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Miguel de Cervantes Saavedra

 

 

DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA

 

Note critiche

a cura di Laura Barberi

 

Il Don Chisciotte della Mancia fu pubblicato da Miguel de Cervantes Saavedra (Alcala' de Henares, 1547 - Madrid 1616) in due fasi distinte: una prima parte, scritta probabilmente tra il 1598 e il 1604, vide le stampe nel 1605, mentre una seconda parte uscì nel 1615 dopo che, in seguito al successo e quindi alle numerose ristampe della prima edizione, un non meglio identificato Alonso Fernandez de Avellaneda aveva pubblicato l'anno prima il Secondo tomo della vita dell'ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia: opera di imitazione chiaramente non dovuta alla penna del Cervantes che proprio per la preoccupazione di vedere il proprio personaggio sfruttato da altri autori accelerò la scrittura della seconda e ultima parte delle sue avventure.

In entrambe le edizioni la vicenda ruota intorno ai viaggi nell'est della Spagna compiuti dal protagonista, Don Chisciotte appunto, che tre volte lascia il suo villaggio d'origine in cerca di imprese cavalleresche da compiere per emulare gli eroi di quella letteratura cortese della quale è da sempre avido lettore e che gli hanno fatto perdere la nozione della realtà, facendogli immaginare di essere egli stesso un cavaliere errante. Ognuna di queste tre sortite (salidas) ha proprie peculiarità: le prime due "uscite" sono contenute nella prima parte, l'ultima nella seconda parte.

Il romanzo inizia con la presentazione del protagonista, Alonso Chisciana, un nobiluomo (hidalgo) di campagna ormai cinquantenne, che vive in un piccolo paese della Mancia e che dopo anni di letture di libri cavallereschi impazzisce e comincia a pensare che tutto ciò che ha letto corrisponda al vero e che egli debba ripetere le gesta dei cavalieri erranti alla ricerca di fama e di gloria. Perciò si dota dell'armatura dei suoi avi (ma la sua visiera è di cartone), ribattezza il suo magro cavallo Ronzinante, sceglie per sé come nome di battaglia quello di Don Chisciotte della Mancia ed elegge a sua dama una contadina del luogo alla quale cambia il nome in Dulcinea del Toboso. Così dà inizio al suo vagabondaggio. Questa prima sortita solitaria è però destinata a breve durata, visto che, dopo qualche disavventura e una buona dose di legnate inflittegli da chi ha sfidato, viene ritrovato alquanto malconcio da un suo compaesano che lo riconduce a casa. Qui viene assistito dalla nipote, dal curato e dal barbiere, i quali, ritenendo responsabili della follia del loro amico i libri cavallereschi della sua biblioteca, ne bruciano la quasi totalità. Nel frattempo Don Chisciotte si rimette e si decide immediatamente ad una seconda uscita (capp. VII - LII); prima però si sceglie uno scudiero, un contadino del paese - Sancio Panza - attratto dalla possibilità di guadagni e dalla promessa di ottenere un'isola da governare. E così si forma una delle coppie più celebri della storia della letteratura: il cavaliere alto, magro e allampanato in sella al suo Ronzinante, e lo scudiero basso e tondo in groppa al suo somaro. Seguono alcune delle avventure più celebri del romanzo tra le quali la battaglia contro i mulini a vento, scambiati da Don Chisciotte per dei giganti e quindi sfidati a duello. Dopo una serie di comiche peripezie che li vedono quasi sempre avere la peggio, i due si dividono perché Don Chisciotte chiede a Sancio di recapitare una lettera d'amore a Dulcinea. Durante il viaggio egli però incontra il barbiere e il curato e gli rivela dove si trovi Don Chisciotte e insieme, attraverso uno stratagemma, riescono a riportarlo a casa.

La terza uscita di Don Chisciotte è al centro della seconda parte del romanzo, edita nel 1615. Al ritorno nel suo villaggio Don Chisciotte apprende che è stato pubblicato un libro che narra le sue avventure, ma le descrive in modo molto poco glorioso, ragion per cui il nobiluomo si decide ad una terza sortita proprio per affermare i suoi ideali di giustizia, di cortesia, di difesa degli oppressi tanto derisi nel libro appena pubblicato. Numerose vicende si susseguono, ma il nostro protagonista ha sempre la peggio, anche perché, oramai divenuto famoso, è vittima delle beffe di coloro che incontra e lo riconoscono come il folle che si crede un cavaliere errante. Motivo distintivo, infatti, della seconda parte del romanzo è il fatto che non è più tanto Don Chisciotte a trasformare la realtà secondo la sua immaginazione, quanto piuttosto i personaggi intorno a lui, incluso Sancio, a volerlo convincere a compiere stramberie per poterne poi ridere. Anche questa sortita si conclude comunque con un ritorno al villaggio, qui Don Chisciotte si ammala preso da una forte febbre che lo tiene a letto. La malattia lo rinsavisce, ma proprio allora muore.

Il Don Chisciotte è un'opera di una complessità straordinaria, sia a livello tematico che stilistico, e di conseguenza molte sono state le interpretazioni datene, anche di segno opposto tra loro. L'universalità dei personaggi creati dal Cervantes ha poi spesso indotto i critici a decontestualizzare storicamente il romanzo e a leggerlo quasi come opera loro contemporanea. E' possibile però ricondurre le varie analisi critiche fondamentalmente a due tipi di letture: da un lato quella "giocosa", il cui massimo sostenitore è forse l'Auerbach che nel suo Mimesis sottolinea come la follia del Chisciotte altro non sia che gioco, parodia, comicità, riconducibile alla follia erasmiana; dall'altro l'interpretazione "tragica", storicamente affermatasi durante il Romanticismo, che vede invece nell'hidalgo un campione dell'idealismo costretto a scontrarsi con una prosaica realtà priva di ogni eroismo. Ad ognuna di queste interpretazioni è possibile muovere delle obiezioni visto che in realtà entrambi i toni, quello della gaiezza e quello della melanconia, pervadono la narrazione e troppo riduttivo sarebbe cercare di affermare una visione critica definitiva; come per l'Amleto di Shakespeare continueranno a susseguirsi le più svariate letture.

Ciò che invece è importante sottolineare e verso cui dovrebbe concentrarsi l'attenzione del lettore, è la modernità stilistica dell'opera (il che spiega anche come mai il dibattito critico anche nel corso del Novecento si sia appassionato a questo romanzo), che partendo dalla letteratura cortese-cavalleresca, dalla letteratura pastorale, dal romanzo picaresco, dalla novellistica, abbia unito tutte queste esperienze per creare qualcosa di assolutamente originale ed unico, definito da molti come il primo romanzo moderno. La stratificazione dei piani narrativi, per esempio, con diversi narratori che rimandano l'uno all'altro: Cervantes dichiara infatti di rifarsi ad un manoscritto arabo di un certo Cide Hamete Benengeli per la narrazione delle gesta di Don Chisciotte, nella seconda parte del romanzo poi si parla spesso del libro pubblicato, nella finzione, sulle avventure dell'hidalgo e che lo mette così in cattiva luce, espediente attraverso il quale Cervantes non lesina critiche al libro veramente pubblicato apocrifo nel 1614 con protagonista il suo folle cavaliere. In proposito si è parlato di un vero e proprio gioco di specchi attraverso il quale viene demolita la concezione univoca della realtà, sostituita da numerose prospettive che ci forniscono un quadro sfuggente, contraddittorio, in eterno equilibrio tra reale, appunto, e irreale. Letteratura e vita, teatro e vita nel Don Chisciotte si mischiano: i mulini a vento diventano dei giganti, le locande dei castelli, i montoni degli eserciti nemici, etc. Ogni cosa può essere soggetta a diversi punti di vista, il che fa perdere chiaramente l'esatta concezione della realtà. Sarebbe così testimoniata dal Cervantes la crisi di fiducia del suo tempo nelle acquisizioni rinascimentali quali  l'armonioso equilibrio tra la natura e l'uomo, la fiducia nell'agire umano guidato dalla razionalità. Nel suo romanzo regnano invece la confusione, l'incertezza, il disinganno: una "scissione tra coscienza e vita" che perdura ancora oggi e che rende il Don Chisciotte così attuale.

 


 

 

 


La storia di

Don Chisciotte

della Mancha

 

di

 

Miguel de Cervantes Saavedra

 

 

PROLOGO

 

Sfaccendato lettore, potrai credermi senza che te ne faccia giuramento, ch'io vorrei che questo mio libro, come figlio del mio intelletto, fosse il più bello, il più galante ed il più ragionevole che si potesse mai immaginare; ma non mi fu dato alterare l'ordine della natura secondo la quale ogni cosa produce cose simili a sé. Che poteva mai generare lo sterile e incolto mio ingegno, se non se la storia d'un figlio secco, grossolano, fantastico e pieno di pensieri varii fra loro, né da verun altro immaginati finora? E ben ciò si conviene a colui che fu generato in una carcere, ove ogni disagio domina, ed ove ha propria sede ogni sorta di malinconioso rumore. Il riposo, un luogo delizioso, l'amenità delle campagne, la serenità dei cieli, il mormorar delle fonti, la tranquillità dello spirito, sono cose efficacissime a render feconde le più sterili Muse, affinché diano alla luce parti che riempiano il mondo di maraviglia e di gioia. Avviene talvolta che un padre abbia un figliuolo deforme e senza veruna grazia, e l'amore gli mette agli occhi una benda, sicché non ne vede i difetti, anzi li ha per frutti di buon criterio e per vezzi, e ne parla cogli amici: come di acutezze e graziosità. Io però, benché sembri esser padre, sono padrino di don Chisciotte, né vo' seguir la corrente, né porgerti suppliche quasi colle lagrime agli occhi, come fan gli altri, o lettor carissimo, affinché tu perdoni e dissimuli le mancanze che scorgerai in questo mio figlio. E ciò tanto maggiormente perché non gli appartieni come parente od amico, ed hai un'anima tua nel corpo tuo, ed il tuo libero arbitrio come ogni altro, e te ne stai in casa tua, della quale sei padrone come un principe de' suoi tributi, e ti è noto che si dice comunemente: sotto il mio mantello io ammazzo il re. Tutto ciò ti disobbliga e ti scioglie da ogni umano ricordo, e potrai spiegar sulla mia storia il tuo sentimento senza riserva, e senza timore d'essere condannato per biasimarla, o d'averne guiderdone se la celebrerai.

Vorrei per altro, o lettor mio, offrirtela; pulita e ignuda, senza l'ornamento di un prologo, e spoglia dell'innumerabil caterva degli usitati sonetti, epigrammi, od elogi che sogliono essere posti in fronte ai libri; e ti so dire che sebbene siami costato qualche travaglio il comporla, nulla mi diede tanto fastidio quanto il fare questa prefazione che vai leggendo. Più volte diedi di piglio alla penna per iscriverla, e più volte mi cadde di mano per non sapere come darle principio. Standomi un giorno dubbioso con la carta davanti, la penna nell'orecchio, il gomito sul tavolino, e la mano alla guancia, pensando a quello che dovessi dire, ecco entrar d'improvviso un mio amico, uomo di garbo e di fino discernimento, il quale, vedendomi tutto assorto in pensieri, me ne domandò la cagione. Io non gliela tenni celata, ma gli dissi che stava studiando al prologo da mettere in fronte alla storia di don Chisciotte, e ci trovavo tanta difficoltà, che m'ero deliberato di non far prologo, e quindi anche di non far vedere la luce del giorno alle prodezze di sì nobile cavaliere.

— “Come volete voi mai, soggiuns'io, che non mi tenga confuso il pensare a tutto ciò che sarà per dirne quell'antico legislatore che chiamasi volgo, quando vegga che dopo sì lungo tempo da che dormo nel silenzio della dimenticanza, ora che ho tant'anni in groppa, esco fuori con una leggenda secca come un giunco marino, spoglia d'invenzione, misera di stile, scarsa di concetti, mancante di ogni erudizione e dottrina, senza postille al margine, e senz'annotazioni al fine del libro, di che vedo ricche le altre opere, tuttoché favolose e profane, e zeppe di sentenze di Aristotele, di Platone, e di tutto lo sciame dei filosofi, onde ne avviene che restano meravigliati i lettori, e tengono gli autori nel più gran conto di dottrina, di erudizione, di eloquenza? Citando la divina Scrittura si fanno credere altrettanti santi Tommasi e nuovi Dottori della Chiesa, conservando in ciò un sì ingegnoso decoro che in una riga ti rappresentano un innamorato perduto, e nell'altra ti fanno un sermoncino cristiano, ch'è una consolazione l'udirli o il leggerli! Deve di tutto ciò essere spoglio il mio libro, poiché non ho che citare nel margine, o che annotare nel fine, né so di quali autori mi valga il comporlo; e così non posso affibbiarveli, come da tutti si pratica, per le lettere dell'abbiccì, cominciando con Aristotele, e terminando con Senofonte e Zoilo o Zeusi, benché l'uno sia stato un maldicente, l'altro un pittore. Ha pur il libro mio da mancare di sonetti al principio, almeno di quelli composti da duchi, marchesi, conti, vescovi, dame o poeti celebratissimi; benché se pregassi di ciò due o tre miei amici bottegai, io so che me li darebbero, e tali da non poter essere superati da quelli dei più celebri della nostra Spagna. Insomma, signore e amico mio, soggiunsi, io mi risolvo a lasciar il signor don Chisciotte sepolto negli archivi della Mancia, finché il cielo faccia comparir chi lo adorni delle tante qualità che gli mancano, trovandomi io incapace di rimediarvi, attesa la mia insufficienza e la mia scarsa erudizione, ed anche perché sono naturalmente infingardo e lento nell'indagare autori che dicano quello che so dire da me medesimo senza la lor dettatura. Di qui ha origine la sospensione e l'umore in cui mi trovaste; e ben deve bastare per mettermi a tale stato tutto ciò che da me avete inteso.”

All'udir queste cose il mio amico si diede una palmata nella fronte, proruppe in un alto scoppio di ridere, e disse: Per bacco, fratello, che termino al presente di togliermi da un inganno in cui son vissuto da che vi conosco; giacché vi ho tenuto mai sempre per uomo giudizioso e prudente in tutte le vostre azioni, ed ora m'avveggo, che voi ne siete lontano quanto il cielo dalla terra. Com'è mai possibile che cose di sì poco momento e di sì facile rimedio abbiano tal possa da confondere e sviare un ingegno sì maturo com'è il vostro, a cui sì agevole riesce il togliere e superare molto maggiori difficoltà? Ciò deriva in fede mia, non da mancanza di abilità, ma da infingardaggine, e da poco buon raziocinio. Volete la prova di ciò? Statemi attento e vedrete come in un aprire e chiuder d'occhio io svento tutte le vostre difficoltà, e vengo a rimediare a tutte le mancanze; dalle quali dite essere tenuto sospeso e avvilito per modo che vi ritraete dal dare al mondo il vostro famosissimo don Chisciotte, lume e specchio di tutta la errante cavalleria. — “Or via, lo interruppi sentendo le sue parole: in qual modo divisate voi di riempire il vôto del mio timore e di ridurre a chiarezza il caos della mia confusione? — Al che soggiuns'egli: — “Quanto al primo imbarazzo in cui vi trovate a cagione de' sonetti, epigrammi ed elogi che mancano in fronte al vostro libro, e ch'è di mestieri che portino i nomi di personaggi gravi e titolati, è facile il rimediare. Prendetevi voi stesso la briga di comporli; poscia battezzateli voi medesimo col nome che più vi talenta attribuendoli al prete Gianni dell'India od all'imperatore di Trebisonda, i quali so essere opinione che abbiano avuto il vanto di poeti celebratissimi. Che se ciò non è vero, e sorgesse per avventura qualche pedante o baccelliere, che mordendovi le calcagna impugnasse questa verità, non per questo a voi, convinto di menzogna, taglierebbero la mano che ha segnato nomi cotanto illustri. E quanto al citare in margine libri ed autori ai quali attribuir le sentenze e i detti che vi piacesse d'inserire nella vostra storia, basta che voi vi facciate cadere in acconcio alcune sentenze che sappiate a memoria, o che vi costino poca fatica a cercarle. Per esempio, trattando di libertà e schiavitù:

 

Non bene pro toto libertas venditur auro;

 

ed al margine citate Orazio, o chi l'ha detto. Se parlerete del potere della morte:

 

Pallida mors æquo pulsat pede

Pauperum tabernas regumque turres.

 

Se dell'amicizia, o dell'amore che il Signore comanda di portare a' nemici, eccovi la divina Scrittura che vi somministra le parole di Dio stesso: Ego autem dico vobis: Diligite inimicos vestros. Trattando de' cattivi pensieri ricorrete al Vangelo: De corde exeunt cogitationes malæ. Se dell'incostanza degli amici, Catone vi somministrerà il suo distico:

 

Donec eris felix, multos numerabis amicos;

Tempora si fuerint nubila, solus eris.

 

E di tal guisa latinizzando, od in tal'altra maniera, sarete tenuto per grammatico, ciò che procura oggigiorno non poco onore e guadagno. Per ciò che spetta alle annotazioni da porsi al fine del libro, potete sbarazzarvene a questo modo. Se nominate nella vostra opera qualche gigante, supponetelo il gigante Golia: questo solo (che poco vi costa) v'apre il campo ad un'ampia annotazione dicendo: Il Gigante Golia fu un Filisteo il quale venne ucciso con un gran colpo di pietra dal pastore Davide nella valle di Tèrebinto, secondo ciò che si legge nel libro dei Re nel capitolo ove vedrete che questo sta scritto. Per mostrarvi poi uomo erudito nelle umane lettere, ed anche cosmografo, fate in modo che nella vostra storia si nomini il fiume Tago, e qui si aprirà il campo ad un'altra famosa annotazione dicendo: Al fiume Tago diede il nome un re delle Spagne, nasce nel tal luogo, e muore nel mare Oceano, bagnando le mura della famosa città di Lisbona, e credesi abbia le arene d'oro, ecc. Dovendo parlar di ladroni, vi dirò la storia di tanti, ma celebrati dal maggior numero: che se tanto vi riuscirà di fare non avrete conseguito poco.”

Io me ne stavo ascoltando con profondo silenzio ciò che mi si dicea dall'amico, e tanto poterono sopra di me le sue ragioni che, senza altro dire, gliele menai tutte buone: anzi le feci servire di fondamento a questo prologo, nel quale riscontrerai, o delicato lettore, il retto discernimento dell'amico mio, e la buona ventura nell'essermi a questi tempi avvenuto in sì utile consigliere quando trovavami irresoluto e indeciso. Tu n'avrai certo gran compiacenza nel leggere così ingenua e così pura la storia del famoso don Chisciotte della Mancia, il quale, per la fama che corre fra tutti gli abitanti del distretto del Campo di Montiello, fu l'innamorato più casto, ed il più valente cavaliere, che da tanti anni in qua comparisse in que' dintorni; né io voglio esagerarti il servigio che ti fo nel darti a conoscere sì celebre e onorato campione. Bramo però d'incontrare il tuo gradimento per la conoscenza che ti farò fare anche del famoso Sancio Pancia suo scudiere, nel quale, a mio avviso, troverai congiunte tutte le disgrazie scudierili che s'incontrano sparse nella caterva degli inutili libri di cavalleria. Dio ti conservi in salute, e non mi porre in dimenticanza. Sta sano.

 


CAPITOLO I

 

DELLA CONDIZIONE E DELLE OPERAZIONI DEL RINOMATO IDALGO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA.

 

Viveva, non ha molto, in una terra della Mancia, che non voglio ricordare come si chiami, un idalgo di quelli che tengono lance nella rastrelliera, targhe antiche, magro ronzino e cane da caccia. Egli consumava tre quarte parti della sua rendita per mangiare piuttosto bue che castrato, carne con salsa il più delle sere, il sabato minuzzoli di pecore mal capitate, lenti il venerdì, coll'aggiunta di qualche piccioncino nelle domeniche. Consumava il resto per ornarsi nei giorni di festa con un saio di scelto panno di lana, calzoni di velluto e pantofole pur di velluto; e nel rimanente della settimana faceva il grazioso portando un vestito di rascia della più fina. Una serva d'oltre quarant'anni, ed una nipote che venti non ne compiva convivevano con esso lui, ed eziandio un servitore da città e da campagna, che sapeva così bene sellare il cavallo come potare le viti. Toccava l'età di cinquant'anni; forte di complessione, adusto, asciutto di viso; alzavasi di buon mattino, ed era amico della caccia. Vogliono alcuni che portasse il soprannome di Chisciada o Chesada, nel che discordano gli autori che trattarono delle sue imprese; ma per verosimili congetture si può presupporre che fosse denominato Chisciana; il che poco torna al nostro proposito; e basta soltanto che nella relazione delle sue gesta non ci scostiamo un punto dal vero.

Importa bensì di sapere che negli intervalli di tempo nei quali era ozioso (ch'erano il più dell'anno), applicavasi alla lettura dei libri di cavalleria con predilezione sì dichiarata e sì grande compiacenza che obbliò quasi intieramente l'esercizio della caccia ed anche il governo delle domestiche cose: anzi la curiosità sua, giunta alla manìa d'erudirsi compiutamente in tale istituzione, lo indusse a spropriarsi di non pochi dei suoi poderi a fine di comperare e di leggere libri di cavalleria. Di questa maniera ne recò egli a casa sua quanti gli vennero alle mani; ma nissuno di questi gli parve tanto degno d'essere apprezzato quanto quelli composti dal famoso Feliciano de Silva, la nitidezza della sua prosa e le sue artifiziose orazioni gli sembravano altrettante perle, massimamente poi quando imbattevasi in certe svenevolezze amorose, o cartelli di sfida, in molti dei quali trovava scritto: La ragione della nissuna ragione che alla mia ragione vien fatta, rende sì debole la mia ragione che con ragione mi dolgo della vostra bellezza. E similmente allorché leggeva: Gli alti cieli che la divinità vostra vanno divinamente fortificando coi loro influssi, vi fanno meritevole del merito che meritatamente attribuito viene alla vostra grandezza.

Con questi e somiglianti ragionamenti il povero cavaliere usciva del senno. Più non dormiva per condursi a penetrarne il significato che lo stesso Aristotele non avrebbe mai potuto deciferare, se a tale unico oggetto fosse ritornato tra i vivi. Non gli andavano gran fatto a sangue le ferite che dava e riceveva don Belianigi, pensando che di buon diritto nella faccia e in tutta la persona avessero ad essergli rimaste impresse e vestigia e cicatrici, per quanto accuratamente foss'egli stato guarito; ma nondimeno lodava altamente l'autore perché chiudeva il suo libro con la promessa di quella interminabile avventura. Fu anche stimolato le molte volte dal desiderio di dar di piglio alla penna per compiere quella promessa; e senz'altro l'avrebbe fatto giungendo allo scopo propostosi dal suo modello; se distratto non l'avessero più gravi ed incessanti divisamenti. Ebbe a quistionar più volte col curato della sua terra (uomo di lettere e addottorato in Siguenza) qual fosse stato miglior cavaliere o Palmerino d'Inghilterra, o Amadigi di Gaula; era peraltro d'avviso mastro Nicolò, barbiere di quel paese, che niuno al mondo contender potesse il primato al cavaliere del Febo, e che se qualcuno poteva competer con lui, questi era solo don Galeorre fratello di Amadigi di Gaula, da che nulla fu mai d'inciampo alle sue ardite imprese; e non era sì permaloso e piagnone come il fratello, a cui poi non cedeva sicuramente in valore. In sostanza quella sua lettura lo portò siffattamente all'entusiasmo da non distinguere più la notte dal dì, il dì dalla notte; di guisa che pel soverchio leggere e per il poco dormire gli s'indebolì il cervello, e addio buon giudizio. Altro non presentavasi alla sua immaginazione che incantamenti, contese, battaglie, disfide, ferite, concetti affettuosi, amori, affanni ed impossibili avvenimenti: e a tal eccesso pervenne lo stravolgimento della fantasia, che niuna storia del mondo gli pareva più vera di quelle ideate invenzioni che andava leggendo. Sosteneva egli che il Cid Rui Diaz era stato bensì valente cavaliere, ma che dovea ceder la palma all'altro dall'ardente spada, il quale d'un solo manrovescio avea tagliati per mezzo due feroci e smisurati giganti. Più gli piaceva Bernardo del Carpio per avere egli ucciso in Roncisvalle l'incantato Roldano, valendosi dell'accortezza d'Ercole allorché soffocò fra le sue braccia Anteo figlio della Terra. Celebrava il gigante Morgante perché discendendo egli da quella gigantesca genìa, che non dà che scostumati e superbi, pure egli solo porgevasi affabile e assai ben creato. Dava però a Rinaldo di Montalbano sopra ad ogni altro la preferenza, e segnatamente quando lo vedeva uscire dal suo castello, a far man bassa, di quanto gli capitava alle mani, derubando in Aglienda quell'idolo di Maometto che era tutto d'oro secondoché riferisce la sua storia. Avrebbe egli sacrificata la sua serva, e di vantaggio pur la nipote alla smania che tenea d'ammaccare a furia di calci il traditor Ganelone.

In fine perduto affatto il giudizio, si ridusse al più strano divisamento che siasi giammai dato al mondo. Gli parve conveniente e necessario per l'esaltamento del proprio onore e pel servigio della sua repubblica di farsi cavaliere errante, e con armi proprie e cavallo scorrere tutto il mondo cercando avventure, ed occupandosi negli esercizii tutti dei quali aveva fatto lettura. Il riparare qualunque genere di torti, e l'esporre sé stesso ad ogni maniera di pericoli per condursi a glorioso fine, doveano eternare fastosamente il suo nome; e figuravasi il pover'uomo d'essere coronato per lo meno imperadore di Trebisonda in merito del valore del suo braccio. Immerso in tali deliziosi pensieri, ed alzato all'estasi dalla straordinaria soddisfazione che vi trovava, si diede la più gran fretta onde porli ad esecuzione. Applicossi prima di tutto a far lucenti alcune arme di cui si erano valsi i bisavoli suoi, e che di ruggine coperte giacevano dimenticate in un cantone: le ripulì e le pose in assetto il meglio che gli fu possibile, poi s'accorse ch'era in esse una essenziale mancanza, perocché invece della celata con visiera, eravi solo un morione; ma; supplì a ciò la sua industria facendo di cartone una mezza celata, che unita al morione pigliò l'apparenza di celata intera. Egli è vero che per metterne a prova la solidità trasse la spada, e vi diede due colpi col primo dei quali, in un momento solo, distrusse il lavoro che l'aveva tenuto occupato una settimana; né gli andò allora a grado la facilità con cui la ridusse in pezzi; ma ad oggetto che non si rinnovasse un tale disastro, la rifece consolidandola interiormente con cerchietti di ferro, e restò così soddisfatto della sua fortezza che senza metterla a nuovo cimento rinnovando la prova di prima, la ebbe in conto di celata con visiera di finissima tempra.

Si recò da poi a visitare il suo ronzino, e benché avesse più quarti assai d'un popone e più malanni che il cavallo del Gonella — che tantum pellis et ossa fuit gli parve che non gli si agguagliassero né il Babieca del Cid, né il Bucefalo di Alessandro. Impiegò quattro giorni nell'immaginare con qual nome dovesse chiamarlo, e diceva egli a sé stesso che sconveniva di troppo che un cavallo di cavaliere sì celebre non portasse un nome famoso; e andava perciò ruminando per trovarne uno che spiegasse ciò che era stato prima di servire ad un cavaliere errante, e quello che andava a diventare. Era ben ragionevole che cambiando stato il padrone, mutasse nome anche la bestia, ed uno gliene fosse applicato celebre e sonoro; e quindi dopo aver molto fra sé proposto, cancellato, levato, aggiunto, disfatto e tornato a rifare sempre fantasticando, stabilì finalmente di chiamarlo Ronzinante, nome a quanto gli parve, elevato e pieno di una sonorità che indicava il passato esser suo ronzino, e ciò ch'era per diventare, vale a dire, il più cospicuo tra tutti i ronzini del mondo.

Stabilito con tanta sua soddisfazione il nome al cavallo, s'applicò fervorosamente a determinare il proprio, nel che spese altri otto giorni, a capo dei quali si chiamò don Chisciotte. Da ciò, come fu detto già prima, trassero argomento gli autori di questa verissima storia, che debba essa chiamarsi indubitamente Chisciada e non Chesada, come ad altri piacque denominarla. Si risovvenne il nostro futuro eroe che il valoroso Amadigi non erasi limitato a chiamarsi Amadigi semplicemente, ma che affibbiato vi aveva il nome del regno e della patria, per sua più grande celebrità, chiamandosi Amadigi di Gaula. Dietro sì autorevole esempio, come buon cavaliere decise d'accoppiare al proprio nome quello pur della patria, e chiamarsi don Chisciotte della Mancia, con che, a parer suo, spiegava più a vivo il lignaggio e la patria, e davale onore col prendere da lei il soprannome.

Rese di già lucide l'arme sue, fatta del morione una celata, stabilito il nome al ronzino, e confermato il proprio, si persuase che altro a lui non mancasse se non se una dama di cui dichiararsi amoroso. Il cavaliere errante senza innamoramento è come arbore spoglio di fronde e privo di frutta; è come corpo senz'anima, andava dicendo egli a sé stesso. — Se per castigo de' miei peccati, o per mia buona ventura m'avvengo in qualche gigante, come d'ordinario intraviene ai cavalieri erranti, ed io lo fo balzare a primo scontro fuori di sella, o lo taglio per mezzo, o vinto lo costringo ad arrendersi, non sarà egli bene d'avere a cui farne un presente? laonde poi egli entri, e ginocchioni dinanzi alla mia dolce signora così s'esprima colla voce supplichevole dell'uomo domato: — Io, signora, sono il gigante Caraculiambro, dominatore dell'isola Malindrania, vinto in singolar tenzone dal non mai abbastanza celebrato cavaliere don Chisciotte della Mancia, da cui ebbi comando di presentarmi dinanzi alla signoria vostra, affinché la grandezza vostra disponga di me a suo talento. Oh! come si rallegrò il nostro buon cavaliere all'essersi così espresso! ma oh quanto più si compiacque poi nell'avere trovato a chi dovesse concedere il nome di sua dama! — Soggiornava in un paese, per quanto credesi, vicino al suo, una giovanotta contadina di bell'aspetto, della quale egli era stato già amante senza ch'ella il sapesse, né se ne fosse avvista giammai, e chiamavasi Aldolza Lorenzo; e questa gli parve opportuno chiamar signora de' suoi pensieri. Dappoi cercando un nome che non discordasse gran fatto dal suo, e che potesse in certo modo indicarla principessa e signora, la chiamò Dulcinea del Toboso perché del Toboso appunto era nativa. Questo nome gli sembrò armonioso, peregrino ed espressivo, a somiglianza di quelli che allora aveva posti a sé stesso ed alle cose sue.

 


CAPITOLO II

 

DELLA PRIMA PARTITA CHE FECE L'NGEGNOSO DON CHISCIOTTE DALLA SUA TERRA.

 

Fatti questi apparecchi, non volle differire più oltre a dar esecuzione al suo divisamento, affrettandolo a ciò la persuasione che il suo indugio lasciasse un gran male nel mondo; sì numerose erano le ingiurie che pensava di dover vendicare, i torti da raddrizzare, le ingiustizie da togliere, gli abusi da correggere, i debiti da soddisfare. Senza dunque far parola a persona di quanto aveva divisato, e senza essere veduto da alcuno, una mattina del primo giorno (che fu uno dei più ardenti) del mese di luglio, armato di tutte le sue armi salì sopra Ronzinante, si adattò la sua malcomposta celata, imbracciò la targa, prese la lancia, e per la segreta porta di una corticella uscì alla campagna, ebro di gioia al vedere con quanta facilità aveva dato principio al suo nobile desiderio. Ma non appena si vide all'aperto, gli sopravvenne un terribile pensiero, che per poco non lo fece desistere dalla cominciata impresa; risovvenendosi allora ch'egli non era armato cavaliere, e che quindi conformemente alle leggi di cavalleria, né potea né dovea condursi a battaglia contro verun cavaliere di questo mondo: oltre di che, quand'anche già fosse stato cavaliere novizzo avrebbe dovuto portare armi bianche senza impresa nello scudo finché non la guadagnasse col proprio valore. Questi pensieri lo fecero titubante nel suo proposito; ma più d'ogni ragione potendo in lui la pazzia, propose seco stesso di farsi armar cavaliere dal primo in cui s'imbattesse, ad imitazione di altri molti che di tal guisa si regolarono, come aveva letto nei libri che a tale lo avevano condotto. Quanto alla bianchezza dell'arme pensò di forbirle al primo villaggio per modo che vincessero l'ermellino; e con questo s'acquetò e proseguì il suo viaggio senza calcar altra via che quella ove fosse piaciuto al suo cavallo di condurlo, tenendo per fermo che in ciò consistesse la forza delle avventure.

Così camminando il nostro novello venturiero parlava fra sé e diceva: “Chi può dubitare che nei tempi avvenire quand'esca alla luce la vera storia delle famose mie gesta, il savio che la scriverà, accingendosi a dar conto di questa mia prima uscita sì di buon'ora, non cominci in questa maniera? — Aveva appena per l'ampia e spaziosa terra il rubicondo Apollo stese le dorate fila dei suoi vaghi capelli, e appena i piccoli dipinti augelli con le canore lor lingue avevano salutato con dolce melliflua armonia lo spuntare della rosea Aurora, la quale abbandonando le morbide piume del geloso marito mostravasi per le porte e finestre del Mancego orizzonte a' mortali, quando il famoso don Chisciotte della Mancia, lasciate le oziose piume, salì sul famoso suo cavallo Ronzinante, e cominciò a scorrere l'antica e celebre campagna di Montiello… (ed era il vero, da che battea quella strada) poi soggiunse esclamando; “Oh età fortunata, o secolo venturoso in cui vedranno la luce le famose mie imprese, degne di essere incise in bronzi, scolpite in marmi, e dipinte in tele per eterna memoria alla posterità! O tu savio incantatore, chiunque tu sia per essere, a cui sarà dato in sorte d'essere il cronista di questa peregrina storia, priegoti non obliare il mio buon Ronzinante, perpetuo compagno in ogni mio viaggio e vicenda.” Talora prorompeva come se fosse stato innamorato da vero: “Ah principessa Dulcinea, signora di questo prigioniero mio cuore, gran torto mi avete fatto col darmi commiato comandandomi altresì ch'io non osi mai più comparire al cospetto della vostra singolare bellezza. Vi scongiuro, signora mia, di rammentarvi di questo cuore che v'è schiavo, e che tanto soffre per amor vostro!” Andava egli a questi infilzando altri spropositi, alla maniera di quelli che aveva appresi dai suoi libri imitandone a tutta sua possa il linguaggio; e intanto procedeva sì lento, e il sole, alzandosi, mandava un ardor sì cocente, che avrebbe potuto diseccargli il cervello, se pur gliene fosse rimasto alcun poco.

A questo modo viaggiò tutto quel giorno senza che gli avvenisse cosa degna d'essere ricordata; del che disperavasi, bramando avidamente che gli si offerisse occasione da cimentare il valor del suo braccio. Alcuni autori affermano che la prima sua avventura fu quella del Porto Lapice: altri dicono quella dei mulini da vento: quello però che ho potuto riconoscere, e che trovai scritto negli annali della Mancia si è ch'egli andò errando per tutto l'intiero giorno, e che all'avvicinarsi della notte sì egli come il suo ronzino, si trovarono spossati e morti di fame. Che girando l'occhio per ogni parte per vedere se gli venisse scoperto qualche castello o abituro pastorale ove ricovrarsi e trovar di che rimediare a' suoi molti bisogni, vide non lungi dal cammino pel quale andava, un'osteria, che gli fu come vedere una stella che lo guidasse alla soglia, se non alla reggia della felicità. Affrettò il passo, e vi giunse appunto sul tramontare del giorno. Stavano a caso sulla porta due giovanotte di quelle che si chiamano da partito, le quali andavano a Siviglia con alcuni vetturali che avevano divisato di passar ivi la notte. Siccome tutto ciò che pensava o vedeva o fantasticava il nostro avventuriere, tutto dentro di lui pigliava forma e sembianza della pazzia che le sue letture gli avevano fitta in capo; così appena scorse l'osteria, gli fu d'avviso di vedere un castello colle sue quattro torri, con capitelli di lucido argento, con ponte levatoio sovrastante a profondo fosso, e fornito di tutte quelle altre appartenenze che sogliono essere attribuite a siffatte abitazioni. Avviatosi dunque all'osteria o castello, secondo che a lui pareva, e giuntovi da vicino, raccolse le briglie e fermò Ronzinante, attendendo che qualche nano si facesse dai merli a dar segno colla tromba che arrivava al castello un cavaliere. Ma vedendo poi che tardavano; e che Ronzinante smaniava di far capo nella stalla, s'accostò alla porta dell'osteria sulla quale stavano le due mal costumate ragazze, che a lui sembrarono due molto vaghe donzelle, ovvero due galanti signore che vagassero a bel diporto.

Avvenne che un porcaio per raccozzare un branco di porci (che con sopportazione così appunto si chiamano) suonò un corno al cui segnale tutti son usi di unirsi; e questo fece pago il desiderio di don Chisciotte, immaginandosi egli che un nano annunziasse così la sua venuta. Con gioia ineffabile s'accostò quindi alla porta e alle signore, le quali vedendo avvicinarsi un uomo armato a quel modo con lancia e targa, spaventate, si volsero per cacciarsi nell'osteria. Ma don Chisciotte, arguendo dalla lor fuga la paura che le incalzava, alzò la sua visiera di cartone, e facendo vedere la sua secca e polverosa faccia, disse loro con gentil modo e con voce tranquilla: “Non fuggano le signorie vostre, né paventino d'oltraggio alcuno, da che l'ordine cavalleresco da me professato divieta di far torti a chicchessia, massimamente poi a donzelle d'alto lignaggio, quali la presenza vostra vi fa conoscere.” Le due giovani lo andavano osservando, e cercavano di vedergli bene la faccia, che poco si scopriva di sotto alla trista visiera; ma quando s'intesero chiamar donzelle, nome sì opposto alla loro professione, non poterono contenersi dal ridere, in modo che don Chisciotte se ne risentì, e disse loro: “Quanto un dignitoso contegno s'addice alle belle, tanto sta male che prorompano per lieve cagione in tali risate; non per questo ve ne rimprovero, ma ciò vi dico solo per desiderio che siate di animo benigno verso di me, ché il mio è tutta volontà di servirvi.” Il linguaggio non inteso dalle donne e la trista figura del nostro cavaliere accresceano in esse le rise e in lui la collera; e la cosa sarebbe andata oltre se in quel momento non usciva l'oste, che per essere molto grasso era anche molto pacifico. Il quale al vedere quella contraffatta figura, armata d'armi tra loro così discordanti, com'erano le staffe lunghe, la lancia, la targa ed il corsaletto, fu per mettersi a ridere anch'egli non meno delle due giovani; ma tenendolo in qualche rispetto una macchina fornita di tante munizioni, pensò di parlargli garbatamente e gli disse: “Se la signoria vostra, signor cavaliere, domanda di essere alloggiata, dal letto in fuori (ché non ve n'ha pur uno in questa osteria) troverà in tutto di che soddisfarsi abbondevolmente.” Vedendo don Chisciotte la gentilezza del governatore della fortezza (che tale a lui rassembrarono e l'oste e l'osteria) rispose: “A me, signor castellano, ogni cosa mi basta, perché miei arredi son l'armi, e mio riposo il combattere.” L'oste s'immaginò che don Chisciotte gli avesse dato il nome di castellano per averlo creduto un sempliciotto Castigliano mentre era invece di Andalusia, e di quelli della riviera di San Lucar, non dissimile a Caco nei ladronecci, e non meno intrigatore d'uno studente o d'un paggio: e quindi gli rispose in questo modo: “A quanto dice la signoria vostra, i suoi letti debbon essere dure pietre, e il suo dormire una continua veglia: e se così è, ella abbia pure per certo che qui troverà le più opportune occasioni da non poter chiuder occhio per un anno intiero, non che per una sola notte.”

Ciò detto fu a tenere la staffa a don Chisciotte, il quale smontò con grande stento e fatica, come colui che in tutto quel giorno era ancora digiuno, e raccomandò subito all'oste d'avere la più gran cura del suo cavallo che era la miglior bestia che fosse al mondo. L'oste lo squadrò, e non gli parve quella gran cosa che don Chisciotte diceva, però allogatolo nella stalla, si recò subito a ricevere i comandi dell'ospite suo. Questi si lasciava disarmare dalle donzelle già rappattumate con lui, ma benché gli avessero tolto di dosso la corazza e gli spallacci, non trovaron elleno via né verso di aprirgli la goletta, né di levargli la contraffatta celata, che tenea assicurata con un legaccio verde; e volendogliela levare, bisognava toglierne i nodi, al che don Chisciotte si rifiutò risolutamente. Se ne rimase pertanto tutta quella notte con la celata, ciò che rendeva la più ridicola e strana figura che immaginar si possa. Mentre poi lo venivano disarmando (immaginando egli che quelle femmine scostumate fossero principali signore o dame di quel castello) disse loro con singolar gentilezza:

 

“Cavalier non vi fu mai

Dalle donne ben servito

Come il prode don Chisciotte

Quando uscì dal patrio lito.

Pensâr dame al suo destino,

Principesse al suo Ronzino!

 

o piuttosto Ronzinante; perché questo, signore, è il nome del mio cavallo, ed il mio proprio è don Chisciotte della Mancia. Io veramente avevo divisato di non appalesarmi se non per qualche impresa da me condotta a glorioso fine in servigio vostro; ma la necessità di accomodare al presente proposito quella vecchia romanza di Lancilotto fu causa che voi lo abbiate saputo fin d'ora. Tempo verrà per altro in cui le signorie vostre mi comanderanno, ed io loro obbedirò; e sarà allora che il valor del mio braccio vi proverà il desiderio che ho di servirvi.” Le allegre giovani non avvezze a simili ragionamenti, non risposero parola, ma gli domandarono solamente se desiderava mangiar qualche cosa. — Qualunque cosa, rispose don Chisciotte, giacché mi pare che ne sia ben tempo.

Avvenne che per essere venerdì non eravi in quell'osteria se non se qualche pezzo di un pesce chiamato Abadescio in Castiglia, Merluzzo in Italia, nell'Andalusia Baccagliao, e altrove Curadiglio e Trucciola, né altro v'era da potergli dare. “Se vi sono molte trucciuole, disse don Chisciotte, potranno servire in luogo di una truccia grande, poiché a me tanto fanno otto reali quanto una pezza da otto, e potrebbe anche darsi che queste trucciole fossero come il vitello ch'è migliore della vacca, e il capretto che è più saporito del caprone: sia però come si voglia, mi si porti tantosto, perché la fatica e il peso dell'arme non si possono sostenere quando il ventre non è ben governato” Gli fu posta la tavola presso la porta dell'osteria al fresco, e l'oste gli recò una porzione del più mal bagnato e peggio cotto merluzzo, ed un pane tanto nero ed ammuffato quanto le sue arme. Fu argomento di grandi risate il vederlo mangiare; poiché avendo tuttavia la celata e alzata la visiera, nulla potea mettersi in bocca colle proprie mani se da altri non gli era pôrto, e perciò una di quelle sue dame si mise ad eseguire quell'ufficio. Ma in quanto al dargli da bevere, non fu possibile, né avrebbe bevuto mai se l'oste non avesse bucata una canna, e postagliene in bocca una dell'estremità, non gli avesse per l'altra versato il vino; e tutto questo egli comportò pazientemente, purché non gli avessero a rompere i legacci della celata. In questo mezzo giunse per sorte all'osteria un porcaio, il quale al suo arrivare suonò un zuffoletto di canna quattro o cinque volte. Allora don Chisciotte finì di persuadersi che trovavasi in qualche famoso castello, ove era servito con musica; che i pezzi di merluzzo eran trote; che il pane era bianchissimo; dame quelle femmine di partito; l'oste governatore del castello: e quindi chiamava ben avventurosa la sua risoluzione e il suo viaggio. Ciò per altro che molto lo amareggiava si era di non vedersi ancora armato cavaliere, sembrandogli di non potersi esporre giuridicamente ad alcuna avventura senza avere da prima con buona forma ricevuto l'ordine della cavalleria.


CAPITOLO III

 

DEL GENTIL MODO CON CUI DON CHISCIOTTE FU ARMATO CAVALIERE.

 

Travagliato da questo pensiero accelerò il fine della scarsa cena che quella taverna gli aveva somministrata; poi chiamato a sé l'oste, si chiuse con lui nella stalla, ed ivi buttandosegli ginocchioni dinanzi, gli disse: “Non mi leverò mai di qua, o valoroso cavaliere, se prima io non ottenga dalla vostra cortesia un dono che mi fo ardito a chiedervi, il quale ridonderà a gloria vostra ed a vantaggio del genere umano.” L'oste, che vide l'ospite a' piedi suoi, e udì questa fanfaluca, stavasene confuso guardandolo senza saper che fare o che dirgli; né mai per pregar che facesse ottenne che si rizzasse, finché non gli ebbe promesso di fare quanto gli chiederebbe. “Meno attendermi non dovea dalla vostra magnificenza, o mio signore, riprese don Chisciotte; ed ora vi dico che il dono che intendo di chiedervi, e che già mi vien conceduto dalla liberalità vostra, si è che domani mattina mi abbiate ad armar cavaliere. Questa notte io veglierò l'arme nella chiesetta di questo vostro castello; e domani mattina, come ho detto, darem compimento a quello che tanto desidero, affinché mi sia lecito scorrere le quattro parti del mondo, cercando avventure in favore dei bisognosi, com'è debito della cavalleria, e de' cavalieri erranti qual mi sono io, il desiderio è tutto volto a simile imprese.”

L'oste, il quale, come si è detto, era volpe vecchia, ed aveva già qualche sospetto che l'ospite suo avesse dato volta al cervello, se ne persuase intieramente nel sentirlo così ragionare: e per aver da ridere in quella notte si risolse di secondarne l'umore. Gli disse pertanto che quel suo divisamento era indizio della più fina prudenza, e che una tale sua inclinazione era tutta propria e connaturale a cavalieri di quell'alta portata, ch'egli mostrava di essere, e di cui faceva testimonianza la sua galante presenza; indi aggiunse ch'egli stesso nei primi anni di sua giovinezza erasi dedicato a quell'onorevole esercizio, recandosi a tal fine in varie parti del mondo, cercando avventure, e visitando Perceli di Malaga, l'isola di Riarano, il Compasso di Siviglia, l'Azzoghescio di Segovia, l'Oliviera di Valenza, Rondigli di Granata, la spiaggia di San Lucar, il porto di Cordova, le Ventiglie di Toledo, e molti altri paesi. Che quivi egli aveva esercitata la leggerezza de' suoi piedi e la pieghevolezza delle sue mani, occupandosi in ogni maniera di ribalderie; facendo cioè continui torti, sollecitando molte vedove, svergognando non poche donzelle, ingannando molti pupilli, e finalmente rendendosi noto a quante curie e tribunali ha la Spagna; da ultimo poi esser venuto a starsene in quel suo castello dove si viveva colla propria e colla roba altrui, prestando ricovero a tutti i cavalieri erranti d'ogni qualità e condizione, unicamente per la molta affezione che ad essi portava, e per la speranza che nel prender commiato, dovessero dividere con lui ciò che avevano, in ricambio delle sue buone intenzioni. Soggiunse poi che in quel castello non v'era chiesetta in cui vegliar l'arme, giacché l'avea demolita per rifabbricarla di nuovo, ma che sapea benissimo che in caso di necessità poteasi far quell'ufficio ove più tornasse in acconcio, e che quindi potea quella notte vegliarle in un andito del castello; e la mattina, col favore del cielo, sariensi compiute le debite cerimonie, di maniera che egli si trovasse armato cavaliere, e tal cavaliere qual verun altro nel mondo. Gli domandò inoltre se aveva seco denari: ma don Chisciotte rispose di non aver nemmanco un quattrino, non avendo mai letto che alcun cavaliere errante portasse denari con sé. A ciò l'oste rispose che egli viveva in errore, mentre supposto pure che di ciò non si facesse menzione alcuna nelle storie, gli scrittori l'aveano omesso, giudicando che non bisognasse notare una cosa sì evidente e sì necessaria quanto è questa di non andar mai senza denari e biancherie di bucato; e non doversi perciò dubitare che non ne fossero ben provveduti. Avesse quindi per fermo e incontrastabile, che tutti gli erranti cavalieri, dei quali son pieni cotanti libri, portavano seco una borsa molto ben provveduta per tutto quello che loro potesse avvenire, e che in oltre recavano seco biancherie, ed una cassettina piena d'unguenti per le ferite che riceveano; poiché nei campi e nei deserti dov'essi combattevan e rimanevan feriti, non si trovava sempre chi all'istante imprendesse la loro cura, a meno che qualche savio incantatore loro affezionato non li volesse soccorrere, facendo giungere a volo per l'aria in una nube, o una donzella od un nano con una tazza piena d'acqua di tal virtù, che a gustarne per una goccia guarivano dalle piaghe e dalle ferite come se non avessero mai avuto alcun male. Ma potendo anche mancare questo soccorso, i cavalieri antichi trovarono sempre assai necessario che i loro scudieri avessero seco denari, ed altre indispensabili cose, come a dire fili e unguenti per medicarsi; e quelli che mancavano di scudieri (ciò che assai di rado avveniva) portavano eglino stessi siffatte cose in bisacce tanto sottili che quasi non si scorgevano, mettendole sulla groppa del cavallo come se fossero oggetti di maggiore importanza; giacché fuori di simile necessità non fu mai costume dei cavalieri erranti di portar seco bisacce. Però lo consigliava caldamente ed anche glielo comandava come a figlioccio qual era o stava per essere, che in avvenire non viaggiasse mai senza denari e senza le suggerite precauzioni, poiché quando meno se lo pensava conoscerebbe col fatto quanto gli gioverebbe l'esserne provveduto. Promise don Chisciotte di fare quanto gli era consigliato dopo di che fu deciso ch'egli vegliasse l'arme in un vasto cortile che stava a lato di quell'osteria.

Raccolte che l'ebbe tutte, le pose sopra una pila che giaceva a canto di un pozzo; ed imbracciata la targa, e presa la lancia, misesi a passeggiar loro dinanzi col miglior garbo del mondo, avendo cominciato il passeggio all'avvicinarsi della notte. L'oste informò quanti ritrovavansi nell'albergo della pazzia dell'ospite suo, della veglia che faceva all'arme e della fiducia in cui era di dover essere armato cavaliere. Parve a tutti mirabile quel nuovo genere di pazzia, e fattisi ad un luogo donde potevano spiare quello che il nuovo arrivato facesse, videro che con decorosa gravità talor passeggiava, e talvolta appoggiato alla sua lancia tenea l'occhio fisso all'arme sue senza levarnelo per buon tratto di tempo. Si fece poi notte del tutto, ma la luna mandava così gran luce, da poter quasi gareggiare coll'astro che gliela prestava; di modo che ciascuno vedeva benissimo tutto ciò che il novello cavaliere faceva. In questo mezzo saltò in capo ad uno dei vetturali che stavano nell'osteria di abbeverare i suoi muli, e gli fu perciò mestieri di levar dalla pila l'arme di don Chisciotte; il quale vedendo costui, con alta voce esclamò: “Oh tu qual sia, ardito cavaliere che osi por mano sull'arme del più valoroso errante che abbia giammai cinto spade, pon mente a quello che fai, e non toccarle se non vuoi pagare colla vita il fio del tuo grave ardimento.” Il vetturale non si curò di quelle ciancie (e questo fu gran male per lui che poi dovette curare la propria salute), e prendendo le cinghie dell'armatura, la scagliò gran tratto lontano da sé. Quando don Chisciotte ciò vide levò gli occhi al cielo, e volto il pensiero, per quanto parve, a Dulcinea sua signora, disse: “Soccorretemi, signora mia, nel primo cimento che presentasi a questo mio petto vassallo vostro; deh non manchi a me in questo primo incontro il favor vostro e la vostra difesa!” Proferendo queste ed altre tali filastrocche, deposta la targa, alzò a due mani la lancia, e dato con essa un gran colpo sulla testa a quel vetturale, lo stramazzò così malconcio, che se un altro gliene accoccava non avria più avuto bisogno di medico che il risanasse. Ciò fatto, raccolse l'arme sue, e ricominciò a passeggiare colla stessa tranquillità di prima.

Di lì a non molto, essendo ignaro del fatto, perché il vetturale giaceva tuttavia fuor di sé, un altro ne sopravvenne, avvisandosi, come il primo, di abbeverar i suoi muli. Anche costui tolse l'arme onde sbarazzare la pila; ma l'irato don Chisciotte, senza proferir parola o chieder favore a chicchessia, getta una seconda volta la targa, e alzata la lancia, senza romperla, della testa del vetturale ne fece più di tre, giacché la spaccò in quattro parti. Accorse al rumore tutta la gente che trovavasi nell'osteria e cogli altri anche l'oste. Come don Chisciotte li vide imbracciò la targa; e posto mano alla spada così imprese a dire: “O donna di beltà, vigore e sostegno dell'affievolito mio cuore, ora è il tempo che tu rivolga gli occhi della tua grandezza a questo cavalier tuo prigione, a cui è imminente così perigliosa ventura!” E tanto lo accese il fervore con cui pronunziò queste parole, che non l'avriano fatto retrocedere tutti i vetturali del mondo. I compagni dei feriti, vedendoli pesti a quel modo, cominciarono da lontano a mandare sopra don Chisciotte una pioggia di pietre, ed egli andavasi parando alla meglio colla targa, e non osava scostarsi dalla pila per non abbandonare le arme. L'oste gridava forte che nol maltrattassero, avendo già fatto saper loro ch'era un pazzo, e che un pazzo la passerebbe netta quand'anche li ammazzasse tutti. Don Chisciotte dal canto suo con più alta voce li chiamava tutti codardi, e traditori aggiungendo che il signor del castello era un vile e malnato cavaliere, dacché tollerava che si trattassero a quel modo i cavalieri erranti: e buon per lui ch'egli non era per anche armato cavaliere, altrimenti gli avrebbe fatto pagar il fio del suo tradimento. “Di voi poi, ribalda e bassa canaglia, non fo verun conto: scagliate, accostatevi, oltraggiatemi quanto potete, che ben avrete il guiderdone che si conviene alla vostra stolida audacia.” Proferì queste parole d'un modo sì risoluto e sì franco che mise uno spavento terribile negli assalitori: i quali tra per questo, e per le persuasioni dell'oste, cessarono dal colpirlo, e si ristette pur egli dal tentar di ferire, tornando alla veglia dell'arme sue con la stessa tranquillità e col sussiego di prima.

Non parvero punto piacevoli all'oste le burle di questo suo ospite, e quindi si decise di finirla di quel suo malaugurato desiderio di essere armato cavaliere, prima che non avvenisse di peggio. Accostatosi a lui pertanto si scolpò di quanto gli era stato fatto da quella bassa gente, che senza sua saputa era arrivata a tanto eccesso, e lo assicurò che a suo tempo ne pagherebbero il fio. Gli ripeté, come gli aveva detto già prima, che in quel castello non trovavasi chiesetta, la quale per altro non era necessaria, mentre ciò che importava per essere armato cavaliere consisteva nello scapezzone e nella piattonata per quanto egli sapeva del cerimoniale dell'ordine; e che ciò potea farsi anche in mezzo ad una campagna. Aggiunse che egli aveva adempito già all'obbligo di vegliar l'arme, giacché bastavano due ore sole, ed egli ne aveva vegliate già più di quattro. Se ne persuase don Chisciotte, e gli disse ch'era pronto ad obbedirlo, e che s'affrettasse a compiere ogni cosa colla maggior prestezza possibile: perché se un'altra volta fosse assalito quand'egli si trovasse già armato cavaliere, aveva deciso di non lasciar in quel castello persona viva, tranne coloro che da lui fosse comandato di rispettare, ai quali per amor suo perdonerebbe la vita. Impaurito il castellano da tale protesta e da quanto aveva veduto, andò subito a prendere un libro in cui registrava il fieno e l'orzo che dava ai vetturali, e facendosi recare da un ragazzo un pezzo di candela, seguito dalle due già dette donzelle, venne alla volta di don Chisciotte. Gli comandò allora di mettersi ginocchione e leggendo il suo manuale, a modo come se recitasse qualche divota orazione, a mezza lettura alzò la mano, e gli diede un gran scappellotto, poi colla sua medesima spada una gentil piattonata, mormorando fra i denti come uno che recitasse qualche preghiera. Fatto ciò, comandò a una di quelle dame che gli cingesse la spada, la qual cosa essa eseguì con molta disinvoltura e buon garbo, che veramente era difficile contenersi dal ridere a ogni passo della cerimonia: ma le prodezze che avevano veduto eseguire dal novello cavaliere mettevan freno agli scherzi. Nel cingergli la spada, la buona signora gli disse: “Dio faccia che la signoria vostra riesca il più fortunato de' cavalieri, e ch'abbia gloria in ogni cimento.” Don Chisciotte allora la richiese del suo nome per sapere a cui fosse tenuto di tanto favore, divisando di farla partecipe dell'onore che meritar si potesse mediante il valore del suo braccio. Rispose ella con molta modestia, che chiamavasi la Tolosa, figliuola d'un ciabattino originario di Toledo, il quale faceva il suo mestiere nelle botteguccie di Sancio Bienaia, e che lo avrebbe servito e tenuto per signore dovunque avesse avuto la sorte d'avvenirsi in lui. La replicò don Chisciotte che gli facesse favor per l'avvenire di pigliarsi il don, chiamandosi donna Tolosa; ed essa glielo promise. Lo stesso colloquio tenne con l'altra donzella, che gli mise lo sprone; la domandò del suo nome, ed essa rispose che chiamavasi Molinara, e ch'era figliuola d'un onorato mugnaio d'Antechera. A questa pure domandò don Chisciotte il favor che chiamar si facesse donna Molinara, offrendosele ad ogni suo servigio e favore. Compiute poscia colla più gran fretta le cerimonie non mai vedute prima d'allora, don Chisciotte non volle tardare pur un momento a mettersi a cavallo per andare in traccia di venture. Posta quindi senza indugio la sella a Ronzinante vi salì sopra, ed abbracciando il suo albergatore gli disse le cose più strane del mondo (ringraziandolo senza fine del favore di averlo armato cavaliere), e tali che non sarebbe possibile riferirle a dovere. L'oste, oltremodo voglioso di vederlo fuori dell'osteria, rispose con non minore ampollosità, ma con più brevi parole, e senza chiedergli pagamento dell'alloggio lasciollo andare alla sua buon'ora.


CAPITOLO IV

 

DI CIO' CHE ACCADDE AL NOSTRO CAVALIERE QUANDO USCI' DALL' OSTERIA.

