre
siciliani: Damiani, Sambuti ed, il piú scellerato di tutti, Speziale.
La prima
operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un carnefice. Al numero
immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la
mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il
carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio,
sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per
dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato.
La storia ci offre
mille esempi di regni perduti e poscia colle armi ricuperati: in nessuno
però si ritrovano eguali esempi di tale stolta ferocia. Silla fece
morire centomila romani non per altro che per la sua volontá: Augusto depose la
sua ferocia colle armi.
Un altro re di
Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò egualmente coi suoi
sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li fece tutti assassinare. Ma,
mentre commetteva il piú orribile tradimento di cui ci parli la storia,
mostrò almeno di rispettare l'apparenza della santitá dei trattati.
Mostrarono almeno gli alleati, che li avean garantiti, di reclamarne
l'esecuzione. Il nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa
scelleraggine le calamitá, che poco dopo oppressero e finalmente distrussero la
famiglia aragonese in Napoli.
La vera gloria di
un vincitore è quella di esser clemente: il voler distruggere i suoi
nemici per la sola ragione di esser piú forte è facile, e nulla ha con
sé che il piú vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida e forte
è simile ad un fulmine che sbalordisce; ma porta seco qualche carattere
di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il gustare a sorsi tutto il calice della
vendetta, il prolungarla al di lá del pericolo e dell'ira del momento, che sola
può renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer la ferocia
del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò prostituendo
le formole piú sacre della giustizia; ecco ciò che non è né utile
né giusto né nobile. La storia ha dato un luogo distinto tra i tiranni ai geni
cupi e lentamente crudeli di Tiberio e di Filippo secondo, ai fatti dei quali
la posteritá aggiungerá gli orrori commessi in Napoli.
Si conobbe
finalmente la legge di maestá, che dovea esser di norma alla Giunta nei suoi
giudizi; legge terribile, emanata dopo il fatto e da cui neanche gl'innocenti
si potevan salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti
raccogliere dalle voci piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze
pronunziate dalla Giunta, poiché è da sapersi che questa legge, colla
quale si sono giudicati quasi trentamila individui, non è stata
pubblicata giammai.
«Sono dichiarati
rei di lesa maestá in primo capo (e perciò degni di morte) tutti coloro
che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per «primari
impieghi» s'intendevano le cariche della rappresentanza nazionale, del
direttorio esecutivo, dei generali, dell'alta commissione militare, del
tribunale rivoluzionario(67). Egualmente erano rei
«tutti coloro che fossero cospiratori prima della venuta dei francesi». Sotto
questo nome andavano compresi tutti coloro che aveano occupato Sant'Elmo e
tutti coloro che erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta;
ad onta che la cessione di Capua fosse stata fatta da autoritá legittima; ad
onta che tra i privilegi della cittá di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse
quello che, giunto il nemico a Capua, la cittá di Napoli potesse, senza taccia
di ribellione, prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il
nemico; ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le
province del Regno a settentrione della linea di demarcazione, un numero
infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che intanto aveano la
cittadinanza in quelle province, fossero divenuti legittimamente cittadini
francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa di Capua, in Napoli fosse
cessata ogni autoritá legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale,
nessuna forza pubblica; tutto era nell'anarchia ed a ciascuno nell'anarchia era
permesso di salvar come meglio poteva la propria vita.
Intanto, ad onta
di tutto ciò, furon dichiarati rei «tutti coloro che nelle due anarchie
avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i
quali non avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra la
licenza dell'anarchia li assassinasse.
«Tutti coloro che
avevano continuato a battersi in faccia alle armi del re, comandate dal
cardinal Ruffo, o a vista del re, che stava a bordo degl'inglesi». Questo
articolo avrebbe portate alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali
eranvi tutti coloro che si trovavan rifugiati a Sant'Elmo, i quali, neanche
volendo, poteano piú separarsi dai francesi.
«Tutti coloro che
avessero assistito all'innalzamento dell'albero nella piazza dello Spirito
santo (perché in quell'occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o
alla festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese
agl'insorgenti».
«Tutti coloro che
durante il tempo della repubblica aveano, o predicando o scrivendo, offeso il
re o l'augusta sua famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di morte
chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato
mosso da leggerezza, nol curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione,
gli siam grati; e, se da malizia, lo perdoniamo, a meno che dalle parole non ne
possa nascere un attentato piú grave». Una legge posteriore a questa
condannò a morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto in
un'epoca, nella quale forse nessuno poteva render ragione di ciò che
avea fatto. Si vide allora che non bastava non aver offese le leggi per esser
sicuro.
«Finalmente tutti
coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietá verso la
sedicente caduta repubblica». Quest'ultimo comprendeva tutti.
Per questo
articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea
altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher,
quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione
né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non poté
reggere all'idea del massacro, dell'incendio e della ruina totale di Napoli,
che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da
ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita;
e fu spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad
onta della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi
avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non
ha sofferta infatti la pena della morte colui che per ventiquattr'ore l'ha
veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni
consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata
senza delitto!
«Coloro che erano
ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata
la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un'adunanza patriotica
è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un
governo democratico, è un'azione indifferente), pure Sua Maestá, per la
sua innata clemenza, li condanna all'esilio in vita colla perdita de' beni, se
abbiano prestato il giuramento; quelli che non l'hanno prestato, sono
condannati a quindici anni di esilio».
«Finalmente
coloro, i quali avessero avute cariche subalterne e non avessero altri delitti,
saranno riserbati all'indulto che Sua Maestá concederá». Questo indulto fu
immaginato per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle
carceri coloro che non aveano alcun delitto. - Mio figlio è innocente -
diceva una sventurata madre a Speziale. - Ebbene - rispondeva costui, - se
è innocente, avrá l'onore di uscir l'ultimo. - Il secondo oggetto era
quello di condannare almeno nell'opinione pubblica, con un perdono, anche
coloro che per la loro innocenza doveano essere assoluti.
Non avea forse
ragione la regina, quando, se è vero ciò che si dice, si opponeva
a questa prostituzione di giudizi?
Io vorrei che si
esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro che dirigevan la Giunta, non
colle massime della ragione e della giustizia naturale, non colle massime della
stessa giustizia civile, poiché neanche con queste si troverebbe ragion di condannar
come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad una forza
legittima e superiore, alla quale era stato costretto a cedere lo stesso re; ma
colle massime dell'interesse del re. Io non dirò che la giustizia
è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l'interesse del re
è la norma della giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti
(io dico «molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano dal
credere tutt'i membri della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha
altra colpa che quella di non esser stato abbastanza forte contro i tempi); chi
potrebbe, dico, assolver molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma
anche tradito il re?
Quando Silla fece
scannare seimila sanniti, disse al senato, allarmato da' gemiti e dalle grida
di quest'infelici: - Ponete mente agli affari: son pochi sediziosetti che si
correggono per ordine mio. - Silla era piú grande e forse anche men crudele.
Se coloro che
consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio della saviezza e gli
avessero fatto scrivere un editto, in cui si fosse ai popoli parlato cosí:
«Coloro i quali han seguíto il partito della repubblica, ora che questo partito
è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione per la loro
salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore, avrebbero compreso che
questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato la causa di
tutt'i loro traviamenti. Obblio tutto. Possano cessare tutt'i partiti e
riunirsi a me per il vero bene della patria! Possa questa generositá far loro
comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le tante
vicende e le tante sventure sofferte renderli piú saggi! Se, ad onta di tutto
ciò, vi è taluno a cui il nuovo ordine di cose non piaccia,
siagli permesso partire. Ma, o che parta o che resti, i suoi beni, la sua
persona, la sua famiglia saranno intatte, ed in me non troverá che un padre»;
in quel momento,... momento forsi di disinganno... un proclama di questa natura
avrebbe riuniti tutti gli animi. La nazione non sarebbe stata distrutta da una
guerra civile;... l'amor del popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la
forza del Regno...
