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PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro
Novelli … ictus
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Claudia Cieri Via
Mitologia e allegoria nella cultura artistica
del Rinascimento
Da http://www.italica.rai.it/rinascimento/saggi/mitologia_allegoria/index.htm
INDICE
La
tradizione mitologica e le periodizzazioni del Rinascimento
La
mitologia dall’età tardo-antica al Rinascimento. Rinascenze e
sopravvivenze
Il
mito nella tradizione testuale e figurativa
Le
favole antiche fra cultura cortese e umanistica
Mitologia
e Archeologia: da Padova a Roma
Il
mito a Venezia: pittura e produzione a stampa fra Quattrocento e Cinquecento
Il
mito nella cultura delle corti italiane
Cultura
e mitologia nelle piccole corti italiane
La
cultura mitologica alla corte medicea fra Quattrocento e Cinquecento
Arte
e mito nel territorio romano
Origine
e sviluppi della decorazione a soggetto profano fra ‘400 e ‘500
Il
mito del Tempo alla corte dei Medici
La
corte dei Gonzaga a Mantova
All’origine del mondo e all’origine
delle cose «tutte le forme dell’esistenza si presentano inizialmente come
avvolte nell’atmosfera del pensiero mitico e della fantasia mitica» - scriveva
Ernst Cassirer nell’introduzione al secondo volume della Filosofia delle forme
simboliche, dedicato al pensiero mitico - «Le prime fasi del pensiero
filosofico mantengono ancora per molto tempo una posizione intermedia [...] fra
la concezione mitica e la concezione propriamente filosofica del problema
dell’origine delle cose [...] nel concetto di arké si esprime in modo chiaro e
significativo questo duplice rapporto. Esso segna il confine fra mito e
filosofia [...] esso rappresenta il punto di transizione e di indifferenza fra
il concetto mitico di enunciamento e il concetto di principio.»
Fabula è la traduzione latina
del greco mythos; ma se la favola è evasione dalla realtà nel
fantastico il mito dà un’interpretazione assoluta della realtà,
è espressione simbolica di verità di ordine naturale o morale.
Ovidio nell'esordio del suo poema mitologico, le Metamorfosi, enuncia il
rapporto fra dimensione mitica e dimensione storica, fra favola, storia e
conoscenza: «L'estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. O dei
[...] seguite con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi
ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi» (Metamorfosi, I,
1-4).
La tradizione mitologica nel
Rinascimento s’inserisce nell’ambito dei movimenti di sopravvivenza e di
rinascita dell’antichità classica.
L’ampio dibattito sulla concezione del Rinascimento,
definito nel 1933 dall’Oxford Dictionary: «la grande rinascita delle arti e
delle lettere sorto sotto l’influenza dei modelli classici, che ebbe inizio in
Italia nel XIV secolo e continuò nel XV, XVI», sull’idea basilare di
Petrarca, fu particolarmente acceso fra gli anni Cinquanta e Sessanta vedendo
schierati i partiti della sopravvivenza e continuità e quelli della
rottura e della successiva innovazione, eredi rispettivamente delle posizioni
culturali di Johann Huizinga e di Jacob Burckhardt. L’ampio saggio di Erwin
Panofsky, già oggetto di due conferenze tenute ad Uppsala nel 1952 poi
pubblicate nel 1960 nel volume Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale
edito in italiano da Feltrinelli nel 1971 apre la discussione sul problema
delle periodizzazioni e sul ruolo dell’antichità nel cosiddetto
Rinascimento. Panofsky e gli studiosi della sua generazione s’interrogavano
soprattutto sulla determinazione cronologica del Rinascimento prima della
cosiddetta età rinascimentale nel XV secolo, alla luce del dibattito che
contrapponeva medievisti e rinascimentalisti, sostenitori dei secoli bui
contrapposti ai primi lumi e gli antesignani di rinascimenti o rinascenze nel
Medioevo, già giustamente definiti con il termine di sopravvivenza a partire
dagli studi di Anton Springer che intitolava Das Nachleben der Antike im
Mittelalter il suo libro del
Dopo gli studi portati avanti dagli
intellettuali che si erano formati alla luce dell’insegnamento di Aby Warburg e
della grande tradizione dei "Nachleben", più recentemente ci
si è interrogati sulla durata del Rinascimento oltre la cosiddetta
età dell’oro e la sua sopravvivenza sia in quello che è stato
definito l‘antirinascimento del XVI secolo sia nel classicismo europeo. La
discussione in questi termini verte dunque sulla concettualizzazione del
fenomeno rinascimentale e sulla definizione di canoni oppure sulla funzione che
in particolare l’antichità classica ha avuto nella cultura delle corti
italiane e nelle società di Antico Regime. «Se l’antico non è un
repertorio di modelli da imitare ma la coscienza storica del passato e del suo
inevitabile rapporto col presente -scriveva Argan nel 1968 - non meraviglia che
ogni artista abbia il proprio ideale dell’antico e come questo possa essere
valutato se non come componente delle diverse poetiche». La distinzione che
opera Panofsky fra Rinascimento e rinascenze impegna per il Quattrocento una
coscienza storica del passato, un atteggiamento nuovo e consapevole verso
l’antico rispetto al Medioevo per il quale si può parlare di sporadiche
sopravvivenze per lo più reinterpretate alla luce delle diverse concezioni
del tempo. Attraverso il pensiero di Aby Warburg, Panofsky ha colto la
relatività non solo temporale ma anche spaziale e dunque ambientale dei
fenomeni culturali in particolare a proposito del recupero della
classicità.
All’interno del revival
dell’antichità classica si pone nella cultura del Quattrocento
l’interesse per le divinità pagane alle quali il Warburg Institute, dal
suo fondatore a Fritz Saxl ad Erwin Panofsky, ha dedicato numerose ricerche. La
persistenza dell’Olimpo pagano nel periodo medievale, nella produzione
letteraria, filosofica, scientifica ed artistica, ha generato una
continuità fra Medioevo e Rinascimento nei riguardi dell’antico ma
tuttavia l’esigenza storico-filologica di quest’ultimo periodo ha provocato una
nuova o rinnovata adesione delle antiche divinità alle originarie fonti
letterarie e ai prototipi classici. Di qui quella reintegrazione fra forma e
contenuto di cui parla Panofsky a proposito del Rinascimento
dell’antichità nel XV secolo.
Il mito ha avuto un ruolo fondamentale
nel fenomeno rinascimentale e nelle varie manifestazioni di rinascenze anche
per il valore allegorico e simbolico assunto lungo l’ampia parabola temporale
della cultura occidentale. La finalità essenzialmente filologica della
mitologia in età umanistica si arricchirà nel corso del
Cinquecento di contenuti attinti alla tradizione dei geroglifici,
dell’impresistica che confluirà nell’emblematica dove la connessione fra
testo e immagine si arricchirà di contenuti morali. Le antiche
divinità sopravviveranno nei manuali di mitografia nel corso del XVI
secolo diventando protagoniste delle decorazioni dei palazzi nobiliari e
popolando i cortili e i giardini delle ville dove gli esemplari classici
convivevano con le copie e con le rielaborazioni classiciste degli scultori del
tempo ad animare grandi macchine teatrali, a volte informate all’arte della
memoria e spesso arricchite da giochi di acqua in un dialogo serrato fra mito,
natura, cultura e attualità. La trasfigurazione allegorica della
mitologia nel corso del Cinquecento si farà portatrice di significati
filosofici ed etici finalizzati spesso a celebrare i Signori del tempo o a
porsi come elaborazioni concettuali all’interno di circoli intellettuali o
semplicemente a riassumere in singole immagini o in libri l’eredità della
cultura classica rielaborata attraverso la tradizione medievale e la riscoperta
umanistica dell’antichità.
La sopravvivenza delle divinità
mitologiche, fin dalla prima età cristiana, fu resa possibile grazie
all’interpretazione evemeristica che, nel rivelare l’origine umana degli dei
antichi, divenne un utile strumento per la lotta contro il politeismo. Tale
tradizione sopravvive durante il Medioevo anche tramite le Cronache che, da
Eusebio a Paolo Orosio, arrivano alle Etymologie di Isidoro di Siviglia (VII
sec.), alle enciclopedie popolari del XIII secolo, allo Speculum Historiale di
Vincent de Beauvais, fino alle Cronache Universali del XIV e del XV secolo.
In queste opere particolare evidenza
acquistano quegli eroi, poi assunti a divinità, benefattori
dell’Umanità: da Prometeo a Mercurio ad Atlante, a Giasone, ad Apollo
(Cronaca Cockerell), fino a Dedalo – che, quale forgiatore di statue assume il
ruolo di Demiurgo - ad Orfeo e ad Ercole, raffigurati da Andrea Pisano nelle
formelle del campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze.
In particolare Prometeo , legato al
mito della creazione in Platone e poi in Ovidio, diventa un simbolo visivo del
concetto neoplatonico della natura umana, come esemplificano alcuni sarcofaghi
romani del III secolo, dove il concetto dualistico della creazione dell’uomo,
vale a dire del suo corpo e della sua anima, avviene attraverso l’opera di
scultore dello stesso Prometeo, mentre l’animazione della statua si compie con
l’ausilio di Minerva (Sarcofago, Roma, Museo Capitolini). L’identificazione di
Prometeo, come artefice della creazione, si diffonde nei primi secoli
dell’età del cristianesimo, come è testimoniato dai Padri della
Chiesa; Tertulliano scriveva: «Deus unicus qui universa condiderit, qui hominem
de humo struxerit: hic enim est verus Prometheus» (Apologeticum, XVIII, 3).
L’influenza dell’iconografia di Prometeo, come artefice della creazione, trova
continuità nelle illustrazioni della Bibbia in età tardoantica e
carolingia (Bibbia Grandval, Ms. Add.10546, fol.5v., London British Museum).
Prometeo ancora nelle vesti di creatore dell’uomo ricompare alla metà
del XIV secolo nelle illustrazioni dell’Ovide Moralisé nei manoscritti di Lione
e di Parigi (ms. fr.871, f.31, Parigi Bibliothéque Nationale; ms.742 f.1325,
Lione, Bibliothéque de la Ville ) Qui la graduale fusione fra la
rappresentazione biblica e quella mitologica corrisponde all’interpretazione
morale che vede in Prometeo la prefigurazione del vero Dio (Raggio 1958). La
medesima interpretazione informa ancora il pannello di cassone dipinto da Piero
di Cosimo alla fine del Quattrocento, dove l’azione creatrice della
Divinità testamentaria si colloca in parallelo alla figura di Prometeo
scultore di statue che solo con l’aiuto di Minerva riuscirà a vivificare
(Monaco Altepinakothek).
Orfeo invece, che è considerato
una figura storica dell’antichità, inventore della poesia e musico,
presiede all’armonia del cosmo. Già nei secoli IV-V e poi in età
carolingia e nei primi secoli dell’era cristiana Orfeo diviene una metafora di
Cristo: rappresentato tra gli animali mentre suona la lira, in un mosaico
proveniente da Gerusalemme del VI secolo (Instanbul, Museo archeologico) egli
viene assimilato alla classica iconografia del Buon Pastore sovrapponendosi
inoltre, nel sarcofago di Porto Torres risalente ai secoli IV-V, alla figura
della mitologia orientale di Mitra. Il medesimo significato continuerà
ad essere assunto da Orfeo in tutta la tradizione umanistica e rinascimentale,
dalla Cronaca Universale al mosaico nel pavimento del Duomo di Siena fino al
dipinto di Jan Brueghel e al mosaico di Marcello Provenzale , entrambi della
collezione Borghese, dove fra gli animali in primo piano un'aquila e un
basilisco fanno riferimento all’araldica della famiglia romana. Ad Orfeo, come
cantore e musico per eccellenza, s’ispirarono varie forme di intrattenimento,
rappresentazioni teatrali, intermedi. La fabula di Orfeo di Poliziano
rappresentata a Mantova nel
Legate a ritualità
naturalistiche e alla ideologia del lavoro, che viene positivamente riscattata
dal Cristianesimo, sono inoltre quelle divinità mitologiche, come ad
esempio lo stesso Ercole, le cui fatiche illustrano il medesimo processo catartico
dell’uomo che si purifica attraverso il lavoro fisico, mentre in particolare
l’episodio della raccolta dei pomi nel giardino delle Esperidi trova
un’immediata assimilazione al frutto proibito del Paradiso Terrestre (Sissa -
Detienne 1989). Ercole, eroe virtuoso, viene rappresentato come allegoria della
Fortitudo nel pulpito di Giovanni Pisano per trovare nella medesima chiave
morale un’ampia affermazione nel corso dell’età umanistica in
particolare nel De Laboribus Herculis di Coluccio Salutati e nei cicli
decorativi che rappresentano le fatiche dell’eroe mitologico nei palazzi del XV
secolo: da Palazzetto Barbo a piazza Venezia , al ciclo perduto eseguito da
Pollaiolo per Lorenzo il Magnifico a Firenze alla villa Farnesina a Roma, al
ciclo di Palazzo Ricci Sacchetti alle decorazioni del Cavalier d’Arpino nel
Palazzetto dei Piceni.
Il riscatto del lavoro in chiave
cristiana sarà determinante per la nascita e la diffusione
dell’iconografia dei mestieri e le allegorie dei mesi, che trovano già
un’esemplificazione, a partire dall’età tardoantica, nei mosaici di
Piazza Armerina e nelle decorazioni pavimentali di età bizantina nel
Grande Palazzo di Costantinopoli, dove alle scene di genere si accostano scene
rurali o di caccia, personificazioni delle Stagioni e dei Mesi anche attraverso
divinità mitologiche (Talbot Rice 1957,1965; Hellenkemper 1987).
Il tema del lavoro aveva avuto
diffusione anche in quelle province romane del nordeuropa dove l’economia
agricola era predominante, trovando dunque una naturale espressione nella
produzione artistica musiva e a rilievo (Mosaico con calendario rurale,
St.Germain en Laye, Musèe des Antiquites. III sec.D.C.; Calcani 1993).
La presenza di questa tematica, con le relative iconografie, si rintraccia
nella decorazione dei calendari già in età carolingia ( Ms.387,
fol.90 v., Vienna, National Bibliothek, IX sec.; Rabano Mauro, De Rerum
origine, De cultura agrorum, cod. 132 Montecassino, XI sec.), per trovare
continuità nei secoli XII, XIII, e XIV nella decorazione musiva, ad
esempio della cripta di S.Savino a Piacenza o nel pavimento della cattedrale di
Otranto, dove i Mesi sono accompagnati dai segni zodiacali. Iconografie
calendariali con la rappresentazione delle attività dei mesi e i segni
dello zodiaco si trovano anche nelle decorazioni ad affresco: dal famoso
calendario di Bominaco nell’oratorio di San Pellegrino (1263), ai più
tardi affreschi nel castello del Torre dell’Aquila a Trento , ai libri d’ore.
Il tema stagionale, legato per lo più all’iconografia dei mesi,
costituisce infine uno dei soggetti più diffusi nelle decorazioni a
rilievo delle cattedrali romaniche: dal Duomo di Modena a quello di Verona e di
Ferrara , al Battistero di Parma , ma anche la cattedrale di Amiens e di Saint
Denis . In alcuni casi le personificazioni dei Mesi sono rappresentate da
divinità mitologiche; ad esempio Giano, Eolo e Bacco, stanno a
rappresentare i mesi rispettivamente di Gennaio, Marzo e Settembre
(Webster 1938; Rasetti 1941; Bresciani
1968). Accanto alle personificazioni dei Mesi vanno considerate anche le
Stagioni, caratterizzate per lo più dai tipici attributi naturalistici,
le spighe per l’estate o i pampini e le viti per l’Autunno, ma a volte
rappresentate da divinità mitologiche: Venere per la Primavera, Cerere
per l’Estate, Bacco per l’Autunno, Saturno per l’Inverno. Queste figurazioni
hanno continuità per tutto il periodo medioevale, come dimostrano fra
gli altri gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena ,
per riproporsi molto insistentemente nei secoli successivi in età
rinascimentale, quando i temi naturalistici diventano fra i più diffusi
soggetti delle decorazioni delle ville ma anche dei palazzi in pieno
Cinquecento.
Più frequenti sono le
rappresentazioni dei trionfi stagionali
derivati probabilmente da una contaminazione con il tema e l’iconografia
del trionfo classico; quest'ultimo aveva avuto grande fortuna nell’età
rinascimentale come revival dell’antichità legato insieme alla fortuna
dei carri trionfali negli apparati di feste e alle rappresentazioni teatrali
ispirate ai Trionfi del Petrarca.
Divinità del mondo pagano,
personificazioni degli elementi naturali e cosmogonici rappresentano la
più diretta sopravvivenza della mitologia classica a partire
dall’età carolingia: «L’arte carolingia- scrive Panofsky- non cerca mai
di infondere in una determinata immagine classica un significato diverso da
quello che le appartiene fin dall’inizio». (Panofsky 1971: 62) Anche gli
elementi naturali vengono personificati da figurazioni mitologiche: nella
cattedrale di Ferrara, Eolo sta a rappresentare i venti, mentre Vulcano alla
fucina è per lo più connesso all’elemento del fuoco; Nettuno
è generalmente connesso all’elemento acqua e infine Giunone sul suo
carro insieme al pavone sta a rappresentare l’aria. Tale tradizione
iconografica rimarrà pressoché invariata per tutta l’età
rinascimentale, trovando particolare fortuna nella decorazione delle ville
dove, in base all’antica teoria del decorum, tali temi naturalistici erano particolarmente
convenienti.
Bibliografia
La mitologia classica trova un
fondamentale tramite di sopravvivenza durante l'età medievale fino al
Rinascimento ed oltre nella tradizione
astrologica : «Tribuenda est sideribus divinitas», scriveva Cicerone nel De
natura deorum (2.15). Alla fine dell’era pagana in seguito ad un lungo processo
di mitologizzazione dei corpi celesti abbastanza complesso (Panofsky-Saxl 1933;
Seznec 1981; Saxl 1985) l’identificazione di dei ed astri era compiuta. Infatti
a partire dal IV secolo a.C. con il trattato di Eudosso di Cnido, volgarizzato
e diffuso da Arato di Soli e successivamente nei Catasterismi di
Eratostene Pianeti, costellazioni, segni
zodiacali incominciano ad essere associati a divinità della mitologia
classica o nel nome o in rapporto alle storie mitiche.
Il processo di mitologizzazione degli
dei astrali, che trova nelle Favole di Igino una fonte decisiva per la
trasmissione di questo repertorio mitologico-astrologico (Igino, Astronomica, Ns.18.16 aug.4°, Wolfenbuttel,
Herzog August Bibliothek, fol.19, r., sec.XII), venne favorito anche dalla
maggiore intelligibilità che le costellazioni e i corpi celesti in
genere venivano ad assumere attraverso le ben conosciute figurazioni
mitologiche: «Alcuni autori - afferma Guglielmo di Conches che
proclamerà la legittimità della mitologia - hanno parlato degli
astri in termini mitici , così per esempio hanno fatto Nemrod, Igino,
Arato quando raccontano che il toro col quale Giove aveva rapito Europa fu
trasformato in un segno dello zodiaco [...] Questo modo di parlare delle cose
celesti è legittimo; senza di esso non sapremmo né in quale parte del
cielo si trovi un segno, né quante stelle comprenda, né come esse sono disposte»
(Seznec 1981: 44).