 

Era sullo spuntare dell'alba allorché don Chisciotte uscì dell'osteria, contento e vispo, e tanto gioioso nel vedersi già armato cavaliere, che il giubilo si diffondeva sino alle cigne del suo cavallo. Ma tornandogli a mente i consigli dell'ospite suo, cioè di fornirsi delle cose più necessarie, sopra tutto di danari e di biancherie, s'avvisò di tornare a casa per provvedersi di quelle e singolarmente d'uno scudiere, designando valersi di un contadino suo vicino, povero e carico di famiglia, ma tutto a proposito per servire agli scudierili offici della cavalleria. Con questa intenzione dunque avviò Ronzinante verso il proprio paese; e la buona bestia, come se avesse già fiutata la stalla, si mise ad andare così rapidamente che parea non toccasse la terra coi piedi. Non avea fatto molto cammino, allorché dal folto di un bosco che stava alla destra, gli parve di sentir certe voci come di persona che si lamentasse. Non le ebbe appena sentite che disse: “Quai grazie non deggio alla sorte pel favor che m'imparte nell'offrirmi sì tosto occasione da esercitare i doveri di mia professione, e cogliere il frutto dei buoni miei desideri? Partono senza dubbio tai voci da alcuno o da alcuna che ha bisogno del mio soccorso e del mio favore.” Volgendo pertanto le redini guidò Ronzinante a quella parte donde gli parve che le voci venissero, ed inoltrato di pochi passi nel bosco vide una cavalla legata ad una quercia, ed un ragazzo di circa quindici anni, che, spogliato ignudo dal mezzo in su e legato ad un grand'albero, metteva i lamenti da lui sentiti. E pur troppo n'aveva cagione, perché un vigoroso contadino lo stava percotendo con una correggia di cuoio, ed accompagnava ogni colpo con una riprensione e con un consiglio, dicendogli: “Modera la tua lingua, e non ti perdere in frascherie.” Rispondeva il ragazzo: “Nol farò più, signor mio, ve lo giuro per la passione di nostro Signore, non lo farò più, e vi prometto che d'ora innanzi avrò sempre gran cura del vostro bestiame.” Don Chisciotte a tal vista gridò con voce sdegnosa: “Scortese cavaliere! è gran vergogna prendersela con chi non è atto a difendersi; monta sul tuo cavallo, prendi la lancia (che una ne stava appoggiata alla quercia ov'era legata la cavalla) che io ti farò conoscere qual codardia sia quella che stai commettendo.” Il contadino che si vide addosso quella figura carica d'arme, e che già gli faceva balenar quasi la lancia sulla faccia, si tenne per morto, e gli rispose con sommesse parole: “Signor cavaliere, questo ragazzo che sto castigando, è un garzone che mi serve a guardare un branco di pecore che tengo in questi dintorni; ma è disattento per modo che ne va perduta una ogni giorno; e quando io lo punisco della sua trascuraggine o della sua furfanteria, egli mi calunnia dicendo che così lo tratto per avarizia e per defraudarlo del suo salario: ma giuro al cielo e sull'anima mia che egli mente. — Mente dinanzi a me? malvagio villano, disse don Chisciotte; pel sole che c'illumina ch'io a pena mi tengo che io non ti passi da banda a banda con questa lancia: pagalo sul fatto e senza osar di replicare, o giuro per Dio che ti polverizzo qui sui due piedi! scioglilo immantinente.” Il contadino chinò la testa, e senza proferir parole sciolse il ragazzo, a cui don Chisciotte domandò quanto gli doveva il suo padrone; e questi gli rispose essergli debitore di nove mesi in ragione di sette reali per mese. Don Chisciotte fece il conto, e trovò che il credito del ragazzo ammontava a settantatre reali; e disse al villano che gli dovesse sborsare sul momento se non volea morire per la sua mala fede. L'atterrito contadino rispose che attesa l'angustia in cui trovavasi, e pel giuramento già fatto (si noti che non avea ancora giurato) non ascendeva a tanto quel credito, dovendosi scontare tre paia di scarpe ch'egli aveva somministrate al garzone, ed un reale da lui speso per fargli cavar sangue due volte mentre era ammalato. “Tutto questo, soggiunse don Chisciotte, va bene, ma la spesa delle scarpe e dei salassi servirà a compensarlo delle frustate che senza sua colpa gli hai date; che se egli ruppe il cuoio delle scarpe che gli pagasti, tu gli hai levata la pelle del corpo; e se hai pagato un barbiere che gli cavasse sangue quando era infermo, tu glielo cavasti poi sano, e però egli non ti è debitore di nulla. — Il male si è, signor cavaliere, che non ho meco danari, rispose il villano; ma venga Andrea a casa mia, e gli pagherò il suo avere un reale sopra l'altro. — Io andarmene con lui? disse il giovine, sarei pure il bel pazzo! neppure per sogno; che, quando mi avesse da solo, egli mi scorticherebbe come un san Bartolomeo. — Nol farà, no, replicò don Chisciotte; basta che io gliel comandi ed egli mi obbedirà, e quando lo giuri per la legge di cavalleria di cui è insignito, io lo lascierò andar libero, e gli entrerò mallevadore per la esecuzione di sue promesse. — Badi bene, vossignoria, soggiunse il giovinetto, a quello che dice, perché il mio padrone non è altrimenti cavaliere, né ha ricevuto mai verun ordine di cavalleria, ma è Giovanni Aldudo il ricco, abitante di Chintanare. — Non importa, rispose don Chisciotte; possono gli Aldudi essere cavalieri; e poi, ciascuno è figlio delle proprie azioni. — E ciò è incontrastabile, soggiunse Andrea; ma questo mio padrone di quali opere è figlio, negando, com'egli fa, la mercede de' miei travagli e de' miei sudori? — Non mi rifiuto di soddisfarti, no, fratello Andrea, ripigliò il contadino; compiaciti di seguitarmi, e ti giuro per tutti gli ordini di cavalleria ch'esistono al mondo di pagarti, come ho proposto, e profumatamente, reale sopra reale. — Non servono profumi, disse don Chisciotte, pagagli i reali che gli devi, e ciò mi basta; e bada bene di mantenere quanto hai giurato, perciocché in caso diverso, ti giuro in fe' del giuramento medesimo che tornerò per punirti, e saprò ben ritrovarti, quand'anche ti nascondessi sotterra più che una lucertola. E se vuoi sapere chi sia quegli che tel comanda, affinché più ti stringa il dovere dell'obbedienza, sappi che io sono il valoroso don Chisciotte della Mancia, disfacitore dei torti e punitor delle ribalderie. Addio, non ti cada di mente la più rigorosa esecuzione di quanto hai promesso e giurato sotto pena del pronunziato castigo.” Ciò detto spronò Ronzinante, e in breve si tolse alla loro vista.

Il contadino lo seguitò cogli occhi e quando fu uscito del bosco, sì che più nol vedea, si volse di nuovo al suo famiglio Andrea, e gli disse: “Venite, figliuol mio, che voglio pagarvi ciò che vi debbo, e come mi ha imposto quel disfacitore dei torti. — Oh quanto farà bene vossignoria, disse Andrea, ad obbedire i comandi di quel buon cavaliere, a cui auguro mille anni di vita, perché in fede mia egli è tale da tornare, e da farvi mantenere la parola se vi saltasse in capo di mancargli. — Ed io giuro di nuovo di volergli obbedire, disse il villano; ma per l'amor che ti porto, voglio accrescere il debito mio verso di te, e di poi pagarti una somma maggiore.” E così presolo pel braccio lo legò di nuovo alla quercia, e lo caricò di tante frustate, che lo lasciò quasi morto. “Chiama, signor Andrea mio, diceva allora il contadino, chiama il disfacitore dei torti e vedrai se potrà disfar questo: benché non mi pare di averlo compiuto, e mi vien voglia di scorticarti vivo come temevi.” All'ultimo non di meno lo slegò, e gli diede licenza d'andare pel suo giudice, affinché eseguisse la sentenza da lui proferita. Andrea si partì di là in gran pianto, giurando che andrebbe in traccia del valoroso don Chisciotte della Mancia per informarlo a puntino di ciò ch'era occorso, affinché gliela facesse pagar molto cara; ma dopo tutto questo il giovine se n'andò piangendo, ed il padrone restò facendo le più gran risate.

E così, disfece quel torto il valoroso don Chisciotte: il quale soddisfattissimo dell'avvenuto, e sembrandogli d'aver dato felicissimo cominciamento a' suoi cavallereschi esercizi, andava camminando verso la propria terra, contento pienamente di sé medesimo; e dicea a bassa voce: “Ben ti puoi chiamar fortunata sopra quante vivono in terra, o sopra le belle, bella Dulcinea del Toboso, da che t'è toccato in sorte di aver soggetto a' voleri tuoi e pronto a qualunque tuo servigio sì valoroso e celebre cavaliere com'è e sarà don Chisciotte della Mancia; il quale (e ne vola già fama pel mondo) ha ricevuto l'ordine di cavalleria, ed oggi ha disfatto il più gran torto che mai fosse immaginato dalla giustizia, e compìto dalla crudeltà! Oggi ho io tolta di mano la frusta ad un nemico spietato che senza motivo alcuno batteva un dilicato fanciullo!” Giunse frattanto ad un luogo dove la strada si divideva in quattro; e gli vennero a mente quei crocicchi dove i cavalieri erranti solevan pensare per quale via avessero da mettersi. Per imitarli ristette da prima alquanto, ma poscia, dopo aver ben riflettuto, lasciò andare la briglia a Ronzinante, abbandonando la sua alla volontà del cavallo: il quale, seguendo il naturale desiderio, si dirizzò alla volta della propria stalla. Compite due miglia all'incirca, scoprì don Chisciotte una gran torma di gente; mercanti (come si seppe dappoi) di Toledo, che andavano a Murcia per comperar seta. Erano sei, ognuno col suo parasole, e loro tenevano dietro quattro servitori a cavallo e tre vetturali a piedi. Non li scorse appena don Chisciotte, che si figurò di avere alle mani una nuova ventura, e voglioso com'era d'imitare pienamente i casi letti nei libri suoi, volle cogliere quella buona occasione per rinnovarne uno che volgeva nell'animo. Con bel garbo adunque si strinse ben nelle staffe, impugnò la lancia, si avvicinò la targa al petto, e piantatosi nel mezzo della strada, stette attendendo che quei cavalieri erranti, com'egli gli giudicava, arrivassero. E quando gli si furono appressati, alzò la voce, e con grande ardimento si fece a dire: “Tutto il mondo si fermi, se tutto il mondo non confessa che non avvi nell'universo una donzella più vaga della imperadrice della Mancia, della senza pari Dulcinea del Toboso.” Al suono di queste parole ed alla vista della strana figura che le proferiva, quei mercanti ristettero, e subitamente si accorsero della sua follia, ma vollero star a vedere chi andasse a colpire la confessione che da loro si domandava. Però uno di essi, uomo d'allegro umore, gli rispose: “Signor cavaliere, noi non conosciamo questa celebre signora da voi menzionata; fate che la vediamo, e s'ella porta il fregio di quella singolare bellezza, di cui voi le date vanto, ben volentieri e senza opposizione di sorta, confesseremo la verità che da noi richiedete. — S'io ve la facessi vedere, replicò don Chisciotte, qual merito avreste voi nel confessare una verità così manifesta? Ciò che importa si è che senza vederla abbiate a confessare, a giurare, ad affermare, a sostenere; e ricusandolo, vi sfido meco a battaglia, gente vile e superba. Avanzatevi uno ad uno, come esige l'ordine di cavalleria, od unitevi tutti a combattermi in una volta, com'è trista costumanza de' pari vostri, che qui v'attendo a piè fermo, né ho dubbio alcuno di vincervi, sostenuto dalla ragione che mi avvalora. — Signor cavaliere, rispose un mercante, vi supplico a nome di tutti questi principi che vedete, che non vogliate costringerci ad aggravare le nostre coscienze confessando una cosa da noi non veduta né intesa; e tanto maggiormente ve ne preghiamo, quanto che ciò tornerebbe a pregiudizio delle imperatrici e regine dell'Alcaria e dell'Estremadura: o almeno la signoria vostra degnisi di farci vedere il ritratto di cotale signora; che foss'egli piccolo come un granellino, noi dal filo di questo poco raccogliendo il gomitolo della sua grande bellezza, saremo con questo soddisfatti e tranquilli, e la signoria vostra contenta e appagata; e di più, quand'anche scorgessimo dal ritratto, che fosse guercia da un occhio, e dall'altro le colasse zolfo o cinabro, con tutto ciò, per mostrarci a vossignoria compiacenti, diremmo tutto ciò che potesse tornarle a genio. — Non le cola, canaglia infame, rispose don Chisciotte avvampante di collera, non le cola altro che ambra e zibetto tra la bambagia; e non è né guercia, né gobba, anzi è più dritta che non è un fuso di Guadarrama; ma voi pagherete il fio della grave bestemmia con cui oltraggiaste una tanta prodigiosa bellezza quant'è quella della mia signora.” Nel proferire queste parole, abbassò la lancia, portandola con tanta furia contro colui che aveva parlato, che mal per lui se Ronzinante non inciampava, e non cadeva a mezzo il cammino. Precipitò Ronzinante, e il suo padrone rotolò buona pezza per la campagna, né poté rialzarsi giammai per quanto si sforzasse, tanto impaccio gli davano la lancia, la targa, gli sproni e la celata, in un col peso della sua vecchia armatura. E mentre attendeva a cercar di rizzarsi, ma senza riuscirvi, tuttavia gridava: “Non fuggite, o codardi, o schiavi! attendetemi, ché non per mia colpa ma del cavallo sono qui disteso.” Uno di quei vetturali, che doveva esser uomo di poco buon cuore, nel sentire le smargiasserie di quel povero caduto non poté tollerarle senza fargli provare fino alle costole il suo risentimento; e perciò avvicinatosi a lui, prese la lancia, e fattala in pezzi, con uno di questi cominciò a battere tanto duramente il nostro don Chisciotte, che, a dispetto e in onta delle arme sue, lo macinò come grano al molino. Gli gridavano gli altri ad alta voce che desistesse, che lo lasciasse; ma colui era sì invelenito che non si tolse da quel gioco finché non ebbe soddisfatta la collera; e raccolti gli altri pezzi della lancia, non cessò mai se prima non gli ebbe ridotti a schegge sopra l'infelice caduto. A fronte di tanta tempesta di percosse che gli piovevan addosso, don Chisciotte, non che tacere, minacciava il cielo e la terra e que' malandrini, come egli ora chiamava i mercanti. Si stancò finalmente il vetturale, e tutti proseguirono il loro cammino, avendo di che occuparsi nel raccontare la bastonatura del pover'uomo, lasciato malconcio e fracassato. Egli, dappoiché si vide solo, tornò a tentar di rialzarsi; ma se questo non gli era stato possibile mentre era sano e gagliardo, come riuscirvi allora pesto a quel modo? E nondimeno si reputava felice parendogli che quella fosse sventura da cavaliere errante, ed attribuendola a sola colpa del suo cavallo: ma ad ogni modo non poteva rizzarsi in piedi, tanto il corpo suo era fracassato dalle ricevute percosse!


CAPITOLO V

 

ANCORA DELLA DISGRAZIA AVVENUTA AL NOSTRO CAVALIERE.

 

Conoscendo poi don Chisciotte che non potea muoversi da sé solo, pensò di ricorrere al suo consueto rimedio, che era di meditare intorno a qualche passo de' libri suoi; e la bile gli ridusse nella memoria quello di Baldovino e del marchese di Mantova, quando Carlotto lo abbandonò ferito sopra una montagna; storia nota ai bambini, non isconosciuta ai giovani, celebrata e creduta dai vecchi, ma con tutto questo non punto più vera dei miracoli di Maometto. Gli parve che questa calzasse appuntino allo stato in cui si trovava, e perciò mostrando di provare un dolore gravissimo, cominciò a voltarsi per terra, ripetendo con fioca voce quello appunto ch'è fama dicesse il ferito cavaliere del bosco.

 

Dove stai, vaga signora,

Che non duolti del mio mal?

O il mio mal da te s'ignora

O sei falsa e disleal.

 

E di questo passo andava proseguendo la canzone sino a quei versi che dicono:

 

O di Mantova marchese,

O mio zio e signor carnal.

 

Ma volle la sorte che in quel momento passasse di là un contadino del suo paese e vicino suo, che tornava dal mulino dove aveva condotta una soma di grano. Vedendo egli un uomo steso in terra a quel modo, se gli fece dappresso, gli domandò chi fosse, e che male avesse, che tanto si lamentava. Don Chisciotte credette senza alcun dubbio che colui fosse il marchese di Mantova suo zio; però invece di ogni risposta proseguì la romanza colla quale lo informava della sua sventura e degli amori del figlio dell'imperatore con la sua sposa, nel modo appunto che si canta nella canzone. Il contadino meravigliato di quelle stranezze, gli levò la visiera, già pesta dalle percosse, e si diede a nettargli la faccia ch'era tutta coperta di polvere; né gliela ebbe appena nettata che subito lo conobbe, e gli disse: “Signor Chisciada (così soleva chiamarsi quand'aveva buon giudizio, e prima di cambiarsi da tranquillo idalgo in cavaliere errante), chi trattò per tal modo vossignoria?” Egli non rispondeva, ma ad ogni domanda ripigliava la sua canzone. Laonde il buon uomo con tutta la possibile diligenza gli trasse la corazza e gli spallacci per conoscere s'era stato ferito; ma non trovò né sangue né segno alcuno. Procurò pertanto di rizzarlo da terra, e con molta fatica giunse a metterlo attraverso del suo giumento, sembrandogli più agiata cavalcatura. Raccolse l'arme tutte, fino alle schegge della lancia, e le buttò in un fascio sopra Ronzinante, poi preso questo per la cavezza, s'incamminò verso la sua Terra, non senza grande apprensione nel sentire gli spropositi che dicea don Chisciotte; il quale tutto confuso e mal reggendosi sull'asino, talmente era pesto! di tanto in tanto mandava sospiri che giugnevano al cielo. Il villano gli domandò di nuovo che mal si sentisse; ma pareva che il diavolo a bella posta gli riducesse alla memoria le avventure tutte che avevano somiglianza con quella sua. Perocché dimenticandosi di Baldovino a quel punto si risovvenne del moro Aben-Darraez quando il castellano d'Antechera, Rodrigo di Narvaez, lo prese e lo menò prigioniero al proprio castello. Di maniera che domandandolo ancora il villano dello stato suo, e come si sentisse della persona, gli rispose colle stesse parole con cui il prigioniero Aben-Darraez avea risposto a Rodrigo di Narvaez, applicando a sé stesso quanto avea letto nella Diana di Giorgio di Montemaggiore. Il contadino strabiliava sentendo tante bestialità e finalmente avvedutosi che il suo vicino avea dato volta al cervello, si diede a punzecchiare il suo asino per tornar presto al paese, e togliersi con ciò dal malincuore che gli procurava don Chisciotte co' suoi vaneggiamenti. Questi intanto così proruppe: “Sappia la signoria vostra, signor don Diego di Narvaez, che la vezzosa Scriffa, di cui ho parlato, è di presente la vaga Dulcinea del Toboso per amor della quale io feci e faccio e farò le più famose gesta di cavalleria che siensi finora vedute, o si veggano, o si debbano mai vedere nel mondo.” A tutto questo soggiunse il contadino: “Oh la Signoria vostra s'inganna! meschino di me! io non sono altrimenti Rodrigo di Narvaez, né il marchese di Mantova, ma sibbene Piero Alonso vicino suo; né vossignoria è Baldovino o Aben-Darraez, ma l'onorato idalgo signor Chisciada. — Io sono chi sono, rispose don Chisciotte, e so molto bene che non solo posso essere quello che ho detto, ma sì anche tutti i dodici paladini di Francia, ed eziandio tutti i nove della Fama, perché le prodezze che fecero o tutti insieme o ciascuno da sé non supererebbero mai quelle che posso fare da solo.” Con queste e somiglianti smargiasserie giunsero alla Terra sul far della notte, e il contadino giudicò savio partito l'attendere che il buio crescesse un poco affinché non fosse veduto il bastonato idalgo così infelice cavaliere. Entrò finalmente nel paese, e fu all'abitazione di don Chisciotte, la quale era tutta sossopra. Vi si trovava il curato ed il barbiere, ch'erano grandi amici di don Chisciotte, ai quali la serva con alta voce stava dicendo: “Che ne sembra a vostra signoria, signor dottore Pietro Perez (così chiamavasi il curato) della disgrazia del mio padrone? Sono già passati sei giorni da che né egli si vede, né il suo ronzino, né la targa, né la lancia, né l'armatura; poveraccia di me! credo fermamente, e com'è certo ch'io sono nata per morire, che questi maledetti libri di cavalleria ch'egli ha, e legge continuamente, l'abbiano fatto uscir di cervello; che ora ben mi sovviene d'averlo inteso dire più volte, parlando fra sé medesimo, che bramava di farsi cavaliere errante e di andare pel mondo in cerca di avventure. Così ne li portasse o Satanna, o Barabba cotesti libri, che hanno guasto e sconvolto il più fino cervello che vantar potesse la Mancia.” La nipote poi proseguiva dicendo le stesse cose, e aggiungeva di più: “Sappia, signor maestro Nicolò (questo era il nome del barbiere) che mille volte è avvenuto al mio signor zio di spendere nella lettura di questi maledetti libri due notti e due giorni continui; a capo dei quali gettavali poi da banda, e impugnata la spada andava a pigliarsela colle pareti finché stanco e spossato, dicea d'avere ammazzato quattro giganti grandi come quattro torri, volea che fosse sangue delle ferite da lui ricevute in battaglia il sudore che lo copriva per la soverchia fatica. Dava allora di piglio ad un gran boccale d'acqua fresca, e se la beveva sin all'ultima goccia, con che risanava e rimettevasi in tranquillità; affermando che quell'acqua era una bevanda preziosissima, dono del savio Eschifo, celebre incantatore e amico suo. Ah! debbo accusare me stessa di tanto male; ché se avessi informate le signorie vostre delle follie del mio signor zio, ci avrebbero posto rimedio prima che fosse giunto a questo termine; e quei suoi scomunicati libri li avrebbero dati alle fiamme: ché molti ne ha certamente degni di essere abbruciati come i libri degli eresiarchi.” — “Sono anch'io dello stesso avviso, soggiunse il curato, e vi giuro in fede mia, che non passerà dimani senza averne fatto un auto-da-fé, dannandogli tutti al fuoco, affinché non diano occasione a qualche altro di fare ciò che il mio povero amico debbe aver fatto.”

Don Chisciotte ed il contadino udiron siffatti discorsi; laonde quest'ultimo convinto intieramente della malattia del suo vicino, si diede a gridare: “Facciano largo le signorie al signor Baldovino, e al signor marchese di Mantova che arriva ferito pericolosamente; facciano largo al signor moro Aben-Darraez che trae seco prigione il prode Rodrigo di Narvaez castellano di Antechera.” A queste parole uscirono tutti e conobbero gli uni l'amico, le altre il padrone e lo zio, che non aveva per anche potuto smontare dall'asino, tanto era malconcio. Corsero ad abbracciarlo, ma incontanente egli disse: “Fermatevi tutti, ch'io vengo malamente ferito per colpa del mio cavallo; mettetemi nel mio letto, e chiamate, se è possibile, la savia medichessa Urganda, affinché vegga che sorta di ferite son queste mie. — Oh guardate mo, disse allora la serva, se il cuore mi diceva di che piede zoppica il mio padrone! E venga in buon'ora la signoria vostra, che da noi sole sapremo guarirla senza che la signora Urganda se ne ingerisca né punto né poco. Siano pur maledetti, lo ripeto una e mille altre volte, questi libri di cavalleria che han condotto vossignoria a sì tristo partito.” Quindi lo adagiarono subito sul letto, e cercatolo in ogni parte del corpo non trovarono che fosse punto ferito. Don Chisciotte poi disse loro ch'egli era a quella guisa malconcio per essere stramazzato col suo cavallo Ronzinante combattendo a fronte di dieci giganti dei più forti e ardimentosi che trovar si potessero sulla terra. “Ve' ve', disse il curato, anche giganti in ballo! per fede mia, non son chi sono se dimani prima che giunga la notte io non li do tutti alle fiamme.” Fecero mille domande a don Chisciotte, ma egli nient'altro rispondeva se non che gli portassero da mangiare, e lo lasciassero dormire, poiché di questo più che d'ogni altra cosa aveva molto bisogno. Così seguì; e il curato frattanto più a lungo domandò il contadino come gli fosse avvenuto di trovar don Chisciotte. L'altro lo informò d'ogni cosa, ed anche delle stranezze che gli aveva sentito dire quando lo trovò, e poi lungo il cammino: donde si accrebbe nel curato la voglia di fare quello che fece nel giorno seguente, cioè di chiamare a sé il suo amico barbiere maestro Nicolò, e di venirne con lui alla casa di don Chisciotte.


CAPITOLO VI

 

DEL BELLO E GRANDE SCRUTINIO CHE FECERO IL CURATO E IL BARBIERE
ALLA LIBRERIA DEL NOSTRO INGEGNOSO IDALGO.

 

Mentre che don Chisciotte dormiva, il curato domandò alla nipote le chiavi della stanza dove trovavansi i libri, cagione di tanti malanni; ed essa gliela diede di buona voglia. Quindi entrarono tutti e con essi anche la serva; e trovarono da più di cento volumi grandi assai, ben legati, ed altri di picciola mole. Non li ebbe appena veduti la serva che uscì frettolosa della stanza, poi tornò subito con una scodella d'acqua benedetta e con lo asperges dicendo: “Prenda la signoria vostra, signor curato, e benedica questa stanza affinché non resti qui alcuno degl'incantatori dei quali sono zeppi, cotesti libri, e non ci facciano addosso qualche incantesimo per vendetta di quello che noi vogliam fare di loro cacciandoli dal mondo.” La semplicità della serva mosse a riso il curato; ed ordinò al barbiere che glieli venisse porgendo uno alla volta per conoscere di che trattassero, potendo essere che qualche opera non meritasse la pena del fuoco. “No, no, disse la nipote, non si dee perdonare ad alcuno di essi, mentre tutti sono concorsi a questo danno: il più savio partito sarebbe gittarli dalla finestra nell'atrio, farne un mucchio ed appiccarvi il fuoco; o per evitare il fastidio del fumo sarebbe anche meglio fatto trasportarneli in corte ed ivi incendiarli.” Lo stesso disse la serva, sì grande era in ambedue la smania di veder morti quegl'innocenti; ma non v'assentì il curato senza leggerne almeno i titoli. Il primo pertanto che maestro Nicolò gli porse fu quello dei Quattro libri d'Amadigi di Gaula. “Sembra, disse il curato, che qui vi stia qualche mistero, da che, a quanto intesi dire, questo fu il primo libro di cavalleria stampato in Ispagna, e gli altri tutti che di poi gli tennero dietro pigliarono da lui principio ed origine. Laonde mi pare che come capo di mala setta si debba dare alle fiamme senza veruna remissione. — Signor no, soggiunse il barbiere, ché mi fu detto che questo è il migliore di quanti di simil fatta furono composti; e perciò, come unico nella sua specie, può meritare perdono. — È vero, disse il curato, e perciò gli si preservi la vita per ora. Vediamo quest'altro che gli sta a canto. — Sono, disse il barbiere, le Prodezze di Splandiano figliuolo legittimo di Amadigi di Gaula. In verità che qui non ha da giovare al figlio la bontà del padre: prendete, signora serva, aprite questa finestra, gittatelo in corte, e con esso diasi principio alla catasta che a suo tempo sarà poi consumata dal fuoco.” La serva obbedì con molto piacere; e per tal modo il buon Splandiano volò nella corte attendendo pazientemente il fuoco da cui era minacciato. “Tiriamo innanzi, disse il curato. — Questo che viene, soggiunse il barbiere, è Amadigi di Grecia, e per quanto mi pare, quelli che stanno da questa parte sono tutti del lignaggio degli Amadigi. — E bene, replicò il curato, vadano tutti in corte; che per poter abbruciare la regina Pintichiniestra ed il pastor Darinello con le sue egloghe e coi lambiccati concettini del suo autore, brucerei con essi il padre che m'ha generato se mi venisse dinanzi in figura di cavaliere errante. — Sono del medesimo sentimento, soggiunse il barbiere. — Ed io pure, replicò la nipote. — Quand'è così, disse la serva, vadano in corte; e preseli tutti insieme, che erano molti, per risparmiar la fatica di far la scala, li gettò dalla finestra. — Che è cotesto grosso volume, domandò il curato? — È, rispose il barbiere, don Ulivante di Laura. L'autore di questo libro, soggiunse il curato, è quello stesso che compose il Giardino dei Fiori; e in fede mia che non saprei dire quale dei due sia più veritiero, o piuttosto manco bugiardo; so bene che anderà in corte per le sue scimunitaggini e per la sua arroganza. — Questo che gli vien dietro, è Florismarte d' Ircania, disse il barbiere. — Ah! qui trovasi il signor Florismarte? replicò il curato: oh sì, sì, s'affretti d'andare in corte a dispetto del suo straordinario nascimento e delle sue immaginate avventure, che altro non meritano la durezza e l'infecondità del suo stile: alla corte, signora serva, vada egli insieme con quest'altro. — Oh tutto ciò, signor mio, molto mi va a sangue, rispose ella; e contentissima eseguiva quanto le si ordinava. — Questi è il Cavaliere Platir, disse il barbiere. — È libro di antica data, rispose il curato, né trovo in lui cosa alcuna che gli possa ottenere perdono; senza più s'accompagni cogli altri;” e così fu fatto. Fu aperto un altro libro, e si trovò che era intitolato il Cavaliere della Croce. “In grazia del santo nome che porta gli si potrebbe perdonare la sua ignoranza; ma suol dirsi che talvolta il diavolo s'asconde dietro la croce; perciò vada alle fiamme. Prese il barbiere un altro libro e disse: — Questo è lo Specchio della Cavalleria. — Ah! lo conosco molto bene, rispose il curato; ecco qua il signor Rinaldo Montalbano cogli amici e compagni suoi più ladri di Caco, e i dodici paladini col loro storico veritiero Turpino! In verità che sarei per condannarli soltanto ad eterno bando non per altro se non perché hanno avuto gran parte nella invenzione del celebre Matteo Boiardo, donde ha poi ordita la sua tela il cristiano poeta Lodovico Ariosto; al quale, se qui si trovasse, e parlasse un idioma diverso dal suo proprio, non porterei rispetto, ma se fosse nel suo linguaggio originale, me lo riporrei sopra la testa. — Io lo tengo in italiano, disse il barbiere, ma non l'intendo. — Non è neppur bene che da voi sia inteso, rispose il curato; e perdoniamo per ora a quel signor capitano che lo ha tradotto in lingua castigliana, togliendogli gran parte del nativo suo pregio; ma così avverrà a tutti coloro che si impegnano a tradurre libri poetici, mentre per quanto studio vi pongano, per quanta attitudine vi abbiano, non potranno mai darceli tali quali essi nacquero. Giudico pertanto che questo, e gli altri libri tutti che troveremo, e che trattano di simili cose di Francia, si raccolgano e si pongano in deposito entro un pozzo senz'acqua finché sia deciso ponderatamente quale dovrà essere il loro destino. Questo non vale per Bernardo del Carpio che qui si trova, né d'un altro chiamato Roncisvalle, i quali se capitano nelle mie mani hanno da passare in quelle della serva, e da queste senza nessuna remissione alle fiamme.”

Il barbiere assentì pienamente al curato, riconoscendo che egli era un buon cristiano, e sì affezionato alla verità che non si sarebbe scostato da essa per tutto l'oro del mondo. Aprendo un altro libro vide ch'era Palmerino d'Uliva; poi subito dopo Palmerino d'Inghilterra; laonde il curato soggiunse: “Si rompa in minute parti questa uliva, e sia consunta dal fuoco per modo che non ne resti nemmen la cenere; ma venga, come cosa unica, conservata questa palma d'Inghilterra, e si formi per essa una cassettina pari a quella che trovò Alessandro fra le spoglie di Dario, e la destinò per custodia delle opere del poeta Omero. Questo libro, signor compare, merita la più grande considerazione prima per essere pregevolissimo in sé stesso; poi perché corre fama che ne sia stato autore un re di Portogallo fornito di gran saggezza. Hanno il pregio di gran merito e di sommo artifizio le avventure del castello di Miraguarda, vivaci ed evidenti ne sono i discorsi che mantengono il decoro di chi parla, e sono posti con gran proprietà e avvedimento; conchiudo pertanto (avuto però riguardo al vostro savio parere, maestro Nicolò) che questo e Amadigi di Gaula evitino il fuoco; poi gli altri tutti, senza più esami o riserve, siano bruciati. — Oibò, signor compare, replicò il barbiere, ch'io tengo qui il famoso don Belianigi. Rispetto a questo libro, rispose il curato, la seconda, terza e quarta parte abbisognano d'una buona dose di rabarbaro che li purghi dalla disordinata collera che hanno, e fa di mestieri tagliar fuori tutto ciò che vi si trova intorno al castello della Fama, ed altre sconvenienze di maggior momento; e perciò se gli conceda quel lungo termine che suol darsi a chi abita oltremare per emendarsi ed ottenere quindi misericordia o giustizia; frattanto custoditelo in casa vostra, compare, e non permettete che si legga da nessuno. — Sono ben contento” rispose il barbiere; e senza stancarsi di leggere altri libri di cavalleria, comandò alla serva che pigliasse i più grandi e li gettasse in corte. Né 'l disse già ad una stupida o ad una sorda, ma a chi aveva più voglia di dar quei libri alle fiamme che di non fare una tela per grande e fina che fosse stata: e perciò pigliandone otto in una volta, li gettò fuori della finestra. Ma per averne presi molti ad un tempo avvenne che uno ne cadde appié del barbiere il quale s'invogliò di conoscere che fosse, e lesse: Istoria del famoso cavaliere Tirante il Bianco. “Oh poffare di me! sclamò il curato; ed è pur possibile che qui si trovi Tirante il Bianco? A me, a me, compare, che io conto d'aver trovato in esso un tesoro da rendermi beato; ed una fonte perenne di trattenimento: qui si legge la storia di don Kirieleisonne da Montalbano, valoroso cavaliere, e di suo fratello Tommaso; poi il cavaliere Fonseca, e la battaglia del forte Detriano con l'Alano, e le sottigliezze d'ingegno della donzella Piacerdimiavita, con gli amori e gl'intrighi della vedova Riposata, e finalmente la signora imperatrice innamorata d'Ippolito suo scudiero. Ad onore della verità mi convien dire, signor compare, che questo supera ogni altro libro del mondo in quanto allo stile. Qui poi i cavalieri mangiano, dormono, muoiono sopra il loro letto; fanno il loro testamento prima di morire, e vi si riscontrano tante e tante altre cose delle quali non si fa neppur menzione in altri simili libri. Contuttociò colui che lo scrisse (perché senza necessità scrisse tante scempiaggini) meriterebbe la galera a vita; recatelo a casa vostra; e vedrete di per voi stesso se io m'inganno. — Non mi oppongo, disse il barbiere, ma che farem noi di questi altri piccoli libri che rimangono? — Questi, rispose il curato, non debbono essere libri di cavalleria, ma piuttosto di poesia; ed aprendone uno vide che era la Diana di Giorgio di Montemaggiore. Disse allora (supponendoli tutti dello stesso genere): Questi non meritano, come gli altri, d'esser dati alle fiamme, perché non recano, né recheranno giammai il danno de' libri di cavalleria, ma sono libri da passatempo senza pregiudizio di alcuno. — O signore, soggiunse la nipote, il miglior partito sarà di mandarli come gli altri al fuoco, perché non sarebbe gran meraviglia, che riuscendoci di risanare il mio signor zio dalla malattia cavalleresca, egli si desse a leggere questi libri, e quindi gli venisse il capriccio di farsi pastore, e di andarsene per boschi e per prati cantando e sonando, o, ciò che sarìa peggio, diventar poeta; che, a quanto si dice, è un'altra malattia insanabile e contagiosa. — Questa ragazza parla del miglior senno, disse il curato, e quindi sarà ben fatto di togliere dinanzi al nostro amico siffatto pericolo di ricadere. E giacché abbiamo cominciato dalla Diana di Montemaggiore, stimo che non vada abbruciata, purché se ne levi quanto appartiene alla savia Felicia e all'Acqua incantata, con quasi tutti i versi, sicché le resti la sua prosa eccellente, e l'onore di essere stato il primo libro di questa specie. — Questo che viene, disse il barbiere, è la Diana chiamata Seconda del Salmantino; e di quest'altro che porta lo stesso titolo, n'è l'autore Gil Polo. Quanto a quella del Salmantino, disse il curato, accompagni ed accresca pure il novero de' condannati alla corte; quello di Gil Polo si custodisca gelosamente come se derivasse da Apollo medesimo. Ma passi innanzi, signor compare, e affrettiamoci, che si va facendo tardi.

— Questi, disse il barbiere aprendo un altro volume, sono i Dieci libri della fortuna di Amore composti da Antonio di Lofraso poeta sardo.

Per quanto vale il giudizio mio, disse il curato, da che Apollo è Apollo, muse le muse, e poeti i poeti, non fu composto giammai libro tanto grazioso e spropositato a un tempo medesimo quanto questo; per la sua invenzione è il migliore e il più singolare di quanti n'uscirono mai alla luce del mondo, e chi non lo ha letto può far conto di non aver letto mai produzione veramente gustosa: datelo qua, compare, che sono più contento d'aver trovato questo libro che se qualcuno mi avesse regalata una veste di raso di Firenze.

Con somma compiacenza lo mise da banda, e il barbiere proseguì leggendo il Pastore a' Iberia, le Ninfe di Henares, i Rimedii della gelosia.

Altro non occorre per questi, disse il curato, se non consegnarli al braccio secolare della servente; e non me ne domandate la ragione, che non finirei mai più.

— Questo che viene è il Pastore di Filida, disse il barbiere.

— Non è un pastore, disse il curato, ma un cortigiano valente: sia custodito come una gioia preziosa.

— Questo gran volume che lo segue, s'intitola, disse il barbiere, Tesoro di varie poesie.

Se non fossero in numero sì grande, soggiunse il curato, sarebbero tenute in assai maggior conto, e bisogna purgar questo libro scartandone le bassezze che vi sono frammischiate al molto suo bello: sia custodito, e perché è mio amico il suo autore, e per riverenza ad altre più preziose opere da lui composte.

— Questo, seguitò il barbiere, è il Canzoniere di Lopez Maldonado.

Anche l'autore di questo libro, disse il curato, è mio grande amico. I versi ch'egli recita sogliono destare l'ammirazione di chi li ascolta, e la soavità della voce con cui li modula è un incantesimo. Nelle egloghe è alquanto prolisso: ma il buono non fu mai troppo: si serbi cogli altri che già si sono messi da canto. Ma che libro è questo che gli sta sì vicino?

— La Galatea di Michele Cervantes, disse il barbiere.

— Già da molti anni è mio grande amico questo Cervantes, soggiunse il curato, e so che egli si intende più di sventure che di versi. Convengo che se gli può concedere qualche lode nell'invenzione; ma egli sempre propone e poi non conclude mai: attenderemo la seconda parte che ci promette, e forse, migliorando, si meriterà quel perdono che per ora gli vien rifiutato; ma fin a tanto che si vegga come andrà a terminar la faccenda tenetelo custodito in casa vostra, signor compare.

— Ne sono soddisfattissimo, rispose il barbiere. Qui seguono tre libri uniti insieme: Araucana di don Alonzo d'Erciglia; l'Austriada di Giovanni Rufo Giurato di Cordova; e il Monserrato di Cristoforo di Viruez, poeta di Valenza

— Non esistono, disse il curato, libri di verso eroico scritti in lingua castigliana più pregiati di questi, e possono stare in competenza coi più illustri d'Italia: si custodiscano come le più preziose gioie poetiche, che vanti la Spagna.

Si stancò il curato di vedere altri libri, e senza far nuovi esami ordinò che tutti in un fascio fossero abbruciati; ma il barbiere uno ne teneva aperto ch'era intitolato: Le lagrime d'Angelica.

Il curato vedendolo disse: “Lo avrei pianto se fosse stato per mio ordine dato alle fiamme, poiché il suo autore fu uno dei più celebri poeti del mondo, non tanto nelle opere sue originali spagnuole, quanto nelle eccellenti sue traduzioni di alcune favole di Ovidio.”


CAPITOLO VII

 

DEL SECONDO VIAGGIO DEL NOSTRO BUON CAVALIERE DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA.

 

“Olà, cominciò intanto a gridare don Chisciotte; olà valorosi cavalieri; qui fa d'uopo mettere a prova la forza del vostro braccio, che gli uomini di corte se ne portano l'onore del torneo.” Per accorrere a quello schiamazzo fu interrotto lo squittinio dei libri che restavano ancora da esaminare, e tiensi per certo che andassero al fuoco senza esser veduti né intesi la Carolea e il Leone di Spagna con le Geste dell'Imperadore, composti da don Luigi de Avila, che doveano trovarsi indubitatamente fra quelli che restavano, e forse che sottraevansi a sì rigorosa sentenza se il curato li avesse veduti.

Quando si recarono da don Chisciotte lo trovarono già fuori del letto che prorompeva nelle solite sue strida e pazzie, menando manrovesci da ogni parte, e tenendo sì spalancati gli occhi come se non avesse mai dormito. Lo abbracciarono e a viva forza lo rimisero a letto; e da poi che si pose un po' in calma, voltosi al curato gli disse: “Non v'ha dubbio, signor arcivescovo Turpino, che non ricada a gran vergogna di noi altri dodici Paladini di lasciar cogliere la palma di questo torneo ai cavalieri cortigiani, mentre noi venturieri colto avevamo nei tre dì antecedenti l'onore della vittoria. — Si dia pace la signoria vostra, signor compare, disse il curato, che piacendo a Dio cambieremo le cose, e quello che oggi si perde si guadagnerà dimani; attenda intanto a risanarsi, che per quanto mi pare, ella debb'essere affaticata oltremodo, se pure non è ferita pericolosamente. — Ferito no, disse don Chisciotte, ma sibbene macinato e pesto, perché quel bastardo di don Roldano mi fracassò a bastonate con un troncone di quercia, mosso da invidia, vedendo ch'io solo mi posso contraporre alla sua valentìa; io per altro non sarò Rinaldo di Montalbano se levandomi di questo letto non gliene farò pagar il fio a dispetto dei suoi incantamenti; ma intanto recatemi da mangiare, che è quanto mi occorre al presente, e si lasci poi a me la cura di compiere le mie vendette.” Così fu fatto: gli diedero da sfamarsi, dopo di che egli si addormentò di nuovo, lasciandoli tutti sempre più meravigliati delle sue pazzie. In quella stessa notte la serva abbruciò nella corte quanti libri trovavansi per la casa, di maniera che n'arsero molti anche di quelli che meritavano d'essere custoditi perpetuamente negli archivi; ma nol permise il loro destino, né l'indolenza del revisore, verificandosi così quel proverbio, che talvolta patisce il giusto per il peccatore. Uno de rimedî che il curato e il barbiere pensarono intanto di porre in opera per guarire la malattia dell'amico, fu di trasportarlo in un'altra stanza e di murare quella dei libri affinché non trovandoli più al suo svegliarsi, tolta la causa, cessassero anche gli effetti, dicendogli poi che un incantatore aveva portato seco la stanza con quanto in essa si conteneva; e tutto ciò fu eseguito con ogni sollecitudine. Dopo due giorni si levò don Chisciotte e la prima cosa fu di andare a vedere i suoi libri; ma non trovando più la stanza dove l'aveva lasciata, si mise a cercarla per ogni parte. Giunto ove soleva essere la porta, tentava il muro colle mani e volgeva e rivolgeva gli occhi da per tutto, senza mai proferire parola; finalmente dopo buona pezza domandò alla serva da qual parte si trovava la camera dove stavano i suoi libri. La serva, già ben avvertita di ciò che doveva rispondergli, gli disse: “Di quale camera mi parla, e che va cercando vossignoria? Qua non v'è più camera, non vi sono in casa più libri, il diavolo ne portò seco ogni cosa. — Non era il diavolo, no, soggiunse la nipote, ma un incantatore; il quale venne di notte tempo sopra una nuvola dopo la partenza di vossignoria, e smontando da un serpente su cui arrivò cavalcioni, entrò nella stanza, né so che cosa vi facesse, ma certo è che poco dopo uscì a volo dal tetto, lasciando la casa piena di fumo; e quando noi siamo andate per vedere ciò ch'era seguito, non abbiamo più trovato né libri, né stanza; e solo ci ricordiamo amendue che quel tristo vecchio nell'andarsene disse ad alta voce di aver fatto quel danno che poi si vedrebbe per l'inimicizia che portava al padrone di quei libri e di quella stanza, e soggiunse che si chiamava il savio Mugnatone. — Frestone avrà detto, replicò don Chisciotte: — Non so dire, riprese la serva, se si chiamasse Frestone o Fritone e posso soltanto affermare che in tone terminava il suo nome. — Così è per lo appunto, disse don Chisciotte: è costui un savio incantatore, mio grande e dichiarato nemico. Egli mi odia perché la sua negromanzia gli fa prevedere che io debbo col tempo combattere in singolare tenzone con un cavaliere da lui protetto, e vincerlo senza ch'egli lo possa salvare. Per questo egli a tutto suo potere procura di farmi dispetto: ma io gli dico che mal potrà contrastarmi né opporsi a quello che il cielo ha ordinato. — E chi ne dubita? disse la nipote. Tuttavolta chi obbliga mai vossignoria, signor zio, a impacciarsi in siffatte brighe? Non sarebbe miglior consiglio di restarsene pacificamente in casa anziché andar pel mondo a cercar miglior pane che di frumento, senza riflettere che tanti vanno per lana e tornano spelacchiati? — O nipote mia, rispose don Chisciotte, quanto v'ingannate: prima che alcuno mi tratti come voi dite, pelerò il mento a quanti mai si figurassero di torcermi pur un capello.” Si tacquero ambedue le donne, vedendo ch'egli già avvampava di sdegno. Fatto sta, che per quindici giorni don Chisciotte rimase in casa tranquillo, senza dar segno veruno di ricadere nei suoi primi vaneggiamenti; e in quei giorni s'intrattenne parlando molto piacevolmente col curato, col barbiere e coi suoi compari, sostenendo però che il mondo aveva sopratutto bisogno dei cavalieri erranti, e che in lui risuscitasse l'antica cavalleria. Qualche volta il curato si opponeva, qualche altra gli menava buoni i suoi detti, perché se diversamente si fosse regolato, non sarebbesi giammai accordato con lui.

Intanto don Chisciotte venne sollecitando un villano suo vicino, uomo dabbene (se pure così può dirsi di chi è povero) ma con poco sale in zucca. Tanto gli disse, e tanto lo persuase a furia di promesse, che il povero villano si determinò di andarsene con lui e di servirlo in qualità di scudiere. Gli dicea fra le altre cose, che si disponesse a tenergli dietro di buona voglia, perché poteva talvolta accadergli che un girar di mano lo rendesse signore di un'isola, ed egli ve lo lascerebbe governatore. Con queste e altre tali promesse Sancio Pancia (così chiamavasi quel contadino) abbandonò la moglie e i figliuoli, e si dedicò a servire il vicino suo, da scudiere. Si diede gran pensiero don Chisciotte per ammassare danari, e vendendo una cosa, impegnandone un'altra, e manomettendole tutte, ne raccolse una quantità conveniente. Si provvide d'una rotella che domandò in prestito a un suo vicino, e rassettata il meglio che poté la sua rotta celata, avvisò il suo scudiere Sancio del giorno e dell'ora in cui divisava di mettersi in viaggio, affinché si provvedesse di tutto ciò che credeva occorrere, raccomandandogli specialmente che portasse con sé un paio di bisacce. Rispose Sancio che lo farebbe, e che anzi pensava di menarne seco un suo bravissimo asino, perché non era atto a camminar molto a piedi. Riguardo all'asino stette un poco dubbioso don Chisciotte, cercando di ridursi nella memoria se mai cavaliere errante si fosse fatto seguire dallo scudiere asinalmente, né gli sovvenne d'alcun esempio: pur si decise di permettergli che lo conducesse, con animo di accomodarlo d'una più onorevole cavalcatura, togliendola al primo scortese cavaliere in cui s'imbattesse. Fece provvista di biancheria, e di tutto ciò che poté avere alla mano, a tenore del consiglio già ricevuto dall'oste. Finalmente ordinata ogni cosa, Pancia senza dire addio alla moglie ed ai figliuoli, e don Chisciotte senza accomiatarsi dalla serva e dalla nipote, si partirono una notte dal loro villaggio, non veduti da alcuno, e tanto si affrettarono a camminare che all'apparire del giorno si tennero per sicuri di non essere raggiunti quand'anche alcuno avesse voluto seguirli. Viaggiava Sancio Pancia sopra il suo giumento a guisa d'un patriarca, colle bisacce in groppa e la borraccia all'arcione, e con gran desiderio di vedersi governatore dell'isola che gli avea promessa il padrone. A don Chisciotte parve bene di battere la strada stessa che aveva tenuta nel suo primo viaggio, cioè la campagna di Montiello, scorrendola ora con assai minore disagio; perché, essendo di prima mattina, i raggi del sole non lo ferivano in faccia, né gli davano noia. In questo, Sancio Pancia gli disse: “Badi bene la signoria vostra, signor cavaliere errante, di non porre in dimenticanza l'isola che mi ha promesso ch'io saprò governarla per grande che possa essere.” Al che rispose don Chisciotte: “Hai da sapere, amico Sancio, che fu usanza degli antichi cavalieri erranti di fare i loro scudieri governatori delle isole o regni da loro conquistati, ed io sono risoluto che non si perda per me così lodevole consuetudine. Ho divisato anzi di superarla; e dove gli altri attendevano che i loro scudieri giungessero alla vecchiaia dopo aver sostenuti i più penosi travagli per decorarli d'un titolo di conte o per lo meno di marchese di qualche vallone o provincia di assai poco momento, potrebbe accadere, se noi viviamo, che fra sei giorni io conquistassi un regno da cui fossero dipendenti altri regni, e giudicassi a proposito di coronarti re di uno di essi; né credere impossibile questa cosa, poiché vicende sì prodigiose e impensate intravengono a noi cavalieri; con poca fatica, se la fortuna mi arride, io sarò forse per darti cosa di gran lunga maggiore di quella che ti prometto. — A questo modo, rispose Sancio Pancia, s'io diventassi re, mercé uno di questi miracoli annunziati dalla signoria vostra, per lo meno la mia diletta Giovanna Gutierre arriverebbe ad essere regina, e infanti i figliuoli miei. — E chi potrebbe dubitarne, rispose don Chisciotte? — Io sono che ne dubito, replicò Sancio Pancia; perciocché, anche quando piovessero i regni dal cielo in terra nessuno potrebbe star bene in testa a Giovanna Gutierre. Sappia, signore, che non vale due soldi come regina; per contessa potrebb'essere il caso! ma seguane ciò che il ciel ne dispone. — Raccomandala al Signore, o Sancio, rispose don Chisciotte, ch'egli la beneficherà nel modo che potrà tornarle di maggior suo vantaggio; ma non tenerti così da poco da non meritare almeno un grado di governatore. — Non mi terrò per tale, no, signor mio, rispose Sancio, e tanto più trovandomi per vostra bontà con siffatto padrone, che saprà darmi tutto quello che mi starà bene e potrà essere adattato alla mia capacità.


CAPITOLO VIII

 

DEL FORTUNATO COMPIMENTO CHE DIEDE IL VALOROSO DON CHISCIOTTE ALLA SPAVENTEVOLE E NON MAI IMMAGINATA AVVENTURA DEI MULINI DA VENTO CON ALTRI SUCCESSI DEGNI DI GLORIOSA MEMORIA.

 

Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: “La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove, sono i giganti? disse Sancio Pancia. — Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d'essi le ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che colà si discoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. — Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.” Detto questo, diede de' sproni a Ronzinante, senza badare al suo scudiere, il quale continuava ad avvertirlo che erano mulini da vento e non giganti, quelli che andava ad assaltare. Ma tanto s'era egli fitto in capo che fossero giganti, che non udiva più le parole di Sancio, né per avvicinarsi arrivava a discernere che cosa fossero realmente; anzi gridava a gran voce: “Non fuggite, codarde e vili creature, che un solo è il cavaliere che viene con voi a battaglia.” In questo levossi un po' di vento per cui le grandi pale delle ruote cominciarono a moversi; don Chisciotte soggiunse: “Potreste agitar più braccia del gigante Briareo, che me l'avete pur da pagare.” Ciò detto, e raccomandandosi di tutto cuore alla Dulcinea sua signora affinché lo assistesse in quello scontro, ben coperto colla rotella, e posta la lancia in resta, galoppando quanto poteva, investì il primo mulino in cui si incontrò e diede della lancia in una pala. Il vento in quel mentre la rivoltò con sì gran furia che ridusse in pezzi la lancia, e si tirò dietro impigliati cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare buon tratto per la campagna. S'affrettò Sancio Pancia a soccorrerlo quanto camminava il suo asino, e quando il raggiunse lo trovò che non si poteva movere; così fieramente era stramazzato con Ronzinante. “Dio buono! proruppe Sancio, non diss'io alla signoria vostra che ponesse mente a ciò che faceva, e che quelli erano mulini da vento? Li avrebbe riconosciuti ognuno che non ne avesse degli altri per la testa. — T'acqueta, amico Sancio, rispose don Chisciotte; le cose della guerra sono più delle altre soggette a continuo cambiamento; massimamente perché stimo, e così senza dubbio dev'essere, che il savio Frestone, il quale mi svaligiò la stanza e portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per togliermi la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l'inimicizia ch'egli mi porta! ma alla fine dei conti non potranno prevalere le male sue arti contro la bontà della mia spada. — Faccia il signore quello che sia per il meglio,” rispose Sancio Pancia, e l'aiutò ad alzarsi ed a montare sopra a Ronzinante che stava mezzo spallato.

Quindi proseguendo il ragionamento sulla seguìta vicenda si avviarono a Porto Lapice, dove don Chisciotte diceva che non sarebbero mancate avventure, per esser luogo di gran passaggio: se non che gli dava gran pensiero quel trovarsi privo della lancia; e facendone parola collo scudiere, gli disse: “Ben mi sovviene di aver letto che un cavaliere spagnuolo, chiamato Diego Perez di Vargas, essendosegli rotta in un combattimento la spada strappò da una quercia un pesante ramo, o forse il tronco, e con esso operò tai prodigi in quel giorno e schiacciò tanti Mori, che gli fu posto il soprannome di Schiaccia; e per tal guisa sì egli che i suoi discendenti si chiamarono da quel giorno in poi Vargas e Schiaccia. Ciò ti dico perché dalla prima quercia o rovere in cui m'abbatta, voglio staccare un ramo sì forte come se lo figura la mia immaginazione, e tentare con esso tali prodezze che tu abbia a chiamarti ben avventuroso che ti sia dato in sorte di vederle e di essere testimonio a cose che mai saranno credute. — Alla buon'ora, disse Sancio, io credo quanto vossignoria mi dice: ma di grazia, si raddrizzi un cotal poco, che sembra ch'ella pieghi soverchiamente da questo lato; forse per effetto della sua caduta. — Così è veramente, rispose don Chisciotte, e se non mi lagno del dolore che sento, egli è perché non è lecito ai cavalieri erranti il dolersi per nessuna ferita, quand'anche uscissero loro le budella dal corpo. — Se la cosa è a questo modo non so che replicare, rispose Sancio; ma sa Dio che io non troverei punto sconveniente che vossignoria si lagnasse quando è addolorata nella persona. Io per me, le dico che mi lagnerò di ogni piccolo male, se già non s'intende che al pari dei cavalieri erranti anche i loro scudieri si debbano astenere dal lamentarsi.” Non lasciò di ridere don Chisciotte della semplicità del suo scudiere, e gli dichiarò che potea lamentarsi a suo grado, e comunque gli tornasse in acconcio, non avendo letto negli ordini di cavalleria proibizione alcuna sopra di ciò. Sancio avvertì il padrone che si avvicinava l'ora del pranzo, ed esso gli rispose che non ne avea voglia per allora ma che mangiasse pure a suo grado. Ottenuta questa licenza, Sancio si accomodò il meglio che poté sopra il suo giumento, e cavando dalle bisacce la provvisione di cui le aveva riempite, andava dietro al suo padrone camminando e mangiando molto posatamente; e di tanto in tanto attaccava la borraccia alla bocca con soddisfazione sì grande da mettere invidia anche nel meglio provveduto oste di Malaga: e così bevendo a quel modo erangli uscite di mente le promesse del suo padrone, né gli pareva più faticosa professione; ma piuttosto una specie di passatempo andare cercando avventure, per quanto pericolose si fossero.

In fine passarono quella notte in mezzo agli alberi, da uno dei quali staccò don Chisciotte un ramo secco, che gli potea in qualche modo servire di lancia, appiccandovi il ferro di quella spezzata che gli era rimasto. Non dormì in tutta la notte un momento solo, tenendo sempre il pensiero alla sua signora Dulcinea per non iscostarsi un puntino da ciò che aveva letto nei libri suoi, che i cavalieri passassero le notti vegliando nelle foreste e nei deserti, trattenendosi colla memoria delle loro signore. Non la passò però in questo modo lo scudiero Sancio Pancia, che avendo lo stomaco pieno e non già d'acqua di cicoria, consumò la notte intiera, in un sonno solo, e se il suo padrone non lo avesse chiamato, non lo avrebbero potuto svegliare i raggi del sole che lo ferivano nel viso, né il canto dei molti uccelli che giocondamente salutavano il nascere del nuovo giorno. Nell'alzarsi stese la mano alla sua borraccia, e trovandola assai più leggiera di prima se ne afflisse molto, sembrandogli che la strada allora battuta non dovesse condurlo sì tosto dove poter di nuovo riempirla. Don Chisciotte non volle assaggiar nulla, perché, come s'è detto, erasi già pasciuto delle dolci rimembranze della sua diva.

Ripigliarono quindi la strada di Porto Lapice, ed alle ventitré ore lo scoprirono. “Qui, disse don Chisciotte nello scorgerlo, qui, Sancio Pancia, fratello mio, possiamo attenderci venture a dovizie e di ogni nostra soddisfazione; ma sta bene avvertito che per quanto tu mi vegga in pericolo, non dei metter mano alla spada in mia difesa, salvo se vedessi chiaramente che fosse canaglia o gente vile quella che mi assalisse; in tal caso tu puoi darmi aiuto; ma se fossero cavalieri non ti è lecito né concesso a verun patto immischiarti, vietandolo le leggi della cavalleria sino a tanto che tu pure non sarai armato cavaliere. — Si assicuri, signore, rispose Sancio, che in questo ella sarà obbedita esattamente, e tanto più che sono pacifico di natura mia, e nemico di mettermi in romori e in contese: vero è bensì che trattandosi di difendere la mia persona, non farò gran caso di queste leggi, mentre e le divine e le umane permettono a ciascuno di contrastare a chi gli vuol nuocere. — Né io ti contraddico, rispose don Chisciotte, ma in quanto al soccorrermi contro cavalieri devi tenere in freno la tua naturale impetuosità. — Ed io replico, soggiunse Sancio, che obbedirò a questo precetto con tanta fedeltà ed esattezza come a quello della domenica.”

