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Claudia Cieri Via

 

 

Mitologia e allegoria nella cultura artistica del Rinascimento

Da http://www.italica.rai.it/rinascimento/saggi/mitologia_allegoria/index.htm

 

 

 

INDICE

 

La tradizione mitologica e le periodizzazioni del Rinascimento. 1

La mitologia dall’età tardo-antica al Rinascimento. Rinascenze e sopravvivenze. 4

Il mito nella tradizione testuale e figurativa. 8

Le favole antiche fra cultura cortese e umanistica. 13

Mitologia e Archeologia: da Padova a Roma. 18

Il mito a Venezia: pittura e produzione a stampa fra Quattrocento e Cinquecento. 22

Il mito nella cultura delle corti italiane. 26

Cultura e mitologia nelle piccole corti italiane. 29

La cultura mitologica alla corte medicea fra Quattrocento e Cinquecento. 31

Roma e la corte pontificia. 34

Arte e mito nel territorio romano. 41

Origine e sviluppi della decorazione a soggetto profano fra ‘400 e ‘500. 46

Il mito del Tempo alla corte dei Medici 53

La corte dei Gonzaga a Mantova. 59

La Corte estense. 64

Le piccole Corti padane. 66

Bibliografia. 71

 

 

 


La tradizione mitologica e le periodizzazioni del Rinascimento

         

 

All’origine del mondo e all’origine delle cose «tutte le forme dell’esistenza si presentano inizialmente come avvolte nell’atmosfera del pensiero mitico e della fantasia mitica» - scriveva Ernst Cassirer nell’introduzione al secondo volume della Filosofia delle forme simboliche, dedicato al pensiero mitico - «Le prime fasi del pensiero filosofico mantengono ancora per molto tempo una posizione intermedia [...] fra la concezione mitica e la concezione propriamente filosofica del problema dell’origine delle cose [...] nel concetto di arké si esprime in modo chiaro e significativo questo duplice rapporto. Esso segna il confine fra mito e filosofia [...] esso rappresenta il punto di transizione e di indifferenza fra il concetto mitico di enunciamento e il concetto di principio.»

 

Fabula è la traduzione latina del greco mythos; ma se la favola è evasione dalla realtà nel fantastico il mito dà un’interpretazione assoluta della realtà, è espressione simbolica di verità di ordine naturale o morale. Ovidio nell'esordio del suo poema mitologico, le Metamorfosi, enuncia il rapporto fra dimensione mitica e dimensione storica, fra favola, storia e conoscenza: «L'estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi. O dei [...] seguite con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi» (Metamorfosi, I, 1-4).

 

La tradizione mitologica nel Rinascimento s’inserisce nell’ambito dei movimenti di sopravvivenza e di rinascita dell’antichità classica.

 

L’ampio dibattito sulla concezione del Rinascimento, definito nel 1933 dall’Oxford Dictionary: «la grande rinascita delle arti e delle lettere sorto sotto l’influenza dei modelli classici, che ebbe inizio in Italia nel XIV secolo e continuò nel XV, XVI», sull’idea basilare di Petrarca, fu particolarmente acceso fra gli anni Cinquanta e Sessanta vedendo schierati i partiti della sopravvivenza e continuità e quelli della rottura e della successiva innovazione, eredi rispettivamente delle posizioni culturali di Johann Huizinga e di Jacob Burckhardt. L’ampio saggio di Erwin Panofsky, già oggetto di due conferenze tenute ad Uppsala nel 1952 poi pubblicate nel 1960 nel volume Rinascimento e rinascenze nell’arte occidentale edito in italiano da Feltrinelli nel 1971 apre la discussione sul problema delle periodizzazioni e sul ruolo dell’antichità nel cosiddetto Rinascimento. Panofsky e gli studiosi della sua generazione s’interrogavano soprattutto sulla determinazione cronologica del Rinascimento prima della cosiddetta età rinascimentale nel XV secolo, alla luce del dibattito che contrapponeva medievisti e rinascimentalisti, sostenitori dei secoli bui contrapposti ai primi lumi e gli antesignani di rinascimenti o rinascenze nel Medioevo, già giustamente definiti con il termine di sopravvivenza a partire dagli studi di Anton Springer che intitolava Das Nachleben der Antike im Mittelalter il suo libro del 1867 a quelli di Erwin Panofsky e di Fritz Saxl del 1933 fino ad arrivare al libro di Jean Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, del 1940.

 

Dopo gli studi portati avanti dagli intellettuali che si erano formati alla luce dell’insegnamento di Aby Warburg e della grande tradizione dei "Nachleben", più recentemente ci si è interrogati sulla durata del Rinascimento oltre la cosiddetta età dell’oro e la sua sopravvivenza sia in quello che è stato definito l‘antirinascimento del XVI secolo sia nel classicismo europeo. La discussione in questi termini verte dunque sulla concettualizzazione del fenomeno rinascimentale e sulla definizione di canoni oppure sulla funzione che in particolare l’antichità classica ha avuto nella cultura delle corti italiane e nelle società di Antico Regime. «Se l’antico non è un repertorio di modelli da imitare ma la coscienza storica del passato e del suo inevitabile rapporto col presente -scriveva Argan nel 1968 - non meraviglia che ogni artista abbia il proprio ideale dell’antico e come questo possa essere valutato se non come componente delle diverse poetiche». La distinzione che opera Panofsky fra Rinascimento e rinascenze impegna per il Quattrocento una coscienza storica del passato, un atteggiamento nuovo e consapevole verso l’antico rispetto al Medioevo per il quale si può parlare di sporadiche sopravvivenze per lo più reinterpretate alla luce delle diverse concezioni del tempo. Attraverso il pensiero di Aby Warburg, Panofsky ha colto la relatività non solo temporale ma anche spaziale e dunque ambientale dei fenomeni culturali in particolare a proposito del recupero della classicità.

 

All’interno del revival dell’antichità classica si pone nella cultura del Quattrocento l’interesse per le divinità pagane alle quali il Warburg Institute, dal suo fondatore a Fritz Saxl ad Erwin Panofsky, ha dedicato numerose ricerche. La persistenza dell’Olimpo pagano nel periodo medievale, nella produzione letteraria, filosofica, scientifica ed artistica, ha generato una continuità fra Medioevo e Rinascimento nei riguardi dell’antico ma tuttavia l’esigenza storico-filologica di quest’ultimo periodo ha provocato una nuova o rinnovata adesione delle antiche divinità alle originarie fonti letterarie e ai prototipi classici. Di qui quella reintegrazione fra forma e contenuto di cui parla Panofsky a proposito del Rinascimento dell’antichità nel XV secolo.

 

Il mito ha avuto un ruolo fondamentale nel fenomeno rinascimentale e nelle varie manifestazioni di rinascenze anche per il valore allegorico e simbolico assunto lungo l’ampia parabola temporale della cultura occidentale. La finalità essenzialmente filologica della mitologia in età umanistica si arricchirà nel corso del Cinquecento di contenuti attinti alla tradizione dei geroglifici, dell’impresistica che confluirà nell’emblematica dove la connessione fra testo e immagine si arricchirà di contenuti morali. Le antiche divinità sopravviveranno nei manuali di mitografia nel corso del XVI secolo diventando protagoniste delle decorazioni dei palazzi nobiliari e popolando i cortili e i giardini delle ville dove gli esemplari classici convivevano con le copie e con le rielaborazioni classiciste degli scultori del tempo ad animare grandi macchine teatrali, a volte informate all’arte della memoria e spesso arricchite da giochi di acqua in un dialogo serrato fra mito, natura, cultura e attualità. La trasfigurazione allegorica della mitologia nel corso del Cinquecento si farà portatrice di significati filosofici ed etici finalizzati spesso a celebrare i Signori del tempo o a porsi come elaborazioni concettuali all’interno di circoli intellettuali o semplicemente a riassumere in singole immagini o in libri l’eredità della cultura classica rielaborata attraverso la tradizione medievale e la riscoperta umanistica dell’antichità.

 

La mitologia dall’età tardo-antica al Rinascimento. Rinascenze e sopravvivenze

         

 

La sopravvivenza delle divinità mitologiche, fin dalla prima età cristiana, fu resa possibile grazie all’interpretazione evemeristica che, nel rivelare l’origine umana degli dei antichi, divenne un utile strumento per la lotta contro il politeismo. Tale tradizione sopravvive durante il Medioevo anche tramite le Cronache che, da Eusebio a Paolo Orosio, arrivano alle Etymologie di Isidoro di Siviglia (VII sec.), alle enciclopedie popolari del XIII secolo, allo Speculum Historiale di Vincent de Beauvais, fino alle Cronache Universali del XIV e del XV secolo.

 

In queste opere particolare evidenza acquistano quegli eroi, poi assunti a divinità, benefattori dell’Umanità: da Prometeo a Mercurio ad Atlante, a Giasone, ad Apollo (Cronaca Cockerell), fino a Dedalo – che, quale forgiatore di statue assume il ruolo di Demiurgo - ad Orfeo e ad Ercole, raffigurati da Andrea Pisano nelle formelle del campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze.

 

In particolare Prometeo , legato al mito della creazione in Platone e poi in Ovidio, diventa un simbolo visivo del concetto neoplatonico della natura umana, come esemplificano alcuni sarcofaghi romani del III secolo, dove il concetto dualistico della creazione dell’uomo, vale a dire del suo corpo e della sua anima, avviene attraverso l’opera di scultore dello stesso Prometeo, mentre l’animazione della statua si compie con l’ausilio di Minerva (Sarcofago, Roma, Museo Capitolini). L’identificazione di Prometeo, come artefice della creazione, si diffonde nei primi secoli dell’età del cristianesimo, come è testimoniato dai Padri della Chiesa; Tertulliano scriveva: «Deus unicus qui universa condiderit, qui hominem de humo struxerit: hic enim est verus Prometheus» (Apologeticum, XVIII, 3). L’influenza dell’iconografia di Prometeo, come artefice della creazione, trova continuità nelle illustrazioni della Bibbia in età tardoantica e carolingia (Bibbia Grandval, Ms. Add.10546, fol.5v., London British Museum). Prometeo ancora nelle vesti di creatore dell’uomo ricompare alla metà del XIV secolo nelle illustrazioni dell’Ovide Moralisé nei manoscritti di Lione e di Parigi (ms. fr.871, f.31, Parigi Bibliothéque Nationale; ms.742 f.1325, Lione, Bibliothéque de la Ville ) Qui la graduale fusione fra la rappresentazione biblica e quella mitologica corrisponde all’interpretazione morale che vede in Prometeo la prefigurazione del vero Dio (Raggio 1958). La medesima interpretazione informa ancora il pannello di cassone dipinto da Piero di Cosimo alla fine del Quattrocento, dove l’azione creatrice della Divinità testamentaria si colloca in parallelo alla figura di Prometeo scultore di statue che solo con l’aiuto di Minerva riuscirà a vivificare (Monaco Altepinakothek).

 

Orfeo invece, che è considerato una figura storica dell’antichità, inventore della poesia e musico, presiede all’armonia del cosmo. Già nei secoli IV-V e poi in età carolingia e nei primi secoli dell’era cristiana Orfeo diviene una metafora di Cristo: rappresentato tra gli animali mentre suona la lira, in un mosaico proveniente da Gerusalemme del VI secolo (Instanbul, Museo archeologico) egli viene assimilato alla classica iconografia del Buon Pastore sovrapponendosi inoltre, nel sarcofago di Porto Torres risalente ai secoli IV-V, alla figura della mitologia orientale di Mitra. Il medesimo significato continuerà ad essere assunto da Orfeo in tutta la tradizione umanistica e rinascimentale, dalla Cronaca Universale al mosaico nel pavimento del Duomo di Siena fino al dipinto di Jan Brueghel e al mosaico di Marcello Provenzale , entrambi della collezione Borghese, dove fra gli animali in primo piano un'aquila e un basilisco fanno riferimento all’araldica della famiglia romana. Ad Orfeo, come cantore e musico per eccellenza, s’ispirarono varie forme di intrattenimento, rappresentazioni teatrali, intermedi. La fabula di Orfeo di Poliziano rappresentata a Mantova nel 1480 in onore del cardinale Francesco Gonzaga ed illustrata da xilografie rivela, dagli appunti dello stesso Poliziano, degli accenti drammatici: «Orfeo il quale cantando sopra il monte in su la lira ...fu interrotto da un Pastore nunciatore della morte di Euridice».

 

Legate a ritualità naturalistiche e alla ideologia del lavoro, che viene positivamente riscattata dal Cristianesimo, sono inoltre quelle divinità mitologiche, come ad esempio lo stesso Ercole, le cui fatiche illustrano il medesimo processo catartico dell’uomo che si purifica attraverso il lavoro fisico, mentre in particolare l’episodio della raccolta dei pomi nel giardino delle Esperidi trova un’immediata assimilazione al frutto proibito del Paradiso Terrestre (Sissa - Detienne 1989). Ercole, eroe virtuoso, viene rappresentato come allegoria della Fortitudo nel pulpito di Giovanni Pisano per trovare nella medesima chiave morale un’ampia affermazione nel corso dell’età umanistica in particolare nel De Laboribus Herculis di Coluccio Salutati e nei cicli decorativi che rappresentano le fatiche dell’eroe mitologico nei palazzi del XV secolo: da Palazzetto Barbo a piazza Venezia , al ciclo perduto eseguito da Pollaiolo per Lorenzo il Magnifico a Firenze alla villa Farnesina a Roma, al ciclo di Palazzo Ricci Sacchetti alle decorazioni del Cavalier d’Arpino nel Palazzetto dei Piceni.

 

Il riscatto del lavoro in chiave cristiana sarà determinante per la nascita e la diffusione dell’iconografia dei mestieri e le allegorie dei mesi, che trovano già un’esemplificazione, a partire dall’età tardoantica, nei mosaici di Piazza Armerina e nelle decorazioni pavimentali di età bizantina nel Grande Palazzo di Costantinopoli, dove alle scene di genere si accostano scene rurali o di caccia, personificazioni delle Stagioni e dei Mesi anche attraverso divinità mitologiche (Talbot Rice 1957,1965; Hellenkemper 1987).

 

Il tema del lavoro aveva avuto diffusione anche in quelle province romane del nordeuropa dove l’economia agricola era predominante, trovando dunque una naturale espressione nella produzione artistica musiva e a rilievo (Mosaico con calendario rurale, St.Germain en Laye, Musèe des Antiquites. III sec.D.C.; Calcani 1993). La presenza di questa tematica, con le relative iconografie, si rintraccia nella decorazione dei calendari già in età carolingia ( Ms.387, fol.90 v., Vienna, National Bibliothek, IX sec.; Rabano Mauro, De Rerum origine, De cultura agrorum, cod. 132 Montecassino, XI sec.), per trovare continuità nei secoli XII, XIII, e XIV nella decorazione musiva, ad esempio della cripta di S.Savino a Piacenza o nel pavimento della cattedrale di Otranto, dove i Mesi sono accompagnati dai segni zodiacali. Iconografie calendariali con la rappresentazione delle attività dei mesi e i segni dello zodiaco si trovano anche nelle decorazioni ad affresco: dal famoso calendario di Bominaco nell’oratorio di San Pellegrino (1263), ai più tardi affreschi nel castello del Torre dell’Aquila a Trento , ai libri d’ore. Il tema stagionale, legato per lo più all’iconografia dei mesi, costituisce infine uno dei soggetti più diffusi nelle decorazioni a rilievo delle cattedrali romaniche: dal Duomo di Modena a quello di Verona e di Ferrara , al Battistero di Parma , ma anche la cattedrale di Amiens e di Saint Denis . In alcuni casi le personificazioni dei Mesi sono rappresentate da divinità mitologiche; ad esempio Giano, Eolo e Bacco, stanno a rappresentare i mesi rispettivamente di Gennaio, Marzo e Settembre (Webster  1938; Rasetti 1941; Bresciani 1968). Accanto alle personificazioni dei Mesi vanno considerate anche le Stagioni, caratterizzate per lo più dai tipici attributi naturalistici, le spighe per l’estate o i pampini e le viti per l’Autunno, ma a volte rappresentate da divinità mitologiche: Venere per la Primavera, Cerere per l’Estate, Bacco per l’Autunno, Saturno per l’Inverno. Queste figurazioni hanno continuità per tutto il periodo medioevale, come dimostrano fra gli altri gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena , per riproporsi molto insistentemente nei secoli successivi in età rinascimentale, quando i temi naturalistici diventano fra i più diffusi soggetti delle decorazioni delle ville ma anche dei palazzi in pieno Cinquecento.

 

Più frequenti sono le rappresentazioni dei trionfi stagionali   derivati probabilmente da una contaminazione con il tema e l’iconografia del trionfo classico; quest'ultimo aveva avuto grande fortuna nell’età rinascimentale come revival dell’antichità legato insieme alla fortuna dei carri trionfali negli apparati di feste e alle rappresentazioni teatrali ispirate ai Trionfi del Petrarca.

 

Divinità del mondo pagano, personificazioni degli elementi naturali e cosmogonici rappresentano la più diretta sopravvivenza della mitologia classica a partire dall’età carolingia: «L’arte carolingia- scrive Panofsky- non cerca mai di infondere in una determinata immagine classica un significato diverso da quello che le appartiene fin dall’inizio». (Panofsky 1971: 62) Anche gli elementi naturali vengono personificati da figurazioni mitologiche: nella cattedrale di Ferrara, Eolo sta a rappresentare i venti, mentre Vulcano alla fucina è per lo più connesso all’elemento del fuoco; Nettuno è generalmente connesso all’elemento acqua e infine Giunone sul suo carro insieme al pavone sta a rappresentare l’aria. Tale tradizione iconografica rimarrà pressoché invariata per tutta l’età rinascimentale, trovando particolare fortuna nella decorazione delle ville dove, in base all’antica teoria del decorum, tali temi naturalistici erano particolarmente convenienti.

 

Bibliografia

 

Il mito nella tradizione testuale e figurativa

         

 

La mitologia classica trova un fondamentale tramite di sopravvivenza durante l'età medievale fino al Rinascimento ed oltre nella  tradizione astrologica : «Tribuenda est sideribus divinitas», scriveva Cicerone nel De natura deorum (2.15). Alla fine dell’era pagana in seguito ad un lungo processo di mitologizzazione dei corpi celesti abbastanza complesso (Panofsky-Saxl 1933; Seznec 1981; Saxl 1985) l’identificazione di dei ed astri era compiuta. Infatti a partire dal IV secolo a.C. con il trattato di Eudosso di Cnido, volgarizzato e diffuso da Arato di Soli e successivamente nei Catasterismi di Eratostene  Pianeti, costellazioni, segni zodiacali incominciano ad essere associati a divinità della mitologia classica o nel nome o in rapporto alle storie mitiche.

 

Il processo di mitologizzazione degli dei astrali, che trova nelle Favole di Igino una fonte decisiva per la trasmissione di questo repertorio mitologico-astrologico (Igino,  Astronomica, Ns.18.16 aug.4°, Wolfenbuttel, Herzog August Bibliothek, fol.19, r., sec.XII), venne favorito anche dalla maggiore intelligibilità che le costellazioni e i corpi celesti in genere venivano ad assumere attraverso le ben conosciute figurazioni mitologiche: «Alcuni autori - afferma Guglielmo di Conches che proclamerà la legittimità della mitologia - hanno parlato degli astri in termini mitici , così per esempio hanno fatto Nemrod, Igino, Arato quando raccontano che il toro col quale Giove aveva rapito Europa fu trasformato in un segno dello zodiaco [...] Questo modo di parlare delle cose celesti è legittimo; senza di esso non sapremmo né in quale parte del cielo si trovi un segno, né quante stelle comprenda, né come esse sono disposte» (Seznec 1981: 44).

 

Nonostante la consueta condanna da parte degli apologisti, le divinità astrologiche permangono a scandire i giorni della settimana o a presiedere ai mesi dell’anno, come testimoniano le immagini del Cronografo del 354 in manoscritti carolingi e in copie successive ( Cod. Barb. Lat. 2154, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, copia di un manoscritto carolingio ). In questa atmosfera si giustifica quella dottrina delle immagini trasmessa all’Occidente da opere come il Picatrix che insegnano ad utilizzare le potenze celesti inserendo le loro immagini nei talismani e negli amuleti. (Seznec 1981: 47). La moda di pietre intagliate e cammei con figurazioni mitologiche risale già al VII secolo, ma il loro uso talismanico, di provenienza per lo più orientale, inizia a radicarsi in Occidente verso il XIII secolo quando i trattati incominciano ad attribuire alle immagini incise sulle gemme un particolare potere, spesso in funzione antidemoniaca.