Nonostante la consueta condanna da
parte degli apologisti, le divinità astrologiche permangono a scandire i
giorni della settimana o a presiedere ai mesi dell’anno, come testimoniano le
immagini del Cronografo del
L’astrologia resta dunque "il fine
di ogni sapere" e con essa, come con la storia naturale, ci si deve
confrontare per acquisire la scienza divina. La cultura scolastica, nella sua
tendenza ad un sistema globale del sapere, ad una scientia universalis, si
uniformerà al sistema astrologico, non solo accogliendo i rapporti
numerici fra Mundus, Annus et Homo (Ms.lat.11229, Paris, Bibliothèque
Nationale, fol.45 r.; Seznec 1981; Saxl 1985), ma facendo corrispondere le
Virtù e le Arti Liberali ai Pianeti. Già i pitagorici avevano
posto le Muse in rapporto con i Pianeti; successivamente, a partire dal IX
secolo, venne stabilita la corrispondenza fra i Pianeti e le Virtù e poi
con le Arti Liberali (Dante, Convivio, 2.14;4.24; Herrad von Landsberg, Hortus
Deliciarum; Bartolomeo de Bartholis, Cantica Virtutibus et Scientiis). Questo
carattere enciclopedico della cultura medievale trova espressione nell’arte
monumentale, sui portali e nelle vetrate delle cattedrali francesi. Nel XII
secolo il poeta normanno Baudri de Borgueil ricordava la raffigurazione delle
Arti Liberali sulle pareti della camera della contessa di Blois, mentre nella
volta erano rappresentati i Pianeti e le costellazioni. Anche Giotto, nei
rilievi del campanile di Firenze , eseguiti su suo progetto da Andrea Pisano,
espone lo schema delle corrispondenze fra il mondo planetario e quello umano
nei suoi aspetti religiosi, rappresentati dalle Virtù, dalle Arti
Liberali e dai Sacramenti e quelli profani attraverso i già citati temi
del lavoro, dei mestieri e delle scienze. Negli affreschi eseguiti nel Cappellone
degli Spagnoli da Andrea da Firenze fra il 1366 e il 1368, le Arti e i Pianeti,
dipinti a mezzo busto nelle cuspidi dei troni di queste ultime, stanno a
mutuare la tradizionale corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo. Anche a
Padova Guariento raffigurò nell’abside della chiesa degli Eremitani,
accanto agli dei planetari, le personificazioni dell’età dell’uomo.
Infine nel vestibolo della cappella nel Palazzo pubblico di Siena Giove,
Minerva, Apollo e Marte sono stati rappresentati da Taddeo di Bartolo con i
loro tradizionali attributi .
Oltre che nelle immagini astrali la
mitologia sopravvive nel Medioevo anche attraverso quel processo di
allegorizzazione che, attingendo allo stoicismo e passando per il neoplatonismo
fin dall’inizio dell’era cristiana, trovava rispondenza nella stessa esegesi
dei Padri della Chiesa per poi radicarsi, con il contributo ellenistico,
nell’età tardoantica già con la Psicomachia di Prudenzio
(Ms.22,Lyon, Bibliothèque du Palais des Arts, fol.17 v.,1100 circa) e a
partire dal VI secolo con le Mythologiae di Fulgenzio.
Tale processo di allegorizzazione, che
porta spesso a fondere la mitologia con la teologia, trova continuità
nei secoli successivi nei manoscritti di trattati allegorici sugli dei basati,
più che su autori classici, su mitografi tardi come Macrobio, Servio,
Lattanzio, Capella e Fulgenzio, i quali tendevano a cercare un significato
recondito dietro alle favole mitologiche. Un’interpretatio christiana di un
Ercole antico è esemplificativamente rappresentata dai due rilievi
sull’esterno della Basilica di San Marco a Venezia , studiati da Erwin Panofsky
in rapporto alle sue riflessioni sui fenomeni di rinascenza (Panofsky 1971;
1975). Se qui la trasformazione di un modello antico del III secolo è in
rapporto alla trasposizione in chiave cristiana della divinità
mitologica trasformata in allegoria della salvazione nel rilievo del XIII
secolo, in altri casi la ripresa di modelli classici in figurazioni medievali,
come ad esempio nelle decorazioni del Kaiserpokal di Osnabruck , non esclude
un’interpretazione allegorico-morale in rapporto al contesto o all’uso
dell’oggetto probabilmente adattato a funzioni liturgiche. (Panofsky 1971).
A questa tendenza allegorica sono
informati i Commenti di Remigio d’Auxerre al De Nuptiis Philologiae et Mercurii
di Marziano Capella, al quale, come è noto, si deve la definizione del
canone delle Arti Liberali . Le immagini che illustrano i codici miniati di
queste opere a partire dal XII secolo, sono generalmente basate esclusivamente
sui testi, in assenza di modelli formali. Ma i diversi passaggi da una lezione
all’altra hanno spesso determinato dei travisamenti nelle figurazioni che
diventano, a volte, vere e proprie parodie dei soggetti originali. Curiose fra
le altre sono le immagini di Saturno o di Mercurio nella illustrazione del
manoscritto monacense del Commento di Remigio d’Auxerre (Ms.lat.14271, Munchen,
Bayerische Staatsbibliothek, fol. 11 r., Seznec
1981: 189). Oltre alla mancanza di modelli plastici la derivazione da
più autori o ancora la corruzione dei testi sono all’origine di figure
mitologiche, a volte quasi irriconoscibili, che possono anche determinare
interpretazioni fuorvianti. E’ ad esempio un’errata derivazione dal tipo del
Mercurio-Anubi quella proposta dall’illustratore del manoscritto di Rabano
Mauro che ha scambiato i calzari alati della divinità per un uccello che
gli vola tra i piedi; mentre dovuta ad una corruzione testuale è
l’inserimento di un’oca marina, al posto di una "concham" , tradizionale
attributo di Venere, nella miniatura del manoscritto parigino dell’Ovide
Moralisé (Ms.fr.373, Paris, Bibliothèque Nationale, fol.207, r.,1380
circa)
Un ruolo fondamentale per la
trasmissione della mitologia dall’antichità al Rinascimento è da
riconoscere alle Metamorfosi di Ovidio. La loro importanza in questo campo non
si limita alla funzione di fonte testuale, ma investe anche e soprattutto la
dimensione iconografica, dal momento che a partire dall’XI secolo i primi
codici manoscritti e poi le edizioni a stampa dalla fine del XV secolo sono
corredati da immagini che illustrano le storie.
Il passaggio dall'Antichità al
Rinascimento di tale testo è estremamente articolato: differenti
tradizioni hanno permesso la sua sopravvivenza e il suo recupero, ma ne hanno
anche condizionato in modo significativo le forme di ricezione e di diffusione.
Dopo un periodo iniziale di oblio nei
primi secoli della cristianità, la fortuna di Ovidio ebbe un lento
risveglio in epoca carolingia. Le Metamorfosi erano state inizialmente
utilizzate come fonte di una serie di manuali mitografici, dalle Fabulae di
Igino fino ai primi due Mitografi Vaticani; a partire dalla fine dell’XI secolo
e con il XII secolo si potrà cominciare a parlare di una rinascita
ovidiana, grazie alle opere di Arnolfo di Orleans e di Giovanni di Garlandia.
Su queste opere si baseranno le Expositiones di Giovanni del Virgilio
utilizzate da Giovanni Bonsignori per l’Ovidio volgare, la prima edizione a
stampa illustrata pubblicata a Venezia nel 1497 .
Il grande riscatto delle Metamorfosi
passò attraverso la lettura allegorica, in linea con la
sensibilità e la cultura medievale. Essa diede luogo a due
importantissime tradizioni interpretative, una risalente alla tradizione
scolastica medievale e un'altra all'esegesi cristiana: queste, nel tentativo di
fornire un accesso al testo classico adeguato alle istanze morali e culturali
del tempo, attraverso commenti e volgarizzazioni estranee a qualsiasi
fedeltà filologica, finirono per creare degli pseudo-Ovidio, che furono
le fonti condizionanti della tradizione iconografica delle Metamorfosi fino al
'500.
Accanto a questa linea di
moralizzazione si manifestò, a partire dall’XI secolo, anche un
interesse specificatamente letterario per il testo poetico a sé stante,
attestato nel corso dei secoli dai vari manoscritti nell'originale latino o con
le traduzioni senza commenti e allegorie, ed anche questa tradizione filologica
del testo antico produrrà, seppur in maniera ben più limitata,
delle illustrazioni.
Fra il XII e il XIII secolo
l’allegorizzazione della mitologia antica trova ampia affermazione nelle
versioni moralizzate delle Metamorfosi di Ovidio. Da allora si assiste ad una
vera e propria esplosione di interesse per le favole ovidiane attraverso
l’Ovidius Moralizatus di Petrus Bercorius e l’Ovide moralisé, che con il suo
pesante apparato allegorico-morale contribuì, attraverso le
illustrazioni, a diffondere e a far sopravvivere la tradizione delle
Metamorfosi ovidiane. Il poema di Ovidio riveste dunque un ruolo importante
tanto per la trasmissione delle divinità mitologiche nel Medioevo quanto
per la diffusione della tradizione letteraria ed iconografica nell’età
cosiddetta rinascimentale a partire dal XV secolo, quando le favole mitologiche
raccontate da Ovidio diventano la Bibbia dei pittori.
Bibliografia
In Italia alla luce già delle
prime esperienze degli umanisti padovani alla fine del XIII secolo si
incominciava ad attuare quella reintegrazione di forme classiche con i
contenuti classici, in cui Panofsky fa consistere la differenza fra il
Rinascimento e le cosiddette rinascenze medievali. Lo stile all’antica, con cui
le divinità della mitologia riguadagnano il loro aspetto greco-romano,
attraverso il ricorso da parte degli artisti e/o degli illustratori a modelli
dell’antichità - sculture, monete e anticaglie di ogni genere - o ai
testi originali, rivisitati dall’opera filologica degli umanisti, fa il suo
ingresso anche nell’ambito delle illustrazioni delle Metamorfosi. A partire
dalla prima edizione in volgare illustrata, pubblicata da Lucantonio Giunta a
Venezia nel 1497, le immagini , pur nella ingenua riproposta dei moduli
narrativi, si avviano ad emancipare l’Ovidio volgare dalle moralizzazioni del
secolo precedente. (Guthmüller 1986, 1997; Huber-Rebenich 1992).
Per tutta la prima metà del
secolo XV il recupero dell’antico, mentre è un dato di fatto nella
architettura e nella scultura, ancora non è presente nella pittura dove
prevale la tradizione tardo-gotica che impedisce di dare alle divinità
pagane e ai soggetti mitologici la loro originaria forma classica nelle prime
timide apparizioni di inizio secolo. L’utilizzazione delle mitografie è
per lo più destinata ad una produzione domestica e privata all’interno
della quale trova la sua giustificazione stilistica aderente ai modi del gotico
internazionale. La società delle corti italiane infatti riproponevano
nostalgicamente negli usi, nei costumi e all’interno della loro vita privata
l’antico mondo cortese e con esso le raffinatezze e i lussi che si manifestano
in una produzione aristocratica e decorativa nell’ambito della quale ebbe
inizio l’evoluzione della pittura profana ed in particolare mitologica. Nella
cosiddetta pittura di cassone, una produzione a scopo matrimoniale e domestico
che includeva anche i deschi da parto e i cofanetti da fidanzamento, è
frequente il ricorso alla mitologia e alle sue narrazioni sui temi di amore e
di virtù, di fecondità e di matrimonio, consoni alla funzione
degli oggetti e derivati dai codici illustrati del Roman de la Rose di
Guillaume de Lorris e Jean de Meun, dell’ Epitre d’Othea di Christine de Pisan,
del De claris Mulieribus di Giovanni Boccaccio e finalmente del De Genealogia
Deorum ancora di Boccaccio, il primo poema "umanistico" che dà
una lettura non moralizzata dell’origine delle antiche divinità.
Contemporanee dell’Ovidius moralizatus le Genealogie vennero stampate nel 1472
e successivamente in diverse edizioni fino al 1532. Il mondo delle corti
francese e borgognona rivive in quelle figure aggraziate e ben vestite di eroi
e divinità mitologiche che, perso comunque quel carattere moraleggiante
del periodo medievale, ancora non hanno realizzato quell’aderenza alle fonti
letterarie e figurative che sarà la grande novità in termini di
riscoperta o rinascimento dell’antichità classica nel Quattrocento. Il
mito appena rievocato negli esempi dei primi decenni del secolo in immagini e
composizioni prive di ogni drammaticità formale e di contenuto, si
arricchisce nel corso del secolo di particolari fino ad assumere un andamento
narrativo ad illustrazione di episodi tratti per lo più dalle
Metamorfosi di Ovidio o anche dall’apparato illustrativo dei mitografi
medievali. L’adesione delle immagini mitologiche alla fonte letteraria era
spesso pedissequa e semplificativa rispetto ai contenuti allegorici del testo
stesso; la destinazione per lo più privata di tale produzione richiedeva
infatti un ruolo in primo luogo e apparentemente decorativo per il quale la favola
mitologica o il recupero di divinità classiche dovevano assolvere al
compito di affermazione di quell’antichità già ormai perduta e
tanto più vagheggiata in un revival di valori cortesi.
I temi prescelti erano dunque legati
alla funzione domestica e matrimoniale delle decorazioni volte ora ad esaltare
l'amore ora a celebrare le virtù dei committenti. Le favole di Apollo e
Dafne e di Pan e Siringa coniugavano le esigenze amorose a quelle morali,
mentre gli amori di Giove si prestavano ad esaltare insieme alla potenza della
divinità la valenza erotica del mito. La resa in immagine delle prime
rappresentazioni mitologiche ancora informate alla cultura cortese era
funzionale alle esigenze della committenza aristocratica o altoborghese. Nel
pannello di cassone di scuola fiorentina, attualmente nella collezione lord
Crawford di Londra infatti, l'inseguimento di Dafne da parte di Apollo ha
piuttosto i toni di un rituale di corteggiamento che di lacerante passione. In
termini analoghi nel desco da parto della collezione E.Burnes Jones di Londra,
dove è rappresentato il mito di Diana e Atteone, alla totale mancanza di
sensualità delle ninfe del corteo di Diana risponde l'assenza di tragicità della
scena della metamorfosi in cervo di Atteone divenuto preda e divorato dai suoi
stessi cani. In ultimo nel tondo del
Bargello l'episodio del Giudizio di
Paride, che vede il giovane intento ad operare la scelta, carica di conseguenze
nefaste, fra Venere, Minerva e Giunone, è banalizzato in una sorta di
sfilata di costumi alla moda. In conclusione i miti classici nei primi decenni
del Quattrocento sono spesso ambientati in quei luoghi come i giardini o i cortili, allietati da
fresche fontane e dalle verzure, ad indicare lo spazio privilegiato della
nobiltà o della ricca borghesia, diventando un'ideale manifestazione
delle società cortesi agli albori della rinascita.
Agli schemi narrativi delle
illustrazioni dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori
verrà informata la maggior parte della produzione figurativa di questi
temi. Tale struttura narrativa caratterizzerà non solo la citata pittura
di cassone ma anche i primi cicli ad affresco che solitamente trovano una loro
collocazione in luoghi di uso privato, rispondendo essenzialmente alla funzione
di quegli ambienti, come le camere da letto, gli studioli, le stufette e
occupando per lo più gli spazi marginali nei fregi oppure i riquadri
nelle volte e nei soffitti.
Le favole antiche più diffuse
sono quelle legate all’amore che, oltre a trovare nelle stesse Metamorfosi un
ampio repertorio, rispondono più propriamente alla funzione privata
degli ambienti domestici, in continuità con quella produzione "al
femminile" che era stata inaugurata con la pittura dei cassoni nuziali e
dei deschi da parto o con i fregi decorati nelle abitazioni del primo
Quattrocento. Le raccomandazioni in proposito di Leon Battista Alberti «negli
ambienti ove ci si unisce con la moglie raccomandano di dipingere
esclusivamente forme umane e nobilissime» verranno riprese nei trattati
cinquecenteschi ed in particolare da Giovan Battista Armenini, che per le
camere private e da letto parla di «cose poetiche e di materie abandevoli, dove
vi entrano con molta satisfatione de’ buoni le figure di bellissime femmine, di
vaghi giovani e di puttini con paesi festoni e grottesche» e, alcuni anni dopo,
intorno al 1620, da Giulio Mancini nelle Considerazioni sulla pittura «...le
lascive come Venere e Marte nelle [...] camere retirate, le deità nelle
camere terrene e [...] simil pitture lascive in simil luoghi dove si trattenga
con sua consorte sono a proposito, perché simil veduta giova assai a far figli
belli e sani e gagliardi».
Ma accanto a tali tematiche amorose, e
spesso ad esse connesse, particolarmente diffusi sono i miti legati alla
ciclicità e alla fecondità naturale. Questi, che trovano una
facile rispondenza con la funzione delle ville in rapporto alla natura, non
sono assenti però dalle decorazioni dei palazzi cittadini e rivelano
spesso e volentieri un senso allegorico-ideologico, legato al committente.
La presenza di tali miti naturalistici
nelle decorazioni dei palazzi e delle ville e la loro diffusione nel corso del
secolo XVI trova inoltre una non casuale rispondenza nella interpretazione
"naturalistica" che dei miti classici diedero i mitografi
cinquecenteschi, da Lilio Gregorio Giraldi, a Natale Conti, a Vincenzo Cartari,
che pubblicano i loro trattati intorno alla metà del Cinquecento.
Sebbene alla fine del Cinquecento una
precisa condanna delle decorazioni mitologiche sarà formulata da Gregorio
Comanini nel Figino overo il fine della pittura che ritiene «sia cosa
sconvenevole ad uon cristiano il tenere in casa l’imagine de’ gentili», il
valore significante ed ideologico e non solo di evasione di tale tipo di
decorazione è confermato ancora dalla trattatistica tardocinquecentesca
in base alla quale le mitologie non sono più da considerare solo
"historie di gioia e di allegrezza", ma, come scrive Armenini, «cose
appartenenti alle virtù morali sotto il velamento di favole poetiche».
Una continuità narrativa dei
soggetti mitologici caratterizza nel corso del Cinquecento anche la produzione
di maioliche e ceramiche che avevano le proprie fucine in particolare nelle
botteghe dell’Italia centrale a Pesaro, ad Urbino e a Faenza. La corte urbinate
può considerarsi esemplare per il forte impulso che ha dato alla
produzione di maioliche nel ducato. Grazie all’alta qualità raggiunta
negli esemplari istoriati, alla sempre maggior perfezione tecnica e ai bassi
costi, rispetto al vasellame in oro e in argento, la maiolica si rivela
particolarmente adatta ad una funzione di rappresentanza della corte di
Guidobaldo II.