Se oggi il regno
di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii intestini, quasi sul punto
di sciogliersi, perché il re non dice ai suoi ministri e suoi consiglieri: -
Voi siete stati tanti traditori! voi colpate alla mia rovina! -?
L'esecuzione di
questa legge spaventò finanche gli stessi carnefici della Giunta. Essa
avrebbe fatto certamente rivoltare il popolo. La stessa crudeltá rese
indispensabile la moderazione. Vennero da Palermo le note de' proscritti; ma
rimase la legge, affinché si potesse loro apporre un delitto.
Le sentenze erano
fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte dovea morire, ancorché
il preteso reo fosse minore.
Tutti li mezzi si
adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere
l'innocenza. Il nome del re dispensò a tutte le formole del processo,
quasi che si potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia.
Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni non si
ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si sbigottivano, talora anche
si arrestavano; il tempo intanto scorreva, e l'infelice rimaneva senza difesa.
Non confronto tra i testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di
scritture si ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillitá di anni
potevan salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte giovinetti di
sedici anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici. Non solo tutt'i mezzi
della difesa erano tolti, ma erano spenti tutt'i sensi di umanitá.
Se la Giunta, per
invincibile evidenza d'innocenza, è stata talora quasi costretta ad
assolvere suo malgrado un infelice, si è veduto da Palermo rimproverarsi
di un tal atto di giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o
assoluto o condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si
rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato Muscari per
la repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender
la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse
ritrovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che
questa causa si trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la
patria, uno dei migliori magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del re,
fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di condannare
Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime, e da Palermo fu
condannato ad un esilio perpetuo. Michelangiolo Novi era stato condannato
all'esilio; la sentenza era stata giá eseguita, si era giá imbarcato, il legno
era per far vela: giunge un ordine da Palermo, e fu condannato al carcere
perpetuo nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá giudicato, era stato
giá condannato a quindici anni di esilio; di giá prendeva commiato dalla moglie
e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama, e lo conduce... dove?... alla
morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le
grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome del
re.
Intanto Speziale,
a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan perdute,
nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d'inganni per servire alla
vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola Fiani era
destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si ricorda
della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva
tra' ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non giá nel luogo
delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono le
lagrime; lo abbraccia: - Povero amico! a quale stato ti veggo io ridotto! Io
sono stanco di piú fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al
tuo giudice; sei coll'amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica
ciò che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti
saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la Giunta... - Fiani
presta fede alle parole dell'amicizia; Fiani confessa... - Bisogna scriverlo;
servirá per memoria... - Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo
due giorni va alla morte.
Speziale
interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo nome e la carica che
nella repubblica avea ottenuto, lo fa sedere. Gli fa sperare la clemenza del
re; gli dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma che una carica
eminente era segno di «patriotismo», e perciò delitto in coloro che
erano stati, senza merito e senza nome, elevati per solo favore di fazione
rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo sarebbe stato onorato da
lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. -
Tu conosci - gli dice - profondamente tali interessi. - La corte ha molte memorie
mie - risponde Conforti. - Sí, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non
saresti in grado di occupartici di nuovo? - E, cosí dicendo, gli fa quasi
sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro del
rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe ottenuto l'intento, lo mandò a morire(68).
Qual mostro era
mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha conosciuto altro piacere
che quello di insultar gl'infelici. Si dilettava passar quasi ogni giorno per
le prigioni a tormentare, opprimere colla sua presenza coloro che non poteva
uccidere ancora. Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o
d'infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasiché
accatastati, questo rapporto era per lui l'annunzio di «un incomodo di meno».
Un soldato insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato
ad una finestra della sua carcere a respirare un'aria meno infetta: gli altri
della Giunta volean chieder conto di questo fatto: - Che fate voi? - disse
Speziale; - costui non ha fatto altro che toglierci l'incomodo di fare una
sentenza. - La moglie di Baffa gli raccomanda il suo marito... - Vostro marito
non morrá - gli diceva Speziale; - siate di buon animo: egli non avrá che
l'esilio. - Ma quando? - Al piú presto. - Intanto scorsero molti giorni: non si
avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna da Speziale, il quale si
scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del
marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea
date. - Ma perché insultare questa povera infelice? - gli disse allora uno che
era presente al discorso... Baffa era stato giá condannato a morte; ma la sentenza
s'ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti,
le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un freddo
sorriso le dice: - Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di suo
marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine, vai
cercando un altro marito. Addio. -
Sotto la direzione
di un tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la maniera con
cui sieno stati tenuti i carcerati. Quante volte quegli infelici hanno desiderata
ed invocata la morte!... Ma la mia mente è stanca di piú occuparsi de'
mali dell'umanitá... Il mio cuore giá freme!
L
TALUNI PATRIOTI
Dopo la caduta
della repubblica, Napoli non presentò che l'immagine dello squallore.
Tutto ciò che vi era di buono, di grande, d'industrioso, fu distrutto;
ed appena pochi avanzi de' suoi uomini illustri si possono contare, scampati
quasi per miracolo dal naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria,
sull'immensa superficie della terra.
Si può
valutare a piú di ottanta milioni di ducati la perdita che la nazione ha fatto
in industrie; quasi altrettanto ha perduto in mobili, in argenti, in beni
confiscati: il prodotto di quattro secoli è stato distrutto in un
momento. Si son veduti de' monopolisti inglesi mercanteggiare i nostri capi
d'opera di pittura, che il saccheggio avea fatti passare dagli antichi
proprietari nelle mani del popolaccio, il quale non ne conosceva né il merito
né il prezzo.
La rovina della
parte attiva della nazione ha strascinata seco la rovina della nazione intera:
tutto il popolo restò senza sussistenza, perché estinti furono o
dispersi coloro che ne mantenevano o che ne animavano l'industria; e gli stessi
controrivoluzionari piangono ora la perdita di coloro che essi stessi hanno
spinti a morte.
Aggiungete a
questi danni la perdita di tutt'i princípi, la corruzione di ogni costume,
funeste ed inevitabili conseguenze delle vicende di una rivoluzione; una corte
che da oggi in avanti riguarda la nazione come estranea e crede ritrovar nella
di lei miseria e nella di lei ignoranza la sicurezza sua; e l'uomo che pensa
vedrá con dolore una gran nazione respinta nel suo corso politico allo stato
infelice in cui era due secoli fa.
Salviamo da tanta
rovina taluni esempi di virtú: la memoria di coloro che abbiamo perduti
è l'unico bene che ci resta, è l'unico bene che possiamo
trasmettere alla posteritá. Vivono ancora le grandi anime di coloro che
Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i loro nomi,
trasmessi da noi a quella posteritá che essi tanto amavano, servir di sprone
all'emulazione di quella virtú che era l'unico oggetto de' loro voti.
Noi abbiamo
sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche grandissimi esempi di virtú. La
giusta posteritá obblierá gli errori che, come uomini, han potuto commettere
coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però ricercherá invano
un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall'uomo, ed ecco
ciò che forma la loro gloria.
In faccia alla
morte nessuno ha dato un segno di viltá. Tutti l'han guardata con quell'istessa
fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino. Manthoné,
interrogato da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non
rispose altro che: - Ho capitolato. - Ad ogni interrogazione non dava altra
risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: - Se non basta la
capitolazione, arrossirei di ogni altra. -
Cirillo,
interrogato qual fosse la sua professione in tempo del re, rispose: - Medico. -
Nella repubblica? - Rappresentante del popolo. - Ma in faccia a me che sei? -
riprese Speziale, che pensava cosí avvilirlo(69). - In faccia a te? Un eroe. -
Quando fu
annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la chitarra;
continuò a suonarla ed a cantare finché venne l'ora di avviarsi al suo
destino. Uscendo dalle carceri, disse al custode: - Ti raccomando i miei
compagni: essi sono uomini, e tu potresti esser infelice un giorno al pari di
loro. -
Carlomagno,
montato giá sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: -
Popolo stupido! tu godi adesso della mia morte. Verrá un giorno, e tu mi
piangerai: il mio sangue giá si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la
fortuna di non esser vivi, sul capo de' vostri figli. -
Granalè
dall'istesso luogo guardò la folla spettatrice: - Vi ci riconosco -
disse - molti miei amici: vendicatemi! -
Nicola Palomba era
giá sotto al patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di
rivelare de' complici. - Vile schiavo! - risponde Palomba - io non ho saputo
comprar mai la vita coll'infamia. -
- Io ti
manderò a morte - diceva Speziale a Velasco. - Tu?... Io morirò,
ma tu non mi ci manderai. - Cosí dicendo, misura coll'occhio l'altezza di una
finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e
lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito
per aver perduto la vittima sua.