 

L’astrologia resta dunque "il fine di ogni sapere" e con essa, come con la storia naturale, ci si deve confrontare per acquisire la scienza divina. La cultura scolastica, nella sua tendenza ad un sistema globale del sapere, ad una scientia universalis, si uniformerà al sistema astrologico, non solo accogliendo i rapporti numerici fra Mundus, Annus et Homo (Ms.lat.11229, Paris, Bibliothèque Nationale, fol.45 r.; Seznec 1981; Saxl 1985), ma facendo corrispondere le Virtù e le Arti Liberali ai Pianeti. Già i pitagorici avevano posto le Muse in rapporto con i Pianeti; successivamente, a partire dal IX secolo, venne stabilita la corrispondenza fra i Pianeti e le Virtù e poi con le Arti Liberali (Dante, Convivio, 2.14;4.24; Herrad von Landsberg, Hortus Deliciarum; Bartolomeo de Bartholis, Cantica Virtutibus et Scientiis). Questo carattere enciclopedico della cultura medievale trova espressione nell’arte monumentale, sui portali e nelle vetrate delle cattedrali francesi. Nel XII secolo il poeta normanno Baudri de Borgueil ricordava la raffigurazione delle Arti Liberali sulle pareti della camera della contessa di Blois, mentre nella volta erano rappresentati i Pianeti e le costellazioni. Anche Giotto, nei rilievi del campanile di Firenze , eseguiti su suo progetto da Andrea Pisano, espone lo schema delle corrispondenze fra il mondo planetario e quello umano nei suoi aspetti religiosi, rappresentati dalle Virtù, dalle Arti Liberali e dai Sacramenti e quelli profani attraverso i già citati temi del lavoro, dei mestieri e delle scienze. Negli affreschi eseguiti nel Cappellone degli Spagnoli da Andrea da Firenze fra il 1366 e il 1368, le Arti e i Pianeti, dipinti a mezzo busto nelle cuspidi dei troni di queste ultime, stanno a mutuare la tradizionale corrispondenza fra macrocosmo e microcosmo. Anche a Padova Guariento raffigurò nell’abside della chiesa degli Eremitani, accanto agli dei planetari, le personificazioni dell’età dell’uomo. Infine nel vestibolo della cappella nel Palazzo pubblico di Siena Giove, Minerva, Apollo e Marte sono stati rappresentati da Taddeo di Bartolo con i loro tradizionali attributi .

 

Oltre che nelle immagini astrali la mitologia sopravvive nel Medioevo anche attraverso quel processo di allegorizzazione che, attingendo allo stoicismo e passando per il neoplatonismo fin dall’inizio dell’era cristiana, trovava rispondenza nella stessa esegesi dei Padri della Chiesa per poi radicarsi, con il contributo ellenistico, nell’età tardoantica già con la Psicomachia di Prudenzio (Ms.22,Lyon, Bibliothèque du Palais des Arts, fol.17 v.,1100 circa) e a partire dal VI secolo con le Mythologiae di Fulgenzio.

 

Tale processo di allegorizzazione, che porta spesso a fondere la mitologia con la teologia, trova continuità nei secoli successivi nei manoscritti di trattati allegorici sugli dei basati, più che su autori classici, su mitografi tardi come Macrobio, Servio, Lattanzio, Capella e Fulgenzio, i quali tendevano a cercare un significato recondito dietro alle favole mitologiche. Un’interpretatio christiana di un Ercole antico è esemplificativamente rappresentata dai due rilievi sull’esterno della Basilica di San Marco a Venezia , studiati da Erwin Panofsky in rapporto alle sue riflessioni sui fenomeni di rinascenza (Panofsky 1971; 1975). Se qui la trasformazione di un modello antico del III secolo è in rapporto alla trasposizione in chiave cristiana della divinità mitologica trasformata in allegoria della salvazione nel rilievo del XIII secolo, in altri casi la ripresa di modelli classici in figurazioni medievali, come ad esempio nelle decorazioni del Kaiserpokal di Osnabruck , non esclude un’interpretazione allegorico-morale in rapporto al contesto o all’uso dell’oggetto probabilmente adattato a funzioni liturgiche. (Panofsky 1971).

 

A questa tendenza allegorica sono informati i Commenti di Remigio d’Auxerre al De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, al quale, come è noto, si deve la definizione del canone delle Arti Liberali . Le immagini che illustrano i codici miniati di queste opere a partire dal XII secolo, sono generalmente basate esclusivamente sui testi, in assenza di modelli formali. Ma i diversi passaggi da una lezione all’altra hanno spesso determinato dei travisamenti nelle figurazioni che diventano, a volte, vere e proprie parodie dei soggetti originali. Curiose fra le altre sono le immagini di Saturno o di Mercurio nella illustrazione del manoscritto monacense del Commento di Remigio d’Auxerre (Ms.lat.14271, Munchen, Bayerische Staatsbibliothek, fol. 11 r., Seznec  1981: 189). Oltre alla mancanza di modelli plastici la derivazione da più autori o ancora la corruzione dei testi sono all’origine di figure mitologiche, a volte quasi irriconoscibili, che possono anche determinare interpretazioni fuorvianti. E’ ad esempio un’errata derivazione dal tipo del Mercurio-Anubi quella proposta dall’illustratore del manoscritto di Rabano Mauro che ha scambiato i calzari alati della divinità per un uccello che gli vola tra i piedi; mentre dovuta ad una corruzione testuale è l’inserimento di un’oca marina, al posto di una "concham" , tradizionale attributo di Venere, nella miniatura del manoscritto parigino dell’Ovide Moralisé (Ms.fr.373, Paris, Bibliothèque Nationale, fol.207, r.,1380 circa)

 

Un ruolo fondamentale per la trasmissione della mitologia dall’antichità al Rinascimento è da riconoscere alle Metamorfosi di Ovidio. La loro importanza in questo campo non si limita alla funzione di fonte testuale, ma investe anche e soprattutto la dimensione iconografica, dal momento che a partire dall’XI secolo i primi codici manoscritti e poi le edizioni a stampa dalla fine del XV secolo sono corredati da immagini che illustrano le storie.

 

Il passaggio dall'Antichità al Rinascimento di tale testo è estremamente articolato: differenti tradizioni hanno permesso la sua sopravvivenza e il suo recupero, ma ne hanno anche condizionato in modo significativo le forme di ricezione e di diffusione.

 

Dopo un periodo iniziale di oblio nei primi secoli della cristianità, la fortuna di Ovidio ebbe un lento risveglio in epoca carolingia. Le Metamorfosi erano state inizialmente utilizzate come fonte di una serie di manuali mitografici, dalle Fabulae di Igino fino ai primi due Mitografi Vaticani; a partire dalla fine dell’XI secolo e con il XII secolo si potrà cominciare a parlare di una rinascita ovidiana, grazie alle opere di Arnolfo di Orleans e di Giovanni di Garlandia. Su queste opere si baseranno le Expositiones di Giovanni del Virgilio utilizzate da Giovanni Bonsignori per l’Ovidio volgare, la prima edizione a stampa illustrata pubblicata a Venezia nel 1497 .

 

Il grande riscatto delle Metamorfosi passò attraverso la lettura allegorica, in linea con la sensibilità e la cultura medievale. Essa diede luogo a due importantissime tradizioni interpretative, una risalente alla tradizione scolastica medievale e un'altra all'esegesi cristiana: queste, nel tentativo di fornire un accesso al testo classico adeguato alle istanze morali e culturali del tempo, attraverso commenti e volgarizzazioni estranee a qualsiasi fedeltà filologica, finirono per creare degli pseudo-Ovidio, che furono le fonti condizionanti della tradizione iconografica delle Metamorfosi fino al '500.

 

Accanto a questa linea di moralizzazione si manifestò, a partire dall’XI secolo, anche un interesse specificatamente letterario per il testo poetico a sé stante, attestato nel corso dei secoli dai vari manoscritti nell'originale latino o con le traduzioni senza commenti e allegorie, ed anche questa tradizione filologica del testo antico produrrà, seppur in maniera ben più limitata, delle illustrazioni.

 

Fra il XII e il XIII secolo l’allegorizzazione della mitologia antica trova ampia affermazione nelle versioni moralizzate delle Metamorfosi di Ovidio. Da allora si assiste ad una vera e propria esplosione di interesse per le favole ovidiane attraverso l’Ovidius Moralizatus di Petrus Bercorius e l’Ovide moralisé, che con il suo pesante apparato allegorico-morale contribuì, attraverso le illustrazioni, a diffondere e a far sopravvivere la tradizione delle Metamorfosi ovidiane. Il poema di Ovidio riveste dunque un ruolo importante tanto per la trasmissione delle divinità mitologiche nel Medioevo quanto per la diffusione della tradizione letteraria ed iconografica nell’età cosiddetta rinascimentale a partire dal XV secolo, quando le favole mitologiche raccontate da Ovidio diventano la Bibbia dei pittori.

 

Bibliografia

 

Le favole antiche fra cultura cortese e umanistica

         

 

In Italia alla luce già delle prime esperienze degli umanisti padovani alla fine del XIII secolo si incominciava ad attuare quella reintegrazione di forme classiche con i contenuti classici, in cui Panofsky fa consistere la differenza fra il Rinascimento e le cosiddette rinascenze medievali. Lo stile all’antica, con cui le divinità della mitologia riguadagnano il loro aspetto greco-romano, attraverso il ricorso da parte degli artisti e/o degli illustratori a modelli dell’antichità - sculture, monete e anticaglie di ogni genere - o ai testi originali, rivisitati dall’opera filologica degli umanisti, fa il suo ingresso anche nell’ambito delle illustrazioni delle Metamorfosi. A partire dalla prima edizione in volgare illustrata, pubblicata da Lucantonio Giunta a Venezia nel 1497, le immagini , pur nella ingenua riproposta dei moduli narrativi, si avviano ad emancipare l’Ovidio volgare dalle moralizzazioni del secolo precedente. (Guthmüller 1986, 1997; Huber-Rebenich 1992).

 

Per tutta la prima metà del secolo XV il recupero dell’antico, mentre è un dato di fatto nella architettura e nella scultura, ancora non è presente nella pittura dove prevale la tradizione tardo-gotica che impedisce di dare alle divinità pagane e ai soggetti mitologici la loro originaria forma classica nelle prime timide apparizioni di inizio secolo. L’utilizzazione delle mitografie è per lo più destinata ad una produzione domestica e privata all’interno della quale trova la sua giustificazione stilistica aderente ai modi del gotico internazionale. La società delle corti italiane infatti riproponevano nostalgicamente negli usi, nei costumi e all’interno della loro vita privata l’antico mondo cortese e con esso le raffinatezze e i lussi che si manifestano in una produzione aristocratica e decorativa nell’ambito della quale ebbe inizio l’evoluzione della pittura profana ed in particolare mitologica. Nella cosiddetta pittura di cassone, una produzione a scopo matrimoniale e domestico che includeva anche i deschi da parto e i cofanetti da fidanzamento, è frequente il ricorso alla mitologia e alle sue narrazioni sui temi di amore e di virtù, di fecondità e di matrimonio, consoni alla funzione degli oggetti e derivati dai codici illustrati del Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun, dell’ Epitre d’Othea di Christine de Pisan, del De claris Mulieribus di Giovanni Boccaccio e finalmente del De Genealogia Deorum ancora di Boccaccio, il primo poema "umanistico" che dà una lettura non moralizzata dell’origine delle antiche divinità. Contemporanee dell’Ovidius moralizatus le Genealogie vennero stampate nel 1472 e successivamente in diverse edizioni fino al 1532. Il mondo delle corti francese e borgognona rivive in quelle figure aggraziate e ben vestite di eroi e divinità mitologiche che, perso comunque quel carattere moraleggiante del periodo medievale, ancora non hanno realizzato quell’aderenza alle fonti letterarie e figurative che sarà la grande novità in termini di riscoperta o rinascimento dell’antichità classica nel Quattrocento. Il mito appena rievocato negli esempi dei primi decenni del secolo in immagini e composizioni prive di ogni drammaticità formale e di contenuto, si arricchisce nel corso del secolo di particolari fino ad assumere un andamento narrativo ad illustrazione di episodi tratti per lo più dalle Metamorfosi di Ovidio o anche dall’apparato illustrativo dei mitografi medievali. L’adesione delle immagini mitologiche alla fonte letteraria era spesso pedissequa e semplificativa rispetto ai contenuti allegorici del testo stesso; la destinazione per lo più privata di tale produzione richiedeva infatti un ruolo in primo luogo e apparentemente decorativo per il quale la favola mitologica o il recupero di divinità classiche dovevano assolvere al compito di affermazione di quell’antichità già ormai perduta e tanto più vagheggiata in un revival di valori cortesi.

 

I temi prescelti erano dunque legati alla funzione domestica e matrimoniale delle decorazioni volte ora ad esaltare l'amore ora a celebrare le virtù dei committenti. Le favole di Apollo e Dafne e di Pan e Siringa coniugavano le esigenze amorose a quelle morali, mentre gli amori di Giove si prestavano ad esaltare insieme alla potenza della divinità la valenza erotica del mito. La resa in immagine delle prime rappresentazioni mitologiche ancora informate alla cultura cortese era funzionale alle esigenze della committenza aristocratica o altoborghese. Nel pannello di cassone di scuola fiorentina, attualmente nella collezione lord Crawford di Londra infatti, l'inseguimento di Dafne da parte di Apollo ha piuttosto i toni di un rituale di corteggiamento che di lacerante passione. In termini analoghi nel desco da parto della collezione E.Burnes Jones di Londra, dove è rappresentato il mito di Diana e Atteone, alla totale mancanza di sensualità delle ninfe del corteo di Diana  risponde l'assenza di tragicità della scena della metamorfosi in cervo di Atteone divenuto preda e divorato dai suoi stessi cani. In ultimo nel  tondo del Bargello  l'episodio del Giudizio di Paride, che vede il giovane intento ad operare la scelta, carica di conseguenze nefaste, fra Venere, Minerva e Giunone, è banalizzato in una sorta di sfilata di costumi alla moda. In conclusione i miti classici nei primi decenni del Quattrocento sono spesso ambientati in quei luoghi  come i giardini o i cortili, allietati da fresche fontane e dalle verzure, ad indicare lo spazio privilegiato della nobiltà o della ricca borghesia, diventando un'ideale manifestazione delle società cortesi agli albori della rinascita.

 

Agli schemi narrativi delle illustrazioni dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori verrà informata la maggior parte della produzione figurativa di questi temi. Tale struttura narrativa caratterizzerà non solo la citata pittura di cassone ma anche i primi cicli ad affresco che solitamente trovano una loro collocazione in luoghi di uso privato, rispondendo essenzialmente alla funzione di quegli ambienti, come le camere da letto, gli studioli, le stufette e occupando per lo più gli spazi marginali nei fregi oppure i riquadri nelle volte e nei soffitti.

 

Le favole antiche più diffuse sono quelle legate all’amore che, oltre a trovare nelle stesse Metamorfosi un ampio repertorio, rispondono più propriamente alla funzione privata degli ambienti domestici, in continuità con quella produzione "al femminile" che era stata inaugurata con la pittura dei cassoni nuziali e dei deschi da parto o con i fregi decorati nelle abitazioni del primo Quattrocento. Le raccomandazioni in proposito di Leon Battista Alberti «negli ambienti ove ci si unisce con la moglie raccomandano di dipingere esclusivamente forme umane e nobilissime» verranno riprese nei trattati cinquecenteschi ed in particolare da Giovan Battista Armenini, che per le camere private e da letto parla di «cose poetiche e di materie abandevoli, dove vi entrano con molta satisfatione de’ buoni le figure di bellissime femmine, di vaghi giovani e di puttini con paesi festoni e grottesche» e, alcuni anni dopo, intorno al 1620, da Giulio Mancini nelle Considerazioni sulla pittura «...le lascive come Venere e Marte nelle [...] camere retirate, le deità nelle camere terrene e [...] simil pitture lascive in simil luoghi dove si trattenga con sua consorte sono a proposito, perché simil veduta giova assai a far figli belli e sani e gagliardi».

 

Ma accanto a tali tematiche amorose, e spesso ad esse connesse, particolarmente diffusi sono i miti legati alla ciclicità e alla fecondità naturale. Questi, che trovano una facile rispondenza con la funzione delle ville in rapporto alla natura, non sono assenti però dalle decorazioni dei palazzi cittadini e rivelano spesso e volentieri un senso allegorico-ideologico, legato al committente.

 

La presenza di tali miti naturalistici nelle decorazioni dei palazzi e delle ville e la loro diffusione nel corso del secolo XVI trova inoltre una non casuale rispondenza nella interpretazione "naturalistica" che dei miti classici diedero i mitografi cinquecenteschi, da Lilio Gregorio Giraldi, a Natale Conti, a Vincenzo Cartari, che pubblicano i loro trattati intorno alla metà del Cinquecento.

 

Sebbene alla fine del Cinquecento una precisa condanna delle decorazioni mitologiche sarà formulata da Gregorio Comanini nel Figino overo il fine della pittura che ritiene «sia cosa sconvenevole ad uon cristiano il tenere in casa l’imagine de’ gentili», il valore significante ed ideologico e non solo di evasione di tale tipo di decorazione è confermato ancora dalla trattatistica tardocinquecentesca in base alla quale le mitologie non sono più da considerare solo "historie di gioia e di allegrezza", ma, come scrive Armenini, «cose appartenenti alle virtù morali sotto il velamento di favole poetiche».

 

Una continuità narrativa dei soggetti mitologici caratterizza nel corso del Cinquecento anche la produzione di maioliche e ceramiche che avevano le proprie fucine in particolare nelle botteghe dell’Italia centrale a Pesaro, ad Urbino e a Faenza. La corte urbinate può considerarsi esemplare per il forte impulso che ha dato alla produzione di maioliche nel ducato. Grazie all’alta qualità raggiunta negli esemplari istoriati, alla sempre maggior perfezione tecnica e ai bassi costi, rispetto al vasellame in oro e in argento, la maiolica si rivela particolarmente adatta ad una funzione di rappresentanza della corte di Guidobaldo II.

 

Ad Urbino fin dal 1530 la produzione di maioliche era già famosa per «la eccellenza delle historie e delle fabule» (Archivio Gonzaga di Mantova, E, XXVI, 3 Busta 1105). Queste erano spesso tratte dalle edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio di cui si era pubblicata a Venezia nel 1522 la traduzione in volgare di Niccolò degli Agostini , nel 1553 la traduzione di Ludovico Dolce e nel 1559 l’edizione di Lione stampata da Gabriello Symeoni corredata dalle incisioni di Bernard Salomon. Infatti più frequente era la ripresa dalle volgarizzazioni delle Metamorfosi e soprattutto dagli apparati illustrativi. Tra i più importanti maiolicari oltre a Niccolò Pellipario si ricorda Francesco Xanto Avelli, attivo ad Urbino nella prima metà del Cinquecento, il quale conosceva attraverso le varie edizioni illustrate non solo le Metamorfosi di Ovidio, ma anche Omero, Livio, Valerio Massimo. Sul verso di un suo piatto, conservato al Victoria and Albert Museum di Londra, oltre alla firma e alla data troviamo indicato il titolo della storia che ne decora il recto «Il misero Atho (Atteone) converso in cervo nel III libro de Ovidio.Me.». Ma è soprattutto con Soligo Durantino, altro maestro maiolicaro, originario di Casteldurante, nei pressi di Urbino, vasaio, poeta e membro dell’Accademia degli Assorditi, che viene definita l’inscindibile correlazione delle varie arti e la necessità di una cognizione delle "favole" con specifico riferimento proprio all’esercizio del mestiere del vasaio. Nella dedica delle Rime al Duca di Urbino nel 1558 scriveva: «Notabil cosa è a considerare, Signore Ecc.mo come fra le arti si vegga molte volte che elle sono così fattamente congiunte, che l’una non può aver perfezione senza l’altra: laonde è forza che chi l’una esercita nell’altra abbia a sdrucciolare: chiaro esempio se ne vede nel mio mestiere che è di vasi di terra a quali per ridurli a qualche vaghezza di necessità la dipintura si richiede et quella senza la cognizione delle favole non può aver compimento et chi averla vuole bisogna che legga i poeti, et così da’ vasi di terra l’huomo alla poesia si conduce. Et questo è quello che ha fatto me estrarre in umore di diventare qualche volta poeta. Ma si come gli altri che dal cielo hanno lo spirito si chiamano divini, così io poi che da’ lavori di terra nasce il mio studio mi chiamerò poeta terreno» (Luburdi 1917: 234)

 

Bibliografia

 

Mitologia e Archeologia: da Padova a Roma

         

 

La rinascita della mitologia non fu solo appannaggio dei filologi ma anche degli archeologi che con i primi scavi e l’osservazione dei reperti classici diedero vita a quel gusto antiquario che caratterizzerà la cultura del Cinquecento e del Seicento ed oltre. Il fiorire degli studi antiquari si può far risalire a Lovato Lovati (1261-1329), studioso di diritto come Rolando da Piazzola, suo nipote e continuatore insieme ad Albertino Mussato (1261-1329) nel metodo analitico di indagine dell’antichità classica. E’ con Francesco Petrarca, a Padova nel 1349 in occasione del conferimento del canonicato da parte di Jacopo da Carrara, che si acquista coscienza della distanza storica del mondo classico e nasce l’esigenza di uno studio profondo e scientifico per il medesimo stimolato da un amore e una ammirazione verso quel mondo passato ed esemplare; ed è attraverso la sua opera che la cultura antiquaria del circolo padovano trova un più preciso riferimento a Roma. Nei Familiarum rerum Libri e nell’Africa infatti il poeta aveva proceduto ad una ricostruzione della storia di Roma attraverso i ruderi, delineando così un fenomeno di rinascita dalla barbarie sotto l’influenza dei modelli classici. Con Giovanni Dondi nasce un vero e proprio interesse archeologico nei riguardi dell’antichità che si manifestò in particolare in occasione del suo viaggio a Roma   nel 1375, dove l’umanista procedette ad un’attenta analisi, descrizione e misurazione dei monumenti classici, delle loro iscrizioni, di cui è testimonianza il suo Iter Romanorum.