Ad Urbino fin dal 1530 la produzione di
maioliche era già famosa per «la eccellenza delle historie e delle
fabule» (Archivio Gonzaga di Mantova, E, XXVI, 3 Busta 1105). Queste erano
spesso tratte dalle edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio di cui si
era pubblicata a Venezia nel 1522 la traduzione in volgare di Niccolò
degli Agostini , nel 1553 la traduzione di Ludovico Dolce e nel 1559 l’edizione
di Lione stampata da Gabriello Symeoni corredata dalle incisioni di Bernard
Salomon. Infatti più frequente era la ripresa dalle volgarizzazioni
delle Metamorfosi e soprattutto dagli apparati illustrativi. Tra i più
importanti maiolicari oltre a Niccolò Pellipario si ricorda Francesco
Xanto Avelli, attivo ad Urbino nella prima metà del Cinquecento, il
quale conosceva attraverso le varie edizioni illustrate non solo le Metamorfosi
di Ovidio, ma anche Omero, Livio, Valerio Massimo. Sul verso di un suo piatto,
conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, oltre alla firma e alla
data troviamo indicato il titolo della storia che ne decora il recto «Il misero
Atho (Atteone) converso in cervo nel III libro de Ovidio.Me.». Ma è soprattutto
con Soligo Durantino, altro maestro maiolicaro, originario di Casteldurante,
nei pressi di Urbino, vasaio, poeta e membro dell’Accademia degli Assorditi,
che viene definita l’inscindibile correlazione delle varie arti e la
necessità di una cognizione delle "favole" con specifico
riferimento proprio all’esercizio del mestiere del vasaio. Nella dedica delle
Rime al Duca di Urbino nel 1558 scriveva: «Notabil cosa è a considerare,
Signore Ecc.mo come fra le arti si vegga molte volte che elle sono così
fattamente congiunte, che l’una non può aver perfezione senza l’altra:
laonde è forza che chi l’una esercita nell’altra abbia a sdrucciolare:
chiaro esempio se ne vede nel mio mestiere che è di vasi di terra a
quali per ridurli a qualche vaghezza di necessità la dipintura si
richiede et quella senza la cognizione delle favole non può aver
compimento et chi averla vuole bisogna che legga i poeti, et così da’
vasi di terra l’huomo alla poesia si conduce. Et questo è quello che ha
fatto me estrarre in umore di diventare qualche volta poeta. Ma si come gli
altri che dal cielo hanno lo spirito si chiamano divini, così io poi che
da’ lavori di terra nasce il mio studio mi chiamerò poeta terreno»
(Luburdi 1917: 234)
Bibliografia
La rinascita della mitologia non fu
solo appannaggio dei filologi ma anche degli archeologi che con i primi scavi e
l’osservazione dei reperti classici diedero vita a quel gusto antiquario che
caratterizzerà la cultura del Cinquecento e del Seicento ed oltre. Il
fiorire degli studi antiquari si può far risalire a Lovato Lovati
(1261-1329), studioso di diritto come Rolando da Piazzola, suo nipote e
continuatore insieme ad Albertino Mussato (1261-1329) nel metodo analitico di
indagine dell’antichità classica. E’ con Francesco Petrarca, a Padova
nel
Un analogo atteggiamento scientifico,
in continuità con il preumanesimo padovano, caratterizza gli studi
filologici ed archeologici del Quattrocento secondo una metodologia unitaria
che investe tanto l’analisi del testo, che lo stile del verso, la scrittura,
quanto l’indagine dei reperti antichi. Felice Feliciano «cognominato antiquario
per aver quasi consumato gli anni suoi in cercare le generose antiquità
di Roma e di Ravenna e di tutta Italia», come si esprime Sabbadino degli Arienti,
è il personaggio focale dell’Umanesimo Padovano. A Roma entrò in
contatto con i Porcari, cultori e collezionisti di antichità, con
pittori ai quali diede consigli sull’uso dell’antico e fu testimone dell’opera
di Ciriaco d’Ancona, un personaggio curioso e attento ai vari aspetti
dell’Antichità: dalle iscrizioni ai monumenti ai dati iconografici,
appuntati in occasione dei suoi viaggi in Grecia in Oriente e a Roma, e poi
raccolti nei suoi Commentari successivamente andati perduti. Ciriaco si
può dunque considerare il precursore di quei collezionisti di
antichità che si moltiplicheranno nel corso del Cinquecento e per i
secoli successivi. Ispirata a Ciriaco D’Ancona è la famosa gita sul lago
di Garda del 2 o 3 Settembre 1464 alla ricerca di vestigia
dell’antichità, descritta da Felice Feliciano nella sua Jubilatio, e che
ebbe come protagonista, insieme al Feliciano stesso, Samuele da Tradate,
Giovanni Marcanova e finalmente Andrea Mantegna. A questo artista in
particolare si deve la restituzione di quella forma classica ai soggetti
antichi, in primo luogo proprio attraverso l’osservazione dei reperti presenti
nell’area romana di Padova; rilievi e sculture funerarie sono per lo più
caratterizzate da soggetti mitologici con un significato resurrezionale: dai putti
ai cortei di centauri, tritoni e nereidi, al classico Mercurio psicopompo. Ma i
modelli antichi sono reperibili anche nella medaglistica classica che aveva
trovato un primo revival nell’età dei Carraresi, la prima illuminata
signoria umanistica, per attingere solo successivamente alla letteratura
mitologica ed in particolare alle Metamorfosi di Ovidio. Nella giovanile pala
di San Zeno dell’artista padovano il mito viene filologicamente citato
attraverso il recupero della medaglistica antica sui pilastri dove si intravede
oltre alla rappresentazione di Mercurio con Pegaso derivata dalla medaglia di
Antinoo, le figure della Fortuna e della Vittoria insieme a Tritoni e Nereidi
in un’iconografia derivata dai sarcofaghi antichi. La presenza di scene
mitologiche nella "camera picta" del Palazzo ducale di Mantova
testimoniano la conoscenza da parte del pittore o degli umanisti alla corte di
Ludovico Gonzaga dei testi antichi così come delle figurazioni classiche
spesso aggiornate alle più recenti interpretazioni all’antica; mentre
all’interpretazione neoplatonica del mito si dovette rivolgere il pittore per i
dipinti del camerino di Isabella d’Este.
Ma la mitologia nel territorio padano
era già presente fin dalla fine del Duecento attraverso la tradizione
astrologica che aveva lasciato testimonianze visive nel Palazzo della
Ragione e negli affreschi del Guariento
nella chiesa degli Eremitani a Padova.
Insieme alle prime edizioni illustrate
dei testi antichi in lingua originale o volgarizzati si pone il romanzo mitologico-archeologico
di Francesco Colonna l’Hypnerotomachia Poliphili, stampato a Venezia da Aldo
Manuzio nel 1499, che costituisce un prototipo di fondamentale importanza per
il rapporto fra immagini , letteratura e cultura filosofica nell’Umanesimo.
Alla fine del XV secolo si assiste ad
un’evoluzione della cultura antiquaria che procede da un atteggiamento
archeologico e di ricerca filologica all’uso della trascrizione simbolica in
immagini - da cui la fortuna dei geroglifici nella loro falsificata interpretazione
umanistica - al gusto per il bizzarro, il decorativismo che, se connota una
certa cultura fiorentina nella sua peculiare interpretazione dell’antico, trova
agio ed espansione in rapporto alla tendenza di destabilizzazione degli Stati
italiani all’inizio del Cinquecento.
Se dunque all’inizio del Quattrocento
l’interesse per la classicità aveva portato, insieme a
quell’atteggiamento di meraviglia e di riscoperta, una nuova coscienza
dell’antico come exemplum da ri-conoscere e riacquisire con mezzi razionali e
scientifici, a partire dalla fine del secolo la sua strumentalizzazione e la
riflessione su di esso si manifesta nell’acquisizione e nell’accumulo erudito
degli esemplari antichi non più a fini conoscitivi ma essenzialmente
economici e di prestigio e quindi di potere. Basti pensare alla fondazione del
museo capitolino da parte di Sisto IV della Rovere che non corrispondeva ad
interessi antiquari ma piuttosto ad una proiezione politica dell’antico
finalizzata alla repressione della identità comunale della città
con la trasformazione del Campidoglio da luogo politico in un museo.
Ad una finalità non puramente
filologica e scientifica risponde dunque più in generale il fenomeno del
collezionismo archeologico nell’ambito del quale rientra la falsificazione, la
copia ma anche la strumentalizzazione, la maniera, spesso a discapito di una
metodologia di ricerca. Nel corso del Cinquecento una maggior cura verrà
data agli allestimenti delle collezioni in un primo tempo limitate agli
studioli e ai camerini e successivamente estese nei cortili nei giardini e
finalmente nelle gallerie. Il carattere di arredamento e di ornamento che
soprattutto le statue antiche rivestivano è già chiaro nel caso
degli arredi dei cortili dove, come nel caso di quello di palazzo Della Valle o
di Casa Sassi immortalati dalle incisioni di Marteen van Heemskerk, la
disposizione dei pezzi delle collezioni rispondevano ad un percorso
autocelebrativo del Signore sulla scorta dei programmi iconografici, le cui
invenzioni informarono i cicli pittorici lungo tutto l’arco della rinascita.
Tale fenomeno diverrà imponente nell’arredamento dei giardini, da villa
Madama a Villa d’Este al giardino di Bomarzo a quello di Boboli a Firenze nei
quali la mitologia diventa protagonista di un grande spettacolo dove
l’ornamento si unisce al meraviglioso e allo sbalorditivo.
Nelle gallerie invece un maggior rigore
compone le collezioni, volte a sottolineare la grandezza del proprietario che
si manifesta attraverso quei luoghi dove il Signore va a "spasseggiare"
insieme ai suoi illustri ospiti per mostrare il suo potere e la sua ricchezza
attraverso la metafora della cultura e dell’antichità.
Bibliografia
A Venezia non è la corte il
luogo dove si produce la cultura, sono piuttosto i circoli di studiosi,
più spesso vicini ai primi editori, che già all’inizio del secolo
portano avanti una ricerca di alto livello; così anche nell’ambito della
cultura artistica si verifica una sorta di sperimentazione intellettuale che
convive con una produzione artigianale meno elevata e più divulgativa e
disimpegnata, che troverà espressione sia nelle illustrazioni dei testi
a stampa sia nelle incisioni sia nella produzione e nella decorazione di
oggetti d’uso, dai mobili ai manufatti del corredo domestico. Tale dialettica
attraversa tutto il secolo implicando sia l’attività artistica di grossi
personaggi come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, con la realizzazione
di capolavori indiscutibili, documenti di una complessa problematica culturale,
sia quella produzione spesso ancora artigianale, sicuramente più
semplificata nei contenuti come nelle soluzioni formali, affidata ad artisti
meno impegnati o alle maestranze di bottega, che sta a testimoniare una
tendenza culturale di più ampia e facile fruizione.
La diffusione delle immagini
mitologiche, a partire dall’edizione illustrata dell’Ovidio volgare nel 1497 ,
determina emblematicamente la divaricazione della produzione artistica a soggetto
profano e segnatamente mitologico in due livelli: il primo continua anche
attraverso le altre edizioni ovidiane e la produzione incisoria il nucleo
illustrativo e divulgativo della favola mitologica narrata attraverso le varie
fasi delle singole storie. Il secondo filone vede nella mitologia classica il
tramite di determinati contenuti simbolici ricavabili dall’analisi delle fonti
letterarie, alla luce della speculazione filosofica del tempo.
A Firenze alla corte di Lorenzo il
Magnifico la mitologia era stata allegorizzata attraverso la filosofia
platonica nell’interpretazione che ne aveva dato Marsilio Ficino a capo
dell’Accademia di Careggi. La diffusione delle concezioni neoplatoniche,
veicolate dalla mitologia in ambito veneto, viene recepita in termini diversi
rispetto all’ermetico simbolismo fiorentino; negli Asolani di Pietro Bembo
(stampato nel 1505), nel Libro de Natura de Amore di Mario Equicola (1525) come
nei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo i miti legati all’amore, alla bellezza,
alla musica e alla poesia rivestiranno concetti complessi e profondi resi
più facilmente comprensibili dalla lingua volgare adottata dai tre
autori. In volgare viene anche stampato da Aldo Manuzio, a soli due anni di
distanza dalle Metamorfosi di Ovidio, il romanzo di Francesco Colonna,
l’Hypnerotomachia, Poliphili; al testo e alle illustrazioni dell’opera
farà riferimento negli anni seguenti la cultura figurativa veneta.
Alle favole mitologiche Giorgione da
Castelfranco, la cui identità biografica ed artistica rimane ancora
avvolta dalle tenebre, dedicherà poca attenzione, più attratto
dalle elaborazioni filosofiche nei suoi dipinti soggetti alle più
complesse interpretazioni; ma al suo nome resta legata una produzione di facile
consumo dove il mito viene semplicemente raccontato o illustrato a fini
decorativi o per committenti interessati a quelle storie immerse nella natura
umbratile resa attraverso quel colorismo che caratterizzerà le ricerche
pittoriche degli artisti veneziani nel XVI secolo.
Il genere deputato a tale produzione
artistica è per lo più la pittura di cassone per committenti
privati che restano nell’anonimato come anche spesso gli stessi pittori.
L’andamento narrativo di queste rappresentazioni è ispirato per la gran
parte alle Metamorfosi di Ovidio sul modello delle illustrazioni xilografiche
dell’edizione in volgare del poema augusteo. Fra queste i pannelli dei musei
civici di Padova con la Leda e il cigno o il cosiddetto Idillio campestre, che
sembra riproporre a livello compositivo la tematica della Tempesta
dell’Accademia, restano in un totale anonimato anche per la fattura poco
definita sebbene siano molto caratterizzate le ambientazioni naturalistiche e
gli sfondi di città. Di discussa attribuzione invece sono i pannelli con
la Nascita e la Morte di Adone nei Musei civici di Bergamo o quello con la
storia di Apollo e Dafne del seminario patriarcale di Venezia, fedelmente
mutuata dalla xilografia del poema ovidiano nella sequenza degli episodi:
dall’uccisione del serpente Pitone per mano di Apollo, all’inseguimento della
ninfa da parte della divinità solare che determinerà la
metamorfosi in alloro; per questi i nomi di Tiziano giovane, Giorgione e Paris
Bordon, per il pannello veneziano, continuano ad essere riproposti senza un
approfondimento di questo tipo di produzione - che invece si registra in parte
per l’area toscana - e dunque del lavoro di bottega da una parte e dello status
dell’artista dall’altro in ambiente veneto all’inizio del Cinquecento.
Più definiti, in termini stilistici, appaiono i tondi con il mito di
Endimione e il Giudizio di Mida della Galleria Nazionale di Parma assegnati a
Cima da Conegliano, al quale pure sono riferiti il Bacco e Arianna del Museo
Poldi Pezzoli di Milano e i due frammenti con Sileno e tre Satiri e Fauno della
Johnson Collection di Philadelphia e il Giudizio di Mida di Copenhagen.
Più innovativa rispetto ai modelli illustrativi è la composizione
del pannello dell’Accademia Carrara di Bergamo dove Euridice, morsa dal
dragone, corre verso l’esterno del pannello, mentre al centro in secondo piano
le fiamme dell’Inferno fanno da sfondo al momento cruciale del mito in cui
Orfeo girandosi a guardare Euridice la perderà per sempre.
Ancora nell’ambito di questa produzione
si pongono una serie di rappresentazioni dedicate a Venere o alla ninfa
scoperta dal satiro, soggetti a sfondo ora erotico ora filosofico che
caratterizzano la cultura veneta e nord-europea del primo Cinquecento. La
matrice è forse da rintracciare nel romanzo di Francesco Colonna e nella
xilografia che illustra appunto una ninfa scoperta da un satiro affiancata da
due amorini che versano dell’acqua. Si tratta di una figurazione ecfrastica che
decora la fontana della vita, come indica l’iscrizione dedicatoria P A N T W N
T O K A D I , vale a dire "alla madre di tutte le cose ", dove
Polifilo andrà a dissetarsi durante il suo lungo percorso iniziato alla
ricerca dellla sapienza. Dalla Venere di Dresda alla Ninfa alla fonte di Lucas
Cranach a Lipsia, alla Venere di Urbino il tema dell’amore viene assunto e finalizzato
per contenuti ora matrimoniali ora erotici ora filosofici.
In questi dipinti si verifica un netto
scarto dalla composizione narrativa a quella allegorica che caratterizza le
opere attribuite a Giorgione, come già notava Giorgio Vasari nel ricordo
dell’impressione avuta dei dipinti dell’artista in occasione del suo viaggio a
Venezia: «Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per
mostrar l’arte; poiché nel vero non si ritrovan storie che abbi ordine o che
rappresentino i fatti di nessuna persona né antica o moderna».
Mentre gli Asolani di Pietro Bembo, nel
recepire la tradizione platonica fiorentina, costituiscono la fonte primaria di
quella produzione a soggetto amoroso e cortese, i Dialoghi d’Amore di Leone
Ebreo, scritti probabilmente fra il 1502 e il 1506 ma pubblicati solo nel 1535,
si fanno interpreti di quella componente ermetica del neoplatonismo
rinascimentale che è alla base di molte opere di paternità
giorgionesca e di Tiziano giovane.
Il Concerto campestre del Louvre insieme
all’Amor sacro e Amor profano della Borghese interpretano questa complessa
problematica artistica tematica e culturale. La inusuale rappresentazione del
dipinto parigino, dove figure nude e figure diversamente vestite creano
un’atmosfera di intesa e di sospensione temporale, rivela la sua valenza
allegorica in termini di allegoria musicale. Per la nuda alla fonte bisogna
ricorrere all’immagine della poesia nella serie dei cosiddetti Tarocchi del
Mantegna, dove una figura femminile posta sul Parnaso si appresta a compiere un
rito di purificazione lustrare. Così la contaminazione della nuda del
dipinto del Louvre con la personificazione della Temperanza contribuisce, anche
attraverso la dimensione temporale, a conferire al dipinto un significato
filosofico musicale.
Un dipinto di quotidianità
matrimoniale e di allegoria filosofica invece è stato da ultimo definito
l’Amor sacro e profano ; il dipinto tizianesco, eseguito fra il 1514 e il
Dopo la precoce morte di Giorgione la
sopravvivenza della mitologia nella cultura artistica veneta del Rinascimento
resta affidata essenzialmente a Tiziano e solo in parte ad altri artisti come
Sebastiano del Piombo, autore della splendida Morte di Adone agli Uffizi ,
replicata da Baldassarre Peruzzi negli affreschi della sala delle Prospettive
nella villa di Agostino Chigi a Paris Bordon e a Palma il Vecchio e solo
più tardi a Tintoretto, seguito dalle solari composizioni di Veronese.
Bibliografia
La geografia delle corti italiane
presenta alcuni caratteri comuni che configureranno gli usi, i costumi, il
pensiero, l’arte e la cultura fino all’età contemporanea. Persistenze feudali
caratterizzano il territorio italiano dove ai Comuni succedono le Signorie che
accentrano i poteri comunali in una sola persona. Dinastie diverse sono volte
così a costituire piccole corti o a configurarsi in Stati con
caratteristiche politiche e finanziarie che preludono ai grandi Stati europei
del Cinquecento.
Ma non è possibile tracciare uno
sviluppo unitario e sincronico per le diverse corti italiane; infatti mentre
fra la fine del Trecento e il primo Quattrocento le corti del centro-nord emergevano
come evoluzioni di istituzioni comunali, al sud il potere baronale non fu
arginato nemmeno dall’unificazione del regno delle due Sicilie con gli Aragona.
Il rafforzamento dell’effettivo potere territoriale della curia pontificia
rappresenta un caso del tutto particolare grazie alla disponibilità
finanziaria e alle capacità politiche a livello internazionale del
papato. Anche a Firenze l’affermazione di un potere oligarchico
sull’instabilità delle istituzioni comunali ha permesso al patriziato di
dominare attraverso il controllo delle corporazioni più importanti; il
superamento di questo regime oligarchico avvenne con l’egemonia della famiglia
dei Medici, rispettosa almeno apparentemente, delle antiche istituzioni e degli
assetti della repubblica fiorentina.
A Venezia il potere oligarchico
detenuto da una classe politica ereditaria, nell’affermarsi anche
sull’entroterra, ha scalzato i poteri signorili; Padova e Verona vennero ben
presto fagocitate dalla repubblica veneziana e dalla sua azione civilizzatrice.
A nord-ovest il ducato milanese, del quale erano stati signori prima i Visconti
e poi gli Sforza, nonostante la violenta conquista da parte dei francesi,
rimase ben definito nei suoi confini e nella sua caratterizzazione culturale.
La situazione disomogenea delle corti
italiane è caratterizzata però da un progressivo sistema di
equilibrio con lo scopo di impedire ad un singolo stato di raggiungere
l’egemonia della penisola. La pace di Lodi stipulata nel 1454 sancì
dunque quella politica di equilibrio che inserì il sistema degli stati
italiani nel più ampio ambito degli stati europei. Infatti quando
Venezia incominciò ad espandersi nella pianura padana venne contrastata
dagli altri stati che si unirono in una lega, la lega di Cambrai, ed entrarono
in conflitto con la repubblica veneziana, riuscendo ad arginare la sua
espansione. Tale evento viene allegoricamente ma eloquentemente raffigurato da
Jacopo Palma il Giovane nel Palazzo Ducale a Venezia.
Ma la spedizione di Carlo VIII in
Italia, per far fronte alle irrequietezze di Ludovico il Moro, rivelò la
fragilità del sistema politico inaugurato dalla Pace di Lodi. La caduta
del ducato di Milano in mano degli spagnoli nel 1535, la cacciata dei Medici da
Firenze nel 1494 e nuovamente nel 1527, il Sacco di Roma nello stesso anno, in
seguito al quale il papa dovrà inchinarsi a Carlo V, e infine la
sottomissione di Napoli nell’orbita spagnola sono chiare manifestazioni di una
forte crisi politica, aggravata dalla spinte delle forze esterne non solo di
quelle francesi, spagnole ed imperiali ma anche di quelle dell’Oriente
mussulmano che dovranno essere fronteggiate soprattutto da Venezia. Ma tali
incursioni furono anche causa di veicolazione della cultura italiana in Europa,
rafforzata dagli scambi commerciali e dai legami matrimoniali che porteranno
artisti italiani nelle corti europee. E’ il caso non solo di Fontainebleau,
dove si trasferiranno Rosso Fiorentino e Francesco Primaticcio che lavoreranno
alla galleria di Francesco I e alla Galleria d'Ulisse e in altre sale del
Castello di Fontainebleau e solo più tardi, sotto Enrico II, anche
Niccolò dell'Abate, ma anche di Carlo V, uno dei grandi committenti di
Tiziano insieme al figlio e successore sui domini spagnoli, Filippo II, e
ancora di Rodolfo d’Asburgo, mecenate e raffinato collezionista, legato alla
cultura italiana.