Stando in questi ragionamenti videro in lontananza due frati dell'ordine di San Benedetto a cavallo di due dromedari; che così si potevano chiamare le mule da essi cavalcate. Avevano gli occhiali da viaggio, ed i loro parasoli, ed erano seguiti da un cocchio, con l'accompagnamento di quattro o cinque persone a cavallo, e di due mulattieri a piedi. Stava nel cocchio (come poi si venne a sapere) una signora biscaina diretta a Siviglia, dove trovavasi suo marito in procinto di passare alle Indie con molta mercanzia; i frati però non erano della comitiva, benché viaggiassero molto a lei da vicino. Non li vide appena don Chisciotte che disse al suo scudiere: “O ch'io m'inganno; o debb'essere questa la più famosa avventura che siasi giammai veduta; perché da quel gruppo o mucchio nero che là si scorge, io arguisco che debbono essere incantatori i quali ne menano prigioniera qualche principessa in quel cocchio; ed io devo ad ogni modo impedire così gran torto. — Quest'è ben peggio che i mulini a vento, disse Sancio: guardi bene, signore, che quelli sono frati dell'Ordine di san Benedetto, e che sarà quella una carrozza di gente che viaggia al solito: badi bene a quello che dico, e stia avvertita su ciò che vuol fare, né si lasci accecare dal diavolo. — Te l'ho già detto, rispose don Chisciotte, che tu non t'intendi d'avventure: ciò che io ti dico è vero, e te lo proverà ora l'effetto.” Intanto fattosi innanzi si mise nel mezzo della strada ove i frati dovevano passare, e condottosi al punto da poter essere da loro inteso, sclamò con voce sonante: “Genti diaboliche e scomunicate, lasciate andar libere sull'istante le alte principesse che ne menate a forza prigioniere in quel cocchio, altrimenti preparatevi a ricevere subita morte per giusto castigo delle malvagie vostre opere.” Tirarono i frati la briglia alle mule, e si fermarono, colti dal più grande stupore, sì per la strana figura di don Chisciotte, come per le cose che diceva; poi gli risposero: “Signor cavaliere, noi non siamo gente né diabolica, né scomunicata, ma due religiosi dell'ordine di San Benedetto che andiamo pei fatti nostri; né ci è noto che in questa carrozza ci siano, o no principesse rapite. — A me, replicò don Chisciotte, non la darete ad intendere colle vostre melliflue parole, che io ben vi conosco, malaugurata canaglia,” poi senza attendere altra risposta, abbassata la lancia, spronò Ronzinante, e con sì gran furia andò incontro al frate più vicino, che se non si lasciava cader dalla mula, l'avrebbe fatto stramazzar in terra, o morto, o bruttamente ferito. Il secondo religioso, che vide il mal giuoco fatto al compagno, batté furiosamente la mula, e si diede a fuggire per la campagna colla rapidità del vento. Quando Sancio Pancia vide il frate disteso in terra, smontò con prestezza dall'asino, e cominciò di botto a spogliarlo. Sopraggiunsero in questo punto due servitori dei frati e domandandogli perché rubasse i vestiti, Sancio rispose che quello era uno spoglio che se gli apparteneva legittimamente come bottino della vittoria guadagnata dal suo padrone don Chisciotte. I servitori che non sapevano di siffatte burle, né s'intendevano di bottini o di vittorie, vedendo don Chisciotte impegnato a parole con quelli che seguitavano il cocchio, diedero tante percosse a Sancio che stramazzatolo in terra fuori di sentimento, non gli lasciarono pelo sul mento e senz'aspettare un istante fecero rizzare il frate tutto tremante e avvilito e senza colore in viso; il quale, come si vide rimesso a cavallo, s'indirizzò alla volta del suo compagno, che molto da lontano stava osservando e attendendo come dovesse finire tanta battaglia. E senz'altro indugio seguitarono il loro viaggio facendosi tanti segni di croce che se il demonio stesso li avesse inseguiti sarebbero stati ancor troppi. Stava don Chisciotte, come s'è detto, ragionando con la signora del cocchio, e le diceva: “La vostra bellezza, signora mia, può ormai disporre di sé medesima a suo senno, poiché la superbia di questi vostri assassini giace abbattuta al suolo mercé il valore del mio braccio; e perché non abbiate a penar per sapere il nome del vostro liberatore siavi noto ch'io mi chiamo don Chisciotte della Mancia, cavaliere errante, venturiero e prigioniero della vezzosa senza pari Dulcinea del Toboso. In guiderdone del benefizio che avete ricevuto da me altro da voi non chieggo, se non che n'andiate al Toboso, e presentandovi per parte mia dinanzi a questa signora, le diate contezza di quanto ho operato per ridonarvi la libertà.” Uno scudiero tra quelli che seguitavano il cocchio, e che era biscaino, stava ascoltando tutto ciò che diceva don Chisciotte, e vedendo ch'egli non permetteva alla carrozza di proseguire pel suo cammino, ma l'obbligava a dar volta verso il Toboso, afferratagli la lancia, si fece a dirgli in cattivo castigliano e peggior biscaino: “Va, cavaliere, col tuo malanno: ti giuro per chi m'ha messo al mondo che se tu non lasci andar questo cocchio ti ammazzo da biscaino che sono.” Comprese benissimo don Chisciotte quant'egli avea detto, e con molta gravità gli rispose: “Se tu fossi cavaliere, che nol sei, vilissima creatura, il tuo temerario ardimento avrebbe a quest'ora trovato il meritato castigo.” Al che replicò il biscaino: “Io non sono cavaliere? Giuro a Dio che tu menti come cristiano. Se porti lancia e cingi spade vedrai quanto presto il gatto te la graffierà via! biscaino in terra idalgo in mare, idalgo pel diavolo! e mente chi porta altra opinione. — Or la vedremo, rispose don Chisciotte; e gittando la lancia in terra sfoderò la spada, imbracciò la rotella ed assalì il Biscaino con animo determinato a privarlo di vita. Il Biscaino che sel vide venire addosso a quel modo, avrebbe voluto smontar dalla mula (che per essere delle più triste non poteva fidarsene troppo) ma non riuscendo cominciò ad adoperare la spada. Volle la sorte che trovandosi assai presso al cocchio ebbe opportunità di dare di piglio a un guanciale che gli servì di scudo, dopo di che vennero l'un contro l'altro a battaglia come due arrabbiati nemici. I circostanti facevano ogni potere per acchetarli, ma non vi riuscivano; perché il biscaino bestemmiando affermava che avrebbe ammazzato chiunque gli avesse impedita la zuffa, quand'anche fosse stata la sua padrona medesima. La signora del cocchio, maravigliata e impaurita per ciò che vedea, ordinò al cocchiere di scostarsi alquanto, e da lungi si pose ad osservare lo inviperito combattimento. Il Biscaino diede sì solenne fendente a don Chisciotte sopra una spalla, che se non lo avesse difeso la rotella lo pariva in due sino alla cintola. Il dolore di sì pericolosa ferita fece gettare uno strido a don Chisciotte, esclamando: “O Dulcinea, signora dell'anima mia, fiore della bellezza date aita a questo vostro cavaliere, che per mostrarsi obbligato alla somma vostra bontà si trova in sì mortale cimento.” Il dir questo, lo stringere la spada, il coprirsi con la rotella, l'assaltare di nuovo il Biscaino fu un punto solo; ed erasi risoluto di azzardare un colpo affatto decisivo. Il Biscaino che tutto previde e conobbe la determinazione di don Chisciotte oltremisura infuriato, pensò di fare lo stesso sopra di lui. Però fattosi scudo del suo guanciale, lo attese a piè fermo, non potendo indurre la mula a verun movimento; come quella che stracca e non avvezza a burle di questa sorta, non poteva muovere un passo. Erasi, come già s'è detto, mosso don Chisciotte contro l'accorto Biscaino con la spada alzata, divisando di partirlo per mezzo; e con la stessa risoluzione il Biscaino aveva alzata egli pure la spada difeso dal guanciale. I circostanti stavano impauriti ad attendere l'esito dei colpi terribili coi quali l'un l'altro si minacciavano; e la signora del cocchio e le sue ancelle facevano mille voti e preghiere ai santi ed ai santuari tutti di Spagna affinché Dio liberasse lo scudiere e loro stesse con lui, dal pericolo in cui si trovavano tutti.

— Ma il male si è che l'autore della presente storia lasciò a questo punto sospeso il racconto, scusandosi col dire che intorno alle imprese di don Chisciotte non trovò scritto più di quello che sin qui è riportato. Vero è però che il secondo autore di quest'opera non volle credere che storia sì autorevole fosse caduta in oblìo, né si poté persuadere che vi fossero nella Mancia ingegni tanto da poco da non conservare negli archivi loro qualche foglio che trattasse dei fatti di un cavaliere cotanto illustre. Con questa persuasione pertanto non disperò di trovare il fine di sì piacevole istoria; ed infatti, col favore del cielo, la scoperse poi nella maniera che si dirà nel capitolo seguente.

 


CAPITOLO IX

 

COME FINISSE LA MARAVIGLIOSA BATTAGLIA DEL PRODE BISCAINO COL VALOROSO MANCEGO.

 

Noi abbiamo lasciato il valoroso Biscaino e il celebre don Chisciotte colle spade nude ed alzate in atto di scagliare furiosissimi colpi e tali, che se coglievano in pieno si sarebbero i combattenti sparati in due da cima a fondo a guisa di melagrane; ma fu appunto a questo passo sì decisivo che l'autore troncò la sua piacevole istoria, senza farci sapere dove avremmo potuto ritrovare quello che le mancava. Ciò produsse in me un gran dispiacere; perché la soddisfazione del poco che ne avea letto, mi tornava in amarezza, pensando quanto sarebbe difficile rinvenire quel molto che mi pareva mancasse a così dilettevole racconto. Sembravami cosa impossibile e contraria ad ogni buona costumanza, che a sì gran cavaliere fosse mancato qualche savio che avesse pigliato l'incarico di scrivere le inaudite sue imprese; mentre non mancò a nessuno dei cavalieri erranti, di quelli, come dice la gente, che van cercando avventure. E in fatti ciascuno di essi teneva presso di sé uno o due savi a ciò deputati, i quali non pure scrivevano le loro gesta ma ne mettevano in luce altresì i più minuti pensieri e le più recondite bagattelle; né dovea il nostro cavaliere, essere tanto disgraziato che gli mancasse quello di cui poterono vantarsi un Platir, e tanti altri simili a lui. Io non potea dunque indurmi a credere che sì bella storia fosse rimasta tronca e storpiata, e ne incolpavo il tempo consumatore e divoratore di ogni cosa, immaginandomi che la tenesse occulta o l'avesse consunta. In oltre per essersi trovate fra i suoi libri molte opere di autori moderni, come il Disinganno di gelosia, e le Ninfe ed i Pastori di Henàres, sembravami che dovesse anche la storia sua propria esser recente; e che perciò se non era stata scritta potrebbe raccogliersi almeno dalla memoria delle persone del suo villaggio e dei paesi circonvicini.

Questo pensiero mi scaldava la fantasia, e facevami sempre più desideroso di saper con ogni leal verità la intiera vita e i prodigi del nostro famoso spagnuolo don Chisciotte della Mancia, luce e specchio della mancega cavalleria, ed il primo che nell'età nostra e in tempi sì disgraziati si applicasse all'esercizio ed al travaglio dell'arme cavalleresche, a disfar torti, a soccorrere vedove, a difender fanciulle, di quelle s'intende, che armate dello scudiscio sui loro palafreni andavano di monte in monte e di valle in valle con tutta la loro verginità; e se non era qualche malvagio cavaliere o villano armato o smisurato gigante che le oltraggiasse, benché nel corso di ottant'anni alcune non dormissero mai una volta al coperto, pur sembrerebbero morte intatte come la madre che le aveva partorite. Dico dunque e per questo e per molti altri rispetti, che il nostro don Chisciotte è degno di memorabili ed eterne lodi; le quali a me pure sono dovute per averne con tanta cura ricercata la dilettevole vita. Ringraziato sia il cielo e la buona fortuna, senza il cui favore al mondo sarebbe mancato lo squisito diletto che potrà gustare per quasi due ore chiunque voglia leggere con qualche attenzione. Or ecco in qual maniera mi riuscì di scoprirla.

Trovandomi un giorno nella strada di Alcanà in Toledo, capitò un giovanotto a vendere scartafacci vecchi ad un mercante di seta ed io che ho per costume di leggere ogni pezzo di carta, anche di quelle che ritrovo per via, tratto da questo mio istinto presi uno degli scartafacci che il ragazzo vendeva, e vidi che era scritto in caratteri che riconobbi essere arabici. Ma non sapendo leggerli, mi posi in attenzione per vedere se passasse per quella strada qualche Morisco spagnolizzato né mi fu difficile ritrovare siffatto interprete; perciocché andandomene in cerca ne avrei trovati anche di quelli per una lingua più antica e più santa. In fine la sorte me ne presentò uno al quale spiegai il mio desiderio nell'atto di consegnargli il libro, egli lo aperse, e leggendone un poco si mise a ridere. Gli domandai perché ridesse ed egli mi rispose che era per causa di una annotazione scritta in un margine. Lo pregai che mi facesse sapere; che cosa diceva ed egli, ridendo ancor più soggiunse: “In questo margine è scritto così: Si dice che questa Dulcinea del Toboso, nominata sì spesso nella presente opera, avesse miglior mano di ogni altra donna della Mancia nell'insalare i porci. Quando intesi dire Dulcinea del Toboso rimasi attonito e fuori di me, persuadendomi immantinenti che in quegli scartafacci si contenesse la storia di don Chisciotte. Con questa bella idea nella mente, pregai subito subito il morisco che mi leggesse il principio del libro; ed egli assecondando il mio desiderio, e traducendo l'arabico in castigliano, disse, che stava scritto: Storia di don Chisciotte della Mancia, scritta da Cid Hamet Ben-Engeli, storico arabo. Durai molta fatica a dissimulare il contento che provai nel sentire il titolo di quel libro; e togliendolo di mano al setaiuolo, comprai dal ragazzo tutti i fogli e gli scartafacci per mezzo reale: che se quegli avesse potuto conoscere a fondo il mio desiderio, me li avrebbe fatti pagare anche sei reali.

Ridottomi con quel Morisco nel chiostro della chiesa maggiore, lo ricercai che mi traducesse in lingua castigliana tutto ciò che riguardava don Chisciotte, senza farvi la menoma alterazione, offrendogli quella mercede che avesse chiesta. A prezzo di cinquanta libbre d'uve passe e di due staia di grano mi promise di farne una buona e fedel traduzione, ed in tempo assai breve; ond'io per agevolar quest'affare e non lasciarmi sfuggir di mano sì bella fortuna, lo condussi a casa mia, dove in poco più di un mese e mezzo tradusse la storia al modo stesso come qui vien riportata.

Trovavasi nel primo scartafaccio dipinta al naturale la battaglia di don Chisciotte col Biscaino, e in attitudine, come parla il libro, di tener la spada in aria, l'uno coperto colla rotella, e l'altro col guanciale; e la mula del Biscaino espressa al vivo per modo da scorgere anche a un tiro di balestra ch'era mula da vetturino. A piede del Biscaino stava scritto: don Sancio d'Aspezia, ché doveva esser questo il suo nome, e in un altro cartello leggevasi a piè di Ronzinante: don Chisciotte. Vedevasi Ronzinante dipinto meravigliosamente tutto lungo, stirato, estenuato, debole con il filo della schiena, sì asciutto ed etico dichiarato a tal punto, che mostrava a tutta evidenza con quanta ponderazione e proprietà gli fosse stato posto il nome di Ronzinante. A lui dappresso stava Sancio Pancia, che tenea l'asino pel capestro, ed appié dello stesso eravi la iscrizione: Sancio Zanca, essendo ciò derivato perché teneva, a quanto mostrava la dipintura, una grossa pancia, statura piccola, stinchi lunghi, ond'è che fu chiamato Panza e Zanca; ed appunto con questi due soprannomi vien talvolta menzionato nella storia.

Avrei da notare alcune altre minuzie, ma sono di poca importanza, e non risguardano la relazione veritiera della storia, che non può essere cattiva se contien verità; e se pure vi fosse qualcosa da opporre alla veracità sua, non potrà ciò derivare se non se dall'essere arabo l'autore che l'ha scritta, essendo la bugia assai propria di quella nazione; benché, come dichiarata nemica nostra, è da credere che abbia detto piuttosto poco che troppo. Ed io sono appunto di questo avviso, perciocché quando doveva quell'autore impegnar la sua penna nelle lodi di sì buon cavaliere, sembra anzi che maliziosamente ne taccia; cosa mal eseguita e peggio pensata, dovendo gli storici avere la verità per primo scopo, e non lo spirito di parzialità: e l'interesse, il timore, l'odio e l'affezione non debbono sviarli dal sentiero della verità, la cui madre è la storia emula del tempo, deposito delle azioni umane testimonio del passato, esempio e specchio del presente, e ammaestramento per l'avvenire. Ed io so che in questa si troverà tutto ciò che d'aggradevole puossi desiderare; e se vi mancasse qualche cosa di buono sarà per colpa del cane del suo scrittore, non per mancanza mai del soggetto. In fine, la sua seconda parte, stando attaccati alla traduzione, cominciava in questa maniera:

Inalberate le taglienti spade quei valorosi e inveleniti combattenti pareva che minacciassero il cielo, la terra e l'abisso: sì eccessivi erano l'ardire e lo sdegno di cui avvampavano. Il primo a scaricare il suo colpo fu l'inviperito Biscaino, e fu sì grave e furioso che se non avesse piegata per aria la spada, bastava quel solo a dar fine a sì acerba contesa e ad ogn'altra ventura del nostro cavaliere; ma la buona sorte, che lo riserbava a fatti più luminosi, piegò la spada del suo nemico in guisa che sebbene cadesse sull'omero sinistro, non gli produsse altro male che di lasciarlo disarmato interamente da quel lato, tagliandogli gran parte della celata, e con essa metà dell'orecchio. Tutto questo cadde per terra con ispaventevol rovina, e don Chisciotte rimase malconcio. Deh, chi sarà mai che possa pienamente descrivere la rabbia ch'entrò allora nel cuore del nostro Mancego vedendosi a tale ridotto? Basti dire che si rizzò nuovamente sopra le staffe, e prendendo la spada a due mani tempestò con sì gran furia sopra il Biscaino, cogliendo in pieno sul guanciale e sulla testa che ad onta della sua buona difesa, come se gli fosse caduta sul capo una montagna, cominciò a perdere il sangue per le narici, per la bocca e per gli orecchi, ed a barellar con la mula, da cui sarebbe caduto se non si fosse aggrappato strettamente al collo. Gli uscirono però i piedi dalle staffe, poi sciolse anche le braccia; laonde la mula impaurita pel terribile colpo, si pose a correre per la campagna e a tirar calci, e dopo alquanto barcollare stramazzò insieme col suo padrone. Stavasi don Chisciotte con molta gravità guardandolo, ma come lo scorse a terra smontò da cavallo, e lestamente a lui appressatosi, nel presentargli la punta della spada agli occhi, gli disse che s'arrendesse, o che gli verrebbe troncata la testa. Il Biscaino tutto confuso non potea risponder parola, e sarebbe finita male per lui, tanto il furore aveva acciecato don Chisciotte, se le signore del cocchio, che fino a questo punto aveano veduto con grande spavento quella contesa, non gli fossero corse incontro, e non lo avessero pregato con ogni istanza che per grazia e per loro intercessione donasse la vita a quel povero scudiero. E don Chisciotte con tono grave e maestoso rispose: “Sono assai soddisfatto, belle signore, di compiacervi, ma a patto però che questo cavaliere mi dia parola di recarsi al Toboso, di presentarsi per parte mia alla signora Dulcinea, e di lasciarla arbitra del suo destino.” Le impaurite e sconsolate signore, senza cercare d'intendere, quello che don Chisciotte volesse dire, e senza domandare chi fosse questa Dulcinea, gli promisero che lo scudiere avrebbe eseguito a puntino i comandi suoi. “Ebbene, soggiuns'egli, sulla fede di questa promessa io non gli farò altro male, benché se lo abbia assai meritato.”


CAPITOLO X

 

DEI GRAZIOSI RAGIONAMENTI CHE PASSARONO TRA DON CHISCIOTTE E IL SUO SCUDIERO SANCIO PANCIA.

 

Il povero Sancio erasi intanto alzato di terra, malconcio per le percosse ricevute dai servitori dei frati; e guardando con grande attenzione alla battaglia del suo padrone don Chisciotte, pregava Dio in cuor suo che gli piacesse di dargli vittoria, affinché guadagnasse qualche isola di cui lo facesse governatore, siccome gli aveva promesso. Vedendo poi terminata la zuffa, e che il suo padrone tornava a salire su Ronzinante, gli andò a tenere le staffe, e prima ch'egli montasse se gli pose ginocchioni davanti, e presagli la mano gliela baciò, e gli disse: “Piacciavi, signor mio don Chisciotte, di darmi il governo dell'isola guadagnata in questa crudele battaglia: che, per grande che essa debba essere, io mi reputo da tanto di saperla reggere così bene come ogn'altro che mai governasse isole al mondo.” Al che don Chisciotte rispose: “Bada bene, fratello Sancio, che quest'avventura e le altre siffatte, non sono avventure da isole, ma da venire solamente alle mani, e dove altro non si guadagna che finirla o colla testa rotta, o con un orecchio di meno; abbi pazienza, che mi si offriranno altre avventure, per le quali ti farò salire non pure al grado di governatore, ma ad altro più elevato d'assai.” Aggradì Sancio le belle promesse del suo padrone, e ribaciandogli la mano e la falda della corazza, volle assisterlo a salire sopra Ronzinante; poi montato anch'egli sull'asino, cominciò a tener dietro al padrone, che di passo veloce assai, e senza far altre parole con le signore del cocchio, si cacciò in un bosco vicino.

Lo seguitava Sancio facendo trottare il giumento il più che potesse; ma Ronzinante correva sì presto, che il povero scudiere, vedendosi restar addietro, cominciò a gridare che lo aspettasse. Don Chisciotte tirò a sé le redini finché fu raggiunto dall'affaticato compagno, che tosto si fece a dirgli: “Parmi, signore, che noi dovremmo ricoverarci in qualche chiesa, poiché essendo rimasto sì rovinato quell'uomo con cui siete venuto a battaglia, è ben facile che ne sia informata la Santa Hermandada, e che ci vogliano metter prigione: ché se questo accade, noi avremo a sudare un po' troppo prima di essere scarcerati. — Taci là, disse don Chisciotte: e dove hai tu visto o letto che un cavaliere errante sia stato soggetto alla giustizia per quanti omicidi abbia fatti? — Io non so di omicidi, rispose Sancio, né mai ho messo mano in vita mia nel sangue di alcuno; so bene che la Santa Hermandada veglia a punire coloro che van facendo zuffe e quistioni, e in altre cose non m'intrametto. — Non ti dar pensiero di questo, rispose don Chisciotte, ch'io ti trarrei dalle mani dei Caldei quando occorresse; non che da quelle della Hermandada; ma dimmi piuttosto: vedesti mai cavaliere sopra tutta la faccia della terra più valoroso di me? Leggesti mai nelle storie che altri abbia mostrato più intrepidità nell'attaccare, più coraggio nel persistere, più destrezza nel ferire, più grande astuzia nell'atterrare? — Sia pur vero questo, rispose Sancio, da che io non ho letto giammai storia alcuna, non sapendo né leggere, né scrivere; ma quello che posso affermare si è che non ho servito in vita mia padrone più ardimentoso di vossignoria; e piaccia a Dio che questo sì grande coraggio non vada a finire in quel modo che dissi poc'anzi. Ora quello di che sono a pregare la signoria vostra si è che prenda cura di medicarsi, mentre veggo che va perdendo il sangue da questa orecchia; e giacché tengo nella bisaccia dei fili e dell'unguento bianco… — Tutto questo sarebbe inutile, rispose don Chisciotte, se mi fosse dato d'avere un'ampolletta del balsamo di Fierabrasse, ché con una sola goccia avremmo risparmiato il tempo e le medicine. — Che ampolla e che balsamo è questo? disse Sancio Pancia. — È un balsamo, replicò don Chisciotte, la cui ricetta ho a memoria; ed è tale che l'uomo non deve più temere che alcuna ferita lo conduce a morire, per grande che sia; perciò quando io n'abbia, e te lo dia, se tu mi vedessi in qualche battagliata tagliato a mezzo, come suole spesso avvenire, altro non hai da fare che prendere quella parte del corpo che fosse caduta per terra, e con molta diligenza, prima che il sangue si rapprenda, congiungerla all'altra rimasta sopra la sella; avvertendo però di commetterle ugualmente e al loro giusto punto: ciò fatto mi vedrai rimesso perfettamente in salute. — Se così è, disse Pancia, io rinuncio da questo momento al governo della promessa isola, ed altro non domando in ricompensa de' miei molti e buoni servigi, se non che la signoria vostra mi dia la ricetta di questo licore prezioso, ch'io credo bene che costerà più di due reali l'oncia; né altro mi occorre per passare questa sciagurata vita senza fastidi. Ora ditemi, quanto si può spendere a comporlo? — Se ne possono far tre bocce; rispose don Chisciotte, con meno di tre reali. — Corpo della vita mia, replicò Sancio, e perché non si affretta la signoria vostra a farlo, e ad insegnarmene il modo? — Taci, amico, rispose don Chisciotte, che ti metterò eziandio a parte di segreti di più alta importanza, e ti farò più larghi favori; ma per ora medichiamoci, perché l'orecchio mi duole assai più del bisogno.”

Sancio trasse allora dalle bisacce fili ed unguento, ma quando s'accorse don Chisciotte che la sua celata era rotta stette per perdere il cervello, e posta la mano alla spada, e alzando gli occhi al cielo: “Fo giuramento, disse, a Dio e ai suoi Evangeli di condurre la vita come il marchese di Mantova quando giurò di vendicare la morte del nipote suo Baldovino, cioè di non sedere a mensa preparata, né di coabitar colla moglie, ed altro che ora non mi sovviene, ma che tutto ripeto però coll'intenzione, finché io non prenda vendetta di colui che mi oltraggiò così indegnamente.” Sentendolo parlare in tal guisa, Sancio gli disse: “Badi la signoria vostra, signor don Chisciotte, che se il cavaliere adempì i comandi che ebbe da lei, di presentarsi cioè dinanzi alla signora Dulcinea del Toboso avrà fatto ogni suo dovere, né merita ulterior pena, purché non diventi reo di nuova colpa. — Tu parli e giudichi assai rettamente, rispose don Chisciotte; e quindi annullo il giuramento per ciò che riguarda il prender vendetta di lui, ma lo faccio e di nuovo il confermo quanto al condurre la vita che ho detto, finché mi riesca di togliere a forza un'altra celata simile, e del pregio di questa a qualche cavaliere: né ti dar a credere, o Sancio, che sia questo un mio capriccio; che anzi m'uniformo all'esempio di molti altri poiché accadde il medesimo appunto a Sacripante per causa dell'elmo di Mambrino.

— Deh, non si perda la signoria vostra in questa storia di giuramenti che fanno gran danno alla salute, replicò Sancio, e recano molto pregiudizio alla coscienza: e poi ella favorisca dirmi: se corressero per avventura molti giorni senza ch'ella trovasse cui togliere la celata, che cosa faremo allora? Vorrà ella servire al giuramento a dispetto di tanti inconvenienti e disagi, come sarà il dormire vestito ed alla scoperta, ed altre mille penitenze contenute nelle proteste di quello sciocco vecchio del marchese di Mantova, che ora la signoria vostra vorrebbe avvalorare? Rifletta, mio signor padrone, rifletta che queste strade non sono battute da uomini armati, ma soltanto da vetturali e da carrettieri, i quali non portano celate, anzi non le hanno nemmeno sentite nominare in tutto il corso della loro vita.

— In ciò t'inganni d'assai, disse don Chisciotte, perché noi non andremo più di due ore per questi crocicchi di strade senza incontrarci in armenti più numerosi di quelli che andarono all'assedio di Albracca e alla conquista di Angelica la bella.

— Sia pur così, disse Sancio, piaccia a Dio che la cosa termini in bene, e che giunga il tempo di guadagnare quest'isola che già mi costa sì cara, e poi voglio morire subitamente.

— Te l'ho già detto, o Sancio, che non te ne devi pigliar fastidio, perché quando mancasse un'isola, resta il regno di Danimarca o quello di Sobradisa, che ti calzeranno a proposito come anello al dito ed hai gran motivo di rallegrartene essendo essi posti in terraferma; ma rimettiamo queste cose a suo tempo, e guarda se nelle tue bisacce hai di che rifocillarci ambidue, poi andremo in traccia di qualche castello in cui passare la notte e poter fare il balsamo di cui ti ho parlato; perché ti giuro in coscienza mia che mi sento gran dolore all'orecchio.

— Ho qua una cipolla, un po' di formaggio e qualche tozzo di pane, disse Sancio; ma questi non sono cibi adattati a sì valoroso cavaliere com'è vossignoria.

— T'inganni a partito, rispose don Chisciotte sappi che i cavalieri erranti si recano ad onore di non mangiar mai in un mese, e quando mangiano pigliano tutto ciò che vien loro offerto; della qual cosa tu saresti bene assicurato se avessi lette tante storie quante ne lessi io. Né mai vi ho trovato notizia che i cavalieri erranti mangiassero, se non per caso, e in alcuni sontuosi banchetti ai quali erano invitati: negli altri giorni se ne stavano, affatto digiuni, quantunque però non sia da credere che potessero passarsela senza mangiare e senza servire agli altri bisogni della vita perché in fatto eran uomini come noi; ma egli è da tenersi per fermo, che viaggiando nella maggior parte della loro vita per foreste e per deserti e senza cuoco, l'ordinario loro cibo fosse di rustiche vivande, appunto come quelle che tu adesso mi offri; di maniera che non ti rincresca di ciò che a me aggrada, né ti pensare di cambiare l'ordine delle cose nel mondo, né di far uscire l'errante cavalleria fuor del suo centro.

— Perdonimi la signoria vostra, disse Sancio, che siccome io non so leggere, né scrivere, come altra volta le ho notificato, non ho cognizione delle pratiche della professione cavalleresca: quindinnanzi farò provvista nelle bisacce d'ogni sorta di frutta secche per vostra signoria ch'è cavaliere, e per me, che nol sono, provvederò altre cose di animali e di maggior sostanza.

— Non dico, replicò don Chisciotte, che sia obbligo de' cavalieri erranti di non mangiare se non le frutta che tu vai nominando, ma voglio inferire che il loro più consueto nutrimento debba consistere in quelle, e in certe erbe da essi e da me ben conosciute, e che si trovano per le campagne.

 — Per verità, è molto opportuna la cognizione di siffatte erbe, perché mi figuro che verrà qualche giorno in cui bisognerà approfittarne. Così dicendo cavò dalle bisacce le cose già dette, e mangiarono amendue in buona pace e compagnia.

Desiderosi poscia di cercare ove alloggiar quella notte, terminarono prestamente il loro povero ed asciutto desinare, e montati di nuovo a cavallo, affrettaronsi di giungere a qualche paese prima che annottasse: ma col tramontare del sole mancò in essi la speranza di arrivare dove desideravano, e trovandosi prossimi ad una capanna di caprai, pensarono di passar la notte in quel sito.

Quanto spiacque a Sancio altrettanto invece si rallegrò il suo padrone di poter dormire a ciel scoperto; parendogli che ogni volta che ciò gli avveniva, fosse, come a dire, un guadagnarsi una buona prova della sua cavalleria.


CAPITOLO XI

 

DI QUELLO CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE CON ALCUNI CAPRAI.

 

Non avrebbero que' caprai potuto accogliere don Chisciotte con maggior cortesia; ed avendo Sancio allogati alla meglio Ronzinante e il giumento, tenne dietro all'odore di certi pezzi di capra che bollivano al fuoco in una pentola. Egli avrebbe voluto vedere se trovavansi al punto di essere trasportati dalla pentola allo stomaco, ma se ne astenne, perché i caprai li levarono dal fuoco. Distesero in terra alquante pelli di pecora, allestirono con gran celerità la loro rustica mensa, e chiamarono ambidue gli stranieri a convito colle dimostrazioni più vive del buon cuore che avevano. Si assisero intorno alle pelli sei di quei mandriani, avendo prima con rozze cortesie pregato don Chisciotte che sedesse sopra di un trogolo arrovesciato a tal uopo. Si pose don Chisciotte a sedere, e restò Sancio in piedi per dar da bere al padrone in una scodella di corno. Vedendolo stare così ritto, ritto, il padrone gli disse: “Perché tu conosca, o Sancio, il bene che in sé racchiude la cavalleria e quanto tutti coloro che si esercitano in questo ministero possano sapere di essere prestamente onorati e stimati nel mondo, voglio che tu segga qui al fianco mio e in compagnia di questa buona gente facendoti una stessa cosa con me, che sono il tuo padrone e il natural tuo signore; e che mangi nel mio piatto e beva nel mio bicchiere; perché si può dire della cavalleria errante ciò che dell'amore, che adegua ogni disuguaglianza... — Gran mercé, disse Sancio: ma io dichiaro a vossignoria, che dove trovassi da mangiare a mio gusto io mangerei assai meglio in piedi e da me solo, che seduto a lato d'un imperatore: anzi per dire la verità, mi sa molto meglio quello che mangio in un cantuccio della mia casa senza tante smorfie e tanti riguardi, fosse anche soltanto pane e cipolla, che i galli d'India di altre tavole, dove bisogna masticar adagio, bever poco, pulirsi spesso, non istarnutire né tossire se ne vien voglia, né far altre cose lecite nella solitudine e nella libertà. Perciò, signor mio, questi onori che da vossignoria mi vengono impartiti per essere suo ministro e attinente alla cavalleria errante, e per essere suo scudiero, li tramuti in altre cose di mio maggior bisogno e profitto; che questi, benché si intendano da me ricevuti, li rinunzio da oggi sino alla fine del mondo. — Contuttociò devi sederti, disse don Chisciotte, perché chi si umilia vien da Dio Signore esaltato: e presolo per un braccio l'obbligò a stargli a lato per forza.

Non giungeano i caprai ad intendere quel gergo di scudieri e di cavalieri erranti: però mangiavano e tacevano tenendo gli occhi sui loro convitati, i quali con molta disinvoltura ingozzavano bocconi grossi come un pugno. Dopo mangiata la capra si pose in tavola una gran quantità di ghiande abbrustolite, e con esse una mezza forma di cacio più duro di un pezzo di smalto. Non istava frattanto oziosa la scodella di corno, ma andava attorno or vuota, or piena, come la secchia che girando sulla rotella trae l'acqua dal pozzo, di modo che ben presto fu vuotato uno dei fiaschi che erano in mostra. Dopo che don Chisciotte ebbe il ventre bene pasciuto, prese una manata di ghiande, e guardandola attentamente, così si fece a dire: “Età fortunate, secoli avventurosi quelli che furono chiamati dagli antichi secoli d'oro! e non già perché quell'oro, tanto stimato da questa nostra età di ferro, si conquistasse allora con minor fatica, ma perché da quelli che viveano allora ignoravansi le due parole Tuo e Mio. Comuni a tutti eran le cose in quell'età innocentissima; nessuno avea d'uopo per alimentarsi se non se di alzare la mano e di cogliere dalle robuste quercie quel frutto saporoso e maturo che loro offrivano liberalmente. Le limpide fonti e gli scorrevoli ruscelli, dolci ed abbondanti acque somministravano. Nelle fessure delle rupi e nel vôto degli alberi stabilivano la repubblica loro le diligenti ingegnose api, offrendo senza premio veruno a qualunque rustica o gentil mano il frutto del dolcissimo loro lavoro. I grandi sugheri fornivano larghe e leggiere scorze per coprire le abitazioni fabbricate sopra rustiche travi, unicamente per difenderle dalla inclemenza del cielo. Tutto in quel tempo era pace, tutto amicizia, tutto concordia; né ancora il pesante vomero del curvo aratro aveva ardito di aprire e investigare le viscere della prima nostra madre, perché senza essere forzata da chicchesia porgeva da ogni banda del fertile e spazioso suo seno quanto poteva nutrire, sostenere e dilettare i figli che allora la possedevano. Le vaghe e semplici pastorelle andavano scorrendo di valle in valle e di collina in collina coi capelli negletti, senza industriose trecce, senza più vesti di quelle necessarie a coprire ciò che in ogni tempo l'onestà comandò di celare. Non erano superfluamente adorni gli abiti come quelli dei nostri giorni che tinti vanno della porpora di Tiro, né usavasi della seta in tante guise martirizzata. Erano allora le vesti tessute semplicemente con alcune foglie di verdi rombici e di ellera; e di questo apparivano così pompose e composte, come oggidì le dame di corte con tutte le rare e peregrine invenzioni insegnate dalla oziosa curiosità. Allora gli amorosi concetti dell'anima appalesavansi con quella semplicità colla quale nascevano, né conoscevasi quel giro artifizioso di parole che li rende ora pericolosi, né si sapeva che cosa fosse la frode; e nella verità e nel candore non frammischiavasi la malizia o l'inganno. La giustizia esercitava i suoi diritti senza che osassero recarle offesa l'interesse o il favore, dai quali ai nostri giorni è contaminata e avvilita: e non conosceva la legge che cosa fosse arbitrio di giudici, perché non eravi allora materia di giudicare o di domandare sentenza. Le oneste donzelle se ne andavano, come dissi, dovunque loro piaceva sole e signore di sé stesse senza timore che l'altrui seduzione o sfacciataggine potessero macchiarle; se alcune perdevansi n'era colpa la propria loro volontà. Ma ora in questi nostri detestabili tempi nessuna giovane è sicura quando anche fosse custodita in un labirinto simile a quello di Creta; che anche là per i pertugi e per l'aria, per opera di una maledetta istigazione penetra l'amoroso contagio, e ne sovverte ogni buon principio. Ad oggetto pertanto di accorrere alla loro sicurezza, procedendo i tempi e crescendo ogni dì più la malizia, si è istituito l'ordine de' cavalieri erranti, che difende le donzelle, tutela le vedove, e soccorre gli orfani, e tutti indistintamente coloro che han bisogno d'aiuto. Io sono di quest'ordine, caprai fratelli, ed aggradisco la cordiale accoglienza che faceste a me e al mio scudiere; e quantunque per legge naturale siano obbligati tutti i viventi a dar favore agli erranti cavalieri, tuttavia conoscendo io che voi, senza sapere tale obbligo vostro, mi avete sì cortesemente accolto e favorito; è ben giusto che vi manifesti nella miglior guisa ch'io sappia, il mio gradimento.”

Tutta questa lunga diceria (che poteasi molto bene intralasciare) fu proferita dal nostro cavaliere perché le ghiande che gli furono poste innanzi, gli fecero tornar in mente l'età dell'oro, e gli suggerirono di fare quell'inutile ragionamento ai caprai, i quali, senza mai aprir bocca, attoniti e meravigliati lo stettero ascoltando. Taceva anche Sancio, ma attendeva a ingollar ghiande, visitando il secondo otre ch'era sospeso ad un ramo di sughero, affinché il vino si conservasse più fresco. Terminò la cena prima che don Chisciotte avesse finito di ragionare, ed uno de' caprai si mise a dire: “Affinché la signoria vostra, signor cavaliere errante, possa raccontare con maggior fondamento che qui è stata accolta con tutto buon cuore, vogliamo darle trattenimento e piacere con farle udire il canto di un nostro compagno, che non tarderà molto a venire. Egli è giovane di buon giudizio e molto innamorato, e sopratutto sa leggere e scrivere, e suona il ribecchino sì bene, che più non si potrebbe desiderare.” Appena il capraio ebbe ciò detto, che s'udì suonare quello strumento, e di lì a poco giunse il suonatore, ed era un giovane di ventidue anni e di assai buona grazia. I compagni suoi gli domandarono se aveva cenato, e rispose che sì; laonde colui che già prima aveva parlato di lui, gli disse: “Dunque, Antonio, potrai compiacerti di cantare un poco, affinché questo nostro signor ospite vegga che si trova chi sa di musica anche tra i monti e le selve. Lo abbiamo informato della tua molta bravura, e desideriamo che tu gliene dia prova per non farci apparir menzogneri: ti prego per quanto sei buono a sederti ed a cantare la canzonetta degli Amori che compose il Benefiziato tuo zio, che piacque tanto in tutto il nostro paese.

— Oh volentieri,” rispose il giovane; e senza farsi pregare altrimenti, si mise a sedere sul tronco di una recisa quercia, ed accordato il suo ribecchino, cominciò di là a poco il suo canto con assai gentil grazia in questa guisa:

“Tu m'adori, Olalla, ed io mel so, benché tu non me l'abbia detto, nemmanco cogli occhi, mute lingue degli amori.

“Dacché scorsi che tu m'hai letto nel cuore, io confido che mi ami; però che amor conosciuto non fu mai infelice.

“Vero è bene che tu spesse volte mi desti indizio d'avere alma di bronzo e cuor di macigno nel bianco seno;

“Ma in mezzo alle ripulse ed agli onesti rimprocci, tal fiata anche la speranza mi ha pur mostrato il lembo della sua veste.

“E quindi a te costante si volge la mia fede, la quale né per austero contegno vien meno, né per gentilezza piglia baldanza.

“Ma se amore è cortesia, da quella che tu mi mostri io argomento quale debba essere il fine delle mie speranze.

“E se mai servitù può render benevolo un cuore, quella ch'io ti presto avvalora la mia fiducia.

“Tu certo vedendomi ti sarai accorta ch'io nei dì del lavoro spesse volte m'indosso l'abito della festa.

“Perocché sapendo che Amore e Gala vanno per uno stesso cammino, io ho voluto sempre apparirti pomposamente vestito.

“Taccio le danze fatte per te, e le canzoni che tu mi sentisti cantar la mattina quando cantano i galli.

“Taccio con quante lodi io celebrai la tua bellezza; le quali comunque veraci m'attiraron lo sdegno di alcune altre fanciulle.

“E la Teresa del Berocal un giorno mentr'io ti lodava mi disse: Tal pensa adorare un angelo e adora invece una scimmia;

“Illuso dai molti gioielli, dalle chiome posticce e da mentite bellezze che ingannano lo stesso Amore.

“Io la chiamai mentitrice; ed ella se ne adontò. Suo cugino levossi a difenderla, e già sai quello che l'uno e l'altro facemmo.

“Né l'amor ch'io ti porto è spensierato, né io t'amo con perversa intenzione.

“La Chiesa ha serici nodi da legar l'anime: piega il tuo collo a quel giogo, e vedrai s'io son presto a sottomettervi il mio.

“Ma se tu ricusi, io giuro pel mio santo benedetto di non uscir più di queste montagne se non per rendermi cappuccino.”

Così terminò il capraio il suo canto, e quantunque don Chisciotte lo pregasse di continuare, nol consentì Sancio Pancia come colui che aveva molto maggior voglia di dormire che di ascoltare canzoni. Disse perciò al suo padrone: “Oramai converrà che la signoria vostra stabilisca dove intende di passar questa notte, perché il lavoro a cui queste buone genti attendono tutto il giorno, non permette di passar la sera fra i canti. — Ah, ah, t'intendo, rispose don Chisciotte, e mi accorgo che le tue visite agli otri vogliono ricompensa di sonno più che di musica. — Non è cosa che dispiaccia ad alcuno, rispose Sancio; sia lodato il cielo. — Nol nego, replicò don Chisciotte, e prendi pure il tuo comodo; ma agli uomini della mia professione, meglio s'addice il vegliare che l'abbandonarsi al sonno; innanzi tutto però sarà bene medicarmi un'altra volta questo orecchio; che mi duol più che mai. Obbedì Sancio, e uno de' caprai vedendo la ferita, gli disse di non darsene pensiero, giacché gli applicherebbe un rimedio che facilmente lo guarirebbe. Prese infatti alcune foglie di ramerino, di cui vi era grand'abbondanza in quei monti, le masticò, e mischiatovi un po' di sale, gliene applicò all'orecchio, e lo fasciò con gran diligenza, accertandolo che non abbisognerebbe di altre medicine, e disse la verità.


CAPITOLO XII

 

DEL RACCONTO CHE FECE UN CAPRAIO A QUELLI CHE CONVERSAVANO CON DON CHISCIOTTE.

 

Stando in questi ragionamenti, giunse un altro garzone di quelli che soleano portar provvigioni dal villaggio; e disse ai caprai: “Sapete, o compagni, quello che v'è di nuovo nel paese? — Come vuoi tu che il sappiamo? rispose uno di loro. — Vi dirò dunque, proseguì il garzone, che morì stamane quel famoso pastore studente che si chiamava Grisostomo, e si bisbiglia sia morto per l'amore che portava a quella indiavolata ragazza di Marcella, figlia di Guglielmo il ricco, colei che va vestita da pastorella per queste balze. — Per Marcella, dicesti? soggiunse uno di loro. — Sì, per cagione di lei, riprese il capraio; e il peggio si è che col suo testamento ordinò di sotterrarlo come un Moro, in campagna, appié del monte dov'è situata la fontana del Sughero, perché ivi, a quanto si dice, Marcella fu da lui veduta la prima volta (ed affermano che lo dicesse egli stesso); altro ancora ordinò che gli abbati del luogo asseriscono non doversi eseguire, perocché odora di gentilità. Ma Ambrogio, quel suo grande amico che gli fu compagno studente e che al pari di lui si travestì da pastore, sostiene per lo contrario doversi eseguire compitamente ogni cosa a tenore delle ordinazioni di Grisostomo. Quindi tutta la popolazione è sossopra: ma per quello che se ne dice si farà poi quanto è voluto da Ambrogio e da tutti gli altri pastori suoi amici. Dimani lo vengono a seppellire con pompa nel luogo già detto; che sarà, senza dubbio, uno spettacolo commovente. Io per me non tralascerei d'andare a vederlo, quand'anche sapessi di non doverne ritornare la sera. — Noi tutti faremo lo stesso, dissero i caprai, e caveremo a sorte a cui tocchi di rimaner qui a custodire le capre. — Dici bene o Pietro, soggiunse uno di loro; ma non sarà necessario di ricorrere alla sorte, mentre io mi tratterrò qui guardiano per tutti; né lo attribuite a virtù, o a mia poca curiosità, giacché non mi permetterebbe di camminare quello spino che l'altro giorno mi si conficcò in questo piede. — Comunque sia, non lasciamo di essertene grati,” soggiunse Pietro.

Don Chisciotte pregò Pietro che gli dicesse chi fosse il giovane morto e chi la pastorella; e Pietro rispose che altro non ne sapeva se non che il morto era figliuolo di un idalgo assai ricco abitante di un borgo di quelle montagne, il quale dopo avere passati molti anni studiando in Salamanca erasi ripatriato con riputazione di aver molto imparato e letto moltissimo. Dicevano specialmente che possedesse la scienza delle stelle, e di ciò che fanno colassù in cielo il sole e la luna, perché ne prediceva puntualmente le crisi — Eclissi si chiama, e non crisi, l'oscurarsi di questi due lumi maggiori, disse don Chisciotte. Ma Pietro, che non la guardava così pel sottile, proseguì il suo racconto dicendo che indovinava anche quale sarebbe stato l'anno fertile e quale lo stileSterile, dovete dire, soggiunse ancora don Chisciotte. — Sterile o stile, rispose Pietro, è tutt'uno. Aggiungo che tali predizioni arricchirono assai suo padre e gli amici suoi che gli davano fede, perché seguivano i suoi consigli quando diceva: Seminate ceci in quest'anno e non orzo: quello che viene darà un'abbondante ricolta d'olio: non se ne raccoglierà una goccia sola nei tre seguenti. — Questa scienza chiamasi Astrologia, disse don Chisciotte. — Io non so come si chiami, replicò Pietro, mi è noto bensì che egli sapea tutto questo e assai più ancora. Finalmente non passarono molti mesi dopo il suo ritorno da Salamanca ed ecco che un bel dì egli comparve vestito da pastore, con verga e pelliccia invece degli abiti da studente che solea portare; e insieme con lui si vestì da pastore un altro suo grande amico, chiamato Ambrogio, già suo compagno di studi. Ma mi dimenticava di farvi sapere che il defunto Grisostomo fu molto valente in comporre canzoni, per modo che faceva laudi da cantarsi nella notte di Natale, e rappresentazioni per la festività del Corpus Domini, eseguite poi da' ragazzi del nostro paese; e si diceva che erano bellissime. Ricordami che quando gli abitanti del villaggio videro così in un subito travestiti da pastori que' due studenti, restarono meravigliati, non sapendo immaginare qual causa indotti gli avesse a cangiamento sì strano. Era già morto intanto il padre di Grisostomo, ed egli tra di mobile e di terreni, oltre non piccola quantità di bestiame e una somma considerabile di contante, si trovò erede di una buona sostanza. Di tutto ciò restò egli assoluto padrone: e in verità che meritava ogni bene, per essere fedel compagnone, caritatevole ed amico dei buoni: aveva inoltre una faccia come una benedizione. Si riseppe di poi non per altro aver lui mutato abito, che per seguitare a sua voglia in queste deserte campagne la pastorella Marcella, di cui lo sventurato Grisostomo s'era invaghito.

“Ora poi trovo a proposito di farvi anche sapere chi sia questa ribalda, di cui forse, anzi senza forse, non avrete sentito cosa più trista in tutto il tempo della vostra vita, benché foste vissuti più anni che non è vissuta la Sarna. Dite Sara, replicò don Chisciotte, non potendo soffrire le storpiature dei nomi che il capraio veniva facendo. — La Sarna, rispose Pietro, è più viva; ma se voi, signore, mi andrete interrompendo ad ogni passo, non la finiremo in un anno. — Perdonate, amico, disse don Chisciotte, io v'ho interrotto per la somma differenza che corre tra Sarna (rogna) e Sara, ma voi avete ragione dicendo ch'è più viva la Sarna che Sara: proseguite la vostra storia, che non interromperò più il discorso. — Dico dunque, mio signore amatissimo, soggiunse il capraio, che fu nella nostra terra un contadino ancora più ricco del padre di Grisostomo, che si chiamava Guglielmo, al quale il cielo oltre le molte ed ampie ricchezze, diede una figliuola, la cui madre, che fu una delle più onorate donne che si ritrovassero in questi contorni, morì nel metterla in luce. Mi pare di vederla tuttavia la donna con quella sua faccia, che da una parte pareva il sole e dall'altra la luna; ed era sopratutto buon'amica dei poverelli, donde io tengo per fermo che sia presentemente a godere nel cielo un'eterna felicità. Il dolore della morte di sì buona moglie condusse a morire anche il marito Guglielmo, lasciando Marcella bambina e ricchissima, sotto la custodia di un suo zio sacerdote e beneficiato della nostra terra. Crebbe la ragazza in tanta bellezza che ben ne facea ricordare di quella di sua madre ch'era pur molta: anzi pronosticavano che la figlia doveva superarla; e fu così veramente; perché giunta tra i quattordici e i quindici anni, chiunque la vedeva ringraziava Dio di averla creata sì bella, ed i più ne restavano presi e ne impazzavan d'amore. Suo zio la tenea custodita e appartata dal mondo; e nondimeno la fama della sua avvenenza si diffuse per modo, che tanto per questa, quanto per le sue grandi ricchezze, molti non solo dei nostri paesi, ma anche di luoghi lontani, e persone di grande stato, pregavano, sollecitavano e importunavano lo zio che loro la desse per moglie. Egli però (che era un buon cristiano davvero) tuttoché non avesse altro desiderio che di maritarla, come la vide pervenuta all'età conveniente, non volle pigliare veruna deliberazione senza averne prima il suo parere; lontano del tutto dal vagheggiar l'amministrazione del ricco suo patrimonio, e sdegnando di trarne alcun vantaggio coll'indugiare questo accasamento. Vi so dire, o signore, che questa era la voce comune a giusto encomio di quel buon sacerdote: e sappiate che in questi paesi piccoli si parla di tutto, e si fanno, occorrendo, dei giudizî temerari; di maniera che dovete essere certo quanto lo sono io medesimo, che quel religioso fosse di egregio carattere, poiché tutti credevano di dover dire bene di lui e specialmente quelli della campagna. — Quest'è vero, disse don Chisciotte, e tirate innanzi ché il racconto è interessante, e voi, buon Pietro, lo fate di assai buona grazia. — Non mi manchi il vostro compatimento, e quest'è quello che desidero.

“Sappiate dunque, che sebbene il buon zio facesse alla nipote l'offerta dei molti che la chiedevano in sposa e le facesse conoscere le buone qualità di ciascuno indistintamente, pregandola di eleggere quello che più le piacesse, null'altro rispondea la giovane se non che per allora non aveva intenzione di maritarsi; e che conoscendosi ancora giovane assai, non si tenea ancor tanto da poter sostenere i gravi pesi del matrimonio. Credendo a queste scuse, che in apparenza sembravano giuste, lasciava lo zio d'importunarla, sperando che coll'avanzare in età ella saprebbe poi scegliersi uno sposo di pieno suo gradimento. Diceva egli (a buon diritto il dicea) che i giovani non devono essere costretti dai genitori ad accasarsi contro lor grado. Ma intanto ecco all'improvviso, e quando meno altri l'avrebbe pensato, la schizzinosa Marcella divenuta solitaria pastorella, e, senza farne motto alcuno al tutore né a verun altro, per non esser disapprovata, darsi a vivere nella campagna con altre giovinette di questo paese, ed accignersi a guardare da sé stessa il suo bestiame. Quando ella si fece vedere da tutti, ed apparve pubblicamente la sua bellezza, non vi saprei dire quanti giovani cittadini e villani, preso il vestito di Grisostomo, le andassero dietro, e le dicessero amorose parole per queste campagne. Uno di costoro, come già vi ho detto, fu il nostro defunto, il quale, non che amarla, potea dirsi che l'adorasse. Niuno supponga che l'avvenente Marcella, per essersi data a quella vita libera e sciolta da ogni riguardo, si allontanasse per un momento da quanto esigono il più savio contegno e la più rigorosa onestà; ché anzi tale e tanta si è la custodia in che tiene sé stessa, che fra i molti che la vagheggiano e la importunano non fu mai chi siasi vantato, o chi possa ora vantarsi di avere avuto da lei la menoma speranza di conseguire i suoi desiderî. Perocché sebbene non fugga, né si sottragga alla compagnia e al conversare con i pastori, anzi li tratti con affabilità e gentilezza, tostoché le scoprono le loro benché giuste e oneste intenzioni di matrimonio, essa li allontana da sé un tratto di balestra. Questa sua condotta reca al nostro paese danno maggiore che se vi fosse entrata la pestilenza; perché la sua affabilità e bellezza costringe i cuori che le si affezionano a portarle servitù ed amore; ma i suoi rifiuti e il suo disinganno li conduce al partito della disperazione, né sanno che dirle se non chiamarla ad alta voce ingrata e crudele, con somiglianti altri nomi che fan testimonio della sua buona condotta. E se voi per avventura rimaneste qui, o signore, un qualche giorno, udireste risuonare queste valli dei lamenti di quelli che anche senza speranza le stanno d'attorno. Non è molto di qui lontano il luogo dove trovansi forse due dozzine di altissimi faggi, e non ve ne ha pur uno che non abbia inciso nella corteccia il nome di Marcella, e tale ve n'ha altresì che nella cima porta una corona intagliata nello stesso albero, volendo con ciò significare che Marcella è degna di essere incoronata sopra tutte le altre belle. Qua sospira un pastore, di là si lamenta un altro; da questo lato risuonano canzoni amorose, dall'altro elegie disperate; passa taluno la intiera notte appoggiato a qualche quercia o balza, dove poi senza chiudere gli occhi piangenti, si trova assorto ne' suoi pensieri la seguente mattina al levare del sole. Evvi tal altro che senza dar tregua o posa ai sospiri suoi innalza al pietoso cielo i lamenti, giacendo steso sopra l'ardente arena nel più cocente meriggio della state; e di questo e di quello, e di tutti insomma, libera e sciolta trionfa Marcella. Noi, che la conosciamo, stiamo a vedere a qual termine debba riuscire tanta sua alterezza e chi abbia ad essere quell'avventurato a cui riesca domare sì terribile orgoglio, e trionfar di una bellezza sì peregrina. Siccome non si può rivocare in dubbio tutto quello che vi ho narrato, così credo anche pienamente vero quanto riferì il nostro pastore intorno alla causa della morte del nostro Grisostomo. Vi consiglio per tanto, o signore, che non tralasciate d'intervenire domani a' suoi funerali che sarà uno spettacolo singolare, avendo Grisostomo avuto molti amici; né più di mezzo miglio di qua distante si è il luogo dove sarà sotterrato. — V'interverrò per certo, disse don Chisciotte, e vi ringrazio del diletto che mi procacciaste col racconto di avvenimento tanto curioso. — Eppure, replicò il capraio, io vi confesso di non conoscere nemmanco la metà dei casi occorsi agli amanti di Marcella: ma potrebb'essere che domani c'incontrassimo in qualche pastore che per disteso ce li raccontasse; intanto sarà bene che ve n'andiate a riposare al coperto, perché il dormire a ciel sereno potrebbe inasprirvi la ferita, sebbene la medicina applicatavi sia di tale efficacia da togliere ogni timore di verun sinistro accidente.”

Sancio Pancia, che già malediceva in suo cuore la diceria del capraio, eccitò a tutto suo potere il padrone perché si ritirasse nella capanna di Pietro. Vi si recò don Chisciotte, ma spese la maggior parte della notte nel pensare alla sua signora Dulcinea, imitando gli innamorati di Marcella. Sancio si coricò meglio che poté fra Ronzinante ed il giumento, e dormì non come un amante sventurato, ma come un uomo pesto da una furia di battiture.


CAPITOLO XIII

 

IN CUI SI FINISCE IL RACCONTO DELLE VICENDE DI MARCELLA CON ALTRI AVVENIMENTI.

 

 

Ma appena cominciò pei balconi d'oriente a spuntare il giorno, che cinque tra i sei caprai levatisi, furono a svegliar don Chisciotte, dicendogli che era tempo di andare a vedere il famoso funerale di Grisostomo, e ch'eglino gli sarebbero compagni di viaggio. Don Chisciotte che altro non bramava, levossi, ed ordinò subito a Sancio di sellar Ronzinante, e mettere la bardella al giumento. Sancio obbedì prontamente, e tutti si posero in via.

Non aveano camminato un quarto di lega quando all'attraversar d'un viottolo videro venire alla lor volta sei pastori vestiti con pelliccie nere, portando in testa una ghirlanda tessuta di cipresso e di oleandro. Teneva ognuno di essi in mano un grosso bastone di sorbo, e li seguitavano due gentiluomi a cavallo vestiti sfarzosamente da viaggio, con tre servitori a piedi. Quando furono insieme, reciprocamente si fecero cortesi saluti; domandaronsi a vicenda qual parte fossero diretti, e poiché tutti si avviavano al luogo del funerale, procedettero in numerosa compagnia. Uno di quelli che era a cavallo, parlando col suo compagno, disse: — Parmi, signor Vivaldo, che sarà bene impiegato il tempo che occuperemo in assistere a questo famoso mortorio; che tale sarà certamente considerando quello che ci hanno detto cotesti uomini delle tanto straordinarie cose toccanti sì il pastore defunto come la pastorella omicida. — Sono io pure dello stesso avviso, rispose Vivaldo, e vi assicuro che a tale oggetto consacrerei, occorrendo, ben quattro giorni non che uno solo. Domandò loro don Chisciotte che cosa aveano inteso dire di Marcella e di Grisostomo; e quel medesimo viaggiatore rispose che incontratisi quella mattina in alcuni pastori, e chiestili della cagione di quel funereo abbigliamento, uno di essi avea raccontata la stravaganza e la bellezza di una pastorella, nominata Marcella, e gli amori di molti che la vagheggiavano, con la morte di quel Grisostomo che recavansi a veder sotterrare. Infine, egli replicò il racconto fatto poco prima da Pietro a don Chisciotte.

Da questo passarono ad altro discorso, chiedendo colui che si chiamava Vivaldo a don Chisciotte, perché andasse armato a quella foggia in sì pacifica terra. A cui don Chisciotte rispose: “La professione a cui mi son dato non mi consente né mi permette di vestire altrimenti. Il passo agiato, i piaceri, il riposo son fatti soltanto pei delicati cortigiani; ma il travaglio, la inquietudine e l'arme s'inventarono e sono proprie di quelli che vengono chiamati dal mondo cavalieri erranti, dei quali io, benché indegno, sono il minore di tutti.” — Non lo ebbero appena sentito parlare in questo modo che lo tennero per uomo scemo; e per accertarsene maggiormente e conoscere il genere della sua pazzia, tornò a domandargli Vivaldo che cosa fosse un cavaliere errante.

“Non hanno le signorie loro, rispose don Chisciotte, letto mai gli annali e le storie di Inghilterra, che narrano le celebri imprese del re Arturo, comunemente nel nostro volgare castigliano chiamato il re Artus? il quale è tradizione universale in tutta la Gran Brettagna che non morì, ma che per arte magica fu convertito in corvo, e che risalendo col volger dei tempi sul trono riprenderà il suo scettro? E in prova di questo non si è mai dato il caso che nessun Inglese dopo di allora uccidesse un corvo. Al tempo dunque di questo buon re fu istituito quel famoso ordine di cavalleria, chiamato della Tavola rotonda, e vi accaddero, cosa vera, gli amori che si raccontano di don Lancillotto del Lago con la regina Ginevra, dei quali fu consapevole e mezzana quell'ornatissima matrona, chiamata donna Chintagnona. Nacque su tal fondamento quella canzone sì celebre, e cantata sì di frequente nella nostra Spagna:

 

Non fu al mondo cavaliere

Dalle dame tanto amato

Quanto il prode Lancillotto

Di Bretagna ritornato:


con quel sì dolce e soave progresso de' suoi amori e delle sue formidabili imprese. Da allora in qua si andò poi sempre più dilatando quell'ordine di cavalleria per diverse parti del mondo, e in esso si resero celebri e conosciuti per le loro gesta il valoroso Amadigi di Gaula con tutti i figli e nipoti suoi fino alla quinta generazione, ed il prode Felismarte d'Ircania, il non mai celebrato abbastanza Tirante il Bianco, e colui che quasi fino ai nostri giorni abbiamo veduto, trattato ed udito, l'invincibile e valente cavaliere don Belianigi di Grecia. Questo, o signori, è l'essere vero cavaliere errante, questo è l'ordine di cavalleria da me poc'anzi accennato, nella quale, come prima d'ora v'ho detto, io, benché peccatore, ho fatto la professione, e mi esercito allo stesso modo dei cavalieri soprannarrati. Io dunque me ne vado errando per queste solitudini e deserti in traccia di avventure, con deliberato animo di offrire il mio braccio e la mia persona ai cimenti più perigliosi che mi presenti la sorte per soccorrere i deboli, ed ognuno cui fia necessario il mio ministerio.”