 

Un analogo atteggiamento scientifico, in continuità con il preumanesimo padovano, caratterizza gli studi filologici ed archeologici del Quattrocento secondo una metodologia unitaria che investe tanto l’analisi del testo, che lo stile del verso, la scrittura, quanto l’indagine dei reperti antichi. Felice Feliciano «cognominato antiquario per aver quasi consumato gli anni suoi in cercare le generose antiquità di Roma e di Ravenna e di tutta Italia», come si esprime Sabbadino degli Arienti, è il personaggio focale dell’Umanesimo Padovano. A Roma entrò in contatto con i Porcari, cultori e collezionisti di antichità, con pittori ai quali diede consigli sull’uso dell’antico e fu testimone dell’opera di Ciriaco d’Ancona, un personaggio curioso e attento ai vari aspetti dell’Antichità: dalle iscrizioni ai monumenti ai dati iconografici, appuntati in occasione dei suoi viaggi in Grecia in Oriente e a Roma, e poi raccolti nei suoi Commentari successivamente andati perduti. Ciriaco si può dunque considerare il precursore di quei collezionisti di antichità che si moltiplicheranno nel corso del Cinquecento e per i secoli successivi. Ispirata a Ciriaco D’Ancona è la famosa gita sul lago di Garda del 2 o 3 Settembre 1464 alla ricerca di vestigia dell’antichità, descritta da Felice Feliciano nella sua Jubilatio, e che ebbe come protagonista, insieme al Feliciano stesso, Samuele da Tradate, Giovanni Marcanova e finalmente Andrea Mantegna. A questo artista in particolare si deve la restituzione di quella forma classica ai soggetti antichi, in primo luogo proprio attraverso l’osservazione dei reperti presenti nell’area romana di Padova; rilievi e sculture funerarie sono per lo più caratterizzate da soggetti mitologici con un significato resurrezionale: dai putti ai cortei di centauri, tritoni e nereidi, al classico Mercurio psicopompo. Ma i modelli antichi sono reperibili anche nella medaglistica classica che aveva trovato un primo revival nell’età dei Carraresi, la prima illuminata signoria umanistica, per attingere solo successivamente alla letteratura mitologica ed in particolare alle Metamorfosi di Ovidio. Nella giovanile pala di San Zeno dell’artista padovano il mito viene filologicamente citato attraverso il recupero della medaglistica antica sui pilastri dove si intravede oltre alla rappresentazione di Mercurio con Pegaso derivata dalla medaglia di Antinoo, le figure della Fortuna e della Vittoria insieme a Tritoni e Nereidi in un’iconografia derivata dai sarcofaghi antichi. La presenza di scene mitologiche nella "camera picta" del Palazzo ducale di Mantova testimoniano la conoscenza da parte del pittore o degli umanisti alla corte di Ludovico Gonzaga dei testi antichi così come delle figurazioni classiche spesso aggiornate alle più recenti interpretazioni all’antica; mentre all’interpretazione neoplatonica del mito si dovette rivolgere il pittore per i dipinti del camerino di Isabella d’Este.

 

Ma la mitologia nel territorio padano era già presente fin dalla fine del Duecento attraverso la tradizione astrologica che aveva lasciato testimonianze visive nel Palazzo della Ragione   e negli affreschi del Guariento nella chiesa degli Eremitani a Padova.

 

Insieme alle prime edizioni illustrate dei testi antichi in lingua originale o volgarizzati si pone il romanzo mitologico-archeologico di Francesco Colonna l’Hypnerotomachia Poliphili, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 1499, che costituisce un prototipo di fondamentale importanza per il rapporto fra immagini , letteratura e cultura filosofica nell’Umanesimo.

 

Alla fine del XV secolo si assiste ad un’evoluzione della cultura antiquaria che procede da un atteggiamento archeologico e di ricerca filologica all’uso della trascrizione simbolica in immagini - da cui la fortuna dei geroglifici nella loro falsificata interpretazione umanistica - al gusto per il bizzarro, il decorativismo che, se connota una certa cultura fiorentina nella sua peculiare interpretazione dell’antico, trova agio ed espansione in rapporto alla tendenza di destabilizzazione degli Stati italiani all’inizio del Cinquecento.

 

Se dunque all’inizio del Quattrocento l’interesse per la classicità aveva portato, insieme a quell’atteggiamento di meraviglia e di riscoperta, una nuova coscienza dell’antico come exemplum da ri-conoscere e riacquisire con mezzi razionali e scientifici, a partire dalla fine del secolo la sua strumentalizzazione e la riflessione su di esso si manifesta nell’acquisizione e nell’accumulo erudito degli esemplari antichi non più a fini conoscitivi ma essenzialmente economici e di prestigio e quindi di potere. Basti pensare alla fondazione del museo capitolino da parte di Sisto IV della Rovere che non corrispondeva ad interessi antiquari ma piuttosto ad una proiezione politica dell’antico finalizzata alla repressione della identità comunale della città con la trasformazione del Campidoglio da luogo politico in un museo.

 

Ad una finalità non puramente filologica e scientifica risponde dunque più in generale il fenomeno del collezionismo archeologico nell’ambito del quale rientra la falsificazione, la copia ma anche la strumentalizzazione, la maniera, spesso a discapito di una metodologia di ricerca. Nel corso del Cinquecento una maggior cura verrà data agli allestimenti delle collezioni in un primo tempo limitate agli studioli e ai camerini e successivamente estese nei cortili nei giardini e finalmente nelle gallerie. Il carattere di arredamento e di ornamento che soprattutto le statue antiche rivestivano è già chiaro nel caso degli arredi dei cortili dove, come nel caso di quello di palazzo Della Valle o di Casa Sassi immortalati dalle incisioni di Marteen van Heemskerk, la disposizione dei pezzi delle collezioni rispondevano ad un percorso autocelebrativo del Signore sulla scorta dei programmi iconografici, le cui invenzioni informarono i cicli pittorici lungo tutto l’arco della rinascita. Tale fenomeno diverrà imponente nell’arredamento dei giardini, da villa Madama a Villa d’Este al giardino di Bomarzo a quello di Boboli a Firenze nei quali la mitologia diventa protagonista di un grande spettacolo dove l’ornamento si unisce al meraviglioso e allo sbalorditivo.

 

Nelle gallerie invece un maggior rigore compone le collezioni, volte a sottolineare la grandezza del proprietario che si manifesta attraverso quei luoghi dove il Signore va a "spasseggiare" insieme ai suoi illustri ospiti per mostrare il suo potere e la sua ricchezza attraverso la metafora della cultura e dell’antichità.

 

Bibliografia

 

 Il mito a Venezia: pittura e produzione a stampa fra Quattrocento e Cinquecento

         

 

A Venezia non è la corte il luogo dove si produce la cultura, sono piuttosto i circoli di studiosi, più spesso vicini ai primi editori, che già all’inizio del secolo portano avanti una ricerca di alto livello; così anche nell’ambito della cultura artistica si verifica una sorta di sperimentazione intellettuale che convive con una produzione artigianale meno elevata e più divulgativa e disimpegnata, che troverà espressione sia nelle illustrazioni dei testi a stampa sia nelle incisioni sia nella produzione e nella decorazione di oggetti d’uso, dai mobili ai manufatti del corredo domestico. Tale dialettica attraversa tutto il secolo implicando sia l’attività artistica di grossi personaggi come Giorgione, Tiziano, Tintoretto, Veronese, con la realizzazione di capolavori indiscutibili, documenti di una complessa problematica culturale, sia quella produzione spesso ancora artigianale, sicuramente più semplificata nei contenuti come nelle soluzioni formali, affidata ad artisti meno impegnati o alle maestranze di bottega, che sta a testimoniare una tendenza culturale di più ampia e facile fruizione.

 

La diffusione delle immagini mitologiche, a partire dall’edizione illustrata dell’Ovidio volgare nel 1497 , determina emblematicamente la divaricazione della produzione artistica a soggetto profano e segnatamente mitologico in due livelli: il primo continua anche attraverso le altre edizioni ovidiane e la produzione incisoria il nucleo illustrativo e divulgativo della favola mitologica narrata attraverso le varie fasi delle singole storie. Il secondo filone vede nella mitologia classica il tramite di determinati contenuti simbolici ricavabili dall’analisi delle fonti letterarie, alla luce della speculazione filosofica del tempo.

 

A Firenze alla corte di Lorenzo il Magnifico la mitologia era stata allegorizzata attraverso la filosofia platonica nell’interpretazione che ne aveva dato Marsilio Ficino a capo dell’Accademia di Careggi. La diffusione delle concezioni neoplatoniche, veicolate dalla mitologia in ambito veneto, viene recepita in termini diversi rispetto all’ermetico simbolismo fiorentino; negli Asolani di Pietro Bembo (stampato nel 1505), nel Libro de Natura de Amore di Mario Equicola (1525) come nei Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo i miti legati all’amore, alla bellezza, alla musica e alla poesia rivestiranno concetti complessi e profondi resi più facilmente comprensibili dalla lingua volgare adottata dai tre autori. In volgare viene anche stampato da Aldo Manuzio, a soli due anni di distanza dalle Metamorfosi di Ovidio, il romanzo di Francesco Colonna, l’Hypnerotomachia, Poliphili; al testo e alle illustrazioni dell’opera farà riferimento negli anni seguenti la cultura figurativa veneta.

 

Alle favole mitologiche Giorgione da Castelfranco, la cui identità biografica ed artistica rimane ancora avvolta dalle tenebre, dedicherà poca attenzione, più attratto dalle elaborazioni filosofiche nei suoi dipinti soggetti alle più complesse interpretazioni; ma al suo nome resta legata una produzione di facile consumo dove il mito viene semplicemente raccontato o illustrato a fini decorativi o per committenti interessati a quelle storie immerse nella natura umbratile resa attraverso quel colorismo che caratterizzerà le ricerche pittoriche degli artisti veneziani nel XVI secolo.

 

Il genere deputato a tale produzione artistica è per lo più la pittura di cassone per committenti privati che restano nell’anonimato come anche spesso gli stessi pittori. L’andamento narrativo di queste rappresentazioni è ispirato per la gran parte alle Metamorfosi di Ovidio sul modello delle illustrazioni xilografiche dell’edizione in volgare del poema augusteo. Fra queste i pannelli dei musei civici di Padova con la Leda e il cigno o il cosiddetto Idillio campestre, che sembra riproporre a livello compositivo la tematica della Tempesta dell’Accademia, restano in un totale anonimato anche per la fattura poco definita sebbene siano molto caratterizzate le ambientazioni naturalistiche e gli sfondi di città. Di discussa attribuzione invece sono i pannelli con la Nascita e la Morte di Adone nei Musei civici di Bergamo o quello con la storia di Apollo e Dafne del seminario patriarcale di Venezia, fedelmente mutuata dalla xilografia del poema ovidiano nella sequenza degli episodi: dall’uccisione del serpente Pitone per mano di Apollo, all’inseguimento della ninfa da parte della divinità solare che determinerà la metamorfosi in alloro; per questi i nomi di Tiziano giovane, Giorgione e Paris Bordon, per il pannello veneziano, continuano ad essere riproposti senza un approfondimento di questo tipo di produzione - che invece si registra in parte per l’area toscana - e dunque del lavoro di bottega da una parte e dello status dell’artista dall’altro in ambiente veneto all’inizio del Cinquecento. Più definiti, in termini stilistici, appaiono i tondi con il mito di Endimione e il Giudizio di Mida della Galleria Nazionale di Parma assegnati a Cima da Conegliano, al quale pure sono riferiti il Bacco e Arianna del Museo Poldi Pezzoli di Milano e i due frammenti con Sileno e tre Satiri e Fauno della Johnson Collection di Philadelphia e il Giudizio di Mida di Copenhagen. Più innovativa rispetto ai modelli illustrativi è la composizione del pannello dell’Accademia Carrara di Bergamo dove Euridice, morsa dal dragone, corre verso l’esterno del pannello, mentre al centro in secondo piano le fiamme dell’Inferno fanno da sfondo al momento cruciale del mito in cui Orfeo girandosi a guardare Euridice la perderà per sempre.

 

Ancora nell’ambito di questa produzione si pongono una serie di rappresentazioni dedicate a Venere o alla ninfa scoperta dal satiro, soggetti a sfondo ora erotico ora filosofico che caratterizzano la cultura veneta e nord-europea del primo Cinquecento. La matrice è forse da rintracciare nel romanzo di Francesco Colonna e nella xilografia che illustra appunto una ninfa scoperta da un satiro affiancata da due amorini che versano dell’acqua. Si tratta di una figurazione ecfrastica che decora la fontana della vita, come indica l’iscrizione dedicatoria P A N T W N T O K A D I , vale a dire "alla madre di tutte le cose ", dove Polifilo andrà a dissetarsi durante il suo lungo percorso iniziato alla ricerca dellla sapienza. Dalla Venere di Dresda alla Ninfa alla fonte di Lucas Cranach a Lipsia, alla Venere di Urbino il tema dell’amore viene assunto e finalizzato per contenuti ora matrimoniali ora erotici ora filosofici.

 

In questi dipinti si verifica un netto scarto dalla composizione narrativa a quella allegorica che caratterizza le opere attribuite a Giorgione, come già notava Giorgio Vasari nel ricordo dell’impressione avuta dei dipinti dell’artista in occasione del suo viaggio a Venezia: «Giorgione non pensò se non a farvi figure a sua fantasia per mostrar l’arte; poiché nel vero non si ritrovan storie che abbi ordine o che rappresentino i fatti di nessuna persona né antica o moderna».

 

Mentre gli Asolani di Pietro Bembo, nel recepire la tradizione platonica fiorentina, costituiscono la fonte primaria di quella produzione a soggetto amoroso e cortese, i Dialoghi d’Amore di Leone Ebreo, scritti probabilmente fra il 1502 e il 1506 ma pubblicati solo nel 1535, si fanno interpreti di quella componente ermetica del neoplatonismo rinascimentale che è alla base di molte opere di paternità giorgionesca e di Tiziano giovane.

 

Il Concerto campestre del Louvre insieme all’Amor sacro e Amor profano della Borghese interpretano questa complessa problematica artistica tematica e culturale. La inusuale rappresentazione del dipinto parigino, dove figure nude e figure diversamente vestite creano un’atmosfera di intesa e di sospensione temporale, rivela la sua valenza allegorica in termini di allegoria musicale. Per la nuda alla fonte bisogna ricorrere all’immagine della poesia nella serie dei cosiddetti Tarocchi del Mantegna, dove una figura femminile posta sul Parnaso si appresta a compiere un rito di purificazione lustrare. Così la contaminazione della nuda del dipinto del Louvre con la personificazione della Temperanza contribuisce, anche attraverso la dimensione temporale, a conferire al dipinto un significato filosofico musicale.

 

Un dipinto di quotidianità matrimoniale e di allegoria filosofica invece è stato da ultimo definito l’Amor sacro e profano ; il dipinto tizianesco, eseguito fra il 1514 e il 1515 in occasione del matrimonio fra Nicolò Aurelio e Laura Bagarotto, come rivelano gli stemmi dipinti nel quadro, verte sul tema dell’amore in antitesi ma in inevitabile dialogo con la morte. Così l’amore umano, rigenerazionale e matrimoniale convive e si contrappone all’amore sublimato, all’amore divino, spogliato di ogni ornamento, assimilabile anche a Psiche, all’anima, mentre l’elemento dell’acqua, assume un significato simbolico come nel romanzo d’amore di Francesco Colonna e nel Concerto campestre in quanto si fa tramite fra gli opposti e medium nell’azione del temperare da parte di Cupido.

 

Dopo la precoce morte di Giorgione la sopravvivenza della mitologia nella cultura artistica veneta del Rinascimento resta affidata essenzialmente a Tiziano e solo in parte ad altri artisti come Sebastiano del Piombo, autore della splendida Morte di Adone agli Uffizi , replicata da Baldassarre Peruzzi negli affreschi della sala delle Prospettive nella villa di Agostino Chigi a Paris Bordon e a Palma il Vecchio e solo più tardi a Tintoretto, seguito dalle solari composizioni di Veronese.

 

Bibliografia

 

 Il mito nella cultura delle corti italiane

         

 

La geografia delle corti italiane presenta alcuni caratteri comuni che configureranno gli usi, i costumi, il pensiero, l’arte e la cultura fino all’età contemporanea. Persistenze feudali caratterizzano il territorio italiano dove ai Comuni succedono le Signorie che accentrano i poteri comunali in una sola persona. Dinastie diverse sono volte così a costituire piccole corti o a configurarsi in Stati con caratteristiche politiche e finanziarie che preludono ai grandi Stati europei del Cinquecento.

 

Ma non è possibile tracciare uno sviluppo unitario e sincronico per le diverse corti italiane; infatti mentre fra la fine del Trecento e il primo Quattrocento le corti del centro-nord emergevano come evoluzioni di istituzioni comunali, al sud il potere baronale non fu arginato nemmeno dall’unificazione del regno delle due Sicilie con gli Aragona. Il rafforzamento dell’effettivo potere territoriale della curia pontificia rappresenta un caso del tutto particolare grazie alla disponibilità finanziaria e alle capacità politiche a livello internazionale del papato. Anche a Firenze l’affermazione di un potere oligarchico sull’instabilità delle istituzioni comunali ha permesso al patriziato di dominare attraverso il controllo delle corporazioni più importanti; il superamento di questo regime oligarchico avvenne con l’egemonia della famiglia dei Medici, rispettosa almeno apparentemente, delle antiche istituzioni e degli assetti della repubblica fiorentina.

 

A Venezia il potere oligarchico detenuto da una classe politica ereditaria, nell’affermarsi anche sull’entroterra, ha scalzato i poteri signorili; Padova e Verona vennero ben presto fagocitate dalla repubblica veneziana e dalla sua azione civilizzatrice. A nord-ovest il ducato milanese, del quale erano stati signori prima i Visconti e poi gli Sforza, nonostante la violenta conquista da parte dei francesi, rimase ben definito nei suoi confini e nella sua caratterizzazione culturale.

 

La situazione disomogenea delle corti italiane è caratterizzata però da un progressivo sistema di equilibrio con lo scopo di impedire ad un singolo stato di raggiungere l’egemonia della penisola. La pace di Lodi stipulata nel 1454 sancì dunque quella politica di equilibrio che inserì il sistema degli stati italiani nel più ampio ambito degli stati europei. Infatti quando Venezia incominciò ad espandersi nella pianura padana venne contrastata dagli altri stati che si unirono in una lega, la lega di Cambrai, ed entrarono in conflitto con la repubblica veneziana, riuscendo ad arginare la sua espansione. Tale evento viene allegoricamente ma eloquentemente raffigurato da Jacopo Palma il Giovane nel Palazzo Ducale a Venezia.

 

Ma la spedizione di Carlo VIII in Italia, per far fronte alle irrequietezze di Ludovico il Moro, rivelò la fragilità del sistema politico inaugurato dalla Pace di Lodi. La caduta del ducato di Milano in mano degli spagnoli nel 1535, la cacciata dei Medici da Firenze nel 1494 e nuovamente nel 1527, il Sacco di Roma nello stesso anno, in seguito al quale il papa dovrà inchinarsi a Carlo V, e infine la sottomissione di Napoli nell’orbita spagnola sono chiare manifestazioni di una forte crisi politica, aggravata dalla spinte delle forze esterne non solo di quelle francesi, spagnole ed imperiali ma anche di quelle dell’Oriente mussulmano che dovranno essere fronteggiate soprattutto da Venezia. Ma tali incursioni furono anche causa di veicolazione della cultura italiana in Europa, rafforzata dagli scambi commerciali e dai legami matrimoniali che porteranno artisti italiani nelle corti europee. E’ il caso non solo di Fontainebleau, dove si trasferiranno Rosso Fiorentino e Francesco Primaticcio che lavoreranno alla galleria di Francesco I e alla Galleria d'Ulisse e in altre sale del Castello di Fontainebleau e solo più tardi, sotto Enrico II, anche Niccolò dell'Abate, ma anche di Carlo V, uno dei grandi committenti di Tiziano insieme al figlio e successore sui domini spagnoli, Filippo II, e ancora di Rodolfo d’Asburgo, mecenate e raffinato collezionista, legato alla cultura italiana.

 

La mitologia occupa un ruolo significativo nella cultura delle corti italiane ed europee. L’interesse per i miti antichi e per le favole di Ovidio in particolare si manifesta nell’ambito delle corti alla fine del Quattrocento. A Ferrara, a Mantova, a Milano, a Firenze il mito, nobilitato dall’autorità degli antichi, diveniva materia adatta alle diverse manifestazioni della vita di corte attraverso la letteratura, la musica, le rappresentazioni teatrali e naturalmente l’arte, sia nelle decorazioni dei palazzi che nei dipinti commissionati agli artisti di corte del momento. Dalla Favola di Orfeo alle Stanze di Poliziano fino alle opere di Boiardo e Ariosto i miti ovidiani vengono ripresi come modelli e assimilati in particolare nelle rielaborazioni cavalleresche dei poemi contemporanei.

 

All’interno delle feste di corte le rappresentazioni teatrali attingevano spesso alle favole mitologiche; queste erano scelte in rapporto all’occasione da celebrare o commemorare e dunque erano inventate in una stretta dimensione cortese. È il caso dell’Orfeo di Poliziano rappresentato a Mantova nel 1480 (Pirrotta. 1975; Tissoni- Benvenuti. 1986), o della Fabula di Cefalo e Procri di Niccolò da Correggio, rappresentata nel 1475 a Bologna e nel 1487 a Ferrara in occasione di matrimoni.