La mitologia occupa un ruolo
significativo nella cultura delle corti italiane ed europee. L’interesse per i
miti antichi e per le favole di Ovidio in particolare si manifesta nell’ambito
delle corti alla fine del Quattrocento. A Ferrara, a Mantova, a Milano, a
Firenze il mito, nobilitato dall’autorità degli antichi, diveniva
materia adatta alle diverse manifestazioni della vita di corte attraverso la
letteratura, la musica, le rappresentazioni teatrali e naturalmente l’arte, sia
nelle decorazioni dei palazzi che nei dipinti commissionati agli artisti di
corte del momento. Dalla Favola di Orfeo alle Stanze di Poliziano fino alle
opere di Boiardo e Ariosto i miti ovidiani vengono ripresi come modelli e
assimilati in particolare nelle rielaborazioni cavalleresche dei poemi
contemporanei.
All’interno delle feste di corte le
rappresentazioni teatrali attingevano spesso alle favole mitologiche; queste
erano scelte in rapporto all’occasione da celebrare o commemorare e dunque
erano inventate in una stretta dimensione cortese. È il caso dell’Orfeo
di Poliziano rappresentato a Mantova nel 1480 (Pirrotta. 1975; Tissoni-
Benvenuti. 1986), o della Fabula di Cefalo e Procri di Niccolò da Correggio,
rappresentata nel
Insieme ad Orfeo, Bacco è uno
dei personaggi più ricorrenti nelle rappresentazioni mitologiche;
già presente nella scena finale dell’Orfeo di Poliziano un Trionfo di
Bacco e Arianna venne rappresentato in occasione del carnevale fiorentino del
1489. La mitologia entrava anche nelle rappresentazioni delle commedie dei
classici sotto forma di intermezzi; questi, originariamente semplici
composizioni musicali inserite nell’intervallo di una rappresentazione vanno
arricchendosi nella seconda metà del Quattrocento di un apparato scenico
sfarzoso caratterizzato da carri trionfali con esseri fantastici derivati
spesso dalla mitologia classica (Povoledo, 1959). A partire dal Cinquecento
vere e proprie favole per musica furono utilizzate quali intermezzi teatrali; a
Firenze in occasione delle Nozze di Cosimo I e di Eleonora di Toledo, il 9
luglio 1539 un corteo dionisiaco con Baccanti e satiri che cantavano e
ballavano venne introdotto durante uno degli intermedi con musica di Francesco
Corteccia «per non lasciare gli spettatori addormentati». Ancora a Firenze
l’Andromeda di Jacopo Cicognini
venne rappresentata come intermezzo nel
Con la pace di Cateau- Cambresis,
firmata il 3 aprile 1559, si chiuderà il conflitto fra Francia e Spagna
sulle terre italiane; i domini cortesi rimarranno nell’orbita spagnola per cui
la realtà delle corti italiane incomincia a perdere la sua
caratterizzazione e progressivamente le piccole corti verranno assorbite
nell’orbita del dominio della Chiesa o delle potenze europee.
Bibliografia
La sovranità del papato era
estesa nel Quattrocento, oltre che alle grandi corti come quella del regno
delle due Sicilie, alle signorie dei Montefeltro a Urbino, dei Malatesta a Rimini
e dei Gonzaga a Mantova.
Sigismondo Pandolfo Malatesta , signore
di Rimini, Fano e Senigallia fu la tipica figura del signore italiano del
Rinascimento, uomo colto, protettore delle arti, committente di importanti
opere di fortificazioni e di difesa, ma anche di opere legate alla pietà
religiosa e alla sua celebrazione come il tempio Malatestiano , architettura
insigne di Leon Battista Alberti, un monumento classico piuttosto encomiastico
e celebrativo, come rivelano esplicitamente le iscrizioni sulle due lastre
marmoree poste sulle fiancate laterali che religioso.
All’interno una complessa decorazione a
rilievo, opera di Agostino di Duccio e della sua bottega, riveste i pilastri
delle sei cappelle lungo la navata della chiesa di San Francesco egregiamente
restaurata "all’antica" da Matteo de’ Pasti su progetto
dell’architetto fiorentino. Il programma iconografico della decorazione a
rilievo di immagini vibranti dai panneggi mossi è informato alla
tradizione enciclopedica e annovera apocalittiche figure di Profeti e Sibille,
immagini di Virtù insieme a putti danzanti, a sensuali Muse accompagnate
da splendide Arti Liberali e carri astrologici con la sequenza delle
divinità planetarie.
Ma la politica spregiudicata del
Malatesta che lo portò a partecipare alle guerre d’Italia fra il 1433 e
il 1463, alleandosi ora con l’una ora con l’altra signoria ed attirandosi odi e
vendette da parte degli Sforza di Milano, di Federico da Montefeltro, di
Alfonso d’Aragona e dello stesso pontefice Pio II, determinò la perdita
di tutti i suoi territori eccetto Rimini che alla sua morte nel 1463
passò allo Stato della Chiesa.
Anche le vicende di Federico da
Montefeltro furono complesse e spesso macchiate di sangue. Il suo ruolo di
condottiero e di principe illuminato viene visualizzato negli splendidi
ritratti dei maestri fiamminghi e di Piero della Francesca . Figlio
illegittimo, salito al potere dopo l’uccisione del fratello Oddantonio,
Federico venne insignito nel 1474 dell’ordine della giarrettiera e
dell’ermellino. La corte di Urbino, dove passarono le menti più
illuminate della cultura del tempo da Leon Battista Alberti a Piero della
Francesca a Raffaello a Bramante, a Baldassarre Castiglione, divenne il modello
di corte ideale.
La prevalenza della cultura scientifica
da una parte e la sopravvivenza della tradizione medievale nei temi
enciclopedici e sapienziali dello studiolo e delle tarsie nelle porte del
Palazzo Ducale ha determinato una quasi totale assenza di decorazioni
mitologiche ad Urbino. Oltre alla presenza di putti nelle decorazioni del
camino marmoreo della sala degli angeli il mito fa la sua comparsa
nell’appartamento di Battista Sforza , moglie di Federico, dove le figure
mitologiche di Ercole e Jole sono rappresentate nelle due sculture che
affiancano il camino marmoreo .
Infine nel tempietto cosiddetto delle
Muse la serie completa delle nove Muse è accompagnata da Apollo con la
sua immancabile lira. I dipinti a figura intera attribuiti a Giovanni Santi, il
padre di Raffaello, si conservano alla Galleria Corsini di Firenze e sono molto
vicine alla serie di miniature dallo stesso soggetto contenute in quel
codicetto miniato di Ludovico Lazzarelli, (Urb.Lat. 771; Biblioteca Apostolica
Vaticana), già dedicato a Borso d’Este e solo successivamente a Federico,
dove le Muse e le divinità planetarie, rappresentate in serie
sequenziali, in realtà si corrispondono secondo una struttura armonica
di derivazione platonica che informava la cultura di fine Quattrocento. Le
iconografie delle Muse e delle divinità planetarie sono derivate a loro
volta dai Tarocchi cosiddetti del Mantegna, una serie di incisioni in due
diverse redazioni connotate con la lettera E ed S che comprendevano insieme
alle Muse e ai Pianeti la serie dedicata all’età della vita e alle condizioni
umane, alle Virtù e alle Arti Liberali nel rispetto della tradizione
enciclopedica.
Ma poco distante da Urbino ancora le
divinità mitologiche stanno a festeggiare sui carri addobbati Camilla
d’Aragona che si unisce in matrimonio con Costanzo Sforza, fratello di
Battista, moglie di Federico da Montefeltro, nel
Bibliografia
La signoria medicea a Firenze, a
partire dalla metà del Quattrocento, rivestì un ruolo
fondamentale nel panorama degli Stati italiani sia da un punto di vista politico
che culturale. Il forte legame con la Chiesa attraverso la continuità
della presenza di questa famiglia sul soglio pontificio, da Leone X a Clemente
VII a Pio IV, ha determinato un'affermazione della cultura e dell’arte
fiorentina con figure di primo piano.
A Firenze la pittura a soggetto
mitologico e profano incomincia ad affermarsi fin dalla fine del Trecento per
trovare espansione nel Quattrocento attraverso una produzione ad uso privato e
domestico. Nella decorazione delle abitazioni nobiliari, come quella di Palazzo
Davanzati, ma anche nelle pitture di spalliere e sovrapporte la pittura profana
appare legata ancora alla cultura cortese e alla tradizione stilistica
franco-borgognona. Soggetti profani popolano anche quegli oggetti di arredamento
come i cassoni, i deschi da parto, i cofanetti, i forzieri e i forzierini per
lo più legati alla vita matrimoniale e spesso informati alle tematiche
amorose o ai soggetti esemplari volti ad esaltare le virtù degli sposi;
in rapporto a tali tematiche incominceranno ad affermarsi alla metà del
secolo le mitografie classiche prima narrate e poi allegorizzate nei dipinti di
più elevato livello culturale come quelli commissionati dalle grandi
famiglie fiorentine prima fra tutte i Medici.
Legate ai tradizionali temi
calendariali sono le maioliche che
decoravano lo studietto di Piero de’ Medici in Palazzo Vecchio ad opera di Luca
della Robbia e oggi al Victoria and Albert Museum di Londra. Le figurazioni dei
mesi, connesse ai lavori nei campi, sono arricchite anche dai segni zodiacali,
secondo un’iconografia che generalmente era stata assunta nei portali o sulle
facciate delle cattedrali romaniche in rapporto a un più ampio programma
enciclopedico. Nel camerino di Piero invece, un ambiente adibito alla raccolta
di oggetti ma anche alla meditazione, i temi stagionali sono piuttosto legati
al loro valore temporale consono ad un luogo di studio e di riflessione dove la
dimensione culturale viene scandita dal trascorrere del tempo.
Accanto alle «pitture di favole che -
come scrive Vasari - erano per lo più tolte da Ovidio e da altri poeti
greci e latini» come i famosi pannelli dipinti da Piero di Cosimo per Francesco
del Pugliese, dedicati all’età primitiva e al mito di Vulcano, o per la
famiglia Vespucci sui temi dionisiaci, si pongono le più complesse
allegorie filosofiche commissionate da Lorenzo dei Medici a Botticelli che
eseguì fra il 1475 e il 1478 le allegorie sul mito di Venere, la Nascita
di Venere , la Primavera o Regno di Venere , Marte e Venere (Londra, National
Gallery) il dipinto con Minerva e il Centauro agli Uffizi. La mitologia veniva
spesso ad assumere nelle corti italiane non solo un ruolo culturale ma anche
celebrativo del Principe e della sua corte.
A Luca Signorelli era stato
commissionato nel 1490 un dipinto oggi andato perduto che rappresentava il
Regno di Pan e riproponeva in termini allegorici proprio l’atmosfera arcadica
della corte medicea nella villa di Careggi, dove un intellettuale gioco di
parole riconduce il dio Pan attraverso il suo significato etimologico pan-
tutto, al cosmo, come indiretta celebrazione di Cosimo de’ Medici.
Il mito in termini stagionali ma anche
celebrativi è presente anche nel fregio di Poggio a Caiano , la villa
progettata da Giuliano da Sangallo e decorata dalla cerchia di Luca della
Robbia ed in particolare da Bertoldo di Giovanni entro il 1491, con temi legati
al ciclo cosmogonico della creazione, all’età dell’oro, del bronzo e del
ferro e dunque alla ciclicità temporale e stagionale funzionale alla
collocazione del fregio sulla facciata di una villa di campagna ma anche alla
celebrazione del principato di Lorenzo che, come recita il suo motto «Les temps
reviens», è destinato a rinnovarsi ciclicamente.
Le tristi vicende che hanno
caratterizzato la Signoria fiorentina dopo la morte di Lorenzo nel 1492, dalla
repubblica del Savonarola alla fuoriuscita dei Medici da Firenze, hanno
lasciato la città priva per qualche anno di testimonianze culturali
legate alla corte, mentre i più quotati artisti fiorentini venivano
chiamati a Roma dove, in nome della renovatio urbis, si andavano aprendo
numerosi cantieri non solo per la costruzione e il restauro di edifici, ma
anche per grandi imprese decorative. Già alla metà del Quattrocento
Beato Angelico era stato invitato per la decorazione della Cappella Niccolina;
sotto il pontificato di Sisto IV é la volta della Cappella Sistina, dove una
schiera di artisti fiorentini e umbri, da Botticelli a Piero di Cosimo, da
Cosimo Rosselli a Perugino hanno decorato le pareti della cappella pontificia
con storie in parallelo dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La violenta critica di Girolamo
Savonarola agli antichi miti si pone dunque agli antipodi della tendenza
umanistica della cultura di fine secolo. I poeti antichi, come Omero, Virgilio,
Ovidio, vengono condannati: in particolare le Metamorfosi con le storie degli
dei e delle loro vicende amorose inficiate di erotismo, sono considerate
immorali. Ad esse si contrappone l’Antiovidianus, opera probabilmente di un
anonimo francescano milanese, che si esortava a leggere nelle scuole al posto
delle immonde favole di Ovidio.
Quando nel 1497 fu stampata a Venezia
la prima edizione in volgare delle Metamorfosi la critica e il biasimo del
Patriarca della città si appuntò soprattutto contro le
illustrazioni che venivano reputate indecenti e dunque spesso censurate.
Il rigorismo antiumanistico di
Savonarola, sebbene rimasto isolato alle soglie del Cinquecento, quando
l’esplosione della mitologia travolgerà le esigenze dei seguaci del
monaco, già condannato al rogo nel 1498, si riconoscerà nella
seconda metà del Cinquecento nelle tendenze ostili alla poesia classica
da parte della Controriforma.
Bibliografia
Di corte si può parlare dunque
anche per lo stato della Chiesa in particolare a partire da Nicolò V
che, in seguito al periodo avignonese e al pontificato di Martino V, al quale
si deve un progetto di bonifica della città, diede inizio ad un’opera di
propaganda politica attraverso un rinnovamento architettonico e la
progettazione della città.
Dopo il Concilio di Firenze nel 1439 e
l’unione delle due Chiese, sotto Eugenio IV, più forte si era
configurata l’esigenza di far coincidere l’immagine di Roma con l’immagine
della Chiesa, che si esprimeva nel potere pontificio, centro propulsore delle
crociate. Con l’ingresso di Maometto a Costantinopoli nel 1453 e la fine
dell’Impero romano d’Oriente, Roma sentì sempre più la
necessità di una difesa dall’esterno. L’intervento di Nicolò V
è dunque rivolto alla città e al Borgo; pertanto mentre il
ripristino delle mura urbane rispondeva ad un’esigenza di difesa contro i
pericoli esterni, il restauro delle quaranta chiese stazionali tendeva a
riconfermare l’idea del pellegrinaggio che trovava una sua compiuta
manifestazione nel Giubileo indetto dallo stesso Parentucelli nel 1450. La
ristrutturazione del Borgo infine, con la riedificazione del Palazzo pontificio
e della basilica di San Pietro, veniva a definire una cittadella all’interno
della città che si giustificava alla luce dei pericoli e delle lotte
intestine dovute al contrasto con la classe baronale e alla crescente
divaricazione fra curia e civitas espressa nella rivolta di Stefano Porcari nel
1453, conclusa immediatamente con l’impiccagione del suo promotore.
La situazione della corte pontificia
venne dunque regolata dai rapporti con l’esterno guidati dalla preminenza delle
famiglie che si susseguirono al soglio pontificio: dai Piccolomini di Siena, ai
Barbo di Venezia, ai Della Rovere di Savona, ai Medici di Firenze e ai Farnese.
Queste condizionarono anche la politica culturale con la presenza di artisti a
Roma provenienti da scuole diverse che contribuirono in modo determinante alla
renovatio urbis. La presenza di maestri umbri e fiorentini e di artisti
provenienti dal nord hanno infatti caratterizzato la produzione artistica a
Roma fra Quattrocento e Cinquecento commissionata dalle grandi famiglie romane
e dalla curia pontificia.
La scelta in particolare di soggetti
mitologici, come le fatiche di Ercole per la decorazione di Palazzetto Barbo,
commissionata dal pontefice Paolo II, non costituisce un unicum nella cultura
romana. Al pontefice veneziano si deve una delle prime collezioni archeologiche
ancora legata alla sua famiglia e alla sua città di origine: Venezia.
Bisognerà attendere il pontificato di Giulio II perché si costituisca la
più importante collezione di antichità sistemata nel Belvedere da
Giulio II dopo l'intervento bramantesco.
Già nella porta bronzea della basilica
di San Pietro (1433-45) Filarete aveva raffigurato insieme alle vicende
storiche contemporanee, che avevano impegnato il pontefice Eugenio IV nel
concilio di Ferrara e Firenze, episodi storici e mitologici derivati dal
repertorio miniaturistico medievale ma anche dalle cronache universali e dai
bestiari. A questi ultimi in particolare si rifarà anche Pinturicchio
nella decorazione del soffitto dei semidei Palazzo di Domenico della Rovere poi
noto come Palazzo dei Penitenzieri, dagli ultimi proprietari i padri
penitenzieri di San Pietro ai SS. Apostoli, dove figure mitologiche tratte dal
repertorio classico convivono con figure mostruose e grottesche derivate dalla
tradizione medievale dei bestiari. Nel Palazzo la mitologia sopravvive anche
nel ciclo dei Mesi, raffigurato ancora da Pinturicchio nella sala adiacente a
quella dei semidei. Una struttura calendariale dove insieme ai Mesi sono
rappresentati i miti relativi alla nascita dei segni zodiacali. Tale variante
tematica verrà riproposta da Baldassarre Peruzzi nel soffitto della
loggia di Galateanella villa Farnesina dove è rappresentato l’oroscopo
di Agostino Chigi. Pochi anni dopo il ciclo di Palazzo della Rovere
servirà da modello per la sala dello zodiaco decorata da Giovanni Maria
Falconetto nel Palazzo d’Arco a Mantova intorno al 1520.
Il mito entra anche nei Palazzi
Vaticani alla fine del Quattrocento; con l’elezione al soglio pontificio di
Alessandro VI Borgia nel 1492, la razionale cultura albertiana cederà il
passo ad interessi filosofici ed ermetici grazie anche alla presenza presso la
corte pontificia di personaggi come Annio da Viterbo, illustre antiquario e
falsario che ha contribuito a diffondere nella cultura romana la moda
dell’orientalismo e dell’egittologia, già introdotta dal testo di
Orapollo, gli Hieroglyphica, un testo ermetico probabilmente del III secolo
d.C., ma ritenuto appartenente all’antica cultura egiziana ed interpretato dai
filosofi neoplatonici in termini simbolici. Il mito egiziano di Iside e Osiride
è stato infatti rappresentato da Pinturicchio nell’appartamento del
pontefice nell’ambito di un’allegoria sapienziale di salvazione e resurrezione
volta a celebrare Alessandro VI come vicario di Cristo. La ricca decorazione
dell'appartamento pontificio testimonia anche di quel gusto per le grottesche
che erano diventate di moda dopo la scoperta della Domus Aurea e delle sue
antiche decorazioni zoomorfe
Con l’inizio del Cinquecento la
decorazione mitologica troverà espansione non solo nei palazzi ma
soprattutto nelle ville di Roma e del territorio circostante.
Fra le corti più splendide di
inizio secolo si pone quella del banchiere senese Agostino Chigi, il cui potere
più che territoriale si configurava in termini economici. La grossa
fortuna economica del senese a Roma accumulatasi dai proventi della vendita
dell‘allume della Tolfa determinò un forte amicizia e dunque una
protezione da parte del pontefice Leone X. La corte di Agostino aveva luogo
nella villa alla Lungara che nelle forme architettoniche di Raffaello riproponeva
l’ideale di villa classica. All’interno la favola di Amore e Psiche insieme
alle storie di Ercole, agli amori di Giove e ai miti cosmogonici convivono con
un cielo astrologico che configura l’oroscopo del committente Agostino Chigi ad
opera dei più insigni maestri del tempo: lo stesso Raffaello e la sua
bottega, Sodoma, Baldassarre Peruzzi, il veneziano Sebastiano del Piombo.