Uditi tali ragionamenti, finirono di assicurarsi quei passeggeri che don Chisciotte era uscito dal senno, e conobbero il genere di follia che lo dominava, di che restarono meravigliati come accadeva a tutti coloro che per la prima volta se ne accorgevano. Vivaldo, come uomo di molto buon senso e faceto, per rallegrare il cammino che ancor rimaneva al sito del mortorio, diede eccitamento ai pazzi discorsi di don Chisciotte, dicendogli: “Sembrami, signor cavaliere errante, che vossignoria siasi dedicata ad una delle più rigorose professioni di tutto il mondo, e sono di avviso che non sia altrettanto stretta quella dei Certosini. — Ben potrebbe essere altrettanto stretta, rispose il nostro don Chisciotte; ma sono a due dita dal porre in dubbio s'ella sia altrettanto necessaria al mondo; perché, se debbo dire il vero, il soldato che eseguisce gli ordini del suo capitano non fa meno del capitano stesso il quale comanda: e voglio inferire che i religiosi con tutta pace e tranquillità implorano il cielo propizio alla terra: ma noi soldati e cavalieri, noi mettiamo in esecuzione ciò che essi domandan pregando, poiché difendiam la terra col valore delle nostre braccia e col filo delle nostre spade; né già in luogo chiuso, ma a cielo scoperto, esponendoci agli ardori più cocenti ed insoffribili della state, non meno che ai più rigidi geli del verno. Così possiamo chiamarci ministri di Dio qui in terra; e siamo le braccia per le quali si eseguisce la sua giustizia; e siccome le cose della guerra e quanto ha relazione con esse non possono effettuarsi se non con sudori, affanni ed eccessivi travagli, perciò ne segue che chi la professa si affatica senza confronto più di coloro che tranquilli e riposati pregano Dio di soccorrere chi è da poco e meschino. Non voglio dire, né mi passa pur pel pensiero, che sia meritoria egualmente la condizione del cavaliere errante, come quella del religioso claustrale; ma intendo concludere, per quel molto che soffro, che sia molto più travagliosa, affamata, assetata, piena di miserie, stracciata e pidocchiosa; mentre non v'ha dubbio, che i cavalieri erranti, i quali già furono, non abbiano passato in mezzo ai guai il corso della loro vita. E se alcuni giunsero a divenire imperadori mercé il valore del loro braccio, affé che lo guadagnarono a prezzo di sangue e di sudore, e se a quelli che salirono a sì alto grado fossero mancati incantatori e savii per prestar loro ogni aiuto, vi so ben dire che sarebbero rimasti defraudati nei loro desiderî ed ingannati a partito nelle loro speranze. — Sono della vostra opinione ancor'io, replicò il passaggero, ma una cosa che fra molte altre mi sembra mal fatta de' cavalieri erranti, si è che quando stanno per mettersi in qualche evidente pericolo della vita, sul punto più importante non si sovvengono mai di raccomandarsi a Dio, come dovrebbe pur fare ogni buon cristiano in simiglianti pericoli; ed invocano in cambio le loro signore con tanto fervore e con sì gran devozione come se fossero altrettante deità: cosa che a mio parere pizzica di gentilesimo. — Non può essere altrimenti, rispose don Chisciotte: e quel che diversamente operasse, sarebbe in mala ventura; mentre è pratica e costumanza dell'errante cavalleria che il cavaliere nel cimentarsi a qualche gran fatto d'arme debba tenersi presente la sua signora, a lei dolcemente e con amorosa intenzione rivolgere gli occhi, e a lei chiedere soccorso e favore nel dubbioso evento che va ad incontrare; e quand'anche non v'abbia chi lo ascolti, è almeno obbligato a proferire alcune parole fra i denti con le quali di tutto cuore se le raccomandi, di che abbiamo nelle storie innumerevoli esempi. Né perciò s'ha da intendere che debbano tralasciare di raccomandarsi a Dio, che resta loro tempo ed agio di farlo nel corso della ventura. — Ad onta di tutto questo, replicò il passaggero, mi resta uno scrupolo, ed è che sovente ho letto come vengano a parole fra loro due erranti cavalieri, e che d'una in un'altra si accendono, sbuffano, voltano i cavalli, pigliano il campo, e prima di venire a scontrarsi, alla metà della corsa si raccomandano alle loro signore; ciò che poi suole accadere in simili incontri si è che uno cade rovescione dal suo cavallo, passato fuor fuora dalla lancia nemica, e l'altro, se non s'attiene alla chioma, stramazza egli pure sul fatto. Ora, domando io, come poté quello ch'è morto trovar tempo da raccomandarsi a Dio in uno scontro tanto precipitoso? Sarebbe stato assai meglio che le parole indirizzate nella sua carriera alla signora, le avesse rivolte a chi è tenuto di volgerle ogni buon cristiano; tanto più ch'io mi penso che non tutti i cavalieri erranti abbiano signore alle quali raccomandarsi; perché non tutti saranno innamorati. — Ciò non può essere, rispose don Chisciotte, e ripeto che non può essere che siavi errante cavaliere senza la dama, mentre è sì proprio e naturale a loro di essere innamorati come al cielo di brillare di stelle: ed io sono sicurissimo che non vi ha notizia di alcun cavaliere errante senza amori: nel qual caso non sarebbe egli tenuto per legittimo cavaliere, ma per bastardo; e si direbbe che entrò nella fortezza della cavalleria, non per la porta, ma per le muraglie a guisa di ladro e d'assassino. — Eppure a fronte di tutto ciò, soggiunse il passaggero, sembrami, se male non mi ricordo, di aver letto che don Galaorre, fratello del valoroso don Amadigi di Gaula, non trovò donna a cui dichiarar sua signora ed a cui raccomandarsi, e non pertanto fu tenuto in gran conto, e meritò il grado e l'onore di celebre e valoroso cavaliere. Rispose don Chisciotte: “Signor mio, un fiore non fa primavera; e poi io so che segretamente era innamoratissimo, e per sopra più avea una naturale inclinazione ad amare tutte le donne che gli andavano a grado; ma in sostanza è poi provatissimo ch'egli ne ebbe una sola dominatrice della sua volontà, cui raccomandavasi bene spesso, e in gran segretezza, perché si pregiò di essere cavaliere segreto. — Se dunque è cosa essenziale, soggiunse l'altro, che ogni cavaliere errante sia innamorato, dobbiamo perciò concludere che lo sia pure la signoria vostra, come uno della professione; e s'ella non ambisce di essere tanto segreto quanto don Galaorre, la prego con ogni istanza, anche a nome di quanti sono in questa compagnia, che ci palesi il nome, la patria, la qualità e la bellezza della sua signora; la quale, senza dubbio, avrà caro che il mondo intero sappia ch'è amata e servita da un cavaliere di sì alta portata, come vostra signoria mostra di essere.” A questo punto don Chisciotte mandò un profondo sospiro e disse: “Io non posso affermare se alla mia dolce nemica piaccia o no che si sappia dal mondo ch'ella è da me servita; so dir solamente, rispondendo a quello di cui tanto caldamente son richiesto, che il suo nome è Dulcinea, la sua patria è il Toboso, villaggio della Mancia, e la sua condizione debb'esser per lo meno quella d'una principessa, essendo signora e regina mia; sovrumana poi è la sua bellezza, giacché sono veri e reali in lei tutti gl'impossibili e chimerici attributi della perfezione che i poeti attribuiscono alle loro amanti; e sono oro i capelli, è un eliso la fronte, archibaleni le ciglia, due soli gli occhi, rose le guancie, coralli i labbri, perle i denti, alabastro il collo, avorio le mani, neve la bianchezza...” — Il lignaggio, la prosapia, e l'origine desideriamo saperne, disse Vivaldo.” Al che don Chisciotte rispose: “Non è costei degli antichi Curzi, Cai, o Scipioni romani; né dei moderni Colonna e Orsini; né dei Moncada e Recheseni di Catalogna; né dei Rebelle e Viglianuova di Valenza, dei Palafox, Nuzze, Roccaberti, Coreglie, Lune, Magona, Urèe, Eoz e Guerree di Aragona; dei Zerde Maurichi, Mendoza e Guzmani di Castiglia, degli Alencastri, Paglie e Menossi di Portogallo; ma discende da quelli del Toboso della Mancia, lignaggio moderno bensì, ma pur tale da dar principio alle più illustri famiglie de' secoli avvenire. Né vi sia chi osi contraddirmi se non a patto di quello che Zerbino appié del trofeo delle armi d'Orlando scrisse in quei termini:

 

Nessun le muova,

Che star non possa con Orlando a prova.

 

— Sebbene il mio casato sia de' Caccioppini di Laredo, disse allora il passeggiero, non oserei di porlo a petto di quello del Toboso della Mancia, ad onta che mi sia ignoto interamente. — Come ignoto? replicò don Chisciotte.

Stavansene gli altri tutti ascoltando con somma attenzione questi discorsi in forza dei quali fino gli stessi caprai e pastori conobbero che il nostro don Chisciotte era pazzo dichiarato, il solo Sancio Pancia tenea per vero quanto dicevasi dal suo padrone, sapendo chi egli era, ed avendolo conosciuto fin dal suo nascere. Metteva tutt'al più qualche dubbio nel credere tante rare cose intorno alla bella Dulcinea del Toboso, mentre da che era al mondo, non aveva mai udito nominare una tal principessa, benché fosse vissuto sempre vicinissimo al Toboso.

Viaggiavano pertanto trattenendosi in questi colloqui allorché videro discendere dalla sommità di due alte montagne circa venti pastori, tutti vestiti con pellicce di lana nera, e coronati di ghirlande, che poi si conobbe essere di tiglio e di cipresso Sei di costoro portavano una bara coperta con fiori e con rami di varie sorta; ed uno de' caprai ciò vedendo si fece a dire: “Quelli che vengono da quella parte trasportano il corpo di Grisostomo, ed il sito dov'egli comandò di essere seppellito è alle falde di quella montagna.” Allora affrettaronsi tutti a raggiungerli, e arrivarono appunto quando quelli che venivano avevano deposta la bara e già quattro pastori con acuti picconi di ferro stavano scavando la sepoltura ai piedi dell'alpestre balza. Fecero gli uni agli altri cortese accoglimento, e mettendosi don Chisciotte coi suoi compagni ad esaminare la bara, vide in essa giacere coperto un corpo morto inghirlandato di fiori, in abito da pastore, dell'età, a quanto pareva, di trent'anni, e tuttoché morto, mostrava di avere avuto un bell'aspetto ed una gagliarda complessione. D'intorno a lui sulla bara stavano alquanti libri e molte carte aperte e suggellate.

Quelli che si trovavano presenti, come gli altri che stavano scavando la sepoltura, senza distrarsi dalle loro incombenze serbavano un maraviglioso silenzio, finché uno di quelli che aveva portato il defunto disse ad un altro: “Esamina bene, o Ambrogio, se questo è il sito indicato da Grisostomo, giacché bramo che si adempia con ogni esattezza quanto egli comandò col suo testamento.

— È appunto questo, rispose Ambrogio, avendomi qui lo sventurato amico raccontata parecchie volte la storia delle sue disgrazie. Qui, mi diceva, fu dove per la prima volta giunsi a vedere quella nemica del genere umano; qui le dichiarai per la prima volta la mia intenzione tanto onesta quanto il mio amore; e fu in questo luogo dove l'ultima volta Marcella disingannandolo, finì di metterlo alla disperazione, ond'è ch'egli pose fine alla dolorosa tragedia della infelice sua vita. Qui dunque in memoria di tante sventure amò egli di esser sotterrato nel seno dell'eterno oblìo. Volgendosi poscia a don Chisciotte ed ai passeggieri, proseguì dicendo: “Questa spoglia che state pietosamente mirando fu già albergo di un'anima in cui il cielo aveva posta gran parte di sue ricchezze; questo è il corpo di Grisostomo, che unico fu nell'ingegno, solo nella cortesia, inarrivabile nella gentilezza, fenice nell'amicizia, splendido senza misura, grave senza albagia, di allegro umore senza bassezza, e finalmente primo in tutto ciò che vi può essere di buono, e senza pari in tutto ciò che può darsi di sventurato. Amò e fu abborrito, adorando fu discacciato, porse voti a una fiera, percosse un marmo, corse dietro ad un'ombra, parlò a chi non voleva udirlo, si fece servo all'ingratitudine; e fu suo premio diventar preda della morte in mezzo al cammino della vita, rapitagli da una femmina ch'egli tentava di rendere così immortale nella memoria de' pastori, come ne farebbero prova queste carte che qui vedete, s'egli non m'avesse ingiunto di darle alle fiamme tostoché avrò posta sotterra la sua mortale spoglia.

— Voi sareste ben più crudele, disse Vivaldo, dello stesso loro signore se le abbruciaste, non essendo ragionevole l'eseguire i voleri di chi nei comandi suoi non serba ragionevolezza. Sarebbe stato da rimproverarsi Cesare Augusto se avesse consentito che fosse eseguita la volontà spiegata dal divin Mantovano nel suo testamento; perciò, o Ambrogio, giacché dovete pur dare il corpo dell'amico vostro alla terra, non vogliate abbandonare alla obblivione i suoi scritti: che s'egli ordinò come offeso, staria male. che voi obbediste come indiscreto. Nel preservare questi fogli voi renderete eterna la crudeltà di Marcella, e servirà di esempio ai posteri affinché evitino di cadere in simili disavventure. Io, e quanti qui siamo, già conosciamo la storia di questo amante, e vostro disperato amico; ci son noti i legami che a lui vi stringono, e palese ci è pure la causa della sua morte e la volontà da lui dichiarata nel terminare della vita. Dalla sua compassionevole storia si potrà conoscere a qual grado fosse giunta la crudeltà di Marcella, l'amore di Grisostomo, la grandezza della leale vostra amicizia, e qual fine possano attendersi quelli che si abbandonano ciecamente ai terribili funesti effetti di un amore non corrisposto. Pervenne ieri notte a nostra notizia la morte di Grisostomo, e che qui dovevasi sotterrarlo, e ciò mosse la nostra curiosità, e la compassione ci ha fatto torcere dal proposto sentiero per condurci a vedere co' nostri proprî occhi quanto, pur raccontato, ci era stato cagione di tanto cordoglio. In guiderdone pertanto di questa nostra afflizione, e del desiderio che avemmo di porgere rimedio a questa sciagura; vi preghiamo, o prudente Ambrogio, od almeno io ve ne supplico per parte mia che non si mandino alle fiamme queste carte, e se non altro, lasciate che una sola io ne conservi.” E senza attendere la risposta; allungò la mano, e prese alcuni di que' fogli che gli erano più da vicino.

Vedendo ciò Ambrogio, gli disse; “Consentirò per sola urbanità di lasciarvi, o signore, que' fogli che avete presi; ma ch'io tralasci di dare al fuoco gli altri che restano, me ne consigliate inutilmente.” Vivaldo che bramava di vedere il loro contenuto, ne aperse uno sul fatto, e ne lesse il titolo: Lamento di un disperato. Lo udì Ambrogio e disse: Quest'è l'ultimo scritto di quell'infelice; e perché sia conosciuto, signore, a qual segno erano giunte le sue disgrazie leggetelo ad alta voce, che ne avrete il tempo, mentre che noi attendiamo a scavare la sepoltura.

— Così farò ben volentieri, disse Vivaldo; e siccome gli astanti tutti avevano un ugual desiderio, se gli fecero attorno, ed egli a chiara voce lesse lo scritto che diceva così:


CAPITOLO XIV

 

DOVE SI RECITA LA DISPERATA CANZONE DELL' INFELICE PASTORE,
CON ALTRI INASPETTATI AVVENIMENTI.

 

CANZONE DI GRISOSTOMO.

 

“Poiché brami, o crudele, che si pubblichi di bocca in bocca e d'uno in altro paese l'eccesso del tuo acerbo rigore,

“Farò che lo stesso inferno comunichi al triste mio petto un suon di dolore che muti l'accento ordinario della mia voce.

“E pari al desiderio che ho di far manifesto il mio dolore e l'opere tue sarà l'accento della spaventevole mia voce, alla quale per maggior tormento seguiteranno anche i brani delle mie viscere.

“Ascolta pertanto e presta attento orecchio al suono, non già armonioso, ma aspro, che dal fondo del triste petto, mosso da cupo disinganno si esala per mio giusto sollievo e per tua confusione.

“Così il ruggir del leone, lo spaventoso ulular del lupo, il fischio terribile del serpente, l'orrendo grido di qualche mostro, l'auguroso gracchiar della cornacchia, il fracasso del vento che agita il mare, l'implacabile muggito del toro già vinto, il gemito lamentevole della vedova tortorella, il sinistro canto del gufo, e i tristi suoni di tutta la negra falange infernale,

“Escano fuori con la dolente mia anima commisti fra loro in tal suono, che tutti i sentimenti ne rimangano confusi; poiché a fare manifesto l'affanno che strazia, è bisogno di insoliti modi.

“A questi suoni così misti e confusi non faranno eco né le dorate sabbie del Tago, né gli uliveti del famoso Beti; bensì sulla cima delle alte roccie e dei profondi burroni si stenderanno i miei lamenti con morta lingua ma con vive parole;

“Ovvero in oscure valli o per aride piaggie prive d'ogni umana conversazione, e dove il sole non mostrò mai la sua luce, o fra la velenosa moltitudine di fiere che vivono nelle sterminate pianure.

“E mentre pei selvaggi deserti l'eco ripeterà i miei affanni e il tuo rigore, che non ha pari nel mondo, per qualche mercede alla breve mia vita s'andran diffondendo su tutta quanta la terra.

“Il dispregio uccide; il sospetto o vero falso abbatte la pazienza; la gelosia uccide con più forte rigore; una lunga assenza è grande pena; e contra il timore dell'oblìo non è scudo nessuna speranza di migliore destino.

“In tutto questo è certa inevitabile morte; ma io (inudito prodigio!), io vivo geloso, spregiato, assente e certo di quei sospetti che mi uccidono, e nell'obblìo dove si ravviva il mio fuoco.

“E in mezzo a sì gran numero di tormenti non giunge il mio sguardo a vedere pur l'ombra della speranza; né io disperato me ne do alcun pensiero; anzi per vivere sempre nel mio dolore, giuro di tenermi sempre lontano da lei.

“Potrebbe mai l'uomo nel tempo stesso sperare e temere? o sarìa dunque buon consiglio sperare mentre le cagioni di temere sono più che mai certe?

“Quando la dura gelosia mi sta dinanzi, potrei io forse chiudere gli occhi, mentre io la veggo a traverso di mille ferite aperte nell'anima mia?

“Chi non aprirebbe le porte alla disperazione quando vede scopertamente l'indifferenza altrui, e i sospetti (oh amaro convincimento!) convertiti in veri fatti, e la limpida verità cambiata in menzogna?

“O gelosia, fiera tiranna del regno d'amore, armami di ferro le mani, dammi, o dispregio, una corda. Ma ohimé! che con crudele vittoria la vostra rimembranza soverchia il mio patimento.

“Or finalmente io muoio, e per non avere alcuna speranza di felicità né in vita né in morte voglio persistere nei miei pensieri.

“Dirò che non s'inganna chiunque bene ama, e che quell'anima è libera sopra le altre, la quale è più schiava di amore.

“Dirò che la mia costante nemica ha l'anima bella al pari del corpo; che la sua indifferenza nasce da propria mia colpa, e che per mezzo dei mali a cui si sottopone, amore mantiene in pace il suo regno.

“Ed in questa opinione accelerando con un duro laccio il miserando passo a cui mi ha condotto la sua indifferenza, commetterò al vento il mio corpo e la mia anima senza alloro o palma di gloria avvenire.

“E tu che con tanta crudeltà fai evidente la cagione che mi sforza a gittar di tal modo l'aborrito mio vivere;

“Poiché questa profonda piaga del mio cuore apertamente ti mostra com'io m'offerisco lieto al tuo rigore:

“Se mai per caso tu mi giudichi degno che il chiaro cielo dei tuoi begli occhi nella mia morte si turbi, nol lasciare che ciò accada, io te ne prego; né cerco che tu mi dia verun compenso per queste spoglie dell'anima mia.

“Anzi nel funesto momento il tuo riso faccia conoscere che tu della mia morte ti allegri. Se non che è troppa semplicità il porgere a te questo consiglio, mentre so che tu ti fai gloria di accelerare il fine della mia vita.

“Sorga dunque, che già n'è tempo, dal profondo abisso Tantalo colla sua sete, sorga Sisifo coll'immane peso del suo macigno, Tizio conduca il suo avoltoio, né Issione qui manchi colla sua ruota, né le cinquanta sorelle intente alla perpetua loro fatica;

“E tutti insieme riversino il loro mortale supplizio nel mio petto, e con bassa voce (se tanto s'aspetta a chi muor disperato) cantino triste esequie e dolorose a questo mio corpo a cui sarà negato anche il mortorio.

“E il triforme custode dell'inferno con mille altre chimere e mille mostri facciano un doloroso accompagnamento; perocché non mi pare che veruna altra pompa convenga meglio di questa a chi muor per amore.

“E tu, disperata canzone, non prorompere in pianto abbandonando la mia lugubre compagnia; anzi, poiché la cagione d'onde nascesti colla mia sventura aumenta la sua felicità, fa di non esser triste nemmeno nella sepoltura.”

Piacque sommamente a tutti la canzone di Grisostomo, benché quello da cui fu letta dicesse che non gli sembrava concorde con quanto gli avevano raccontato della modestia e bontà di Marcella, mentre Grisostomo nella sua canzone si querelava di gelosie, di sospetti e di assenza, ciò che tornava a pregiudizio del buon nome della giovane. Ambrogio, come colui che era stato a parte dei più reconditi pensieri del suo amico, rispose: “A cancellar questo dubbio sappiate che quando fu scritta la canzone da questo infelice, trovavasi egli lontano da Marcella, la quale a bella posta erasi allontanata da lui per vedere se l'assenza potesse guarirlo. E siccome tutto reca afflizione ad un amante lontano, perciò si tormentava Grisostomo con sognate gelosie, e teneva gl'immaginarii sospetti come verità indubitate; egli è d'altra parte verissimo quanto si dice comunemente della bontà di Marcella; che dalli essere un po' crudele ed arrogante in fuori, di niun'altra colpa potrebbe tacciarla la stessa invidia. — Così è,” rispose Vivaldo; e mentre stavasi egli per leggere un altro de' fogli sottratto alle fiamme, ne venne distolto da una meravigliosa visione (che tale gli parve) e fu questa: che dalla sommità di quella montagna, appié della quale si stava scavando la sepoltura, compârve la giovine Marcella adorna di sì grande bellezza da avanzarne di gran lunga la fama. Quelli che fin allora non la avevano veduta, la stavano osservando con ammirazione e silenzio, e gli altri che erano accostumati ad averla sott'occhio, restaron eglino pure sì meravigliati come se la vedessero allora per la prima volta. Ambrogio tosto che la riconobbe, con segni di animo irritato le disse: “Vieni forse a vedere, o fiero basilisco di queste montagne, se al tuo apparire versino sangue le ferite di questo miserabile a cui la tua crudeltà tolse la vita? o ti rechi tu qui ad insuperbirti per la riuscita delle tue detestabili imprese? oppur a bearti, nuovo spietato Nerone, da quell'altura nell'incendio della divampante sua Roma, ed a calpestar temeraria questo sfortunato cadavere, come la ingrata figlia quello di Tarquinio suo padre? Dichiara, orsù, senza ritardo qual fine qui ti conduce, o quello che di più tu ti compiaci; che sapend'io come Grisostomo non tralasciò mai di obbedirti ciecamente vivendo, farò che anche in morte ti obbediscano quelli che si vantarono d'essergli amici. — Qua non mi conduce, o Ambrogio, veruno dei fini da te immaginati, rispose Marcella, ma la sola mia determinata volontà di far conoscere a ognuno quanto a torto io sia incolpata della disperazione e della morte di Grisostomo. Prego dunque quanti qui stanno di prestarmi attenzione, che non mi sarà d'uopo d'impiegare gran tempo, né di spendere molte parole, a far sì che chiunque ha buon senso si persuada della verità che esporrò.

“M'impartì il cielo, a detto vostro, bellezza tanto singolare che vi trovate costretti, anche a vostro malgrado, di dovermi amare; e sostenete ch'io perciò sono in dovere di ricambiarvi con altrettanto affetto. Il naturale mio intendimento mi persuade che amabile è tutto il bello, ma non trovo però che ne venga di conseguenza che l'oggetto amato debba amare chi l'ama; e tanto più che potrebbe accadere che l'amatore del bello fosse brutto, ond'è che toccando al brutto d'essere abborrito cade male in acconcio il dire: Ti amo perché sei bella, e tu devi amar me benché brutto. Ma posto anche il caso che dall'una all'altra parte v'abbia uguale bellezza, non è per questo ch'eguale debba essere in ambedue la inclinazione, perché tutte le bellezze non innamorano, e talune piacciano a vederle, ma non legano la volontà. Che se le bellezze tutte innamorassero e incatenassero, si troverebbero confuse e fuor di sentiero le volontà, non sapendo a quale specialmente applicarsi. Perché essendo innumerabili gli oggetti adorni di bellezza, infiniti sarebbero eziandio i desiderî; ed, a quanto ho inteso dire, il vero amore si concentra in un solo oggetto, e nasce da libera volontà, non da violenza. Ciò essendo (come io pure credo che sia), perché volete ch'io pieghi a forza la volontà mia per questo solo che voi dite d'amarmi? Rispondetemi. Se in luogo di crearmi bella m'avesse il cielo fatta nascere brutta, sarebb'egli stato giusto che io mi fossi doluta di voi che certamente non mi avreste amata? Oh quanto vi starebbe bene il considerare che io non mi sono fatta bella da per me stessa, e che qualunque siasi la bellezza mia, è il cielo che me l'ha data in dono, senza che io l'abbia o chiesta o voluta! E siccome non può accusarsi la vipera del veleno che porta seco, benché con quello uccida, perché lo ha dalla natura, così nemmen io merito di esser censurata per esser bella, mentre la bellezza è nell'onesta femmina come fuoco lontano, o come spada remota, che né quello abbrucia, né questa ferisce chi non s'accosta. L'onore e la virtù sono gli ornamenti dell'anima, senza de' quali il corpo, benché sia avvenente non deve però sembrar tale; e se l'onestà è una delle virtù che più adornano e abbelliscono l'anima e la persona, perché mai dovrà spogliarsene una giovane amata a cagione della sua bellezza, per secondare la inclinazione di colui che procura di farle perdere sì pregievole qualità? Io nacqui libera, e per vivere tale ho scelto la solitudine della campagna; gli alberi di questi boschi sono i compagni miei; mio specchio le chiare acque di questi rivi, e mi contento di comunicare agli alberi ed alle acque i miei pensieri: fate conto ch'io sia fuoco lontano, e spada rimota. Ho disingannati colle mie parole quelli che innamorai con la vista: e se è vero che i desiderî alimentansi di speranze, non avendone io data mai nessuna né a Grisostomo, né a verun altro, ben si può dire che non fu la crudeltà mia quella che gli ha perduti ma la loro ostinazione. Se poi qualcuno volesse imputarmi che oneste erano le inclinazioni di lui, e che perciò io fossi obbligata di corrispondergli, dichiaro che quando in questo sito medesimo, dove ora state scavando il suo sepolcro, mi scoprì la rettitudine delle sue intenzioni, io gli risposi che ero deliberata di vivere in una perpetua solitudine, e che la sola terra cogliesse il frutto delle conversazioni e le spoglie della mia bellezza. Che se, adonta di sì chiaro disinganno, gli piacque ostinarsi contro la speranza, navigar contro il vento, qual meraviglia ch'egli sia naufragato nel golfo della sua imprudenza? Se io lo avessi tenuto a parole sarei stata falsa: se avessi accondisceso a' suoi voleri avrei mancato al migliore mio divisamento. Egli disingannato ostinossi, e senza essere odiato si diede alla disperazione. Vedete per tanto se sarebbe ragionevole l'incolparmi di quanto egli sofferse. Si dolga chi fu ingannato; si disperi colui che si trovò deluso nelle promesse speranze; mi accusi chi può dire di essere stato sedotto da me; ma nessuno mi dica crudele né micidiale di un uomo cui nulla ho promesso, che da me non fu mai ingannato, né ebbe mai accoglimenti e carezze. Non volle finora Iddio rendermi amante per destino, ed io sarò sempre scusata se amar non voglio per elezione. Serva questa lezione di disinganno a tutti coloro che mi vanno sollecitando ad amarli, e sappiano che se alcuno per me avesse a morire, non morrà per colpa di gelosia o di disprezzo; mentre chi non ama veruno non può dar gelosia a veruno, e non debbono i disinganni tenersi in conto di sdegni o disprezzi. Chi trova in me una fiera, un basilisco, un essere pregiudizievole e tristo; chi mi chiama ingrata, non mi serva, non mi segua chi mi tien per crudele; perché questa crudele, questa sconoscente, questa ingrata, questo basilisco non li chiamerà, non cercherà mai di loro, né amerà mai d'averli vicino. Che se Grisostomo cadde vittima della sua intolleranza e del suo sconsigliato amore, perché ho io ad essere incolpata di un procedere che non declinò punto né poco dalla onestà e dal riguardo? Se io conservo fra queste romite piante la mia purità, qual ragione ha mai di dolersi chi vorrebbe che io la perdessi conversando cogli uomini? Io, come sapete, ho ricchezze mie proprie, né bramo quelle degli altri: libera è la mia condizione, e non voglio rendermi soggetta a chicchesia: non amo, né odio alcuno; non inganno questo, né istigo quello; non burlo uno, né mi do buon tempo con l'altro; l'onesta conversazione con le abitatrici di queste selve, e la custodia delle mie capre formano il soggetto dei miei passatempi; tra questi dirupi si confinano i miei desiderî e se da essi si allontanano, non fanno che per contemplare la bellezza del cielo: cose tutte che guidano l'anima alla felicità cui unicamente anela.”

Nel profferire queste ultime parole senz'attendere o udire risposta alcuna, volse a tutti le spalle, e si cacciò nel più folto d'una selva alla cima di un monte, lasciando stupiti tutti, tanto dalla saviezza del ragionamento quanto dalla bellezza che l'adornava. Alcuni feriti dagli strali de' suoi begli occhi mostravano di volerla seguitare rifiutando di mettere a profitto quel disinganno che avevano udito: ma don Chisciotte che se ne avvide, sembrandogli che fosse questa un'occasione di mettere in campo la sua cavalleria soccorrendo le donzelle che ne han d'uopo, posta la mano sull'impugnatura della sua spada disse con voce alta e ben intesa dai circostanti: “Non vi sia persona (qualunque possa essere il suo stato e la sua condizione,) che ardisca di tener dietro alla vezzosa Marcella, o sappia che incontrerà il furibondo mio sdegno. Essa provò abbastanza con chiare ragioni, che poca o nessuna colpa se le può dar per la morte di Grisostomo, e che è affatto aliena dal condiscendere alle brame di veruno dei suoi amanti; e perciò trovo giusto, che invece di essere inseguita o perseguitata le sia dovuto onore ed estimazione da tutti i buoni di questo mondo, nel quale essa sola oramai fa professione di sì onesti principî”

O fosse per le minacce di don Chisciotte, o perché Ambrogio raccomandò allora che si compiesse l'ufficio funebre all'amico, nessuno de' pastori si mosse, né di là si tolse prima che, scavato il sepolcro e abbruciate le carte di Grisostomo, avessero sotterrato il suo corpo non senza larghissimo pianto. Chiusero la sepoltura con un grosso sasso, fin tanto che fosse pronto il marmo che, a quanto disse Ambrogio, stavasi lavorando, e sopra il quale dovea leggersi il seguente epitaffio:

“Giace qui la misera e fredda spoglia d'un amante che fu pastore d'armenti e finì per colpa d'amore.

“Egli morì sotto i colpi di una bella schifiltosa ed ingrata per la quale amore va ampliando il suo imperio.”

Furono poi sparsi sopra la sepoltura fiori e ramoscelli di varie piante, e, dato sfogo alla condoglianza coll'amico Ambrogio, di là si partirono. Lo stesso fecero Vivaldo e il suo compagno; e don Chisciotte si divise da' suoi ospiti e dai passeggieri, i quali però lo pregarono di andar con loro sino a Siviglia, perché in ogni strada e quasi in ogni angolo avrebbe potuto trovar avventure piucché in verun altro paese. Don Chisciotte rese grazie all'avvertimento, e si mostrò obbligato della buona volontà che avevano di favorirlo; ma soggiunse che per allora né potea né dovea recarsi a Siviglia, mentre era suo debito di snidare da quelle montagne tutti gli assassini de' quali correa voce che fossero piene zeppe. Persuasi di questa sua eroica risoluzione, non lo importunarono di vantaggio, ma preso da lui nuovamente commiato lo lasciarono e proseguirono il loro viaggio, ragionando tuttavia sulla storia di Marcella e di Grisostomo, siccome ancora sulle pazzie di don Chisciotte. Questi intanto, mosso in traccia di Marcella, voleva esibirsi intieramente a' suoi servigi, ma non poté poi eseguire questo suo disegno, secondoché nella continuazione di questa verace storia trovasi scritto.


CAPITOLO XV

 

SI NARRA LA DISGRAZIATA AVVENTURA DI DON CHISCIOTTE CON CERTI IMBESTIALITI IANGUESI.

 

Lasciò scritto il savio Cide Hamete Ben-Engeli che quando don Chisciotte si divise dagli ospiti suoi e dagli altri tutti che furono presenti alla sepoltura di Grisostomo, egli ed il suo scudiere s'internarono nel bosco medesimo in cui videro entrare Marcella, e dopo averla ben due ore per ogni dove cercata senza poterla rinvenire, si trovarono in un prato di molle erbetta, sul quale scorreva un ruscello fresco e piacevole tanto, che loro fu forza di trattenersi colà nelle ore del mezzogiorno. Smontarono don Chisciotte e Sancio, e lasciando il giumento e Ronzinante a libero pascolo per il prato, votarono le bisacce, e senza complimenti e in fratellevole compagnia padrone e servitore diedero fondo a quel poco che in esse trovarono. Non si era curato Sancio di mettere le pastoie a Ronzinante, conoscendolo sì mansueto e nemico delle brighe da non pigliarsi fastidi di tutte le cavalle che mai potessero essere ne' pascoli di Cordova. Ma l'avversa fortuna e il demonio che sempre non dorme, volle che fosser allora in quella valle un branco di chinee di Galizia appartenenti a certi Ianguesi, che usano fermarsi a meriggiare quietamente in quei luoghi ove le erbe e le acque offrono alle loro bestie nutrimento e fresco opportuno; e tale appunto era il sito dove allora trovavasi don Chisciotte. Avvenne dunque, che saltò il grillo a Ronzinante di pascolare con le signore chinee, e subito che le fiutò, cambiando il naturale suo passo e costume, senza torsi licenza dal suo padrone, prese un trotto grazioso verso di loro: ma ne fu accolto a calci e morsicature, per modo che di lì a non molto gli fecero cadere la sella: ed il peggio fu poi che i vetturali avendo veduta la violenza con cui Ronzinante s'era cacciato tra le loro chinee, accorsero coi bastoni ed a furia di percosse lo distesero a terra tutto malconcio. Don Chisciotte e Sancio che videro malmenar così Ronzinante, frettolosi ed ansanti lo raggiunsero e don Chisciotte disse a Sancio: “Non mi pare, amico Sancio, che costoro abbian aspetto di cavalieri, ma di bassa gente e di razza assai trista: e questo ti dico affinché sappi che tu puoi aiutarmi a far la dovuta vendetta del torto usato a Ronzinante sotto ai propri nostri occhi. — Che diamine di vendetta possiamo noi fare, rispose Sancio mentre coloro sono più di venti, e noi siamo due soli, o forse uno e mezzo al più? — Io valgo per cento, replicò don Chisciotte: e senz'altro dire cacciò mano alla spada, e andò alla volta di quei Ianguesi; e Sancio fece lo stesso, mosso dall'esempio del suo padrone. Alla bella prima don Chisciotte colpì uno di loro in maniera che gli forò un casaccone di cuoio che indossava, gli squarciò quasi la metà di una spalla. Quella gente che si vide così maltrattare da quei due uomini soli, essendo eglino in sì in gran numero, dieder di piglio alle loro stanghe, e avendoli circondati, cominciarono con gran furia a riveder loro le costole. Alla seconda bastonata Sancio precipitò, e dopo lui don Chisciotte, né gli valse destrezza o coraggio; e manco male ch'egli cadde appié di Ronzinante, il quale non s'era per anche rizzato: dal che si vede che brutta riuscita fanno le stanghe in mani villane e arrabbiate. Accorgendosi i Ianguesi della brutal opera da loro commessa caricaron le bestie colla grande celerità, e proseguirono la loro strada lasciando i due venturieri al partito più tristo che dir si possa. Il primo a risentirsi fu Sancio Pancia, che trovandosi vicino al suo signore, con voce ammalata e dogliosa gli disse: “Signor don Chisciotte! ahi signor don Chisciotte! — Che vuoi tu, Sancio fratello mio? rispondeva don Chisciotte con voce parimenti debole e addolorata. — Bramerei, se fosse possibile, disse Sancio Pancia, che vossignoria mi desse due sorsi di quella bibita di Fleo Blas se ne ha qui alla mano che potrebbe forse essere tanto buona per le ossa peste come per le ferite. — Ah tapino di me! se qui l'avessi, che ci mancherebbe adesso per guarire? rispose don Chisciotte. Io ti giuro, o Sancio in parola di cavaliere errante, che non passeranno due giorni, se altrimenti non dispone la sorte, che ne avrò in abbondanza, o ch'io non potrò più valermi delle mie mani. — E quando crede vossignoria, replicò Sancio Pancia, che potremo valerci dei piedi? — Altro non so dirti, rispose il macinato cavaliere, se non che non saprei stabilire il numero dei giorni; ma debbo ascrivere ogni cosa a mia colpa; perché io non dovea metter mano alla spada contro uomini che non erano cavalieri al pari di me. Tengo per fermo che in pena d'aver contravvenuto alle leggi della cavalleria, abbia permesso il nume delle battaglie che mi arrivasse un tale castigo; ma ora tu devi, fratello Sancio, stare avvertito su ciò che sono per dirti, perché è così importante per la salute di entrambi. Quando il torto ci sarà fatto da simigliante canaglia, non aspettarti mai ch'io metta mano alla spada contro di loro, perché nol farò in modo alcuno, ma impugna la tua spada, e gastigali a tuo talento; e se poi sopraggiungessero cavalieri in loro aiuto e difesa, allora accorrerò io, e li offenderò con ogni mia possa, che già avrai veduto mille segni e per mille esperienze fin dove s'estende il valore di questo forte mio braccio.” (Egli era prosontuoso per la vittoria riportata sopra il valente Biscaino). A Sancio non piacque veramente il consiglio del suo padrone e perciò non si astenne da replicare: “Signore, io son uomo pacifico, riposato, prudente, e so dissimulare qualunque ingiuria, poiché ho moglie e figliuoli da mantenere e da educare; e d'ora innanzi sia per sempre avvisata la signoria vostra a cui non posso far comando, che non porrò mano alla spada per verun modo né contro a villano né contro a cavaliere; e giuro al cielo, che da qui in avanti perdono quante offese mi furono o mi saranno fatte e quelle che già ricevetti e che sarò per ricevere da persona alta o bassa, ricca o povera, cittadina o plebea, senza eccettuare stato e condizione di sorta alcuna.”

Come don Chisciotte ciò intese, rispose: “Oh quanto pagherei di poter parlare un po' riposato, e che mi si mitigasse il dolore di questa costola tanto quanto bastar potesse, o Pancia, per farti conoscere il tuo errore! Senti sempliciotto: se il vento della fortuna, avverso finora, voltandosi in nostro favore, soffiasse nella vela del nostro desiderio, sicché potessimo senza opposizione di sorta prender porto in alcuna delle isole che ti ho promesso, che saria di te, qualora dopo averla conquistata io te ne facessi assoluto signore; e tu te ne rendessi indegno per non essere cavaliere, e per non amare di esserlo, e non aver valore o l'intenzione di vendicare i tuoi torti e difendere il tuo dominio? Perocché devi sapere che nei regni e nelle provincie di nuova conquista gli animi dei nazionali non sono mai tanto tranquilli né tanto affezionati al novello dominatore, che non gli resti sospetto, di qualche congiura diretta ad alterar di nuovo le cose od a rimettere in piedi quelli di prima. Rendesi dunque necessario, che il nuovo possessore abbia senno acconcio a saper governare, e valore per offendere e per difendersi in qualunque occasione. — Vorrei avere avuto quel buon giudizio, rispose Sancio, e quella bravura descritta da vostra signoria nel fatto che ci è occorso presentemente; ma le giuro da povero diavolo che sono, che ho più bisogno di empiastri che di ragionamenti. Tenti vossignoria, se può, di rialzarsi e aiuteremo Ronzinante, benché non lo meriti, per essere stato egli la causa principale di tutta questa rovina. — Ah! sclamò don Chisciotte, non avrei mai pensato questo di Ronzinante; lo ebbi sempre in conto di persona morigerata e pacifica al pari di me; si suol dire pur bene che a conoscer uno ci vuole gran tempo, e che in questa vita non avvi cosa sicura. — Chi avrebbe mai detto, soggiunse Sancio, che a quei colpi di spada dati dalla signoria vostra a quello sventurato passeggero, dovesse tener dietro per la posta una sì terribile tempesta di bastonate qual fu quella che si scaricò sopra le nostre spalle? — Le tue possono essere avvezze a simiglianti burrasche, replicò don Chisciotte, ma alle mie, cresciute nella bambagia e nella tela d'Olanda, è ben evidente che debba riuscire senza paragone più dolorosa questa disgrazia; e se non fosse perché mi figuro... che dico mai mi figuro? perché sono certissimo che tutti questi malanni vanno uniti indispensabilmente all'esercizio delle armi, credo sicuramente che io ne morrei qui di rabbia e di veleno.” A questo replicò lo scudiere: — Se tali disavventure sono proprie della cavalleria, favorisca ella dirmi se vengono spesso spesso, oppure se hanno certi tempi determinati; perché (a quanto vedo) dopo due di queste avventure, noi non saremmo al caso di sostenere la terza a meno che il signore, per sua divina misericordia, non ci soccorra validamente. — Sappi, amico Sancio, replicò don Chisciotte, che la vita dei cavalieri erranti va soggetta a mille pericoli ed infortunii; ma eglino sono poi anche sempre nella possibilità di diventar re, imperatori, come si vede molti, la storia dei quali è a piena mia cognizione. Potrei qui farti minuto racconto (se mi venisse un po' meno il dolore) di alcuni che unicamente pel valore del braccio salirono agli alti gradi che ti ho detto, benché siansi trovati e prima e poi in diverse afflizioni e miserie. Ti sia d'esempio il valoroso Amadigi di Gaula, che si vide in potere del suo mortale nemico Arcalao, l'incantatore, da cui si crede che mentre n'era prigione ricevesse, legato ad una colonna in un cortile, più di dugento frustate con le redini del suo cavallo. Avvi un anonimo accreditato non poco, il quale racconta che essendo preso il cavaliere di Febo, mediante un trabocchetto che si sprofondò sotto a' suoi piedi in un certo castello, trovossi nel cadere in una profonda buca sotterra con piè e mani legate, e quivi gli fu applicato un serviziale di acqua gelata con rena, che ne stette quasi per morire; e ciò sarebbe avvenuto se non fosse stato soccorso in tempo da un gran savio suo amico. Posso dunque ancor io, se tanto sofferse gente di sì gran merito, tollerare i torti che testé ci vennero fatti, mentre quelli da tali altri patiti furono molto più gravi. E devi sapere, o Sancio, che l'uomo non è punto disonorato, quando altri lo ferisce con istrumenti che vengono causalmente alle mani; come si può vedere nel codice dei duelli, dove con espresse parole sta scritto: che se il calzolaio colpisce un altro con la forma che tiene in mano benché sia di fatto ch'essa è di legno, non per questo si può dire che sia stato bastonato colui che ne rimase colpito. Ciò ti dico affinché tu non creda che per essere noi rimasti fracassati e malconci nella passata scaramuccia, ci sia stato usato un affronto; perché le arme che avevano con loro quegli uomini, e colle quali ci han macinati, erano alla fin fine le loro stanghe, e nessuno, ch'io mi ricordi, avea stocco, spada o pugnale. — A me non diedero tempo di fare tanti esami, rispose Sancio, perché ebbi appena posto mano alla mia tizona, ed essi mi sventolarono le spalle coi loro bastoni per modo che mi levarono la vista dagli occhi e la forza dai piedi, e mi stramazzarono qui dove sono tuttora, e dove non mi dà alcun fastidio il pensare se fu affronto o no l'essere bastonato, bensì il dolore delle percosse che mi restano tanto stampate nella memoria quanto nelle spalle. — Hai con tutto questo da sapere, fratello Pancia, replicò don Chisciotte, che non v'è reminiscenza la quale non venga cancellata dal tempo, né dolore a cui la morte non metta fine. — E qual maggiore sventura, replicò Pancia, di quella che ha bisogno del tempo per essere cancellata dalla memoria, o della morte per esser tolta? Se la presente nostra disgrazia fosse di quelle che si guariscono con qualche poco di empiastro, non vi saria tanto male; ma io vado pensando che non basteranno gli empiastri di un intiero spedale al nostro risanamento. — Non ti affliggere per questo, ma tenta, Sancio mio, di vincere la sventura, ch'io pure farò lo stesso; e vediamo intanto come sta Ronzinante; che, a quanto mi sembra, non toccò al poveretto la parte minore di questa nostra disavventura. — Di lui non mi meraviglio rispose Sancio, essendo egli pure cavaliere errante mi meraviglio bene che il mio asino l'abbia scappata colle costole sane, quando noi l'abbiamo finita colle costole rotte. — La ventura lascia sempre un uscio aperto al rimedio nelle disgrazie, disse don Chisciotte; e voglio con ciò inferire che questa bestiuola potrà per ora fare le veci di Ronzinante, portandomi di qua fino a qualche castello dove curare le mie ferite. Né io mi recherò a disonore l'usare di tale cavalcatura, avendo letto che quel buon vecchio Sileno, aio e pedagogo del giovane Dio della letizia, quando entrò nella città delle cento porte se n'andava a proprio talento, cavalcando un bellissimo asino. — Sarà vero, disse Sancio, ch'egli se n'andasse come dice vossignoria, ma passa una gran differenza dal cavalcare un asino allo starvi sopra come un sacco di cenci.” E don Chisciotte: — Le ferite che si ricevono nelle battaglie recano più onore che vergogna; perciò amico Pancia, non replicar oltre, ma, come ti ho detto poc'anzi, alzati il meglio che puoi, stendimi nella maniera che ti sembra più acconcia attraverso del tuo giumento, e partiamci da questo luogo prima che ci colga la notte, e ci vengano ad assassinare in questo deserto. — Eppure io intesi dire da vostra signoria, replicò Pancia, che è proprio de' cavalieri erranti il dormire in boscaglie e in deserti per la maggior parte dell'anno, e che se lo recano a gran ventura. — Ciò avviene, disse don Chisciotte, quando non possono fare diversamente, o quando sono innamorati: e questo è tanto vero, che vi fu un cavaliere il quale se ne stette sopra una balza esposto alla sferza del sole, all'ombra, ed alle inclemenze del cielo per due anni interi senza saputa della sua signora: ed uno di questi fu Amadigi quando facendosi chiamare Beltenebro, si mise a stare nella balza di Pegnapobre, non so se ott'anni od otto mesi, che di ciò non mi sovviene precisamente; fatto sta ch'egli vi dimorò, facendo la penitenza di non so quale rabbuffo avuto dalla signora Oriana. Ma lasciamo questo da parte, ed allestisci il giumento e Ronzinante, prima che altro ci avvenga di male.

— Non ci mancherebbe altro, soggiunse Sancio; e prorompendo con trenta ahi, con sessanta sospiri, e con cento e venti invettive ed imprecazioni contro chi a tale lo aveva condotto, si alzò, ma rimase alla metà dell'impresa gobbo gobbo, come un arco turchesco, senza che gli potesse riuscire mai di raddrizzarsi bene. Ad onta di tanto travaglio mise all'ordine il suo asino, ch'era sviato alquanto mercé la rovinosa libertà di quel giorno. Fece pure che si levasse Ronzinante, il quale se avesse avuto lingua per querelarsi non avrebbe risparmiato sicuramente né Sancio né il suo padrone. Finalmente, Sancio accomodò don Chisciotte sopra l'asino, fece precedere Ronzinante e guidando la bestia per il capestro si diresse poco più poco meno, dove gli sembrava essere la strada maestra: e la sorte, che andava guidando di bene in meglio le cose loro, dopo il viaggio appena di una lega gli scoperse dinanzi un'osteria che a suo dispetto, ma per soddisfazione di don Chisciotte, dovea essere un castello. Persisteva Sancio a dirla un'osteria, e il suo padrone un castello; e tanto durò la controversia che vi giunsero prima di averla terminata, e vi entrò Sancio, senz'altro contrastare, con tutto l'accompagnamento.


CAPITOLO XVI

 

DI QUELLO CHE ACCADDE ALL'INGEGNOSO IDALGO DON CHISCIOTTE
NELL'OSTERIA CH'EGLI VOLEA PURE CHE FOSSE CASTELLO.

 

 

L'oste che vide don Chisciotte posto attraverso dell'asino, domandò a Sancio che male avesse. Sancio rispose essere cosa di niente; ch'era caduto da un masso e si era ammacate un poco le costole. Aveva l'oste una moglie d'indole diversa da quelle che sogliono esercitare tal professione, naturalmente caritativa e compassionevole delle altrui miserie. Si applicò ella a medicare l'ammalato, e volle pure che la aiutasse una sua figlia, nubile, giovane e di buona grazia. Serviva nella stessa osteria una giovanotta asturiana con viso schiacciato, colla collottola spianata, col naso un po' storto, guercia da un occhio e ammalaticcia dall'altro; ma la sua gagliardia di corpo contrabilanciava tutti questi difetti. Non era alta sette palmi, e le spalle alquanto aggobbate la costringevano a guardare a basso più di quello che avrebbe voluto. Anche questa ragazza garbata aiutò l'altra, ed ambedue allestirono un cattivo letto per don Chisciotte in un sito che mostrava di avere già servito da pagliaio molti anni, e dove tuttavia stavasi un vetturale il cui letto poco discosto da quello del nostro cavaliere errante, era fatto colle bardelle, ossia coperte dei muli, e contuttociò era migliore di quello di don Chisciotte, formato da due tavole mal piallate e mal collocate su due panche disuguali; un materasso che per leggerezza pareva un'imbottita ripiena di palle da balestra, che sarebbersi credute pietre se da qualche sdrucitura non si fosse veduto che veramente era lana; due lenzuola di cuoio di targhe così sfilate che avrebbe potuto numerarne i fili chiunque avesse avuto tal voglia. In questo tristissimo letto entrò don Chisciotte, e l'ostessa e sua figlia gli applicarono empiastri dal capo ai piedi, facendo lume Maritorna, che così chiamavasi l'Asturiana. Vedendo l'ostessa nell'ungerlo, che don Chisciotte avea molte lividure sparse per il corpo, si avvisò che ciò fosse proceduto piuttosto da percosse che da caduta. — Non sono state percosse, disse Sancio, ma la natura del monte scabroso e pieno di pietre, ciascuna delle quali impresse il suo segno; e poi soggiunse: Piaccia alla signoria vostra di fare che avanzi un po' di stoppa, che vi sarà altro sito bisognoso, perché io pure mi sento addolorato alquanto nei lombi. — Se così è, disse l'ostessa, convien dire che siate voi pure caduto. — Eh non è questo, rispose Sancio, ma il batticuore che mi assalì quando vidi precipitare il padrone mi ha prodotto una scossa sì grande da rendermi tanto addolorata tutta la persona come se mi avessero bastonato con mille bastoni. — Questo può essere, soggiunse la ragazza mentre anche a me accadde le molte volte di sognare di cader dall'alto di una torre senza arrivar mai abbasso; e svegliandomi trovarmi sì pesta e macinata come se la caduta fosse stata realmente vera. — Qui sta il guaio, o signora, rispose Sancio Pancia, che io senza far sogni di sorta, ma standomi desto come sono presentemente, mi trovo tutto coperto di lividure come il mio signor padrone.

— Come si chiama egli questo cavaliere? gli domandò l'asturiana Maritorna.

— Don Chisciotte della Mancia, rispose Sancio, ed è cavaliere venturiero dei più celebri e valorosi che da molto tempo in qua siensi veduti al mondo.

— Che significa cavaliere venturiero? soggiunse la serva

— Siete voi sì bambina al mondo, rispose Sancio, che nol sapete? Vi sia dunque noto, sorella mia, che cavaliere venturiero è uno che in due parole si vede bastonato e imperatore: oggi è la più sventurata e la più bisognosa creatura del mondo, e avrà dimani due o tre corone di regni da regalare al suo scudiere

— Ma come mai dunque, disse l'ostessa, non possedete almeno qualche contea?

— È troppo presto, rispose Sancio; perché da un mese soltanto andiamo cercando avventure, e non ne abbiamo finora incontrata alcuna che potesse darci un sì gran bene: e poi le tante volte l'uomo trova altra cosa da quella che cerca. Ma in verità che se il mio signor don Chisciotte guarisce da questa ferita, cioè, caduta, ed io non ne rimango storpiato, in verità che non rinunzierei alle mie speranze pel maggiore titolo di Spagna.”

Stava don Chisciotte ascoltando con somma attenzione questi discorsi; e rizzandosi meglio che poté nel suo letto, prese la mano dell'ostessa, e disse: — Credetemi, bella signora, che vi potete chiamare ben fortunata di alloggiare in questo vostro castello la mia persona, la quale è siffatta che se io non la lodo, gli è perché si suol dire che la propria lode avvilisce; ma vi dirà il mio scudiere chi io mi sia, e vi assicuro intanto che terrò scolpito nella memoria il favore che mi avete impartito, e ve ne sarò grato finché mi duri la vita. Così piacesse agli alti destini che amore non mi tenesse soggetto e incatenato cotanto alle sue leggi, ed agli occhi di quell'ingrata vezzosa (e qui ne borbottò il nome fra i denti) che quelli di questa vaga ragazza già sarebbero dominatori della mia libertà!”

Stavansene confuse l'ostessa, la figlia e Maritorna udendo i ragionamenti dell'errante cavaliere, ch'esse intendevano né più né meno, come se avesse parlato greco. Si accorsero nondimeno che quelle dovean essere parole di cortesia e gentilezza, ma non assuefatte a simigliante linguaggio lo stavano guardando con ammirazione, sembrando loro che fosse un uomo diverso dagli altri. Perciò ringraziatolo con gentilezza da osteria, lo lasciarono; e l'asturiana Maritorna si diede a curar Sancio che non n'avea men bisogno del suo padrone.

Fra Maritorna e il vetturale, nominato poc'anzi, erano corse già da gran tempo promesse di matrimonio: ma perché il padrone di lei si opponeva, avevano ordinato che in quella notte sarebbero fuggiti insieme; al qual fine la fantesca, quando i padroni dormissero, verrebbe ad avvertirne il suo fidanzato. Il duro, angusto e mal accomodato letto di don Chisciotte trovavasi il primo in quella stalla o porcile, e ad esso vicino stava quello di Sancio, che consisteva in una stuoia da camera ed in una coperta piuttosto di canavaccio cimato che di lana. Succedeva a questi due letti quello del vetturale, composto, come si è detto, delle bardelle e dei fornimenti dei due migliori muli da lui condotti, che in tutti erano dodici, castagni, grassi e belli, essendo costui uno dei più doviziosi mulattieri di Arèvalo, per quanto ci fa sapere l'autore di questa storia, il quale ne parla minutamente per averlo assai ben conosciuto, credendosi da taluno che fosse anche un poco suo parente. Oltre di che Cide Hamete Ben Engeli fu uno storico ricercatore attentissimo e molto esatto in tutte le sue cose; e ciò apparisce ad evidenza mentre non ha omessa alcuna particolarità benché minuta e di poco momento. Laonde potranno gli storici d'importanza pigliarlo ad esempio in luogo di tessere sì brevemente, come fanno, le altrui gesta, di maniera che appena si cominciano a leggere sono già belle e finite, tacendo o per malizia o per ignoranza, quello ch'è più sostanziale. Benedetto sia mille volte l'autore di Tablante, di Ricamonte, e colui che riferisce le imprese del Conte Tomiglia! Con quanta esattezza descrivono ogni cosa!

Ora il vetturale poich'ebbe visitate le sue bestie, governatele per la seconda volta, si distese sopra le sue coperte e diessi ad attendere che venisse da lui Maritorna. Stavasene di già Sancio in letto impiastrato, e tuttoché tentasse di prender sonno, non lo lasciava riposare il dolore delle costole; e don Chisciotte; egualmente afflitto della sua macinatura, se ne stava cogli occhi aperti come una lepre. In tutta l'osteria regnava alto e profondo silenzio, né vi era altro lume fuor quello di un lampione appeso in mezzo al portico. Questa maravigliosa quiete e i pensieri nei quali occupavasi il nostro cavaliere intorno agli avvenimenti che incontransi ad ogni passo nei libri, autori di sua disgrazia, lo condussero ad immaginare una delle più strane pazzie che potesse creare mente umana. Si figurò egli di essere giunto ad un famoso castello (giacché gli pareano castelli tutte le osterie dove alloggiava); che la figlia dell'oste fosse figliuola del castellano, e che vinta dalla gentilezza di lui e perdutamente innamorata, gli aveva promesso di sottrarsi ai suoi genitori e di venire a trovarlo in quella medesima notte. Con tale chimera ch'egli si fabbricava come cosa reale, cominciò ad affliggersi pensando al periglioso cimento in cui dovea trovarsi la sua fedeltà; e fermamente si propose nel suo cuore di non commettere torto alcuno ed offesa alla sua signora Dulcinea del Toboso: tuttoché se gli presentasse dinanzi la stessa regina Ginevra con Chintagnona sua dama. Avendo fitti in pensiero questi spropositi, arrivò il tempo e l'ora (per lui ben disgraziata) in cui sopraggiunse l'Asturiana, la quale con tacito e guardingo passo entrò nel luogo, dove i tre già mentovati se ne stavano a letto, per cercare il suo vetturale. Giunse appena alla porta che don Chisciotte la sentì, e levatosi a sedere sul letto, ad onta dei suoi empiastri e del dolore delle costole, stese le braccia per accogliere la vezzosa donzella. L'Asturiana che tutta rannicchiata e cheta andava colle mani cercando l'amante suo, venne ad incontrarsi nelle mani di don Chisciotte, il quale l'afferrò strettamente pei polsi, e tirandola a sé, la fece sedere sopra il suo letto senza ch'ella osasse aprir bocca. Portava Maritorna certi smanigli con pallottole di vetro che furono tenute da don Chisciotte in conto di preziose perle orientali; la vesta, come che fosse di tela assai ruvida, egli se la credette di finissima stoffa; i capelli che poteano dirsi crini di cavallo, gli parvero fili di lucidissimo oro di Arabia, atti ad oscurare col loro splendore il sole medesimo; ed il fiato, che mandava certamente aliti d'insalata fredda ed indigesta, parve a lui odore soave di aromi; insomma egli se la dipinse nella fantasia simile affatto ad una principessa di cui aveva letto nei libri, che andò a visitare un cavaliere ferito. Sembrandogli pertanto di avere presso di sé la dea della bellezza, e tenendosela vicina, cominciò a dirle con voce bassa ed armoniosa: — Ah quanto bramerei, bella e possente signora, di trovarmi in situazione da poter compensare la bontà suprema di cui mi onorate! ma la rea fortuna, che mai non si stanca di perseguitare i buoni, mi ha ridotto qui in questo letto sì pesto e malconcio come sapete; e vi si aggiunge anche cosa di molto maggiore importanza, ed è la fedeltà che promisi alla senza pari Dulcinea del Toboso, unica signora dei miei più reconditi pensieri.” Stavasene Maritorna in grande affanno, e sudava a sentirsi tenere sì stretta da don Chisciotte, e senza intendere e senza por mente a ciò ch'egli andava dicendo, procurava di liberarsene, né profferiva parola. Il vetturale frattanto, che non dormiva, era stato ascoltando tutto ciò che don Chisciotte diceva alla sua Maritorna; e mosso da gelosia, si accostò quatto quatto al letto di lui per vedere dove andavano a finire quelle dicerie ch'egli non potea ben comprendere; e quando si accorse che la serva faceva ogni sua possa: per isvincolarsi, e che don Chisciotte si adoperava altrettanto per trattenerla, non piacendogli per niente la burla, inalberò il braccio, e lasciò cadere un pugno sì terribile sopra le scarne ganasce dell'innamorato cavaliere che gli fece insanguinare tutta la bocca; né contento di questo gli montò sopra le costole e lo pestò bene coi piedi. Il letto, che era debole e sopra un fondamento mal fermo, non potendo sostenere l'aggiunta del vetturale precipitò, e con rumore sì forte che svegliò l'oste; il quale immaginò subito che ciò fosse avvenuto per colpa di Maritorna; massimamente che avendola chiamata ad alta voce non gli aveva punto risposto. Si alzò con questo sospetto, e acceso tosto un lume si condusse fin là donde era venuto il fracasso. La serva, vedendo il padrone, il quale era uomo bestiale, tutta spaventata e fuori di sé andò a cacciarsi nel letto di Sancio Pancia che dormiva, e vi si nicchiò facendosi come in un gomitolo. Entrò l'oste dicendo: — Dove sei, sciagurata? Scommetto che questo strepito è per colpa tua.” Svegliossi Sancio in questo punto, e sentendosi quel gruppo quasi a ridosso, e pensando che fosse qualche folletto, cominciò a mazzicar co' pugni dall'una parte e dall'altra, cogliendo con non so quanti Maritorna; la quale, vinta dal dolore ne ricambiò Sancio in maniera da fargli perdere il sonno per molte notti. Vedendosi egli trattato a quel modo senza sapere da chi, e alzandosi alla meglio che poté, si accapigliò con Maritorna, e cominciò fra loro la più accanita e graziosa zuffa del mondo. Laonde il vetturale che al lume del candeliere dell'oste vide il maltrattamento della sua bella, lasciato don Chisciotte, corse a prestarle il necessario soccorso; e l'oste fece lo stesso, ma con diversa intenzione, perch'egli vi andò risoluto di gastigare la serva, tenendola indubitatamente per l'autrice di tutto quello scompiglio. E qua come suol dirsi, il gatto al topo, il topo al gatto, ed il gatto alla corda, e la corda al palo: il vetturale bastonava Sancio, Sancio la serva, la serva lui, l'oste la serva, e tutti menavano così alla presta che non restava un momento di pausa. Fu poi da ridere che all'oste si spense il lume, e rimasti perciò tutti all'oscuro, si percuotevano sì pazzamente e alla cieca, che dove giungevan le mani non restava niente di sano.