 

Insieme ad Orfeo, Bacco è uno dei personaggi più ricorrenti nelle rappresentazioni mitologiche; già presente nella scena finale dell’Orfeo di Poliziano un Trionfo di Bacco e Arianna venne rappresentato in occasione del carnevale fiorentino del 1489. La mitologia entrava anche nelle rappresentazioni delle commedie dei classici sotto forma di intermezzi; questi, originariamente semplici composizioni musicali inserite nell’intervallo di una rappresentazione vanno arricchendosi nella seconda metà del Quattrocento di un apparato scenico sfarzoso caratterizzato da carri trionfali con esseri fantastici derivati spesso dalla mitologia classica (Povoledo, 1959). A partire dal Cinquecento vere e proprie favole per musica furono utilizzate quali intermezzi teatrali; a Firenze in occasione delle Nozze di Cosimo I e di Eleonora di Toledo, il 9 luglio 1539 un corteo dionisiaco con Baccanti e satiri che cantavano e ballavano venne introdotto durante uno degli intermedi con musica di Francesco Corteccia «per non lasciare gli spettatori addormentati». Ancora a Firenze l’Andromeda di Jacopo Cicognini

 

venne rappresentata come intermezzo nel 1618 in occasione dei festeggiamenti per la visita dell’arciduca Leopoldo d’Austria presso la corte granducale in casa Rinaldi "dietro la Nunziata", ovvero la Chiesa della SS.Annunziata.

 

Con la pace di Cateau- Cambresis, firmata il 3 aprile 1559, si chiuderà il conflitto fra Francia e Spagna sulle terre italiane; i domini cortesi rimarranno nell’orbita spagnola per cui la realtà delle corti italiane incomincia a perdere la sua caratterizzazione e progressivamente le piccole corti verranno assorbite nell’orbita del dominio della Chiesa o delle potenze europee.

 

Bibliografia

 

Cultura e mitologia nelle piccole corti italiane

         

 

La sovranità del papato era estesa nel Quattrocento, oltre che alle grandi corti come quella del regno delle due Sicilie, alle signorie dei Montefeltro a Urbino, dei Malatesta a Rimini e dei Gonzaga a Mantova.

 

Sigismondo Pandolfo Malatesta , signore di Rimini, Fano e Senigallia fu la tipica figura del signore italiano del Rinascimento, uomo colto, protettore delle arti, committente di importanti opere di fortificazioni e di difesa, ma anche di opere legate alla pietà religiosa e alla sua celebrazione come il tempio Malatestiano , architettura insigne di Leon Battista Alberti, un monumento classico piuttosto encomiastico e celebrativo, come rivelano esplicitamente le iscrizioni sulle due lastre marmoree poste sulle fiancate laterali che religioso.

 

All’interno una complessa decorazione a rilievo, opera di Agostino di Duccio e della sua bottega, riveste i pilastri delle sei cappelle lungo la navata della chiesa di San Francesco egregiamente restaurata "all’antica" da Matteo de’ Pasti su progetto dell’architetto fiorentino. Il programma iconografico della decorazione a rilievo di immagini vibranti dai panneggi mossi è informato alla tradizione enciclopedica e annovera apocalittiche figure di Profeti e Sibille, immagini di Virtù insieme a putti danzanti, a sensuali Muse accompagnate da splendide Arti Liberali e carri astrologici con la sequenza delle divinità planetarie.

 

Ma la politica spregiudicata del Malatesta che lo portò a partecipare alle guerre d’Italia fra il 1433 e il 1463, alleandosi ora con l’una ora con l’altra signoria ed attirandosi odi e vendette da parte degli Sforza di Milano, di Federico da Montefeltro, di Alfonso d’Aragona e dello stesso pontefice Pio II, determinò la perdita di tutti i suoi territori eccetto Rimini che alla sua morte nel 1463 passò allo Stato della Chiesa.

 

Anche le vicende di Federico da Montefeltro furono complesse e spesso macchiate di sangue. Il suo ruolo di condottiero e di principe illuminato viene visualizzato negli splendidi ritratti dei maestri fiamminghi e di Piero della Francesca . Figlio illegittimo, salito al potere dopo l’uccisione del fratello Oddantonio, Federico venne insignito nel 1474 dell’ordine della giarrettiera e dell’ermellino. La corte di Urbino, dove passarono le menti più illuminate della cultura del tempo da Leon Battista Alberti a Piero della Francesca a Raffaello a Bramante, a Baldassarre Castiglione, divenne il modello di corte ideale.

 

La prevalenza della cultura scientifica da una parte e la sopravvivenza della tradizione medievale nei temi enciclopedici e sapienziali dello studiolo e delle tarsie nelle porte del Palazzo Ducale ha determinato una quasi totale assenza di decorazioni mitologiche ad Urbino. Oltre alla presenza di putti nelle decorazioni del camino marmoreo della sala degli angeli il mito fa la sua comparsa nell’appartamento di Battista Sforza , moglie di Federico, dove le figure mitologiche di Ercole e Jole sono rappresentate nelle due sculture che affiancano il camino marmoreo .

 

Infine nel tempietto cosiddetto delle Muse la serie completa delle nove Muse è accompagnata da Apollo con la sua immancabile lira. I dipinti a figura intera attribuiti a Giovanni Santi, il padre di Raffaello, si conservano alla Galleria Corsini di Firenze e sono molto vicine alla serie di miniature dallo stesso soggetto contenute in quel codicetto miniato di Ludovico Lazzarelli, (Urb.Lat. 771; Biblioteca Apostolica Vaticana), già dedicato a Borso d’Este e solo successivamente a Federico, dove le Muse e le divinità planetarie, rappresentate in serie sequenziali, in realtà si corrispondono secondo una struttura armonica di derivazione platonica che informava la cultura di fine Quattrocento. Le iconografie delle Muse e delle divinità planetarie sono derivate a loro volta dai Tarocchi cosiddetti del Mantegna, una serie di incisioni in due diverse redazioni connotate con la lettera E ed S che comprendevano insieme alle Muse e ai Pianeti la serie dedicata all’età della vita e alle condizioni umane, alle Virtù e alle Arti Liberali nel rispetto della tradizione enciclopedica.

 

Ma poco distante da Urbino ancora le divinità mitologiche stanno a festeggiare sui carri addobbati Camilla d’Aragona che si unisce in matrimonio con Costanzo Sforza, fratello di Battista, moglie di Federico da Montefeltro, nel 1475 in occasione di quella sfarzosa cerimonia nuziale che viene descritta ed illustrata nel codice Urbinate latino 899 dedicato alle Nozze fra i due augusti signori alla presenza anche del duca di Urbino .

 

Bibliografia

 

La cultura mitologica alla corte medicea fra Quattrocento e Cinquecento

         

 

La signoria medicea a Firenze, a partire dalla metà del Quattrocento, rivestì un ruolo fondamentale nel panorama degli Stati italiani sia da un punto di vista politico che culturale. Il forte legame con la Chiesa attraverso la continuità della presenza di questa famiglia sul soglio pontificio, da Leone X a Clemente VII a Pio IV, ha determinato un'affermazione della cultura e dell’arte fiorentina con figure di primo piano.

 

A Firenze la pittura a soggetto mitologico e profano incomincia ad affermarsi fin dalla fine del Trecento per trovare espansione nel Quattrocento attraverso una produzione ad uso privato e domestico. Nella decorazione delle abitazioni nobiliari, come quella di Palazzo Davanzati, ma anche nelle pitture di spalliere e sovrapporte la pittura profana appare legata ancora alla cultura cortese e alla tradizione stilistica franco-borgognona. Soggetti profani popolano anche quegli oggetti di arredamento come i cassoni, i deschi da parto, i cofanetti, i forzieri e i forzierini per lo più legati alla vita matrimoniale e spesso informati alle tematiche amorose o ai soggetti esemplari volti ad esaltare le virtù degli sposi; in rapporto a tali tematiche incominceranno ad affermarsi alla metà del secolo le mitografie classiche prima narrate e poi allegorizzate nei dipinti di più elevato livello culturale come quelli commissionati dalle grandi famiglie fiorentine prima fra tutte i Medici.

 

Legate ai tradizionali temi calendariali sono le maioliche   che decoravano lo studietto di Piero de’ Medici in Palazzo Vecchio ad opera di Luca della Robbia e oggi al Victoria and Albert Museum di Londra. Le figurazioni dei mesi, connesse ai lavori nei campi, sono arricchite anche dai segni zodiacali, secondo un’iconografia che generalmente era stata assunta nei portali o sulle facciate delle cattedrali romaniche in rapporto a un più ampio programma enciclopedico. Nel camerino di Piero invece, un ambiente adibito alla raccolta di oggetti ma anche alla meditazione, i temi stagionali sono piuttosto legati al loro valore temporale consono ad un luogo di studio e di riflessione dove la dimensione culturale viene scandita dal trascorrere del tempo.

 

Accanto alle «pitture di favole che - come scrive Vasari - erano per lo più tolte da Ovidio e da altri poeti greci e latini» come i famosi pannelli dipinti da Piero di Cosimo per Francesco del Pugliese, dedicati all’età primitiva e al mito di Vulcano, o per la famiglia Vespucci sui temi dionisiaci, si pongono le più complesse allegorie filosofiche commissionate da Lorenzo dei Medici a Botticelli che eseguì fra il 1475 e il 1478 le allegorie sul mito di Venere, la Nascita di Venere , la Primavera o Regno di Venere , Marte e Venere (Londra, National Gallery) il dipinto con Minerva e il Centauro agli Uffizi. La mitologia veniva spesso ad assumere nelle corti italiane non solo un ruolo culturale ma anche celebrativo del Principe e della sua corte.

 

A Luca Signorelli era stato commissionato nel 1490 un dipinto oggi andato perduto che rappresentava il Regno di Pan e riproponeva in termini allegorici proprio l’atmosfera arcadica della corte medicea nella villa di Careggi, dove un intellettuale gioco di parole riconduce il dio Pan attraverso il suo significato etimologico pan- tutto, al cosmo, come indiretta celebrazione di Cosimo de’ Medici.

 

Il mito in termini stagionali ma anche celebrativi è presente anche nel fregio di Poggio a Caiano , la villa progettata da Giuliano da Sangallo e decorata dalla cerchia di Luca della Robbia ed in particolare da Bertoldo di Giovanni entro il 1491, con temi legati al ciclo cosmogonico della creazione, all’età dell’oro, del bronzo e del ferro e dunque alla ciclicità temporale e stagionale funzionale alla collocazione del fregio sulla facciata di una villa di campagna ma anche alla celebrazione del principato di Lorenzo che, come recita il suo motto «Les temps reviens», è destinato a rinnovarsi ciclicamente.

 

Le tristi vicende che hanno caratterizzato la Signoria fiorentina dopo la morte di Lorenzo nel 1492, dalla repubblica del Savonarola alla fuoriuscita dei Medici da Firenze, hanno lasciato la città priva per qualche anno di testimonianze culturali legate alla corte, mentre i più quotati artisti fiorentini venivano chiamati a Roma dove, in nome della renovatio urbis, si andavano aprendo numerosi cantieri non solo per la costruzione e il restauro di edifici, ma anche per grandi imprese decorative. Già alla metà del Quattrocento Beato Angelico era stato invitato per la decorazione della Cappella Niccolina; sotto il pontificato di Sisto IV é la volta della Cappella Sistina, dove una schiera di artisti fiorentini e umbri, da Botticelli a Piero di Cosimo, da Cosimo Rosselli a Perugino hanno decorato le pareti della cappella pontificia con storie in parallelo dell’Antico e del Nuovo Testamento.

 

La violenta critica di Girolamo Savonarola agli antichi miti si pone dunque agli antipodi della tendenza umanistica della cultura di fine secolo. I poeti antichi, come Omero, Virgilio, Ovidio, vengono condannati: in particolare le Metamorfosi con le storie degli dei e delle loro vicende amorose inficiate di erotismo, sono considerate immorali. Ad esse si contrappone l’Antiovidianus, opera probabilmente di un anonimo francescano milanese, che si esortava a leggere nelle scuole al posto delle immonde favole di Ovidio.

 

Quando nel 1497 fu stampata a Venezia la prima edizione in volgare delle Metamorfosi la critica e il biasimo del Patriarca della città si appuntò soprattutto contro le illustrazioni che venivano reputate indecenti e dunque spesso censurate.

 

Il rigorismo antiumanistico di Savonarola, sebbene rimasto isolato alle soglie del Cinquecento, quando l’esplosione della mitologia travolgerà le esigenze dei seguaci del monaco, già condannato al rogo nel 1498, si riconoscerà nella seconda metà del Cinquecento nelle tendenze ostili alla poesia classica da parte della Controriforma.

 

Bibliografia

 

Roma e la corte pontificia

         

 

Di corte si può parlare dunque anche per lo stato della Chiesa in particolare a partire da Nicolò V che, in seguito al periodo avignonese e al pontificato di Martino V, al quale si deve un progetto di bonifica della città, diede inizio ad un’opera di propaganda politica attraverso un rinnovamento architettonico e la progettazione della città.

 

Dopo il Concilio di Firenze nel 1439 e l’unione delle due Chiese, sotto Eugenio IV, più forte si era configurata l’esigenza di far coincidere l’immagine di Roma con l’immagine della Chiesa, che si esprimeva nel potere pontificio, centro propulsore delle crociate. Con l’ingresso di Maometto a Costantinopoli nel 1453 e la fine dell’Impero romano d’Oriente, Roma sentì sempre più la necessità di una difesa dall’esterno. L’intervento di Nicolò V è dunque rivolto alla città e al Borgo; pertanto mentre il ripristino delle mura urbane rispondeva ad un’esigenza di difesa contro i pericoli esterni, il restauro delle quaranta chiese stazionali tendeva a riconfermare l’idea del pellegrinaggio che trovava una sua compiuta manifestazione nel Giubileo indetto dallo stesso Parentucelli nel 1450. La ristrutturazione del Borgo infine, con la riedificazione del Palazzo pontificio e della basilica di San Pietro, veniva a definire una cittadella all’interno della città che si giustificava alla luce dei pericoli e delle lotte intestine dovute al contrasto con la classe baronale e alla crescente divaricazione fra curia e civitas espressa nella rivolta di Stefano Porcari nel 1453, conclusa immediatamente con l’impiccagione del suo promotore.

 

La situazione della corte pontificia venne dunque regolata dai rapporti con l’esterno guidati dalla preminenza delle famiglie che si susseguirono al soglio pontificio: dai Piccolomini di Siena, ai Barbo di Venezia, ai Della Rovere di Savona, ai Medici di Firenze e ai Farnese. Queste condizionarono anche la politica culturale con la presenza di artisti a Roma provenienti da scuole diverse che contribuirono in modo determinante alla renovatio urbis. La presenza di maestri umbri e fiorentini e di artisti provenienti dal nord hanno infatti caratterizzato la produzione artistica a Roma fra Quattrocento e Cinquecento commissionata dalle grandi famiglie romane e dalla curia pontificia.

 

La scelta in particolare di soggetti mitologici, come le fatiche di Ercole per la decorazione di Palazzetto Barbo, commissionata dal pontefice Paolo II, non costituisce un unicum nella cultura romana. Al pontefice veneziano si deve una delle prime collezioni archeologiche ancora legata alla sua famiglia e alla sua città di origine: Venezia. Bisognerà attendere il pontificato di Giulio II perché si costituisca la più importante collezione di antichità sistemata nel Belvedere da Giulio II dopo l'intervento bramantesco.

 

Già nella porta bronzea della basilica di San Pietro (1433-45) Filarete aveva raffigurato insieme alle vicende storiche contemporanee, che avevano impegnato il pontefice Eugenio IV nel concilio di Ferrara e Firenze, episodi storici e mitologici derivati dal repertorio miniaturistico medievale ma anche dalle cronache universali e dai bestiari. A questi ultimi in particolare si rifarà anche Pinturicchio nella decorazione del soffitto dei semidei Palazzo di Domenico della Rovere poi noto come Palazzo dei Penitenzieri, dagli ultimi proprietari i padri penitenzieri di San Pietro ai SS. Apostoli, dove figure mitologiche tratte dal repertorio classico convivono con figure mostruose e grottesche derivate dalla tradizione medievale dei bestiari. Nel Palazzo la mitologia sopravvive anche nel ciclo dei Mesi, raffigurato ancora da Pinturicchio nella sala adiacente a quella dei semidei. Una struttura calendariale dove insieme ai Mesi sono rappresentati i miti relativi alla nascita dei segni zodiacali. Tale variante tematica verrà riproposta da Baldassarre Peruzzi nel soffitto della loggia di Galateanella villa Farnesina dove è rappresentato l’oroscopo di Agostino Chigi. Pochi anni dopo il ciclo di Palazzo della Rovere servirà da modello per la sala dello zodiaco decorata da Giovanni Maria Falconetto nel Palazzo d’Arco a Mantova intorno al 1520.

 

Il mito entra anche nei Palazzi Vaticani alla fine del Quattrocento; con l’elezione al soglio pontificio di Alessandro VI Borgia nel 1492, la razionale cultura albertiana cederà il passo ad interessi filosofici ed ermetici grazie anche alla presenza presso la corte pontificia di personaggi come Annio da Viterbo, illustre antiquario e falsario che ha contribuito a diffondere nella cultura romana la moda dell’orientalismo e dell’egittologia, già introdotta dal testo di Orapollo, gli Hieroglyphica, un testo ermetico probabilmente del III secolo d.C., ma ritenuto appartenente all’antica cultura egiziana ed interpretato dai filosofi neoplatonici in termini simbolici. Il mito egiziano di Iside e Osiride è stato infatti rappresentato da Pinturicchio nell’appartamento del pontefice nell’ambito di un’allegoria sapienziale di salvazione e resurrezione volta a celebrare Alessandro VI come vicario di Cristo. La ricca decorazione dell'appartamento pontificio testimonia anche di quel gusto per le grottesche che erano diventate di moda dopo la scoperta della Domus Aurea e delle sue antiche decorazioni zoomorfe

 

Con l’inizio del Cinquecento la decorazione mitologica troverà espansione non solo nei palazzi ma soprattutto nelle ville di Roma e del territorio circostante.

 

Fra le corti più splendide di inizio secolo si pone quella del banchiere senese Agostino Chigi, il cui potere più che territoriale si configurava in termini economici. La grossa fortuna economica del senese a Roma accumulatasi dai proventi della vendita dell‘allume della Tolfa determinò un forte amicizia e dunque una protezione da parte del pontefice Leone X. La corte di Agostino aveva luogo nella villa alla Lungara che nelle forme architettoniche di Raffaello riproponeva l’ideale di villa classica. All’interno la favola di Amore e Psiche insieme alle storie di Ercole, agli amori di Giove e ai miti cosmogonici convivono con un cielo astrologico che configura l’oroscopo del committente Agostino Chigi ad opera dei più insigni maestri del tempo: lo stesso Raffaello e la sua bottega, Sodoma, Baldassarre Peruzzi, il veneziano Sebastiano del Piombo.

 

Si deve ad un papa Medici la decorazione di una villa a Monte Mario dove soggetti mitologici tratti dalle favole di Ovidio convivono con le divinità classiche della collezione di antichità che la famiglia dei Medici andava costituendo, arredando fra l’altro la loggia   e il giardino della villa Madama. Anche nella preziosa decorazione a stucco e ad affresco per mano di Giovanni da Udine e Giulio Romano la mitologia è per lo più finalizzata alla celebrazione di Leone X in rapporto alla simbologia solare e ai miti naturalistici con riferimento anche all’araldica medicea.

 

Negli stessi anni Perin del Vaga e Giovanni da Udine decoravano il soffitto della sala dei pontefici in Vaticano dove una rappresentazione astrologica è nuovamente programmata in funzione encomiastica nei riguardi del pontefice ancora una volta attraverso la simbologia solare.

 

Decorazioni mitologiche caratterizzano anche le committenze di Clemente VII, il quale già quando era cardinale aveva scritto una lettera a Mario Maffei, vescovo d’Aquino a proposito dei soggetti mitologici da rappresentare a villa Madama: «Quanto alle storie o fabule - scrive Giulio de’Medici il 17 Giugno 1520 da Firenze - piacemi sieno cose varie ne mi curo sieno distese e continuate et sopra tutto desidero sieno cose note [...] Le cose di Ovidio di che Vostra P.tà mi scrive mi vanno a gusto».

 

Ma i soggetti mitologici erano fra quelli preferiti in quanto ritenuti più adatti alle decorazioni oltre che di camere da letto e camere private, come viene raccomandato e poi codificato dai trattati del tempo, anche di quei piccoli ambienti camere da bagno o stufette che incominciano a caratterizzare i palazzi rinascimentali già dalla seconda metà del Quattrocento. Le stufette erano fornite di accessori da bagno e di uno speciale sistema di rifornimento idraulico. Francesco di Giorgio Martini mise a frutto le sue conoscenze di ingegneria idraulica per la progettazione di tali impianti per due ambienti adibiti a questo uso nel Palazzo ducale di Urbino. Questi ambienti venivano spesso affrescati da soggetti mitologici per lo più legati all’acqua, nel tradizionale rispetto dell’antica teoria del decorum, oppure da quei soggetti di evasione naturalistici o amorosi che erano consigliati per le stanze private. Nella stufetta del cardinal Bibbiena nel Palazzo Vaticano progettata e decorata da Raffaello e dai suoi aiuti Giovanni da Udine, Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, fra il 1513 e il 1516, prevalgono scene dedicate al mito di Venere, ma anche alla nascita di Erittonio e al mito di Pan e Siringa. All’inizio del pontificato di Clemente VII, fra il 1523 e il 1525, si suole far risalire la decorazione di un’altra stufetta a Castel Sant’Angelo che prende il nome dallo stesso pontefice per la presenza del suo stemma sulla porta di accesso e della impresa «candor illesus» all’interno della decorazione. Qui oltre ai miti legati a Venere e a Diana, una serie di divinità mitologiche, da Giove a Mercurio ad Apollo, è rappresentata attraverso gli attributi delle singole divinità graziosamente appoggiate su troni affrescati intorno al vano della vasca quasi a simulare dei tableaux vivants come se gli dei fossero scesi dai loro troni per andare a bagnarsi!