Si deve ad un papa Medici la
decorazione di una villa a Monte Mario dove soggetti mitologici tratti dalle
favole di Ovidio convivono con le divinità classiche della collezione di
antichità che la famiglia dei Medici andava costituendo, arredando fra
l’altro la loggia e il giardino della
villa Madama. Anche nella preziosa decorazione a stucco e ad affresco per mano
di Giovanni da Udine e Giulio Romano la mitologia è per lo più
finalizzata alla celebrazione di Leone X in rapporto alla simbologia solare e
ai miti naturalistici con riferimento anche all’araldica medicea.
Negli stessi anni Perin del Vaga e
Giovanni da Udine decoravano il soffitto della sala dei pontefici in Vaticano
dove una rappresentazione astrologica è nuovamente programmata in
funzione encomiastica nei riguardi del pontefice ancora una volta attraverso la
simbologia solare.
Decorazioni mitologiche caratterizzano anche
le committenze di Clemente VII, il quale già quando era cardinale aveva
scritto una lettera a Mario Maffei, vescovo d’Aquino a proposito dei soggetti
mitologici da rappresentare a villa Madama: «Quanto alle storie o fabule -
scrive Giulio de’Medici il 17 Giugno 1520 da Firenze - piacemi sieno cose varie
ne mi curo sieno distese e continuate et sopra tutto desidero sieno cose note
[...] Le cose di Ovidio di che Vostra P.tà mi scrive mi vanno a gusto».
Ma i soggetti mitologici erano fra
quelli preferiti in quanto ritenuti più adatti alle decorazioni oltre
che di camere da letto e camere private, come viene raccomandato e poi
codificato dai trattati del tempo, anche di quei piccoli ambienti camere da
bagno o stufette che incominciano a caratterizzare i palazzi rinascimentali
già dalla seconda metà del Quattrocento. Le stufette erano
fornite di accessori da bagno e di uno speciale sistema di rifornimento
idraulico. Francesco di Giorgio Martini mise a frutto le sue conoscenze di
ingegneria idraulica per la progettazione di tali impianti per due ambienti
adibiti a questo uso nel Palazzo ducale di Urbino. Questi ambienti venivano
spesso affrescati da soggetti mitologici per lo più legati all’acqua,
nel tradizionale rispetto dell’antica teoria del decorum, oppure da quei
soggetti di evasione naturalistici o amorosi che erano consigliati per le
stanze private. Nella stufetta del cardinal Bibbiena nel Palazzo Vaticano
progettata e decorata da Raffaello e dai suoi aiuti Giovanni da Udine, Giovan
Francesco Penni e Giulio Romano, fra il 1513 e il 1516, prevalgono scene
dedicate al mito di Venere, ma anche alla nascita di Erittonio e al mito di Pan
e Siringa. All’inizio del pontificato di Clemente VII, fra il 1523 e il 1525,
si suole far risalire la decorazione di un’altra stufetta a Castel Sant’Angelo
che prende il nome dallo stesso pontefice per la presenza del suo stemma sulla
porta di accesso e della impresa «candor illesus» all’interno della
decorazione. Qui oltre ai miti legati a Venere e a Diana, una serie di divinità
mitologiche, da Giove a Mercurio ad Apollo, è rappresentata attraverso
gli attributi delle singole divinità graziosamente appoggiate su troni
affrescati intorno al vano della vasca quasi a simulare dei tableaux vivants
come se gli dei fossero scesi dai loro troni per andare a bagnarsi!
Soggetti mitologici decorano ancora
Palazzi e ville degli anni Venti e Trenta del Cinquecento di illustri
personaggi legati alla corte pontificia. E’ il caso, per esempio, di Palazzo
Balami, residenza del medico del pontefice, Ferdinando Balami, il quale fece
decorare il suo palazzetto in piazza Nicosia con i miti di Ercole e gli amori
degli dei.
Miti naturalistici invece
caratterizzano la villa a Montemario di Blosio Palladio, umanista e poeta,
membro dell’Accademia pomponiana, uomo di corte di Leone X e segretario
pontificio da Clemente VII a Giulio III. La vigna con il casino sulle pendici
di Monte Mario veniva nominata "la Blosiana"; di non grandi
dimensioni la villa doveva essere circondata da un giardino che esprimeva tutta
la poetica naturalistica in termini antichi sulla base della trattatistica
latina da Varrone a Catone a Columella. La natura entra anche all’interno del
casino nelle decorazioni naturalistiche ornamentali e mitologiche. In
particolare la scelta di miti è legata agli elementi: da Cerere a
Nettuno a Vulcano e a Giunone sui loro carri affiancati da episodi mitologici
connessi alle loro vicende.
Dopo i tragici eventi legati al Sacco
di Roma nel 1527, di cui rimangono tracce eloquenti sugli affreschi sfregiati
della sala delle Prospettive nella villa di Agostino Chigi, con il pontificato
di Paolo III Farnese Roma incomincia a rifiorire con grandi imprese artistiche:
dal Palazzo della Cancelleria a Castel Sant’Angelo, dove il mito è stato
scelto anche da Alessandro Farnese, salito al soglio pontificio nel 1534 col
nome di Paolo III, per la decorazione del suo appartamento privato. A Castel
Sant’Angelo la mitologia convive insieme alle storie antiche raffigurate in
diversi ambienti della fortezza pontificia: dalle origini mitiche di Roma agli
episodi della vita di Adriano ad Alessandro Magno, quest’ultimo rappresentato
in più scene sulle pareti della sala Paolina a celebrare nel nome di
battesimo lo stesso pontefice. Nelle sale adiacenti Perin del Vaga esegue le
storie di Perseo ed Andromeda e di Amore e Psiche contenute nei fregi che
corrono lungo la parte alta delle pareti, nel rispetto di una tipologia
decorativa vigente a Roma, ma non solo, a partire fin dall’inizio del secolo
nei precedenti della villa di Agostino Chigi alla Lungara.
Negli stessi anni è da collocare
anche la decorazione del Palazzo Stati Cenci a Sant'Eustachio decorato da Perin
del Vaga ed artisti della sua bottega come Luzio Romano fra il 1543 e il 1550
circa su committenza di Cristoforo Stati. Il fregio con gli "amorosi
diletti degli dei" si inserisce nella tradizione di pitture
erotico-mitologiche che nel corso della prima metà del Cinquecento
troveranno fortuna e diffusione anche attraverso la produzione incisoria nelle
corti europee, prima fra tutte quella di Fontainebleau. I soggetti della
decorazione del palazzo romano sono derivati dalle Metamorfosi e dai Fasti di
Ovidio e rappresentano gli amori di Marte e Venere, di Saturno e Fillira , di
Giove e Danae e personaggi mitologici legati ai temi musicali-sapienziali,
Minerva insieme alle Muse e alle Pieridi.
L’astrologia al pari della mitologia si
fa portatrice dei messaggi ideologici dei signori ed anche dei pontefici della
grande corte romana. Dopo Leone X Giulio III Del Monte commissionerà nel
1550 la complessa decorazione mitologico-astrologica della sua villa nei pressi
della via Flaminia. Qui miti stagionali raffigurati sulle pareti e sulle volte
delle sale della villa ad opera di Taddeo Zuccari e Prospero Fontana convivono
con più complesse rappresentazioni naturalistiche, a rilievo e ad
affresco, che decoravano la loggia sopra al ninfeo dedicato all’acqua vergine
al centro del cortile della villa. Qui Giorgio Vasari, fra gli architetti della
villa, è forse l’autore della serie di Invenzioni di Annibal Caro, noto
umanista ed intellettuale del tempo, che proponevano raffigurazioni legate alle
feste propiziatorie romane dedicate a Cerere, Bacco e a Flora. All’interno del
ninfeo, una decorazione astrologica, opera di Prospero Fontana, rappresenta
segni zodiacali, divinità planetarie e trionfi stagionali disposti
secondo la configurazione della carta del cielo in coincidenza con la data di
nascita di Giulio III Del Monte, il 19 Settembre 1487.
Ancora una committenza Del Monte informa
la decorazione della loggia di Palazzo Firenze eseguita fra il 1553 e il 1555
ad opera di Prospero Fontana. Al pianoterra la complessa ideazione della
decorazione della volta nella sala grande comprende scene dedicate alle storie
di Giove, mentre al primo piano la rappresentazione delle Muse e delle Pieridi
e di episodi del mito di Ercole vengono finalizzati a rappresentazioni
allegoriche legate al committente Balduino del Monte inequivocabilmente
rappresentato e celebrato nelle sale attraverso le sue imprese araldiche.
I miti bacchici ritornano nel salotto
di Palazzo Farnese , la nuova residenza della famiglia romana progettata da
Antonio da Sangallo. Nel salotto privato al primo piano Alessandro Farnese si
era fatto decorare un fregio con le storie di Bacco inneggianti alla
fecondità e alla rigenerazione.
Negli stessi anni del pontificato del
Monte la mitologia trova una particolare affermazione nelle decorazioni di
Palazzo Capodiferro Spada commissionate da Gerolamo Capodiferro, già
annoverato fra i cardinali «avvezzi a vivere licenziosi». I temi mitologici
prescelti, in continuità con le decorazioni farnesiane a Castel
Sant’Angelo, sono legati al mito di Amore e Psiche , raccontato da Apuleio
nell’Asino d’oro, alle storie di Callisto derivate dalle Metamorfosi di Ovidio
come anche le storie di Perseo o i miti che affollano la Galleria degli stucchi
; miti che vengono rappresentati secondo un programma teorico incentrato su una
interpretazione della mitologia profana in chiave di teologia platonica,
congeniale sia alle esperienze culturali di Girolamo Capodiferro alla corte di
Enrico II di Francia, che alle sue esigenze religiose in pieno clima di
Controriforma.
Dopo la metà del secolo la
mitologia sopravvive a stento nella cultura romana, fortemente moralizzata dal
pontificato di Paolo IV Carafa. Ma alla fine degli anni Cinquanta con
l’elezione al soglio pontificio di un papa Medici, Pio IV, la cultura classica
e la mitologia ritornano in auge anche negli stessi luoghi vaticani. A partire
dal Casino di Pio IV , nei giardini vaticani, già iniziato dal Carafa,
dove è apposta la data 1561, agli affreschi rigorosamente religiosi
all’interno, intervallati solo da qualche figura allegorica secondo la
tradizione artistica e compositiva del tempo, si affiancano le decorazioni
sfacciatamente classicheggianti all’esterno. Sui vari edifici del casino della
loggia e delle edicole sono rappresentati i temi cari alla tradizione medicea
che vertono sulla ciclicità temporale attraverso i miti di Aurora, di Apollo,
di Giove, ma anche attraverso le divinità marine e rigenerazionali a
comporre un testo iconografico adeguato al luogo, simbolico della rinascita
spirituale, sotto gli auspici dell’antiquario Pirro Ligorio, autore in quegli
anni del Libro delle Antichità nel quale si tratta di alcune cose sacre
et immagini ornamenti degli dei de’ gentili e delli loro origini, alla base
delle formulazioni iconografiche della decorazione del Casino ma anche della
Loggia di Pio IV al terzo piano dei Palazzi Vaticani. Qui, all’interno di un
contesto culturale religioso, si pongono una serie di temi legati alla
ciclicità e alla temporalità con il ricorso all’ormai affermata
produzione mitografica ed emblematica di metà Cinquecento.
Negli ultimi decenni del Cinquecento la
mitologia quasi del tutto assente alla corte pontificia sopravvive in
particolare nelle decorazioni medicee: da Palazzo Firenze a Villa Medici fino
Palazzo Rucellai dove Jacopo Zucchi, alla partenza di Ferdinando de Medici da
Roma per Firenze in occasione della sua nomina a granduca nel 1589,
eseguirà la grandiosa decorazione astrologico-mitologica nella galleria
del palazzo romano del fiorentino Orazio Rucellai, dettagliatamente descritta
dallo stesso artista in un testo, pubblicato successivamente a Roma nel 1602,
dal titolo Discorso sopra li Dei de’ Gentili.
Bibliografia
L’estensione dello Stato della Chiesa
oltre il territorio del Patrimonio di San Pietro, vale a dire il Lazio, fino
all’Umbria, alle Marche, alla Romagna e a parte dell’Emilia, comportò
una sovranità del papato su molte famiglie nobili che vennero insignite
di feudi sul territorio. Il Patrimonio di San Pietro divenne teatro di lotte
fra le famiglie romane, dai Farnese, agli Orsini, ai Colonna per l’acquisizione
di territori, regolate dallo schieramento del pontefice a favore dell’una e
dell’altra.
L’affermazione dei Farnese a Roma venne
sancita con il pontificato di Paolo III. La decorazione dell’appartamento
pontificio in Castel Sant’Angelo rispondeva a quel gusto profano che informava
la cultura umanistica del tempo. Così la corte farnesiana, già
splendida a Roma, troverà espansione nel territorio, non solo nella
più famosa residenza di Caprarola, ma già nelle rocche e nei palazzi
che a partire dalla fine del Quattrocento costellavano i possedimenti
farnesiani. La politica filopapale aveva infatti fin dall’XI secolo
caratterizzato i Farnese che con Ranuccio incominciarono ad assumere un ruolo
predominante sul territorio a nord-/nord-est di Roma. A Ranuccio e alla sua
investitura pontificia infatti è dedicato l’affresco superstite della
loggia della rocca di Capodimonte, uno dei palazzi farnesiani prospiciente il
lago di Bolsena che venne trasformato per mano di Antonio da Sangallo da Rocca
a Palazzo rinascimentale.
In termini analoghi tale trasformazione
è documentata anche per il palazzo di Valentano: in occasione del
matrimonio (1488) di uno dei nipoti di Ranuccio Farnese, ovvero Angelo di
Pierluigi seniore, che sposò Lella Orsini, venne costruito il cortile interno,
come dimostrano i motivi decorativi dei capitelli delle colonne con la rosa
Orsini intrecciata ai gigli farnesiani; questo intervento segnò una
sostanziale trasformazione della tipologia e dunque della funzione
dell’edificio adibito piuttosto ad abitazione che a difesa del feudo.
All’interno le scarse decorazioni rimaste testimoniano di un’antica grandezza
attraverso immagini genealogiche e celebrative.
Ancora ad un’occasione matrimoniale
risale il Palazzo Farnese a Gradoli , che, sul modello del palazzo romano venne
progettato da Antonio da Sangallo subito dopo l’esperienza di Palazzo
Baldassini a Roma. I soggetti mitologici presenti nella decorazione della
loggia, sulla base dei modelli incisori del maestro IB e l’uccello usciti dalla
bottega di Marcantonio Raimondi, si affiancano a soggetti del repertorio
archeologico ed antiquario romano.
Ma la cultura farnesiana sul territorio
si rintraccia anche in palazzi di famiglie legate ai Farnese o per legami
matrimoniali, come gli Orsini e gli Sforza di Santafiora o per legami
diplomatici come nel caso di Tiberio Crispo, già castellano di Castel
Sant’Angelo proprio negli anni del pontificato di Paolo III, il quale fece
decorare la residenza di Bolsena con temi spesso e volentieri in rapporto con
le decorazioni farnesiane di Castello. Il mito di Amore e Psiche, che aveva
trovato particolare affermazione nella cultura mitologica del Cinquecento, a
partire dalla loggia di Psiche nella villa di Agostino Chigi, alle decorazioni
dell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo, viene diffuso anche
grazie alle incisioni di Michele Coxie, documentate da Vasari, sulle quali si
basano le più tarde incisioni di Agostino Veneziano e del Maestro del
Dado (1535). Il mito di Apuleio verrà riproposto insieme alle storie di
Alessandro Magno da Taddeo Zuccari nel palazzo Orsini di Bracciano ed esportato
al nord tramite Perin del Vaga nel palazzo Doria a Genova. Qui Andrea Semino
negli anni Ottanta del Cinquecento dedicherà a Amore e Psiche la
decorazione della volta della sala di palazzo Pallavicino-Cambiaso.
Commissionati dopo la metà del
secolo da Alessandro Farnese, gli affreschi del palazzo di Caprarola ,
costituiscono un testo fondamentale per la cultura mitologica nel territorio.
Il sofisticato programma iconografico venne formulato da Annibal Caro e da
Onofrio Panvinio e Fulvio Orsini. Nel pieno rispetto della teoria del decorum i
soggetti mitologici si piegano alle esigenze funzionali delle diverse camere
degli appartamenti estivi ed invernali dove lavorarono oltre a Taddeo, Federico
Zuccari, Jacopo Bertoia, Giovanni de’ Vecchi, Raffaellino da Reggio, Antonio
Tempesta ed altri artisti documentati a Caprarola a partire dal 1561.
Legato al palazzo di Caprarola sia per
rapporti matrimoniali che per rapporti artistici è il palazzo dei Conti
a Poli dove allegorie stagionali sono rese attraverso soggetti mitologici
tradizionali per tali raffigurazioni, Venere per la Primavera o Cerere per
l’Estate, mentre iconografie emiliane come Cupido che tempera amore e la Venere
scoperta dal satiro denunciano la paternità delle decorazioni attribuite
a Prospero Fontana.
Le Stagioni sono raffigurate attraverso
iconografie mitologiche anche nel palazzo di Bassano di Sutri, quando era
ancora di proprietà degli Anguillara prima della vendita del Palazzo ai
Giustiniani. La decorazione venne realizzata, tra il 1605 e il 1610, da
Bernardo Castello, Francesco Albani e Domenichino: il primo riproporrà
il classico mito raffellesco di Amore e Psiche, al secondo si deve la superba
galleria con il mito di Fetonte, Domenichino, infine, dedicherà alle
storie del mito di Diana la decorazione del camerino.
Una più articolata decorazione
mitologico-astrologica, vicina ancora agli affreschi di Caprarola, caratterizza
il palazzo della famiglia Cesi a Cantalupo. Negli affreschi, commissionati dal
cardinale Pierdonato Cesi agli inizi degli anni Settanta del Cinquecento, i
classici miti di Diana e Atteone, di Europa, di Apollo e Dafne si affiancano a
divinità mitologiche accoppiate poste in rapporto a costellazioni
zodiacali. La decorazione è infine completata, oltre che da paesaggi e
figurazioni a monocromo, da personificazioni di concetti astratti come la
Liberalità, il Tempo e la Sapienza che anticipano di qualche anno il
repertorio dei concetti in immagine della Iconologia di Cesare Ripa.
Un ciclo mitologico si snoda anche
nelle sale al pianterreno di un altro palazzo Cesi, quello ad Acquasparta di
proprietà di Federico il padre del fondatore dell'Accademia dei Lincei.
La decorazione, attribuita a Giovan Battista Lombardelli e aiuti e realizzata
intorno alla metà degli anni Ottanta del Cinquecento, è ricca di
soggetti mitologici: dalle storie di Ercole agli Amori di Giove al mito di
Venere e Adone fino agli episodi del mito di Narciso nel camerino, e alle
storie di Callisto nella più tarda sala commissionata probabilmente
proprio da Federico il Linceo.
In rapporto ai Farnese per legami
matrimoniali, anche gli Sforza di Santafiora, presenti nel territorio limitrofo
al Patrimonio di San Pietro a nord del lago di Bolsena, commissionarono diversi
palazzi dedicando alla mitologia parte della decorazione. A Proceno il palazzo
del cardinale Guidascanio decorato già in anni di Controriforma, intorno
al 1565 affianca ai soggetti biblici favole mitologiche derivate dalle
Metamorfosi di Ovidio. Anche nel più tardo palazzo di Segni decorato per
volere di Alessandro Conti Sforza nei pressi dei possedimenti dei Conti con i
quali gli Sforza condividevano la dinastia in seguito all’estinzione del ramo
dei Conti di Segni, la mitologia è presente come soggetto della
decorazione insieme al più attuale genere paesaggistico e alla serie dei
ritratti della famiglia.
Ma la mitologia è anche presente
nella maggior parte delle residenze degli Orsini a partire dalla decorazione
del palazzo Orsini a Cerveteri. La scleta, qui, di un raro mito, quello di
Polifemo, è da collegare alle vicende del committente, mentre altri
motivi piuttosto decorativi, come le tradizionali serie di puttini, rivelano un
gusto tipico della scuola raffaellesca e sono molto vicini ad alcune soluzioni
adottate nella decorazione di Castel Sant'Angelo su commissione di Paolo III,
il quale peraltro era entrato in possesso del palazzo di Cerveteri nel 1539.