Trovavasi a caso in quella notte nell'osteria un bargello di quelli che si chiamano della Santa Hermandada antica di Toledo; il quale, udito quello straordinario fracasso, toltosi l'archibugio, entrò all'oscuro dove infuriava ancora la zuffa, dicendo: — Alto là, alla giustizia! alto là, al bargello di campagna! Il primo in cui s'incappò fu l'ammaccato don Chisciotte, che giaceva supino, e fuori di sentimento sul rovinato suo letto, e scossolo così a tastoni per la barba, rinnovava le grida: — Alto là, alla giustizia! Vedendo che punto non si movea, né dava alcuna voce, si avvisò che fosse morto, e che gli altri compagni lo avessero ammazzato, e con tale sospetto rinforzò la voce dicendo: — Chiudasi la porta dell'osteria, e nessuno ne esca, perché qui è stato ucciso un uomo. Questa voce mise terrore in tutti, ed ognuno lasciò la zuffa indecisa com'era quando la voce si fece sentire. L'oste si tirò nella sua camera, il vetturale si ravvolse nelle sue coperte, la serva tornò al suo giaciglio, e i soli sventurati don Chisciotte e Sancio non si poterono muovere dal luogo ove erano. Intanto il bargello lasciò andare la barba di don Chisciotte, ed uscì in traccia di un lume per vedere ed arrestare i delinquenti: ma non gli riuscì di trovarlo, perché l'oste maliziosamente aveva già spento il lampione, di maniera che gli bisognò cercar del focolare, dove con molto stento e perdita di tempo accese un'altra candela.


CAPITOLO XVII

 

SEGUITANO GLI INNUMEREVOLI TRAVAGLI CHE IL VALOROSO DON CHISCIOTTE COL SUO BUONO SCUDIERE SANCIO PANCIA SOFFERSE NELL' OSTERIA, DA LUI PER SUO DANNO CREDUTA UN CASTELLO.

 

Don Chisciotte s'era intanto riavuto alcun poco, e con quel filo di voce con cui aveva il giorno innanzi chiamato il suo scudiere quando trovavasi steso in terra nella valle delle stanghe, lo cominciò a chiamare, dicendo: — Sancio, amico, dormi tu? dormi tu, amico Sancio? — E come diavolo posso io dormire, meschino di me! rispose Sancio pieno di malanni e di dispetto, quando mi sembra di aver avuto attorno in questa notte i demonii tutti dell'inferno! — Ah! non dici male, rispose don Chisciotte; perché, o che io ho perduto il senno, o che questo castello è incantato; mentre hai a sapere… ma prima giurar mi devi di custodire finch'io sia morto, come il più gran segreto, ciò che ora sono per dirti, — Lo giuro, rispose Sancio. — Questo ti dico, riprese allora don Chisciotte, perché sono nemico di togliere l'onore a chicchesia. — Ripeto, soggiunse Sancio, e lo giuro che custodirò il segreto fin dopo il fine dei giorni di vossignoria; e piaccia a Dio che io possa manifestarlo dimani. — Mi porto io dunque sì male verso di te, Sancio, replicò don Chisciotte che mi vorresti veder morto così presto? — Non è per questo, rispose Sancio, ma perché son nemico del serbar segrete lungo tempo le cose, e non vorrei poi che per troppo serbarle mi s'infradicissero sullo stomaco. — Avvengane che può, disse don Chisciotte, io mi fido del pari e sul tuo amore e sulla tua cortesia. Devi dunque sapere che mi accadde in questa notte una delle avventure più strane che si possano mai immaginare; e, per dir breve, sappi che poco fa venne da me la figliuola del signore di questo castello, la più graziosa e vaga donzella che possa trovarsi in gran parte del mondo. Che ti potrei dire della gentilezza di sua persona? del suo fino discernimento? e di altre occulte qualità, che io per mantenere la fede dovuta alla mia signora Dulcinea del Toboso, lascio passare inosservate e sotto silenzio! Mi limiterò a dirti che invidioso il cielo di tanto bene offertomi dalla fortuna, e forse (com'è più credibile) per essere questo castello incantato; mentre io mi intratteneva con lei in dolci ed amorosi colloquii, venne, senza ch'io la vedessi, o potessi comprendere donde venisse, una mano attaccata al braccio di uno straordinario gigante, e mi affibbiò un pugno sì forte alle ganasce, che le tengo tutte intrise di sangue; poi mi pestò di tal fatta che mi trovo peggio di ieri quando i vetturali per colpa di Ronzinante ci fecero quell'affronto che sai. Ora io vado congetturando che la bellezza di questa donzella sia data in custodia di qualche incantato Moro, e non debba essere per me. — Né tampoco per me, rispose Sancio, perché sono stato fracassato da quattrocento Mori in maniera che le percosse delle stanghe, al confronto, furono proprio uno zucchero. Ma, dicami, signore, come chiama ella buona e rara ventura codesta che ci ha lasciati così malconci? E manco male per vossignoria che ha avuto tra le mani quella bellezza incomparabile che or ora mi ha descritta; ma io ho ricevuto le maggiori bastonate che avessi mai in tempo di vita mia! Venga il canchero a me ed alla madre che mi ha partorito che non sono cavaliere errante, né penso di esserlo mai, eppure a me tocca sempre la maggior parte delle disgrazie! — Dunque tu ancora sei stato pesto? rispose don Chisciotte. — Non le ho detto che sì! che maledetti siano tutti i diavoli dell'inferno, rispose Sancio, — Non ti affliggere, amico mio, disse don Chisciotte, che io comporrò tosto il prezioso balsamo con cui risaneremo in un batter d'occhio.”

Intanto il bargello, che già aveva acceso il lume, venne per riconoscere colui che credeva morto: e come Sancio lo vide entrare in camera con una cuffia in capo, con una lucerna accesa e con una ciera da far paura, domandò al suo padrone: — Sarebbe questi, o signore, quel mago moro che torna a ricominciare la solfa? — Non può essere il moro costui, rispose don Chisciotte, perché l'incantatori sono invisibili. — Se non si fanno vedere, si fanno però sentire, disse Sancio, e lo possono attestar le mie spalle. — Potrebbero farne fede anche le mie, rispose don Chisciotte; ma questo non è indizio bastevole per credere che costui che si vede sia desso.” Intanto si accostò loro il bargello, e trovandoli in sì pacifica conferenza tra loro ne restò meravigliato. Vero è bensì che don Chisciotte stavasene tuttavia colla bocca all'insù, senza potersi movere; tanto era pesto e coperto d'impiastri! Accostatosi al letto il bargello gli disse: — Come va, buon galantuomo? — Io parlerei con più rispetto, rispose don Chisciotte, s'io fossi voi: usansi forse in questa terra di tali confidenze coi cavalieri erranti?” Sentendosi il bargello maltrattare da un uomo di così triste apparenza, gli venne la mosca al naso, e alzando la lucerna con tutto l'olio che conteneva la scagliò sulla testa del povero don Chisciotte, sfregiandola bruttamente, e poi se ne andò pe' fatti suoi lasciando tutti all'oscuro. Disse allora Sancio Pancia: — Signore, costui senza dubbio è il Moro; e pare ch'egli custodisca per gli altri il tesoro, e per noi le bastonate e le lucernate. — Così è, rispose don Chisciotte; ma non conviene far caso di questi incantamenti, né pigliarne collera; perché essendo invisibili e fantastici non avremmo contro cui vendicarci realmente. Alzati Sancio, se puoi, e chiama il castellano di questa fortezza, e procura che qui mi si rechi un po' d'olio, vino, sale e ramerino onde comporre il balsamo salutare, che in verità credo di averne ora sommo bisogno perché mi esce molto sangue dalla ferita riportata da questa fantasima.

Si levò Sancio tutto addolorato nelle ossa, e s'avviò tentone alla camera dell'oste; ed essendosi incontrato nel bargello, che stava ascoltando come la passasse il suo nemico gli disse: — Signore, chiunque voi siate, fatemi il favore e la grazia di darmi un po' di ramerino, di olio, di sale e di vino, de' quali ho necessità per curare uno dei migliori cavalieri erranti che sieno al mondo, il quale giace ferito pericolosamente sopra quel letto per mano dell'incantato Moro che trovasi in questa osteria.” Il bargello ad udire queste parole, lo tenne per pazzo, e poiché cominciava già a farsi giorno, aprì la porta della osteria, e chiamato l'oste, fecegli sapere quanto da quel pover'uomo si domandava. L'oste gli somministrò quanto voleva, e Sancio recò ogni cosa a don Chisciotte, che si teneva la testa fra le mani, lamentandosi del dolore arrecatogli dalla lucernata, la quale gli aveva prodotto due enfiagioni assai rilevanti; ma quello che pensava fosse sangue non era altro che un sudore promosso dall'angoscia pei passati tormenti. In sostanza prese egli que' semplici, e ne formò un composto meschiandoli e facendoli bollire insieme per lungo tempo, e sin tanto che gli parve compita la manipolazione. Chiese poscia di un'ampolletta da riporvi il suo balsamo, ma non essendone alcuna nell'osteria, deliberossi di metterlo in un vasetto di stagno, di cui l'oste gli fece dono; poi vi recitò sopra più di ottanta paternostri, altrettante avemmarie, salve, credo, accompagnando ogni parola con segni in forma di benedizione, trovandosi a tutto presente Sancio, l'oste, il bargello, ma non già il vetturale, che attendeva a governare le sue bestie con tutta pace. Fatto questo, volle egli sperimentare la virtù di quel balsamo, da lui immaginato prezioso, e trangugiò gran parte di quello che non potendo capire nel vasetto di stagno restava nella pignatta dove lo aveva composto; forse un mezzo boccale. Ma non l'ebbe appena inghiottito che cominciò a recere di maniera che nulla gli restò nello stomaco, e per l'angoscia e per gli schianti del vomito, diede in un sudore copiosissimo, sicché pregò gli astanti che lo coprissero bene e lo lasciassero solo. Così fecero, ed egli dormì più di tre ore. Dopo le quali si svegliò, e sentendosi alleggerito molto nel corpo, e molto meno addolorato nelle ossa, si tenne per risanato in grazia della bravura sua nel comporre il balsamo di Fierabrasse; e già pensava che avrebbe potuto per l'efficacia di quel rimedio cimentarsi senza verun riguardo in ogni rissa, battaglia o pericolo per grande che potesse essere; Sancio Pancia, ascrivendo egli pure a prodigio il miglioramento del suo padrone, lo pregò che gli desse quello ch'era rimasto nella pignatta, e che non era poco. Glielo concesse don Chisciotte di buona voglia, e Sancio presa tosto la pignatta con ambe le mani, con buona fede e con miglior disposizione, vi avvicinò la bocca, ed ingolò quanto vi si trovava. Lo stomaco però di lui non era sì delicato come quello del suo padrone, e in conseguenza tanti e tali furono gli affanni, gli stringimenti e i sudori sofferti prime di recere, che credette di esser giunto all'ultima ora della sua vita; e vedendosi così malconcio ed a sì tristo partito, malediceva il balsamo e quel ladrone che glielo aveva insegnato. Vedendolo don Chisciotte sì male andato gli disse: — Io credo, o Sancio, che tanto male ti avvenga per non essere tu armato cavaliere; giacché stimo che quel liquore non sia punto giovevole a coloro che tali non sono. — Se vossignoria sapeva questo, replicò Sancio, (venga il malanno a me ed ai miei parenti), perché consentì ella ch'io ne ingoiassi?” Ma intanto la bibita diventò operativa, e cominciò il povero scudiero a versare da ambedue i canali con sì gran precipizio che se ne imbrattarono la stuoia su cui giaceva, il canevaccio con cui si copriva. Sudava e trasudava con tali parosismi e accidenti che pareva prossimo ad uscir di questa vita. Durò tanto la burrasca quasi due ore; né si trovò poi nel ben essere del suo padrone, ma sì fracassato e pesto da non potersi reggere in piedi.

Don Chisciotte sentendosi, come si è detto, alleggerito e sano, divisò di partire in traccia di avventure, sembrandogli che ogni indugio fosse tempo tolto al bene del mondo e di quelli che avevano bisogno del suo favore e della sua difesa, e più lo animava allora la provata efficacia del suo balsamo. Vinto adunque da un tal desiderio, sellò egli stesso Ronzinante, e mise le bardelle al giumento del suo scudiero, cui pure prestò assistenza per vestirsi e montar sulla bestia. Salì poscia a cavallo, ed accostatosi ad un angolo dell'osteria, ne tolse una pertica, pensando di servirsene in vece di lancia. Stavanlo guardando quanti si trovavano in quel luogo, che erano da più di venti persone, e gli tenea gli occhi addosso anche la figliuola dell'oste, ed egli pure miravala fisamente traendo di tanto in tanto un sospiro che parea gli uscisse dal profondo delle viscere, ciò che ascrissero i circostanti al dolore che doveva sentire nelle costole, a giudizio almeno di quelli che lo avevano veduto tutto impiastrato la notte innanzi. Montati ambedue a cavallo, mettendosi don Chisciotte sulla porta dell'osteria, chiamo l'oste, e con voce riposata e grave gli disse: — Molti e molto grandi, signor castellano, sono i favori che ho ricevuti in questo vostro castello, e ve ne resterò obbligatissimo per tutto il corso della mia vita, e se posso compensarvene col vendicarvi di qualche superbo che vi abbia fatto alcun torto, voi già sapete che il debito mio è di sostenere i deboli, di vendicare le ingiurie e di punire i temerarii. Badate se avete che comandarmi in tale proposito, e basterà una vostra parola ch'io vi prometto, per l'ordine di cavaliere da me ricevuto di rendervi soddisfatto e compensato a vostro intiero piacere.” L'oste gli rispose con altrettanto contegno: — Signor cavaliere, non ho bisogno di impegnare vossignoria a vendicare verun mio torto, poiché occorrendo, lo so fare da me medesimo; bensì ho bisogno ch'ella mi paghi del guasto fatto la scorsa notte nella mia osteria e così pure della paglia e della biada somministrata alle sue bestie, come ancora della cena e del letto. — Osteria si è questa? replicò don Chisciotte. — Ed onoratissima, rispose l'oste. — Io dunque sono, soggiunse don Chisciotte, vissuto finora in grande inganno, mentre protesto e giuro che l'ho giudicata un castello, e non certamente degl'infimi. Ora, poiché non è altrimenti castello, ma osteria, ciò che si può far per adesso si è che mi dispensiate dal pagarvi, perché io non posso contravvenire agli ordini dei cavalieri erranti, i quali so di certo (non avendo letto finora così in contrario) che non pagarono mai né alloggio né altro nelle osterie ove capitarono per caso; ma ognuno è obbligato ad accordargli in guiderdone dell'intollerabile travaglio che soffrono in cercar avventure di notte e di giorno, d'inverno e di estate, a piedi e a cavallo, con sete e con fame, con caldo e con freddo, esposti a tutte le inclemenze del cielo e ai disagi della terra. — Ciò poco mi importa, rispose l'oste; vossignoria mi paghi quanto mi è dovuto, e lasciamo andare le ciarle e la cavalleria, ch'io non m'intrigo di altro che di riscuotere il mio. — Tu sei un imbecille e spregievole ostiere, replicò don Chisciotte; e dando degli sproni a Ronzinante colla sua lancia abbassata, uscì dell'osteria senza poter essere trattenuto da chicchesia, e si dilungò un buon tratto di strada non badando se fosse seguito dal suo scudiere. L'oste che lo vide partire senza aver pagato, arrestò Sancio Pancia, il quale dichiarò che non pagherebbe né più né meno del suo padrone; giacché essendo egli, com'era infatti, scudiere di cavaliere errante, valeva per lui come pel suo padrone la stessa regola di non pagare negli alberghi e nelle osterie. Ciò mosse grande ira nell'oste, il quale minacciollo che se non pagasse l'avria concio per modo che gli sarebbe assai rincresciuto. A ciò Sancio rispose che, per la legge della cavalleria ricevuta dal suo padrone, non avrebbe pagato un quattrino quand'anche gliene dovesse costar la vita, non volendo essere causa che si perdesse quell'utile e antico costume de' cavalieri erranti, né dar motivo agli scudieri avvenire di lagnarsi di lui che avesse trasandato un così giusto privilegio.

Volle la cattiva stella dello sventurato Sancio che fra coloro che colà trovavansi, fossero quattro battilana di Segovia, tre merciai del porto di Cordova e due di Siviglia, gente allegra e dabbene, ma pronta sempre alle burle; i quali come se un medesimo spirito gl'instigasse e movesse, accostaronsi a Sancio e lo fecero smontare dall'asino; uno poi di essi andò a prendere la coperta del letto dell'oste, sulla quale distesero lo scudiere; quindi alzati gli occhi, e vedendo che il soffitto era troppo basso al loro bisogno, deliberarono di uscir nel cortile che aveva per coperchio il cielo, ed ivi posto Sancio in mezzo al copertoio, cominciarono a sbalzarlo in alto, e togliendosi lo spasso che alcuni si prendono di qualche cane nella stagione di carnovale. Furono sì alte le strida del povero sobbalzato, che giunsero all'orecchio del suo padrone; il quale, fermatosi ad ascoltare con grande attenzione, credette che fosse per accadere qualche nuova avventura, ma poi conobbe che quegli che gridava era il suo scudiero. Volta la briglia, e col pesante galoppo del suo Ronzinante, ritornò nell'osteria, e trovandola chiusa la girò tutt'intorno per vedere se ne scoprisse l'ingresso; ma giunto alla muraglia della corte, che non era troppo alta, scoperse il cattivo giuoco che facevasi del povero Sancio. Lo vide calare e salire per aria con tanta grazia e prestezza, che se non fosse stato coll'animo inviperito ne avrebbe riso egli stesso. Provò di arrampicarsi dal cavallo sul muro, ma non gli fu possibile, tanto era ancora pesto e malconcio, però d'in sul cavallo, cominciò a scagliare tante villanie e tanti vituperii contro a quelli che facevano balzar Sancio, che non è possibile scriverli: e nondimeno coloro senza curarsi de' fatti suoi, e in mezzo alle risa continuarono a mandar Sancio in aria; il quale divenuto volatore ora gridava, ora minacciava, ora pregava, ma tutto questo poco giovò, perché non lasciarono il giuoco se non quando ne furono stanchi. Allora gli ricondussero nel cortile il suo asino, e ve lo posero sopra coprendolo ben bene col suo gabbano; e la compasionevole Maritorna, vedendolo affannato a quel modo, gli porse un boccale di acqua attinta allora allora dal pozzo. Lo pigliò Sancio, ed appressatolo alla bocca si ristette dal bere per ascoltare il suo padrone che ad alta voce esclamava: — Sancio, figliuolo, non bever acqua no, figliuolo, non beverla che ne resterai morto; guarda qua il preziosissimo balsamo (e gliene mostrava il vasetto) per la cui virtù risanerai, bevendone due sole goccie” A queste parole Sancio voltò gli occhi come di traverso, e rispose con voce ancor più sonora: — Si è forse dimenticata vossignoria ch'io non sono cavaliere? e vuol ella che io abbia a recere il resto delle viscere avanzatemi da questa notte? tengasi il suo liquore con tutti i malanni, e mi lasci quieto.” Il proferire queste parole e il mettersi a bere fu un punto solo; ma poiché al primo sorso si accorse che quella era acqua se ne astenne, e pregò Maritorna che gli portasse del vino, ciò ch'ella fece ben volentieri, pagandolo di sua propria borsa; perché ad onta de' suoi traviamenti, era per altro una buona cristiana. Bevuto ch'ebbe, Sancio, diede delle calcagne al suo asino, e spalancando la porta dell'osteria quant'era larga, ne uscì contentissimo di non aver pagato neppure un quattrino, e di aver così vinta la prova alle spese però dei suoi soliti mallevadori, cioè delle proprie spalle. Vero è che l'oste ne ritenne le bisacce in pagamento del suo credito, di che Sancio non si accorse, tanto era fuori di sé! Voleva anche l'oste, subito che lo vide uscito fuori, assicurar con buone stanghe la porta dell'osteria, ma nol consentirono quelli della coperta; gente da non fare il menomo conto di don Chisciotte quand'anche fosse stato realmente uno de' cavalieri erranti della Tavola Rotonda.


CAPITOLO XVIII

 

DOVE RACCONTASI I DISCORSI CHE PASSARONO TRA SANCIO PANCIA E DON CHISCIOTTE CON ALTRE AVVENTURE DEGNE DI ESSERE RICORDATE.

 

Sancio raggiunse il padrone, ma sì debole e svenuto che gli mancava sino la lena di far andare il giumento. Vedendolo rovinato a quel modo don Chisciotte gli disse: — Ora, Sancio mio caro, mi confermo nell'opinione che quel castello, ovvero osteria, fosse certamente incantato, perché non poteano essere altro che fantasime o gente dell'altro mondo coloro che si presero così indegno passatempo della tua persona. E tanto più lo credo quanto che mentre io stava presso al muro della corte, guardando gli atti della tua funesta tragedia, non mi fu possibile di salirvi, e nemmanco smontare da Ronzinante, ché certo mi avevano incantato. Ti giuro da cavaliere che sono, che se avessi potuto saltar la muraglia, ti avrei vendicato in modo che quei poltronacci e malandrini avrebbero dovuto ricordarsi eternamente di cotale burla, a costo anche di contravvenire alle leggi della cavalleria; le quali, come altre volte ti dissi, non permettono al cavaliere di cimentarsi contro chi non è tale, a meno che non si tratti di salvare la propria vita, in caso di urgente e grave necessità. — Io pure mi sarei vendicato se lo avessi potuto, disse Sancio, fossi o no armato cavaliere; ma io non era da tanto; e tengo per indubitato che quelli che mi conciarono a quel modo, non fossero fantasime né uomini incantati, come dice vossignoria, ma uomini in carne ed ossa come siamo noi e come son tutti; e mentre che mi sbalzavano per aria, io li sentii chiamarsi per nome; uno nomavasi Pietro Martinez, un altro Tenorio Hernandez, e il nome e cognome dell'oste era Giovanni Palomecche il mancino; e si persuada, mio signore, che il non aver potuto saltar sulla muraglia né smontare da cavallo, dovette provenire da ben altra cagione che da incantesimi; quello poi che so io con tutta chiarezza si è che queste venture che andiamo cercando, ci condurranno a tanti malanni, che giungeremo a non saper più qual sia il nostro piè destro; e il consiglio migliore e più sicuro, secondo il mio poco intendimento, sarebbe che noi ritornassimo alla nostra terra, ora ch'è il tempo della mietitura del grano, e là badassimo alle nostre faccende, senza altro girare e passare dal pero al fico, ovvero dalla padella alle brage. — Tu conosci ben poco, rispose don Chisciotte: le cose della cavalleria! Taci ed abbi sofferenza; che verrà il giorno in cui vedrai cogli occhi tuoi propri quanto onore ci ridonderà dall'esercizio di questa professione; e dimmi di grazia: qual maggiore contento può agguagliare a quello di vincere una battaglia e trionfare di un suo nemico? Nessuno senza dubbio. — Così sarà, rispose Sancio, giacché io non m'intendo di queste cose; ma intanto daché siamo diventati cavalieri erranti, od almeno vossignoria (che io non sono tale da essere collocato in quel numero,) altra battaglia non si è vinta tranne quella di Biscaino, ed anche allora ne partì la signoria vostra con mezz'orecchia e mezza celata di meno: dopo di essa tutto è proceduto a bastonate e a pugna, ed io, in aggiunta, sono stato sbalzato in aria col copertoio da persone incantate delle quali non posso pigliar vendetta; e perciò non so ancora sin dove arrivi il gusto di vincere il nemico, com'ella dice. — Questo è il rammarico che sento io, e che provar dèi tu pure, o Sancio, rispose don Chisciotte, ma procurerò da qui innanzi di aver alle mani una spada costrutta con tale maestria, che chi la porta non possa mai andar soggetto ad incanti: potrebbe anche avvenire che il caso mi facesse padrone di quella di Amadigi quando si chiamava il cavaliere dell'ardente spada, che fu una delle migliori che mai cingesse cavaliere al mondo, e che oltre alle qualità che ti ho narrate tagliava come un rasoio, né v'aveva armatura, fosse pur quanto si vuole incantata e forte, che le resistesse. — Io sono fortunato per modo, disse Sancio, che quand'anche ciò fosse, e riuscisse alla signoria vostra di avere una spada siffatta, si troverebbe poi ch'essa gioverebbe solo ai cavalieri armati, come avvenne del balsamo; e gli scudieri se ne anderebbero tuttavia alla malora. — Non temere di questo, replicò don Chisciotte, che il cielo non sarà teco sì rigoroso.”

Andavano viaggiando don Chisciotte e il suo scudiere intrattenendosi in questi discorsi, quando don Chisciotte vide che sulla strada da loro battuta veniva un grande e folto polverio; laonde volto a Sancio, gli disse; “Quest'è il giorno, o Sancio, in cui s'ha da conoscere a qual bene mi riserba la sorte; e il valore del mio braccio, ed in cui ho da operare meraviglie degne di essere registrate nel libro della fama pei secoli tutti avvenire. Vedi tu, o Sancio, quel polverio che colà si solleva? Sappi che dentro vi è chiuso un esercito poderosissimo, composto di varie nazioni e di gente innumerabile venuta da diverse parti. — Se questo è vero, saranno due eserciti, replicò Sancio; perché anche dalla parte opposta sollevasi un polverio.” Voltosi don Chisciotte a guardare, vide ch'era vero, e rallegrandosi oltremisura, pensò che fossero due eserciti che venissero ad incontrarsi ed a battersi in mezzo a quella spaziosa pianura, poiché sempre avea piena zeppa la fantasia di quelle battaglie, incantamenti, avventure, contrattempi, amori e disfide che si raccontano nei libri di cavalleria; e quanto egli parlava, pensava o faceva, era tutto di siffatte fantasie.

Il polverio da lui visto, proveniva da due gran branchi di pecore e di montoni che venivano a quella volta da due parti; ma per la fitta polvere non era possibile ravvisare che così fossero veramente. Con tanta fermezza sostenea don Chisciotte ch'erano eserciti che lo credette anche Sancio, e gli disse: — Signore, e che facciamo noi? — Che? disse don Chisciotte; prestare assistenza e favore ai più deboli e bisognosi. Hai da sapere Sancio, che questo che ci viene di fronte lo conduce e lo guida il grande imperatore Alifanfarone, signore della grande isola Taprobana; quest'altro che ci viene alle spalle, è quello del suo nemico re dei Garamanti Pentapolino detto dal braccio ignudo, perché entra sempre in battaglia col braccio destro scoperto. — E perché si odiano tanto questi due signori? domandò Sancio. — Si odiano, rispose don Chisciotte, perché questo Alinfanfarone è un furibondo pagano, innamorato della figlia di Pentapolino ch'è assai bella ed oltremodo graziosa signora; ma come cristiana, suo padre non vuole farla moglie di un pagano, se costui non abbandona la legge del suo falso profeta Maometto, e non abbraccia la vera. — Quand'è così, disse Sancio, io voglio assistere Pentapolino che merita lode, e mi tengo obbligato ad aiutarlo per quanto posso. — Farai l'obbligo tuo, Sancio, disse don Chisciotte, perché in simili battaglie non occorre di essere armato cavaliere. — Questo va bene, replicò Sancio, ma dove nasconderemo intanto questo mio asino per ricuperarlo dopo la battaglia? perché non credo che nessuno finora usasse mai di mettersi a combattere con siffatta cavalcatura. — Rifletti saviamente, soggiunse don Chisciotte, e quello che può fare si è di abbandonarlo alla sorte: si perda o no, nulla importa, perché dopo la vittoria avremo tanti cavalli al nostro comando, anche Ronzinante corre pericolo ch'io nol cambii con qualch'altro. Ma attento che ti voglio dar conto de' più notabili cavalieri di questi due eserciti; e perché tu meglio li vegga e li esamini, seguimi sopra questa collina, d'onde si scopriranno anche meglio.”

Vi salirono, si posero sopra un'altura, d'onde avrebbero potuto discernere che quelli non erano già eserciti ma armenti, se il polverio ch'essi levavano, non avesse loro impedita la vista. Ad onta di questo don Chisciotte, vedendo colla sua fantasia ciò che non vedevano gli occhi né in fatto esisteva, con alta voce, cominciò a dire: — Quel cavaliere che vedi là coll'arme gialle che porta nello scudo un leone coronato schiavo a piè di una donzella, è il valoroso Laurcalco signore del ponte d'argento; l'altro che ha l'arme coi fiori d'oro, e che porta nello scudo tre corone d'argento in campo azzurro, è il temuto Micocolembo gran duca di Chirozia; l'altro che ha le membra gigantesche, che sta alla mano dritta, è l'ardito Brandabarbarano di Boliche, signore delle tre Arabie che viene armato di una pelle di serpente, e tiene per iscudo una porta, che, a quanto si dice, è una di quelle del tempio fatto precipitare da Sansone allorché morendo si vendicò dei nemici. Ma volgi l'occhio a quest'altra parte, e vedrai dinnanzi e alla fronte di quest'altro esercito il sempre vincitore e non mai vinto Timonello di Carcassona, principe della nuova Biscaia, che viene coll'armatura divisa in quarti azzurri, verdi, bianchi e gialli, e porta sullo scudo un gatto d'oro in campo leonato col motto che dice Miau, ch'è il principio del nome della sua signora: la quale per quanto si dice, è la senza pari Miaulina, figlia del duca d'Alfegnincheno dell'Algarvia; l'altro che carica e opprime la schiena di quella grande alfana, coll'arme bianche come la neve e collo scudo bianco senza insegna veruna, è un cavaliere novello francese, chiamato Pietro Papin, signore delle baronie di Utricche; l'altro che batte i fianchi colle armate calcagna a quel veloce e chiazzato daino, e porta l'arme delle pelli azzurre, è il poderoso duca di Nerbia Espantafilando del Bosco, che ha per impresa nello scudo uno sparviere con un motto in castigliano, che dice così: Rastrea mi suerte, e che significa: Investiga la mia sorte.

A questo modo andò nominando molti e molti cavalieri dell'uno e dell'altro immaginario squadrone, dando a tutti arme, e colori, imprese e motti, trasportato dalla immaginazione della sua non più vista pazzia; e senza interrompere proseguì dicendo: — Questo squadrone di fronte è composto di nazioni fra loro diverse; si raccolgono in essi di quelli che beono le dolci acque del famoso Xanto; i montanari che calcano i massilici campi; quelli che cribrano il finissimo oro dell'Arabia Felice; quelli che godono delle celebri e fresche acque del chiaro Termodonte; quelli che per molte e diverse strade deviano le acque dell'aurifero Pattolo; quelli di Numidia mal fidi nelle loro promesse; i Persiani rinomati nell'uso degli archi e delle frecce; i Parti, i Medi che combattono fuggendo; gli Arabi erranti; gli Sciti crudeli non meno che i bianchi; gli Etiopi dalle labbra forate, e infinite altre nazioni, le cui facce conosco e vedo, e tuttoché non mi sovvenga bene come si chiamino. Vengono in quest'altro squadrone quelli che bevono le cristalline onde del Beti ombreggiato da ulivi; quelli che si rendono tersi e lindi i volti col liquore del sempre ricco e dorato Tago; quelli che godono delle salutari acque del divino Genil; quelli che vantano ne' tartesii campi abbondanti pascoli; quelli che vivon felici nei campi elisi di Xeres; i ricchi e di bionde spighe coronati Manceghi; quelli vestiti di ferro, antiche reliquie del sangue goto; quelli che si bagnano nel Pisuerga famoso pel suo corso tranquillo; quelli che pascono il loro armento nelle pianure del tortuoso Guadiana, celebrato per lo nascosto suo corso; quelli che tremano pel freddo del selvoso Pireneo e per le bianche vette dell'alto Apennino; e finalmente quanti in seno chiude l'Europa intera.”

Oh di quante provincie parlò egli mai! quante nazioni si fece a schierare, dando a ciascuno con mirabile celerità gli attributi lor proprii, tutto ebro e invasato da quanto avea letto nei menzogneri suoi libri! Sancio Pancia era attonito e sbalordito, né apriva mai bocca; solo voltavasi di quando in quando per vedere se comparivano i cavalieri e i giganti nominati dal suo padrone. E non vedendo nessuno, si volse a lui, e gli disse: — Maledetto quell'uomo, quel gigante, quel cavaliere che di quanti vossignoria ha nominati io vegga apparire: qua vi sarà forse qualche incantesimo come nella scorsa notte. — Che dici tu? rispose don Chisciotte; non odi il nitrir dei cavalli, lo squillare delle trombe, il batter dei tamburi? — Io non sento altro, rispose Sancio, se non che un gran belare di pecore e di montoni;” e ciò era vero, perché già si erano molto avvicinate le mandre. — La tema, disse don Chisciotte, t'ingombra per modo, che tu né odi, né vedi a dovere; e in verità che uno degli effetti della paura è quello di sconvolgere i sentimenti, e di presentare le cose diverse affatto da quello che or sono. Ora se sei così dappoco, ritirati, e lasciami solo, che io solo basto a rendere vittoriosa la parte da me protetta e assistita.” E detto questo spronò Ronzinante, e colla lancia in resta, discese dalla collina come un fulmine. Sancio gridava: — Torni addietro la signoria vostra, signor don Chisciotte, che giuro a Dio ch'ella va ad investire tante pecore e tanti montoni: torni addietro, per la vita di mio padre, che pazzia fa ella mai? Guardi bene che non v'ha gigante, né cavaliere! né gatto, né arme, né scudi divisi o interi, né palle azzurre, né indemoniate; ma che fa ella mai? Ah poveretto di me!” Non per questo don Chisciotte mutava proposito, anzi andava gridando: — Olà, cavalieri tutti che militate sotto agli stendardi del prode Pentapolino dal braccio ignudo, seguitemi quanti siete, e vedrete com'io presto saprò vendicarlo del suo nemico Alifanfarone di Taprobana.” Pronunziate appena queste parole, si cacciò in mezzo allo squadrone delle pecore, e cominciò ad investirle con tanto furore e con tanta animosità, come se veramente fosse andato ad affrontare un capitale nemico. I pastori ed i guardiani della mandra gridavano e replicavano che non facesse: ma poiché videro inutile il loro schiamazzo dieder di piglio ai sassi, e cominciarono a salutarlo con pietre grosse come un pugno. Don Chisciotte, non curandosi punto delle sassate, scorreva qua e colà dicendo: — Ove sei, superbo Alifanfarone, vieni a misurarti meco, che sono un solo cavaliere e bramo da solo provar le tue forze e toglierti la vita in pena delle offese che mediti contro al valoroso Pentapolino Garamanta. Capitò in questo certa mandorla liscia liscia di fiume che gli seppellì due costole nel corpo. Si tenne egli per morto, o almeno per ferito pericolosamente, ma sovvenendosi del suo liquore, trasse di subito il suo orciuolo e lo pose alla bocca mandando giù il balsamo nello stomaco. Non avea appena ingoiato quanto gli parea necessario, che eccoti un'altra grossa mandorla la quale gli colpì la mano e il vasetto sì dirittamente, che questo andò in mille pezzi, e gli uscirono di bocca tre o quattro denti mascellari, e poi gli furono malamente peste due dita della mano. Tanto furono gagliardi il primo e il secondo colpo, che il povero cavaliere dovette stramazzare giù dal cavallo. Accostaronsi allora i pastori, e credendolo spacciato, raccolsero in fretta la loro mandra, e caricate le bestie morte ch'erano più di sette, si diedero a fuggire senza cercar altro.

Sancio era stato guardando dall'altura le pazzie del suo padrone, e per dispetto strappavasi i peli della barba, e malediceva l'ora e il momento in cui la trista sua sorte glielo avea fatto conoscere. Ma poiché lo vide caduto in terra e ch'erano fuggiti i pastori, scese dal pendio, e se ne corse a lui, che quantunque non fosse affatto fuori di sé, trovavasi però ad assai tristo partito. “Non gliel diss'io, signor don Chisciotte, cominciò poi, che tornasse addietro; e che quelli che andava ad investire non erano eserciti, ma branchi di montoni? — Questa, risposegli don Chisciotte, è tutta mal'opera di quel ladrone incantatore mio nemico. Sappi, o Sancio, ch'è facile assai a costoro di farci apparire ciò che loro piace; ed è questo il maligno che mi perseguita. Costui invidiando la gloria che avrei riportata nel vincere questa battaglia, ha trasformato gli squadroni dei nemici in branchi di pecore; e per convincertene fa una cosa, te ne scongiuro, Sancio, monta sul tuo asino, seguili cautamente, e vedrai che quando saranno di poco di qua lontani, rivestiranno le primitive loro forme, e lasciando quelle di montoni ti appariranno uomini fatti e perfetti della qualità che poc'anzi ti ho minutamente descritta.... Ma no, deh non andare in questo momento, che ho gran bisogno della tua assistenza e de' tuoi servigi. Accostati e vedi quanti mascellari mi mancano, che temo purtroppo di averli perduti tutti.” Si appressò Sancio, e sì davvicino da mettergli quasi gli occhi in bocca: ma fu quello il momento in cui il balsamo fece la sua operazione nello stomaco di don Chisciotte, e mentre Sancio inchinavasi per guardargli in bocca cominciò a recere con tanta veemenza come se fosse uscita un'archibugiata e gittò nella barba del compassionevole suo scudiere quanto avea nello stomaco. — Madonna santa! esclamò Sancio; anche questa mi tocca? Ah questo infelice fu certamente ferito a morte, poiché vomita sangue per la bocca.” Riflettendo poi meglio al sapore, al colore, e all'odore, conobbe che non era sangue, ma il balsamo del vasetto che gli avea veduto bere, e fu sì forte la nausea che il prese, che rivoltandosi a lui pure lo stomaco, vomitò le budella sopra il suo padrone, sicché amendue rimasero molto bene inaffiati. Corse Sancio al suo asino per trarre dalle bisacce con che ripulirsi e medicare il padrone; ma non ritrovandole più fu quasi per dare la volta al cervello. Tornò alle imprecazioni, e propose in cuor suo di abbandonare il padrone, e di ritornarsene al proprio paese, a costo di perdere il salario dovutogli per la servitù prestata, e la speranza del governo dell'isola promessa. Allora si rizzò don Chisciotte, e postasi la mano sinistra alla bocca, perché non gli uscisse il resto dei denti, prese coll'altra le redini di Ronzinante, che non erasi scostato un punto solo dal suo padrone (tanto era leale e costumato!) e si recò là dove trovavasi il suo scudiere che stava col petto appoggiato al suo asino, e con la mano alla guancia come un uomo assorto in gravi pensieri. Vedendolo don Chisciotte a quella guisa, e immerso nella maggiore tristezza, gli disse: — Sappi, o Sancio, che un uomo non è da più di altro uomo, quando non fa più di un altro: tutte queste burrasche che ci intervengono, sono segnali che presto ha da rasserenarsi il cielo, e debbonsi cangiar in bene le cose, poiché non è possibile che il bene ed il male sieno di eterna durata. Laonde poiché il male persiste già da gran tempo, è da credere che sia per cominciare il bene; né devi dunque accuorarti per le disgrazie che mi succedono, e delle quali tu non sei punto partecipe. — E come no? rispose Sancio; quello che ieri fu trabalzato con la coperta non era il figliuol di mio padre? e le bisacce che adesso mi trovo mancare con tutto quel poco che contenevano, di chi non erano se non mie? — E che, Sancio, disse don Chisciotte, ti furono tolte le tue bisacce? — E come mi sono state rubate! rispose Sancio. — Dunque, replicò don Chisciotte, oggi non avremo di che mangiare! — E così sarebbe, replicò Sancio, se questi prati non fossero forniti di quelle erbe che vossignoria dice di conoscere, e colle quali si pascono nelle dure necessità i cavalieri erranti sventurati al pari della signoria vostra. — Per altro, rispose don Chisciotte, io adesso gradirei piuttosto un pezzo di pane o di focaccia con due teste di aringhe che quant'erbe descrive Dioscoride, fosse pure quello illustrato dal dottor Laguna. — Pazienza! monta sul tuo asino, Sancio mio buono, e seguimi, ché Dio ci provvederà di ciò che ne abbisogna; e tanto più quantoché ora travagliamo per seguirlo degnamente, non mancando egli di dar cibo alle mosche dell'aria, né ai vermicelli della terra, né al minuto pesce delle acque; ed è sì pietoso che fa risplendere il sole tanto per i buoni quanto per i malvagi, e manda la pioggia per i giusti e per gli empii. — Vossignoria, disse Sancio, sarebbe meglio riuscito a far il predicatore che il cavaliere errante. — Seppero, rispose don Chisciotte, e debbono sapere di tutto gli erranti cavalieri; e qualcuno di loro nei secoli scorsi fermavasi a predicare in mezzo ad un campo reale, come s'egli fosse stato fatto dottore nella università di Parigi, la lancia giammai fu avversa alla penna, né la penna alla lancia. — Sia pur come dice vossignoria, rispose Sancio, ma partiamo ora di qua, e procuriamo di trovar un alloggio per questa notte, e piaccia a Dio che sia dove non si abbiano copertoi, né sbalzatori, né fantasime, né Mori incantati; che se vi sono io mando ogni cosa al diavolo e alla befana. — Raccomandati al Signore, figliuol mio, disse don Chisciotte, e drizza il cammino ove più ti piace, che per questa volta lascio a te lo scegliere l'alloggio a tuo modo; ma dammi la mano e tasta col dito, e guarda bene quanti denti e quanti mascellari mi mancano da questa banda diritta della guancia superiore, che qua sento dolermi.” Vi pose Sancio le dita, e dopo tastato, disse: — Quanti mascellari solea tenere da questa banda vossignoria? — Quattro, rispose don Chisciotte, ad eccezione del dente occhiale, tutti interi e sani. — Badi bene la signoria vostra a quello che dice, rispose Sancio. — Dico quattro, seppur non erano cinque, soggiunse don Chisciotte, perché in tutto il corso della mia vita non mi fu levato dente mascellare di bocca, né alcuno mi è mai caduto, né si è guastato per tarlo. — In questa parte inferiore, disse Sancio, vossignoria non ha più che due mascellari e mezzo, e nella superiore né mezzo, né intero, ma è tutta rasa come la palma della mano. — Meschino di me! Disse don Chisciotte, sentendo le triste nuove che davagli il suo scudiere. Avrei voluto piuttosto che mi avessero spezzato un braccio, purché non fosse stato quello con cui adopero la spada; perché ti dico il vero, Sancio mio, che la bocca senza mascellari è come un mulino senza macina, e in molto maggior conto deesi tenere un dente che un diamante. Ah, siamo soggetti a tutto noi che professiamo il faticoso ordine della cavalleria! Sbrigati, sbrigati, amico, incomincia la strada, ed io ti seguirò a tuo piacere.” Così fece Sancio, e continuò la sua via in cerca di qualche alloggio. Andavano adagio perché il dolore delle ganasce dava gran tormento a don Chisciotte, e Sancio intanto studiavasi di trattenerlo con parole e di divertirlo, e tra gli altri ragionamenti venne in acconcio quello che si leggerà nel seguente capitolo.

 


CAPITOLO XIX

 

DEI PRUDENTI DISCORSI CHE TENNE SANCIO COL SUO PADRONE ‑
DELL'AVVENTURA DI UN CORPO MORTO CON ALTRI FAMOSI SUCCESSI.

 

“I malanni, diceva Sancio al suo padrone, che ci sono avvenuti ne' giorni addietro, mi do a credere che altro non sieno stati fuorché la pena del peccato commesso dalla signoria vostra in contravvenzione agli ordini della cavalleria; perché ella non ha adempiuto il giuramento che già fece di non mangiare a tavola già apparecchiata, né di trattenersi con la regina, con tutto quello che segue e che vossignoria giurò di osservare finché non possedesse l'elmo di Malandrino, o come si chiama il Moro, che non ne ricordo troppo bene. — Hai ragione, o Sancio, rispose don Chisciotte, e a dirti il vero ciò m'era uscito di mente, ed appunto in castigo della mia smemoratezza, e perché tu non me n'hai fatto cenno prima di adesso ti è accaduta la disgrazia del copertoio; ma io ne farò l'emenda, perché la cavalleria offre modo di riordinare ogni cosa. — Ma io, rispose Sancio, avrei per avventura fatto qualche giuramento? — Non importa che tu abbia o no giurato, replicò don Chisciotte; poiché tu ci hai in qualche maniera partecipato, non puoi restare tranquillo; ma comunque sia, sarà adesso ben fatto il pensare all'ammenda. — Se così è, disse Sancio, badi bene, vossignoria, a non tornarsi a dimenticare di ciò come del giuramento, che non saltasse il grillo un'altra volta alle fantasime di venire a pigliarsi spasso con me, ed anche con vossignoria se la trovano pertinace.”

Stando in questi e simiglianti discorsi furono colti dalla notte, alla metà della strada senza sapere o scoprire ove ricovrarsi, quello poi che più importa si è che morivano di fame perché colla perdita delle bisacce era mancata tutta la dispensa e la vettovaglia. Per colmo di disdetta venne ad offrirsi una nuova avventura, che tale potea questa volta chiamarsi davvero senza alcun artifizio. La notte era sopraggiunta molto più oscura dell'ordinario; ma ad onta di ciò proseguivano il viaggio, credendo Sancio che lungo una strada maestra dovrebbero trovare pur qualche osteria a poca distanza. Camminando dunque in mezzo alle tenebre lo scudiere affamato e il padrone con ismania di mangiare, videro per lo stesso cammino avanzarsi alla volta loro una gran quantità di lumi, i quali sembravano stelle che si movessero. S'impaurì Sancio a quella vista, e don Chisciotte non mancò di averne qualche apprensione. L'uno tirò la cavezza, e l'altro la briglia; se ne stettero guardando attentamente ciò che potessero essere, e videro che i lumi si avvicinavano sempre più, e quanto più s'appressavano, tanto più sembravano grandi. Sancio cominciò a tremare come se fosse nell'argento vivo; e si drizzarono a don Chisciotte i capelli della testa; ma poi rincorandosi un cotal poco, disse: “Questa, senza dubbio, o Sancio, debb'essere grandissima e pericolosissima avventura, in cui sarà necessario ch'io spieghi tutto il mio valore e la mia bravura. — Povero me! rispose Sancio, e se a caso fosse questa un'avventura di fantasime, come mi pare che sieno, chi avrà mai tante costole da sopportarla? — Sieno fantasime quanto vogliono ch'io non permetterò mai che ti sia toccato un pelo della barba; che se altra volta si presero di te quella burla, fu perché non ho potuto saltare la muraglia della corte; ma ora ci troviamo in campagna aperta, e qua potrò a mio talento adoperare la spada. — Ma se la incantano, come fecero la volta passata, disse Sancio, che gioverà trovarsi in campo aperto o serrato? — Con tutto questo, replicò don Chisciotte, ti prego, Sancio mio, a stare di buon'animo, perché la sperienza ti farà conoscere quanto io possa contare su questo mio braccio. — Cercherò io pure, piacendo a Dio, disse Sancio, di sostenermi;” e traendosi amendue da una parte della strada, tornarono a guardare attentamente che cosa potessero essere quei tanti lumi ambulanti.

Poco appresso scoprirono molti uomini incamiciati, la cui spaventevole visione finì di sbigottire affatto il povero Sancio Pancia, il quale cominciò a sbattere i denti com'uno che è preso dalla quartana: e lo sbattere dei denti e il tremar delle membra crebbero a dismisura quando scorsero venti persone con sacco indosso, tutti a cavallo, con torce accese in mano. Dietro a loro veniva una lettiga coperta a lutto, accompagnata da altri sei a cavallo, vestiti essi pure con abito nero lungo sino ai piedi delle mule (che così le giudicarono per il posato loro andare), e procedevano mormorando non so che fra loro con voce bassa e lamentevole. Visione sì strana a quell'ora, e in quel luogo deserto era ben sufficiente per mettere spavento non solo nel cuore di Sancio, ma in quello ancora del suo padrone. Con tutto ciò, mentre Sancio non sapea quasi più come tirare il fiato, il contrario avveniva a don Chisciotte, alla cui fantasia si offrì al vivo in quel punto che fosse una delle avventure trovate nei suoi libri. Si figurò che la lettiga fosse una bara ove dovesse essere qualche malferito od estinto cavaliere, la cui vendetta era riserbata a lui solo; e senz'altre parole mise la lancia in resta, si assicurò bene in sella e con animo risoluto postosi in mezzo alla strada per dove gl'incamiciati doveano necessariamente passare, quando se li vide vicini, disse a gran voce: — Fermatevi, cavalieri ignoti, e fatemi sapere chi siete, donde venite, a qual parte andate, e che cosa rinchiudasi in quella bara. Per quanto sembra, o avete fatto, o avete ricevuto qualche affronto; ed è necessario ch'io 'l sappia o per punirvi del male forse da voi fatto, o per vendicarvi del torto che poteste avere sofferto per colpa altrui. — Noi abbiamo fretta, rispose uno degli incamiciati, lontana è l'osteria, né ci resta agio di trattenerci per darvi conto di tutto quel che domandate;” e dato degli sproni alla mula, passò innanzi. Si adontò don Chisciotte di quella risposta, e pigliando la mula per la briglia la spaventò in modo che, inalberatasi, fece cadere per le groppe chi vi era sopra.

Un servitore che andava a piedi, vedendo cadere in terra l'incamiciato cominciò a dire mille ingiurie a don Chisciotte, il quale indispettito, senz'attender altro, mettendo in resta il lancione, buttò a terra uno di cotesti vestiti a bruno che restò malamente ferito; ed investendo poi gli altri con meravigliosa prestezza assalì, vinse e sbaragliò: pareva che in quel momento fossero nate le ali a Ronzinante; tanto marciava leggiero e baldanzoso! Tutti gl'incamiciati erano gente pavida, disarmata, e quindi con somma facilità e in un momento senza altre zuffe, si posero a fuggire per la campagna con le torce accese, che sembravano tante maschere di quelle che sogliono correre nelle allegre e festevoli notti del carnevale. Essendo poi ravvolti e imbacuccati ne' lunghi loro abiti e zimarre non potevano affrettare il passo, e perciò don Chisciotte, senza esporsi a pericolo di sorta alcuna, li bastonò tutti e li fece fuggire a loro malgrado; e tanto più che tutti si persuasero ch'egli non fosse altrimenti un uomo, ma un demonio venuto per impossessarsi del cadavere che portavano nella lettiga. Sancio se ne stava guardando ogni cosa, maravigliato dell'ardimento del suo padrone, e dicea fra se stesso:

— Questo mio padrone è certamente valoroso e forte come si vanta!” Stava una torcia per terra vicino al primo ch'era caduto colla mula, ed a quel lume poté essere ravvisato da don Chisciotte, che accostandosi gli appuntò al viso il lancione, e gl'intimò che si arrendesse se non voleva essere ammazzato. Il povero caduto, rispose: — Io mi sono già arreso mentre non posso movermi, che mi è stata rotta una gamba; e supplico la signoria vostra, se è cavaliere cristiano, che non mi uccida, perché commetterebbe un gran sacrilegio essendo io chierico e già pervenuto ai primi ordini. — E chi diamine vi ha qui condotto, disse don Chisciotte, se siete un ecclesiastico? — Chi? rispose il caduto; la mala mia sorte. — Ma un'altra peggiore ve ne sta sopra, disse don Chisciotte, se non rispondete puntualmente a quanto vi domando. — Servirò vossignoria molto volentieri, rispose colui; ed ella saprà che quantunque io le abbia detto di essere chierico, non sono che baccelliere, e mi chiamo Alfonso Lopez nativo di Alconvendas; vengo dalla città di Baeza con altri undici sacerdoti, che sono quelli che fuggirono colle torce accese, e siamo diretti alla città di Segovia per accompagnare un corpo morto che giace in quella lettiga; ed è il corpo di un cavaliere mancato di vita in Baeza dove stette depositato per qualche tempo, e adesso, come dico, ne portiamo le ossa al suo sepolcro ch'è in Segovia sua patria. — E chi lo ammazzò? domandò don Chisciotte. — Dio che gli mandò una febbre maligna, rispose il baccelliere. — A questo modo, soggiunse don Chisciotte, nostro Signore mi ha disobbligato dal pensiero di vendicare la sua morte, il che avrei fatto se fosse stato ucciso da qualcun altro; ma essendo mancato di vita per la causa che mi adducete, non vi è altro che starsene cheti e stringersi nelle spalle; che già si farebbe lo stesso se si trattasse della morte mia. Bramo per altro che sappia vostra riverenza ch'io sono il cavaliere della Mancia, chiamato don Chisciotte, e che il mio dovere e il mio esercizio consistono nello andare per lo mondo raddrizzando torti, e vendicando soperchierie. — Non posso intendere, disse il baccelliere, come raddrizzate i torti, mentre di diritto ch'io era mi lasciate qui storto con rotto una gamba, la quale non si raddrizzerà mai più finché io vivrò; e quella soperchieria da cui mi avete salvato consiste nel ridurmi a modo da ricordarmene per tutta la vita; ah! è stata ben grande la mia sventura nell'abbattermi in voi che andate cercando le avventure. — Non accadono tutte le cose a un modo, risponde don Chisciotte: il male è stato, signor baccelliere Alfonso Lopez, a venire come faceste di notte vestito con quel camiciotto, con torce accese, bisbigliando, e così messo a bruno che propriamente sembravate una figura d'altro mondo, né io ho potuto dispensarmi dallo eseguire il dover mio assaltandovi; ed avrei fatto lo stesso quand'anche avessi saputo che foste i diavoli dell'inferno; che tali vi ho giudicati, e tali mi sembrate anche adesso. — Poiché mi riserbò la sorte a questo destino, disse il baccelliere, supplico vossignoria, signor cavaliere errante, che avendomi posto a sì mal partito, mi diate almeno aiuto a liberarmi da questa mula che mi tiene imprigionata una gamba tra la staffa e la sella. — Dovevate aspettare a dirmelo domani, rispose don Chisciotte; e fin quando volevate occultarmi la vostra disgrazia?” Chiamò allora Sancio ad alta voce, ma egli non si prese molto pensiero di obbedirlo essendo occupato a svaligiare una mula che portava un carico di cose da mangiare, provvisione indispensabile per quella buona gente. Egli avea formato del suo gabbano una specie di sacco, e andava riempiendolo di tutto quanto vi poteva capire: il che eseguito, e caricato il suo asino andò a vedere di che abbisognasse il padrone, ed allora aiutò egli pure il signor baccelliere a sciogliersi dalla oppressione in che lo teneva la mula, e ponendovelo sopra gli consegnò anche la torcia. Don Chisciotte gli disse che tenesse la strada presa da' suoi compagni, ai quali chiedesse in suo nome perdono della offesa ricevuta da lui, benché senza sua colpa. Sancio pure gli disse: — Se a sorte volessero sapere quei signori chi è stato il valoroso che li ha conci a quel modo, dirà vossignoria ch'è stato il famoso don Chisciotte della Mancia, il quale con altro nome si chiama il Cavaliere della Trista Figura.” Andò pe' fatti suoi il povero baccelliere, e don Chisciotte, rimasto inoperoso, dimandò a Sancio per qual cagione si fosse indotto piuttosto in questa che in altre circostanze ad appellarlo il Cavaliere della Trista Figura. — Rispondo subito, disse Sancio; perché stando io rimirandola al lume di questa torcia, che porta ora con sé quel disgraziato passeggero, ho veduto che vossignoria è da poco in qua diventato la più trista figura che mi sia mai caduta sott'occhio; il che da me si attribuisce o alla stanchezza o alla fatica di tanti combattimenti, ovvero alla mancanza dei denti mascellari. — Non è questa no, la cagione, rispose don Chisciotte, ma perché al savio ch'è incaricato di scrivere la storia delle mie imprese sarà parso ben fatto ch'io prenda qualche nome appellativo, come lo prendevano tutti i cavalieri miei antecessori, che uno si chiamava quello dell'Ardente Spada, l'altro quello dell'Unicornio, ovvero quello delle Donzelle o quello della Fenice, questi il Cavaliere del Grifo, l'altro quel della Morte, e con questi nomi ed insegne erano conosciuti per tutto il circolo della terra. Dico per questo, che il savio predetto ti avrà posto in bocca e in pensiero poco fa che tu mi chiamassi il Cavaliere della Trista Figura, come appunto io diviso di chiamarmi per l'avvenire; e perché mi calzi meglio un tal nome, farò dipingere (ove mi presenti l'opportunità) nel mio scudo una assai trista figura.

— Non occorre, signor mio, gittare inutilmente tempo e denari per dipingere una brutta figura; basta che la signoria vostra faccia vedere il suo volto, e senz'altre brighe o bisogno di pittura nello scudo lo chiameranno quello della Trista Figura, perché le protesto, o signore, e mi creda che le dico il vero (sia detto per burla) che la fame e la mancanza dei mascellari le rendono il muso tanto deforme, che potrà far meno assolutamente di spendere nella pittura.” Rise don Chisciotte degli scherzi di Sancio; ma contuttociò propose seco medesimo di chiamarsi con quel nome quando fosse riuscito a far dipingere il suo scudo o rotella come avea immaginato; e poi gli disse: — Comprendo, Sancio, ch'io resto scomunicato per aver posto mano violentemente in cosa sacra, secondo quel testo: Si quis suadente diabolo, etc., benché io, a dir vero, non misi loro addosso le mani, ma questo lancione, poi io non credetti di offendere i sacerdoti o cose di chiesa, che rispetto e adoro come cattolico e fedel cristiano, ma fantasime e visioni dell'altro mondo. E ad ogni modo, mi sovviene quanto accadde al Cid Ruy Diaz quando ruppe la sedia dell'ambasciadore di quel re dinanzi a Sua Santità il papa, che per questa cosa lo scomunicò; e nondimeno in quel giorno il buon Rodrigo di Vivar si portò da onorato e valoroso cavaliere.”