 

Soggetti mitologici decorano ancora Palazzi e ville degli anni Venti e Trenta del Cinquecento di illustri personaggi legati alla corte pontificia. E’ il caso, per esempio, di Palazzo Balami, residenza del medico del pontefice, Ferdinando Balami, il quale fece decorare il suo palazzetto in piazza Nicosia con i miti di Ercole e gli amori degli dei.

 

Miti naturalistici invece caratterizzano la villa a Montemario di Blosio Palladio, umanista e poeta, membro dell’Accademia pomponiana, uomo di corte di Leone X e segretario pontificio da Clemente VII a Giulio III. La vigna con il casino sulle pendici di Monte Mario veniva nominata "la Blosiana"; di non grandi dimensioni la villa doveva essere circondata da un giardino che esprimeva tutta la poetica naturalistica in termini antichi sulla base della trattatistica latina da Varrone a Catone a Columella. La natura entra anche all’interno del casino nelle decorazioni naturalistiche ornamentali e mitologiche. In particolare la scelta di miti è legata agli elementi: da Cerere a Nettuno a Vulcano e a Giunone sui loro carri affiancati da episodi mitologici connessi alle loro vicende.

 

Dopo i tragici eventi legati al Sacco di Roma nel 1527, di cui rimangono tracce eloquenti sugli affreschi sfregiati della sala delle Prospettive nella villa di Agostino Chigi, con il pontificato di Paolo III Farnese Roma incomincia a rifiorire con grandi imprese artistiche: dal Palazzo della Cancelleria a Castel Sant’Angelo, dove il mito è stato scelto anche da Alessandro Farnese, salito al soglio pontificio nel 1534 col nome di Paolo III, per la decorazione del suo appartamento privato. A Castel Sant’Angelo la mitologia convive insieme alle storie antiche raffigurate in diversi ambienti della fortezza pontificia: dalle origini mitiche di Roma agli episodi della vita di Adriano ad Alessandro Magno, quest’ultimo rappresentato in più scene sulle pareti della sala Paolina a celebrare nel nome di battesimo lo stesso pontefice. Nelle sale adiacenti Perin del Vaga esegue le storie di Perseo ed Andromeda e di Amore e Psiche contenute nei fregi che corrono lungo la parte alta delle pareti, nel rispetto di una tipologia decorativa vigente a Roma, ma non solo, a partire fin dall’inizio del secolo nei precedenti della villa di Agostino Chigi alla Lungara.

 

Negli stessi anni è da collocare anche la decorazione del Palazzo Stati Cenci a Sant'Eustachio decorato da Perin del Vaga ed artisti della sua bottega come Luzio Romano fra il 1543 e il 1550 circa su committenza di Cristoforo Stati. Il fregio con gli "amorosi diletti degli dei" si inserisce nella tradizione di pitture erotico-mitologiche che nel corso della prima metà del Cinquecento troveranno fortuna e diffusione anche attraverso la produzione incisoria nelle corti europee, prima fra tutte quella di Fontainebleau. I soggetti della decorazione del palazzo romano sono derivati dalle Metamorfosi e dai Fasti di Ovidio e rappresentano gli amori di Marte e Venere, di Saturno e Fillira , di Giove e Danae e personaggi mitologici legati ai temi musicali-sapienziali, Minerva insieme alle Muse e alle Pieridi.

 

L’astrologia al pari della mitologia si fa portatrice dei messaggi ideologici dei signori ed anche dei pontefici della grande corte romana. Dopo Leone X Giulio III Del Monte commissionerà nel 1550 la complessa decorazione mitologico-astrologica della sua villa nei pressi della via Flaminia. Qui miti stagionali raffigurati sulle pareti e sulle volte delle sale della villa ad opera di Taddeo Zuccari e Prospero Fontana convivono con più complesse rappresentazioni naturalistiche, a rilievo e ad affresco, che decoravano la loggia sopra al ninfeo dedicato all’acqua vergine al centro del cortile della villa. Qui Giorgio Vasari, fra gli architetti della villa, è forse l’autore della serie di Invenzioni di Annibal Caro, noto umanista ed intellettuale del tempo, che proponevano raffigurazioni legate alle feste propiziatorie romane dedicate a Cerere, Bacco e a Flora. All’interno del ninfeo, una decorazione astrologica, opera di Prospero Fontana, rappresenta segni zodiacali, divinità planetarie e trionfi stagionali disposti secondo la configurazione della carta del cielo in coincidenza con la data di nascita di Giulio III Del Monte, il 19 Settembre 1487.

 

Ancora una committenza Del Monte informa la decorazione della loggia di Palazzo Firenze eseguita fra il 1553 e il 1555 ad opera di Prospero Fontana. Al pianoterra la complessa ideazione della decorazione della volta nella sala grande comprende scene dedicate alle storie di Giove, mentre al primo piano la rappresentazione delle Muse e delle Pieridi e di episodi del mito di Ercole vengono finalizzati a rappresentazioni allegoriche legate al committente Balduino del Monte inequivocabilmente rappresentato e celebrato nelle sale attraverso le sue imprese araldiche.

 

I miti bacchici ritornano nel salotto di Palazzo Farnese , la nuova residenza della famiglia romana progettata da Antonio da Sangallo. Nel salotto privato al primo piano Alessandro Farnese si era fatto decorare un fregio con le storie di Bacco inneggianti alla fecondità e alla rigenerazione.

 

Negli stessi anni del pontificato del Monte la mitologia trova una particolare affermazione nelle decorazioni di Palazzo Capodiferro Spada commissionate da Gerolamo Capodiferro, già annoverato fra i cardinali «avvezzi a vivere licenziosi». I temi mitologici prescelti, in continuità con le decorazioni farnesiane a Castel Sant’Angelo, sono legati al mito di Amore e Psiche , raccontato da Apuleio nell’Asino d’oro, alle storie di Callisto derivate dalle Metamorfosi di Ovidio come anche le storie di Perseo o i miti che affollano la Galleria degli stucchi ; miti che vengono rappresentati secondo un programma teorico incentrato su una interpretazione della mitologia profana in chiave di teologia platonica, congeniale sia alle esperienze culturali di Girolamo Capodiferro alla corte di Enrico II di Francia, che alle sue esigenze religiose in pieno clima di Controriforma.

 

Dopo la metà del secolo la mitologia sopravvive a stento nella cultura romana, fortemente moralizzata dal pontificato di Paolo IV Carafa. Ma alla fine degli anni Cinquanta con l’elezione al soglio pontificio di un papa Medici, Pio IV, la cultura classica e la mitologia ritornano in auge anche negli stessi luoghi vaticani. A partire dal Casino di Pio IV , nei giardini vaticani, già iniziato dal Carafa, dove è apposta la data 1561, agli affreschi rigorosamente religiosi all’interno, intervallati solo da qualche figura allegorica secondo la tradizione artistica e compositiva del tempo, si affiancano le decorazioni sfacciatamente classicheggianti all’esterno. Sui vari edifici del casino della loggia e delle edicole sono rappresentati i temi cari alla tradizione medicea che vertono sulla ciclicità temporale attraverso i miti di Aurora, di Apollo, di Giove, ma anche attraverso le divinità marine e rigenerazionali a comporre un testo iconografico adeguato al luogo, simbolico della rinascita spirituale, sotto gli auspici dell’antiquario Pirro Ligorio, autore in quegli anni del Libro delle Antichità nel quale si tratta di alcune cose sacre et immagini ornamenti degli dei de’ gentili e delli loro origini, alla base delle formulazioni iconografiche della decorazione del Casino ma anche della Loggia di Pio IV al terzo piano dei Palazzi Vaticani. Qui, all’interno di un contesto culturale religioso, si pongono una serie di temi legati alla ciclicità e alla temporalità con il ricorso all’ormai affermata produzione mitografica ed emblematica di metà Cinquecento.

 

Negli ultimi decenni del Cinquecento la mitologia quasi del tutto assente alla corte pontificia sopravvive in particolare nelle decorazioni medicee: da Palazzo Firenze a Villa Medici fino Palazzo Rucellai dove Jacopo Zucchi, alla partenza di Ferdinando de Medici da Roma per Firenze in occasione della sua nomina a granduca nel 1589, eseguirà la grandiosa decorazione astrologico-mitologica nella galleria del palazzo romano del fiorentino Orazio Rucellai, dettagliatamente descritta dallo stesso artista in un testo, pubblicato successivamente a Roma nel 1602, dal titolo Discorso sopra li Dei de’ Gentili.

 

Bibliografia

 

Arte e mito nel territorio romano

         

 

L’estensione dello Stato della Chiesa oltre il territorio del Patrimonio di San Pietro, vale a dire il Lazio, fino all’Umbria, alle Marche, alla Romagna e a parte dell’Emilia, comportò una sovranità del papato su molte famiglie nobili che vennero insignite di feudi sul territorio. Il Patrimonio di San Pietro divenne teatro di lotte fra le famiglie romane, dai Farnese, agli Orsini, ai Colonna per l’acquisizione di territori, regolate dallo schieramento del pontefice a favore dell’una e dell’altra.

 

L’affermazione dei Farnese a Roma venne sancita con il pontificato di Paolo III. La decorazione dell’appartamento pontificio in Castel Sant’Angelo rispondeva a quel gusto profano che informava la cultura umanistica del tempo. Così la corte farnesiana, già splendida a Roma, troverà espansione nel territorio, non solo nella più famosa residenza di Caprarola, ma già nelle rocche e nei palazzi che a partire dalla fine del Quattrocento costellavano i possedimenti farnesiani. La politica filopapale aveva infatti fin dall’XI secolo caratterizzato i Farnese che con Ranuccio incominciarono ad assumere un ruolo predominante sul territorio a nord-/nord-est di Roma. A Ranuccio e alla sua investitura pontificia infatti è dedicato l’affresco superstite della loggia della rocca di Capodimonte, uno dei palazzi farnesiani prospiciente il lago di Bolsena che venne trasformato per mano di Antonio da Sangallo da Rocca a Palazzo rinascimentale.

 

In termini analoghi tale trasformazione è documentata anche per il palazzo di Valentano: in occasione del matrimonio (1488) di uno dei nipoti di Ranuccio Farnese, ovvero Angelo di Pierluigi seniore, che sposò Lella Orsini, venne costruito il cortile interno, come dimostrano i motivi decorativi dei capitelli delle colonne con la rosa Orsini intrecciata ai gigli farnesiani; questo intervento segnò una sostanziale trasformazione della tipologia e dunque della funzione dell’edificio adibito piuttosto ad abitazione che a difesa del feudo. All’interno le scarse decorazioni rimaste testimoniano di un’antica grandezza attraverso immagini genealogiche e celebrative.

 

Ancora ad un’occasione matrimoniale risale il Palazzo Farnese a Gradoli , che, sul modello del palazzo romano venne progettato da Antonio da Sangallo subito dopo l’esperienza di Palazzo Baldassini a Roma. I soggetti mitologici presenti nella decorazione della loggia, sulla base dei modelli incisori del maestro IB e l’uccello usciti dalla bottega di Marcantonio Raimondi, si affiancano a soggetti del repertorio archeologico ed antiquario romano.

 

Ma la cultura farnesiana sul territorio si rintraccia anche in palazzi di famiglie legate ai Farnese o per legami matrimoniali, come gli Orsini e gli Sforza di Santafiora o per legami diplomatici come nel caso di Tiberio Crispo, già castellano di Castel Sant’Angelo proprio negli anni del pontificato di Paolo III, il quale fece decorare la residenza di Bolsena con temi spesso e volentieri in rapporto con le decorazioni farnesiane di Castello. Il mito di Amore e Psiche, che aveva trovato particolare affermazione nella cultura mitologica del Cinquecento, a partire dalla loggia di Psiche nella villa di Agostino Chigi, alle decorazioni dell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo, viene diffuso anche grazie alle incisioni di Michele Coxie, documentate da Vasari, sulle quali si basano le più tarde incisioni di Agostino Veneziano e del Maestro del Dado (1535). Il mito di Apuleio verrà riproposto insieme alle storie di Alessandro Magno da Taddeo Zuccari nel palazzo Orsini di Bracciano ed esportato al nord tramite Perin del Vaga nel palazzo Doria a Genova. Qui Andrea Semino negli anni Ottanta del Cinquecento dedicherà a Amore e Psiche la decorazione della volta della sala di palazzo Pallavicino-Cambiaso.

 

Commissionati dopo la metà del secolo da Alessandro Farnese, gli affreschi del palazzo di Caprarola , costituiscono un testo fondamentale per la cultura mitologica nel territorio. Il sofisticato programma iconografico venne formulato da Annibal Caro e da Onofrio Panvinio e Fulvio Orsini. Nel pieno rispetto della teoria del decorum i soggetti mitologici si piegano alle esigenze funzionali delle diverse camere degli appartamenti estivi ed invernali dove lavorarono oltre a Taddeo, Federico Zuccari, Jacopo Bertoia, Giovanni de’ Vecchi, Raffaellino da Reggio, Antonio Tempesta ed altri artisti documentati a Caprarola a partire dal 1561.

 

Legato al palazzo di Caprarola sia per rapporti matrimoniali che per rapporti artistici è il palazzo dei Conti a Poli dove allegorie stagionali sono rese attraverso soggetti mitologici tradizionali per tali raffigurazioni, Venere per la Primavera o Cerere per l’Estate, mentre iconografie emiliane come Cupido che tempera amore e la Venere scoperta dal satiro denunciano la paternità delle decorazioni attribuite a Prospero Fontana.

 

Le Stagioni sono raffigurate attraverso iconografie mitologiche anche nel palazzo di Bassano di Sutri, quando era ancora di proprietà degli Anguillara prima della vendita del Palazzo ai Giustiniani. La decorazione venne realizzata, tra il 1605 e il 1610, da Bernardo Castello, Francesco Albani e Domenichino: il primo riproporrà il classico mito raffellesco di Amore e Psiche, al secondo si deve la superba galleria con il mito di Fetonte, Domenichino, infine, dedicherà alle storie del mito di Diana la decorazione del camerino.

 

Una più articolata decorazione mitologico-astrologica, vicina ancora agli affreschi di Caprarola, caratterizza il palazzo della famiglia Cesi a Cantalupo. Negli affreschi, commissionati dal cardinale Pierdonato Cesi agli inizi degli anni Settanta del Cinquecento, i classici miti di Diana e Atteone, di Europa, di Apollo e Dafne si affiancano a divinità mitologiche accoppiate poste in rapporto a costellazioni zodiacali. La decorazione è infine completata, oltre che da paesaggi e figurazioni a monocromo, da personificazioni di concetti astratti come la Liberalità, il Tempo e la Sapienza che anticipano di qualche anno il repertorio dei concetti in immagine della Iconologia di Cesare Ripa.

 

Un ciclo mitologico si snoda anche nelle sale al pianterreno di un altro palazzo Cesi, quello ad Acquasparta di proprietà di Federico il padre del fondatore dell'Accademia dei Lincei. La decorazione, attribuita a Giovan Battista Lombardelli e aiuti e realizzata intorno alla metà degli anni Ottanta del Cinquecento, è ricca di soggetti mitologici: dalle storie di Ercole agli Amori di Giove al mito di Venere e Adone fino agli episodi del mito di Narciso nel camerino, e alle storie di Callisto nella più tarda sala commissionata probabilmente proprio da Federico il Linceo.

 

In rapporto ai Farnese per legami matrimoniali, anche gli Sforza di Santafiora, presenti nel territorio limitrofo al Patrimonio di San Pietro a nord del lago di Bolsena, commissionarono diversi palazzi dedicando alla mitologia parte della decorazione. A Proceno il palazzo del cardinale Guidascanio decorato già in anni di Controriforma, intorno al 1565 affianca ai soggetti biblici favole mitologiche derivate dalle Metamorfosi di Ovidio. Anche nel più tardo palazzo di Segni decorato per volere di Alessandro Conti Sforza nei pressi dei possedimenti dei Conti con i quali gli Sforza condividevano la dinastia in seguito all’estinzione del ramo dei Conti di Segni, la mitologia è presente come soggetto della decorazione insieme al più attuale genere paesaggistico e alla serie dei ritratti della famiglia.

 

Ma la mitologia è anche presente nella maggior parte delle residenze degli Orsini a partire dalla decorazione del palazzo Orsini a Cerveteri. La scleta, qui, di un raro mito, quello di Polifemo, è da collegare alle vicende del committente, mentre altri motivi piuttosto decorativi, come le tradizionali serie di puttini, rivelano un gusto tipico della scuola raffaellesca e sono molto vicini ad alcune soluzioni adottate nella decorazione di Castel Sant'Angelo su commissione di Paolo III, il quale peraltro era entrato in possesso del palazzo di Cerveteri nel 1539.

 

A Monterotondo la scelta del mito di Adone per i bellissimi affreschi eseguiti da Siciolante da Sermoneta nella sala del piano nobile non è legata solo alla cultura classica o ad una finalità puramente decorativa; infatti la rappresentazione, nella sequenza della favola mitologica, dell’episodio della tintura delle rose di cui parla Aftonio in rapporto alla morte di Adone si collega al significato simbolico-araldico che celebra la famiglia romana attraverso il proprio emblema. La mitologia è inoltre ampiamente presente nel fregio con divinità marine del palazzo Orsini ad Anguillara come anche nella decorazione attribuita a Taddeo Zuccari nel Castello Orsini sul lago di Bracciano.

 

A San Gregorio in Sassola la mitologia sopravvive negli anni del pontificato di Gregorio XIII nella residenza del cardinale Prospero Santacroce, la cui sofisticata cultura si riflette nella sua Biblioteca ma anche nella decorazione del palazzo di San Gregorio, dove il ricco repertorio mitologico convive con figurazioni astrologiche, con personificazioni, spesso supportate da motti e da emblemi, intrecciati agli stemmi araldici del committente.

 

La mitologia è anche protagonista nei giardini delle ville sul territorio laziale dal Sacro Bosco di Vicino Orsini a Bomarzo ai giardini della Villa Lante a Bagnaia a quello di Villa d’Este a Tivoli. Qui in particolare la mitologia è presente anche nella decorazione della villa dove vengono riproposti, fra gli altri, il modello raffaellesco del Concilio degli dei della Farnesina e il mito di Ercole che campeggia anche nella loggia del Palazzo Farnese a Caprarola.

 

Mentre la mitologia verrà messa all’Indice dalla Controriforma, nelle ville del territorio romano le divinità antiche e le loro storie continueranno a godere di una notevole vitalità nelle decorazioni dei secoli successivi a causa del carattere di evasione legato alla dimensione dell’otium che fin dalla trattatistica cinquecentesca aveva connotato la vita in villa. Basti pensare alle ville dei colli Albani da villa Aldobrandini a Frascati a villa Mondragone, alla Retirata, a Villa Falconieri (La Rufina) alla Rufinella, alla villa Sora Boncompagni, alla villa Sacchetti Chigi a Castelfusano.

 

Bibliografia

 

Origine e sviluppi della decorazione a soggetto profano fra ‘400 e ‘500

         

 

L’origine della decorazione mitologica si colloca nel movimento di rinascita umanistica ed archeologica della cultura classica nel Quattrocento. Ma scarse sono le testimonianze rimaste e rare le documentazioni letterarie. Bisognerà aspettare la metà del XVI secolo per trovare delle più puntuali descrizioni dei soggetti adatti alle decorazioni dei vari ambienti in particolare nel Trattato dell'arte della pittura, scoltura et architettura di Gian Paolo Lomazzo, pubblicato a Milano nel 1584, e in quello di Giovan Battista Armenini I veri precetti della pittura, pubblicato nel 1587 a Ravenna. Prima di questa data Paolo Cortesi dedicherà un capitolo del suo De Cardinalatu, pubblicato nel 1510, alla decorazione del palazzo del cardinale; qui il solo riferimento alle rappresentazioni mitologiche riguarda la decorazione dei porticati e delle logge («in peristyliis et ambulationis») in termini negativi; per questi ambienti infatti l’autore raccomanda scene che rappresentino l’insegnamento dei nostri profeti dell’Antico Testamento «e non narrazioni mitologiche così come sono spesso rappresentate nei dipinti». Forse diverse sarebbero state le indicazioni dello stesso Cortesi se avesse realizzato il suo progetto originario di dedicare un trattato al palazzo del principe, che doveva infatti intitolarsi De Principe.