A Monterotondo la scelta del mito di
Adone per i bellissimi affreschi eseguiti da Siciolante da Sermoneta nella sala
del piano nobile non è legata solo alla cultura classica o ad una
finalità puramente decorativa; infatti la rappresentazione, nella
sequenza della favola mitologica, dell’episodio della tintura delle rose di cui
parla Aftonio in rapporto alla morte di Adone si collega al significato
simbolico-araldico che celebra la famiglia romana attraverso il proprio
emblema. La mitologia è inoltre ampiamente presente nel fregio con
divinità marine del palazzo Orsini ad Anguillara come anche nella
decorazione attribuita a Taddeo Zuccari nel Castello Orsini sul lago di
Bracciano.
A San Gregorio in Sassola la mitologia
sopravvive negli anni del pontificato di Gregorio XIII nella residenza del
cardinale Prospero Santacroce, la cui sofisticata cultura si riflette nella sua
Biblioteca ma anche nella decorazione del palazzo di San Gregorio, dove il
ricco repertorio mitologico convive con figurazioni astrologiche, con
personificazioni, spesso supportate da motti e da emblemi, intrecciati agli
stemmi araldici del committente.
La mitologia è anche
protagonista nei giardini delle ville sul territorio laziale dal Sacro Bosco di
Vicino Orsini a Bomarzo ai giardini della Villa Lante a Bagnaia a quello di
Villa d’Este a Tivoli. Qui in particolare la mitologia è presente anche
nella decorazione della villa dove vengono riproposti, fra gli altri, il
modello raffaellesco del Concilio degli dei della Farnesina e il mito di Ercole
che campeggia anche nella loggia del Palazzo Farnese a Caprarola.
Mentre la mitologia verrà messa
all’Indice dalla Controriforma, nelle ville del territorio romano le
divinità antiche e le loro storie continueranno a godere di una notevole
vitalità nelle decorazioni dei secoli successivi a causa del carattere
di evasione legato alla dimensione dell’otium che fin dalla trattatistica
cinquecentesca aveva connotato la vita in villa. Basti pensare alle ville dei
colli Albani da villa Aldobrandini a Frascati a villa Mondragone, alla
Retirata, a Villa Falconieri (La Rufina) alla Rufinella, alla villa Sora
Boncompagni, alla villa Sacchetti Chigi a Castelfusano.
Bibliografia
L’origine della decorazione mitologica
si colloca nel movimento di rinascita umanistica ed archeologica della cultura
classica nel Quattrocento. Ma scarse sono le testimonianze rimaste e rare le
documentazioni letterarie. Bisognerà aspettare la metà del XVI
secolo per trovare delle più puntuali descrizioni dei soggetti adatti
alle decorazioni dei vari ambienti in particolare nel Trattato dell'arte della
pittura, scoltura et architettura di Gian Paolo Lomazzo, pubblicato a Milano
nel 1584, e in quello di Giovan Battista Armenini I veri precetti della
pittura, pubblicato nel
Nell’ambito della trattatistica
rinascimentale alle decorazioni mitologico-profane Leon Battista Alberti dedica
indirettamente solo poche righe nel libro IX del suo De re aedificatoria
scrivendo: «Negli ornamenti delle case di città deve ispirare un’aria di
severità molto maggiore che nelle ville; mentre in queste sono ammesse
tutte le seduzioni della leggiadria e del diletto» (Alberti [1966]: 788-789).
È subito evidente in questo passo, come in tutta la trattatistica
rinascimentale, l’affermazione della teoria del decorum, cioè di
ciò che conviene nel rapporto fra decorazione e funzione degli ambienti.
Oltre alla convenienza è il fine morale, espresso generalmente da
soggetti storici ed esemplari, che viene raccomandato per le pitture
soprattutto in luoghi di prestigio e di rappresentanza. Nel capitolo XXV del
suo trattato, dedicato a Quali pitture siano proporzionate ai palazzi reali,
case dei principi, Gian Paolo Lomazzo scrive: «trionfi e vittorie, consigli
militari e battaglie sanguinose in cui riguardando pare che gli animi nostri si
sollevino ai pensieri, a desideri di onore e di grandezza» (Lomazzo [1974]:
190). Ma l’insegnamento morale è una costante raccomandazione suggerita
fin dai trattati quattrocenteschi. Già Filarete, nel Trattato di
architettura (1461-64), raccomandava «cose morali e anche appartenenti secondo
i luoghi» (Averlino [1974]: 283). Cesare Cesariano nel suo commento a Vitruvio
scriveva: «acciocché le pitture imprimesse per varietà istructione in li
animi nostri [...] gli pingevano qualche cosa che exprimea senso di morali
documenti» (Cesariano [1987]: 26). Ed ancora infine Armenini nei Veri Precetti
della pittura ritorna sull’argomento sottolineando che: «i soggetti che ci
vanno dentro delle historie non mi ci pare meglio che di cose appartenenti alle
virtù morali, acciò s’impari a essere prudente, giusto, temperato
e forte in ogni azione».
Nella trattatistica rinascimentale,
dunque, rispetto all’ampio spazio dato alle decorazioni storiche e celebrative
volte ad esaltare le virtù morali, alle decorazioni mitologiche, in
contrasto con l’ampia produzione pittorica, sono dedicate sporadicamente poche
righe: a partire dal citato passo di Leon Battista Alberti, che parla di
«pictura iucundissima in villa», a Lomazzo che si limita a citare «storie di
gioia e di allegrezza che del tutto non abbiano ombra di malinconia» (Lomazzo
[1974]: 192). In termini analoghi Armenini raccomanda per le decorazioni delle
ville «scene poetiche con satiri e ninfe e fauni [...] non vi sia soprattutto
cosa che renda punto di melanconico ne del fattevole» (Armenini [1988]: 187).
La decorazione mitologica è dunque essenzialmente legata alla vita in
villa a sottolineare quella contrapposizione già indicata da Alberti fra
la «gravitas» delle decorazioni dei palazzi e la «festivitas» propria della
pittura mitologica che caratterizza le decorazioni delle ville. La
finalità essenzialmente di evasione di questo tipo di decorazione ha
determinato una facile equivalenza fra mito ed ozio, cui si contrappone la
preferenza data ai soggetti storici, morali ed esemplari nelle decorazioni
pubbliche o nei luoghi addetti ai negotia, nel pieno rispetto della teoria del
decorum.
Una più ampia descrizione di
soggetti mitologici adatti alle decorazioni dei palazzi si trova nel trattato di
Filarete, che non limita tale tipo di decorazione alle ville né ad una funzione
puramente marginale e di evasione. Infatti Filarete è l’unico
trattatista del Quattrocento che dà una descrizione puntuale dei
soggetti mitologici adatti alle decorazioni dei palazzi. Fra questi indica sia
i miti legati alla creazione, e cita gli artefici e gli inventori quali Vulcano
, Prometeo , Atlante o Dedalo , sia i miti più propriamente
naturalistici adatti alla decorazione della casa del Sole: Apollo e Dafne ,
Giove e Ganimede e ancora Giove che fulmina Fetonte , il carro di Giunone ,
Giove al centro del consesso degli dei, Plutone e Proserpina , Perseo e Medusa
. Il Trattato di Architettura dell’Averlino, dedicato originariamente a
Francesco Sforza, il suo interlocutore nel trattato, venne nel 1464 dedicato a
Piero di Cosimo de’ Medici, secondo la testimonianza del Vasari nella seconda
edizione delle Vite del 1568. Come architetto del principe Filarete immagina
l’edificazione di una città ideale. La descrizione, oltre che di
Sforzinda, di una mitica città e di favolosi edifici, sulla scorta
dell’espediente fantastico-retorico del ritrovamento del libro d’oro, rende
tanto più prodigioso e mitico il racconto. In quest’ottica si pone il
riferimento ad un modello mitologico per la casa della Virtù alla fine
del libro XVII: «Quello che voglio fare in prima vi dirò e poi ancora in
che modo e per che ordine che voglio fare, come ho detto si è la casa la
quale chiameremo la casa della Virtù [...] Signore, la Signoria Vostra
mi concederà che io la discriva a parole come fu lecito a Ovidio
discrivere quella del Sole» (Averlino [1974]: 529-30).
Ovidio descrive il Palazzo del Sole
all’inizio del II libro delle Metamorfosi: «La Reggia del sole alta s’ergeva
sopra elevate colonne, fulgida di corrusco oro e di piropo simile a fiamma;
nitido avorio copriva la cima del tetto, duplici imposte d’argento irragiavano
luce». La descrizione ovidiana può trovare riferimento nelle
architetture classiche, prima fra tutte la Domus Aurea , che costituirà
un modello per il palazzo ideale nel rinascimento. Il riferimento alla
decorazione dorata e la forma circolare di questa rimanda ad un chiaro
simbolismo solare. Infatti, sulla base della descrizione di Svetonio, la sala
ottagonale della Domus Aurea è forse da identificare con la celebre
"coenatio rotunda" che «girava ininterrottamente, giorno e notte come
la terra», al centro della quale troneggiava Nerone-Helios. Tale simbolismo
trova ampia conferma nella trattatistica umanistica, da Leon Battista Alberti a
Francesco di Giorgio Martini a Filarete, in un frequente interscambio fra la
tipologia del palazzo e quella del tempio. In questo senso suona la descrizione
della cupola del tempio nel Trattato di Filarete: «La volta della tribuna tutta
lavorata a mosaico in questa forma che l’occhio del mezzo della tribuna sono
razzi d’oro. La maestà divina non v'era in altra forma discritta, se non
a similitudine di quello razzo intorno intorno all’occhio del mezzo». Alcuni
esempi "ideali" della casa del sole si rintracciano già nel
Quattrocento. Alla "casa del sole" sembra ispirata la "camera
picta" di Andrea Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova, che ripropone sia
nella struttura (una cupola circolare che insiste su un quadrato) sia nella
decorazione musiva dorata, che nella finta apertura ad oculo l’antico modello
della domus neroniana, ma anche del Pantheon, secondo la testimonianza di Leon
Battista Alberti il quale nel De re aedificatoria scriveva: «mai vedrai fattovi
occhio e cupole in luogo della chierica. E questo si fa a certi templi di
Phebo, quali sono patroni della luce». Ad una simbologia solare attinge anche
Alessandro VI, affidando a Pinturicchio la ricca decorazione dorata del suo
appartamento nel palazzo Vaticano, dove il riferimento alla divinità solare
è presente nelle varie stanze: dal soffitto astrologico, dove Alessandro
VI è rappresentato sotto al carro di Apollo-Sole, agli emblemi araldici,
scelti fra quelli solari, e infine al mito di Osiride che occupa le due campate
della volta nella sala dei Santi . In continuità con le camere
dell’appartamento Borgia si pone la sala dei pontefici, la cui decorazione
venne affidata da Leone X nel
Che la casa del Sole venisse ad
identificarsi, nell’immaginario rinascimentale, con il Palazzo del Principe
è un dato acquisito dal momento in cui, nella seconda metà del
Cinquecento, Gian Paolo Lomazzo intitola il capitolo XXV del libro VI del suo
trattato: Quali pitture siano proporzionate a palazzi reali, case di principi
et altri luochi solari.
Il racconto ovidiano, che introduce la
narrazione del mito di Fetonte, continua con la descrizione di Apollo avvolto
in un manto di porpora seduto sopra uno splendido trono di smeraldi lucenti: «A
destra e a sinistra stavano il Giorno, il Mese, l’Anno i secoli e poste a egual
distanza le Ore. C’era la recente Primavera [...] la nuda Estate [...] c’era
l’Autunno intriso di uva pigiata e il freddo inverno irti i capelli di neve».
La descrizione s’inserisce dunque nella logica del poema che, attraverso
l’espediente della trasformazione, traccia una storia dell’umanità,
dalle mitiche origini cosmiche alla età aurea di Augusto. Filarete
riprende in più luoghi la descrizione ovidiana, a partire dalla
decorazione delle logge che «mi pare si debbino fare a similitudine del cielo
pieno di stelle d’oro nel campo azzurro» precisando «si ma che si facci tutti i
segni del cielo e i pianeti e le stelle fisse». E continua: «Poiché nelle volte
si fanno questi segni celesti che si facci in prima i quattro tempi dell’anno e
poi i quattro elementi e descrizione della terra».
Tale riferimento ideologico alla
"casa del sole" - che assumerà toni esplicitamente celebrativi
alla corte di Luigi XIV - informa la progettazione e la decorazione di alcune
ville e palazzi romani all’inizio del Cinquecento; fra questi villa Madama , un
monumento esemplare della cultura classica rinascimentale, venne progettata da
Raffaello e dai suoi collaboratori, Antonio da Sangallo il Giovane e Giulio
Romano, alla fine del secondo decennio del Cinquecento. Sull’origine della forma
circolare di villa Madama ha fermato l’attenzione recentemente Hartmut
Biermann, in un suo articolo pubblicato nel 1983, il quale fa riferimento alla
domus romana ed in particolare alla villa Laurentium di Plinio, il cui schema
planimetrico ritorna sia nei disegni del trattato di Francesco di Giorgio
Martini che nei progetti delle ville cinquecentesche.
La complessità e la ricchezza
della decorazione affidata a Giulio Romano e a Giovanni da Udine è da
leggere in prima istanza in rapporto alla descrizione di Ovidio del Palazzo del
Sole. Nella volta della campata centrale della loggia infatti sono
rappresentate, intorno alle armi del cardinale Giulio de’Medici, le quattro
stagioni alternate ai quattro elementi attraverso i miti di Giunone (Aria),
Giove (Fuoco), Nettuno (Acqua) e Plutone (Terra). Nella scena con Giove e
Ganimede in particolare è visibile l’ellittica sulla quale sono
evidenziati i segni zodiacali del leone (sole) del cancro (luna) e della
bilancia. I primi due si riferiscono ancora al ciclo solare, la bilancia
già presente nell’oroscopo del pontefice, descritto nell’opera
encomiastica del Ferreri, Lugdunense somnium de divi leonis decimi pontificis
maximi ad summum pontificatum divina promotione,scritta in occasione
dell’elezione al soglio pontificio nel 1513, sta a sottolineare l’equilibrio e
dunque la giustizia come qualità fondamentale per un buon principe.
Ancora, nell’anello circolare intorno alla calotta si alternano le sette
divinità planetarie dalla luna ad Apollo-Sole, completate dalla immagine
di Diana efesina, a delle figure femminili sdraiate su sfondo azzurro dagli
attributi illeggibili da identificare ipoteticamente con le Muse in rapporto ai
pianeti secondo quanto suggerisce Ovidio, a proposito della Casa del Sole,
equanto viene ribadito da Filarete a
proposito della decorazione delle logge riprendendo la descrizione ovidiana:
«Poiché nelle volte si fanno questi segni celesti che si facci in prima i
quattro tempi dell’anno e poi i quattro elementi e descrizione della terra». Il
valore significante ed ideologico di tale tipo di decorazione è
confermato dal passo del Lomazzo che, nella descrizione del palazzo del
Principe, codifica, dopo la metà del secolo, tale tipo di decorazione,
riproponendo quasi alla lettera il passo ovidiano: «Il Sole è misura del
tempo; egli aveva dalla destra i Giorni, i Mesi, gli anni e vi aveva ancora il
Mondo col secolo e le Ore».
Ma il simbolismo solare è
presente anche nel soffitto ligneo delle due sale adiacenti alla loggia nella
villa di Montemario, dove si ripetono, con geometrica regolarità, i
motivi araldici della casa medicea oltre al leone e al sole con il motto
«semper» riferiti al papa Leone X. Infine nella sala grande, detta di Giulio
Romano, il simbolismo solare è riproposto attraverso i carri del Sole e
della Luna, affrescati sulla volta celeste. In proposito ancora Lomazzo,
parafrasando Ovidio, preciserà nel libro IX: «Questo pianeta (il Sole)
ha il governo e l’amministrazione dei cieli e dei corpi che sotto al cielo
stanno, ed è signore di tutte le virtù elementari; e la luna in
virtù sua è signora della generazione, dell’aumento e dello
scemamento; perciò disse un antico astrologo che la vita si infonde a
tutte le creature per mezzo del Sole e della Luna» (Lomazzo [1974]: 61). Il
sole è presente infine anche nella decorazione araldica reiterata
intorno al riquadro "celeste", nell’impresa del cardinale Giulio de’
Medici: un globo a mo’ di lente ustoria che concentra i raggi del sole e lascia
intatto il nastro col motto «candor illesus», ma il suo valore simbolico
è piuttosto da connettere alla rappresentazione "solare", in
senso ideologico, come viene successivamente riproposto nella sala di
Costantino in Vaticano. Qui l’impresa è rappresentata allegoricamente
attraverso le figure di Apollo-Sole con una sfera in mano e di Diana-Luna,
poste a mo’ di cariatidi sopra al trono del pontefice, avvolti dal nastro sul
quale è iscritto il motto «candor illesus».
Alla medesima tematica temporale era
informata anche la precedente decorazione del fregio della Villa di Poggio a
Caiano dove la sequenza delle scene a rilievo della scuola di Luca della Robbia
sembra illustrare i primi due libri delle Metamorfosi: dal Caos iniziale, alle
età di Saturno e di Giove, all’introduzione della ciclicità
cosmica, attraverso la rappresentazione delle stagioni dei mesi e delle parti
del giorno. In particolare la successione del carro dell’Aurora e del Sole
sembra seguire alla lettera il passo delle Metamorfosi di Ovidio (II,112):
«ecco dal rosseggiante Oriente la vigile Aurora aprì le porte di porpora
e gli atri del palazzo cosparsi di rose. Il Sole poi che vide l’Universo
rosseggiare e quasi dileguarsi l corna della morente luna, ordina alle veloci
Ore di attaccare i cavalli». L’ultima parte del fregio rappresenta proprio il
momento in cui Apollo, dopo aver concesso al figlio Fetonte di guidare il il
suo carro, fa le sue raccomandazioni prima che si compia la tragedia della
caduta: «se puoi almeno obbedire a questi consigli di tuo padre, non adoperare
la sferza o fanciullo, tieni invece salde le redini; simili cavalli si
affrettano da soli, ed è fatica trattenerne l’uso».
Bibliografia
La tematica solare, che aveva preso le
mosse dalle Metamorfosi di Ovidio, viene ad accentuare, nel corso del
Cinquecento, una dimensione temporale, come evidenzia anche la trattatistica;
Lomazzo nel passo del suo Trattato dell'arte della pittura, scoltura et
architettura (Milano 1584), parafrasando il poema ovidiano, scrive: «il Sole
è misura del tempo [...] egli avea dalla destra i Giorni, i Mesi e gli
Anni e vi aveva ancora il Mondo col Secolo e le Ore, le quali dimostravano come
il tempo trascorre in lui». Nell’ambito della ideologia dei Medici tale
dimensione temporale ha delle origini precoci, indipendenti probabilmente dal
poema ovidiano. Fin dall’età di Lorenzo sia l’araldica che le prime
decorazioni insistono su tale simbologia temporale: dal serpente che si morde
la coda, che figura come emblema di Lorenzo sul verso della sua medaglia, al motto
riferito ancora a Lorenzo, «le Temps revient», a quello assunto da Leone X,
«semper», ai cicli di Poggio a Caiano , alle bordure degli arazzi vaticani, al
soffitto della sala dei pontefici in Vaticano, al ciclo di villa Madama , alle
tombe medicee, agli arazzi fiorentini, alle committenze del Duca Cosimo
affidate a Vasari a Palazzo Vecchio. La varietà di tali imprese
artistiche e il loro inserimento in contesti specifici all’interno di
tradizioni figurative codificate, da quelle astrologiche a quelle più
evidentemente legate al luogo e alle occasioni, frammenta tale
continuità e unitarietà tematica che si ripropone rigorosamente
nelle decorazioni dei palazzi e delle ville medicee a Roma nella seconda
metà del Cinquecento.