Ma, se vi vuole
del coraggio per darsi la morte, non se ne richiede uno minore per non darsela,
quando si è certo di averla da altri. A Baffa(70), giá certo del suo destino, fu offerto dell'oppio. Egli lo
ricusò; e, morendo, dimostrò che non l'avea ricusato per viltá.
Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l'uomo sia posto in questo mondo
come un soldato in fazione e che sia delitto l'abbandonar la vita, non
altrimenti che lo sarebbe l'abbandonare il posto.
Questo sangue
freddo, tanto superiore allo stesso coraggio, giunse all'estremo nella persona
di Grimaldi. Era giá condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna
piú di un mese tra' ferri; finalmente l'ora fatale arriva: di notte, una
compagnia di russi ed un'altra di soldati napolitani lo trasportano dalla
custodia al luogo dell'esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle
guardie; si difende da tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insiegue
invano per quasi un miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto, se, invece di
fuggire, non avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui
trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo
tradí e lo scoperse ad un soldato, che l'inseguiva da lontano. Fu raggiunto.
Disarmò due soldati, si difese, né lo potettero prendere se non quando,
per tante ferite, era giá caduto semivivo.
Quante perdite
dovrá piangere, e per lungo tempo, la nostra nazione! Io vorrei poter rendere
ai nomi di tutti quell'onore che meritano, e spargere sul loro cenere quei
fiori che forse chi sa se essi avranno giammai! Ma chi potrebbe rammentarli
tutti?
Io non posso
render a tutti quella giustizia che meritano, tra perché non ho potuto sapere
tutto ciò ch'è avvenuto ne' diversi luoghi del Regno, tra perché
nella mia emigrazione non ho avuta altra guida che la mia memoria, la quale non
ha potuto tutto ritenere. Mi sia perciò permesso trattenermi un momento
sopra taluni piú noti.
Caracciolo Francesco. Era, senza
contraddizione, uno de' primi geni che avesse l'Europa. La nazione lo stimava,
il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla
regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di
mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni giorno
posposto... Caracciolo era uno di quei pochi che al piú gran genio riuniva la
piú pura virtú. Chi piú di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei?
Diceva che la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere una gran
marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo; avea in
grandissima stima i nostri marinari. Egli morí vittima dell'antica gelosia di
Thurn e della viltá di Nelson... Quando gli fu annunziata la morte, egli passeggiava
sul cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era
dirimpetto, e proseguí tranquillamente il suo ragionamento. Intanto un marinaro
avea avuto l'ordine di preparargli il capestro: la pietá glielo impediva...
Egli piangeva sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante
volte militato. - Sbrigati - gli disse Caracciolo: - è ben grazioso che,
mentre io debbo morire, tu debbi piangere. - Si vide Caracciolo sospeso come un
infame all'antenna della fregata «Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare.
Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora
nel vascello dell'ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo
apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re... Fu raccolto dai marinari,
che tanto l'amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa di Santa
Lucia, che era prossima alla sua abitazione; offici tanto piú pomposi quantoché
senza fasto veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono accompagnati
dalle lagrime sincere di tutt'i poveri abitanti di quel quartiere, che lo
riguardavano come il loro amico ed il loro padre.
Simile a
Caracciolo era Ettore Carafa.
Quest'eroe, unitamente al suo bravo aiutante Ginevra, sostenne Pescara anche
dopo le capitolazioni di Capua, Gaeta e Sant'Elmo. Caduto nelle mani di
Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte
con intrepidezza e disinvoltura.
Cirillo Domenico. Era uno de' primi tra
i medici di una cittá ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la
medicina formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni
formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare abbastanza la
sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un nome superiore all'invidia,
amico della tranquillitá e della pace, senza veruna ambizione, Cirillo è
uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una
rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il piú sublime
elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era seco lui nelle
carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a' quali avea piú volte prestato i
soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia
che gli sarebbe costata una viltá.
Conforti Francesco. Si è giá
detto il tratto di perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga
che Conforti in tutto il corso della sua vita avea reso de' servigi importanti
alla corte; avea difesi i diritti della sovranitá contro le pretensioni di
Roma; avea fissati i nuovi princípi per i beni ecclesiastici, princípi che
riportavano la ricchezza nello Stato e la felicitá nella nazione; molte utili
riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati
piú di cinquanta milioni di ducati in fondi... Conforti era il Giannone, era il
Sarpi della nostra etá; ma avea fatto piú di essi, istruendo dalla cattedra e
formando, per cosí dire, una gioventú nuova. Pochi sono i napolitani che sanno
leggere, che non lo abbiano avuto a maestro. E quest'uomo, senza verun delitto,
si mandò a morire! Egli riuniva eminentemente tutto ciò che
formava l'uomo di lettere e l'uomo di Stato.
Pagano Francesco Mario. Il suo nome
vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le
lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale
oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non
rinvenite che l'orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiugnere
i voli di Vico.
Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet viris concurrere virgo».
Ma essa si spinse nella rivoluzione, come
Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa
donna avea meritata l'approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia
formava una piccola parte delle tante cognizioni che l'adornavano. Nell'epoca della
repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il piú puro ed
il piú ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa
affrontò la morte con un'indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di
avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: - «Forsan
haec olim meminisse iuvabit». -
Russo Vincenzio. È impossibile
spinger piú avanti di quello che egli lo spinse l'amore della patria e della
virtú. La sua opera de' Pensieri politici è una delle piú forti
che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe
resa anche migliore, rendendola piú moderata. La sua eloquenza popolare era
sublime, straordinaria... Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla
forza delle sue parole... Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle
memorie sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al luogo
del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di
sentimento, il quale ben mostrava che la morte potea distruggerlo, non mai
però il suo aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso
raccontarmi il suo discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella
forte impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella
specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le irresistibili
impressioni degli spiriti troppo sublimi... Oh! se la tua ombra si aggira
ancora intorno a coloro che ti furono cari, rimira me, fin dalla piú tenera
nostra adolescenza tuo amico, che piango, non te (a te che servirebbe il
pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei morto.
Federici Francesco. Era maresciallo in
tempo del re; fu generale in tempo della repubblica. Il ministro di guerra lo
rese inutile, mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea
reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l'arte della guerra; ma
insieme coll'arte della guerra egli sapeva mille altre cose, che per lo piú
ignorano coloro che sanno l'arte della guerra. Il suo coraggio nel punto della
morte fu sorprendente.
Scotti Marcello. È difficile
immaginare un cuore piú evangelico. Egli era l'autore del Catechismo nautico,
opera destinata all'istruzione de' marinai dell'isola di Procida, sua patria,
che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla «chinea» scrisse,
sebben senza suo nome, l'opera della Monarchia papale, di cui non si era
veduta l'eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morí
vittima dell'invidia di taluni suoi compatrioti.
Parlando di
Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile
prelato Troise, e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è cara,
perché è la memoria della virtú. Verrá, spero, quel giorno in cui, nel
luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la posteritá, piú giusta, vi
potrá dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore
e, piú felice, vi potrá elevare un monumento piú durevole della debole mia voce(71).