 

Nell’ambito della trattatistica rinascimentale alle decorazioni mitologico-profane Leon Battista Alberti dedica indirettamente solo poche righe nel libro IX del suo De re aedificatoria scrivendo: «Negli ornamenti delle case di città deve ispirare un’aria di severità molto maggiore che nelle ville; mentre in queste sono ammesse tutte le seduzioni della leggiadria e del diletto» (Alberti [1966]: 788-789). È subito evidente in questo passo, come in tutta la trattatistica rinascimentale, l’affermazione della teoria del decorum, cioè di ciò che conviene nel rapporto fra decorazione e funzione degli ambienti. Oltre alla convenienza è il fine morale, espresso generalmente da soggetti storici ed esemplari, che viene raccomandato per le pitture soprattutto in luoghi di prestigio e di rappresentanza. Nel capitolo XXV del suo trattato, dedicato a Quali pitture siano proporzionate ai palazzi reali, case dei principi, Gian Paolo Lomazzo scrive: «trionfi e vittorie, consigli militari e battaglie sanguinose in cui riguardando pare che gli animi nostri si sollevino ai pensieri, a desideri di onore e di grandezza» (Lomazzo [1974]: 190). Ma l’insegnamento morale è una costante raccomandazione suggerita fin dai trattati quattrocenteschi. Già Filarete, nel Trattato di architettura (1461-64), raccomandava «cose morali e anche appartenenti secondo i luoghi» (Averlino [1974]: 283). Cesare Cesariano nel suo commento a Vitruvio scriveva: «acciocché le pitture imprimesse per varietà istructione in li animi nostri [...] gli pingevano qualche cosa che exprimea senso di morali documenti» (Cesariano [1987]: 26). Ed ancora infine Armenini nei Veri Precetti della pittura ritorna sull’argomento sottolineando che: «i soggetti che ci vanno dentro delle historie non mi ci pare meglio che di cose appartenenti alle virtù morali, acciò s’impari a essere prudente, giusto, temperato e forte in ogni azione».

 

Nella trattatistica rinascimentale, dunque, rispetto all’ampio spazio dato alle decorazioni storiche e celebrative volte ad esaltare le virtù morali, alle decorazioni mitologiche, in contrasto con l’ampia produzione pittorica, sono dedicate sporadicamente poche righe: a partire dal citato passo di Leon Battista Alberti, che parla di «pictura iucundissima in villa», a Lomazzo che si limita a citare «storie di gioia e di allegrezza che del tutto non abbiano ombra di malinconia» (Lomazzo [1974]: 192). In termini analoghi Armenini raccomanda per le decorazioni delle ville «scene poetiche con satiri e ninfe e fauni [...] non vi sia soprattutto cosa che renda punto di melanconico ne del fattevole» (Armenini [1988]: 187). La decorazione mitologica è dunque essenzialmente legata alla vita in villa a sottolineare quella contrapposizione già indicata da Alberti fra la «gravitas» delle decorazioni dei palazzi e la «festivitas» propria della pittura mitologica che caratterizza le decorazioni delle ville. La finalità essenzialmente di evasione di questo tipo di decorazione ha determinato una facile equivalenza fra mito ed ozio, cui si contrappone la preferenza data ai soggetti storici, morali ed esemplari nelle decorazioni pubbliche o nei luoghi addetti ai negotia, nel pieno rispetto della teoria del decorum.

 

Una più ampia descrizione di soggetti mitologici adatti alle decorazioni dei palazzi si trova nel trattato di Filarete, che non limita tale tipo di decorazione alle ville né ad una funzione puramente marginale e di evasione. Infatti Filarete è l’unico trattatista del Quattrocento che dà una descrizione puntuale dei soggetti mitologici adatti alle decorazioni dei palazzi. Fra questi indica sia i miti legati alla creazione, e cita gli artefici e gli inventori quali Vulcano , Prometeo , Atlante o Dedalo , sia i miti più propriamente naturalistici adatti alla decorazione della casa del Sole: Apollo e Dafne , Giove e Ganimede e ancora Giove che fulmina Fetonte , il carro di Giunone , Giove al centro del consesso degli dei, Plutone e Proserpina , Perseo e Medusa . Il Trattato di Architettura dell’Averlino, dedicato originariamente a Francesco Sforza, il suo interlocutore nel trattato, venne nel 1464 dedicato a Piero di Cosimo de’ Medici, secondo la testimonianza del Vasari nella seconda edizione delle Vite del 1568. Come architetto del principe Filarete immagina l’edificazione di una città ideale. La descrizione, oltre che di Sforzinda, di una mitica città e di favolosi edifici, sulla scorta dell’espediente fantastico-retorico del ritrovamento del libro d’oro, rende tanto più prodigioso e mitico il racconto. In quest’ottica si pone il riferimento ad un modello mitologico per la casa della Virtù alla fine del libro XVII: «Quello che voglio fare in prima vi dirò e poi ancora in che modo e per che ordine che voglio fare, come ho detto si è la casa la quale chiameremo la casa della Virtù [...] Signore, la Signoria Vostra mi concederà che io la discriva a parole come fu lecito a Ovidio discrivere quella del Sole» (Averlino [1974]: 529-30).

 

Ovidio descrive il Palazzo del Sole all’inizio del II libro delle Metamorfosi: «La Reggia del sole alta s’ergeva sopra elevate colonne, fulgida di corrusco oro e di piropo simile a fiamma; nitido avorio copriva la cima del tetto, duplici imposte d’argento irragiavano luce». La descrizione ovidiana può trovare riferimento nelle architetture classiche, prima fra tutte la Domus Aurea , che costituirà un modello per il palazzo ideale nel rinascimento. Il riferimento alla decorazione dorata e la forma circolare di questa rimanda ad un chiaro simbolismo solare. Infatti, sulla base della descrizione di Svetonio, la sala ottagonale della Domus Aurea è forse da identificare con la celebre "coenatio rotunda" che «girava ininterrottamente, giorno e notte come la terra», al centro della quale troneggiava Nerone-Helios. Tale simbolismo trova ampia conferma nella trattatistica umanistica, da Leon Battista Alberti a Francesco di Giorgio Martini a Filarete, in un frequente interscambio fra la tipologia del palazzo e quella del tempio. In questo senso suona la descrizione della cupola del tempio nel Trattato di Filarete: «La volta della tribuna tutta lavorata a mosaico in questa forma che l’occhio del mezzo della tribuna sono razzi d’oro. La maestà divina non v'era in altra forma discritta, se non a similitudine di quello razzo intorno intorno all’occhio del mezzo». Alcuni esempi "ideali" della casa del sole si rintracciano già nel Quattrocento. Alla "casa del sole" sembra ispirata la "camera picta" di Andrea Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova, che ripropone sia nella struttura (una cupola circolare che insiste su un quadrato) sia nella decorazione musiva dorata, che nella finta apertura ad oculo l’antico modello della domus neroniana, ma anche del Pantheon, secondo la testimonianza di Leon Battista Alberti il quale nel De re aedificatoria scriveva: «mai vedrai fattovi occhio e cupole in luogo della chierica. E questo si fa a certi templi di Phebo, quali sono patroni della luce». Ad una simbologia solare attinge anche Alessandro VI, affidando a Pinturicchio la ricca decorazione dorata del suo appartamento nel palazzo Vaticano, dove il riferimento alla divinità solare è presente nelle varie stanze: dal soffitto astrologico, dove Alessandro VI è rappresentato sotto al carro di Apollo-Sole, agli emblemi araldici, scelti fra quelli solari, e infine al mito di Osiride che occupa le due campate della volta nella sala dei Santi . In continuità con le camere dell’appartamento Borgia si pone la sala dei pontefici, la cui decorazione venne affidata da Leone X nel 1520 a Perin del Vaga e a Giovanni da Udine. All’interno di una struttura astrologica, dove, oltre ad alcune costellazioni come l’orsa maggiore, Argo, Cygno e il cane maggiore, i segni zodiacali accoppiati sono riferiti alle divinità planetarie poste sui carri nei riquadri sottostanti, la presenza del carro del sole e del segno zodiacale del leone posta al centro del soffitto sta a sottolineare il valore solare della volta in rapporto al pontefice Leone X. Inoltre un riferimento alla ciclicità temporale, legata alla fatidica età leonina come nuova età dell’oro, si rintraccia nelle divinità di Venere e di Saturno, che si distinguono rispetto alle altre divinità collocate tradizionalmente sui carri. Le due figurine a stucco si ergono su dei piedistalli; Venere è caratterizzata dalle colombe in volo, suo tipico attributo, mentre Saturno è caricato del suo significato oltre che stagionale, come dio dell'agricoltura, anche e soprattutto temporale, affiancato da due serpenti, simboli della ciclicità cosmica.

 

Che la casa del Sole venisse ad identificarsi, nell’immaginario rinascimentale, con il Palazzo del Principe è un dato acquisito dal momento in cui, nella seconda metà del Cinquecento, Gian Paolo Lomazzo intitola il capitolo XXV del libro VI del suo trattato: Quali pitture siano proporzionate a palazzi reali, case di principi et altri luochi solari.

 

Il racconto ovidiano, che introduce la narrazione del mito di Fetonte, continua con la descrizione di Apollo avvolto in un manto di porpora seduto sopra uno splendido trono di smeraldi lucenti: «A destra e a sinistra stavano il Giorno, il Mese, l’Anno i secoli e poste a egual distanza le Ore. C’era la recente Primavera [...] la nuda Estate [...] c’era l’Autunno intriso di uva pigiata e il freddo inverno irti i capelli di neve». La descrizione s’inserisce dunque nella logica del poema che, attraverso l’espediente della trasformazione, traccia una storia dell’umanità, dalle mitiche origini cosmiche alla età aurea di Augusto. Filarete riprende in più luoghi la descrizione ovidiana, a partire dalla decorazione delle logge che «mi pare si debbino fare a similitudine del cielo pieno di stelle d’oro nel campo azzurro» precisando «si ma che si facci tutti i segni del cielo e i pianeti e le stelle fisse». E continua: «Poiché nelle volte si fanno questi segni celesti che si facci in prima i quattro tempi dell’anno e poi i quattro elementi e descrizione della terra».

 

Tale riferimento ideologico alla "casa del sole" - che assumerà toni esplicitamente celebrativi alla corte di Luigi XIV - informa la progettazione e la decorazione di alcune ville e palazzi romani all’inizio del Cinquecento; fra questi villa Madama , un monumento esemplare della cultura classica rinascimentale, venne progettata da Raffaello e dai suoi collaboratori, Antonio da Sangallo il Giovane e Giulio Romano, alla fine del secondo decennio del Cinquecento. Sull’origine della forma circolare di villa Madama ha fermato l’attenzione recentemente Hartmut Biermann, in un suo articolo pubblicato nel 1983, il quale fa riferimento alla domus romana ed in particolare alla villa Laurentium di Plinio, il cui schema planimetrico ritorna sia nei disegni del trattato di Francesco di Giorgio Martini che nei progetti delle ville cinquecentesche.

La complessità e la ricchezza della decorazione affidata a Giulio Romano e a Giovanni da Udine è da leggere in prima istanza in rapporto alla descrizione di Ovidio del Palazzo del Sole. Nella volta della campata centrale della loggia infatti sono rappresentate, intorno alle armi del cardinale Giulio de’Medici, le quattro stagioni alternate ai quattro elementi attraverso i miti di Giunone (Aria), Giove (Fuoco), Nettuno (Acqua) e Plutone (Terra). Nella scena con Giove e Ganimede in particolare è visibile l’ellittica sulla quale sono evidenziati i segni zodiacali del leone (sole) del cancro (luna) e della bilancia. I primi due si riferiscono ancora al ciclo solare, la bilancia già presente nell’oroscopo del pontefice, descritto nell’opera encomiastica del Ferreri, Lugdunense somnium de divi leonis decimi pontificis maximi ad summum pontificatum divina promotione,scritta in occasione dell’elezione al soglio pontificio nel 1513, sta a sottolineare l’equilibrio e dunque la giustizia come qualità fondamentale per un buon principe. Ancora, nell’anello circolare intorno alla calotta si alternano le sette divinità planetarie dalla luna ad Apollo-Sole, completate dalla immagine di Diana efesina, a delle figure femminili sdraiate su sfondo azzurro dagli attributi illeggibili da identificare ipoteticamente con le Muse in rapporto ai pianeti secondo quanto suggerisce Ovidio, a proposito della Casa del Sole, equanto  viene ribadito da Filarete a proposito della decorazione delle logge riprendendo la descrizione ovidiana: «Poiché nelle volte si fanno questi segni celesti che si facci in prima i quattro tempi dell’anno e poi i quattro elementi e descrizione della terra». Il valore significante ed ideologico di tale tipo di decorazione è confermato dal passo del Lomazzo che, nella descrizione del palazzo del Principe, codifica, dopo la metà del secolo, tale tipo di decorazione, riproponendo quasi alla lettera il passo ovidiano: «Il Sole è misura del tempo; egli aveva dalla destra i Giorni, i Mesi, gli anni e vi aveva ancora il Mondo col secolo e le Ore».

 

Ma il simbolismo solare è presente anche nel soffitto ligneo delle due sale adiacenti alla loggia nella villa di Montemario, dove si ripetono, con geometrica regolarità, i motivi araldici della casa medicea oltre al leone e al sole con il motto «semper» riferiti al papa Leone X. Infine nella sala grande, detta di Giulio Romano, il simbolismo solare è riproposto attraverso i carri del Sole e della Luna, affrescati sulla volta celeste. In proposito ancora Lomazzo, parafrasando Ovidio, preciserà nel libro IX: «Questo pianeta (il Sole) ha il governo e l’amministrazione dei cieli e dei corpi che sotto al cielo stanno, ed è signore di tutte le virtù elementari; e la luna in virtù sua è signora della generazione, dell’aumento e dello scemamento; perciò disse un antico astrologo che la vita si infonde a tutte le creature per mezzo del Sole e della Luna» (Lomazzo [1974]: 61). Il sole è presente infine anche nella decorazione araldica reiterata intorno al riquadro "celeste", nell’impresa del cardinale Giulio de’ Medici: un globo a mo’ di lente ustoria che concentra i raggi del sole e lascia intatto il nastro col motto «candor illesus», ma il suo valore simbolico è piuttosto da connettere alla rappresentazione "solare", in senso ideologico, come viene successivamente riproposto nella sala di Costantino in Vaticano. Qui l’impresa è rappresentata allegoricamente attraverso le figure di Apollo-Sole con una sfera in mano e di Diana-Luna, poste a mo’ di cariatidi sopra al trono del pontefice, avvolti dal nastro sul quale è iscritto il motto «candor illesus».

 

Alla medesima tematica temporale era informata anche la precedente decorazione del fregio della Villa di Poggio a Caiano dove la sequenza delle scene a rilievo della scuola di Luca della Robbia sembra illustrare i primi due libri delle Metamorfosi: dal Caos iniziale, alle età di Saturno e di Giove, all’introduzione della ciclicità cosmica, attraverso la rappresentazione delle stagioni dei mesi e delle parti del giorno. In particolare la successione del carro dell’Aurora e del Sole sembra seguire alla lettera il passo delle Metamorfosi di Ovidio (II,112): «ecco dal rosseggiante Oriente la vigile Aurora aprì le porte di porpora e gli atri del palazzo cosparsi di rose. Il Sole poi che vide l’Universo rosseggiare e quasi dileguarsi l corna della morente luna, ordina alle veloci Ore di attaccare i cavalli». L’ultima parte del fregio rappresenta proprio il momento in cui Apollo, dopo aver concesso al figlio Fetonte di guidare il il suo carro, fa le sue raccomandazioni prima che si compia la tragedia della caduta: «se puoi almeno obbedire a questi consigli di tuo padre, non adoperare la sferza o fanciullo, tieni invece salde le redini; simili cavalli si affrettano da soli, ed è fatica trattenerne l’uso».

 

Bibliografia

 

Il mito del Tempo alla corte dei Medici

 

         

 

La tematica solare, che aveva preso le mosse dalle Metamorfosi di Ovidio, viene ad accentuare, nel corso del Cinquecento, una dimensione temporale, come evidenzia anche la trattatistica; Lomazzo nel passo del suo Trattato dell'arte della pittura, scoltura et architettura (Milano 1584), parafrasando il poema ovidiano, scrive: «il Sole è misura del tempo [...] egli avea dalla destra i Giorni, i Mesi e gli Anni e vi aveva ancora il Mondo col Secolo e le Ore, le quali dimostravano come il tempo trascorre in lui». Nell’ambito della ideologia dei Medici tale dimensione temporale ha delle origini precoci, indipendenti probabilmente dal poema ovidiano. Fin dall’età di Lorenzo sia l’araldica che le prime decorazioni insistono su tale simbologia temporale: dal serpente che si morde la coda, che figura come emblema di Lorenzo sul verso della sua medaglia, al motto riferito ancora a Lorenzo, «le Temps revient», a quello assunto da Leone X, «semper», ai cicli di Poggio a Caiano , alle bordure degli arazzi vaticani, al soffitto della sala dei pontefici in Vaticano, al ciclo di villa Madama , alle tombe medicee, agli arazzi fiorentini, alle committenze del Duca Cosimo affidate a Vasari a Palazzo Vecchio. La varietà di tali imprese artistiche e il loro inserimento in contesti specifici all’interno di tradizioni figurative codificate, da quelle astrologiche a quelle più evidentemente legate al luogo e alle occasioni, frammenta tale continuità e unitarietà tematica che si ripropone rigorosamente nelle decorazioni dei palazzi e delle ville medicee a Roma nella seconda metà del Cinquecento.

 

L’ispirazione alla tematica ovidiana da parte delle committenze medicee è in particolare verificata nella ripresa ideologica del modello della casa del Sole tanto per i Palazzi che per le Ville che per le cappelle funerarie, l’estremo esempio di dimora principesca che più di ogni altra doveva celebrare la famiglia nella sua continuità dinastica e nella temporalità ciclica ed assoluta dell’eternità. Infatti la committenza di Leone X per la tomba di famiglia nella Sacrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze s’ispirava evidentemente, sulla base della tradizionale simbologia medicea, ai modelli artistici contemporanei. I diversi progetti documentano, oltre alle varie tipologie e disposizione dei monumenti funerari all’interno della cappella, una più evidente presenza delle tematiche solari/temporali: dai rilievi con le Stagioni previsti dal primo progetto, alle personificazioni dei fiumi dell’Ade - Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito - a significare secondo Landino e Pico il quadruplice aspetto della materia, che dovevano essere inseriti alla base dei monumenti funerari nel secondo progetto, fino alla rappresentazione delle quattro parti del Giorno, Crepuscolo, Notte e Aurora, che rimangono nel progetto definitivo del 1520. Ma l’idea temporale emerge chiaramente anche dalle parole stesse di Michelangelo: «Il Dì e la Notte parlano e dicono: noi abbiamo col nostro veloce corso condotto alla morte il duca Giuliano»; nonché da un’affermazione del Condivi: «significandosi per questo il Giorno e la Notte e per ambi duo il tempo, che consuma il Tutto [...] Et per la significazione del tempo voleua fare un topo [...] percioché tale animaluccio di continuo rode e consuma, non altrimenti chel tempo ogni cosa divora». Tale simbologia era stata trasmessa in Occidente attraverso la leggenda di Barlaam e Josaphat, che informa l’iconografia della lunetta del Battistero di Parma, dove due topi roditori, uno bianco e uno nero, consumano l’albero della vita che si erge fra il carro del Sole e quello della Luna secondo una chiara simbologia temporale. A concludere in termini tradizionali il programma iconografico della cappella fiorentina doveva essere la decorazione della cupola ad affresco, commissionata da Clemente VII. In una lettera del 7 luglio del 1533 è Sebastiano del Piombo a riferire di questo progetto:«Per quanto riguarda il dipinto nella volta della lanterna, Nostro Signore [Clemente VII] lascia a te di fare quello che vuoi. Penso che Ganimede vi starebbe assai bene, gli potresti dare un alone in modo che apparirebbe come San Giovanni dell’Apocalisse, portato al Cielo». Non è forse un caso che proprio Clemente VII, subentrato dopo la morte di Leone X quale committente della cappella funeraria di famiglia, avesse consigliato ancora una volta un completamento del programma iconografico in termini profano-mitologici consequenziali al modello, adottato già a Villa Madama, della dimora ideale del Principe come Casa del Sole.

 

Una complessa decorazione "temporale" occupa il cosiddetto Quartiere degli Elementi nel Palazzo Vecchio a Firenze ad opera di Giorgio Vasari. Commissionata dal Duca Cosimo de’ Medici la decorazione si snoda attraverso una serie di camere, sale e loggiato, seguendo le invenzioni del letterato e pittore aretino.

 

Nell’ottica di una residenza privata dei Medici si può considerare anche il Casino , vale a dire il singolare complesso di fabbriche fatto edificare in Vaticano da Paolo IV a partire dal 1558 e decorata dal papa Pio IV a partire dal 1561, il quale, succedendo al Carafa, rimise in auge la cultura umanistica, circondandosi di letterati, artisti ed antiquari come Pietro Venale, Federico Barocci, Pierleone Genga, Federico Zuccari, Lorenzo Costa e Pirro Ligorio, il cui ruolo di antiquario e umanista-iconologo fu fondamentale per la configurazione del casino vaticano come "casa del Sole", ideale residenza del Signore.

 

E’ straordinaria la continuità nelle committenze medicee della metafora solare-temporale per la glorificazione della propria dinastia. Sono ancora Pio IV e Pirro Ligorio i protagonisti di un altro intervento decorativo dove vengono riproposte le medesime tematiche legate ed attualizzate sia alla cultura scientifica che a quella emblematica del tempo. Mi riferisco alla decorazione delle logge al terzo piano del Palazzo Vaticano, decorate subito dopo l’elezione al soglio pontificio di Pio IV, a partire dal 1561: qui ancora una volta la cultura pagana e le tematiche classiche convivono con quelle cristiane in un sapiente sincretismo in cui la simbologia medicea diventa funzionale all’alta missione del pontefice.