Quando il baccelliere Alonso Lopez sentì toccar questa corda andò pe' fatti suoi senza replicare parole. Bramava don Chisciotte di vedere se il corpo che giaceva nella lettiga fosse ridotto in ossa o altrimenti, ma Sancio non vi acconsentì dicendogli: — Signore, ella ha posto fine a questa pericolosa avventura con la maggior sicurezza di tutte le altre da me vedute. Questa gente, benché sconfitta e posta in iscompiglio, potrebbe darsi che vergognandosi di essere state vinta da una sola persona, tornasse addietro e ci desse di che fare. Il giumento è all'ordine; la montagna vicina; la fame è pronta; non resta dunque se non che ci ritiriamo senza perder tempo, e come suol dirsi: vada il morto alla sepoltura e il vivo alla focaccia.” Fattosi dinanzi al suo asino, pregò il suo padrone che lo seguitasse, e sembrando a don Chisciotte che Sancio avesse ragione, lo seguì senz'altre parole. Internatisi pochi passi si trovarono fra due colline, in un'ampia e romita valle dove smontarono, e Sancio alleggerì il giumento, e sedutosi sopra la verde erbetta con la salsa della fame pranzarono, fecero merenda e cenarono a un punto stesso, e reficiarono il loro stomaco mercé delle fredde vivande che i signori chierici del defunto (i quali di rado si trovano alla sprovvista) si portavano bene condizionate sopra la loro mula. Successe però un'altra disgrazia, che Sancio tenne per la peggiore di tutte, e fu che mancò e vino ed acqua da porre alla bocca. Stimolati dalla sete, e vedendo che quel prato in cui si trovavano era coperto da erba tutta fresca e minuta, Sancio disse quello che si leggerà nel seguente capitolo.

 


CAPITOLO XX

 

DELLA GIAMMAI VEDUTA ED INTESA AVVENTURA CHE NON FU TERMINATA
CON TANTO POCO PERICOLO DA FAMOSO CAVALIERE DEL MONDO, CON QUANTO POCO
FU SUPERATA DAL VALOROSO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA.

 

“In questi dintorni, per l'indizio che ce ne danno queste freschissime erbe, deve, senza dubbio, trovarsi o una fonte o un ruscello che le inverdisca; e sarà bene, diceva Sancio, che camminiamo un poco; ché noi troveremo certamente il mezzo di estinguere la sete orribile che ci crucia e ci strazia assai più della fame.”

Piacque a don Chisciotte il consiglio, e prendendo egli per le redini Ronzinante, e Sancio, il suo asino pel capestro, dopo averlo caricato degli avanzi della cena, si posero a camminare a tastone qua e là per lo prato, poiché l'oscurità della notte non lasciava loro discernere cosa alcuna. Non ebbero fatto duegento passi, quando giunse loro all'orecchio un gran rumore d'acqua che pareva precipitasse da qualche balza. Questo rumore grandemente li rallegrò; e fermatisi per accertarsi d'onde partiva, un altro ne udirono d'improvviso, ma di natura tale che fece obbliare l'allegrezza dell'acqua scoperta, specialmente a Sancio che per sua natura era timido e di poco cuore. Consisteva in certe botte a battuta, accompagnate da stridore di ferri e catene, che frammisto al furioso rombazzo dell'acqua, avrebbe messo paura in ogni altro cuore che non fosse stato quello di don Chisciotte. Era, come si è detto, oscura la notte, e il caso li portò fra alberi altissimi, le cui fronde, mosse dal vento, producevano un altro mormorio piacevole e pauroso ad un tempo; di qualità che tutt'insieme la solitudine, il sito, l'oscurità, il susurro delle acque, lo stormir delle foglie, tutto cagionava orrore e spavento. E tanto più poi considerando che né le botte cessavano, né il vento taceva, né il giorno era vicino, né oltre a questo sapevano in che luogo si trovassero.

Don Chisciotte però, animato dall'intrepido suo cuore, salì sopra Ronzinante, e imbracciando la rotella dié di piglio al suo lancione, dicendo: — Sancio mio, hai da sapere che io nacqui per favore del cielo in questa età nostra di ferro per fare rivivere quella dell'oro o l'età dorata siccome noi siamo soliti nominarla. Quegli son io a cui riserbati sono i perigli, le alte imprese ed i memorabili avvenimenti; quegli son io cui si aspetta di far rinascere i tempi della Tavola Rotonda, dei dodici paladini di Francia, dei nove della Fama; quegli per cui debbono essere obbliati del tutto i Platiri, i Tablanti, gli Olivanti, i Tiranti, i Febi ed i Belianigi con tutta la caterva de' famosi cavalieri erranti della antica età, facendo in questa nella quale mi trovo tanto grandi azioni, tanto straordinarie cose e fatti d'arme da oscurarne i più celebri finora uditi.

Poni ben mente, fedele ed accorto scudiere mio, alle tenebre di questa notte, al suo silenzio profondo, al sordo e confuso rombare di questi alberi, allo strepitoso mormorare di quell'acqua che siam venuti cercando, e che sembra precipitarsi dagli alti monti della luna, ai colpi incessanti che ci feriscono con tanta pena gli orecchi; cose tutte qui raccolte, ognuna delle quali saria bastante da per sé sola metter tema, paura e spavento nel petto istesso del dio Marte, e tanto più dunque in quello di chi non è avvezzo a così fatti avvenimenti ed incontri. Or bene; tutte queste cose che io ti vengo mettendo in considerazione, sono incentivo e stimolo all'animo mio; e già il cuore mi si gonfia nel petto pel desiderio che ho di affrontare quest'avventura per quanto pericolosa si mostri; perciò restringi un poco le cinghie a Ronzinante, poi rimanti con Dio, ed aspettami qua non più di tre giorni; compiti i quali, se non mi rivedi, torna alla nostra terra, e giunto che vi sarai, ti prego per favore e per grazia di recarti al Toboso, dove dirai alla incomparabile signora mia Dulcinea, che il cavaliere suo schiavo è morto per essersi accinto ad imprese che lo rendessero degno di chiamarsi suo prigioniere.”

Quando Sancio sentì parlare in tal guisa il padrone, si mise a piangere colla maggior commozione del mondo, e gli disse: — Signore, io non so perché mai vossignoria voglia mettersi a sì tremendo cimento; adesso è notte, qua non si trova anima viva, e noi possiamo andare per un'altra strada e schivare il pericolo, a costo di camminare tre giorni senza trovare una goccia d'acqua per bere; e poiché non v'è chi ci vegga, meno vi sarà chi ci accusi codardi e poltroni. Sovvengomi di aver sentito parecchie volte predicare il curato della nostra terra, ben conosciuto da vossignoria, e dire che chi si espone nel pericolo, nel pericolo cade; né è bene stuzzicare il cane che dorme e mettersi in un cimento da cui l'uomo non possa uscire se non per mero prodigio; e le basti quello che ha fatto il cielo preservandola dall'essere, come avvenne a me, sbalzato per aria colla coperta, e concedendole vittoria sopra quei tanti nemici che accompagnavano il morto; e quando tutto questo non bastasse a movere l'indurato suo cuore, lo mova almeno il pensiero che tosto vossignoria si sarà di qua allontanata, a me uscirà l'anima per la paura e mi resterò qua tutto basito. Sono partito dal mio paese, ho abbandonato la moglie e i figliuoli per venir a servirla, pensando di dover diventarne da più e non da meno: ma siccome il soprappiù rompe il sacco, così mi veggo tolte le speranze quando io le nutriva più vive, di pervenire al governo di quella malaugurata isola infelicissima che le tante volte mi fu proposta da vossignoria; e in cambio e in compenso ora ella si determina di abbandonarmi in un sito così appartato dal genere umano? La prego per carità, padrone mio, di non lasciarmi desolato e deserto, o se non vuole la signoria vostra desistere, rimetta per lo meno il suo viaggio fino alla mattina; che per le cognizioni ch'io ho preso sin da quando era pastore, non possono mancare tre ore all'alba; perché la bocca dell'Orsa minore sta sopra la testa della croce e fa la mezzanotte in braccio sinistro. — Come puoi tu Sancio, disse don Chisciotte, vedere dove sia questa linea né dove questa bocca o questa collottola che vai dicendo, mentre la notte è sì oscura, che non si scorge pur una stella nel cielo? — La cosa è com'io l'ho detta, rispose Sancio, e la paura ha molti occhi e giunge a vedere fino sotterra allo stesso modo come vede fino al cielo; ed è il fatto che poco ci manca allo spuntare del giorno. — Manchi quello che può mancare, replicò don Chisciotte, non si dirà mai di me verun tempo che lagrime o preghiere tolto mi abbiano dall'eseguire il debito di cavaliere; perciò pregoti, Sancio, che altro tu non soggiunga, perché Dio che mi ha posto in cuore di imprendere senza ritardo una non più veduta e ardimentosa avventura, mi guiderà a salvezza e conforterà il tuo dolore; assetta bene le cinghie a Ronzinante, e rimanti qui, che, vivo o morto, presto sarò a te di ritorno.” Vedendo Sancio la decisa volontà del padrone, e le sue lagrime, i suoi consigli e i suoi prieghi essere inefficaci, si avvisò di correre all'astuzia per tentar pure ch'egli aspettasse il giorno; e così nello stringere le cinghie al cavallo, con avvedutezza e senza fare il menomo strepito legò colla cavezza del suo asino i piedi di dietro di Ronzinante, di maniera che quando don Chisciotte si accinse di partire gli fu impossibile perché il cavallo si moveva soltanto a salti. Vedendo Sancio il buon successo dell'arte usata, disse: — Ecco, o signore, che il cielo commosso dalle mie lagrime e dalle mie preghiere ha disposto che Ronzinante non possa moversi, e se ella perfidierà a voler che cammini a furia di sproni e di percosse, sarà uno stancare la fortuna e, come suol dirsi, dar delle pugna all'aria.” Disperavasi don Chisciotte, e più che spronava il cavallo meno lo faceva muovere; laonde senza sospettare della legatura, tenne per il più savio partito di mettersi in quiete ed attendere che facesse giorno e che Ronzinante potesse moversi; né mai pensando che quell'inciampo provenisse dalla malizia di Sancio, gli disse: — Poiché, o Sancio, Ronzinante non può muoversi, sono contento di aspettare lo spuntar dell'alba, benché io pianga questo tempo che ho da perdere fin ch'ella sorga. — Qui non c'è da piangere, rispose Sancio, perché io intratterrò vossignoria col racconto di qualche novella finché si fa giorno, se pure non volesse ella piuttosto smontare e mettersi un po' a dormire su quest'erba, alla maniera de' cavalieri erranti, per trovarsi più agile domattina e più forte a sostenere l'incomparabile avventura che nuovamente lo aspetta. — Che parli tu di scendere o di riposare? disse don Chisciotte. Son io forse di que' cavalieri che cercano riposo prima di affrontare i pericoli? Dormi tu, che sei nato per dormire, o fa quello che ti piace, ch'io mi applicherò a quanto esige la circostanza in cui mi ritrovo. — Non si adiri per questo vossignoria, rispose Sancio, che io non ho parlato a tal fine.” Ed accostandosi a lui pose una mano sull'arcione dinanzi e l'altra sul posteriore per modo che abbracciò la coscia sinistra del suo padrone, senza osare di staccarsi un puntino da lui; e ciò fece per lo spavento da cui fu colto udendo nuovo strepito con nuovo alternar di percosse. Don Chisciotte gli disse che raccontasse qualche novella per trattenerlo secondo la sua promessa; e Sancio rispose che fatto l'avrebbe se glielo permettesse la paura di quello che sentiva. — Contuttociò, soggiunse, mi sforzerò a contare una storia, che se potrò dirla, e me la lasciano dire, sarà trovata la più bella del mondo. Stiami attento vossignoria, e do principio.

“Era ciò ch'era, il bene non viene per tutti e il male per chi ne va in cerca; ed avverta vossignoria che gli antichi non principiavano le loro favole all'impazzata, ma fu una sentenza di Caton Zonzorino romano, che dice: E venga il malanno a chi se lo va a buscare, che qui torna a proposito come anello al dito, e tanto più a proposito quantoché vossignoria dovrebbe star qui fermo e non andar in cerca di guai; anzi piuttosto mutiamo strada, da che nessuno ci obbliga a seguire questa ch'è piena di tanti spauracchi.

— Prosegui il tuo racconto, disse don Chisciotte, e lascia il pensiero a me della strada da battere.

— Dico pertanto, proseguì Sancio, che in un paese della Estremadura vi era un pastore capraio, dir m'intendo di quelli che guardano capre, il qual pastore capraio, come sto raccontando, chiamavasi Lope Ruiz, e questo Lope Ruiz era innamorato di una pastorella, nominata Torralva, la qual pastorella nominata Torralva, era figliuola di un ricco pastore, e questo ricco pastore...

— Se tu vai narrando a questo modo la tua novella, disse don Chisciotte, e vuoi ripetere due volte tutto quello che dici, non ti basteranno due giorni: raccontala di seguito e da uomo di giudizio, o diversamente non dir altro.

— Nella stessa maniera che la racconto, rispose Sancio, si raccontano nel mio paese tutte le novelle, né io so fare altrimenti, né mi pare ben fatto che vossignoria mi costringa di prendere nuove usanze.

— Dilla come t'è a grado, rispose don Chisciotte, e seguita pure, giacché vuol la mia stella che io resti ad ascoltarti.

— Ora dunque, o signore dell'anima mia, proseguì Sancio, come di già le ho detto, questo pastore era innamorato di Torralva, ch'era una giovane piuttosto rozza e selvatica, ed aveva un poco dell'uomo, perché le spuntavano un po' di mustacchi, che mi sembra propriamente di averli sott'occhio.

— La conoscesti tu? disse don Chisciotte.

— Io veramente non la ho conosciuta, rispose Sancio, ma chi mi ha fatto questo racconto, mi assicurò che questa cosa era indubitabile e che, facendone io ad altri il racconto, potrei affermare e giurare di averla veduta tal quale. Ora dàlli un giorno, dàlli un altro, il diavolo che non dorme e che va imbrogliando ogni cosa, fece in modo che l'affetto che portava il pastore alla giovane si cambiasse in odio e trista volontà; e ciò nacque (a quanto ne sparsero le male lingue) da un poco di gelosia che ella gli diede, e tale che passando il segno produsse tanto odio nel pastore verso di lei, che per non vederla si tolse da quel paese per andare dove i suoi occhi non la vedessero più. La Torralva che si vide sprezzata da Lope, cominciò a volergli bene più che mai.

— Questo è naturale istinto nelle donne, disse don Chisciotte, sprezzar chi le ama, e amar chi le odia; ma tira pure innanzi, o Sancio.

— Accadde, disse Sancio, che il pastore eseguì ciò che avea determinato di fare, e mettendosi alla testa delle sue capre, s'incamminò verso le campagne della Estremadura con intenzione di passare nel regno di Portogallo. La Torralva che lo seppe, gli tenne dietro a piedi scalzi da lontano, portando in mano un bordone ed al collo un paio di bisaccie nelle quali aveva posto, a quanto vien detto, un pezzo di specchio, un mezzo pettine, e non so che vasetto di empiastri pel viso; ma si portasse pure quello che meglio le pareva, ch'io non voglio stare adesso a cercarne conto; il fatto si è che il pastore arrivò colla sua mandra al passaggio del fiume Guadiana, il quale era sì gonfio in quella stagione che non si trovava né barca né battello, né battelliere per tragittare né lui né la sua mandra. Di che provò molto fastidio, perché già le pareva di avere alle calcagna la Torralva ad annoiarlo colle sue preghiere e colle sue lagrime: andò nondimeno guardando finché trovò un pescatore che aveva una barca tanto piccola che appena potea capirvi una persona e una capra, ma con tutto questo fece contratto con lui perché lo tragittasse colle trecento capre che conduceva con sé. Entrò il pescatore nella barchetta e tragittò una capra; tornò e ne tragittò un'altra; ritornò ancora e tornò a tragittarne un'altra... Tenga conto vossignoria delle capre che il pescatore va tragittando, perché se una gliene scappa di mente terminerà la novella, e non sarà possibile di proseguirla. Io proseguo dunque il racconto, e dico, che la riva opposta del fiume era piena di fango e sdrucciolevole molto, sicché tardava il pescatore ad andare e tornare; contuttociò tornò per tragittare un'altra capra e poi un'altra e un'altra poi...

— Fa conto che sieno passate tutte, disse don Chisciotte e non ti perdere a dire così pel minuto ogni andata ed ogni ritorno, ché non finiresti di farle passare in un anno.

— Quante ne sono passate finora? disse Sancio.

— Come diavolo vuoi tu ch'io lo sappia? rispose don Chisciotte.

— Ah! poveretto di me, disse Sancio, la ho pure avvertita di tenerne esatto conto, e adesso come farò ad andare avanti?

— E come può darsi ciò? rispose don Chisciotte; tanto essenziale è a questa istoria di saper per l'appunto quante capre erano passate, che sbagliandone il numero non possa andar avanti la storia?

— No, signore, a verun patto, rispose Sancio; perché come io dimandando a vossignoria quante capre erano passate, ella mi rispose che non lo sapeva, così in quel punto stesso scappò a me di mente quanto mi restava da raccontare, ch'era pure fino e gustoso!

— Dunque, disse don Chisciotte, è compita la storia?

— Compita come mia madre, rispose Sancio.

— Per dirti il vero, replicò don Chisciotte, tu mi hai sciorinato uno de' più nuovi racconti, istorie o novelle che si possano immaginare al mondo, ed una forma di raccontarlo e di finirlo come la tua non ha esempio, ma altro non dovea attendermi dal tuo bel modo di ragionare; e poi non me ne maraviglio perché questi colpi che non cessano mai debbono averti turbato l'intelletto.

— Sarà vero, rispose Sancio, ma io so che niente si può aggiungere alla mia istoria che termina dove comincia a perdersi il conto del passaggio delle capre.

— Non importa, replicò don Chisciotte; vediamo se Ronzinante si può movere.”

Tornò a dar degli sproni, e quello a far nuovi salti senza movere un passo: tanto bene l'avea Sancio legato. Frattanto, o per il freddo della mattina che s'accostasse, o perché Sancio avesse mangiato a cena qualche cosa di lenitivo, o perché naturalmente fosse chiamato (ciò ch'è più verosimile) gli venne voglia di fare ciò ch'altri non potea fare per lui; ma tanto grande era la sua paura che non osava scostarsi un passo dal suo padrone. E poiché gli era impossibile di non servire alla sua stringente necessità, per conciliare ogni cosa, levò via la mano diritta dell'arcione di dietro, e sciolto di cheto un cappio scorsoio con cui teneva allacciati i calzoni, alzò il meglio che poté la camicia per fare le sue occorrenze. Ma parendogli poi di non poterne riuscire senza far qualche strepito che lo tradisse, cominciò a stringere i denti e a raggricchiarsi nelle spalle, trattenendo il fiato il più che poteva; e tuttavolta non valse a impedire che nascesse un cotal rumore diverso da quello che gli aveva messa già tanta paura. Lo sentì don Chisciotte, e disse: — Sancio, che strepito è questo? — Nol so, rispos'egli; qualche altra novità, perché le avventure e le disavventure non vengono mai sole:” e nel dire queste parole il povero Sancio si trovò libero del fardello che gli aveva recato tanto fastidio. Siccome don Chisciotte avea sì perfetto il senso dell'odorato come quello dell'udito, e Sancio gli era sì vicino e tanto immedesimato che quasi per la linea retta salivano in su i vapori, non poté impedire che questi non gli entrassero per le narici; si affrettò di turarle bene con due dita, e parlando così nel naso, disse: — Parmi, Sancio, che tu abbia gran paura. — Per l'appunto, diss'egli; ma donde arguisce vossisignoria ch'io tema più adesso che prima? — Perché adesso più che prima mandi un odore che non è d'ambra, rispose don Chisciotte. — Così può ben essere, replicò Sancio; ma non è mia la colpa, bensì della signoria vostra che mi fa seguitarla in ore insolite e per queste strade deserte. — Tirati in là tre o quattro passi, amico, (disse don Chisciotte senza levar le dita dal naso) e da qui innanzi ricordati di quel rispetto ch'è dovuto alla mia persona, né la molta domestichezza trapassi in noncuranza. — Scommetterei, disse Sancio, che vossignoria crede ch'io abbia fatto qualche cosa fuor del dovere. — Meglio sarà non rimescolare questa faccenda, rispose don Chisciotte.

In questi somiglianti ragionamenti, padrone e scudiere passarono la notte; ma vedendo Sancio che il giorno si avvicinava, cheto cheto slegò Ronzinante e si allacciò di nuovo i calzoni. Quando Ronzinante si trovò sciolto, benché di natura non punto furioso, parve che si risvegliasse, e cominciò a battere i piedi, che di corvette (con buona pace) non ne sapeva far troppe. Vedendo don Chisciotte che Ronzinante si moveva, l'ebbe per buon augurio e come un segnale di doversi accingere alla pericolosa avventura. L'alba intanto finì di spuntare e scorgendosi distintamente le cose, vide don Chisciotte che trovavansi allora tra alti castagni, l'ombra dei quali era molto opaca, e sentì pure che non cessava il rumore dei colpi. Senz'altro indugio die' degli sproni a Ronzinante, e tornando a prendere commiato da Sancio, gli ordinò di aspettarlo in quel sito tre giorni al più, come gli aveva detto già prima; dopo il qual tempo se non lo avesse riveduto, tenesse per certo che il cielo avea disposto ch'egli lasciasse la vita in quella perigliosa avventura. Tornò a ripetergli l'ambasciata che far dovea da sua parte alla sua signora Dulcinea, e che quanto al pagamento dovuto ai servigi suoi non si prendesse pensiero, mentre avea fatto il suo testamento prima di partire dal paese, in vigore del quale si troverebbe compensato di ciò che gli doveva a titolo di salario secondo il tempo che aveva impiegato a servirlo; ma se per favore del cielo uscisse vittorioso da quel pericolo, tener per cosa fuor d'ogni dubbio il possedimento dell'isola che gli avea promessa.

Sancio si mise di nuovo a piangere, udendo le sconsolate parole del suo buon signore, e deliberossi di non abbandonarlo fino al termine, qualunque fosse per essere, di quella ventura. — Da queste lagrime e da questa onorata risoluzione di Sancio Pancia cava l'autore della presente istoria argomento per credere ch'egli fosse uomo ben nato, o almeno cristiano vecchio. Quell'affezione commosse anche il suo padrone, ma non sì però che mostrasse debolezza alcuna; anzi dissimulando alla meglio cominciò a camminare verso il luogo da cui gli parve che partisse il rumore dell'acqua e dei colpi. Sancio seguitavalo a piedi tenendo al solito per la cavezza il giumento perpetuo compagno della sua prospera e contraria fortuna; ed essendosi buona pezza inoltrati fra quei castagni e le altre ombrose piante giunsero in un praticello sotto un'alta balza da cui precipitava un grandissimo volume d'acqua. Stavano pure a pie' della balza pochi rustici casolari mal costrutti, che sembravano rovine di edifizî anziché case, dall'interno dei quali si accorsero che partiva il formidabile fracasso di quelle botte che pur non cessavano.

Si spaventò Ronzinante al rumore dell'acqua e dei colpi, e don Chisciotte, facendogli carezze, a poco a poco lo avviò verso le case, raccomandandosi di tutto cuore alla sua signora, e supplicandola che in quella terribile giornata ed impresa non gli mancasse di favore, e nel tempo medesimo si mise sotto la protezione del cielo. Sancio procurava di non istargli lontano allungando quanto poteva il collo e gli occhi tra le gambe di Ronzinante per vedere la causa di quel fracasso che incuteva sì gravi sospetti e spaventi. E dopo un altro centinaio di passi allo svoltar di una roccia apparve chiara e patente la causa (ché altra non poteva essere) di quanto la scorsa notte gli avea tenuti sì altamente sospesi e impauriti. Procedeva dunque (se hai voglia, o lettore, di venirne a cognizione) da sei magli di gualchiere i quali coll'alternare dei colpi producevano tanto strepito. Quando don Chisciotte conobbe ciò ch'era ammutolì e parve basito da capo a piedi. Sancio lo guardò, e si accorse che tenea la testa china, confessando di essere stato troppo corrivo. Don Chisciotte ancora guardò Sancio, e vide che avea gonfie le gote per la voglia di ridere con evidente segno di dar presto in un grande scoppio. Ciò, ad onta del suo rincrescimento, lo sforzò a ridere egli medesimo. E Sancio, veduto che il suo padrone lo secondava, proruppe in tali scrosci che dovette stringersi i fianchi colle pugna per non iscoppiarne davvero. Quattro volte si ristette, ed altrettante tornò a ridere con la veemenza di prima, lo che fece poi incollerire don Chisciotte, in cui si accrebbe la stizza, vedendo che Sancio in atto di quasi deriderlo, ripeteva le parole: Hai da sapere, amico Sancio, ch'io nacqui per favore del Cielo in questa età di ferro per far rivivere quella dell'oro: quegli son io cui son riserbati i pericoli, le grandi imprese, gli strepitosi avvenimenti; e qui tornava a ripetere quanto il padrone aveva detto la prima volta che uditi si erano gli spaventevoli colpi. Ma don Chisciotte vedendo che Sancio si burlava di lui, montò in tanta furia che, alzato il lancione, gli diede con esso due sì grandi picchiate che se, come le ricevette nelle spalle, gli fossero arrivate alla testa, non avrebbe riscosso altro salario, ma sarebbe toccato ai suoi eredi. Conoscendo Sancio che quella beffa gli costava troppo cara, e temendo che il suo padrone non andasse anche più avanti, gli disse umilmente: — Si quieti la signoria vostra, ché le giuro ch'io burlava. — E se tu burli, io faccio davvero, rispose don Chisciotte; vien qua, ser burlone, pare a te che se questi non fossero stati magli di gualchiere, ma una nuova pericolosa ventura, io non avessi però mostrato cuore bastante, da imprenderla e gloriosamente condurla a fine? Sono io forse obbligato per essere cavaliere, di conoscere e distinguere ogni fracasso e sapere quali sono quelli di gualchiera o d'altro? E potrebbe anche darsi (com'è in fatti) che io non avessi vedute altre gualchiere, mentre tu ne avevi già vedute altrove, per essere un villano nato e allevato tra queste basse cose. Del resto, fa se puoi, che questi sei magli si trasformino in sei giganti; che vengano uno per volta, o tutti uniti, meco a battaglia, e se io non li farò tutti volare in aria, allora ti permetterò di farti beffe della mia persona. — Non vada altro avanti, signor mio, replicò Sancio, che confesso di essermi troppo abbandonato alla mia allegrezza; ma dicami la signoria vostra; ora che ci siamo rappacificati (e Dio la faccia uscire da tutte le avventure che fossero per accaderle sano e salvo com'è uscito da questa) dicami non fu cosa da ridere o da raccontare la gran paura che abbiamo provata, od almeno quella che ho provata io; mentre, so benissimo che la signoria vostra non conosce né sa che cosa sia paura? — Non voglio negare, rispose don Chisciotte, che la non sia cosa da ridere; non però è degna da raccontarsi, che tutti pigliar non sanno le cose pel giusto verso. — Ben seppe, rispose Sancio, la signoria vostra pigliare pel giusto verso il lancione, drizzandomelo alla testa e misurandolo sulle mie spalle; e sien grazie al Signore, ch'io sono stato a tempo di schermirmene, ma tutto andrà a luogo suo, ché intesi dire: chi ti fa piangere ti vuol bene; oltreché sogliono i grandi signori far seguitare il regalo di un paio di calzoni ad un rabbuffo dato ai loro servitori. Non so poi quello che loro soglion donare dopo averli bastonati; ma potrebbe essere che i cavalieri erranti compensassero le bastonate col donativo d'isole o regni nella terraferma. — Potrebbe accadere, disse don Chisciotte, che quanto dici venisse ad esser vero: perdono il passato, poiché sei ragionevole, e non ignori che l'uomo non è padrone d'infrenare i primi suoi impeti; sta per altro avvertito da qui in avanti di una cosa, ed è di astenerti da far meco molte parole, poiché in quanti libri di cavalleria ho letti, e sono infiniti, non ho trovato che alcuno scudiere ciarlasse tanto col suo padrone quanto tu: e in verità che questo non pure è tuo, ma anche mio mancamento: tuo, perché mostri di far di me poca stima; mio, perché non mi faccio stimare come dovrei. Gandalino, scudiere di Amadigi di Gaula, perché non era ciarlone, diventò conte d'Isola-ferma, e leggesi di lui che parlava sempre col suo padrone tenendo il cappello in mano, col capo chino e col corpo piegato (more turchesco). Non ti parlerò di Gasabal, scudiere di don Galaorre, sì taciturno, che per farci comprendere l'eccellenza del suo meraviglioso silenzio una volta sola si fa menzione del suo nome in tutta quella tanto grande quanto vera istoria. Da ciò poi tu devi inferire, o Sancio, ch'uopo è conoscere la differenza che passa tra padrone e servitore, tra signore e suddito, tra cavaliere e scudiere; e d'ora innanzi dobbiamo reciprocamente trattarci con più rispetto senza pigliarne collera, perché in qualunque modo io mi adiri con te, ci andresti a perdere; la mercede ed i benefizi che ti ho promesso li avrai a suo tempo; e se non li conseguissi mai, per lo meno non perderai il salario, siccome ti ho significato. — Vossignoria dice benissimo, soggiunse Sancio, ma bramerei sapere (dato il caso che il premio non arrivasse mai, e ch'io dovessi restare unicamente al salario) qual era il guadagno di uno scudiere dei cavalieri erranti a quei tempi? oppure si accordavano eglino a mese o a giorni come i manovali dei muratori? — Non credo, rispose don Chisciotte, che quegli scudieri servissero per salario, né per ottenere una qualche grazia; e s'io ti ho assegnato un salario nel testamento, che suggellato lasciai in casa mia, fu per quello che potesse accadere; mentre non so come si regoli l'affare della cavalleria in questi nostri calamitosi tempi, né vorrei per sì poco avventurare la mia eterna salute nell'altro mondo; ed amo che tu sappia, o Sancio, che non si può dare stato più pericoloso di quello della errante cavalleria. — E questo è vero, disse Sancio, mentre il solo rumore de' magli d'una gualchiera può mettere sossopra ed avvilire il cuore di un cavaliere sì valoroso com'è vossignoria. Stia pur certo che da qui innanzi non aprirò più bocca per ischerzare sulle cose che appartengono a lei, ma solo per darle onore, come a mio padrone e naturale signore. — Regolandoti a questo modo, replicò don Chisciotte, vivrai sopra la faccia della terra; perché dopo i padri si hanno a rispettare i padroni come se fossero i genitori medesimi.”

 


CAPITOLO XXI

 

RACCONTASI LA SOMMA VENTURA E IL RICCO CONQUISTO DELL'ELMO DI MAMBRINO
CON ALTRI SUCCESSI DEL NOSTRO INVINCIBILE CAVALIERE.

 

Erasi intanto messa una pioggia minuta, e Sancio avrebbe desiderato di ricoverarsi nelle gualchiere; ma don Chisciotte avea presa loro sì grande avversione che non volle entrarvi a verun patto; e però piegando alla diritta, si misero a battere la strada stessa del giorno innanzi, Dopo un poco di tempo don Chisciotte scorse un uomo a cavallo che portava in testa una cosa rilucente come l'oro; ed appena l'ebbe veduto che rivoltosi a Sancio, così gli disse:

— Io credo, o Sancio, che non diasi proverbio che non sia vero, perché tutti contengono sentenze tratte dalla sperienza, madre di tutto il sapere. Verissimo è poi quello che dice: dove una porta si serra, un'altra se ne apre. Ti dico questo perché la fortuna nella scorsa notte ci serrò la porta da noi ricercata, ingannandoci coi magli delle gualchiere, un'altra ce ne spalanca presentemente offrendoci una migliore e più certa ventura; e mia sarà la colpa se non saprò approfittarne, che qui non avrebbe luogo lo scusarmi allegando o la mia ignoranza di quello che fossero le gualchiere o l'oscurità della notte. Ti dico questo, perché se non m'inganno, si avanza ver noi un uomo che porta in testa l'elmo di Mambrino per cui io feci il giuramento a te noto. — Pensi bene la signoria vostra a quello che dice, e più ancora a quello che fa, rispose Sancio; ché non vorrei che fossero nuovi magli di gualchiere che finissero di gualchierare e manomettere i nostri sentimenti. — E che diavolo vai tu dicendo? replicò don Chisciotte; non v'ha forse gran differenza da un elmo alle gualchiere? — Io non so nulla, replicò Sancio, ma davvero che s'io potessi parlare come facevo ne' giorni scorsi, io le direi tali e tante ragioni da far toccare con mano alla signoria vostra ch'ella s'inganna nella sua supposizione. — Come può esser ciò, sciocco e vigliacco che sei? lo interruppe don Chisciotte; dimmi: non vedi tu quel cavaliere che ci viene incontro sopra un cavallo leardo rotato, e che porta in testa un elmo d'oro? — Quello che veggo e discerno, rispose Sancio, altro non è se non un uomo che cavalca un asino bigio simile al mio, e che porta sul capo qualche cosa che riluce. — Quello appunto è l'elmo di Mambrino, disse don Chisciotte: mettiti da una banda, e lasciami solo con lui, e vedrai che senza far una parola e senza perdere un momento di tempo io do fine a quest'avventura, e divengo possessore dell'elmo da me tanto ardentemente desiderato. — Io sono dispostissimo a ritirarmi, replicò Sancio; ma piaccia a Dio, ripeto, che quello sia elmo e non gualchiera. — Ti ho già detto, fratello Sancio, che nemmeno per celia tu devi menzionar mai le gualchiere, disse don Chisciotte, ch'io fo voto... e non vado innanzi per non passarti l'anima.” Sancio tacque per la paura che il suo padrone non adempisse con tutte le forme il voto che stava per pronunziare.

Del resto poi l'elmo, il cavallo e il cavaliere veduti da don Chisciotte consistevano in questo. In quelle vicinanze erano due villaggi, l'uno dei quali era sì piccolo, che non si avea né barbiere né speziale. Quindi il barbiere del villaggio più grande serviva anche gli abitanti dell'altro; nel quale trovandosi allora un infermo bisognoso di essere salassato, ed un uomo che avea d'uopo di radersi, il barbiere cavalcava per questo effetto a quella volta portando seco un bacino di ottone. Ora poiché durante il viaggio avea cominciato a piovere, non volendo egli guastarsi il cappello, che forse era nuovo, si pose il bacino sopra la testa, il quale per essere pulito riluceva molto lontano. Cavalcava egli un asino bigio, come Sancio avea detto, e fu per ciò che comparve agli occhi di don Chisciotte un cavallo rotato, montato da un cavaliere con elmo d'oro; perché tutte le cose che vedeva le adattava alle sue strane cavallerie, e a' suoi erranti pensieri. Quando adunque egli vide che il disgraziato cavalier barbiere stavagli poco lontano, senza venire a discorso alcuno gli si fece incontro di carriera aperta col lancione in resta e con intenzione di passarlo da banda a banda; poi venutogli ancor più da presso, senza ritenere il furioso suo corso, gli disse: — Difenditi, o prigioniera creatura, ovvero dammi volontariamente quello che a giusto diritto mi si compete. — Il barbiere sopraffatto improvvisamente da quella fantasima, per sottrarsi al colpo della lancia non trovò partito migliore che lasciarsi cader giù dall'asino; e non ebbe appena toccato terra che si alzò più veloce di un daino, e si mise a fuggire per quella campagna, sì rapidamente che il vento non lo avrebbe raggiunto... Lasciò in terra il bacino, di cui si contentò don Chisciotte, dicendo che il pagano era un uomo accorto, ed imitato aveva il castoro, il quale suol lasciarsi addietro ciò che l'istinto naturale gli insegna essere desiderato dal cacciatore che lo insegue.

Comandò a Sancio che raccogliesse l'elmo; il quale presolo in mano, disse: — Oh corpo di Bacco! il bacino è buono e vale un reale da otto come un maravedis; poi lo consegnò al padrone che se lo pose sul fatto in testa, girandolo attorno e cercando la visiera; ma come non la trovava, disse: — Certo che il pagano per cui si fabbricò la prima volta questa famosa celata, dovette avere una testa ben grossa, e il peggio si è che manca la metà. Quando Sancio sentì che il bacino era creduto celata non poté contenersi dal ridere, ma si ristette ben presto ricordandosi la collera del suo padrone. — Di che ridi tu, Sancio? domandò don Chisciotte. — Rido, rispos'egli, considerando la gran testa che aveva il pagano, padrone di questo elmetto; il quale poi somiglia ad un bacino di barbiere per modo che non vi corre la più piccola differenza. — Sai tu ciò ch'io ne penso, o Sancio? questa gran rarità di quest'elmo incantato sarà, per qualche straordinario accidente, pervenuta alle mani di chi non seppe né conoscere né apprezzare il suo merito; e senza por mente a ciò che si facesse, vedendola d'oro purissimo, ne avrà fuso una metà per approfittarsi del ricavato, e d'altra metà avrà fatto questo che sembra appunto bacino come tu dici; ma sia pure quale si voglia, ché io che pienamente lo conosco, non fo il menomo caso di questa sua trasformazione, e nel primo villaggio dove io mi avvenga in un fabbro saprò rassettarlo di tal maniera che diverrà quasi migliore, e non avrà ad invidiare quello che il dio delle fucine fabbricò al dio delle battaglie; frattanto ne userò come posso, che sempre vale più che niente, od almeno varrà a difendermi da qualche colpo di pietra. — Purché, disse Sancio, non sia la pietra slanciata con una fionda, come ci fu tirata nella battaglia dei due eserciti quando ruppero a vossignoria i mascellari e l'orciuolo che contenea quel benedettissimo beverone che mi ha fatto recere le budella. — Non mi dà gran fastidio, replicò don Chisciotte, che l'orciolo sia rotto, perché già sai che n'ho la ricetta a memoria. — Me ne ricordo ancor io, rispose Sancio, ma mi colgano mille malanni se ne assaggio una goccia, fossi pure agli estremi della mia vita. Ora sappia vossignoria che voglio con tutti i miei cinque sentimenti guardarmi bene e dal ferire e dal rimanere ferito; e quanto all'essere un'altra volta sobbalzato in aria colla coperta non dico niente: perché somiglianti disgrazie non si possono sempre prevedere, e se vengono, non c'è che da stringere le spalle, ritenere il fiato, chiudere gli occhi e lasciarsi guidare dove vuol condurci la fortuna, e dove la coperta sbalza. — Tu sei mal cristiano, mio Sancio, disse don Chisciotte, udendolo in tal guisa parlare, perché non dimentichi mai ingiuria che ti sia stata fatta; ma sappi ch'è proprio di un petto poco nobile e generoso il fermarsi sopra cose di sì poco momento. Qual piede ti restò zoppo? qual costola fracassata? qual testa rotta, che tu non debba mai cancellare dalla memoria una burla? ché, a considerarla bene, fu burla e passatempo; e se io non l'avessi riconosciuta tale sarei pur ritornato sul luogo per fare le tue vendette con maggior danno di quello che fecero i Greci vendicando la rapita Elena, la quale se vivesse a questi tempi, o se la mia Dulcinea fosse vissuta ai suoi, non avrebbe per certo quella tanta reputazione di bellezza ch'essa ha!” Qui trasse un sospiro che andò sino alle nuvole, e Sancio disse: — Facciamo pur conto che sia stata una burla, giacché non può esserne mai vera vendetta; del resto so ben io che cosa è il far da burla, e il far da vero, né quanto è seguìto mi uscirà mai di mente, come non si leverà più dalle spalle... Ma lasciamo andar questo, e dicami la signoria vostra; che faremo noi di questo cavallo leardo rotato così somigliante ad un asino bigio, lasciato qui in abbandono da quel Martino, che buttato in terra dalla signoria vostra, e fuggitosene giù fino al villaggio non ha certo più voglia di tornar addietro a riprenderselo? Per la mia barba, signore, ch'egli ha l'aria di un buon cavallo! — Io non piglierò mai il costume, disse don Chisciotte, di spogliare quelli che restano da me vinti, né è stile della cavalleria torre loro i cavalli e lasciarli andare a piedi, quando però non fosse che il vincitore avesse perduto il suo nel cimento, mentre lice in tal caso prendersi quello del vinto come guadagnato in battaglia onorata e in guerra giusta; tu dunque, o Sancio, devi lasciare questo cavallo, od asino che sia, come più ti piace, in piena libertà, perché quando il suo padrone ci vegga allontanati, venga a ripigliarselo a suo talento. — Dio sa, replicò Sancio, quanto grande è la voglia ch'io ho di menarlo via, od almeno di cambiarlo col mio che non mi par tanto buono! Sono veramente troppo rigorose le leggi della cavalleria se vietano pur anche di cambiare un asino per un altro; e dicami almeno se potessi cambiarne i fornimenti? — Non sono di ciò ben sicuro, rispose don Chisciotte, e in caso di dubbio e finché me ne informi con esattezza tu puoi barattarli se hai estrema necessità. — Tanto estrema, rispose Sancio, che se dovessero servire per mio proprio uso non potrei averne maggior bisogno.” Dopo di ciò, autorizzato dalla detta licenza, fece mutatio capparum, e mise il suo giumento in punto di piena lindura, migliorando in terzo e in quinto. Fatto questo, mangiarono gli avanzi della provvisione tolta ai preti; bevettero dell'acqua delle gualchiere, né si voltarono mai per guardarle, in tanto odio le avevano per la passata paura. Incantata poi, come suol dirsi, la nebbia, mandata via la malinconia, salirono a cavallo, e fedeli all'usanza degli erranti cavalieri, senza prefiggersi un determinato cammino, si misero in viaggio all'arbitrio di Ronzinante, che colla volontà del padrone signoreggiava eziandio quella dell'asino da cui era seguitato con fratellevole amore. Trovaronsi quindi senza volerlo sulla strada maestra, per la quale avviaronsi alla ventura senz'altro divisamento.

Cammin facendo disse il padrone: — Mi permette, vossignoria, ch'io parli alcun poco con lei? Ché dappoi che ella m'ha fatto quell'aspro comando di silenzio, mi sono putrefatte nello stomaco più di quattro cose; ma una sola che tengo adesso sulla cima della lingua non vorrei che la andasse a male. — Dilla, rispose don Chisciotte, ma sii breve, che un discorso lungo non può mai dar piacere. — Io dico dunque, o signore, ripigliò Sancio, che da alcuni giorni in qua ho considerato quanto poco si guadagna e si avanza andando in traccia di queste avventure che vossignoria va cercando per questi deserti e crocicchi di strade, dove anche superando e vincendo le più pericolose, non vi ha né chi le vegga, né chi le sappia; e così restano in perpetuo silenzio con pregiudizio della intenzione di vossignoria e del loro intrinseco merito. Sembrami pertanto che sarebbe savio partito (salvo il miglior parere della signoria vostra), che andassimo a servire qualche imperadore od altro gran principe, il quale sia in guerra, nel cui servigio voi, signore, possiate mostrare il valore della persona, le grandi forze e l'eminente giudizio di cui siete fornito. E la ragione di questo sì è che, viste tante prodezze da quel signore a cui servigio ci fossimo applicati, ci darebbe egli una remunerazione conforme ai meriti di ognuno di noi, allora non mancherebbe chi scrivesse le imprese della signoria vostra a perpetua memoria, nulla dicendo delle mie, perché ecceder non debbano i confini scudiereschi; benché so dire che se si usasse di scrivere nella cavalleria imprese di scudieri, tengo per fermo che non resterebbero senza onore anche le mie. — Non dici male, rispose don Chisciotte, ma prima di venire a questo termine, è necessario di andare pel mondo e meritarsi celebrità, cercando avventure, conducendone talune a glorioso fine, cogliendo quella fama e riputazione che si otterrebbe nel servigio di qualche gran monarca, e diventando cavaliere sì noto che appena i ragazzi lo abbiano veduto entrare per la porta della città, tutti lo seguitino e se gli aggirino d'intorno, gridando: Questi è il cavaliere del Sole o della Serpe, o di qualche altra insegna, sotto la quale egli abbia compiute grandi imprese: Questi è, dicono, quel cavaliere che vinse in singolar tenzone il gigantaccio Brocabruno di estrema forza; questi è colui che ha disfatto al gran Mamalucco di Persia il lungo incantamento in cui giacque per quasi novecentanni e così di mano in mano vadano celebrando le imprese mie. Il frastuono dei ragazzi e del popolo chiamerà alla finestra del real suo palagio il re di quel suo regno, ed egli, come vegga il cavaliere, conoscendolo alle arme od alla insegna posta sullo scudo, sarà forzato a dire: Su via, i cavalieri tutti che stanno nella mia corte vadano ad incontrare il fiore di ogni cavalleria che si appressa. A tal comando usciranno tutti, ed egli medesimo discenderà fino alla metà della scala, e lo abbraccerà strettissimamente dandogli la pace e baciandolo in bocca: dopo di che presolo per la mano lo condurrà all'appartamento della signora regina dove il cavaliere vedrà per la prima volta l'infanta, che ha da essere una delle più belle e compite donzelle che mai si possano trovar sopra la terra. Poi succederà incontanente ch'essa ponga gli occhi sul cavaliere ed egli sopra di lei; e sembrino l'una all'altra cosa più divina che umana, e senza saper come né perché, hanno da trovarsi entrambi presi ed avviluppati nell'inestricabile rete d'amore, con gran tormento dei loro cuori per non sapere trovare il modo di scoprirsi i loro affanni ed i loro sentimenti. Di là lo guideranno senza dubbio a qualche appartamento del palazzo riccamente addobbato, dove, spogliatolo delle arme, in farsetto poi apparirà molto più vago. Venuta la sera si assiderà a tavola col re, colla regina e colla infanta. Sparecchiate le tavole, entrerà a quel punto un brutto e piccolo nano seguìto da una dama fra due giganti, la quale proporrà una certa avventura ordita da un antichissimo savio; e colui che la condurrà a fine glorioso sarà tenuto pel miglior cavaliere del mondo. Ordinerà il re che si cimentino gli astanti tutti, ma nessuno vi riuscirà ad eccezione dell'ospite cavaliere con grande accrescimento della sua fama, di che sarà gioiosissima la infanta, e si terrà per contenta e compensata anche soverchiamente di aver posti e collocati i suoi pensieri in sì alta parte. Il meglio sì è poi che questo re, o principe, o quello che e' sarà, troverassi impegnato in un'accanita guerra con un altro potente suo pari, e l'ospite cavaliere, dopo alcuni giorni di dimora in quella Corte, gli domanderà licenza di poter servire. Il re con molta affabilità gliene darà il consenso, e il cavaliere gli bacerà la mano in pegno di gratitudine pel ricevuto favore. Poi la notte medesima egli prenderà commiato dall'infanta sua donna attraverso all'inferriata di una finestra della stanza di lei che riesce nel giardino: per la quale già più volte le avrà parlato, essendo di tutto mezzana e consapevole la cameriera di cui l'infanta intieramente si fida. Sospirerà il cavaliere; essa ne verrà meno; la cameriera le apporterà dell'acqua, molto affliggendosi, perché sorge ormai il mattino, e non vorrebbe per l'onore della sua signora che la cosa si discoprisse. Finalmente la giovine principessa ritornata in sé, stenderà per l'inferriata le sue candide mani al cavaliere, il quale le bacerà mille e mille volte e le bagnerà di lagrime. Quindi comporranno fra loro due come possono farsi sapere i buoni o cattivi successi, e l'infanta lo pregherà di affrettare possibilmente il ritorno, ed egli lo prometterà con molti giuramenti: poi le bacerà di nuovo le mani; e finalmente si accommiaterà da lei con tanto sentimento, che sarà presso a lasciarvi la vita. Ecco ch'egli si ritira allora nelle sue stanze, dove si abbandona sul suo letto, ma non può chiudere occhio pel dolore della partenza, si alza assai di buon'ora e va per prendere commiato dal re, dalla regina e dall'infanta. Compiuti coi due primi i suoi doveri, viene il cavaliere a sapere che la infanta è indisposta e non può ricevere la sua visita: non dubita che ciò non proceda dall'amarezza della loro divisione, e n'ha trafitto il cuore per modo da renderne quasi a tutti manifesta la causa. La damigella mezzana a tutto è presente, nota ogni cosa, e ne dà contezza alla sua signora, che l'ascolta piangendo e le dichiara che una delle sue maggiori afflizioni è di non sapere chi sia il suo cavaliere, se di stirpe reale o no. Viene assicurata dalla donzella che tanta cortesia, gentilezza e valore come quella del suo cavaliere non può capire se non in anima reale e di alta portata. Si consola la bella afflitta, e sforzasi di celare al padre i movimenti del cuore; però due soli giorni dopo si fa vedere in pubblico. Partito è già il cavaliere; guerreggia; vince il nemico del re; ritorna alla Corte; rivede la sua signora, s'accorda con lei di chiederla in moglie al suo padre per guiderdone dei prestati servigi. Il re per non sapere chi egli sia gliela nega, ma ad onta di ciò, o rubata o in qualsiasi altro modo la infanta diventa sposa del cavaliere, e il genitore lo ascrive a sua gran fortuna, venendo a sapere ch'egli è figliuolo di un valoroso re di non so qual regno, perché credo che non esista nella mappa della terra. Muore il padre, l'infanta n'è erede, e in due parole il cavaliere diventa re. Ecco il momento in cui sono largamente compensati e lo scudiere e tutti quelli che lo aiutarono a salire a sì alto stato; marita lo scudiere colla damigella della infanta, che dovrà essere indubitatamente quella che fu la mezzana de' suoi amori, e che sarà figlia di nobilissimo duca.

— Oh! quest'è appunto quello che io bramo, ed a questo mi attengo, disse Sancio, perché già tutte queste meraviglie le ha da operare vossignoria, chiamato il cavaliere della Trista Figura. — Non ne dubitare, o Sancio, replicò don Chisciotte; perché nella stessa maniera e per lo medesimo giro di avvenimenti testé da me riferito, pervennero e pervengono tuttavia gli erranti cavalieri a farsi re e imperadori. Resta ora a cercare qual re dei cristiani o dei pagani sia in guerra ed abbia una figlia vezzosa; ma tempo verrà da applicarsi anche a questo, poiché, come dissi, è necessario che l'acquistarsi fama sia prima del comparire alla Corte. Un'altra cosa pure mi manca, ed è che dato il caso che il re si trovi in guerra, ed abbia una bella figliuola, e ch'io m'abbia acquistata una incredibile fama per tutto l'universo, non so come potrei provare di essere di stirpe reale, o almeno cugino germano di imperadore. Il re non mi concederà certamente in isposa la figlia se prima non è chiarito pienamente questo punto, benché le mie celebri imprese mi dieno titolo sufficiente a questo e a meglio; e da ciò nasce in me il timore di non conseguire quel bene pel cui possesso ho tanto provato il valore del mio braccio. Vero è per altro ch'io discendo da conosciuto lignaggio, che ho siffatti possedimenti che posso esigere cinquecento soldi di riparazione; e potrebbe essere che il savio da cui sarà scritta la istoria mia innalzasse la mia parentela e la mia discendenza per modo da costituirmi quinto o sesto nipote di re. Hai da sapere, o Sancio, che v'hanno al mondo due sorta di lignaggi: l'uno che riconosce e fa derivare la discendenza da principi e monarchi consunti a poco a poco dal tempo e finiti in punta come piramidi; l'altro che trae il suo principio da gente bassa e va innalzandosi a grado a grado fino alla gran signoria; di guisa che in questo solo consiste la diversità, che gli uni furono e più non sono; e gli altri sono quelli che non furono. Io potrei essere uno di questi; che quando si avesse rivangato ben bene, si troverebbe la mia derivazione celebrata e famosa da poter soddisfare il re e determinarlo a divenire mio suocero; ad ogni modo poi la infanta mi amerà così fortemente, che in onta al suo genitore, benché sapesse con sicurezza ch'io fossi figlio di un acquaiolo, mi riceverebbe per suo signore e suo sposo: e qui entra benissimo il caso di rapirla e condurla dove meglio mi sarà in grado; ché poi il tempo o la morte metterà fine allo sdegno de' suoi parenti.

— In verità che qui calza a proposito, disse Sancio, quel detto di alcune persone di poca coscienza: non domandare per grazia quello che puoi ottenere per forza; benché più opportuno sarebbe il dire: è meglio essere uccello di campagna che di gabbia. Dico questo, perché se il signor re, suocero di vossignoria, non vorrà degnarsi di concederle la figliuola in isposa, non c'è altra cerimonia che rubarla e portarsela via: v'è però il guaio che finché non sarà conclusa la pace per godere il regno tranquillamente, il povero scudiere se ne starà a muso secco; se pure la damigella mezzana destinata a diventare sua moglie, non seguisse nella fuga la infanta, facendosi compagna della trista sorte, finché il cielo altramente disponga; e così, potrebbe benissimo darsi che venisse concessa per legittima sposa. — Non ci può essere a questo opposizione di sorta, disse don Chisciotte. — Quando sia così, rispose Sancio, non c'è che mettersi nelle mani del Domeneddio, e lasciar che la vada come la deve andare. — Faccia pur Dio, soggiunse don Chisciotte, come io bramo, ed a quel modo che ti abbisogna, e sia furfante chi per tale si tiene. — Lo sia pure, disse Sancio, ché quanto a me sono cristiano vecchio, e per essere conte questo mi basta. — Ed anche te n'avanza, rispose don Chisciotte; né ti nuocerebbe punto di non esser tale; perché, essendo io il re, posso darti nobiltà senza che ti sia d'uopo comperarla o guadagnarla coi tuoi servigi; fatto ch'io ti abbia conte diventi subito cavaliere, e dicano quello che vogliono, dovranno pur darti titolo di signoria, per quanto loro ne pesi. — E son certo, ripigliò Sancio, che sosterrei bene il mio grado; perché quando io fui donzello di una confraternita e ne indossavo il sacco, dicevasi che mi sarebbe stato bene quello di prevosto della confraternita stessa. Ora quale apparirò mai quando mi vedranno addosso un zimarrone ducale, oppure quando sarò rivestito d'oro e di perle come si usa dai conti stranieri? Scommetto che per vedermi verrà la gente da cento e più leghe lontano. — Farai bella comparsa, disse don Chisciotte, ma sarà necessario che tu ti faccia radere la barba più spesso; perché avendola così folta, irsuta ed aggruppata, se non la radi ogni due giorni per lo meno, si conoscerà lungi un'archibugiata chi sei. — E che ci vuole, disse Sancio, a far questo, se non che chiamare un barbiere e tenerlo salariato al proprio servigio in casa? Se occorrerà ben lo farò io, e gli ordinerò di venirmi anche dietro come se fosse il cavallerizzo di un grande di Spagna. — E come sai tu, disse don Chisciotte, che i grandi si fanno seguitare dai loro cavallerizzi? — Glielo dirò, rispose Sancio: negli anni passati stetti per un mese alla Corte, e vidi che andando a diporto un signore assai piccolo, il quale dicean però che era assai grande, un uomo a cavallo lo seguitava dovunque andasse o voltasse, in modo che parea la sua coda. Ho domandato perché quell'uomo non andava a fianco dell'altro, ma gli stava dietro perpetuamente e mi fu risposto che era il suo cavallerizzo, e che si usava dai grandi di farsi seguitare a quel modo; e questa cosa non poté uscirmi più dalla memoria. — Hai ragione, disse, don Chisciotte, e puoi benissimo farti seguire dal tuo barbiere, perché le costumanze non vennero poste in uso tutte in una volta, né d'un tratto, e poi tu essere il primo conte che si faccia andar dietro il proprio barbiere, massimamente che è così di maggior confidenza il farsi rader la barba che l'insellare un cavallo. — Quanto alla faccenda del barbiere ci penserò io, disse Sancio, e vossignoria intanto procuri di diventar re e di sollevarmi al grado di conte. — Ciò sarà fatto, rispose don Chisciotte; e alzando gli occhi vide ciò che si racconterà nel seguente capitolo.

 


CAPITOLO XXII

 

DON CHISCIOTTE LIBERA MOLTI DISGRAZIATI CH'ERANO A LORO MALGRADO
CONDOTTI DOVE NON AVREBBERO VOLUTO ANDARE.

 

Cide Hamete Ben-Engeli, autore arabo e mancego, racconta in questa sua gravissima, altisonante, minima, dolce, immaginosa istoria, che mentre passavano tra il famoso don Chisciotte della Mancia e il suo scudiero Sancio Pancia i ragionamenti riferiti nel fine del capitolo ventesimoprimo, don Chisciotte alzò gli occhi e vide che per la strada da lui battuta venivano dodici uomini a piedi legati pel collo come paternostri, ad una gran catena di ferro, e colle mani strettamente rinchiuse tra ferree catene.

Erano accompagnati da due uomini a cavallo e da due a piedi. Quelli a cavallo portavano lo schioppo a ruota, e quelli a piedi aste e spade. Poiché Sancio li vide si fece subito a dire: — Quest'è un branco di galeotti, gente forzata del re, che va in galera. — Come? domandò don Chisciotte, gente forzata? è possibile che il re faccia forza a nessuno? — Non dico questo, rispose Sancio, ma quella è gente condannata per misfatti a servire il re nelle galere per forza. — Insomma, replicò don Chisciotte, questa ad ogni modo è gente che va per forza e non di sua volontà. — Così è, disse Sancio. — Ed appunto perché la cosa è così, soggiunse don Chisciotte, è di necessità che adempiendo gli obblighi della mia professione io impedisca la violenza e dia ai miserabili soccorso e favore. — Avverta vossignoria, disse Sancio, che la giustizia rappresentata dal re in persona non fa violenza o torto a siffatta gente, ma punisce in essi le loro bricconerie.”

In questo furono sopraggiunti dalla banda dei galeotti, e don Chisciotte si fece a chiedere cortesemente chi li guidava la ragione o le ragioni per le quali quella gente era condotta a quel modo. Una delle guardie a cavallo rispose che erano galeotti, gente di sua maestà che passava alla galera, e ch'egli nulla avea più che dirgli, né a lui doveva importare di saper altro. — Con tutto ciò, disse don Chisciotte, vorrei sapere la causa della disgrazia di ognuno in particolare;” e continuò allora con altre non meno officiose richieste per indurgli a dare quel conto che domandava; e tanto seppe insistere che una guardia a cavallo gli disse: — Benché abbiamo qui il registro ed il certificato della sentenza di ciascuno di questi disgraziati, non è adesso il tempo di trarli fuori e di leggerli; e voi, signore, dimandate conto a loro stessi che lo saprete, se vorranno; e senza dubbio, perché questa è gentaglia cui piace fare e dir cose da furfanti.” Con tal permissione, che don Chisciotte sarebbesi tolta da sé quand'anche gliel'avessero negata, si accostò al branco dei galeotti, e domandò al primo per qual peccato era condotto a quella maniera; ed esso gli rispose che andava a quel modo per essere innamorato. — Non per altra cagione? replicò don Chisciotte; oh, se l'amore conducesse in galera, egli è un gran pezzo ch'io vi starei vogando. — I miei amori, disse il galeotto, non furono di quella tempra che suppone la signoria vostra, perché si volsero ad un paniere di biancheria, e sì strettamente me lo abbracciai che non l'avrei lasciato sicuramente di mia volontà se la giustizia non me l'avesse tolto per forza: fui colto sul fatto; non fu bisogno di mettermi alla tortura; si chiuse il processo; mi ricamarono le spalle con cento frustate, colla giunta della condanna di tre anni al remo, e così terminò il fatto. — Che significa al remo? domandò don Chisciotte. — Al remo vuol dire alla galera, rispose il galeotto; il quale era un giovinastro dell'età di ventiquattr'anni all'incirca, e disse ch'era nativo di Pietrachita.