LI
CONCLUSIONE
Il re, strascinato
da' falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I suoi ministri o non
amavano o non curavano la nazione: dovea perciò perdersi, e si perdette.
I repubblicani, colle piú pure intenzioni, col piú caldo amor della patria, non
mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e caddero colla
patria, vittime di quell'ordine di cose, a cui tentarono di resistere, ma a cui
nulla piú si poteva fare che cedere.
Una rivoluzione
ritardata o respinta è un male gravissimo, da cui l'umanitá non si
libera se non quando le sue idee tornano di nuovo al livello coi governi suoi;
e quindi i governi diventano piú umani, perché piú sicuri; l'umanitá piú
libera, perché piú tranquilla; piú industriosa e piú felice, perché non deve
consumar le sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano de' secoli
e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano
non passa ad un nuovo ordine di beni se non a traverso degli estremi de' mali.
Quale sará il
destino di Napoli, dell'Italia, dell'Europa? Io non lo so: una notte profonda
circonda e ricopre tutto di un'ombra impenetrabile. Sembra che il destino non
sia ancora propizio per la libertá italiana; ma sembra dall'altra parte che
egli, col nuovo miglior ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa
che gli stessi re travaglino a preparar quell'opera che con infelice successo
hanno tentata i repubblicani. Forse la corte di Napoli, spingendo le cose
all'estremo, per desiderio smoderato di conservare il Regno, lo perderá di
nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche la
seconda rivoluzione, la quale sará piú felice, perché desiderata e conseguíta
dalla nazione intera per suo bisogno e non per solo altrui dono.
Queste cose io
scriveva sul cader del 1799, e gli avvenimenti posteriori le hanno confermate.
La corte di Napoli ha prodotto un nuovo cangiamento politico; e questo, diretto
da altre massime, può produrre nel Regno quella felicitá che si
sperò invano dal primo.
Dal 1800 fino al
1806 abbiamo veduto la corte di Napoli seguir sempre quelle stesse massime
dalle quali tanti mali eran nati; la Francia, al contrario, cangiar quegli
ordini, da' quali, siccome da ordini irregolarissimi, nessun bene e nessuna
durevolezza di bene poteva sperarsi; e si può dire che alla nuova
felicitá, che il gran Napoleone ora ci ha data, abbiano egualmente contribuito
e l'ostinazione della corte di Napoli ed il cangiamento avvenuto nella Francia.
Per effetto della
prima gli stessi errori han confermata ed accresciuta la debolezza del Regno:
nell'interno lo stesso languor di amministrazione, la stessa negligenza nella
milizia, la stessa inconseguenza ne' piani, diffidenza tra il governo e la
nazione, animositá, spirito di partito piú che ragione; nell'esterno la stessa
debolezza, la stessa audacia nelle speranze e timiditá nelle imprese, la stessa
malafede: non si è saputo né evitar la guerra né condurla; si è
suscitata, e si è rimasto perdente.
Per effetto del
secondo, nella Francia gli ordini pubblici sono divenuti piú regolari: i
diversi poteri piú concordi tra loro: il massimo tra essi piú stabile, piú
sicuro; perciò meno intento a vincer gli altri che a dirigerli tutti al
bene della patria: le idee si sono messe al livello con quelle di tutte le altre
nazioni dell'Europa; perciò minore esagerazione nelle promesse,
animositá minore ne' partiti, facilitá maggiore dopo la vittoria di stabilire
presso gli altri popoli un nuovo ordine di cose: il potere piú concentrato;
onde meno disordine e piú concerto nelle operazioni de' comandanti militari,
abuso minore nell'esercizio de' poteri inferiori, maggiore prudenza, perché
comune a tutti e dipendente dalla stessa natura comune degli ordini e non dalla
natura particolare degl'individui: al sistema di democratizzazione sostituito
quello di federazione, il quale assicura la pace, che è sempre per i
popoli il maggiore de' beni; e che finalmente ha procurati all'Italia tutti
que' vantaggi che non poteva avere col sistema precedente, secondo il quale si voleva
amica e si temeva rivale; onde, non formando mai in essa uno Stato forte ed
indipendente, andava a distruggersi interamente: e finalmente, oltre tutti
questi beni, il dono grandissimo di un re che tutta l'Europa venerava per la
sua mente e pel suo cuore.
Me felice, se la
lettura di questo libro potrá convincere un solo de' miei lettori che lo
spirito di partito nel cittadino è un delitto, nel governo una
stoltezza; che la sorte degli Stati dipende da leggi certe, immutabili, eterne,
e che queste leggi impongono ai cittadini l'amor della patria, ai governi la
giustizia e l'attivitá nell'amministrazione interna, il valore, la prudenza, la
fede nell'esterna; che alla felicitá de' popoli sono piú necessari gli ordini
che gli uomini; e che noi, dopo replicate vicende, siamo giunti ad avere al
tempo istesso ordini buoni ed un ottimo re; e che la memoria del passato deve
esser per ogni uomo, che non odia la patria e se stesso, il piú forte stimolo
per amare il presente.
(1) Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende facilmente di quale ruina si vuol parlare.
(2) Tutto ciò era stato previsto da Burke. Egli solo tra gl'inglesi avea predetto che la guerra dovea per necessitá riuscir funesta, che l'interesse dell'Inghilterra era quello di far cessare la rivoluzione colla mediazione, ecc. ecc. ecc.
(3) Il lungo favore, che costui ha goduto, potrebbe forse far credere a taluno ch'egli avesse qualche talento, almeno di corte… Non ne ha nessuno… non ha altro che la scelleraggine. Sarebbe mille volte caduto, se avesse avuto a fronte un altro scellerato.
(4) Un esempio. Il re una volta nominò Michele Arditi segretario del magistrato del commercio; lo nominò di moto proprio e senza la precedente proposta di Acton…
(5) …Omnia
graecae,
cum
sit nobis turpe magis nescire latine.
È un gran carattere di ogni nazione corrotta, dal tempo di Giovenale fin oggi.
(6) Nella stessa Francia la rivoluzione è stata preceduta da cinquant'anni di anglomania. Coloro che hanno pratica della letteratura francese lo potranno facilmente avvertire. Da cinquant'anni in qua i frances'istessi troppo disprezzavano le cose loro.
(7) Giuliano a quel miserabile pazzo, il quale quasi pubblicamente ambiva l'impero, inviò in dono una veste di porpora: Tiberio lo avrebbe fatto impiccare.
(8) Invece di tanti luoghi comuni satirici, che ne' primi giorni della repubblica si son pubblicati contro il governo del re, non vi è stato un solo che abbia pensato a pubblicare un estratto fedele de' processi della Giunta di Stato! Tanto è piú facile declamare che raccontar fatti! Ma le declamazioni passano, ed i fatti arrivano alla posteritá.
(9) Molti hanno predetto da queste osservazioni la rivoluzione francese. Tra questi si conta anche Rousseau. Piú particolarizzata è la predizione di Mercier, nel suo Anno 2240, opera che una volta fu attribuita a Rousseau, e di cui Rousseau arrossiva quasi di cosa non degna di lui. Sembra che Mercier fosse stato a parte del segreto rivoluzionario, come lo era l'autore della Rimostranza da leggersi nel Consiglio privato di S. M., il quale volle della prossima rivoluzione avvertirne il re, come Mercier ne avea avvertito l'Europa. Tra quelli che hanno antiveduta la rivoluzione francese prima degli altri e per le cause interne che nascevano dallo stato della Francia, è il nostro Genovesi. Egli vide dove tendevano e le opinioni degli scrittori ed il corto delle cose: la sua predizione è degna di Vico... Non saprei se il re di Prussia avesse anche egli preveduta la rivoluzione: è certo però che ne previde il corso e la smania di voler tutto riformare filosoficamente. I riformatori metafisici, che ei chiama «enciclopedisti», sono da lui molto maltrattati. Vedi il suo Dialogo tra Eugenio, Malbourough e Liechtenstein.