 

Con la salita al soglio pontificio di Pio IV un altro palazzo mediceo romano viene decorato secondo la tradizione della famiglia. A partire dal 1561 infatti il Palatium di Giacomo Cardelli, dato in dono a Pio IV, divenne proprietà del Duca de’ Medici assumendo il nome di Palazzo del Duca . Alla committenza del Monte risale la decorazione della loggia al pianterreno e al primo piano, attribuita a Prospero Fontana, come anche il soffitto con la Disputa delle Muse e delle Pieridi nella sala dell’ala sinistra del Palazzo. Dopo la morte di Giulio III e la confisca dei suoi beni (che erano stati acquisiti a spese della Chiesa, da parte della Camera Apostolica) il palazzo, in seguito ad una transazione stipulata fra la Camera Apostolica e i Del Monte, nella figura dell’erede Fabiano, figlio di Balduino, con l’intercessione di Cosimo I de’ Medici, venne donato a Pio IV che trasferì la proprietà al duca di Firenze.

 

L’ultima stagione artistica del Palazzo fu dunque legata ai Medici che fecero costruire il secondo piano dell’edificio sopra la loggia, decorata da Jacopo Zucchi quando Ferdinando de’ Medici ne fece la sua fastosa abitazione. Il pittore, a Roma già dal 1570-71, è documentato sicuramente al servizio di Ferdinando nel 1574 in una lettera del 2 ottobre relativa allo stato dei lavori, ma la sua attività per casa Medici è sicuramente precedente, risalendo probabilmente al 1572. Attualmente la decorazione commissionata dall’allora cardinale Ferdinando è limitata al soffitto delle due sale nella nuova costruzione. Ma i progetti del giovane cardinale dovevano essere ben più ampi e probabilmente riguardavano decorazioni che andavano a sostituire alcune delle precedenti, dove la presenza dei Del Monte era molto evidente ed insistita, non limitandosi agli emblemi araldici ma informando l’iconografia della maggior parte delle decorazioni delle sale.

 

Nelle due sale decorate da Jacopo Zucchi al secondo piano del Palazzo del Duca ritornano i classici temi ovidiani. In particolare nella prima sala il tradizionale carro del Sole trainato dai quattro cavalli, a significare le quattro parti del giorno, preceduto dall’Aurora che sparge fiori, occupa il riquadro centrale del soffitto. Infine, ai quattro angoli del soffitto sono rappresentate, come di norma, le quattro parti del Giorno: l’Aurora, il Giorno il Crepuscolo e la Notte. L’aderenza totale del programma iconografico alla casa del Sole descritta da Ovidio nelle Metamorfosi è personalizzata dagli emblemi araldici del committente, come dimostrano le palle medicee e il cappello cardinalizio nel festone con giochi di putti che corre intorno al riquadro centrale della volta.

 

Più complessa e più ricca e sofisticata è la decorazione della cosidetta sala degli Elementi dove Iacopo Zucchi dà sfoggio della sua conoscenza botanica e zoologica, che si ritroverà nello studiolo del casino di Villa Medici. La struttura della decorazione, simile a quella della sala degli Elementi di Palazzo Vecchio decorata da Vasari fra il 1555-58, è abbastanza lineare nelle tematiche generali, vale a dire la rappresentazione degli elementi, ma piuttosto complessa sia nelle iconografie che rivelano delle fonti letterarie specifiche, sia nella presenza di emblemi con i relativi motti.

 

Circa negli stessi anni Ferdinando de’ Medici, dopo l’acquisto della villa del cardinale Giovanni Ricci nel 1576, incaricò Bartolomeo Ammannati di ridisegnare e ristrutturare la villa, e di costruire un piccolo edificio lungo le mura aureliane, che doveva diventare il luogo di ritiro del cardinale sul modello degli studioli umanistici. La decorazione di questo luogo venne affidata a Jacopo Zucchi fra il 1576 e il 1577 con temi ancora una volta "solari", chiaramente celebrativi del committente attraverso il luogo, vale a dire la nuova dimora del Pincio. Sulla volta dello stanzino infatti all’interno di una ricca decorazione a grottesche l’Aurora campeggia al centro circondata dai venti, che danno l’orientamento del luogo, dalle Stagioni, Venere per la Primavera, Cerere per l’Estate, Bacco per l’Autunno e Saturno per l’Inverno. Immagini allegoriche nella pregevole decorazione a grottesche, ripropongono, come di consueto gli stessi temi stagionali. La decorazione è completata da piccole vedute della villa che testimoniano le varie fasi di costruzione. Un piccolo stanzino dunque dove l’elemento naturalistico, sul tipico schema cosmologico, è finalizzato ad individuare e dunque celebrare la nuova dimora la cui immagine è riprodotta attraverso la sua memoria storica all’interno della decorazione. Nella volta la presenza di tondi con le favole di Esopo, molto rare nell’iconografia cinquecentesca, ripropone probabilmente, in veste allegorica, quell’interesse scientifico che si manifesta nelle decorazioni in basso con deliziosi animali nel tipico gusto di Jacopo Zucchi già a Palazzo Firenze e anticipano l’esplosione naturalistica sulla volta della sala grande, il vero e proprio studiolo di Ferdinando, che simula una sorta di voliera popolata dalle più esotiche speci di uccelli, una vera e proprio enciclopedia scientifica figurata.

 

Ma il tema solare-temporale viene riproposto in termini più intellettuali nelle due sale al piano nobile del corpo centrale della villa: la sala degli Elementi e la sala delle Muse. Successive ai lavori di Zucchi in Santo Spirito in Sassia e nella sala Vecchia degli Svizzeri in Vaticano le decorazioni delle due sale, analoghe nella struttura del soffitto decorato con grandi tele e fregi intorno, rivelano la presenza di aiuti, fra cui Giovanni Alberti, Matteo Brill e Francesco Zucchi. Queste due sale costituiscono, insieme al salone, le più importanti del palazzo e la loro decorazione dovrebbe concidere con la collocazione alla fine del 1584 dei rilievi antichi sulla facciata del giardino.

La struttura del soffitto della sala degli Elementi ripropone l’antica tipologia delle case romane a riquadri geometrici e presenta al centro un’insolita iconografia: il matrimonio di Giove e Giunone officiato da Opi alla presenza di Plutone, Nettuno e Pan. Ai quattro lati del soffitto delle figure femminili si possono identificare con le ninfe di Giunone. I soggetti di questa figurazione complessiva e il loro significato hanno un precedente nella sala degli Elementi di Palazzo Firenze.

La sala cosidetta delle Muse presenta una decorazione strutturata in maniera analoga a quella della sala degli Elementi. Al centro in un grande ovale la scena principale rappresenta Giove insieme a Minerva e ad un’altra figura femminile che dallo strumento musicale che tiene in mano si può subito identificare con una Musa. Tale identificazione è confermata dalle altre otto figure femminili nei quattro ottagoni laterali e nei due quadrati al centro dei lati brevi, fra gli ottagoni. Ma la decorazione si configura come una complessa struttura astrologica in cui ogni Musa è accompagnata da segni zodiacali. Giove in posizione centrale rispetto al consesso delle Muse sembra prendere il posto di Apollo appropriandosi anche dell’alloro. Una identificazione fra Giove ed Apollo era stata a quella data codificata da Vincenzo Cartari nel suo trattato sulle Immagini degli dei (1556). Nel frontespizio del Sintagma de Musis di Lilio Gregorio Giraldi, stampato a Strasburgo nel 1511, Giove è il principio delle Muse: «ab Jove principium Musae». L’opera è conosciuta e quasi parafrasata da Lomazzo nel suo trattato Della Forma delle Muse del 1591 dedicato a Ferdinando de’ Medici. Anche la presenza della testa "panica" in mano a Tersicore evidenzia, come già nella sala degli Elementi, la componente cosmica del programma iconologico secondo la tradizione medicea.

 

Giove dunque diventa il principio motore dell’Universo dove le Muse in relazione alle sfere planetarie assumono una funzione cosmica e sovrintendono all’armonia universale secondo quanto riferisce Platone nel X libro della Repubblica sulla scorta del pensiero pitagorico: «Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte e otto le note creavano un’unica armonia» (X, 617 b). La centralità della figura di Giove che sostituisce quella di Apollo - Sole si può far risalire alla composizione della cupola della cappella di Agostino Chigi in Santa Maria del Popolo, dove le otto sfere celesti sono messe in movimento dal gesto creatore di un Giove cristiano.

 

La figurazione complessiva, con la presenza delle quattro Stagioni negli spazi triangolari di risulta intorno all’ovale centrale, dei quattro elementi rappresentati ancora una volta dalle divinità mitologiche (Giunone - Aria,  Vulcano - Fuoco, Opi - Terra, Nettuno - Acqua) e dei quattro temperamenti negli ovali sulla cornice esterna sembra dunque riproporre ancora una volta quella struttura solare di cui parla Ovidio al centro della quale la divinità solare come motore di tutte le cose viene sostituita da Giove, la massima divinità dell’Olimpo identificabile più direttamente con la figura del Principe committente della decorazione il cui programma iconografico è finalizzato alla celebrazione e alla esaltazione del suo ruolo.

 

Bibliografia

 

 La corte dei Gonzaga a Mantova

         

 

La famiglia dei Gonzaga, andata al potere nel 1328, si manterrà sul territorio padano fino al Settecento, costituendosi prima in marchesato e poi in ducato. Lo splendore della corte gonzaghesca a Mantova, a partire dalla metà del Quattrocento, trova espressione nel palazzo Ducale, nel palazzo del Te ma anche nella incredibile collezione di Isabella d’Este, la colta moglie di Francesco Gonzaga, sorella del duca Ercole, la quale, circondata da consiglieri come l’umanista Mario Equicola, rese ben presto Mantova un centro culturale di alto livello. Intelligente ed abile fu valida consigliera nella politica del marito, nella tessitura dei rapporti diplomatici, proprio nei difficili anni dell’avanzata di Carlo VIII attraverso l’Italia, con la conquista del regno aragonese e la costituzione della lega di Cambrai capeggiata proprio dallo stesso Francesco che riuscì a mettere in fuga l’esercito dell’imperatore dopo la violentissima battaglia di Fornovo. Fu proprio in rapporto a tale vittoria, conseguita dall’esercito della lega, che lo stesso marchese commissionò a Mantegna una grande pala d’altare , dove si fece ritrarre in armatura inginocchiato ai piedi della Madonna della Misericordia, trasportata con cerimonia solenne nel 1496 nella chiesetta della Vittoria, oggi a Parigi al Museo del Louvre.

 

Dobbiamo alla marchesa di Mantova l’introduzione della mitologia nelle decorazioni del palazzo ducale soprattutto nel suo studiolo, prima collocato nel Castello di San Giorgio e solo nel 1530 trasferito in Corte Vecchia. Ad Andrea Mantegna, già artista di corte affermato che aveva timidamente inserito alcune figurazioni all’antica , sui temi di Orfeo, Arione ed Ercole, nella camera picta, meglio nota come "camera degli sposi" in riferimento ai signori di Mantova, Ludovico Gonzaga e la moglie Barbara di Brandeburgo, lì raffigurati insieme a tutta la corte, viene affidata la decorazione dello studiolo.

 

Le rappresentazioni del Parnaso e di Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle virtù sono strettamente attinenti al luogo, lo studiolo, un ambiente riservato, adibito alla cultura che riflette i gusti, la personalità ma anche le caratteristiche della proprietaria, la marchesa Isabella, rappresentata dunque nelle vesti di Venere ma anche elogiata nelle sue Virtù.

 

Ma la presenza del mito alla corte di Mantova trova continuità per tutto il Cinquecento grazie alla presenza alla corte di artisti come Lorenzo Costa, che completerà la decorazione dello studiolo di Isabella con i dipinti attualmente al Louvre: Il dio Como e il Regno d'Amore , dopo l’intervento di Pietro Perugino, con la tela della Lotta fra Amore e Castità   e la rinuncia di Giovanni Bellini. Dopo la morte di Andrea Mantegna, insieme a Lorenzo Costa un altro pittore mantovano, Lorenzo Leonbruno, decorerà per Isabella la sala della Scalcheria con temi mitologici legati all’amore e alla caccia attraverso i miti di Venere e di Diana.

 

Con l’arrivo a Mantova nel 1524 di Giulio Romano il repertorio figurativo e stilistico si rinnoverà. Divenuto l’artista di corte, Giulio Romano, l’allievo più dotato di Raffaello, fra i cui discepoli, come scrive Vasari: «niuno ve n’ebbe che più lo imitasse nella maniera, invenzione, disegno e colorito [...] né che fra loro fusse di lui più fondato, fiero, sicuro e capriccioso vario e abbondante ed universale», fu immediatamente impiegato nella progettazione ed esecuzione di edifici, monumenti ed apparati decorativi nella città e sul territorio. Federico Gonzaga, adorato figlio di Isabella, educato alla corte pontificia di Giulio II e poi alla corte francese di Francesco I, aveva assunto, ancora minorenne, il titolo di Marchese alla guida della signoria mantovana alla morte del padre Francesco nel 1519, sotto la tutela della madre Isabella e di suo zio Sigismondo. Subito dopo l’arrivo di Giulio Romano a Mantova venne iniziata la costruzione della magnifica residenza dei Gonzaga su un'isola del lago Paiolo, che assunse la denominazione di palazzo Te, dimora di ozi e di piaceri, come si legge nell’iscrizione posta alla base delle lunette nella sala di Amore e Psiche: «HONESTO OCIO POST LABORES AD REPARANDAM VIRTUTEM QUIETI CONSTRUI MANDAVIT». La dimora era anche la residenza alternativa, rispetto al palazzo Ducale, della quale era signora Isabella Boschetti, l’amante di Federico, in continuo antagonismo con la granitica Isabella d’Este che continuava a presiedere il palazzo di città. I temi mitologici forse ispirati agli amori di Federico e di Isabella sono derivati in particolare dalle Metamorfosi di Ovidio (Camera di Ovidio ) e da Apuleio (Sala di Psiche ) e popolano le sale del palazzo con un gioco di forme e colori che trova espressione nell'affresco illusionistico con il carro di Apollo-Sole e il suo apice nella straordinaria sala dei Giganti, un tumulto vorticoso di immagini che coinvolge lo spettatore nella caduta dei Giganti sui quali trionfa Giove tonante .

 

La decorazione doveva essere già a buon punto quando Carlo V, appena eletto imperatore nella primavera del 1530 giunse a Mantova; Federico accolse con grandi festeggiamenti l’imperatore dal quale ricevette il titolo di duca impegnandosi a sposare la matura zia dell’imperatore Giulia d’Aragona. In occasione dell’entrata a Mantova dell’imperatore venne allestito un arco trionfale, progettato dallo stesso Giulio Romano; subito dopo sua maestà imperiale si recò nella nuova residenza del duca di Mantova dove, come raccontano le fonti del tempo, «resta tutta meravigliosa».

 

Proprio in occasione dell’incoronazione di Carlo V a Bologna Federico II commissionò una serie di tele a Correggio con gli Amori di Giove. Il mito di Io e Giove (Vienna, Kunsthistorisches Museum), di Danae e la pioggia d’oro (Roma, Galleria Borghese), di Leda e il cigno (Berlino, Staatlichen Museen) e di Giove e Ganimede (Vienna, Kunsthistorisches Museum) forse non giunsero mai a destinazione, ma, per probabili ritardi nell’esecuzione, dopo il 1530 rimasero a Mantova fino alla seconda metà del Cinquecento. A Correggio erano state affidate anche le due tele con l’Allegoria dei Vizi e delle Virtù che andarono a completare la decorazione dello studiolo di Isabella d’Este trasferito nel 1530 in Corte Vecchia.

 

Ma le decorazioni mitologiche trovano continuità ancora per tutto il XVI secolo sia nel palazzo ducale che in altri palazzi della città. Nelle sale dell’appartamento di Federico II Gonzaga in Corte Nuova, la decorazione viene esemplarmente giocata in un interscambio con l’allestimento della sua collezione attraverso le magistrali invenzioni all’antica di Giulio Romano fra il 1536 e il 1538. Figurazioni mitologiche occupano sia gli spazi decorativi del camerino dei Falconi e degli Uccelli, echeggianti alla lontana ancora la loggia della villa di Agostino Chigi alla Lungara, sia quelli della sala degli imperatori, dove erano inserite le tele di Tiziano, dove vengono riproposti in stucco composizioni già impiegate da Giulio Romano a Roma. Dalla loggetta dei Cani decorata a grottesche con scene del mito di Cerere e Proserpina si entra nella sala dei Cavalli. Anche qui all’interno di un soffitto ligneo una tela illusionisticamente scorciata fa ricorso, come le decorazioni delle volte della sala delle Teste e del salone di Troia, al repertorio mitologico con la caduta di Icaro, fra i soggetti consigliati da Leon Battista Alberti, mentre Giove tonante e la rappresentazione dell’Olimpo riecheggiano alla lontana le idee compositive di palazzo Te.

 

Alle favole di Ovidio sono dedicati gli ambienti dove era contenuta la Biblioteca, denominata Galleria del Passerino, decorati con stucchi e dipinti ad affresco e ad olio del Viani e della sua scuola, i cui soggetti sono derivati dalle Metamorfosi di Ovidio.

 

Anche nell’appartamento cosiddetto della Rustica, alcuni ambienti presentano residue decorazioni mitologiche. La prima stanza decorata con stucchi e grottesche è denominata degli Amori di Giove dai soggetti in parte perduti delle lunette; segue il Camerino di Orfeo dagli alti rilievi in stucco con il mito dell’antico cantore di Tracia.

 

Nella Galleria degli specchi, decorata da artisti mantovani sotto la direzione del Viani alla fine del Cinquecento, gli affreschi della volta ripropongono le tradizionali decorazioni mitologiche molto in voga per tutto il Cinquecento e che troveranno continuità nel gusto illusionistico delle decorazioni seicentesche. La raffigurazione dell’Olimpo, dei carri del sole e della luna sono affiancate da figure allegoriche, mentre nelle lunette sono rappresentati il Parnaso delle glorie mantovane e l’allegoria delle arti e delle scienze.

 

Ma non poteva mancare l’astrologia presente sia negli affreschi della sala dello zodiaco decorata da Lorenzo Costa il giovane dove sulla volta, al centro di una mappa astrologica, campeggia con la figura di Diana sul carro.

 

Ma i temi astrologici e mitologici informano anche la complessa decorazione calendariale del salone dello zodiaco di Palazzo d’Arco, ad opera di Giovanni Maria Falconetto intorno al 1520. In un tradizionale impianto calendariale, ispirato allo Zodiaco dipinto dal Pinturicchio alla fine del Quattrocento nel palazzo romano del cardinale Domenico della Rovere, la tematica astrologica è arricchita da figurazione classiche e mitologiche derivate dalle Metamorfosi di Ovidio e da rappresentazioni mitologiche che illustrano le origini delle costellazioni. Il committente degli affreschi tradizionalmente individuato nel personaggio vestito di nero si affaccia dal riquadro dedicato al segno zodiacale del Cancro. La sua identità rimane oscura, ma recenti ricerche di archivio hanno portato ad ipotizzare una identificazione del committente con un certo Giulio dei Gonzaga, appartenente ad un ramo cadetto della famiglia dei duchi di Mantova.

 

Bibliografia

 

La Corte estense

         

 

Nella marca trevigiana si attesteranno a lungo gli Este che riuscirono a creare uno stato territoriale da Ferrara a Modena e a Reggio raggiungendo l’apice della propria potenza con Lionello prima e poi con Borso ed Ercole I.

 

Il consolidamento della famiglia avvenne già a partire dal 1361 con la Signoria di Nicolò II, il quale affidò a Bartolino da Novara la costruzione del Castello ; a questi succederà nel 1388, dopo anni di collaborazione, il fratello Alberto V, al quale si deve la promozione della costruzione di tre edifici che assumeranno un significato emblematico nel sancire l’egemonia estense nella città. All’interno della città viene infatti costruito il palazzo del Paradiso nel 1388 mentre ai due estremi al confine fra città e campagna vennero edificati il palazzo Schifanoia nel 1385 e il palazzo di Belfiore nel 1391.

 

Alla committenza di Lionello d’Este si deve la decorazione dello studiolo di Belfiore che insieme ad altre residenze estensi costituivano quel sistema delle delizie, vale a dire di palazzi e ville destinate agli otia tanto decantate dalla letteratura e dalle testimonianze del tempo. Il ciclo commissionato inizialmente nel 1447 ad Angelo Maccagnino da Siena su programma di Guarino Veronese trova dei riscontri nella serie delle Muse nel Tempio Malatestiano di Rimini . La decorazione di Belfiore attualmente smembrata ed in parte perduta è di incerta ricostruzione, ma le raffigurazioni delle Muse legate anche a significati stagionali sono di una straordinaria invenzione ed originalità.

 

Intorno al 1470 si colloca la decorazione del salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia un'imponente struttura calendariale dove i miti traducono in immagine il mondo astrologico e planetario . Il ciclo voluto da Borso d’Este, ripetutamente ritratto all'interno del registro inferiore degli affreschi nelle sue mansioni di Signore del ducato, si basa su un complesso programma iconologico dovuto probabilmente a Pellegrino Prisciani, un umanista alla corte del duca d’Este, e studiato per la prima volta da Aby Warburg nel suo saggio del 1912.