Fece don Chisciotte al secondo la stessa domanda; ma quegli non rispose parole, come uomo estremamente afflitto e malinconico. Rispose il primo per lui, e disse: — Costui, o signore, va per canarino, e vale a dire per musico o per cantore. — Possibile, replicò don Chisciotte, che si mandino alle galere i musici o cantori? — Per lo appunto, soggiunse il galeotto, da che non si può far peggio che cantare sulla corda. — All'opposto io intesi dire, replicò don Chisciotte, che l'uomo cantando si solleva alquanto dai guai. — E qui accade il rovescio, ripigliò il galeotto, perché chi canta a quel modo una sola volta piange in tutto il rimanente della sua vita.— Non giungo ad intendervi, disse don Chisciotte;” ma una delle guardie soggiunse: — Signor cavaliere cantar sulla corda nel gergo di questa gente non santa, significa confessar sul tormento; e di fatto fu posto al tormento questo delinquente, egli confessò allora il suo delitto, ch'era di essere ladro di bestiame; e la sua confessione gli portò la condanna di sei anni di galera oltre il corredo di dugento frustate applicategli sulle spalle. Egli se ne sta pensoso ed afflitto perché gli altri ladri che sono tuttora prigioni, e questi dai quali è accompagnato, lo maltrattano furiosamente e lo vilipendono, ché non seppe persistere e negare; dicendo essi che tante lettere ci vanno a pronunziare un come un no; mentre fortunato è quel reo che ha sulla propria lingua la vita o la morte, e non può esser convinto né da testimonianze altrui né da prove: né, a quanto mi sembra, la intendono male. — Anch'io la intendo a questo modo, rispose don Chisciotte; e passò al terzo cui fece come gli altri la sua domanda; il quale subitamente e con molta disinvoltura rispose: — Io vado per dieci anni in galera perché non ebbi dieci ducati al mio comando. — Te ne darò venti ben volentieri, disse don Chisciotte, per liberarti da questa disgrazia. — La vostra esibizione, disse il galeotto, mi giova tanto quanto i danari ad un uomo che sta per morir di fame in mezzo al mare, e non sa dove provvedersi il vitto. Se avessi potuto avere a tempo i venti ducati che adesso mi offrite, mi sarebbe stato facile di ungere la penna del cancelliere, e di ravvivare l'ingegno del procuratore per modo che oggi passeggerei tranquillamente la piazza di Zoccodovar in Toledo invece di battere questa strada menato così come un cane; ma Dio è grande; pazienza e basta.”

Passò don Chisciotte al quarto, ch'era uomo di venerabile aspetto, con barba bianca che gli discendeva fino alla cintura; il quale nell'udirsi domandare la cagione di questo suo stato, si pose a piangere, né rispose parole; ma il quinto condannato gli servì d'interprete, e disse: — Quest'onorevole uomo se ne va alla galera per quattr'anni dopo essere stato condotto per le strade pomposamente vestito a cavallo. — Questo vuol dire, soggiunse allora Sancio Pancia, che è stato posto alla berlina. — Così è appunto, replicò il galeotto, e la colpa che lo fece degno di tal castigo si è essere stato messaggere d'amore e stregone. — Quanto alla prima accusa, disse don Chisciotte, non è materia da poterne parlar qui utilmente; ma stimo che ogni bene ordinata repubblica dovrebbe aver cura che quell'officio fosse esercitato da gente abile e discreta, ed io forse ne parlerò una qualche volta a chi potrà recarvi il rimedio opportuno. Il dolore per altro che mi reca la vista di un uomo sì venerabile sottoposto per tal cagione a sì grave castigo, è mitigato in gran parte sentendo che fu anche fattucchiere. So nondimeno che non vi sono stregherie nel mondo che possono forzare la volontà, come credono alcuni sempliciotti, e che il libero arbitrio non ha in noi chi 'l predomini, né avvi erba od incanto cui sia soggetto; e so ancora che quello in cui si adoprano alcune donnicciuole semplici, ed alcuni furbi vituperosi si è l'ammannire alcune misture o veleni capaci di far perdere agli uomini il senno, dando ad intendere che siano atti a far amare per forza, quando, come ho detto, egli è impossibile sforzare la volontà. — Così è per lo appunto, disse il vecchio; e certo quanto all'essere io stato stregone me l'hanno apposto falsamente; ma questo buon desiderio non impedisce ch'io sia ora condotto donde non ho speranza ritornare mai più, vecchio ed infermo come sono.” A questo punto egli si dié a piangere, e Sancio n'ebbe sì gran compassione, che cavò dal seno un reale da quattro e glielo diede per limosina.

Don Chisciotte passò avanti, e domandò ad un altro qual fosse il suo delitto, ed egli rispose con più arroganza d'ogni altro. — Io mi trovo qui per avere sì fattamente alterato e confuso l'albero genealogico e i gradi di parentela della mia propria famiglia e di qualche altra, che il più sottile abbachista non avrebbe saputo trarsi d'impaccio. Tanto fu provato, non ebbi protezione; mi mancarono i denari, e mi vidi in procinto di essere strozzato. Ebbi la condanna di sei anni di galera, mi vi sottometto e lo riconosco per castigo della mia colpa; sono giovane, e durando la vita, si metterà rimedio ad ogni cosa. Se vossignoria, signor cavaliere, può dar qualche cosa per soccorrere questi poveretti, ne sarà compensato dal cielo, e noi qui in terra non cesseremo giammai dal pregare nelle nostre orazioni per la sua vita e salute, che gli auguriamo altrettanto durevole quanto lo merita a giudicar dall'aspetto.” Portava costui un abito da studente, ed una delle guardie disse altresì che era un gran parlatore, e sapeva assai il latino.

Dopo tutti questi veniva un uomo di bella presenza, dell'età di trent'anni, se non che negli sguardi pareva accavallare l'un occhio coll'altro. Era incatenato in maniera diversa dagli altri, perché aveva a' piedi una catena sì grande che gli si aggirava attorno per tutto il corpo, ed al collo aveva un gran cerchio di ferro dal quale per due anelli due verghe anch'esse di ferro discendevano fino all'estremità delle braccia; e quivi con altri anelli innestandosi i due cerchi di ferro impedivano ch'egli potesse né mettere le mani alla bocca, né abbassare la testa per farla arrivare alle mani. Domandò don Chisciotte per qual ragione era incatenato quell'uomo sì strettamente e in modo tanto più duro degli altri. La guardia gli rispose che ciò era perché riuniva in sé solo più delitti che tutti gli altri, ed era inoltre sì temerario e furfante che non si assicuravano che non fuggisse loro dalle mani ad onta di sì grandi precauzioni. — Che delitti mai, disse don Chisciotte, può aver egli commesso da meritarsi una pena maggiore della condanna in galera? — Corrono dieci anni oggimai, replicò la guardia, ch'egli può considerarsi come il capitano degli assassini: ma invece di quanto se ne potesse mai dire, vi basti sapere che questo buon uomo è il famoso Gines di Passamonte, che chiamasi con altro nome Ginesuccio di Parapiglia. — Signor commissario, disse allora il galeotto, non vada per le lunghe e non istia a metter fuori nomi e soprannomi: Gines mi chiamo e non Ginesuccio; è Passamonte il mio casato e non Parapiglia, come ella dice; ed ognuno faccia i conti prima sopra sé stesso che agli altri. — Non parlare con tanta arroganza, replicò il commissario, ladrone più grande di quei della Marca, se non vuoi che ti faccia chiudere la bocca a tuo marcio dispetto. — Ben mi pare, rispose il galeotto, che l'uomo si regoli secondo le circostanze; ma potrebbe accadere che venisse un giorno in cui vi fosse qualcuno che sapesse se veramente mi chiamo Ginesuccio di Parapiglia o no! — E così non ti chiami forse, o furfante? disse la guardia. — Così sogliono chiamarmi, rispose Gines; ma farò in modo da non essere così chiamato nell'avvenire, se pure mi dovessi strappare a pelo a pelo la barba, e mi intendo ben io! Signor cavaliere, se ha qualche cosa da darci, ce la dia e se ne vada; che ella ci infastidisce con le sue noiose ricerche dei fatti altrui; e se vuol sapere di me, le sia noto ch'io sono Gines di Passamonte, la cui vita è stata scritta da queste due dita. — In questo dice la verità, soggiunse il commissario: ha scritto la sua istoria egli stesso, e in modo che nulla resta a bramarsi, e lasciò in prigione il libro in pegno per dugento reali. — E penso di ricuperarlo, disse Gines, quand'anche ci stesse per dugento ducati. — Di tanto pregio è questo libro? disse don Chisciotte. — Tale è il suo merito, rispose Gines, che non esito a crederlo superiore a Lazzariglio di Tormes ed a quanti altri di tal genere sono stati o saranno scritti. Posso assicurare vossignoria che contiene verità sì graziose e divertenti, che nessuna invenzione potrebbe mai star loro a petto. — E com'è intitolato questo libro? domandò don Chisciotte. — Vita di Gines Passamonte, gli rispos'egli stesso. — È terminato? proseguì a dimandargli. — Come può esser terminato, lo interruppe Gines, se la mia vita non è ancora finita? Il libro comincia dalla mia nascita fino al punto in cui quest'ultima volta vengo condotto in galera. — Ah! vi siete stato altre volte? disse don Chisciotte. — Per servire a Dio e al re ci sono stato un'altra volta per quattr'anni, e so molto bene, proseguì Gines, di qual sapore sia il biscotto e il corbacchione, né assai mi pesa il ritornarvi, perché potrò ivi a mio grand'agio terminare il mio libro a cui restano molte cose da aggiungere, e nelle galere di Spagna v'è più ozio ancora di quello che occorra; benché ho già pronta nella memoria ogni cosa. — Tu m'hai l'aria d'uomo d'ingegno, disse don Chisciotte. — E disgraziato, soggiunse Gines: perché le sventure perseguitano sempre gli ingegni. — Perseguitano i furfanti, soggiunse il commissario. — Le ripeto signor commissario, riprese Passamonte, ch'ella tenga più la lingua a sé, perché non le fu dato questo comando affine ch'ella maltrattasse noi poveretti, pensi per guidarci e condurci dove sua maestà comanda; che se no corpo di... Ma basta; potrebbe venire un giorno in cui le macchie, come suol dirsi, andassero al bucato: però ognuno stia cheto, viva bene, parli con giudizio, e andiamo al nostro viaggio che la cosa comincia a putire.” Il commissario alzò il bastone per battere Passamonte in risposta delle sue minaccie; ma don Chisciotte si frammise, pregando che nol maltrattasse, perché era piuttosto da ammirare che un uomo con le mani legate a quel modo tenesse sciolta sì bene la lingua; e volgendosi a tutti gli incatenati disse: — Da quanto mi avete fatto sapere, fratelli carissimi, sono venuto a conoscere chiaramente che quantunque vi abbiano castigati per le vostre colpe, voi però non andate volentieri a soffrire il castigo, anzi di molto mal animo e contro il vostro deciso volere; e forse è vero altresì che l'uno per essersi perduto di animo nella torture, l'altro per non avere avuto danaro, e quale per poco favore, quale per poco senno dei giudici, a tutti insomma per non aver potuto far valere le vostre ragioni siete ora condotti a patire contro giustizia. Tutto ciò mi si affaccia in modo che mi dice, mi persuade e mi sforza a mostrarvi il fine per cui il cielo mi ha messo al mondo, e mi fece professare l'ordine di cavalleria che esercito, ed il voto che ho fatto di soccorrere i bisognosi e di sollevare gli oppressi contro i prepotenti. Ma perché la prudenza insegna di non adoperare la forza dove le buone maniere potrebbero conseguire lo stesso effetto, voglio prima pregare queste signore guardie e il signor commissario che si compiacciano di sciogliervi da quei ceppi e lasciarvi andare alla buona ventura, che non mancherà al re di trovare chi lo serve in migliori occasioni, sembrandomi assai mal fatto porre in ischiavitù quelli che furono fatti liberi da Dio e dalla natura.” Volto poscia alle guardie, proseguì di tal guisa: — Si aggiunge, signore guardie, che nulla hanno commesso queste povere genti contro voi; lasciate dunque che ciascuno se ne vada col suo peccato, che Dio nel cielo non obblia né la punizione dei delinquenti né il premio dei buoni; né conviene che gli onesti uomini si facciano carnefici degli altri uomini dai quali non ricevettero verun danno. Vi comando dunque mansuetamente e con quiete che a ciò vi risolviate, perché facendolo ve ne sarò grato: ma in caso diverso vi costringeranno a farlo per forza questa lancia e questa spada mercé il valore del mio braccio.

— Vossignoria, disse il commissario, mi riesce molto più grazioso che non credevo! Vuol ella che lasciamo andar liberi i forzati del re, come se ci trovassimo autorizzati a farlo da noi, od ella potesse comandarcelo? Vada la signoria vostra in buon'ora per la sua strada, e si raddrizzi il bacino che ha sulla testa, né stia cercando il quinto piede nel gatto.

— Tu sei il gatto, il sorcio e il furfante, rispose don Chisciotte; e, detto fatto, lo investì con tanta furia e celerità che senza potersi porre in difesa, lo fece cadere in terra malferito con un colpo di lancia. Fu quella caduta una grande fortuna pel nostro cavaliere; perché costui era quello che portava lo schioppo a ruota. Le altre guardie restarono attonite e trasecolate; ma riavutesi poi da quel primo sbigottimento, quelle a cavallo posero mano alla spada, e le altre a piedi alle armi con asta, e andarono contro don Chisciotte che li aspettava con gran posatezza. L'avrebbe egli senza dubbio passata assai male, se i galeotti, vedendo l'occasione che loro si offriva di riacquistare la libertà, non avessero allora cominciato a procurarsela, tentando di rompere la catena che li teneva avviticchiati sì strettamente. La mischia divenne sì grande, che le guardie volendo in un medesimo tempo e attendere ai galeotti che si andavano sciogliendo, e rintuzzare don Chisciotte che le assaliva, non seppero fare cosa alcuna che profittasse. Sancio tosto pensò alla liberazione di Gines di Passamonte, che fu il primo perciò a mettersi in campo libero e sciolto; e cacciatosi addosso al commissario caduto, gli tolse la spada e lo schioppo; poi appuntandolo or all'uno or all'altro, senza sparare giammai, non lasciò che restasse pur una guardia in quel luogo, ma tutte la diedero a gambe sì per la paura dello schioppo di Passamonte, come per le pietre che loro scagliavano addosso i galeotti già liberati.

Sancio si rattristò del successo perché conobbe assai bene che i fuggitivi avrebbero partecipato il caso alla Santa Ermandada, la quale sonando campane a martello sarebbesi affrettata di inseguire i delinquenti; e comunicando al padrone il sospetto, pregollo a togliersi di là per imboscarsi in una montagna vicina.

— Tu parli bene, disse don Chisciotte; ma so io quello che si conviene di fare presentemente: e chiamando a sé i galeotti tutti che erano sparsi chi di qua, chi di là, e che avevano svaligiato il commissario fino a lasciarlo in camicia, se gli fecero tutti d'attorno per sentire ciò che comandasse. Egli disse:

— È proprio di persone ben nate mostrarsi riconoscenti de' benefizî ricevuti e l'ingratitudine è una delle cose più abborrite in faccia al cielo. Ciò dico perché già vedeste, signori, col fatto quanto avete da me ottenuto, ed ora in compenso desidero, anzi è mio volere che pigliando questa catena che vi ho tolta dal collo, ve ne andiate incontanente alla città del Toboso, ed ivi presentandovi dinanzi alla signora Dulcinea del Toboso, le facciate sapere che il suo cavaliere, quello della Trista Figura, v'invia, e se le raccomanda; poi le darete conto esatto e fedele di questa famosa avventura, con tutte le sue minute notizie fino al momento in cui io vi feci riavere la bramata libertà, e ciò adempiuto potrete andarvene pei fatti vostri liberamente.” Rispose per tutti Gines di Passamonte a questo modo:

— Ciò che mi domandate, signore e liberatore nostro, è assolutamente impossibile che sia eseguito da noi, perché non possiamo andarcene uniti per le strade; anzi ci converrà andare ad uno ad uno, soli e divisi, ciascuno per le sue, procurando di nasconderci nelle viscere della terra per non essere colti dalla giustizia che manderà da per tutto a cercare di noi. Ciò che può fare la signoria vostra, ed è ragione che faccia, si è cambiare questa ambasciata alla signora Dulcinea del Toboso in alquante avemmaria e credo, che noi reciteremo secondo la sua intenzione; e questa cosa potrà farsi di notte o di giorno, fuggendo o standoci fermi, in pace o in guerra; ma il credere che noi vogliamo tornare in terra di Egitto, cioè alle miserie di prima, portando la nostra catena al Toboso, è come credere che adesso sia di notte quando sono le dodici del giorno; e il volere da noi questo egli è come domandar pere all'olmo. — Ah corpo di..., esclamò don Chisciotte infuriato, figliuolo di una pessima donna, signor Ginesuccio di Parapiglia, o come tu ti chiami, giuro al cielo che vi andrai tu solo con la coda tra le gambe e colla tua catena sulle spalle.”

Passamonte che non era uomo da tenerla sì facilmente (tanto più ch'erasi accorto della inesperienza di don Chisciotte nella commessa pazzia di dargli la libertà) vedendosi trattar male ed a quel modo, fece d'occhio a' compagni suoi, ed eglino allargandosi cominciarono a gittare un tal diluvio di sassi sopra don Chisciotte, che non gli bastava coprirsi colla rotella; ed il povero Ronzinante non obbediva più allo sprone come fosse stato un cavallo di bronzo. Sancio si cacciò dietro al suo asino e così si difese dal nugolo di sassate che piovevangli addosso. Don Chisciotte non poté schermirsene in modo che una delle pietre non lo colpisse con tanta violenza che lo precipitò a terra. Caduto appena, lo studente gli fu addosso, gli tolse di capo il bacino, e con questo gli diede tre o quattro colpi sopra le spalle, ed altrettanti ne diede in terra, di modo che lo fece in mille pezzi. Gli rubarono una casacca che portava sopra le arme, volevano pure togliergli le mezze calzette, se i cosciali non l'avessero impedito. Rubarono a Sancio il gabbano, lasciandolo in farsetto, e divisero tra loro le spoglie di quel conflitto prendendo ognuno la parte sua con premura indicibile onde scappare dalle mani della giustizia, senza pensare alla catena che erano incaricati di presentare alla signora Dulcinea del Toboso. Rimasero soli l'asino, Ronzinante, Sancio e don Chisciotte; l'asino colla testa bassa e tutto stordito, scuotendo di tanto in tanto gli orecchi, e temendo che ricominciasse la tempesta delle sassate; Ronzinante disteso in terra a canto del suo padrone per un'altra sassata che lo aveva colto; Sancio senza gabbano ed in paura della giustizia; e don Chisciotte sdegnato assai di vedersi corrisposto sì ingratamente da coloro cui tanto bene avea fatto.


CAPITOLO XXIII

 

DI QUELLO CHE ACCADDE AL FAMOSO DON CHISCIOTTE IN SIERRA MORENA, E CHE FU UNA DELLE PIÙ RARE AVVENTURE CHE SI RACCONTANO IN QUESTA VERA ISTORIA.

 

Don Chisciotte vedendosi a sì tristo partito disse al suo scudiere: — Ho inteso sempre a dire, o Sancio, che il far bene ai vigliacchi è un lavare la testa all'asino. Se avessi badato alle tue insinuazioni non mi troverei ora in tanta sventura; ma al fatto non v'è rimedio: bisogna aver pazienza e starsene meglio avvertiti per l'avvenire. — Vossignoria sarà tanto avvertita quanto io sono turco, rispose Sancio; ma poiché ella dice che se avesse badato a' miei consigli non ci troveremmo in tanto malanno, mi creda a quello che le dico presentemente, e scapperemo da un'altra peggiore disgrazia; perché le so dire che contro la Santa Ermandada non si dà cavalleria; e che essa conta meno di due maravedis tutti i cavalieri erranti del mondo. E già mi pare di sentirmi fischiare negli orecchi le sue saette.

— Tu sei codardo per tua natura, disse don Chisciotte: ma perché tu non possa accusarmi di ostinazione, né dire che io non bado mai alle tue insinuazioni, voglio ascoltarti per questa volta, e così mi sottrarrò da quella tempesta che tu paventi; lo fo però a condizione che vivo o morto tu non debba mai dire a nessuno ch'io mi sia ritirato o sottratto da un tal pericolo per timore, ma unicamente per condiscendere a' prieghi tuoi; altrimenti facendo, tu mentirai; e adesso per allora, ed allora per adesso rispondo alla mentita, e dichiaro, che menti e mentirai tutte le volte che ti scappi detto ciò che a mio svantaggio tu pensi. Né replicarmi parola, sai; che al solo pensar che ora mi sottraggo a nuovo pericolo, e specialmente a questo dove pare che io mostri non so qual ombra di paura, per poco è che non mi deliberi di aspettar qui io solo, non pure la giustizia di cui tu parli e che ti atterrisce tanto, ma i fratelli tutti di tutte le dodici tribù d'Israello e i sette fratelli Maccabei, e i gemelli Castore e Polluce, e quante sbirraglie, e quanti bargelli sono al mondo. — Signore, rispose Sancio, il ritirarsi non è fuggire, e quando il pericolo è maggiore della speranza non è da accorto l'attenderlo, ma è da savio il prevenire oggi il dimani, né avventurare il tutto in un giorno solo; e sappia vossignoria che quantunque zotico e villano io m'intendo un poco di quel che si chiama saper vivere, né ella si penta di avere accolto il mio consiglio, ma monti sopra il suo Ronzinante; e se mai non può, io sono qua ad aiutarla, e mi segua, poiché il mio poco cervello pare che mi suggerisca che adesso abbiamo più bisogno dei piedi che delle mani.” Salì don Chisciotte senza aggiungere parola, e, montato Sancio sopra il suo asino, entrarono in quella parte di Sierra Morena ch'era la più vicina, avendo Sancio l'intenzione di attraversarla tutta intera e portarsi al Viso, o ad Almodovar del Campo, e stare nascosto alquanti giorni fra quelle rupi per non essere colti dalla Santa Ermandada se mai li venisse cercando. Prese anche più animo vedendo che in mezzo al parapiglia coi galeotti avea potuto salvare la vettovaglia che stava sull'asino, ciò che egli ascrisse a miracolo dopo le ruberie sofferte.

Pervennero in quella sera nel bel mezzo delle interne balze di Sierra Morena, dove giudicò don Chisciotte di restare la prima notte non solo, ma eziandio alcuni giorni, od almeno fin tanto che durassero le provvigioni. Pernottarono dunque in quelle balze e tra sugheri; ma la fatalità che secondo la fallace credenza di chi non professa la vera fede, regola le sorti tutte degli uomini, volle che Gines di Passamonte, il famoso mariuolo e ladro scappato dalle catene per l'opera e per la pazzia di don Chisciotte, per sottrarsi alla Santa Ermandada, di cui temeva a ragione, pensasse pure di appiattarsi tra quelle montagne. Volle dunque la fatalità che il timore e la ventura sua lo trassero a quel sito medesimo dove trovavansi don Chisciotte e Sancio in ora da poterli riconoscere, ma pensò di lasciarli dormire. Se non che i tristi sono sempre ingrati, e si abbandonano dove la necessità li conduce, e pensano al presente dimenticandosi dell'avvenire; e però Gines, briccone di pessime intenzioni, deliberò di rubar l'asino a Sancio Pancia, non curandosi di Ronzinante avendolo per un mobile da non potersi né impegnare né vendere. Mentre Sancio era immerso nel sonno egli ne menò dunque il giumento, e prima di giorno già era lontano da non essere più raggiunto. Comparve l'aurora rallegrando la terra, ma recando a Sancio la più viva amarezza per la scoperta mancanza del suo asino; e trovandosene derubato, si mise a piangere sì dirottamente che svegliò don Chisciotte coi suoi singulti e con queste lamentevoli voci: — Ahi, figlio delle mie viscere, nato sotto il mio proprio tetto, delizia dei miei figliuoli, gioia di mia moglie, invidia dei miei vicini, sollievo delle mie afflizioni e sostegno della mia persona, perché con ventisei maravedis ch'io con te guadagnava ogni giorno facea metà delle spese per la mia famiglia!...” Don Chisciotte che lo sentì a piangere, e poi ne conobbe la causa, consolò Sancio alla meglio che poté pregandolo di aver pazienza, e promettendogli di rilasciargli un viglietto con cui gli sarebbero dati tre asini dei cinque ch'egli avea lasciati in casa sua. Si racconsolò allora Sancio, rasciugò le lagrime, finirono i singhiozzi, e gradì il bene che gli facea don Chisciotte, il quale non fu appena internato in quelle montagne, che già gli si era allargato il cuore, parendogli di essere giunto in un sito inesauribile di avventure quali appunto egli andava cercando. Stava richiamandosi alla memoria i prodigiosi avvenimenti occorsi ai cavalieri erranti in tali solitudini e luoghi selvaggi, e andavasene immerso in questi pensieri, ed ebro e tratto fuori di sé di null'altro si rammentava; né Sancio (poiché gli parve di essere sicuro dalle persecuzioni della giustizia), davasi altro pensiero che di pascere lo stomaco coi rimasugli di quanto avea tolto ai poveri chierici, che accompagnavano il morto. A tal modo Sancio seguitando il padrone traeva di quando in quando da un sacco, che invece dell'asino era carico sopra Ronzinante, di che empiersi la pancia, contento della sua sorte, senza curarsi di nuove avventure. Ma in questo mezzo alzò gli occhi, e vide che il suo padrone tentava di levar qualche cosa da terra colla punta del suo lancione. Si affrettò Sancio ad aiutarlo, ed arrivò al punto in cui alzava un cuscinetto cui stava legato un valigiotto, ambedue mezzo fracidi e disfatti. Disse il padrone a Sancio che esaminasse quel fardello; e Sancio obbedì, e ad onta che fosse assicurato con catena chiusa da un lucchetto, per le parti rotte e fracide vide quanto conteneva, cioè: quattro camicie di tela d'Olanda fina ed altra biancheria non meno candida che finissima, e aggomitolato in un moccichino un buon monticello di scudi d'oro. Quando Sancio li ebbe scoperti esclamò: — Benedetto sia il cielo che ci offre finalmente una avventura da cui trarremo profitto; e frugando allora ancor più trovò un libricciuolo di memorie riccamente guernito. Questo lo volle don Chisciotte, dicendo a Sancio che serbasse i denari per suo proprio uso. Sancio gli baciò la mano per tanto favore, e togliendo dal valigiotto la biancheria la unì alla vettovaglia che seco portava. Come don Chisciotte ebbe osservata ogni cosa: — Sembrami, disse, o Sancio, (e non è possibile che sia altramente), che qualche passeggiero smarrita la via sarà entrato in queste gore, e qui lo avranno assaltato i malandrini, i quali poi lo avranno altresì sotterrato in questo recondito sito. — Ciò non può essere, rispose Sancio, perché se fossero stati malandrini non avriano lasciato qui il danaro. — È vero, soggiunse don Chisciotte; dunque non saprei indovinare donde tal cosa procedesse; ma attendi, e vedremo se in questo libretto di memorie v'è scritto cosa alcuna d'onde possiamo conoscere ciò che muove la nostra curiosità. Lo aperse, e trovatovi per la prima cosa un sonetto scritto in bel carattere, lo lesse ad alta voce perché lo sentisse anche Sancio, e questo n'era il concetto:

“O Amore ha penuria di senno, od è eccesivamente crudele; ovvero non è la mia pena commisurata al motivo che mi condanna al più duro genere di tormento.

Ma Amore è Dio, nessuno l'ignora, ed è ben ragionevole che un Dio non sia crudele: or chi è dunque colui che impone cotesto dolore ch'io soffro ed adoro?

Se dico che sei tu, o Filli, m'inganno; perocché tanto male non può capire in tanto bene: né viene dal cielo questa rovina.

Tra breve mi toccherà di morire; questo è il più certo; perché ad un male di cui ignota è la cagione, miracolo sarebbe il trovar medicina.”

— Nemmeno per questo, disse Sancio, si può chiarire l'imbroglio, se non fosse, che tenendo dietro ad un filo si può arrivare a conoscere il gomitolo di questa faccenda. — Di che filo parli tu? disse don Chisciotte. — Sembrami, rispose Sancio, che vossignoria abbia nominato filo. — Filli ho detto, rispose don Chisciotte, e questo, senza dubbio, si è il nome della dama di cui si duole l'autore di questo sonetto; e per Bacco, o che debb'essere uno sperimentato poeta, o ch'io poco me ne intendo. — E che? disse Sancio, ella s'intende di queste composizioni? — Più di quanto non credi, rispose don Chisciotte, e lo conoscerai per prove allorché recherai una lettera scritta da un capo all'altro in versi alla mia signora Dulcinea del Toboso: perché voglio che tu sappia, o Sancio, che tutti gli erranti cavalieri della passata età erano gran poeti e cantori, mentre queste due abilità (o grazie, per parlare più acconciamente), sono annesse agli innamorati erranti, quantunque non possa negarsi che le canzoni de' passati cavalieri erano quasi sempre più spiritose che belle. — Legga vossignoria quel che resta, disse Sancio, e troveremo di che soddisfarci.” Voltò la carta don Chisciotte, e disse — Quest'è prosa, e sembrami che sia una lettera. — Lettera missiva? domandò Sancio. — Il suo principio indica amori, rispose don Chisciotte. — Legga dunque la signoria vostra, replicò Sancio, e legga forte, che a me vanno a sangue le cose che trattano di amori. — Quanto mi piaci! disse don Chisciotte; e leggendola forte trovò che in essa così stava scritto:

La tua fallace promessa e la mia certa sventura mi trascinano in luogo donde ti arriveranno le nuove della mia morte prima che le ragioni delle mie querele. Tu, ingrata, mi posponesti a chi possiede più di me, non però più di me il merita: ma se la virtù fosse stimata ricchezza, non invidierei le fortune degli altri, né piangerei le sventure mie proprie. Quello che la tua bellezza avea fatto lo distrussero i tuoi portamenti. La prima mi fece credere che fossi un angelo; questi mi hanno fatto conoscere che sei donna. Restati in pace, sola cagione della tempesta in cui si trova il mio cuore; e piaccia al cielo che rimangano nascoste ad ognuno le frodi del tuo sposo, perché tu non abbia a pentirti di quanto facesti; ed io non prenda vendetta di quello che non vorrei.

Terminata questa lettura, don Chisciotte disse: — Tanto dalla lettera quanto dai versi può argomentarsi soltanto che lo scrittore fu un amante disperato; e voltando e rivoltando quasi tutto il libretto trovò degli altri versi, alcuni che si potevano leggere ed altri no. Il contenuto loro non era se non querele, lamenti, differenze, gioie e disgusti, favori e sdegni, ricevuti gli uni con allegrezza, gli altri con pianto. Frattanto che don Chisciotte squadernava il libro, Sancio visitava il valigiotto con somma diligenza frugandone ogni angolo affinché nulla scappasse dalle sue perquisizioni: tanto lo avean reso avido gli scudi trovati, che passavano i cento. Non trovò nulla più: ma tuttavia gli parve che non fossero stati senza un buon perché lo sbalzamento nella coperta, il vomito del beveraggio, la benedizione delle stanghe, le spuntate del vetturale, il latrocinio delle bisacce, la perdita del gabbano, il furto dell'asino, e tutta la fame, sete ed affanni che avea sofferti in servigio del suo buon padrone; sembrandogli che di tutto lo compensassero le cose allora trovate.

Gran desiderio rimase nel Cavaliere della Trista Figura di sapere chi fosse il padrone del fardello, conghietturando dal sonetto e dalla lettera, dalle monete d'oro e dalle fine camicie, che dovesse essere un ricco innamorato, condotto a quella disperata risoluzione dagli sdegni e dai mali trattamenti della sua signora. Ma non vedendosi alcuno in quelle deserte e dirupate balze da cui averne contezza, non si curò di altro che di seguitar la sua via lasciandosi condurre a voglia di Ronzinante, dove cioè la povera bestia potesse andare; sempre con la immaginaria fiducia che non gli potesse mancare fra quei dirupi qualche nuova e strana ventura. Proseguendo adunque il cammino immerso in questi pensieri vide sulla cima di una montagnuola che se gli offriva allo sguardo un uomo che andava saltando di masso in masso e di macchia in macchia con gran leggerezza. Gli parve nella sua fantasia che fosse seminudo, colla barba negra e folta, coi capegli rabuffati, i piè scalzi, nude le gambe, e con un paio di calzoni che pareangli di velluto lionato, ma stracciati per modo da mostrare da molte parti le carni. Avea scoperta la testa, e benché apparisse solo di tratto in tratto, il cavaliere della Trista Figura osservò e notò minutamente ogni cosa; ma quantunque tentato avesse di seguitarlo, nol poté fare perché la debolezza di Ronzinante gli vietava di valicare per quei precipizi; e tanto più che il suo passo era di natura assai limitato e flemmatico. Ora si figurò don Chisciotte che costui fosse il padrone del cuscinetto e del valigiotto, e propose fra sé di volerlo raggiungere quand'anche avesse dovuto aggirarsi per un anno intero tra quelle balze. Ordinò a Sancio che pertanto battesse da una parte la montagna, mentre egli se n'andrebbe per la opposta via; che forse in tal guisa raggiungerebbe quell'uomo che gli era sparito dinanzi agli occhi.

— Non posso, rispose Sancio, perché scostandomi da vossignoria mi entra addosso una paura che mi dà mille batticuori, e mi rappresenta mille visioni; e ciò le serva di avviso, perché da qui in avanti io non mi allontanerò un dito solo da lei. — Sia quello che vuoi, disse don Chisciotte, ed io sono contentissimo che tu ti possa valere del mio coraggio, che non ti mancherà se bene ti mancasse l'anima nel corpo; seguimi dunque a poco a poco, o come potrai, e spia dappertutto cogli occhi. Noi ci aggireremo per questa montagnuola, e forse c'imbatteremo nell'uomo da noi veduto, il quale certamente sarà il padrone di tutto quello che abbiamo trovato. Al che Sancio rispose: — In questo caso saria molto meglio che non lo andassimo cercando, perché se lo troviamo, ed è veramente il padrone del denaro, è cosa evidente ch'io gliene dovrei fare la restituzione; però il meglio sarebbe lasciare in disparte queste inutili diligenze, e che io possedessi il danaro in buona fede sin tanto che per qualche altro modo men curioso e men sottile si scopra il vero padrone; perché questo accadrà probabilmente quando i danari saranno spesi tutti, ed allora il re ce ne farebbe franchigia. — In ciò t'inganni, o Sancio, rispose don Chisciotte, in questo dubbio siamo obbligati a cercare il padrone ed a restituire: e quando non lo trovassimo, il dubbio in cui siamo ch'egli sia desso già basta; per altro, amico Sancio, non ti dar pena per cercare di lui, ché ne andrò io sulle tracce.” Ciò detto, spronò Ronzinante, e Sancio lo seguì a piedi e carico per colpa di Ginesuccio di Passamonte; ed avendo trascorsa una parte della montagna trovarono in un ruscello caduta morta e mezzo mangiata dai cani e bezzicata dai corvi una mula colla sella e briglia, ciò che li confermò maggiormente nel sospetto che colui che fuggiva fosse il padrone della mula e del valigiotto. Standola osservando udirono un fischio, come quello che si usa da pastore che guardi la mandra, e comparve nel tempo stesso alla mano sinistra una buona quantità di capre, e dietro di esse veder si fece il capraio che le custodiva, e che era un uomo attempato. Don Chisciotte lo chiamò tosto pregandolo che si calasse dov'eglino si trovavano; ed esso gridando domandò a lui chi lo aveva condotto in quel luogo poche volte o non mai calpestato da piede umano, ma sol da capre o da lupi, ovvero da altre fiere di quegli antri. Sancio rispose che scendesse che di tutto gli avrebbero dato conto. Scese il capraio, e arrivato dove stavasi don Chisciotte:

— Io scommetto che voi, signori, andate guardando cotesta mula da nolo che vedete morta laggiù in quel burrone: ebbene sappiate che sono già sei mesi da che ella è costà. Ora ditemi, signori: avete forse incontrato il suo padrone?

— Non ci siamo incontrati in alcuno, rispose don Chisciotte, ma trovato abbiamo un cuscinetto ed un valigiotto poco di qua lontano.

— Io pure li ho veduti, rispose il capraio, ma non volli toccarli, e neppur ad essi accostarmi temendo di qualche disavventura o di essere tenuto per ladro; perché il diavolo è fino, e salgono dal sotto in su delle cose che ci fanno intoppare e cadere senza che se ne sappia il come od il quando.

— Così dico ancor io, rispose Sancio, che veduto ho il valigiotto, e me ne stetti lontano, fate conto come un tiro di pietra, e l'ho lasciato dov'era, e se ne giace ove stava, perché io non voglio immischiarmi nelle cose che non m'importano.

— Sapete voi, buon uomo, disse don Chisciotte, chi ne sia il padrone?

— Questo solo vi so dire, rispose il capraio, che corrono sei mesi all'incirca da che un giovane ben fatto e di giusta statura giunse ad una capanna di pastori lontana forse tre miglia da questo sito. Cavalcava egli la stessa mula che vedete là morta, ed avea seco il cuscinetto e la valigia che dite di avere trovati senza toccarli. Domandò a noi caprai quale fosse la parte più recondita e silvestre di questa Sierra, e noi gli abbiamo risposto essere questa dove ora ci troviamo: e ciò è vero, perché se vi penetraste per mezza lega, non ne saprete più uscire: ed anzi mi maraviglio che fin qui vi siate potuti condurre, non essendovi né strada né guida che aiutare vi possa. Ora sappiate che udendo il giovane la nostra risposta, voltò le redini, e si avviò alla parte da noi accennatagli, lasciandoci tutti contenti della sua bella presenza e del suo buon garbo, ma attoniti nel tempo medesimo della sua domanda e della fretta con cui s'incamminò verso la Sierra. Da quel punto in poi non lo abbiamo più veduto; se non che dopo alcuni giorni, incontratosi egli per istrada in uno dei nostri pastori, se gli accostò, gli diede di molte pugna e calci, e poi se ne andò alla volta dell'asina del pastore che portava la vettovaglia, tolse quanto pane e cacio aveva, e fatto questo, sparì via, si può dire, in un lampo rinselvandosi nella Sierra. Quando noi caprai avemmo questa notizia siamo andati a cercarlo per quasi due giorni nei luoghi più romiti, e finalmente lo trovammo nascosto nel vano di un vecchio sughero. Egli si fece incontro a noi con grande cortesia, col vestito tutto lacero, sfigurato nella faccia ed abbronzato dal sole per modo che lo abbiamo appena riconosciuto: se non che ci siamo assicurati ch'egli era quel desso considerando le vesti così lacere che avevamo prima vedute e le notizie che di lui ci erano state date. Ci salutò con gentilezza, e in poche ma succose parole ci disse che non facessimo le meraviglie del suo stato, perché così era obbligato di fare per compiere una certa penitenza impostagli pe' suoi peccati. Lo pregammo a volerci dire chi egli fosse, ma si rifiutò costantemente; gli abbiamo detto che quando avesse bisogno di sostentamento, senza il quale non potea certamente campare, ci facesse sapere dove dovessimo andarlo a trovare, perché con tutta la premura e l'affetto gliel'avremmo portato e che, se ne anche questo gli piaceva, lo avremmo condotto ai nostri casolari; e se tuttavia non le piacevano le nostre offerte, ci chiedesse almeno quello di cui aveva bisogno, ma si astenesse dall'usar violenza ai pastori come avea fatto. Egli gradì molto le nostre esibizioni, ci chiese perdono dell'accaduto, e promise di domandarci sempre quanto avesse bisogno per amor di Dio senza far molestia ad alcuno. Quanto al soggiorno non volle pure cangiarlo, e sul finire del suo discorso proruppe in sì tenero pianto che solo chi fosse stato di sasso avrebbe potuto ritenersi dal piangere insieme con lui. Noi consideravamo qual egli era la prima volta, e quale ci si parava allora dinanzi, perché, come dissi, era un giovine di maniere belle e garbate, e i suoi cortesi e ragionati discorsi lo dimostravano persona ben nata e di squisita educazione: e quantunque noi siamo zotici, la sua gentilezza era tanta che ne restavamo confusi. Sappiate dunque che nel più bello del suo discorso egli ammutolì, fissò gli occhi in terra per buono spazio di tempo, e noi ce ne stavamo cheti e sospesi attendendo ove andasse a finire quella sua stupidità. Molto ci doleva di vederlo a quel tristo partito, per che ben ci accorgemmo che quel suo aprire gli occhi a grande stento, quel tenerli sempre fissi in terra senza rimuoverli un punto, poi chiudergli un'altra volta stringendo le labbra e inarcando le ciglia, era manifesto indizio di qualche movimento di pazzia che lo cogliesse proprio in quel momento. Egli purtroppo ci fece conoscere che non ci eravamo in questo ingannati; ma poi levatosi con gran furia da terra ove si era gittato, venne alle prese col primo che gli era da vicino con tal furore che lo avrebbe ammazzato a pugni e a morsi se non glielo avessimo tolto di mano. In mezzo a questi eccessi esclamava: “Ah disleale Fernando! Qua, qua mi pagherai il torto che mi hai fatto; queste mani ti strapperanno quel cuore dove albergano tutte le scelleraggini, e principalmente la frode e l'inganno. A queste aggiungeva altre dichiarazioni che miravano tutte ad aggravare quel Fernando trattandolo di traditore e di sleale. Noi tutti rammaricati gli togliemmo dalle mani il nostro fratello, ed egli scostandosi senza proferir più parole, andò ad imboscarsi fra questi carpini e questi vinchi sì rapidamente che ci rese impossibile il seguitarlo. Si può conghietturare che la pazzia lo assalisca ad intervalli, e che da qualcuno chiamato Fernando abbia ricevuto qualche gran torto che lo condusse a tanta disperazione; e questo pare tanto più verosimile quanto che alcuna volta egli si è lasciato trovare sulla strada per chiedere ai pastori di essere condotto a mangiare, ed altre volte, quando viene assalito dalla frenesia, se lo toglie per forza senza curare le nostre spontanee offerte, assalendoci a furia di percosse. Quando torna in sé riceve ogni cosa per amore di Dio e cortesemente e piacevolmente ringrazia non senza spargere molte lagrime. E per dirvi, o signori, ogni cosa, proseguì il capraio, ieri io con quattro altri pastori, due famigli e due amici miei ci siamo proposti di cercarne finché ci riesca di trovarlo e di condurlo o per amore o per forza alla terra d'Almodovar, ch'è otto leghe di qua lontano; perché vogliamo ch'ivi si assoggetti ad una cura, s'è male da potersi guarire; e così sapremo chi sia quando avrà qualche lucido intervallo; e se avrà parenti li renderemo consapevoli della sua disgrazia. Ecco il conto che ho potuto darvi di ciò che mi domandaste, ed accertatevi che il padrone delle cose da voi trovate è appunto colui che vedeste passare con tutta velocità stracciato e quasi nudo:” perché già don Chisciotte gli avea detto di averlo veduto saltar per quelle balze.

Restò maravigliato assai don Chisciotte del racconto del capraio, ed aumentandosi in lui la voglia di sapere chi fosse quel forsennato, propose fra sé medesimo di cercarne conto pur egli per tutta quella montagna, non lasciandosi addietro né grotta né angolo fin che ciò gli riuscisse. La sorte lo favorì in questo meglio di quello che pensava o sperava; perché proprio in quel punto fra la spaccatura di una montagna, che metteva in quella dov'eglino si trovavano, comparve il giovane medesimo che andava parlando fra sé, ma in modo da non poter essere inteso né da vicino né da lontano. Il suo vestito era quale fu già descritto, e più avvicinandosi a don Chisciotte, questi poté osservare che portava un collare di ambra tutto stracciato, d'onde tanto più si persuase che non potrebbe essere di bassa condizione chi portava sì nobili contrassegni. Raggiunti che furono dal giovine, li salutò con voce alterata e rauca, ma però assai cortesemente. Don Chisciotte gli rese il saluto con non minore creanza, e sceso da Ronzinante, con modo affabile e gaio andò a gittarglisi al collo, e se lo tenne sì a lungo e sì strettamente fra le braccia come se lo avesse conosciuto da lunga mano. L'altro, che chiamare si potrebbe lo Stracciato d'infelice aspetto come don Chisciotte era il Cavalier della Trista Figura, dopo avere raccolti gli abbracciamenti, scostò da sé alquanto don Chisciotte, e, postagli una mano sopra le spalle, gli fissò gli occhi addosso come se cercasse di persuadersi di conoscerlo, maravigliato non tanto di vedere la figura, la statura e le armi di don Chisciotte quanto del modo con cui stava attentamente a guardarlo. In fine primo a parlare, seguìti gli abbracciamenti, fu il cavaliere stracciato, e disse ciò che sarà riferito qui avanti.

 


CAPITOLO XXIV

 

SEGUITA L'AVVENTURA DI SIERRA MORENA.

 

La storia dice che don Chisciotte ascoltava con grandissima attenzione lo sventurato cavaliere della Sierra, il quale seguitò in questo modo il suo ragionamento: — Certamente, o signore, chiunque voi siate, che io non vi conosco, aggradisco le dimostrazioni vostre e la cortesia meco usata, e vorrei trovarmi nel caso di mostrarvi a prove di fatti più che di parole la mia gratitudine pei vostri buoni offici; ma la sorte non vuole ch'io possa con altro che col buon volere corrispondere alle opere pietose che mi vengono impartite.

— La mia, rispose don Chisciotte, è di servirvi: e tanto è ciò vero quanto che erami determinato di non iscostarmi da queste montagne senza vedervi ed intendere da voi l'origine di quel profondo dolore che il vostro straordinario modo di vivere appalesa; perché se vi ha rimedio atto a sanarlo, io lo adopererò con ogni diligenza; se poi la vostra sventura è del novero di quelle che non possono ricevere consolazione, e mi farò compagno vostro nel piangerla, e cercherò di addolcirla in ogni modo: ch'è pur qualche sollievo all'afflitto il ritrovare chi si unisca nell'afflizione con lui! Se dunque vi pare che meriti di essere gradita la mia buona intenzione, con ogni amorevolezza, vi supplico, o signore, per la molta cortesia che dimostrate in voi stesso, e vi scongiuro al tempo medesimo, per la cosa che più vi è o vi fu cara al mondo, che mi facciate sapere chi voi siete, e la causa che vi ha tratto a vivere ed a morire in queste solitudini a guisa di un bruto, stando in esse così fuori di voi stesso, come dimostrano il vostro vestito ed il vostro portamento. Vi giuro, seguitò a dire don Chisciotte, per l'ordine di cavalleria che ho ricevuto, benché indegno peccatore, e per la mia professione di cavaliere errante, che se in questo mi compiacerete, io sarò a servirvi con quell'ardore a cui mi obbliga l'esser mio, o rimediando alla vostra disgrazia, s'ella ha rimedio, od accompagnandomi a voi per deplorarla, siccome vi ho già promesso.”

Il cavaliere del Bosco sentendo parlar in tal modo quello della Trista Figura, altro non facea che guardarlo e tornarlo a guardare da capo a fondo, e dopo averlo tanto osservato soggiunse: — Se hanno di che darmi a mangiare, me lo diano per amore di Dio, ed io dopo essermi sfamato farò quanto mi si comanda in segno di gratitudine a così buone intenzioni.” Trassero allora, Sancio dalla sua dispensa, e il capraio dal suo zaino, quanto bastava per saziare l'appetito dello Stracciato; il quale non lasciava che un boccone aspettasse l'altro, inghiottendoli prima di masticarli; e mentre stava divorando, nessuno proferiva parola. Terminato ch'ebbe lo invitarono a seguitarli, e lo condussero in un verde praticello che giaceva dietro ad una balza a poca distanza. Ivi si assise egli sull'erba, e gli altri fecero lo stesso, e tutto si eseguì senza che alcuno dicesse parola, finché lo Stracciato, dopo essersi posto al suo luogo, disse: — Se bramate, o signori, che brevemente io vi faccia palese le immensità delle mie disgrazie, mi dovete promettere che non interromperete né con domande né altrimenti il filo della funesta mia istoria; perché contravvenendo a ciò, subito che aprirete la bocca, la narrazione resterà a quel punto interrotta.” Questo discorso richiamò alla memoria di don Chisciotte la novella che gli aveva raccontata il suo scudiere, lasciandola sospesa quando non gli seppe dire il numero delle capre che aveano passato il fiume. Ma tornando al nostro Stracciato, proseguì egli dicendo: — Questa dichiarazione l'ho premessa pel desiderio di non trattenermi a lungo nel racconto delle mie disavventure; perché il richiamarle alla memoria altro non fa che aggiungere peso a peso: quanto meno m'interrogherete, tanto più presto io giungerò al fine; ma vi assicuro però che non lascerò di riferirvi ogni cosa che importi per soddisfare compiutamente la vostra curiosità.” Glielo promise don Chisciotte in nome di tutti, ed egli di ciò assicurato cominciò nella seguente maniera il racconto:

“Il mio nome è Cardenio, la mia patria una città delle migliori dell'Andalusia, nobile il mio lignaggio, doviziosi i miei genitori, sì grande la mia disavventura, che debbono averne pianto e i genitori e i parenti senza poterne temperare l'amarezza colle loro molte ricchezze; poiché valgono assai poco i favori della fortuna per tener fronte alle sciagure che Dio ci manda. Nella detta provincia trovavasi un cielo in cui amore posta avea tutta la gloria ch'io avessi potuto desiderare: tale si era la bellezza di Lucinda, donzella pari a me nella nobiltà e nelle ricchezze, ma però di me più avventurata, e meno costante di quello che si conveniva alle mie onorate intenzioni. Ho amato questa Lucinda, la ho desiderata ed adorata sino dai miei teneri anni, e fui da lei corrisposto con quella semplicità e con quel buon cuore ch'erano proprî dell'età sua. Note ai genitori erano le nostre intenzioni, né se ne mostravano scontenti; perché conoscevano che ne sarebbe derivato un maritaggio predisposto già dalla eguaglianza della nostra condizione e delle nostre fortune. Crebbe coll'età l'amore in entrambi, sicché parve al padre di Lucinda di essere obbligato per molti buoni rispetti a negarmi l'ingresso della sua casa, imitando così i genitori dell'infelice Tisbe tanto da' poeti cantata. Una tale proibizione aggiunse fiamma a fiamma, desiderio a desiderio; mentre impose bensì silenzio alle nostre lingue, ma non valse ad impedire il linguaggio della penna; la quale, più libera della voce, suol far conoscere a chi 'l brama ciò che l'animo in sé rinchiude; e tanto più che spesso addiviene che la presenza dell'oggetto amato conturba e infrena la più libera intenzione e la lingua più ardimentosa. Oh cielo! quanti biglietti non le scrissi io! Quanto non ne riportai deliziose ed oneste risposte! Quante canzoni ho composto, e quanti amorosi versi, nei quali l'anima dichiarava e trasfondeva i suoi sentimenti, dipingeva gli accesi suoi desiderî, ricordava le passate cose e ricreava la sua volontà! Finalmente sentendomi struggere e consumare nella brama di vederla, determinai di mettere in opera e compire ad un punto ciò che giudicai necessario per conseguire il premio da me bramato e meritato, chiedendola al padre per legittima mia sposa siccome feci. Mi rispos'egli che gradiva la mia volontà di onorare lui e far onore a me stesso colle nozze proposte; ma che vivendo il mio genitore, toccava a quello per giusto diritto il fare questa dimanda; perché se non vi consentisse pienamente e con ogni sua soddisfazione, Lucinda non era donna da essere pigliata né data di furto. Io gradii quella buona intenzione, sembrandomi ch'egli parlasse ragionevolmente, e sperando che sarebbe di leggeri andato lo stesso mio padre a fargliene la proposizione.

“Volai infatti al genitore per dirgli ciò ch'io desiderava; ed all'entrare nella stanza lo trovai che avea una lettera aperta in mano, la quale mi diede prima ch'io gli facessi parola alcuna e mi disse: — Conoscerai, Cardenio, da questa lettera il desiderio che nutre il duca Riccardo d'impartirti molto favore. — Questo duca Riccardo, come dovete sapere voi altri signori, è un grande di Spagna che tiene il suo Stato nel sito più florido dell'Andalusia. Presi e lessi la lettera; era scritta con sì grande istanza ch'io stesso avrei giudicato sconveniente che mio padre rifiutasse di eseguire quello di cui era richiesto: e diceva che mi trovassi di subito dove egli trovavasi, perché bramava che fossi compagno (e non servo) del suo primogenito; e che toglieva sopra di sé di pormi in condizione corrispondente alla stima che mi professava. Ammutolii nel leggere quella carta, e più ancora quando intesi dirmi da mio padre: — Di qui a due giorni partirai, Cardenio, al servigio del duca, e ringrazia Iddio che ti va aprendo la strada per giungere al grado che meriti, ed a queste parole aggiunse altri consigli dettati da paterna affezione. Arrivò il tempo di mia partenza; parlai una notte con Lucinda; le feci sapere l'avvenuto, rendendone informato anche suo padre, e supplicandolo che non accasasse sua figlia finché io non avessi veduto quello che Riccardo di me disponeva. Egli me lo promise, e ne ebbi da lei la conferma tra mille giuramenti, e tra svenimenti ed affanni per la nostra separazione. Passai appresso il duca, il quale mi accolse e mi trattò sì onorevolmente che fin d'allora cominciai ad essere invidiato, sembrando ai vecchi suoi dipendenti che potessero tornare a loro discapito i benefizi dei quali egli mi ricolmava. Ma quegli che mostrò più di ogni altro affezione alla mia persona fu il secondogenito del duca per nome Fernando, giovane di buon garbo, gentile, di sentimenti liberali ed innamorato, il quale in poco tempo mi si palesò tanto amico che dicevano tutti che l'affetto per me del fratello maggiore, benché fosse grande e manifesto, non poteva paragonarsi però colla bontà straordinaria con cui mi trattava don Fernando. Or, come non si dà segreto fra veri amici, e fra e me don Fernando non eravi già una semplice dimestichezza, ma vera amicizia, così egli mi confidò i suoi più riposti pensieri, e specialmente un suo innamoramento che gli era cagione di grandi inquietudini. Amava egli una contadina vassalla del padre suo, figliuola di agiate persone, sì bella, ritirata, giudiziosa ed onesta, che quanti la conoscevano non sapevan decidere quale fosse la migliore fra tante sue qualità. Queste speciose doti della vezzosa contadina ridussero a tale i desideri di don Fernando, che per poter venire a capo dei suoi disegni e meritarsi la tenerezza di lei le promise di farla sua sposa, giudicando impossibile il persuadernela in altra maniera. Io, vinto dall'amicizia, procurai distoglierlo da questa sua determinazione accampando le più sode ragioni, e sottoponendogli esempi opportuni; ma vedendo che tutto era indarno, mi determinai di palesare ogni cosa al duca Riccardo suo padre. Don Fernando, come sagace e giudizioso, si pose in sospetto e in timore di questo; sembrandogli che nella mia qualità di leal servidore non avrei dovuto tener celata cosa di tanto pregiudizio all'onore del duca mio signore, e per distormene e trarmi in inganno, mi disse che non trovava alcun rimedio più efficace a bandire la memoria di tanta bellezza che lo teneva soggetto, se non allontanarsene per alcuni mesi; e che quindi egli bramava di recarsi meco a casa di mio padre, facendo credere al duca che andava a vedere ed a far acquisto di leggiadri cavalli, che si trovan nella mia patria, la quale produce i migliori che esistano. Appena lo intesi dir questo, mosso dalla mia affezione avrei approvato il suo divisamento quand'anche non fosse stato molto lodevole, considerando la buona occasione ch'esso mi dava di rivedere la mia Lucinda. Aderii dunque al suo parere, e secondai il suo proponimento, dicendogli che lo mandasse ad effetto con ogni celerità, perché infatti la lontananza non manca di produrre notabili effetti anche sui fermi divisamenti. Ma quando egli mi tenne questo discorso, aveva già (come seppi di poi) ingannata la contadina colla promessa del matrimonio, e cercava un'occasione di salvamento, paventando il risentimento del duca suo padre se fosse venuto in cognizione delle sue follie. Nei giovani suole l'amore non essere che un semplice appetito, il quale mirando unicamente al diletto, termina, soddisfatto che sia, e poi cangiasi in un sentimento che non può oltrepassare il termine che natura gli impose: termine che non si dà nel vero amore: e per queste ragioni anche don Fernando intiepidì ben presto nel suo affetto, e se fingeva da prima di allontanarsi per rimediarvi, ora procurava da vero di andarsene per non esser tenuto ad osservare la sua promessa. Ebbe la permissione dal duca il quale ordinò anche a me d'accompagnarlo; e così arrivammo alla mia patria dov'egli fu da mio padre accolto in quel modo che si conveniva ad un suo pari. Io rividi Lucinda, e si riaccesero i miei desideri, che mai non s'erano né spenti né indeboliti, e ne feci per mia sventura consapevole don Fernando, sembrandomi che la legge della molta amicizia che mi dimostrava, mi vietasse di occultargli la menoma cosa.

Gli lodai la bellezza, il brio ed i talenti di Lucinda, e ciò feci di tal maniera che i miei encomi mossero in lui il desiderio di conoscere una donzella adorna di doti sì peregrine. Io stesso, per estremo mio danno, secondai le sue brame, facendogliela vedere una sera al chiarore di un lume dalla finestra da cui solevamo parlarci. Vedutala, quantunque in semplice abbigliamento, la giudicò superiore a quante bellezze avess'egli mai conosciute; ammutolì, divenne, per così dire, stupido e tutto assorto, e in fine innamorato sì ardentemente come vedrete nella seconda narrazione delle mie sventure. Per accendere maggiormente la sua passione (che mi teneva celata, non palesandola se non al cielo), volle la sorte che gli venisse alle mani un biglietto di lei con cui mi eccitava a domandarla a suo padre in isposa; ed era lo scritto sì rettamente concepito in ogni parte, così pieno di onestà e di amore, che dopo averlo letto egli mi disse che nella sola Lucinda vedeva uniti quanti pregi di bellezza e d'intendimento mai si trovarono sparsi in tutte le altre donne.

Debbo confessare ad onore del vero che conoscendo quanto giustamente don Fernando profondeva le sue lodi a Lucinda, mi era altrettanto grave di sentirle dalla bocca di lui, e sin d'allora cominciai ragionevolmente a temerne e ad esserne geloso. Non passava momento ch'egli non amasse di ragionare con me di Lucinda, ed era egli quello che cominciava il discorso, cercando pretesti per introdurlo: il che mi era grave; non perché temessi o dubitassi della bontà e della fede di Lucinda, ma perché la mia sorte mi facea sin d'allora temere quello appunto ch'ella voleva che dovesse poi avvenirmi. Procurava sempre don Fernando di avere alle mani le lettere ch'io le scriveva e le risposte di lei sotto pretesto di ammirare il suo finissimo discernimento, ed avvenne che avendomi chiesto Lucinda un libro di cavalleria da leggere, di cui molto si compiaceva, ed era quello di Amadigi di Gaula...” Don Chisciotte appena sentì nominar libri di cavalleria, lo interruppe: — Se mi avesse fatto sapere vossignoria che la signora Lucinda era affezionata ai libri di cavalleria, non le saria stato d'uopo di altre esagerazioni per farmi conoscere la elevatezza del suo intelletto, perché non lo avrebbe avuto così eccellente com'ella, o signore, me l'ha dipinto, se non avesse assaporate sì stupende letture, né ora occorre impiegare meco altre parole per descrivermi la sua avvenenza, l'ingegno ed il merito; che solo per la sua predilezione la tengo per la più bella e più preziosa donna del mondo. Avrei però desiderato, o signore, che le aveste fatto conoscere unitamente ad Amadigi di Gaula, quell'ottimo uomo di don Rogel di Grecia, che so io quanto la signora Lucinda sarebbesi compiaciuta di Daraida e di Garaia, e delle avvedutezze del pastore Darinello e degli ammirabili versi delle sue bucoliche, ch'egli rappresentava con grazia, con bell'ordine, con disinvoltura; ma verrà tempo che si potrà correggere siffatto errore, né assai ci vuole per farne l'ammenda, bastando che vossignoria voglia venir meco alla mia terra, dove le potrò dare più di trecento libri che sono la consolazione dell'anima mia e il trattenimento della mia vita, se pure mi saranno rimasti salvi; perché debbo temer la malignità dei tristi e invidiosi incantatori. Mi perdoni la signoria vostra se ho mancato alla promessa di non interrompere il suo ragionamento; ma udendo così di cavalleria e di cavalieri erranti tanto sarebbe possibile a me l'astenermi dal parlarne, quanto a' raggi del sole il non riscaldare e a quelli della luna il non inumidire. Mi perdoni, ripeto, la signoria vostra e prosegua pure; che ciò più di tutto importa presentemente.”