(10) Quando io considero tutto ciò che i gabinetti de' re in questi tempi avrebbero potuto e non hanno saputo fare, desidero un libro che avesse per titolo: Storia degli errori di coloro che sono stati grandi senza esser grandi uomini. Con questa idea è stato scritto uno de' libri piú sensati dell'ultimo decennio del secolo: Tutti han torto; ma molto ancora rimarrebbe ad aggiugnere alla serie delle sue osservazioni.
(11) Montesquieu dice che la Spagna conservò l'Italia arricchendola. Troppo inesatti doveano essere gli autori che Montesquieu consultò sulla nostra storia.
(12) Questa veritá non seppe conoscer Necker, allorché fece il paragone tra le finanze di Francia e quelle d'Inghilterra. Gl'inglesi pagavano piú de' francesi, ma la loro nazione accresceva le sue ricchezze, e la Francia, per le sue circostanze politiche, non potea crescer dippiú. I tributi erano utili in Inghilterra, dannosi in Francia. La Francia avea compito il suo corso politico, era nella sua decrepitezza; donde, se non sorge un nuovo ordine di cose, non resta che un passo alla morte. Necker infatti non seppe trovar rimedio al male. L'esperienza mostrò la fallacia delle sue teorie. «Se l'Inghilterra regge, molto piú facilmente - diceva egli - potrá regger la Francia». Intanto la Francia fallí e l'Inghilterra regge ancora.
(13) Chi potrebbe determinare il grado di felicitá e di potenza, a cui da un governo savio potrebbe esser condotta la nazione napolitana? Io penso che, senza esser visionario, si possa creder possibile anche piú di quello che si auguravano Broggia, Genovesi e Palmieri. Ma questa nazione ha la disgrazia di essere stata vilipesa, perché non conosciuta: i spagnuoli la conoscevano e la temevano; solo Federico secondo imperatore la conoscevo e l'amava. Ma i bei giorni di Federico non furono per noi che un lampo, cui successe una notte piú tempestosa.
(14) Forse il piú efficace metodo contro i barbareschi era quello che presero gli inglesi sotto Carlo secondo, cioè di costruire tutt'i legni mercantili in modo da poter essere armati di dieci cannoni, ed affidare cosí la difesa della proprietá agli stessi proprietari. I nostri proprietari di legni mercantili mille volte ne han chiesto il permesso: mille volte è stato loro negato. Essi aveano del coraggio e della buona volontá, ma Acton voleva che non ne avessero.
(15) Era il generalissimo di Carlo terzo e lo fu fino alla morte, anche sotto il regno di Ferdinando. Godeva molta autoritá e sapeva usarne; finché visse, si oppose ad Acton.
(16) Il soldato prima aveva la speranza di esser premiato, poiché i bassi ufficiali avevano diritto a una promozione regolare. Acton, invece di obbligar tutti ad esser bassi ufficiali, tolse a costoro ogni speranza di promozione. Il sergente doveva morir sergente, e fu obbligato a servire venti anni. Questo era lo stesso che non voler piú né sergenti onorati né soldati valorosi.
(17) Vedi BONNET, Art de rendre les révolutions utiles, libro pieno di buon senso.
(18) Ecco un esempio della dissipazione che vi era nell'amministrazione di tali beni. I gesuiti in Sicilia, quando furono espulsi, possedeano fondi, i quali nel primo anno dell'amministrazione regia diedero centocinquantamila ducati di rendita, nel secondo anno ne diedero settantamila, nel terzo quarantamila: ed a questa ragione furono calcolati allorché si vendettero. Ab uno disce omnes.
(19) Il re aveva eretto un'ottima manifattura di seterie in Caserta; ma le seterie si travagliavano solo in Caserta né si sarebbero mai travagliate altrove. Chi mai poteva reggere alla concorrenza d'un re? Il sovrano dev'essere il protettore de' manifatturieri e non il rivale.
(20) Solamente la nazione rise un poco, leggendo, nell'editto con cui si toglieva l'argento ai privati, che «la mente del re era quella di rimettere in vigore le antiche leggi suntuarie, tanto utili allo Stato». Chi fu mai il ministro che indusse il re a prestar il sacro suo nome a menzogna tanto evidente? Ed in qual altro caso mai è permesso ad un re di esporre ai suoi popoli i propri bisogni, se non quando questi bisogni sono bisogni dello Stato? Perché non si disse: «La patria è in pericolo; i bisogni della patria sono miei e vostri: salviamo la patria»? Quale idea dovea aver dell'onore e qual generositá dovea aver nell'animo il ministro che poté consigliare una simile versipelleria? Or il senso di onore e la nobiltá e generositá delle idee de' ministri non sono forse la piú esatta misura della vera forza di uno Stato?
(21) Si avverta una volta per sempre che, in questa storia, «governo», «corte», ed anche «re» e «regina», sono tutti sinonimi di «Acton». Pochi sono i casi ne' quali convien distinguerli.
(22) Il giubilo per questa vittoria si spinse fino all'indecenza: non si seppe nemmeno serbar le apparenze della neutralitá. La flotta inglese era tata chiamata dalla corte di Napoli; dalla medesima corte, sebbene sotto nome privato, era stata approvvisionata.
(23) Mack, per salvar la sua fama, calunnia la nazione. Bonamy sembra piú inclinato a render giustizia a Mack che alla nazione, perché non conosceva questa ed era suo interesse, dopo la vittoria, lodare il generale vinto. Pare che Pignatelli, conoscendo egualmente e la nazione ed il generale, renda a ciascuno quella giustizia che si compete.
(24) «Cittá» si chiamava in Napoli un'unione di sette persone, delle quali sei erano nobili ed una popolare. I nobili erano eletti dai cinque «sedili», tra' quali era divisa tutta la nobiltá del Regno (il sedile di Montagna ne eliggeva due, i quali però aveano un voto solo), e questi sedili erano succeduti alle «fratrie», in una cittá che fino all'undecimo secolo era stata greca. Il popolare avrebbe dovuto esser eletto dal popolo, che avea un sedile solo, ad onta che fosse mille volte piú numeroso de' nobili; ma era eletto dal re. Questa cittá rappresentava nel tempo stesso e la municipalitá di Napoli ed il Regno intero. Quando nel governo viceregnale furono aboliti i parlamenti nazionali, la Cittá rimase depositaria de' privilegi della nazione. Ma sotto Ferdinando quarto la Cittá era rimasta un nome del tutto vano.
(25) Villaggio otto miglia lontano da Napoli.
(26) È noto che allora depose la divisa di generale del re di Napoli e vestí quella di generale austriaco; si presentò a Championnet e pretendea, qual generale austriaco, non dover esser fatto prigioniero di guerra. Championnet non ascoltò questo miserabile sofisma. Ma da questo fatto ben traspariva l'uomo, il quale dieci mesi di poi avrebbe disfidato a duello Moliterni e poi l'avrebbe egli stesso impedito. Il disfidare non è, a creder mio, un'azione di valore: forse sará un'azione d'imprudenza: ma il disfidare e poi ricusar di battersi è un'azione che riunisce l'imprudenza alla viltá. Traspariva l'uomo, che, prigioniero e libero sulla sua parola di onore, sarebbe fuggito.
(27) Per questa espressione non s'intende indicare se non due classi di persone: la prima, di coloro che volevano piú un cangiamento che un buon cangiamento; la seconda, di coloro che credevano doversi imitare in tutto la Francia, anche in quello che non poteva e non doveva, per le differenze che vi erano tra le due nazioni, imitarsi. La prima era la classe de' furbi, la seconda de' fantastici. Non s'intende al certo parlare di quel ragionevole attaccamento che anche gli uomini dabbene doveano provare per quella nazione trionfatrice, da cui allora dipendeva la felicitá della patria. Ma il nobile attaccamento di costoro onorava ambedue le nazioni, mentre il vile o sciocco partegianismo de' primi era indegno e della nazione liberata e della liberatrice.