 

Ad Ercole invece si deve il grande rinnovamento della città di Ferrara dai Palazzi dipinti alle sale affrescate agli interventi urbani di ampliamento della città, la famosa addizione erculea, che arricchirà la città del Palazzo dei Diamanti dal bugnato a taglio di diamante che lo caratterizza .

 

Lo splendore della corte ferrarese trovò continuità nel Cinquecento con l’illuminata signoria di Alfonso I che promosse una fervida attività culturale, non solo sul piano artistico ma anche su quello letterario. Il camerino di Alabastro del duca, già nel corridoio coperto che conduce al Castello, rimane nella memoria come l’esempio forse più luminoso di questi ambienti decorato da una serie di tele: il Festino degli dei di Giovanni Bellini, oggi a Washington, l'Offerta di Venere e gli Andri di Tiziano al Prado oltre al Bacco e Arianna di Londra e il Baccanale di Dosso Dossi. A questi sono state attribuite anche le storie di Enea , oggi divise in diversi musei. L'allestimento del camerino, essendo stato smembrato al tempo della devoluzione di Ferrara nel 1598, rimane ancora discusso. A Dosso si devono una serie di opere allegoriche, spesso a contenuto ermetico, che coinvolgono lo stesso Alfonso in prima persona forse ritratto nelle sembianze di Bacco, nel dipinto degli Uffizi a Firenze o di Giove, pittore di farfalle , nella tela del Kunsthistorisches Museum di Vienna.

 

La mitologia convive con altri soggetti storici e decorativi o di evasione anche nelle sale al primo piano del Castello estense. Gli affreschi dei soffitti, commissionati nella seconda metà del Cinquecento dal duca Alfonso II d’Este, sono opera di artisti ferraresi, recentemente venuti alla luce attraverso le carte di archivio fra i quali spicca il nome di Sebastiano Filippi detto il Bastianino. Nella sala dell’Aurora sono raffigurate le quattro fasi del giorno intorno al riquadro centrale con la figura di Cronos circondato dalle tre Parche. Secondo un programma iconografico suggerito da Pirro Ligorio presente alla corte estense, nel camerino dei Baccanali sono rappresentati, in un contesto autunnale legato alla vendemmia, il trionfo di Bacco e il trionfo di Arianna.

 

Con la devoluzione della Signoria ferrarese allo Stato della Chiesa la città venne in buona parte spogliata delle sue ricchezze e soprattutto delle testimonianze del suo antico splendore. I quadri dello studiolo vennero portati a Roma dal cardinale Aldobrandini e divennero un modello fondamentale per gli artisti del classicismo seicentesco da Annibale Carracci a Nicolas Poussin, del quale si conserva a Roma la copia del dipinto di Tiziano con Bacco e Arianna.

 

Bibliografia

 

Le piccole Corti padane

         

 

L’area padana nonostante la strutturale instabilità politica determinata dai particolarismi delle piccole corti mantenne un assetto politico sostanzialmente stabile almeno fino all’estinzione delle dinastie farnesiana e gonzaghesca nella prima metà del Settecento. L’area godeva fin dal Quattrocento di un efficiente sistema viario e stradale che ha determinato la disseminazione sul territorio di centri piccoli e medi e una trama di collegamenti fra ogni centro urbano e la campagna. «Un equilibrio fra il contesto distributivo interno e l’apertura strategica della maglia delle vie di comunicazione - scrive Giovanni Tocci - si sarebbe realizzata solo nel Cinquecento con la sistemazione definitiva dei ducati e delle legazioni». Il ducato gonzaghesco, che con gli altri domini dei Gonzaga, da Bozzolo a Guastalla a Novellara, a Sabbioneta a Guazzuolo a Suzzara si trovava confinato fra lo stato di Milano, la repubblica estense e il ducato estense, si configurava come un’area omogenea, una sorta di sistema politico e culturale con una sua specifica connotazione. Ma la proiezione del ducato all’esterno fu il frutto di un’abile politica matrimoniale che aveva portato a rinsaldare i rapporti con l’Impero, la Spagna e il Mezzogiorno d’Italia, ma anche con le famiglie più in vista dell’area lombardo-veneta, emiliana e romagnola e romana; pertanto la dinastia dei Gonzaga mantenne per più di due secoli un ruolo di primo piano nel contesto politico italiano ed europeo.

 

Fra questi piccoli stati quello di Sabbioneta si è distinto per un arco di tempo ben delimitato in rapporto a Vespasiano Gonzaga e alla sua corte che si esaurì praticamente con la sua morte nel 1591. Frutto di una progettazione, Sabbioneta fa parte di quelle città ideali legate a situazioni specifiche e alle esigenze principesche di potere e di cultura del suo Signore. All’interno una serie di percorsi sono segnati e qualificati dai luoghi del potere: il Duomo, dove la statua di Leone Leoni celebrerà in mortem Vespasiano nel suo ruolo di condottiero all’antica; il palazzo ducale o "palazzo grande", il primo edificio monumentale di Sabbioneta, centro direttivo e politico della città; il palazzo del Giardino, una sorta di residenza fuori porta ai margini della cinta muraria e la Galleria degli antichi, vero capolavoro di architettura all’avanguardia che denuncia i rapporti di Vespasiano con gli stati europei.

 

E’ ancora alle immagini che viene affidato il programma celebrativo del Signore a partire dalle insegne araldiche nel Palazzo ducale con lo stemma ducale assunto da Vespasiano nel 1577, data di riferimento per l’inizio della decorazione, alla sala delle aquile affrescata con stemmi gonzagheschi che s’inframezzano ai rapaci imperiali; in questa sala sono attualmente conservate anche le statue equestri lignee di Vespasiano e dei suoi antenati; Ludovico, Marchese di Mantova, Gianfrancesco, conte di Rodigo, Luigi Rodomonte padre dello stesso Vespasiano. Agli Antenati è dedicata anche la saletta centrale del piano nobile corrispondente al balcone sulla facciata e da identificare con la "Libraria piccola" sulla base dell’Inventario dell’Oldroandi del 1689. All’interno il programma ideologico di Vespasiano si delinea attraverso la decorazione a stucco e ad affresco, che è giocata in rapporto alle vicende della vita di Vespasiano Gonzaga e alla luce degli ideali umanistici testimoniati dalla presenza di tre imperatori filosofi: Traiano, Adriano e Antonino Pio e forse di Nerva e focalizzati sui valori della guerra personificati da Marte e dalla virtus rappresentata da Mercurio: alle due divinità e al loro significato si legano a coppie le scenette in stucco che raffigurano episodi di storia romana allusivi al valore guerriero, attraverso Orazio Coclite e Cesare al Rubicone e ai valori etici interpretati da Muzio Scevola e Decio Mure. La raffigurazione, ai quattro angoli della volta, delle stagioni, presiedute dall’elemento solare al centro, rappresentato dal tradizionale carro di Apollo sul modello giuliesco di palazzo Te, insiste su un’idea di fecondità e ciclicità attraverso la metafora naturalistica, legata al valore dinastico dei ritratti, rappresentati in stucco e disposti senza soluzione di continuità lungo le pareti: da Luigi il capostipite della famiglia a Luigi, l’erede mancato di Vespasiano, morto in giovane età.

 

Ma la mitologia diventa protagonista nel palazzo del Giardino, che come ogni residenza fuori dal centro della città si connota nei caratteri propri ai luoghi di delizia e di evasione e dunque adatta ad accogliere soggetti mitologici, vale a dire quelle «historie di gioia e di allegrezza che del tutto non abbiano ombra di melanconia» come scriveva Giovan Paolo Lomazzo nel suo Trattato dell’arte della pittura scultura e architettura (Milano 1584). Fra questi non poteva mancare Venere sul suo carro circondata da altre divinità dell’Olimpo pagano, ma anche Fetonte che precipita dal suo carro e la serie delle favole ovidiane che popolano la salette al primo piano accanto al corridoio di Orfeo. La decorazione è stata per lo più attribuita a Bernardino Campi con la collaborazione dei Pesenti, ma la presenza di altri artisti quali Fornaretto Mantovano è stata segnalata per il Gabinetto delle Grazie un piccolo ambiente dove i personaggi mitologici , le tre Grazie insieme a Venere e ad Apollo sono raffigurate in un tessuto decorativo vegetale e di animali mitici di una preziosità straordinaria.

 

A Novellara la presenza della signoria dei Gonzaga sotto la protezione dell’imperatore, è testimoniata nel suo splendore cortese dalla rocca. La decorazione commissionata nel 1546 da Costanza, moglie del defunto Alessandro Gonzaga e reggente per i figli Alfonso e Camillo, al pittore locale Lelio Orsi con molti soggetti mitologici oggi è smembrata ed in parte custodita nella Galleria Estense di Modena.

 

Al di sotto del Po altri piccoli Stati costituirono centri politici e culturali vivaci e ben caratterizzati, dai Rossi, ai Correggio, ai Pio, ai Sanvitale, legati ora ai Gonzaga ora gravitanti nell’area estense. Indirettamente legata ai Gonzaga sempre per politiche matrimoniali è la rocca di Galeazzo Sanvitale a Fontanellato; questi aveva infatti sposato Paola Gonzaga, figlia di Ludovico marchese di Sabbioneta nel 1516. Una integra decorazione mitologica ricopre un piccolo ambiente sicuramente privato dove attraverso la metafora del mito di Diana e Atteone , vengono ricordate le tristi vicende dei due sposi e la morte del loro piccolo erede.

 

Testimonianze artistiche e culturali configurano la Signoria di Alberto Pio da Carpi come una corte di alto livello fra gli anni Novanta del Quattrocento e il 1525, quando Carpi venne sottratta ai Pio e assorbita definitivamente dal ducato estense di Alfonso I nel 1530. L’architettura quattrocentesca del palazzo, frutto di successivi interventi a carattere prima fortificatorio e poi ispirati ai modelli classici, sta a segnare una continuità fra tradizione feudale e cultura umanistica. Con Alberto Pio il palazzo assunse una forma architettonica unitaria, divenendo un centro propulsore ed accentratore della vita cittadina e di corte quasi un «palazzo in forma di città», secondo la bella formula di Baldassarre Castiglione per il palazzo ducale di Urbino. Analogie infatti con il palazzo ducale di Urbino riguardano essenzialmente la vitalità delle architetture in trasformazione e la definitiva forma complessamente articolata, mentre le tipologie decorative sono più vicine ai modelli padani ed in particolare gonzagheschi. La presenza documentata di due artisti in particolare, il forlivese Giovanni del Sega e il carpigiano Bernardino Loschi di origine parmense, non esaurisce naturalmente il quadro artistico alla corte di Alberto, la cui personalità, informata alla cultura classica, rivela un deciso aggiornamento ai temi umanistici, come gli Uomini Illustri che sono raffigurati sulla facciata del Palazzo, i Trionfi del Petrarca nella sala omonima o ancora le favole antiche, vale a dire le storie della mitologia classica che probabilmente dovevano decorare quegli ambienti che, come riferiscono i documenti, sono denominati "Camera della dea Cerere" o "Camera della dea Diana" o "Camera delle Ninfe". Le decorazioni, in parte perdute ed in parte probabilmente ancora nascoste sotto scialbature, dovevano rendere il palazzo prezioso in linea con i più grandiosi palazzi del territorio. Ma la componente che caratterizza particolarmente la cultura di Alberto III è quella classico-antiquaria che nell’area padana acquista una particolare configurazione determinata ora dall’incontro fra l’esperienza padovana e mantegnesca e la cultura urbinate anche attraverso l’acquisizione del linguaggio ornamentale della bottega dei Lombardo, ora invece orientata decisamente verso la cultura romana come rivela soprattutto l’impianto decorativo a finto loggiato, di matrice mantegnesca, della sala grande o dei Mori accanto alla cappella, che caratterizzerà alcune decorazioni romane fra Quattrocento e Cinquecento, dalle sale del palazzetto Barbo alla Rocca dell’Episcopio di Ostia.

 

La Signoria dei Pio con Alberto aveva dunque ampliato i propri interessi culturali anche oltre i limiti strettamente territoriali; viceversa più legata alla realtà padana sembra essere la signoria dei da Correggio a Correggio. Il palazzo dei Principi, commissionato da Francesca di Brandeburgo, nipote di Barbara, moglie di Ludovico Gonzaga, venne eretto intorno al 1507 probabilmente da Biagio Rossetti, come testimonia la vicinanza del palazzo a quello di Schifanoia a Ferrara. La decorazione all’interno, per la quale sono stati fatti i nomi di Antonio Bartolotti, presunto maestro di Correggio, di Cesare da Reggio e degli Scacceri, pittori modenesi molto attivi nei primi decenni del XVI secolo nel territorio, operanti anche nel palazzo Rangoni a Castelvetro, presenta motivi essenzialmente trionfalistici probabilmente legati al ruolo di condottiero di Borso da Correggio, marito, già defunto a quella data, di Francesca di Brandeburgo. Nella sala a pianterreno infatti sotto la volta sostenuta da vele e peducci un fregio a racemi fogliati è intervallato da targhe esagonali che celebrano in lunghe scritte i fasti dei Signori da Correggio.

 

Altre stanze decorate prendono il nome dagli stessi soggetti: la camera dei Trionfi, degli Amori, delle ninfe e dei Filosofi. Fra gli affreschi, non integralmente conservati, si riconosce un trionfo di Nettuno dove calligrafiche figure a monocromo su fondo scuro sembrano potersi riferire alla produzione incisoria di Nicoletto da Modena o ancora di un artista più vicino a Mantegna come Lorenzo Leonbruno, riconoscibile proprio in quei volti delle figure dei musicanti. Ancora riconducibile ad una rielaborazione del linguaggio mantegnesco è l‘impianto illusionistico della volta balaustrata della sala degli amori che sembra ispirata alla più tarda rielaborazione del modello dell’artista padovano da parte di Benvenuto Tisi da Garofalo nella sala del Tesoro del palazzo Constabili a Ferrara. Lungo il fregio sotto alle lunette, dove sono rappresentazioni di personificazioni femminili, si affollano puttini molto rimaneggiati che alludono nel gioco all’amore e alla guerra, un tema molto presente sia nella cultura padana che in quella raffaellesca romana.

 

A Parma prima della affermazione della Signoria romana dei Farnese la mitologia aveva trovato, attraverso il caldo linguaggio di Correggio il suo spazio anche in edifici religiosi, come la camera della badessa Giovanna nel convento di San Paolo, dove Correggio affrescherà una grande allegoria mitologica dedicata alla badessa nelle vesti della casta Diana . Pochi anni primi nella sala accanto un più ermetico programma iconografico informava la decorazione della volta con soggetti derivati dagli Hieroglyphica di Horapollo ad opera dell’Araldi .

 

Con la presa di possesso dei territori di Parma e Piacenza da parte della famiglia romana dei Farnese nella persona di Pierluigi, nipote di Paolo III, entrarono nella cultura parmense i modelli letterari artistici e di costume della corte romana. Annibal Caro infatti insieme al Tolomei seguirono Pierluigi Farnese all’atto della costituzione del ducato. Fra gli artisti presenti alla corte farnesiana Jacopo Zanguidi detto il Bertoja che, insieme a Gerolamo Bedoli, autore di allegorie farnesiane (Parma abbraccia Alessandro Farnese, Parma Galleria Nazionale), rappresenta l’unica continuità con l’eredità di Parmigianino, lavorerà alla decorazione mitologica del Palazzo del Giardino, rivelando un linguaggio già vicino alla magniloquente maniera romana.

 

 

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Weil-Garris, K.- D'Amico, J.F. The Renaissance Cardinal's Ideal Palace a chapter from Cortesi's De Cardinalatu. Studies in italian Art and Architecture 15th through 18th Century. Rome 1980

 

 

 

Lezione 13

 

AA.VV. "Palazzo Firenze". Oltre Raffaello. Roma 1994: 211-234

 

Bober, P.P. - Rubinstein, R.O. Renaissance Artists and antique sculpture. London 1986

 

Borgeaud, P. Recherches sur le Dieu Pan. Bibliotheca Helvetica Romana 1979

 

Cartari, Vincenzo. Imagini de gli dei degl’Antichi. Venezia 1556.

 

Cieri Via, Claudia. Decorazione artistica nelle dimore romane fra 400 e 500. Roma: Il Bagatto, 1992

 

Cieri Via, Claudia. Le favole antiche. Produzione artistica e committenza a Roma nel Cinquecento. Roma: Il Bagatto, 1996

 

Dacos, N. - Furlan, C. Giovanni Da Udine. 1487-1561. Udine 1987

 

Davidson, B.F. "Pius IV and Raphael’s Logge." The Art Bulletin 66 (1984): 382-389

 

Di Gioia Elena - Fiorani, Fabio. "Il mito di Pan e Siringa". Giorgione e la cultura veneta fra ‘400 e ‘500. A cura di Claudia Cieri Via e Augusto Gentili. Roma: De Luca Edizioni, 1981

 

Fagiolo, Marcello - Madonna, Maria Luisa. "La Casina di Pio IV in Vaticano. Pirro Ligorio e l’architettura come geroglifico". Storia dell’arte. 15-16 (1972): 237-238

 

Friedlaender, Walter. Das Kasino Pius des Vierten. Leipzig 1912.

 

Gaston, R.W. "The casino of Pius IV and antiques for the Medici: some new Documents". Journal of the Warburg and Courtauld Institutes. 47   (1984): 205-209

 

Herbig, R. Pan. Der griechische Bocksgott. Versuch Einer Monographie. Frankfurt 1949

 

Ligorio, Pirro. Libro X Dell’Antichità di Pyrro Ligorio nel quale si tratta di alcune cose sacre et immagini ornamenti degli dei de’Gentili et delli loro origini et di chi primale mostrò el mondo symbolicamente adorarli oreverirli. Ms. XIII, B.3, 41-45, Napoli, Biblioteca Nazionale.

 

Fagiolo, M. e M.L. Madonna. "La Roma di Pio IV:la civitas Pia.La salus Medica.La custodia angelica". Arte illustrata V (1972): 383-402

 

Mandowsky, E. e C. Mitchell. Pirro Ligorio’s Roman Antiquities, The Drawings in MS XIII B.7 in the National Library in Neaples. London: The Warburg Institute 1963

 

Morel, Philippe. La Villa Médicis. Le Parnasse astrologique. Le décors peints pour le cardinal Ferdinand de Médicis. Etude iconologique. Rome 1991. 3 voll.

 

Nova, Alessandro. "Bartolomeo Ammannati e Prospero Fontana per Giulio III Del Monte". Ricerche di Storia dell’arte. 21(1983): 53-76.

 

Smith, G. "The Stucco decoration of the Casino of Pius IV". Zeitschrift fur Kunstgeschichte, XXXVII (1974): 116

 

Smith, G. The Casino of Pius IV. Princeton: Princeton University Press 1977: 20-27

 

 

 

Lezione 14

 

AA.VV. I luoghi del Collezionismo. Mantova-Palazzo Ducale. Modena: Il Bulino, 1995

 

AA.VV. La Corte di Mantova nell’età di Andrea Mantegna: 1450-1550. Roma: Bulzoni Editore, 1997

 

Brown C. La Grotta di Isabella d’Este. Un simbolo di continuità dinasticaper i Duchi di Mantova. Mantova, 1985

 

Cieri Via, Claudia, "Il Luogo della Corte: La Camera picta di Andrea Mantegna nel palazzo ducale di Mantova." Quaderni di Palazzo Te. 6 (1987): 23-44

 

Mozzarelli, Cesare. Mantova e i Gonzaga. Torino: UTET, 1987

 

Paolucci, Antonio. I Gonzaga e l’Antico. Percorso di Palazzo Ducale a Mantova. Roma: Fratelli Palombi Editori, 1988

 

Signorini, Rodolfo. Opus hoc tenue. La Camera dipinta di Andrea Mantegna. Lettura storica, iconografica e iconologica. Mantova, 1985

 

 

 

Lezione 15

 

AA.VV. Le carte di corte. I Tarocchi. Gioco e magia alla corte degli Estensi, Bologna 1987

 

Atlante di Schifanoia. A cura di Ranieri Varese. Modena: Edizioni Panini, 1989

 

Coffin, David. " Pirro Ligorio and Decoration of the late Sixteenth Century at Ferrara." The Art Bulletin. 35.2 (1955):167-185

 

La Corte e lo Spazio. Ferrara estense. A cura di Amedeo Quondam. Roma: Bulzoni Editore, 1982

 

Uguccioni, Alessandra. Salomone e la Regina di Sababa. La pittura di cassone a Ferrara. Ferrara l988

 

 

 

Lezione 16

 

AA.VV. Le Corti farnesiane di Parma e Piacenza, Roma: Roma: Bulzoni Editore, 1980

 

AA.VV. Vespasiano Gonzaga e il Ducato di Sabbioneta. A cura di U.Bazzotti- D.Ferrari-C.Mozzarelli. Mantova, 1993

 

Cieri Via, "Collezionismo e Memoria alla corte di Vespasiano Gonzaga: dalla galleria degli Antenati alla Galleria degli Antichi". Vespasiano Gonzaga e il Ducato di Sabbioneta. A cura di U. Bazzotti -  D. Ferrari - C. Mozzarelli. Mantova, 1993

 

Ventura, Leandro. Il Collezionismo di un Principe. La raccolta di marmi di Vespasiano Gonzaga Colonna. Modena: Franco Panini, 1997