L’ispirazione alla tematica ovidiana da
parte delle committenze medicee è in particolare verificata nella
ripresa ideologica del modello della casa del Sole tanto per i Palazzi che per
le Ville che per le cappelle funerarie, l’estremo esempio di dimora principesca
che più di ogni altra doveva celebrare la famiglia nella sua
continuità dinastica e nella temporalità ciclica ed assoluta
dell’eternità. Infatti la committenza di Leone X per la tomba di
famiglia nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze s’ispirava
evidentemente, sulla base della tradizionale simbologia medicea, ai modelli
artistici contemporanei. I diversi progetti documentano, oltre alle varie
tipologie e disposizione dei monumenti funerari all’interno della cappella, una
più evidente presenza delle tematiche solari/temporali: dai rilievi con
le Stagioni previsti dal primo progetto, alle personificazioni dei fiumi
dell’Ade - Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito - a significare secondo
Landino e Pico il quadruplice aspetto della materia, che dovevano essere
inseriti alla base dei monumenti funerari nel secondo progetto, fino alla
rappresentazione delle quattro parti del Giorno, Crepuscolo, Notte e Aurora,
che rimangono nel progetto definitivo del 1520. Ma l’idea temporale emerge
chiaramente anche dalle parole stesse di Michelangelo: «Il Dì e la Notte
parlano e dicono: noi abbiamo col nostro veloce corso condotto alla morte il
duca Giuliano»; nonché da un’affermazione del Condivi: «significandosi per
questo il Giorno e la Notte e per ambi duo il tempo, che consuma il Tutto [...]
Et per la significazione del tempo voleua fare un topo [...] percioché tale
animaluccio di continuo rode e consuma, non altrimenti chel tempo ogni cosa
divora». Tale simbologia era stata trasmessa in Occidente attraverso la
leggenda di Barlaam e Josaphat, che informa l’iconografia della lunetta del
Battistero di Parma, dove due topi roditori, uno bianco e uno nero, consumano
l’albero della vita che si erge fra il carro del Sole e quello della Luna
secondo una chiara simbologia temporale. A concludere in termini tradizionali
il programma iconografico della cappella fiorentina doveva essere la
decorazione della cupola ad affresco, commissionata da Clemente VII. In una
lettera del 7 luglio del 1533 è Sebastiano del Piombo a riferire di
questo progetto:«Per quanto riguarda il dipinto nella volta della lanterna,
Nostro Signore [Clemente VII] lascia a te di fare quello che vuoi. Penso che
Ganimede vi starebbe assai bene, gli potresti dare un alone in modo che
apparirebbe come San Giovanni dell’Apocalisse, portato al Cielo». Non è
forse un caso che proprio Clemente VII, subentrato dopo la morte di Leone X
quale committente della cappella funeraria di famiglia, avesse consigliato
ancora una volta un completamento del programma iconografico in termini
profano-mitologici consequenziali al modello, adottato già a Villa
Madama, della dimora ideale del Principe come Casa del Sole.
Una complessa decorazione
"temporale" occupa il cosiddetto Quartiere degli Elementi nel Palazzo
Vecchio a Firenze ad opera di Giorgio Vasari. Commissionata dal Duca Cosimo de’
Medici la decorazione si snoda attraverso una serie di camere, sale e loggiato,
seguendo le invenzioni del letterato e pittore aretino.
Nell’ottica di una residenza privata
dei Medici si può considerare anche il Casino , vale a dire il singolare
complesso di fabbriche fatto edificare in Vaticano da Paolo IV a partire dal
1558 e decorata dal papa Pio IV a partire dal 1561, il quale, succedendo al
Carafa, rimise in auge la cultura umanistica, circondandosi di letterati,
artisti ed antiquari come Pietro Venale, Federico Barocci, Pierleone Genga,
Federico Zuccari, Lorenzo Costa e Pirro Ligorio, il cui ruolo di antiquario e
umanista-iconologo fu fondamentale per la configurazione del casino vaticano
come "casa del Sole", ideale residenza del Signore.
E’ straordinaria la continuità
nelle committenze medicee della metafora solare-temporale per la glorificazione
della propria dinastia. Sono ancora Pio IV e Pirro Ligorio i protagonisti di un
altro intervento decorativo dove vengono riproposte le medesime tematiche
legate ed attualizzate sia alla cultura scientifica che a quella emblematica
del tempo. Mi riferisco alla decorazione delle logge al terzo piano del Palazzo
Vaticano, decorate subito dopo l’elezione al soglio pontificio di Pio IV, a
partire dal 1561: qui ancora una volta la cultura pagana e le tematiche
classiche convivono con quelle cristiane in un sapiente sincretismo in cui la
simbologia medicea diventa funzionale all’alta missione del pontefice.
Con la salita al soglio pontificio di
Pio IV un altro palazzo mediceo romano viene decorato secondo la tradizione
della famiglia. A partire dal 1561 infatti il Palatium di Giacomo Cardelli,
dato in dono a Pio IV, divenne proprietà del Duca de’ Medici assumendo
il nome di Palazzo del Duca . Alla committenza del Monte risale la decorazione
della loggia al pianterreno e al primo piano, attribuita a Prospero Fontana,
come anche il soffitto con la Disputa delle Muse e delle Pieridi nella sala
dell’ala sinistra del Palazzo. Dopo la morte di Giulio III e la confisca dei
suoi beni (che erano stati acquisiti a spese della Chiesa, da parte della
Camera Apostolica) il palazzo, in seguito ad una transazione stipulata fra la
Camera Apostolica e i Del Monte, nella figura dell’erede Fabiano, figlio di
Balduino, con l’intercessione di Cosimo I de’ Medici, venne donato a Pio IV che
trasferì la proprietà al duca di Firenze.
L’ultima stagione artistica del Palazzo
fu dunque legata ai Medici che fecero costruire il secondo piano dell’edificio
sopra la loggia, decorata da Jacopo Zucchi quando Ferdinando de’ Medici ne fece
la sua fastosa abitazione. Il pittore, a Roma già dal 1570-71, è
documentato sicuramente al servizio di Ferdinando nel
Nelle due sale decorate da Jacopo
Zucchi al secondo piano del Palazzo del Duca ritornano i classici temi
ovidiani. In particolare nella prima sala il tradizionale carro del Sole
trainato dai quattro cavalli, a significare le quattro parti del giorno,
preceduto dall’Aurora che sparge fiori, occupa il riquadro centrale del
soffitto. Infine, ai quattro angoli del soffitto sono rappresentate, come di
norma, le quattro parti del Giorno: l’Aurora, il Giorno il Crepuscolo e la
Notte. L’aderenza totale del programma iconografico alla casa del Sole
descritta da Ovidio nelle Metamorfosi è personalizzata dagli emblemi
araldici del committente, come dimostrano le palle medicee e il cappello
cardinalizio nel festone con giochi di putti che corre intorno al riquadro
centrale della volta.
Più complessa e più ricca
e sofisticata è la decorazione della cosidetta sala degli Elementi dove
Iacopo Zucchi dà sfoggio della sua conoscenza botanica e zoologica, che
si ritroverà nello studiolo del casino di Villa Medici. La struttura
della decorazione, simile a quella della sala degli Elementi di Palazzo Vecchio
decorata da Vasari fra il 1555-58, è abbastanza lineare nelle tematiche
generali, vale a dire la rappresentazione degli elementi, ma piuttosto
complessa sia nelle iconografie che rivelano delle fonti letterarie specifiche,
sia nella presenza di emblemi con i relativi motti.
Circa negli stessi anni Ferdinando de’
Medici, dopo l’acquisto della villa del cardinale Giovanni Ricci nel 1576,
incaricò Bartolomeo Ammannati di ridisegnare e ristrutturare la villa, e
di costruire un piccolo edificio lungo le mura aureliane, che doveva diventare
il luogo di ritiro del cardinale sul modello degli studioli umanistici. La
decorazione di questo luogo venne affidata a Jacopo Zucchi fra il 1576 e il
1577 con temi ancora una volta "solari", chiaramente celebrativi del
committente attraverso il luogo, vale a dire la nuova dimora del Pincio. Sulla
volta dello stanzino infatti all’interno di una ricca decorazione a grottesche
l’Aurora campeggia al centro circondata dai venti, che danno l’orientamento del
luogo, dalle Stagioni, Venere per la Primavera, Cerere per l’Estate, Bacco per
l’Autunno e Saturno per l’Inverno. Immagini allegoriche nella pregevole
decorazione a grottesche, ripropongono, come di consueto gli stessi temi
stagionali. La decorazione è completata da piccole vedute della villa
che testimoniano le varie fasi di costruzione. Un piccolo stanzino dunque dove
l’elemento naturalistico, sul tipico schema cosmologico, è finalizzato
ad individuare e dunque celebrare la nuova dimora la cui immagine è
riprodotta attraverso la sua memoria storica all’interno della decorazione.
Nella volta la presenza di tondi con le favole di Esopo, molto rare
nell’iconografia cinquecentesca, ripropone probabilmente, in veste allegorica,
quell’interesse scientifico che si manifesta nelle decorazioni in basso con
deliziosi animali nel tipico gusto di Jacopo Zucchi già a Palazzo
Firenze e anticipano l’esplosione naturalistica sulla volta della sala grande,
il vero e proprio studiolo di Ferdinando, che simula una sorta di voliera
popolata dalle più esotiche speci di uccelli, una vera e proprio
enciclopedia scientifica figurata.
Ma il tema solare-temporale viene
riproposto in termini più intellettuali nelle due sale al piano nobile
del corpo centrale della villa: la sala degli Elementi e la sala delle Muse.
Successive ai lavori di Zucchi in Santo Spirito in Sassia e nella sala Vecchia
degli Svizzeri in Vaticano le decorazioni delle due sale, analoghe nella
struttura del soffitto decorato con grandi tele e fregi intorno, rivelano la
presenza di aiuti, fra cui Giovanni Alberti, Matteo Brill e Francesco Zucchi.
Queste due sale costituiscono, insieme al salone, le più importanti del
palazzo e la loro decorazione dovrebbe concidere con la collocazione alla fine
del 1584 dei rilievi antichi sulla facciata del giardino.
La struttura del soffitto della sala
degli Elementi ripropone l’antica tipologia delle case romane a riquadri
geometrici e presenta al centro un’insolita iconografia: il matrimonio di Giove
e Giunone officiato da Opi alla presenza di Plutone, Nettuno e Pan. Ai quattro
lati del soffitto delle figure femminili si possono identificare con le ninfe
di Giunone. I soggetti di questa figurazione complessiva e il loro significato
hanno un precedente nella sala degli Elementi di Palazzo Firenze.
La sala cosidetta delle Muse presenta
una decorazione strutturata in maniera analoga a quella della sala degli
Elementi. Al centro in un grande ovale la scena principale rappresenta Giove
insieme a Minerva e ad un’altra figura femminile che dallo strumento musicale
che tiene in mano si può subito identificare con una Musa. Tale identificazione
è confermata dalle altre otto figure femminili nei quattro ottagoni
laterali e nei due quadrati al centro dei lati brevi, fra gli ottagoni. Ma la
decorazione si configura come una complessa struttura astrologica in cui ogni
Musa è accompagnata da segni zodiacali. Giove in posizione centrale
rispetto al consesso delle Muse sembra prendere il posto di Apollo
appropriandosi anche dell’alloro. Una identificazione fra Giove ed Apollo era
stata a quella data codificata da Vincenzo Cartari nel suo trattato sulle Immagini
degli dei (1556). Nel frontespizio del Sintagma de Musis di Lilio Gregorio
Giraldi, stampato a Strasburgo nel 1511, Giove è il principio delle
Muse: «ab Jove principium Musae». L’opera è conosciuta e quasi
parafrasata da Lomazzo nel suo trattato Della Forma delle Muse del 1591
dedicato a Ferdinando de’ Medici. Anche la presenza della testa
"panica" in mano a Tersicore evidenzia, come già nella sala
degli Elementi, la componente cosmica del programma iconologico secondo la
tradizione medicea.
Giove dunque diventa il principio
motore dell’Universo dove le Muse in relazione alle sfere planetarie assumono
una funzione cosmica e sovrintendono all’armonia universale secondo quanto
riferisce Platone nel X libro della Repubblica sulla scorta del pensiero pitagorico:
«Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel
movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte e otto le
note creavano un’unica armonia» (X, 617 b). La centralità della figura
di Giove che sostituisce quella di Apollo - Sole si può far risalire
alla composizione della cupola della cappella di Agostino Chigi in Santa Maria
del Popolo, dove le otto sfere celesti sono messe in movimento dal gesto
creatore di un Giove cristiano.
La figurazione complessiva, con la
presenza delle quattro Stagioni negli spazi triangolari di risulta intorno
all’ovale centrale, dei quattro elementi rappresentati ancora una volta dalle
divinità mitologiche (Giunone - Aria,
Vulcano - Fuoco, Opi - Terra, Nettuno - Acqua) e dei quattro
temperamenti negli ovali sulla cornice esterna sembra dunque riproporre ancora
una volta quella struttura solare di cui parla Ovidio al centro della quale la
divinità solare come motore di tutte le cose viene sostituita da Giove,
la massima divinità dell’Olimpo identificabile più direttamente
con la figura del Principe committente della decorazione il cui programma
iconografico è finalizzato alla celebrazione e alla esaltazione del suo
ruolo.
Bibliografia
La famiglia dei Gonzaga, andata al
potere nel 1328, si manterrà sul territorio padano fino al Settecento,
costituendosi prima in marchesato e poi in ducato. Lo splendore della corte
gonzaghesca a Mantova, a partire dalla metà del Quattrocento, trova
espressione nel palazzo Ducale, nel palazzo del Te ma anche nella incredibile
collezione di Isabella d’Este, la colta moglie di Francesco Gonzaga, sorella
del duca Ercole, la quale, circondata da consiglieri come l’umanista Mario
Equicola, rese ben presto Mantova un centro culturale di alto livello.
Intelligente ed abile fu valida consigliera nella politica del marito, nella
tessitura dei rapporti diplomatici, proprio nei difficili anni dell’avanzata di
Carlo VIII attraverso l’Italia, con la conquista del regno aragonese e la
costituzione della lega di Cambrai capeggiata proprio dallo stesso Francesco
che riuscì a mettere in fuga l’esercito dell’imperatore dopo la
violentissima battaglia di Fornovo. Fu proprio in rapporto a tale vittoria,
conseguita dall’esercito della lega, che lo stesso marchese commissionò
a Mantegna una grande pala d’altare , dove si fece ritrarre in armatura
inginocchiato ai piedi della Madonna della Misericordia, trasportata con
cerimonia solenne nel 1496 nella chiesetta della Vittoria, oggi a Parigi al
Museo del Louvre.
Dobbiamo alla marchesa di Mantova
l’introduzione della mitologia nelle decorazioni del palazzo ducale soprattutto
nel suo studiolo, prima collocato nel Castello di San Giorgio e solo nel 1530
trasferito in Corte Vecchia. Ad Andrea Mantegna, già artista di corte
affermato che aveva timidamente inserito alcune figurazioni all’antica , sui
temi di Orfeo, Arione ed Ercole, nella camera picta, meglio nota come
"camera degli sposi" in riferimento ai signori di Mantova, Ludovico
Gonzaga e la moglie Barbara di Brandeburgo, lì raffigurati insieme a
tutta la corte, viene affidata la decorazione dello studiolo.
Le rappresentazioni del Parnaso e di
Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle virtù sono strettamente
attinenti al luogo, lo studiolo, un ambiente riservato, adibito alla cultura
che riflette i gusti, la personalità ma anche le caratteristiche della
proprietaria, la marchesa Isabella, rappresentata dunque nelle vesti di Venere
ma anche elogiata nelle sue Virtù.
Ma la presenza del mito alla corte di
Mantova trova continuità per tutto il Cinquecento grazie alla presenza
alla corte di artisti come Lorenzo Costa, che completerà la decorazione
dello studiolo di Isabella con i dipinti attualmente al Louvre: Il dio Como e
il Regno d'Amore , dopo l’intervento di Pietro Perugino, con la tela della
Lotta fra Amore e Castità e la
rinuncia di Giovanni Bellini. Dopo la morte di Andrea Mantegna, insieme a
Lorenzo Costa un altro pittore mantovano, Lorenzo Leonbruno, decorerà
per Isabella la sala della Scalcheria con temi mitologici legati all’amore e
alla caccia attraverso i miti di Venere e di Diana.
Con l’arrivo a Mantova nel 1524 di
Giulio Romano il repertorio figurativo e stilistico si rinnoverà.
Divenuto l’artista di corte, Giulio Romano, l’allievo più dotato di
Raffaello, fra i cui discepoli, come scrive Vasari: «niuno ve n’ebbe che
più lo imitasse nella maniera, invenzione, disegno e colorito [...] né
che fra loro fusse di lui più fondato, fiero, sicuro e capriccioso vario
e abbondante ed universale», fu immediatamente impiegato nella progettazione ed
esecuzione di edifici, monumenti ed apparati decorativi nella città e
sul territorio. Federico Gonzaga, adorato figlio di Isabella, educato alla
corte pontificia di Giulio II e poi alla corte francese di Francesco I, aveva
assunto, ancora minorenne, il titolo di Marchese alla guida della signoria
mantovana alla morte del padre Francesco nel 1519, sotto la tutela della madre
Isabella e di suo zio Sigismondo. Subito dopo l’arrivo di Giulio Romano a
Mantova venne iniziata la costruzione della magnifica residenza dei Gonzaga su
un'isola del lago Paiolo, che assunse la denominazione di palazzo Te, dimora di
ozi e di piaceri, come si legge nell’iscrizione posta alla base delle lunette
nella sala di Amore e Psiche: «HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRTUTEM
QUIETI CONSTRUI MANDAVIT». La dimora era anche la residenza alternativa,
rispetto al palazzo Ducale, della quale era signora Isabella Boschetti,
l’amante di Federico, in continuo antagonismo con la granitica Isabella d’Este
che continuava a presiedere il palazzo di città. I temi mitologici forse
ispirati agli amori di Federico e di Isabella sono derivati in particolare
dalle Metamorfosi di Ovidio (Camera di Ovidio ) e da Apuleio (Sala di Psiche )
e popolano le sale del palazzo con un gioco di forme e colori che trova
espressione nell'affresco illusionistico con il carro di Apollo-Sole e il suo
apice nella straordinaria sala dei Giganti, un tumulto vorticoso di immagini
che coinvolge lo spettatore nella caduta dei Giganti sui quali trionfa Giove
tonante .
La decorazione doveva essere già
a buon punto quando Carlo V, appena eletto imperatore nella primavera del 1530
giunse a Mantova; Federico accolse con grandi festeggiamenti l’imperatore dal
quale ricevette il titolo di duca impegnandosi a sposare la matura zia
dell’imperatore Giulia d’Aragona. In occasione dell’entrata a Mantova
dell’imperatore venne allestito un arco trionfale, progettato dallo stesso
Giulio Romano; subito dopo sua maestà imperiale si recò nella
nuova residenza del duca di Mantova dove, come raccontano le fonti del tempo,
«resta tutta meravigliosa».
Proprio in occasione dell’incoronazione
di Carlo V a Bologna Federico II commissionò una serie di tele a
Correggio con gli Amori di Giove. Il mito di Io e Giove (Vienna,
Kunsthistorisches Museum), di Danae e la pioggia d’oro (Roma, Galleria
Borghese), di Leda e il cigno (Berlino, Staatlichen Museen) e di Giove e
Ganimede (Vienna, Kunsthistorisches Museum) forse non giunsero mai a
destinazione, ma, per probabili ritardi nell’esecuzione, dopo il 1530 rimasero
a Mantova fino alla seconda metà del Cinquecento. A Correggio erano
state affidate anche le due tele con l’Allegoria dei Vizi e delle Virtù
che andarono a completare la decorazione dello studiolo di Isabella d’Este
trasferito nel
Ma le decorazioni mitologiche trovano
continuità ancora per tutto il XVI secolo sia nel palazzo ducale che in
altri palazzi della città. Nelle sale dell’appartamento di Federico II
Gonzaga in Corte Nuova, la decorazione viene esemplarmente giocata in un
interscambio con l’allestimento della sua collezione attraverso le magistrali
invenzioni all’antica di Giulio Romano fra il 1536 e il 1538. Figurazioni
mitologiche occupano sia gli spazi decorativi del camerino dei Falconi e degli
Uccelli, echeggianti alla lontana ancora la loggia della villa di Agostino
Chigi alla Lungara, sia quelli della sala degli imperatori, dove erano inserite
le tele di Tiziano, dove vengono riproposti in stucco composizioni già
impiegate da Giulio Romano a Roma. Dalla loggetta dei Cani decorata a
grottesche con scene del mito di Cerere e Proserpina si entra nella sala dei
Cavalli. Anche qui all’interno di un soffitto ligneo una tela illusionisticamente
scorciata fa ricorso, come le decorazioni delle volte della sala delle Teste e
del salone di Troia, al repertorio mitologico con la caduta di Icaro, fra i
soggetti consigliati da Leon Battista Alberti, mentre Giove tonante e la
rappresentazione dell’Olimpo riecheggiano alla lontana le idee compositive di
palazzo Te.