(28) «Patriota». Che è mai un «patriota»? Questo nome dovrebbe indicare un uomo che ama la patria. Nel decennio scorso esso era sinonimo di «repubblicano»; ben inteso però che non tutti i repubblicani eran patrioti.
(29) Il fondo delle maniere e de' costumi di un popolo in
origine è sempre barbaro, ma la moltiplicazione degli uomini, il tempo,
le cure de' sapienti possono egualmente raddolcire ogni costume, incivilire
ogni maniera. Il dialetto pugliese, per esempio, che fu il primo a scriversi in
Italia, era atto, al pari del toscano, a divenir colto e gentile: se non lo
è divenuto, è colpa de' nostri, che lo hanno abbandonato per
seguire il toscano. Noi ammiriamo le maniere degli esteri, senza riflettere che
questa ammirazione appunto ha recato pregiudizio alle nostre: esse sarebbero
state eguali, e forse superiori a quelle degli esteri, se le avremmo coltivate.
Una nazione che si sviluppa da sé acquista una civiltá eguale in tutte le sue
parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione. Cosí in Atene la
femminuccia parlava colla stessa eleganza di Teofrasto ed il ciabattino
giudicava Demostene. Ammirando ed imitando le nazioni straniere, né si
coltivano tutti gli uomini che compongono un popolo, né si coltivano bene: non
tutti, perché non tutti possono vedere ed imitare gli esteri; non bene, perché
l'imitatore, per eterna legge della natura, resta sempre al disotto del suo
modello. La coltura straniera porta in una nazione divisioni e non uniformitá,
e quindi non si acquista che a spese della forza. Quali sono oggi le nazioni
preponderanti in Europa? Quelle che non solo non imitano, ma disprezzano le
altre. E noi volevamo far la repubblica indipendente incominciando dal
disprezzare la nostra nazione!
N. B. - A scanso di ogni equivoco, questa nota, poco piú poco meno, vale per tutta l'Italia.
(30) Robespierre operò sulla Francia come lo stimolo opera sull'eccitabilitá umana, nel sistema di Brown.
(31) Questo punto oggi è provato.
(32) Estesissima caccia che il re teneva nella provincia di Salerno: intorno alla medesima erano le popolazioni nominate nel testo.
(33) Questo linguaggio può star bene in bocca di un conquistatore che voglia nobilitare le sue conquiste, di un retore che parli ad un'adunanza di oziosi, di un filosofo che parli agli altri filosofi; potrá esser anche il linguaggio dello storico che trasmetta alla posteritá i risultati degli avvenimenti: ma non deve esser mai il linguaggio di un uomo che parli al popolo e voglia muoverlo. Noi abbiamo perduta ogni idea dell'eloquenza popolare: la nostra non è che l'eloquenza delle scuole; e questa è la ragione per cui piú non si veggono tra noi ripetuti quegli effetti che appena crediamo negli antichi. Dopo essersi or da pedanti or da eruditi or da filosofi analizzato il meccanismo del discorso, calcolata la sua forza, fissati i princípi per dirigerlo onde produca il massimo effetto, mi par che ancora resti a farsi un libro in cui si calcoli la forza dell'eloquenza non sull'individuo ma sulle nazioni, e si vegga il rapporto che lo stato della nazione può aver sull'eloquenza, e la natura di questa sullo stato di quella. Si conoscerebbe allora qual differenza vi sia tra i pomposi proclami che dall'Ottantanove inondano l'Europa, e la forza segreta ma irresistibile. Pericle tuonava, fulminava, sconvolgeva la Grecia intera, ed i figli d'Isacco e d'Ismaele si dividevano l'impero della terra e de' secoli.
(34) Una legge, dice Macchiavelli, che guarda molto indietro, è sempre tirannica.
(35) Nella Francia vi fu ne' primi giorni dalla rivoluzione una legge feudale, ma essa non riformò che i disordini piú orribili, i quali non vi erano piú tra noi. La feudalitá in Francia era piú gravosa che in Napoli. Noi dovevamo incominciare precisamente dal punto in cui eransi arrestate le leggi francesi. Or questa seconda riforma era stata fatta in Francia dalla guerra civile.
(36) Rousseau, domandato dall'autore de' Studi della natura perché mai, con tanto amore per l'umanitá e tanto disgusto per gli uomini, non avea imitato Penn e non si era ritirato con pochi saggi a fondare una colonia in America, rispose: - Qual differenza! Si credeva nel secolo di Penn, e non si crede piú nel mio! -
(37) Queste idee erano giá popolari in Napoli. La disputa sulla chinea avea istruiti tutti sulla legittimitá di un concilio nazionale. Si era veduto un gran prelato declamare contro l'abuso delle indulgenze e del celibato, e ciò senza scandalo.
(38) Lo stesso cammino tenne il cristianesimo, che in origine non fu che filosofia. Cominciò dal predicar la tolleranza: essa non era venuta per i soli figli di Abramo, ma per tutte le genti; ma in seguito, divenuta dominante, neanche i figli di Abramo furono da lei risparmiati.
(39) Rendiamo giustizia ai migliori tra' nostri. Essi intendevano l'importanza delle opinioni religiose in un popolo.
(40) Prendo il nome di Faipoult come il nome dell'esecutore, e forsi non volontario, degli ordini del Direttorio francese. Faipoult era un ottimo uomo, che amava e che stimava la nazione nostra: ma egli, come commissario del suo governo, non era altro che esecutore di ordini non suoi. Il governo che oggi ha la Francia gli avrebbe dati al certo ordini diversi.
(41) Quando i francesi aggregarono alla nazione i beni dell'ordine di Malta, dimostrarono che essi non erano dell'ordine, ma della nazione. Se i beni dell'ordine di Malta in Francia eran della nazione francese, i beni dello stesso ordine in Napoli doveano esser dalla nazione napolitana.
(42) L'opera della divisione dei dipartimenti in Francia è ben eseguita; ma i francesi, che hanno voluto dirigere la stessa operazione presso le altre nazioni, hanno ben mostrato che essi non aveano né le cognizioni né il buon senso di coloro che l'aveano diretta in Francia. Quale stranezza infatti era quella di dividere il territorio ligure in venti dipartimenti? Nella Cisalpina si fecero sulle prime gli stessi errori; gli stessi nel territorio romano.
(43) Sciarpa, uno de' piú grandi e piú funesti controrivoluzionari, lo divenne per calcolo. Egli era uno degli uffiziali subalterni delle milizie del tribunale di Salerno: col nuovo ordine di cose, avrebbe potuto passare nella gendarmeria. Non fu ammesso. Sciarpa non fu né vezzeggiato né spento.
(44) Proni era, mi si dice, un armigero del marchese del Vasto: i suoi delitti gli avean fatta meritare la condanna alla galera, donde era fuggito. Nell'anarchia si mise alla testa di altri assassini e divenne, in séguito, generale. Altri dicono che fosse stato prete.
(45) Caracciolo fu solennemente congedato dal re: il re istesso gli permise di ritornare in Napoli.
(46) L'oggetto del fraternizzare col popolo era quello di riunirsi a lui; e, per riunirsi, conveniva distinguersi il meno che sia possibile, cioè far quanto meno si potesse di novitá. Cerca egualmente a distinguersi tanto chi s'innalza troppo quanto chi troppo si abbassa, ed il popolo si mette in guardia egualmente e del primo e del secondo. Orléans non mostrò mai piú chiaramente di voler innalzarsi al trono se non quando si abbassò all'eguaglianza.
(47) Questo paragone tra la repubblica romana e la fiorentina si è fatto da due uomini sommi d'Italia. Macchiavelli è del nostro parere, e dice che il desiderio che in Roma i plebei ebbero di imitare i patrizi perfezionò le istituzioni di Roma. Campanella sostiene, al contrario, che la libertá si perdette in Roma e conservò in Firenze, sol perché quivi il popolo forzò i nobili a discendere dalla loro educazione. Ecco appunto i due aspetti sotto i quali la democrazia or da uno or da un altro si è guardata. Ma Roma ebbe, e per lungo tempo, costumi, costituzione, milizia e potenza; Firenze non ebbe che tumulti, rivoluzioni, licenza, debolezza. Macchiavelli ha per sé i fatti (che son contrari a Campanella) ed il giudizio degli uomini sensati, tra' quali non vi è alcuno che non avrebbe amato di vivere nella repubblica romana in preferenza della fiorentina.