Alle favole di Ovidio sono dedicati gli
ambienti dove era contenuta la Biblioteca, denominata Galleria del Passerino,
decorati con stucchi e dipinti ad affresco e ad olio del Viani e della sua
scuola, i cui soggetti sono derivati dalle Metamorfosi di Ovidio.
Anche nell’appartamento cosiddetto
della Rustica, alcuni ambienti presentano residue decorazioni mitologiche. La
prima stanza decorata con stucchi e grottesche è denominata degli Amori
di Giove dai soggetti in parte perduti delle lunette; segue il Camerino di
Orfeo dagli alti rilievi in stucco con il mito dell’antico cantore di Tracia.
Nella Galleria degli specchi, decorata
da artisti mantovani sotto la direzione del Viani alla fine del Cinquecento,
gli affreschi della volta ripropongono le tradizionali decorazioni mitologiche
molto in voga per tutto il Cinquecento e che troveranno continuità nel
gusto illusionistico delle decorazioni seicentesche. La raffigurazione
dell’Olimpo, dei carri del sole e della luna sono affiancate da figure
allegoriche, mentre nelle lunette sono rappresentati il Parnaso delle glorie
mantovane e l’allegoria delle arti e delle scienze.
Ma non poteva mancare l’astrologia
presente sia negli affreschi della sala dello zodiaco decorata da Lorenzo Costa
il giovane dove sulla volta, al centro di una mappa astrologica, campeggia con
la figura di Diana sul carro.
Ma i temi astrologici e mitologici
informano anche la complessa decorazione calendariale del salone dello zodiaco di
Palazzo d’Arco, ad opera di Giovanni Maria Falconetto intorno al
Bibliografia
Nella marca trevigiana si attesteranno
a lungo gli Este che riuscirono a creare uno stato territoriale da Ferrara a
Modena e a Reggio raggiungendo l’apice della propria potenza con Lionello prima
e poi con Borso ed Ercole I.
Il consolidamento della famiglia
avvenne già a partire dal 1361 con la Signoria di Nicolò II, il
quale affidò a Bartolino da Novara la costruzione del Castello ; a
questi succederà nel 1388, dopo anni di collaborazione, il fratello
Alberto V, al quale si deve la promozione della costruzione di tre edifici che
assumeranno un significato emblematico nel sancire l’egemonia estense nella
città. All’interno della città viene infatti costruito il palazzo
del Paradiso nel 1388 mentre ai due estremi al confine fra città e
campagna vennero edificati il palazzo Schifanoia nel 1385 e il palazzo di
Belfiore nel 1391.
Alla committenza di Lionello d’Este si
deve la decorazione dello studiolo di Belfiore che insieme ad altre residenze
estensi costituivano quel sistema delle delizie, vale a dire di palazzi e ville
destinate agli otia tanto decantate dalla letteratura e dalle testimonianze del
tempo. Il ciclo commissionato inizialmente nel 1447 ad Angelo Maccagnino da
Siena su programma di Guarino Veronese trova dei riscontri nella serie delle
Muse nel Tempio Malatestiano di Rimini . La decorazione di Belfiore attualmente
smembrata ed in parte perduta è di incerta ricostruzione, ma le
raffigurazioni delle Muse legate anche a significati stagionali sono di una
straordinaria invenzione ed originalità.
Intorno al 1470 si colloca la
decorazione del salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia un'imponente struttura
calendariale dove i miti traducono in immagine il mondo astrologico e
planetario . Il ciclo voluto da Borso d’Este, ripetutamente ritratto
all'interno del registro inferiore degli affreschi nelle sue mansioni di
Signore del ducato, si basa su un complesso programma iconologico dovuto
probabilmente a Pellegrino Prisciani, un umanista alla corte del duca d’Este, e
studiato per la prima volta da Aby Warburg nel suo saggio del 1912.
Ad Ercole invece si deve il grande
rinnovamento della città di Ferrara dai Palazzi dipinti alle sale
affrescate agli interventi urbani di ampliamento della città, la famosa
addizione erculea, che arricchirà la città del Palazzo dei
Diamanti dal bugnato a taglio di diamante che lo caratterizza .
Lo splendore della corte ferrarese
trovò continuità nel Cinquecento con l’illuminata signoria di Alfonso
I che promosse una fervida attività culturale, non solo sul piano
artistico ma anche su quello letterario. Il camerino di Alabastro del duca,
già nel corridoio coperto che conduce al Castello, rimane nella memoria
come l’esempio forse più luminoso di questi ambienti decorato da una
serie di tele: il Festino degli dei di Giovanni Bellini, oggi a Washington,
l'Offerta di Venere e gli Andri di Tiziano al Prado oltre al Bacco e Arianna di
Londra e il Baccanale di Dosso Dossi. A questi sono state attribuite anche le
storie di Enea , oggi divise in diversi musei. L'allestimento del camerino,
essendo stato smembrato al tempo della devoluzione di Ferrara nel 1598, rimane
ancora discusso. A Dosso si devono una serie di opere allegoriche, spesso a
contenuto ermetico, che coinvolgono lo stesso Alfonso in prima persona forse
ritratto nelle sembianze di Bacco, nel dipinto degli Uffizi a Firenze o di
Giove, pittore di farfalle , nella tela del Kunsthistorisches Museum di Vienna.
La mitologia convive con altri soggetti
storici e decorativi o di evasione anche nelle sale al primo piano del Castello
estense. Gli affreschi dei soffitti, commissionati nella seconda metà
del Cinquecento dal duca Alfonso II d’Este, sono opera di artisti ferraresi,
recentemente venuti alla luce attraverso le carte di archivio fra i quali
spicca il nome di Sebastiano Filippi detto il Bastianino. Nella sala
dell’Aurora sono raffigurate le quattro fasi del giorno intorno al riquadro
centrale con la figura di Cronos circondato dalle tre Parche. Secondo un
programma iconografico suggerito da Pirro Ligorio presente alla corte estense,
nel camerino dei Baccanali sono rappresentati, in un contesto autunnale legato
alla vendemmia, il trionfo di Bacco e il trionfo di Arianna.
Con la devoluzione della Signoria
ferrarese allo Stato della Chiesa la città venne in buona parte
spogliata delle sue ricchezze e soprattutto delle testimonianze del suo antico
splendore. I quadri dello studiolo vennero portati a Roma dal cardinale
Aldobrandini e divennero un modello fondamentale per gli artisti del
classicismo seicentesco da Annibale Carracci a Nicolas Poussin, del quale si
conserva a Roma la copia del dipinto di Tiziano con Bacco e Arianna.
Bibliografia
L’area padana nonostante la strutturale
instabilità politica determinata dai particolarismi delle piccole corti
mantenne un assetto politico sostanzialmente stabile almeno fino all’estinzione
delle dinastie farnesiana e gonzaghesca nella prima metà del Settecento.
L’area godeva fin dal Quattrocento di un efficiente sistema viario e stradale
che ha determinato la disseminazione sul territorio di centri piccoli e medi e
una trama di collegamenti fra ogni centro urbano e la campagna. «Un equilibrio
fra il contesto distributivo interno e l’apertura strategica della maglia delle
vie di comunicazione - scrive Giovanni Tocci - si sarebbe realizzata solo nel
Cinquecento con la sistemazione definitiva dei ducati e delle legazioni». Il
ducato gonzaghesco, che con gli altri domini dei Gonzaga, da Bozzolo a
Guastalla a Novellara, a Sabbioneta a Guazzuolo a Suzzara si trovava confinato
fra lo stato di Milano, la repubblica estense e il ducato estense, si
configurava come un’area omogenea, una sorta di sistema politico e culturale
con una sua specifica connotazione. Ma la proiezione del ducato all’esterno fu
il frutto di un’abile politica matrimoniale che aveva portato a rinsaldare i
rapporti con l’Impero, la Spagna e il Mezzogiorno d’Italia, ma anche con le
famiglie più in vista dell’area lombardo-veneta, emiliana e romagnola e
romana; pertanto la dinastia dei Gonzaga mantenne per più di due secoli
un ruolo di primo piano nel contesto politico italiano ed europeo.
Fra questi piccoli stati quello di
Sabbioneta si è distinto per un arco di tempo ben delimitato in rapporto
a Vespasiano Gonzaga e alla sua corte che si esaurì praticamente con la
sua morte nel 1591. Frutto di una progettazione, Sabbioneta fa parte di quelle
città ideali legate a situazioni specifiche e alle esigenze principesche
di potere e di cultura del suo Signore. All’interno una serie di percorsi sono
segnati e qualificati dai luoghi del potere: il Duomo, dove la statua di Leone
Leoni celebrerà in mortem Vespasiano nel suo ruolo di condottiero all’antica;
il palazzo ducale o "palazzo grande", il primo edificio monumentale
di Sabbioneta, centro direttivo e politico della città; il palazzo del
Giardino, una sorta di residenza fuori porta ai margini della cinta muraria e
la Galleria degli antichi, vero capolavoro di architettura all’avanguardia che
denuncia i rapporti di Vespasiano con gli stati europei.
E’ ancora alle immagini che viene
affidato il programma celebrativo del Signore a partire dalle insegne araldiche
nel Palazzo ducale con lo stemma ducale assunto da Vespasiano nel 1577, data di
riferimento per l’inizio della decorazione, alla sala delle aquile affrescata
con stemmi gonzagheschi che s’inframezzano ai rapaci imperiali; in questa sala
sono attualmente conservate anche le statue equestri lignee di Vespasiano e dei
suoi antenati; Ludovico, Marchese di Mantova, Gianfrancesco, conte di Rodigo,
Luigi Rodomonte padre dello stesso Vespasiano. Agli Antenati è dedicata
anche la saletta centrale del piano nobile corrispondente al balcone sulla
facciata e da identificare con la "Libraria piccola" sulla base
dell’Inventario dell’Oldroandi del 1689. All’interno il programma ideologico di
Vespasiano si delinea attraverso la decorazione a stucco e ad affresco, che
è giocata in rapporto alle vicende della vita di Vespasiano Gonzaga e
alla luce degli ideali umanistici testimoniati dalla presenza di tre imperatori
filosofi: Traiano, Adriano e Antonino Pio e forse di Nerva e focalizzati sui
valori della guerra personificati da Marte e dalla virtus rappresentata da
Mercurio: alle due divinità e al loro significato si legano a coppie le
scenette in stucco che raffigurano episodi di storia romana allusivi al valore
guerriero, attraverso Orazio Coclite e Cesare al Rubicone e ai valori etici
interpretati da Muzio Scevola e Decio Mure. La raffigurazione, ai quattro
angoli della volta, delle stagioni, presiedute dall’elemento solare al centro,
rappresentato dal tradizionale carro di Apollo sul modello giuliesco di palazzo
Te, insiste su un’idea di fecondità e ciclicità attraverso la
metafora naturalistica, legata al valore dinastico dei ritratti, rappresentati
in stucco e disposti senza soluzione di continuità lungo le pareti: da
Luigi il capostipite della famiglia a Luigi, l’erede mancato di Vespasiano,
morto in giovane età.
Ma la mitologia diventa protagonista
nel palazzo del Giardino, che come ogni residenza fuori dal centro della
città si connota nei caratteri propri ai luoghi di delizia e di evasione
e dunque adatta ad accogliere soggetti mitologici, vale a dire quelle «historie
di gioia e di allegrezza che del tutto non abbiano ombra di melanconia» come
scriveva Giovan Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’arte della pittura scultura
e architettura (Milano 1584). Fra questi non poteva mancare Venere sul suo
carro circondata da altre divinità dell’Olimpo pagano, ma anche Fetonte
che precipita dal suo carro e la serie delle favole ovidiane che popolano la
salette al primo piano accanto al corridoio di Orfeo. La decorazione è
stata per lo più attribuita a Bernardino Campi con la collaborazione dei
Pesenti, ma la presenza di altri artisti quali Fornaretto Mantovano è
stata segnalata per il Gabinetto delle Grazie un piccolo ambiente dove i
personaggi mitologici , le tre Grazie insieme a Venere e ad Apollo sono
raffigurate in un tessuto decorativo vegetale e di animali mitici di una
preziosità straordinaria.
A Novellara la presenza della signoria
dei Gonzaga sotto la protezione dell’imperatore, è testimoniata nel suo
splendore cortese dalla rocca. La decorazione commissionata nel 1546 da
Costanza, moglie del defunto Alessandro Gonzaga e reggente per i figli Alfonso
e Camillo, al pittore locale Lelio Orsi con molti soggetti mitologici oggi
è smembrata ed in parte custodita nella Galleria Estense di Modena.
Al di sotto del Po altri piccoli Stati
costituirono centri politici e culturali vivaci e ben caratterizzati, dai
Rossi, ai Correggio, ai Pio, ai Sanvitale, legati ora ai Gonzaga ora gravitanti
nell’area estense. Indirettamente legata ai Gonzaga sempre per politiche
matrimoniali è la rocca di Galeazzo Sanvitale a Fontanellato; questi
aveva infatti sposato Paola Gonzaga, figlia di Ludovico marchese di Sabbioneta
nel 1516. Una integra decorazione mitologica ricopre un piccolo ambiente
sicuramente privato dove attraverso la metafora del mito di Diana e Atteone ,
vengono ricordate le tristi vicende dei due sposi e la morte del loro piccolo
erede.
Testimonianze artistiche e culturali
configurano la Signoria di Alberto Pio da Carpi come una corte di alto livello
fra gli anni Novanta del Quattrocento e il 1525, quando Carpi venne sottratta
ai Pio e assorbita definitivamente dal ducato estense di Alfonso I nel 1530.
L’architettura quattrocentesca del palazzo, frutto di successivi interventi a
carattere prima fortificatorio e poi ispirati ai modelli classici, sta a
segnare una continuità fra tradizione feudale e cultura umanistica. Con
Alberto Pio il palazzo assunse una forma architettonica unitaria, divenendo un
centro propulsore ed accentratore della vita cittadina e di corte quasi un «palazzo
in forma di città», secondo la bella formula di Baldassarre Castiglione
per il palazzo ducale di Urbino. Analogie infatti con il palazzo ducale di
Urbino riguardano essenzialmente la vitalità delle architetture in
trasformazione e la definitiva forma complessamente articolata, mentre le
tipologie decorative sono più vicine ai modelli padani ed in particolare
gonzagheschi. La presenza documentata di due artisti in particolare, il
forlivese Giovanni del Sega e il carpigiano Bernardino Loschi di origine parmense,
non esaurisce naturalmente il quadro artistico alla corte di Alberto, la cui
personalità, informata alla cultura classica, rivela un deciso
aggiornamento ai temi umanistici, come gli Uomini Illustri che sono raffigurati
sulla facciata del Palazzo, i Trionfi del Petrarca nella sala omonima o ancora
le favole antiche, vale a dire le storie della mitologia classica che
probabilmente dovevano decorare quegli ambienti che, come riferiscono i
documenti, sono denominati "Camera della dea Cerere" o "Camera
della dea Diana" o "Camera delle Ninfe". Le decorazioni, in
parte perdute ed in parte probabilmente ancora nascoste sotto scialbature,
dovevano rendere il palazzo prezioso in linea con i più grandiosi
palazzi del territorio. Ma la componente che caratterizza particolarmente la
cultura di Alberto III è quella classico-antiquaria che nell’area padana
acquista una particolare configurazione determinata ora dall’incontro fra
l’esperienza padovana e mantegnesca e la cultura urbinate anche attraverso
l’acquisizione del linguaggio ornamentale della bottega dei Lombardo, ora
invece orientata decisamente verso la cultura romana come rivela soprattutto
l’impianto decorativo a finto loggiato, di matrice mantegnesca, della sala
grande o dei Mori accanto alla cappella, che caratterizzerà alcune
decorazioni romane fra Quattrocento e Cinquecento, dalle sale del palazzetto
Barbo alla Rocca dell’Episcopio di Ostia.
La Signoria dei Pio con Alberto aveva
dunque ampliato i propri interessi culturali anche oltre i limiti strettamente
territoriali; viceversa più legata alla realtà padana sembra
essere la signoria dei da Correggio a Correggio. Il palazzo dei Principi,
commissionato da Francesca di Brandeburgo, nipote di Barbara, moglie di
Ludovico Gonzaga, venne eretto intorno al 1507 probabilmente da Biagio
Rossetti, come testimonia la vicinanza del palazzo a quello di Schifanoia a
Ferrara. La decorazione all’interno, per la quale sono stati fatti i nomi di
Antonio Bartolotti, presunto maestro di Correggio, di Cesare da Reggio e degli
Scacceri, pittori modenesi molto attivi nei primi decenni del XVI secolo nel
territorio, operanti anche nel palazzo Rangoni a Castelvetro, presenta motivi
essenzialmente trionfalistici probabilmente legati al ruolo di condottiero di
Borso da Correggio, marito, già defunto a quella data, di Francesca di
Brandeburgo. Nella sala a pianterreno infatti sotto la volta sostenuta da vele
e peducci un fregio a racemi fogliati è intervallato da targhe esagonali
che celebrano in lunghe scritte i fasti dei Signori da Correggio.
Altre stanze decorate prendono il nome
dagli stessi soggetti: la camera dei Trionfi, degli Amori, delle ninfe e dei
Filosofi. Fra gli affreschi, non integralmente conservati, si riconosce un
trionfo di Nettuno dove calligrafiche figure a monocromo su fondo scuro
sembrano potersi riferire alla produzione incisoria di Nicoletto da Modena o
ancora di un artista più vicino a Mantegna come Lorenzo Leonbruno,
riconoscibile proprio in quei volti delle figure dei musicanti. Ancora
riconducibile ad una rielaborazione del linguaggio mantegnesco è
l‘impianto illusionistico della volta balaustrata della sala degli amori che
sembra ispirata alla più tarda rielaborazione del modello dell’artista
padovano da parte di Benvenuto Tisi da Garofalo nella sala del Tesoro del
palazzo Constabili a Ferrara. Lungo il fregio sotto alle lunette, dove sono
rappresentazioni di personificazioni femminili, si affollano puttini molto
rimaneggiati che alludono nel gioco all’amore e alla guerra, un tema molto
presente sia nella cultura padana che in quella raffaellesca romana.
A Parma prima della affermazione della
Signoria romana dei Farnese la mitologia aveva trovato, attraverso il caldo
linguaggio di Correggio il suo spazio anche in edifici religiosi, come la
camera della badessa Giovanna nel convento di San Paolo, dove Correggio
affrescherà una grande allegoria mitologica dedicata alla badessa nelle
vesti della casta Diana . Pochi anni primi nella sala accanto un più
ermetico programma iconografico informava la decorazione della volta con
soggetti derivati dagli Hieroglyphica di Horapollo ad opera dell’Araldi .
Con la presa di possesso dei territori
di Parma e Piacenza da parte della famiglia romana dei Farnese nella persona di
Pierluigi, nipote di Paolo III, entrarono nella cultura parmense i modelli
letterari artistici e di costume della corte romana. Annibal Caro infatti
insieme al Tolomei seguirono Pierluigi Farnese all’atto della costituzione del
ducato. Fra gli artisti presenti alla corte farnesiana Jacopo Zanguidi detto il
Bertoja che, insieme a Gerolamo Bedoli, autore di allegorie farnesiane (Parma
abbraccia Alessandro Farnese, Parma Galleria Nazionale), rappresenta l’unica
continuità con l’eredità di Parmigianino, lavorerà alla
decorazione mitologica del Palazzo del Giardino, rivelando un linguaggio
già vicino alla magniloquente maniera romana.
Lezione 1
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