(48)
Mentre io era giunto a questo punto, mi è
pervenuta una memoria del cittadino Baudin sulle societá popolari. Mi sia
permesso di recarne un tratto, che descrive gli effetti che le societá
produssero in Francia e che conferma quello che sempre ho detto, cioè
che gli errori erano nei principi.
«Il desiderio di aggregarsi a queste nuove societá era
fomentato da molte cause, che le resero quasi universali. Esse aprivano una
carriera all'ambizione e davano un mezzo all'emulazione: facevano sperare ai
deboli un appoggio, che per altro era meglio cercare solo nella protezione
delle leggi: davano ai patrioti un punto di riunione, che la conformitá
degl'interessi e dei princípi dovea far loro desiderare e che contribuir dovea
al successo della rivoluzione: ma nel tempo istesso favorivano quel pregiudizio
troppo comune tra noi ed in qualche modo nazionale, che fa credere a moltissimi
la teoria del governo essere una scienza infusa, di cui si possa parlare senza
studio e senza esperienza...
«Noi tutti abbiamo nei trastulli della nostra fanciullezza imitate le cerimonie del culto e le evoluzioni militari; ma non mai è avvenuto che il vescovo ed il suo capitolo siensi veduti in ginocchio avanti al piccolo pontefice, abbigliato di una cappa e di una mitria di carta dorata, prestargli il giuramento di fedeltá e rassegnargli la cura della diocesi e la collazione dei benefici. E pure a questo segno si sono avvilite le autoritá piú eminenti verso le societá popolari!
«Ben tosto, le societá rinunciando alla teoria delle quistioni politiche, sulle quali i loro membri ben poco potevan dire di tollerabile, le sale divennero un'arena di delatori, una leva potente che taluni destri ambiziosi facevan servire alla loro elevazione, allettando intanto gli animi della cieca moltitudine colle due lusinghe, dalle quali si lascian sorprendere ben spesso anche i saggi: la speranza e l'adulazione. Ogni club fu lusingato dai suoi oratori coll'idea di esser sovrano; ed il club bene spesso si condusse a seconda di questa dottrina, dando ordini, distribuendo grazie, esigendo rispetto e sommissione...».
(49) Amerei che in ogni repubblica ci fosse un circolo d'istruzione sul modello di quella «repubblica giovanile» che era nell'antica repubblica di Berna. Quella istituzione mi sembra ammirabile per formar gli uomini di Stato. Non so se colla rivoluzione della Svizzera si sia conservata.
(50) Cosa ha ritratto la Francia dalle vendite dei suoi immensi beni nazionali? Quale orribile dissipazione ho visto io stesso! A quali mani la salute pubblica è stata affidata! Questa infelice risorsa, a cui un governo possa ridursi, è sempre inutile. Un governo deve vendere i fondi nazionali (perché non deve averne), ma deve venderli ne' tempi ne' quali non ha bisogno; allora, se non trova compratori, deve anche donarli.
(51) Questo è il trionfo de' nostri governanti. Sfido ogni altra nazione ad opporre un tratto di eguale moralitá ed economia! Il re con tredici province, in tempi tranquilli, coll'onnipotenza nelle mani, che non avrebbe mai potuto fare? E che ha fatto? Questo è il trionfo della nostra causa.
(52) Questo fenomeno, in Napoli sensibilissimo, avrebbe meritata attenzione maggiore per parte dei nostri economisti. Io lo ripeto da varie cagioni: 1. Dall'esser il grano una delle poche derrate che noi vendevamo agli esteri: l'olio per la stessa ragione era nelle stesse circostanze ed avea sofferte le stesse alterazioni ne' suoi prezzi. Una derrata che sia richiesta da maggior numero deve per necessitá crescere di prezzo; e, se mai presso una nazione avvien che essa formi tutto o grandissima parte del commercio estero, allora diviene una specie di moneta di conto ed accresce il suo valore, non solo per le richieste de' compratori, ma anche per le speculazioni de' venditori. Una moneta di conto è oggi in Sicilia il grano, e l'olio in Napoli, perché l'olio in Napoli occupa il primo luogo tra' generi che si estraggono, ed il grano il secondo. Questo fenomeno, non osservato da nessuno, meriterebbe di esserlo. 2. Il consumo che la nazione napolitana fa di paste. 3. Il monopolio che vi è nelle terre, ridotte in poche mani e desiderate da molti, dacché non vi è altro mezzo d'impiegare il proprio danaro né in rendite, che son poche, né in oggetti di manifatture e di commercio. Promovendo tali oggetti, son persuaso che le stesse avrebbero ribassato il loro prezzo, e che questo ribasso avrebbe potuto influire anche su quello del grano. 4. La male intesa agricoltura, la quale rende necessaria molta estensione di terreno, ecc. ecc.
(53) Fa meraviglia come i scrittori di economia pubblica non abbiano distinte due specie di carestia, una reale, l'altra apparente, la quale non manca però di produrre mali reali. Quella reale si potrebbe suddividere in mancanza di genere ed alterazione di prezzo. Tutt'i difetti dei regolamenti annonari sono nati dall'aver voluto riparare ad una carestia apparente come se fosse carestia reale, e da questo primo errore ne è nato il secondo, che si è atteso piú all'alterazione del prezzo che alla mancanza del genere: chi conosce la storia degli stabilimenti annonari di Napoli intende la veritá di ciò che io dico. Ma tali stabilimenti sono simili a quelli di tutte le altre parti di Europa: eran figli de' tempi e delle idee de' tempi: il nostro errore è di volerli seguire anche quando i tempi e le idee son cangiati.
(54) Palma ed altre terre.
(55) La piú chiara prova che abbia dato il primo console di amar sinceramente la libertá d'Italia è stata quella di aver concesso alla Cisalpina il corpo de' polacchi. Chi legge con attenzione questo paragrafo e tutta l'opera, vedrá come gli avvenimenti stessi giustificano il nuovo ordine di cose, desiderato tanto dalla giustizia e dall'umanitá.
(56) Se io dovessi parlare al governo francese per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta o non toccarla. Formandone un solo governo, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa piccola parte né potrebbe sperar pace dalle altre potenze né potrebbe difendersi da se sola, cosí o dovrebbe perire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra. Questa è la ragione per cui Luigi decimoprimo, ad onta della sua ambizione, allorché Genova si offerí a lui, le rispose che «si dasse al diavolo». Questa è la ragione per cui si è detto che gli stabilimenti in Italia non giovavano alla Francia: duecento anni di guerra distruttiva le ha costato il possesso del Milanese. Allora i sovrani di Francia non avean comprese due veritá, la prima delle quali è che l'Italia è piú utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia. Questa veritá si è compresa da qualche anno, sebbene il Direttorio si conduceva come se non l'avesse compresa ancora o non volesse comprenderla, e solo dal nuovo piú giusto ordine di cose si può sperare l'utile effetto di questa veritá. La seconda è che l'Italia non dev'esser divisa, ma riunita: e la riunione dell'Italia dipende dalla libertá di Napoli; paese che la Francia non potrá giammai conservare e che ha tante risorse in sé, che solo potrebbe disturbar tutta la tranquillitá italiana, quando non sia in mano di un governo umano ed amico della libertá. È l'esperienza di tutt'i secoli, la quale ci mostra che i conquistatori dell'Alta Italia han per lo piú rotto alle sponde del Garigliano; e la filosofia spiega la ragione di tali avvenimenti.
(57) Mammone Gaetano, prima molinaio, indi generale in capo dell'insorgenza di Sora, è un mostro orribile, di cui difficilmente si ritrova l'eguale. In due mesi di comando, in poca estensione di paese, ha fatto fucilar trecentocinquanta infelici; oltre del doppio forse uccisi dai suoi satelliti. Non si parla de' saccheggi, delle violenze, degl'incendi; non si parla delle carceri orribili nelle quali gittava gl'infelici che cadevano nelle sue mani, non de' nuovi generi di morte dalla sua crudeltá inventati. Ha rinnovate le invenzioni di Procuste, di Mezenzio... Il suo desiderio di sangue umano era tale, che si beveva tutto quello che usciva dagl'infelici che faceva scannare. Chi scrive lo ha veduto egli stesso beversi il sangue suo dopo essersi salassato, e cercar con aviditá quello degli altri salassati che erano con lui. Pranzava avendo a tavola qualche testa ancora grondante di sangue; beveva in un cranio... A questi mostri scriveva Ferdinando da Sicilia: «mio generale e mio amico».
(58) Quest'uomo ai creduli abitanti delle Calabrie si fece creder papa. Il cardinale Zurolo, arcivescovo di Napoli, ebbe il coraggio di anatemizzarlo.
(59) Le notizie dell'insurrezione della provincia di Lecce e delle operazioni dei còrsi mi sono state comunicate dal mio amico Giovanni Battista Gagliardo, il quale fu principal parte di tutto ciò che avvenne in Taranto. Le memorie, ch'egli ha scritte sopra gli accidenti della rivoluzione della sua patria, sono importanti. Io ho lette molte memorie simili. È degno di osservazione che in tutte le sollevazioni del Regno ci è stato sempre suono di campane ed una processione del santo protettore.
(60) Per le ragioni dette di sopra, cioè che contro gl'insorgenti poco vale l'armata, ma si richiedono le piccole forze e permanenti.
(61) La prima volta si radunarono moltissimi patrioti; tutta la guardia nazionale fu al suo posto. Furono tenuti a disagio una notte; e la mattina furon congedati senza che avessero ottenuto neanche un ringraziamento, senza poter neanche comprendere la cagione dell'allarme. La seconda volta la credettero o frivola o finta come la prima; e questo fece perdere molti bravi patrioti, i quali si ritrovarono rinchiusi nelle loro case, allorché avrebbero potuto esser ne' castelli a difenderli.
(62)
Ecco la capitolazione:
«Articolo
I. Il castel Nuovo ed il castel dell'Ovo saranno rimessi nelle mani del
comandante delle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie e di quelle dei suoi
alleati, il re d'Inghilterra, l'imperadore di tutte le Russie e la Porta
ottomana, con tutte le munizioni da guerra e da bocca, artiglieria ed effetti
di ogni specie, esistenti nei magazzeni, di cui si formerá inventario dai
commissari rispettivi dopo la firma della presente capitolazione.
«II. Le
truppe componenti le guarnigioni conserveranno i loro forti fino che i
bastimenti, di cui si parlerá qui appresso, destinati a trasportar gl'individui
che vorranno andare a Tolone, saranno pronti a far vela.
«III. Le guarnigioni
usciranno cogli onori di guerra, armi, bagagli, tamburo battente, bandiere
spiegate, miccia accesa, e ciascuna con due pezzi di artiglieria; esse
deporranno le armi sul lido.
«IV. Le persone e le
proprietá mobili ed immobili di tutti gl'individui componenti le due
guarnigioni saranno rispettate e garantite.
«V. Tutti
gli suddetti individui potranno scegliere di imbarcarsi sopra i bastimenti
parlamentari, che saranno loro presentati per condursi a Tolone, o di restare
in Napoli, senza essere inquietati né essi né le loro famiglie.
«VI. Le
condizioni contenute nella presente capitolazione son comuni a tutte le persone
dei due sessi rinchiuse nei forti.
«VII. Le stesse
condizioni avran luogo riguardo a tutt'i prigionieri fatti sulle truppe
repubblicane dalle truppe di S. M. il re delle Due Sicilie e quelle dei suoi
alleati nei diversi combattimenti che hanno avuto luogo prima del blocco dei
forti.
«VIII. I
signori arcivescovo di Salerno, Micheroux, Dillon ed il vescovo di Avellino
saranno rimessi al comandante del forte Sant'Elmo, ove resteranno in ostaggio
fino a che sia assicurato l'arrivo a Tolone degl'individui che vi si mandano.
«IX.
Tutti gli altri ostaggi e prigionieri di Stato, rinchiusi nei due forti,
saranno rimessi in libertá subito dopo la firma della presente capitolazione.
«X. Tutti gli articoli della presente capitolazione non potranno eseguirsi se non dopo che saranno stati interamente approvati dal comandante del forte Sant'Elmo».
(63) Un segretario di Nelson scrivea ad un suo amico a Maone: «Noi commettiamo le piú orride scelleraggini per rimettere sul trono il piú stupido dei re». Io ho del ribrezzo in riferir queste parole, che pure ho letto io stesso. Oh! come gl'inglesi sanno compatire le loro vittime!
(64) Espressione di un dispaccio.
(65) Espressione del primo console in circostanze quasi simili.
(66) Esistono ancora ambidue gli editti: col primo il Regno si dichiara regno di conquista; col secondo si dichiara che il re non lo avea mai perduto.
(67) Subitoché in Napoli non vi era stata ribellione, non vi era piú differenza tra coloro che aveano occupate cariche e coloro che avean solo riconosciuta la repubblica. Tutti doveano essere o egualmente rei o egualmente innocenti.
(68) Questo fatto sembra tanto incredibile, che mi sarei astenuto dal narrarlo, se non mi fosse stato contestato da moltissimi degni di ogni fede. Ma, quando anche questi mentissero, gran Dio! quanto odio pubblico si è dovuto meritare, prima di mover gli uomini ad immaginare, a spacciare, a credere tali orrori!
(69) È da osservarsi che Speziale non risparmiava nessuno de' piú vili epiteti del trivio e del bordello.
(70) Baffa era uno de' piú eruditi uomini d'Italia, era uno de' primi per l'erudizione greca.
(71) Per riunire sotto un colpo di occhio tutto il male che in Napoli ha prodotta la controrivoluzione, basterá fare il seguente calcolo: Ettore Carafa, Giovanni Riari, Giuliano Colonna, Serra, Torella, Caracciolo, Ferdinando e Mario Pignatelli di Strongoli, Pignatelli Vaglio, Pignatelli Marsico son della prima nobiltá d'Italia; e venti altre famiglie nobili al pari di queste sono state quasiché distrutte. Tra le altre non vi è chi non pianga una perdita. La rivoluzione conta trenta in quaranta vescovi, altri venti in trenta magistrati rispettabili per il loro grado e piú per il loro merito, molti avvocati di primo ordine ed infiniti uomini di lettere. A quelli che abbiamo nominati si possono aggiugnere, tra' morti, Falconieri, Logoteta, Albanese, De Filippis, Fiorentino, Ciaia, Bagni, Neri... La professione medica pare che sia stata presa di mira dalla persecuzione controrivoluzionaria. Sará un giorno oggetto di ammirazione per la posteritá l'ardore che i nostri medici aveano sviluppato per la buona causa. I giovani medici del grande ospedale degl'Incurabili formavano il «battaglione sacro» della nostra repubblica. Io non parlo che della capitale. Eguale e forse anche piú feroce è stata la distruzione che gli emissari della Giunta, sotto nome di «visitatori», han fatta nelle provincie. Si possono calcolare a quattromila coloro che sono morti per furore degl'insorgenti, come l'infelice Serao vescovo di Potenza, uomo rispettabile per la sua dottrina e per lo suo costume; il giovine Spinelli di San Giorgio... Tutti gli altri erano egualmente i migliori della nazione. Dopo ciò, si calcoli il danno. La nazione potrá rimpiazzar gli uomini, ma non la coltura. Ed è forse esagerata l'espressione di esser essa retroceduta di due secoli?