Mentre don Chisciotte stava facendo questo discorso, Cardenio teneva la testa chinata sul petto, come uomo immerso in profondi pensieri; e ad onta che per ben due volte don Chisciotte lo stimolasse a seguitare la sua istoria, egli né alzava il capo né rispondeva parole. Solo dopo qualche tempo si alzò e disse: — Non mi può uscire dal pensiero, né vi sarà al mondo chi me ne stolga, né chi mi dia ad intendere altrimenti; e sarebbe un balordo chi credesse o volesse far creder il contrario: sì certamente quel briccone del maestro Elisabatte era amato dalla regina Madassima... — Oh questo poi, no, corpo... (sclamò sommamente incollerito don Chisciotte dando in bestemmie), è questa una grande malignità, o per meglio dire furfanteria. La regina Madassima è stata una possente signora, e non è lecito presumere che sì gran principessa siasi avvilita con un medicacrepature; e chi sostiene il contrario, mente come il più gran gaglioffo: ed io glielo proverò a piedi e a cavallo, armato e disarmato, di notte e di giorno, e come più gli aggrada.” Cardenio lo andava attentamente guardando; già sul punto di abbandonarsi alla sua frenesia non trovavasi più in grado di proseguire la sua istoria; né più avrebbe voluto ascoltarla don Chisciotte, disgustatissimo di ciò che aveva inteso della regina Madassima. Strano caso! tanto interesse egli si prese per questa principessa, che di più non avrebbe potuto mostrarne se fosse veramente stata la sua naturale signora: a tal grado gli aveano ottenebrato il cervello que' scomunicati libri! Ma intanto Cardenio che già ritornava nella sua pazzia, sentendosi trattare da mentitore e da gaglioffo con altre gentilezze siffatte se ne adontò, e, dato piglio ad un sasso che si trovò aver vicino, lo scagliò nel petto a don Chisciotte sì fortemente, che il colpo lo fece cadere all'indietro. Sancio Pancia che vide conciare il padrone in quel modo, andò contro il pazzo con le pugna serrate; ma fu da Cardenio ricevuto in maniera che d'un sol colpo se lo gittò a' piedi, e montatogli sopra gli ammaccò molto bene le costole. Il capraio, che si accingeva alla difesa di Sancio, corse il medesimo rischio, ed il pazzo dappoiché li ebbe macinati e pesti ambedue, fuggì velocemente per la montagna. Si levò Sancio, e con la bile che lo accendeva per vedersi immeritamente maltrattato a quel modo, se la prese col capraio che non lo avesse in tempo avvertito che a quell'uomo tornava la pazzia ad intervalli, dicendo che se questo avessero saputo egli e il suo padrone sarebbero stati in sull'avviso per potersene difendere. Rispose il capraio che gliel'avea già detto, e che se non lo avea capito dovea imputare a sé solo lo colpa. Replicò Sancio, e tornò a replicare il capraio, e il fine delle repliche si fu di pigliarsi per la barba e darsi di tali pugna, che se don Chisciotte non si frametteva si sarebbero fatti in pezzi. Diceva Sancio, già venuto alle mani col capraio: — Deh! lasci, signor cavaliere della Trista Figura, che con costui, ch'è villano come sono io, e non è armato cavaliere, io possa combattendo a tu per tu soddisfarmi a mia voglia della offesa che mi ha fatto. — Quest'è vero, rispondeva don Chisciotte; ma so io ch'egli non è punto colpevole di ciò ch'è successo. Con questo li persuase e li acchetò, e tornò poi a domandare al capraio se fosse possibile di rinvenire Cardenio; giacché lo stimolava un gran desiderio di sapere il fine della sua istoria. Il capraio replicò quanto gli aveva già detto, di non sapere cioè certamente dove si nascondesse; ma che se girato avesse molto a lungo tra que' dirupi, lo avrebbe ritrovato senza dubbio di nuovo, o savio o pazzo.

 


CAPITOLO XXV

 

DELLE STRANE COSE AVVENUTE IN SIERRA MORENA AL VALOROSO CAVALIERE DELLA MANCIA
E COME IMITASSE LA PENITENZA DI BELTENEBRO.

 

Don Chisciotte si partì dal capraio, e montando di nuovo sopra Ronzinante ordinò a Sancio di seguitarlo: ciò ch'egli fece di mala voglia. E già penetravan nel più aspro della montagna, e Sancio si sentiva morire dalla voglia di parlare col suo padrone, ma per non trasgredire i suoi ordini avrebbe voluto ch'egli rompesse il silenzio pel primo. Finalmente non potendo più oltre gli disse: — Signor don Chisciotte, m'impartisca vossignoria la sua benedizione, e mi dia la sua licenza, che bramo tornarmene subito a casa mia appresso a mia moglie e i miei figliuoli coi quali potrò almeno parlare e far tutto quello che mi andrà a sangue; perché è lo stesso, signor don Chisciotte, che tormi la vita a volermi condurre così taciturno tra questi deserti e di notte e di giorno, senza permettere ch'io parli quando me ne viene la voglia. Manco male se gli animali parlassero ora come facevano al tempo di Chisopet, che almeno chiacchererei col mio asino di ciò che mi viene in testa, e così tollererei la mia trista sorte. Ella è dura cosa e insoffribile questo andar cercando avventure per tutto il tempo della vita, e non trovare mai altro che bastonate, sbalzamenti di coperte, sassate, ladronecci e pugna, e dover inoltre tenersi cucita la bocca senza osar di dire ciò che si ha nel cuore, e restar mutoli sempre. — T'intendo, Sancio, rispose don Chisciotte, tu muori di voglia che io ti levi l'interdetto che ho posto alla tua lingua; tienlo per tolto e parla a tuo senno, a condizione però che non s'intenda fatta questa grazia se non fin tanto che andremo per queste balze. — Basta per ora ch'io parli, disse Sancio, che Dio sa quello che di poi sarà per accadere; e cominciando a godere del beneficio del salvacondotto, disse: — Che importava a vossignoria di prendersi tanto impegno per quella regina Magimassa, o come si chiama? e che importava che quell'abate fosse suo innamorato o non lo fosse? Se la signoria vostra ci avesse passato sopra, da che ei non era giudice competente, sono certo che il pazzo avrebbe tirato innanzi la istoria, né sarebbe venuta la sassata, né il pugno, e poi un qualche sgrugnone in aggiunta. — In fede mia, Sancio, rispose don Chisciotte, che se tu sapessi come so io quanto onorata ed alta signora si fu la regina Madassima, loderesti sommamente la mia tolleranza nell'aver lasciato dar corso a quelle bestemmie; che certo è gran bestemmia il dire od il pensare che una regina siasi abbassata ad amare un chirurgo. Il fatto si è che quel maestro, non abate come tu dici, ma Elisabatte, di cui parlò il pazzo, fu un uomo prudente e di molto savi consigli, aio e medico della regina; e l'immaginare solamente che sieno corse fra loro parole amorose è sproposito degno di sommo gastigo; anzi affinché tu vegga che Cardenio non seppe ciò che si dicesse, considera ch'egli era allora già preso da nuovo accesso di pazzia. — E perciò dico, rispose Sancio, che non si dovea fare il menomo caso della parola di un matto; perché se la buona sorte non avesse aiutato la signoria vostra, e il sasso invece di colpirla nel petto le fosse arrivato alla testa, ci saremmo trovati contenti assai d'aver voluto proteggere quella signora, che possa esser colta da mille cancri col suo malanno! — Se è obbligato ogni cavaliere errante, soggiunse don Chisciotte, a sostener l'onor delle femmine di qualunque sorta si sieno, così contro gli uomini di senno come contro i pazzi, quanto più non dovea esserlo io in favore di sì alta donna qual fu la regina Madassima, cui porto speciale affezione per l'eccellenti sue qualità? Sappi che, lasciando da parte la sua grande bellezza, ella fu dotata di singolare prudenza e di somma costanza nel tollerare le traversie che in gran numero l'hanno percossa; e che i consigli e la compagnia del maestro Elisabatte le furono giovevoli assai e di gran conforto per sostenere i suoi travagli con prudenza e pazientemente. Ma di qui trasse argomento il volgo ignorante e malintenzionato di dire e pensare ch'ella ne fosse innamorata. Mentono costoro, te lo ripeto, e mentiranno altre ducento volte tutti quelli che ciò pensassero e si facesser lecito di dirlo. — Io né lo dico né lo penso, rispose Sancio: se ne stiano dove sono, e se la sbrighino fra di loro come lor pare e piace: quanto a me, io bado alle cose mie, né ho costume di mettere il naso nei fatti degli altri; perché s'egli hanno o no fatto all'amore ne avranno reso conto a Dio: io per me vengo dalle mie vigne, e non so e non amo saper niente d'altrui vita: perocché, dice il proverbio: chi compra e mente, nella borsa se lo sente: e tanto più che io sono nato nudo, nudo sono, nulla perdo o guadagno. E poi se anche passarono fra loro degli amori che importa a me? Alcuni pensano ad un modo, altri ad un altro tutto contrario; e chi può turare la bocca alla gente? Non la risparmiano a Domeneddio! — Santa Maria! sclamò don Chisciotte, quanti spropositi vai masticando! e come entrano, Sancio mio, con l'argomento in questione queste tue filastrocche? Deh, non cercar malanni, taci, e quind'innanzi attendi ad assettare il tuo asino, né impicciarti in cose che non ti appartengono. Ora ascolta bene con tutti i cinque sentimenti del tuo corpo: sappi che quanto ho fatto, sto facendo, e sarò per fare, è concorde perfettamente colla ragione, ed è uniforme in tutto, alle regole della cavalleria, le quali io conosco meglio di quanti cavalieri la professano sulla terra. — Dica, di grazia signore, rispose Sancio: sta egli nelle regole della cavalleria che ci andiamo a perdere fra queste montagne senza guida o strada sicura, cercando di un pazzo che, quando lo avremo ritrovato, si metterà forse in testa di compiere l'opera cominciata, non intendo della sua istoria, ma della testa di vossignoria e delle mie costole, rompendomele tutte quante? — Taci, te lo ripeto ancora, o Sancio, disse don Chisciotte; perché dei sapere che mi porta in questi luoghi non tanto il desiderio di trovare il pazzo, quanto quello di compiere un'impresa che renda immortale il mio nome per tutto il mondo: e sarà tale da farmi pervenire a quell'apice di perfezione cui possa aspirare il più segnalato cavalier errante. — È pericolosa molto questa sua impresa? domandò Sancio Pancia. — No, rispose il cavaliere della Trista Figura: sebbene la sorte potrebbe poi far sì che noi tentassimo una cosa e ne riuscisse un'altra opposta: ma tutto può dipendere dalla tua diligenza. — Dalla mia diligenza? disse Sancio. — Sì, ripigliò don Chisciotte, perché se sollecito sei a tornare di là dove penso inviarti, terminerà presto la pena mia e presto comincierà la mia gloria. E perché non è ben fatto ch'io ti tenga più a lungo in curiosità, senza sapere ove mirino le mie determinazioni, bramo, o Sancio, che tu sappia che il famoso Amadigi di Gaula fu uno dei più perfetti cavalieri erranti; ma errai dicendo che fu uno, fu il solo, il primo, l'unico, il signore di quanti vissero al suo tempo nel mondo: e malanno e mal mese abbiano don Belianigi, e quanti hanno detto ch'egli lo uguagliò in qualche cosa, perché s'ingannano a partito e lo giuro. Aggiungo poi che quando un pittore vuol meritarsi celebrità nell'arte sua, egli procura d'imitare gli originali degli altri pittori che portano il vanto dell'eccellenza; e la stessa regola vale per tutti gli offici o esercizi che servono di ornamento alle repubbliche: così ha da fare e fa chi aspira ad acquistar riputazione di tollerante e prudente, imitando Ulisse nella cui persona e ne' cui travagli Omero ci offre un vivo ritratto di prudenza e di tolleranza, allo stesso modo che Virgilio nella persona di Enea ci mostra il valore di un figlio pietoso e la sagacità di un valoroso ed accorto capitano. Questi eroi vennero a noi dipinti quali non furono veramente, ma quali avrebbero dovuto essere per tramandare ai posteri un esempio delle loro virtù: e per tal modo Amadigi fu il nord, la stella, il sole dei valorosi ed innamorati cavalieri; e lui dobbiamo con gran diligenza imitare noi tutti quanti militiamo sotto le bandiere di Amore e della cavalleria. Dopo tutto ciò io trovo, Sancio mio, che il cavaliere errante che più lo somiglierà sarà il più vicino alla perfezione di cavalleria; ed una delle cose nelle quali egli mostrò più prudenza, valore, tolleranza e fermezza ed amore si fu quando si ritirò sdegnato dalla signora Oriana a far penitenza nella Pegnapobre, cambiando il proprio nome in quello di Beltenebro, nome certo significativo e adattato alla vita che volontariamente avea scelta. Io conosco che mi è assai più agevole d'imitarlo in tagliare a mezzo giganti, troncar teste a serpenti, ammazzare idre, sperperare eserciti, fracassare armate e disfare incantamenti: e poiché questi luoghi sono tanto a proposito per mandare ad effetto simiglianti risoluzioni, non debbo trascurare l'occasione che mi offrono al presente i loro ricettacoli.

— In somma, disse Sancio, che è ciò che ha determinato di fare la signoria vostra in questo deserto? — Non tel dissi? rispose don Chisciotte: voglio imitare Amadigi, facendo quivi il disperato, il pazzo, il furioso; e così batterò anche le tracce del famoso Roldano allorché trovò scolpito presso una fonte che Angelica, la bella, si era avvilita a farsi moglie di Medoro: che diventò pazzo di afflizione, svelse gli alberi, intorbidò le acque delle chiare fonti, ammazzò pastori, manomise mandre di armenti, incendiò capanne, rovinò case, strascinò cavalli, e fece mille altre bestialità degne di eterna fama e scrittura. E poiché io non intendo d'imitare Roldano, od Orlando, o Rotolando (che portava tutti e tre questi nomi) a parte a parte ma alla meglio in quelle che mi sembreranno più essenziali: e potrebbe anche darsi che io volessi contentarmi della sola imitazione di Amadigi, che senza estendere gli effetti della pazzia a danno di alcuno, col solo piangere ed angustiarsi acquistò tanta fama che nulla più. — Mi pare, disse Sancio, che que' cavalieri fossero provocati, ed abbiano avuto un motivo di fare queste pazzie e queste penitenze; ma quale ragione ha mai la signoria vostra di volere diventar matto? quale signora l'ha fatto andare in collera? quale indizio ebb'ella mai per temere che la signora Dulcinea del Toboso lo abbia posposto a qualche moro o cristiano? — Qui sta il punto, rispose don Chisciotte e qui sta l'acutezza del mio divisamento! Non v'è né merito né grazia in un cavaliere errante se impazzisce per qualche giusto motivo: il sublime si è impazzare senza un perché al mondo, e far conoscere alla mia signora che io mi conduco a tal passo senza causa e senza motivo; e poi, non ne avrei io un'ampia causa nella mia lunga lontananza dalla sempre mia signora Dulcinea del Toboso? che come già udisti da quei pastori di Ambrogio, chi sta lontano porta seco tutti i mali e timori. No, amico Sancio, non perdere il tempo a sconsigliarmi dall'eseguire sì rara, sì felice, sì inaudita imitazione; io sono pazzo e debbo restar pazzo finché tu ritornerai a me colla risposta di una lettera che penso d'inviare col tuo mezzo alla mia signora Dulcinea: e se tale sarà la risposta quale si conviene alla mia fede avrà fine la mia pazzia e la mia penitenza; e se mi addivenisse il contrario, allora impazzirò davvero, e come tale non sarò più capace di sentire affanni; ed in qualunque maniera ch'essa risponda, io uscirò dal conflitto e dal travaglio in cui mi lascerai godendo del bene, se bene mi apporterai, o non sentendo il male per essere pazzo, se male mi recherai. Ma dimmi Sancio, hai tu tenuto buon conto dell'elmo di Mambrino? Ho veduto che tu lo hai raccolto da poi che quell'ingrato lo fece in pezzi; dal che si conobbe la finezza della sua tempra.” Sancio rispose: — Viva Dio, signor cavaliere dalla Trista Figura, che non posso tollerare pazientemente, né lasciar correre cosa alcuna di quelle che dice vossignoria: perché da quanto sembrami di poter concludere dalle cose di cavalleria che ho intese fin qui di conquistare regni ed imperi, di regalare isole, di concedere grazie e grandezze, com'è costume dei cavalieri erranti, debbo persuadermi che sieno tutte un vento, e bugie e menzogne, o come voglia chiamarle. Ed in fatti chi sentisse a dire che un bacino da barbiere fosse l'elmo di Mambrino, e che chi lo dice non si avvedesse del proprio errore dopo quattro giorni, non penserebbe che costui debb'essere un uomo che ha perduto il giudizio? Il bacino io lo tengo nel sacco tutto ammaccato, e lo porto per rassettarlo quando sarò a casa mia, e per usarne a farmi la barba, se pur Dio mi darà tanta grazia da poter un dì rivedere mia moglie e i miei figliuoli. — Bada bene, o Sancio, che io ti giuro per quel medesimo, per cui giurasti tu stesso, che tu hai il più corto intendimento di ogni altro scudiere del mondo. è possibile che in tanto tempo che meco vai girando non ti sii persuaso che tutte le cose dei cavalieri erranti che sembrono chimere, cose fantastiche e pazzie o cose fatte a rovescio, non sono poi tali in realtà, e soltanto lo appaiono perché le vicende che passano fra di noi sono regolate da una caterva d'incantatori che cambiano e sfigurano tutto quello che ci appartiene; e lo trasformano a loro capriccio, e secondo che li move la intenzione di favorirci o di annientarci? Questa è la ragione per cui quello che a te sembra il bacino di un barbiere a me pare l'elmo di Mambrino, e altrui apparirà altra cosa, e fu esimio provvedimento del Savio, che favorisce la mia persona, il fare che sembri bacino a tutti ciò ch'è veramente e realmente elmo di Mambrino; perché essendo cosa di gran pregio, tutto il mondo si armerebbe contro di me per tôrla dalle mie mani; ma giudicandolo un bacino di barbiere non se ne curano. E ne fa prova colui che lo ammaccò tutto, lasciandolo in terra senza portarlo seco, come certamente avrebbe fatto se avesse conosciuta la importanza sua. Custodiscilo, amico, che non mi è duopo valermene per adesso, perché mi debbo prima spogliare di tutte queste armi e restare nudo come son nato, per attenermi al genere di penitenza usato da Orlando, o a quello d'Amadigi.”

Con questi ragionamenti giunsero appié di un'alta montagna, che, quasi masso tagliato, sorgeva isolata fra le molte altre che la circondavano. Scorreva d'intorno alle sue falde un ruscello piacevole per un prato sì verde e fiorito che rendeva più vaga l'amenità del luogo coperto tutto di alberi silvestri e di piante e di fiori. Scelse questo sito il cavaliere dalla Trista Figura per fare la sua penitenza, e perciò volgendo attorno lo sguardo, cominciò a dire ad alta voce, come se fosse uscito di senno: — È questo il luogo, o cieli, ch'io deputo e scelgo per piangere la dissavventura in cui voi medesimi mi avete posto: è questo il sito ove le mie lagrime accresceranno le acque di questo ruscello, ed i miei profondi ed incessanti sospiri agiteranno continuamente le frondi di questi montani alberi in testimonio della pena che soffre l'affannato mio cuore! O voi, qualunque vi siate, silvestri numi, che tenete la vostra sede in questo inimitabile luogo, udite le querele di uno sventurato amante, cui lunga assenza e timore d'immaginate gelosie hanno tratto a lamentarsi fra sì selvaggi recessi, ed a dolersi del crudele stato a cui lo condusse quella ingrata e vezzosa che in sé raccoglie le perfezioni tutte della bellezza! O voi Napee e Driadi, che siete accostumate ad abitare tra le catene di questi monti, piaccia al cielo che la tranquillità vostra non sia turbata giammai da Satiri leggeri e petulanti, affinché mi aiutiate a deplorare la mia disavventura, o non isdegniate almeno di udirla! O Dulcinea del Toboso, giorno della mia notte, gloria della mia pena, tramontana dei viaggi, stella della mia ventura, (così secondi il cielo ogni tua brama), ti prego di considerare il luogo e lo stato cui mi ha condotto la tua lontananza, e di pietosamente concedermi quanto si dee alla fede! O arbori solitari che sarete compagni del mio ritiro, date segno col susurrare dei vostri rami che non vi è discara la mia presenza! O tu, scudiere mio, dolce compagno nei miei avventurosi e contrari eventi, imprimi bene nella tua mente ciò che qui vedrai operare, affinché tu possa poi farne racconto esatto e fedele alla sola cagione del mio soffrire!”

Detto questo, smontò da Ronzinante, e in un momento gli tolse il freno e la sella, e dandogli una spalmata in sulle groppe gli disse: “Libertà ti concede colui che l'ha perduta, o destriero tanto celebre per le opere tue, quanto sventurato pel tuo destino: vattene ove più ti aggrada, che già porti scritto nella fronte che non ti superò in agilità l'Ippogriffo di Astolfo, né il rinomato Frontino che tanto costò a Bradamante.” Sancio vedendo tutto questo disse: — Sia benedetto adesso chi mi ha tolto la briga di levare la bardella al leardo, che certo non gli saria mancato di bastone, in vece di lodi per magnificarlo; ma se qua si trovasse, io non avrei acconsentito che alcuno lo sbardellasse, né ciò sarebbe occorso perché a lui non toccavano le regole generali d'innamorato né di disperato, mentre io, suo padrone, non mi sarei trovato a sì tristo partito per essere amante. In verità, signor cavaliere dalla Trista Figura, che se sono certe la mia partenza e la pazzia di vossignoria, sarebbe cosa ben fatta metter di nuovo la sella a Ronzinante, perché supplisse alla mancanza del mio leardo; e così io affretterei la mia partenza e il ritorno. Se debbo viaggiare a piedi non so quando potrò arrivare, né quando ritornerò; poiché, a dir vero, io sono un cattivo camminatore. — Sia come si voglia, disse don Chisciotte, non mi dispiace, o Sancio, di approvare il tuo consiglio, e soggiungo che partirai di qui a tre giorni: perché intanto potrai essere testimonio di tutto quello ch'io farò e dirò rispetto alla mia diva, alla quale ne darai un'esatta relazione. — E che più mi resta a vedere, disse Sancio, oltre a ciò che ho veduto? — Questo è appena il principio, rispose don Chisciotte, ed ora vedrai quello che mi resta a fare: lacererò i miei vestiti, disperderò l'arme qua e là, batterò la testa per questi massi, con altre simili cose che ti faranno trasecolare. — Per amore di Dio, disse Sancio, guardi bene la signoria vostra quello che fa nel dare la testa tra questi massi, perché potrebbe essere che ella urtasse in tal masso e in tal punto, che con la prima botta finisse la macchina di questa sua penitenza. Io sarei piuttosto di parere che se vossignoria giudica indispensabile il dare della testa per queste pietre, e senza di ciò non sarebbe compiuta la sua opera, si contentasse, (poiché tutto è finzione e cosa contraffatta e da burla) si contentasse, ripeto, di batterla nell'acqua od in altra cosa morbida come la bambagia, e lasciasse a me il carico di far sapere alla sua signora che vossignoria la batteva nella punta di un sasso più duro di un diamante. — Son grato, amico Sancio, alla tua buona intenzione; ma devi sapere che quanto mi accingo a fare qui non è cosa da burla ma vera, perché in altro modo sarebbe contravvenire agli ordini di cavalleria che ci comandano di non mentire a verun patto sotto pena di ripulsa; e il fare una cosa per un'altra è lo stesso che mentire. Le testate ch'io darò per queste balze debbono essere vere, stabili ed efficaci, senza contrassegno veruno di sofisticheria; e perciò sarà necessario che tu qui mi lasci delle fila per curarmi, giacché ora appunto vuol la mia disdetta che ci manchi il balsamo da noi perduto. — E peggio è stato, soggiunse Sancio, il rubamento del mio asino, perché con esso si sono smarrite anche le fila e tante altre cose; prego poi vossignoria a non volersi ricordare di quel maledetto beverone, ché al solo sentirlo rammemorare mi viene da recere quanto ho nello stomaco; e più di tutto la supplico a considerare come passati i tre giorni che mi ha prescritti per veder le sue pazzie, che già le do per vedute e giudicate; e ne dirò maraviglie alla sua signora. Ora ella scriva pure la lettera, e si sbrighi sollecitamente perché ardo d'impazienza di ritornare a trarre vossignoria da questo purgatorio in cui la lascio. — Purgatorio lo chiami, o Sancio? disse don Chisciotte; meglio faresti chiamarlo inferno; e peggio ancora, se vi ha cosa di peggio — Chi è all'inferno, rispose Sancio, nulla est retentio, per quanto ho inteso dire. — Non giungo a comprendere che cosa significa retentio disse don Chisciotte. — Retentio vuol dire, soggiunse Sancio, che chi va all'inferno più non può uscirne; e l'andrebbe così anche per me se non portassi gli sproni per tener desto Ronzinante, ma purché io arrivi al Toboso, mi farò innanzi alla signora Dulcinea, e le darò tal ragguaglio delle prodezze e delle pazzie che vossignoria ha fatte, e delle altre che starà facendo che la renderà più pieghevole di un guanto se pur la trovassi più consistente di un sughero; volerò poi come uno stregone con una risposta dolce e melliflua, e trarrò la signoria vostra da questo purgatorio, che sembra inferno e non lo è, perché vi è la speranza, come ho detto, che manca a chi sta nell'inferno; né crederò di trovare in ciò opposizione.— Questo è vero, disse il cavaliere dalla Trista Figura; ma come faremo a scrivere la lettera? — Ed anche la cambiale per avere gli asini? soggiunse Sancio.— Non mancherà nulla, disse don Chisciotte; e saria ben fatto, mancandoci carta, che la scrivessi alla maniera degli antichi, sopra foglie d'alberi o sopra una tavoletta di cera, benché anche questa, come la carta, sarà qui difficile a ritrovare. Ma ora mi sovviene... e si potrà bene e più che bene scriverla nel libricciuolo di memorie che fu di Cardenio, e tu poi ti piglierai pensiero di farla trascrivere sopra un foglio di carta con buon carattere nel primo luogo dove siavi un maestro di scuola: o te la copierà in ogni caso un sagrestano; ma non farla trascrivere da alcun notaio, che costoro hanno tutti un carattere indiavolato, sicché non la potrebbe poi leggere Satanasso. — E chi la firmerà? disse Sancio. — Le lettere di Amadigi di Gaula non furono mai sottoscritte, rispose don Chisciotte. — Va tutto bene, soggiunse Sancio; ma il mandato risguardante gli asini bisognerà pure che sia firmato per forza, e se questo viene trascritto d'altra mano, diranno ch'è falsa la firma, ed io resterò un balordo e non avrò nulla.— Il mandato avrà la sua firma nel detto libricciuolo, e mia nipote che conosce la mia mano non metterà difficoltà di sorta ad eseguirlo: e rispetto alla lettera amorosa la sottoscriverai in questo modo: Vostro insino alla morte il cavaliere dalla Trista Figura: e poco importerà che sia di mio pugno, perché mi risovviene che Dulcinea non sa né leggere né scrivere, né in tutto il corso della sua vita ha veduto giammai caratteri o lettere mie: i miei amori ed i suoi sono stati sempre platonici, non andarono mai al di là di semplici occhiate, ed anche queste assai di rado; ed oserei giurare con verità che in dodici anni ch'io l'amo più che la luce di questi miei occhi, che hanno da ridursi in polvere, non l'ho veduta quattro volte, e potrebbe esser anche che in queste quattro volte ella non siasi meco incontrata cogli occhi una volta sola: sì grande è la riservatezza e la custodia con cui Lorenzo Corucuelo suo genitore e sua madre Aldonza Nogale se l'hanno educata!

— Come, come, disse Sancio, la figlia di Lorenzo Corucuelo è la signora Dulcinea chiamata con altro nome Aldonza Lorenzo?

— È dessa appunto, replicò don Chisciotte; ed è quella che merita di essere signora dell'universo intero. — La conosco pienamente, disse Sancio, e so dire ch'ella lavora così bene con un palo di ferro come ogni più robusto bifolco del nostro paese: oh! è una donna di merito grande e grossa, senza paura di chicchessia, e tale da cavare i peli tutti della barba ad ogni cavaliere errante o che sia per errare, e che la tenga per sua signora! Corpo di mia nonna! che bocca che ha, che voce! Le so dire che si è posta un giorno in cima al campanile del villaggio a chiamare certi suoi famigli che se ne stavano in un maggese di suo padre, e sebbene si trovassero più di una mezza lega discosti la sentirono così bene come se fossero stati a' piedi del campanile; e dopo tutto questo ha la prerogativa di non essere schizzinosa, anzi scherza con tutti, è di affabilità straordinaria, ed ogni cosa le serve di trastullo e di passatempo. Ora concludo, signor cavaliere dalla Trista Figura, che non pure vossignoria può e deve fare delle pazzie per lei, ma con ogni ragione può disperarsi altresì ed impiccarsi; che non vi sarà certamente, chi sapendolo, non approvi ogni cosa che ella farà per quanto strana possa essere; oh! io non veggo l'ora di trovarmi in viaggio, solo per avere il piacere di risalutarla; che sono ormai moltissimi giorni che non la vedo, e potrebbe anche essere accaduta qualche alterazione nelle sue fattezze; cosa tanto facile in una donna che si espone al sole e all'aria senza riguardi. Confesso poi a vossignoria, signor don Chisciotte, una verità, ed è che io sono vissuto finora in grande errore, figurandomi di buona fede che la signora Dulcinea dovesse esser qualche principessa di cui foss'ella amante, o qualche persona tale da meritarsi i ricchi donativi che vossignoria le ha inviati, come sarebbe a dire, quello del vinto Biscaino, dei galeotti, e quegli altri molti numerosi come le vittorie da vossignoria guadagnate sino da quando io non era ancora suo scudiero: metto in fine tutta la mia attenzione a riflettere che quando tutti i prigionieri ed i vinti che vossignoria ha mandati e posti ginocchione dinanzi Aldonza Lorenzo, cioè la signora Dulcinea del Toboso, o che le manderà in avvenire, potessero ritrovarla che pettinasse del lino, o trebbiasse del grano in sull'aia, io non vorrei che prendessero vergogna di loro stessi nel vederla, o ch'ella si facesse beffe e disprezzasse il dono. — Io t'ho già detto prima d'ora le molte e molte volte, o Sancio, replicò don Chisciotte, che sei un gran ciarlone; e benché il tuo ingegno sia ottuso, pure di quando ti fai acuto e satirico. Affinché però tu conosca quanto sei ignorante e quanto io sia ragionevole, voglio che tu ponga attenzione ad un breve racconto che sono per farti.

Tu dei sapere che una vedova bella, giovane, libera, ricca e soprattutto allegra, s'invaghì una volta di un garzone gagliardo e corpacciuto. Venne il suo padrone a sapere la tresca, e disse un giorno alla vedova a modo di amichevole riprensione: Sono maravigliato, o signora, e non senza molta ragione che una donna di tante qualità come voi siasi innamorata di un giovane di vile estrazione ed ignorante come una bestia, quando sono in questa città tanti giovani belli, ricchi e garbati, fra i quali potreste scegliere a pieno vostro talento, come da un paniere le pere, e dire liberamente: voglio questo e non quello. Rispose la vedova con bel garbo e disinvoltura: vossignoria va molto errato e pensa molto all'antica se crede che la mia scelta sia caduta sopra un idiota ed un immeritevole, mentre per ciò che bisogna a me egli è meritevolissimo e ne sa più assai di Aristotele. Lo stesso si può dire di me, o Sancio: tanto vale per quello che io mi sono prefisso Dulcinea del Toboso, quanto la più alta principessa del mondo, mentre io trovo in essa raccolte le qualità e i meriti tutti che vengono celebrati da' poeti nelle cospicue signore che sono il soggetto delle loro lodi. Credi tu che le Amarilli, le Fillidi, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Alicide, ed altre delle quali sono zeppi i libri, i romanzi, le botteghe de' barbieri e i teatri delle commedie, fossero veramente in carne ed ossa, dame di coloro che le celebrarono? No certamente: ma i più se le fingono per materia alle loro poetiche composizioni, e per essere creduti innamorati od uomini che meritano di esserlo; ed a me basta credere che la buona Aldonza Lorenzo sia bella ed onesta, poco importandomi del lignaggio; perché a giudicare i meriti della donna amata questa considerazione non c'entra, e in conseguenza io la tengo in conto della più grande principessa del mondo. Devi sapere, o Sancio, se lo ignori, che due sole cose muovono più che le altre ad amare, e sono la molta bellezza e la buona riputazione; ed ambedue queste si trovano unite perfettamente in Dulcinea, perché non ha chi la uguagli nell'essere formosa, e poche le stanno a paro nella riputazione. Per dir breve insomma io me la immagino tale che nulla le manchi; e me la dipinge la mia fantasia quale la bramo in bellezza e in fama: sicché Elena non se le avvicina, né le sta a petto Lucrezia, né verun'altra delle donne celebrate dall'antichità, greche, barbare o latine. Dica ognuno ciò che gli pare, che se venissi ripreso dagli ignoranti non verrò condannato dagli assennati. — Io dico che vossignoria ha ragione, rispose Sancio, e ch'io sono un asino: benché non so perché la mia bocca nomini asino quando non istà bene ricordare la fune in casa dell'impiccato: ma lasciamo questi discorsi, e vossignoria scriva la sua lettera.” Don Chisciotte trasse il libro delle memorie, e fattosi in disparte si pose a scrivere; poi nel terminare la lettera chiamò Sancio, e gli disse che gliela volea leggere perché la ritenesse a memoria se per caso la perdesse nel viaggio, avendo ragione di temere tutto dalla sua disdetta. Cui Sancio rispose: — La scriva vossignoria due o tre volte nel libro, e mi dia quello ch'io lo porterò con tutte le cautele, ed egli è propriamente pazzia il solo immaginare ch'io possa tenere cosa alcuna nella memoria, la quale è così debole, che mi dimentico talvolta sino il mio nome; con tutto ciò me la legga pure, che me ne compiacerò assai, perché mi figuro che sarà come stampata. — Ascolta, disse don Chisciotte; ella dice così:

 

LETTERA DI DON CHISCIOTTE A DULCINEA DEL TOBOSO.

 

Sovrana ed alta signora!

 

Il ferito di punta d'assenza, ed il piagato nelle tele del cuore, dolcissima Dulcinea del Toboso, t'invia quella salute che affatto a lui manca. Se mi dispregia la tua bellezza, se il tuo merito non si rivolge a favorirmi, se gli sdegni tuoi sono il mio annichilimento ad onta che sia esemplare la mia sofferenza, non mi prometto di sostenermi più a lungo in questa infelicità; che oltre all'essere aspra fuor di misura, minaccia di essere di una intollerabile lunghezza. Sancio, mio fedele scudiere ti darà piena relazione, o bella ingrata, o adorata nemica mia, dello stato in cui per tua colpa mi trovo. Se ti piacerà di porgermi aita sarò tuo; se no, fa pure quanto ti è a grado, che col terminare di mia vita io avrò soddisfatto alla tua crudeltà e al mio desiderio.

Tuo fino alla morte.

 

Il cavaliere dalla Trista Figura”

 

— Per l'anima di mio padre, disse Sancio udendo la lettera, che questa è la più gran lettera ch'io abbia mai intesa. Oh corpo di Bacco! come la signoria vostra chiaramente dice ciò che desidera, e come ci affibbia maravigliosamente nella sottoscrizione Il Cavaliere dalla Trista Figura! Dico il vero: vossignoria è lo stesso diavolo in persona, né vi ha cosa ch'ella non sappia.— Tutto questo è necessario, replicò don Chisciotte, per adempiere compiutamente il carico che mi sono imposto. — Su via, disse Sancio, scriva in quest'altra carta l'ordine per i tre asini e lo firmi nettamente sicché non succedano difficoltà. — Ben volentieri, disse don Chisciotte: e quando ebbe finito di scrivere lesse quanto segue.

 

“Piacerà a vossignoria per questa prima di asini, signora nipote, di consegnare a Sancio Pancia mio scudiere, tre dei cinque che ho lasciati in mia casa affidati alle sue cure; i quali tre asini gli si daranno per altrettanti qua ricevuti di contante, e ritirandone la ricevuta saranno ben consegnati.

Fatta nelle viscere di Sierra Morena nel giorno 17 di agosto dell'anno corrente.”

 

— Va bene, disse Sancio, ed ora la sottoscriva vostra signoria. — Non occorre, disse don Chisciotte; basta soltanto ch'io vi apponga la mia cifra, che per tre asini e per trecento ancora è bastante. — Io mi rimetto a lei, rispose Sancio, ed ora mi permetta che vada a sellare Ronzinante, e vossignoria si apparecchi a darmi la sua benedizione che ho divisato di partire subito subito senza vedere le pazzie che ella ha da fare, ma dirò di averne veduto a far tante che nulla più. — Almeno, o Sancio, io desidero, ed anzi è necessario che tu mi vegga ignudo a fare una o due dozzine di pazzie, che le farò in meno di una mezz'ora: perché avendole tu vedute cogli occhi tuoi potrai nelle altre che vorrai aggiungere di più giurare in buona coscienza; e posso assicurarti che non ne dirai tante quante sono quelle che penso mandare ad effetto. — Per amore di Dio, mio signore, non faccia ch'io la vegga ignudo, perché non potrei per gran compassione trattenermi dal piangere; e dopo il pianto che ho sparso nella scorsa notte pel mio asino, ho ancora sì gran male alla testa, che non mi trovo ora in grado di sgorgare nuove lagrime. Se vuole vossignoria ch'io vegga alcune delle sue pazzie le faccia bello e vestito, sien brevi, e come più le torna a comodo; ma già non occorrono con me queste cerimonie; e tanto più che questo farebbe ritardare il mio ritorno a lei, che dovrà seguire col recarle nuove quali le brama e le merita. Io la prevengo che se mai la signora Dulcinea non mi rispondesse a dovere, giuro per tutti i miei santi avvocati che le caverò dallo stomaco una buona risposta a calci e a pugna; perché come si può tollerare che un cavaliere errante tanto celebre come la signoria vostra impazzisca senza verun motivo, e non per altro che per una?... Non me lo lasci dire la signora... ch'io son tale da non tenerla fra i denti, tuttoché ciò sia molto prudente. Ella non mi conosce bene: che se sapesse chi io mi sia, tremerebbe a sentirmi nominare.

— Affé, Sancio, disse don Chisciotte, tu non sei troppo più savio di me. — Non sono tanto pazzo, bensì più iracondo: ma lasciamo a parte queste cose, e mi dica di grazia: di che si ciberà ella fino al mio ritorno? pensa forse di andare alla strada come Cardenio? — Non ti pigliare siffatte brighe, rispose don Chisciotte, perché quand'anche fossi fornito di vettovaglie non mangerei se non erbe e frutta di questi prati e di questi alberi: giacché il merito della mia risoluzione non consiste nel pascere il ventre, ma nel patire.” A questo rispose Sancio: — Sa ella, vossignoria, di che temo io? temo di non saper trovare la via da tornarmene a lei per essere questo un luogo troppo fuori dell'abitato e deserto! — Poni mente a' segnali; che io avrò cura di non allontanarmi da questi contorni, disse don Chisciotte, ed anzi procurerò di mettermi nelle alture di queste balze per veder se ti scopro quando ritornerai: e poi, la più diritta sarà, affinché tu non erri e non ti scosti dal cammino, che io ti fornisca di queste ginestre, che, come vedi, qua non ne mancano, e tu le spargerai come segnali ad ogni tanti passi, finché ti troverai in campagna aperta, ed esse ti serviranno di guida al ritorno, a guisa del filo usato da Perseo nel labirinto. — Così farò, rispose Sancio;” e tagliandone alcune e domandata la benedizione al suo signore, prese da lui licenza non senza sparger molte lagrime l'uno e l'altro. Montò Sancio su Ronzinante, che gli fu raccomandato dal padrone come un altro se stesso, e si pose subito in viaggio spargendo di tanto in tanto i rami delle ginestre, a tenore del consiglio datogli dal suo signore; e così se n'andò benché don Chisciotte lo pregasse da capo che stesse a vedere qualche sua segnalata pazzia.

Non si era Sancio scostato cento passi, che tornato indietro disse a don Chisciotte: “Capisco o signore, ch'ella disse benissimo che per poter giurare senza aggravio della coscienza di averla veduta a fare delle pazzie, sarà bene che gliene vegga a far una, quantunque una potesse dirsi anche quella della sua risoluzione di restarsene qua solitario. — Non tel diss'io? soggiunse don Chisciotte: attendi: attendi, o Sancio, che in un momento te le farò vedere.” E trattisi immantinente gli abiti diede due sgambettate, e fece due capriole con le gambe per aria; e Sancio, volte le redini a Ronzinante, si mostrò contento e soddisfatto di poter giurare che avea veduto di fatto una delle pazzie del padrone. Noi lo lasceremo adesso andare per la sua strada, fino al suo ritorno che sarà in breve.

 


CAPITOLO XXVI

 

CONTINUAZIONE DELLE PRODEZZE CHE FECE LO INNAMORATO DON CHISCIOTTE IN SIERRA MORENA.

 

E continuando il racconto di ciò che fece il cavaliere dalla Trista Figura quando si trovò solo, dice la storia che dopo avere fatto i capitomboli, e rivoltatosi mezzo ignudo e mezzo vestito, e dopo aver veduto che Sancio s'era partito senza curarsi di essere presente a nuove pazzie, salì sopra la vetta di un alto masso, ed ivi tornò a volgere in pensiero ciò che altre volte aveva ideato, ma senza averne mai pigliata una ferma deliberazione. Pensava se fosse stato per lui più a proposito l'imitare le straordinarie follie di Orlando o le celebri malinconie di Amadigi; e ragionando fra sé medesimo così diceva: — Se Orlando fu cavaliere sì degno, come tutti vogliono far credere, che meraviglia? alla fine dei conti egli era incantato, né avrebbe potuto essere ucciso da chicchesia se non cacciandogli un sottilissimo spillo nella pianta di un piede; per questo poi usava di portare sempre le scarpe con sette suola di ferro, benché ciò poco gli giovasse a fronte di Bernardo del Carpio, il quale, avvedutosi, lo soffocò in Roncisvalle colle proprie braccia. Ma senza parlare del suo valore passiamo a considerarne la pazzia, che fu verissima in lui per avere saputo degli amori di Angelica con certo Medoro, moretto, ricciuto di capelli e paggio di Agramante.

Ora s'egli tenne questo fatto per vero, o se la sua signora gli fe' sì grave torto, non è gran cosa ch'egli abbia dato in frenesia: ma io come potrò imitarlo nelle follie se manco della causa che in lui si mosse? io potrei giurare che la mia Dulcinea del Toboso non vide mai in tutta la sua vita alcun moro vivo e parlante, e che essa è innocente come una bambina; e le farei offesa manifesta se altrimenti presupponendo mi applicassi al genere di pazzia professata da Orlando Furioso. Veggo pure dall'altra parte che Amadigi di Gaula, senza perdere il giudizio e senza farneticare, si meritò tanta celebrità d'innamorato da non aver pari; e quello che fece, secondo che la istoria racconta, il fece solo per vedersi rifiutato dalla sua signora Oriana, la quale gli avea comandato di non comparirle dinanzi finché a lei non fosse piaciuto: per la qual cosa si ritirò nel Pegnapobre in compagnia di un eremita, ed ivi non lasciò di piangere, finché piacque al cielo di trarlo dai suoi travagli e dalle sue infelicità. Se questo è vero, come è verissimo, perché debbo io darmi fastidio collo spogliarmi adesso ignudo ed importunare questi alberi che non mi recarono danno alcuno? E perché intorbiderò la limpid'onda di questi ruscelli che debbono somministrarmi di che estinguere la sete allorché io n'abbia d'uopo? Viva pure la memoria di Amadigi, e don Chisciotte della Mancia lo imiti in tutto per quanto si può: e si dirà di lui ciò che si disse dell'altro, che se non operò gran meraviglie seppe però morire per intraprenderle: e se io non sono né disprezzato né discacciato dalla mia Dulcinea, basterà, come ho detto, che me ne stia lontano da lei. Orsù dunque, mano all'opera: tornatemi a mente, o gesta di Amadigi, ed insegnatemi ciò che debbo eseguire per imitarvi: la maggiore delle sue occupazioni era il fare orazione, e così farò anch'io.” Si mise allora don Chisciotte a pregare, valendosi per rosario di certe gallozze di sughero che infilzò a dieci a dieci. Gli doleva di non trovare un altro eremita che lo confessasse e con cui consolarsi: e però limitavasi a passeggiare pei prati scrivendo e intagliando nelle cortecce degli alberi e nella minuta arena molti versi analoghi alla sua tristezza ed alle lodi della sua Dulcinea. Quelli che si trovarono interi e si poterono leggere non furono che i seguenti.

“Alberi, erbe e piante; che siete in questi luoghi sì elevati verdeggianti e splendidi, se non vi diletta il mio male, ascoltate le mie sante querele. Il mio dolore non mi nuoca per quanto sia terribile; poiché in premio del soggiorno qui pianse don Chisciotte la lontananza da Dulcinea del Toboso.

E questo è il luogo dove il più leale amante della sua donna si nasconde, venuto a tanta sventura senza saper come o perché. Un amore avverso lo travaglia e si piglia giuoco di lui; e però don Chisciotte sparse qui tante lagrime da empirne una botte piangendo la lontananza da Dulcinea del Toboso.

Mentre egli andava cercando avventure per aspre roccie maledicendo un cuore più aspro di quelle, senza trovare fra i rischi e balze altro mai che infortunii, lo sferzò Amore tanto aspramente che don Chisciotte qui pianse la lontananza da Dulcinea del Toboso!”

Produsse non poche risate in quelli che trovarono i versi riferiti l'aggiunta del Toboso al nome di Dulcinea, perché si figurarono che don Chisciotte si fosse immaginato che nominando Dulcinea e omettendo il Toboso non sarebbesi intesa a dovere quella canzone: e mal non si apposero, poiché lo confessò egli stesso di poi. Occupavasi egli nel sospirare e nel chiamare i fauni e i silvani di quei boschi, e le ninfe delle fonti, e la dolorosa ed umida Eco che gli rispondessero, lo ascoltassero e dessero a lui conforto. Andava cercando erbe per sostentarsi nella lontananza di Sancio, il quale, se come stette tre giorni avesse tardato tre settimane, il cavaliere dalla Trista Figura sarebbe rimasto sì sfigurato che non lo avrebbe riconosciuto sua madre. Ma sarà ora cosa opportuna di lasciarlo occupato nei suoi pensieri e nelle sue poesie per passare al racconto di ciò che avvenne a Sancio Pancia nella sua ambasceria.

Giunto che egli fu alla strada maestra si pose in camino verso il Toboso, e il giorno dopo pervenne all'osteria dove gli era accaduta la disgrazia della coperta. Non n'ebbe egli appena scorta la insegna che, sembrandogli di vedersi un'altra volta sbalzato per aria, non volle entrare, benché già fosse l'ora del pranzo, a confortarsi con qualche vivanda calda, mentre era già buona pezza che non ne avea mangiato se non di fredde. La necessità per altro lo sforzò ad avvicinarsi, ma nell'atto ch'egli stava in una dura incertezza, uscirono fuori dell'osteria due persone dalle quali fu riconosciuto, e l'uno disse all'altro:

— Signor dottore, quell'uomo a cavallo non è quel Sancio Pancia che la serva del cavaliere dalle avventure ci disse ch'era andato a servire il suo padrone in qualità di scudiere?

— Per lo appunto, rispose il dottore; e quello è il cavallo del nostro don Chisciotte;” e lo riconobbero pienamente, essendo l'uno il curato, l'altro il barbiere del suo villaggio, coloro stessi che fatto aveano lo squittinio e il gran giudizio dei libri. E tosto come si furono accertati ch'egli era Sancio con Ronzinante, ansiosi di avere nuove di don Chisciotte se gli avvicinarono, ed il curato lo chiamò per nome dicendogli:

— Amico Sancio Pancia, dov'è rimasto il vostro padrone?

Sancio sul fatto li conobbe, e si propose di tener celato il luogo e lo stato in cui avea lasciato il padrone, sicché rispose, trovarsi occupato il suo signore in un certo luogo e in certo affare di somma importanza che non potea loro palesare.

— Sia pure, Sancio, soggiunse il barbiere; e così se voi non ci dite dove si trova, giudicheremo, come già ne corre il sospetto, che lo abbiate ammazzato o rubato, poiché vi vediamo sul suo cavallo: ditemi dunque dove sta il padrone di questo cavallo, o ve ne faremo pentire.

— Non servono minacce, replicò Sancio; ché io non son uomo che ammazzi né assassini alcuno, e lascio che ciascuno finisca come vuole la sua fortuna, o piuttosto come vuol Dio. Il mio padrone sta facendo penitenza in cima di una montagna perché così gli piace di fare;” e poi alla distesa e senza interrompimenti raccontò loro come lo avea lasciato, le avventure ch'erano accadute, e ch'egli portava una lettera alla signora Dulcinea del Toboso, ch'era la figliuola di Lorenzo Corucuelo, di cui don Chisciotte era innamorato morto. Stupirono quei due di ciò che raccontava Sancio; e tuttoché già sapessero il netto della pazzia di don Chisciotte e di qual natura fosse ella, ogni volta che ne sentivano le stravaganze, trovavano nuovo argomento da inarcare le ciglia. Chiesero a Sancio la permissione di leggere la lettera che portava alla signora Dulcinea del Toboso. Egli rispose che stava scritta in un libro di memorie, e che il padrone gli aveva ordinato di farla trascrivere nel primo luogo in cui arrivasse. Soggiunse il curato che se gliela facesse vedere la copierebbe egli stesso in bel carattere. Sancio mise la mano in seno cercando il libricciuolo, ma nol trovò, né potea trovarlo se lo avesse cercato mille anni, perché don Chisciotte lo avea ancora presso di sé, non avendolo consegnato a Sancio che si era scordato di domandarglielo. Quando Sancio si accorse di non aver il libricciuolo impallidì, e tastandosi da per tutto il corpo finì di persuadersi che non lo aveva; e senz'altro dire cominciò a strapparsi la barba, e si diede una mezza dozzina di così forti sgrugnate nel mustaccio e nel naso che restò tutto insanguinato. Vedendo questo il curato ed il barbiere gli domandarono che gli fosse avvenuto di tristo da portarsi a sì gran disperazione. “Che mi poteva accadere di peggio, rispose Sancio, dell'avere perduto da un momento all'altro tre asini, ognuno de' quali era grande come un castello?

— Come può esser questo? replicò il barbiere.

— Perdei il libretto di memorie, rispose Sancio, dove stava la lettera per Dulcinea ed un ordine firmato dal mio padrone, con cui comandava a sua nipote che mi desse tre degli asini da lui lasciati in casa: e a questo proposito contò loro come gli era stato rubato il suo. Lo racconsolò il curato, e gli disse che rivedendo il padrone potea farsi rinnovare il mandato, e farselo scrivere in carta a parte com'era uso e costume, perché nessuno avrebbe accettato e pagato un ordine scritto in un libro di memorie. Sancio si consolò in grazia di questo consiglio, e li assicurò che quando la cosa fosse in questi termini, non gli dava molto pensiero la perdita della lettera di Dulcinea, perch'egli la sapea quasi a memoria, e potrebbe dettarla di nuovo a loro beneplacito.

— Fatecela dunque sentire, disse il barbiere, e noi ne allestiremo dopo una copia. Cominciò Sancio a grattarsi la testa per richiamarsi nella memoria la lettera, ed ora si poneva sopra un piede, ora sopra un altro, ora guardava la terra ed ora il cielo, e dopo essersi rosicchiato mezza l'unghia di un dito, tenendo sospesi quelli che aspettavano di pur sentirla, passato non piccol tratto di tempo disse:

— Il diavolo se ne porti quello ch'io mi ricordo di quella lettera: mi pare per altro che principiasse appunto così: Alta e tramenata signora.

— Non avrà detto tramenata, ma sovrumana o sovrana signora.

— Oh appunto così, disse Sancio. Ora se male non mi sovviene, proseguiva... se male non mi sovviene... non mi sovviene... il piagato è privo di sonno ed il ferito bacia le mani a vossignoria ingrata e sconoscente bella: e non so che dicesse di sanità o d'infermità che le mandava; e andava discorrendo così all'incirca finché terminava: vostro fino alla morte il cavaliere dalla Trista Figura.” Si godettero assai di avere una prova della buona memoria di Sancio, e ne lodarono, pregandolo che recitasse la lettera altre due volte per impararla a mente eglino stessi, e poi scriverla in una carta a miglior agio. Tornò Sancio a ridirla tre volte, e replicò altrettante volte tremila bestialità facendo sapere in aggiunta le cose del suo padrone, ma tacendo sempre l'avventura della coperta occorsagli appunto in quella osteria nella quale perciò non fu possibile indurlo ad entrare. Disse di più che allora quando il suo padrone ricevuto avesse riscontri favorevoli dalla sua signora Dulcinea del Toboso si sarebbe messo in viaggio per tentare di essere imperadore, o per lo meno monarca: ciò che aveano concertato insieme con lui, ed era molto facile a verificarsi per essere sì sterminato il valore della sua persona e la forza del suo braccio: che ciò accadendo, volea dargli moglie, perché già a quel momento sarebbe rimasto vedovo (ché altrimenti ciò non poteva essere), ed avea stabilito dargli in consorte una donzella della imperatrice, erede di un vasto e dovizioso stato di Terraferma senza isole né isolotti di cui non si curava. Tuttociò era detto da Sancio con tanta fermezza (soffiandosi il naso di tanto in tanto) e con sì poco giudizio, che que' due tornarono a farne le maraviglie, riflettendo alla pazzia sì strabocchevole di don Chisciotte, che avea fatto dar vôlta anche al cervello di quel pover uomo. Non si curarono di fargli conoscere l'errore in cui si trovava, giacché non vi essendo pericolo della sua coscienza, era meglio lasciarvelo persistere, ed aver così maggior diletto in udire le sue sciempiaggini; e però si fecero a dirgli che pregasse Dio per la salute del suo padrone, mentre era facile ad accadere che in progresso di tempo divenisse imperadore, com'egli diceva, od arcivescovo per lo meno, od altro dignitario siffatto. A' quali rispose Sancio:

— Signori, se la fortuna rivoltasse le cose in maniera che al mio padrone non venisse in testa di essere imperadore, ma arcivescovo, domando io in questo caso che cosa sogliono dare gli arcivescovi ai loro scudieri?

— Costumano di dare, rispose il curato, qualche beneficio semplice od una cura od una sacristania che porta una ricca rendita, oltre ai rilievi incerti che sogliono valere altrettanto.

— Per conseguire questo si renderà necessario, replicò Sancio, che lo scudiere non sia ammogliato, e sappia almeno risponder messa; e se ciò è io sono ben disgraziato, mentre io mi trovo ammogliato e non conosco la prima lettera dell'alfabeto. Che sarà di me se al mio padrone tocca il capriccio di esser arcivescovo e non imperadore, com'è uso e costume dei cavalieri erranti?

— Non vi date pena per questo, amico Sancio, disse il barbiere, che pregheremo il vostro padrone e lo consiglieremo, anzi gli faremo coscienza affinché diventi imperadore e non arcivescovo; e ci sarà facile la riuscita essendo egli più valoroso che letterato.

— Pare così anche a me, rispose Sancio, benché vi so dire ch'egli è abile in tutto; e quello che penso di fare dal canto mio è di raccomandarlo a nostro Signore, affinché lo conduca a quelle parti ov'egli possa trovarsi in grado di ricolmarmi di molte beneficenze.

— Il vostro parlare, disse il curato, è da uomo da senno, e le vostre azioni da buon cristiano; ma quello che importa di fare presentemente si è di cavare il vostro padrone da quella inutile penitenza la quale dite che sta facendo, e di pensare al modo con cui dobbiamo contenerci... Ma egli è ormai tempo di desinare, e però sarà bene intanto che ce n'entriamo in questa osteria.” Sancio disse ch'entrassero pure che li attenderebbe di fuori, e loro farebbe poi sapere la causa per cui non volea seguitarli, e li pregava soltanto che gli facessero portar fuori qualche cosa da mangiare per lui ed un poco di biada per Ronzinante.

Entrarono dunque essi soli e lo lasciarono sulla strada, ed il barbiere di lì a poco gli portò da mangiare, avendo intanto ben maturato fra loro come arrivare allo scopo che si erano proposto. Trovò il curato un consiglio molto confacevole al gusto di don Chisciotte ed a quel fine ch'essi cercavano, e disse tosto al barbiere che avea pensato di vestirsi egli stesso in abito di donzella errante, e che procurasse il barbiere di vestirsi nella miglior maniera da scudiere; poi così travestiti andrebbero dove stavasi don Chisciotte, fingendo il curato di essere una donzella afflitta e bisognosa di una grazia ch'egli come valoroso cavaliere errante non potea rifiutarsi di concederle, e la grazia sarebbe di seguitarla dov'essa lo condurrebbe a disfare un torto fattole da malnato cavaliere; supplicandolo nel tempo stesso che non la obbligasse a togliersi il velo che le copriva la faccia, né la domandasse dell'esser suo, finché non le avesse fatta la chiesta vendetta. E diceva il curato che senza dubbio don Chisciotte prestando fede, uscirebbe di Sierra Morena, e così ricondotto al suo paese, dove ogni via avrebbero tentata per ritrovare un qualche rimedio da guarirlo dalle sue strane pazzie.

 


CAPITOLO XXVII

 

DEL MODO CON CUI IL CURATO E IL BARBIERE GIUNSERO A CAPO DEL LORO DISEGNO,
CON ALTRE COSE DEGNE DI ESSERE RIPORTATE IN QUESTA GRANDE ISTORIA.

 

La invenzione del curato piacque tanto al barbiere, che la mandarono tosto ad effetto. Chiesero in prestito dalla ostessa una zimarra ed un velo, lasciandole in pegno la veste nera di cui si serviva il curato. Il barbiere si fece una finta barba colla coda di un bue grigia e rossiccia in cui l'oste solea piantare il suo pettine. Mossa la ostessa a curiosità domandò perché si provvedessero di quelle cose. Il curato in poche parole la informò della pazzia di don Chisciotte e ch'essi volevano travestirsi, colla intenzione di cavarlo dalla montagna dove si ritrovava. L'oste e l'ostessa allora a poco a poco compresero che il pazzo era quel loro ospite fabbricatore del balsamo, e padrone dello scudiere sbalzato in aria; e fecero al curato il racconto di tutto l'occorso senza tacere ciò che Sancio occultava con sì gran gelosia. Intanto l'ostessa abbigliò il curato in modo che sembrava una donna, e gli pose addosso una zimarra di panno con guernimento di fasce di velluto nero e trinciate, ed un busto di velluto con tutti gli orli di raso bianco; vestiti che ricordavano il tempo del re Bamba. Non volle il curato acconciature di testa, ma si coprì il capo con un berretto di pannilino imbottito di cui servivasi in letto la notte, e si cinse la fronte con un legaccio di taffettà nero facendosi con un altro una specie di maschera sotto la quale nascose ben bene la barba e tutta la faccia. Si mise il cappello che per essere grande assai faceva le veci d'un ombrellino, poi ravviluppandosi nel suo gabbano si mise a seder sulla sua mula come sogliono cavalcare le donne; ed il barbiere montò sopra la sua con la barba che gli andava sino alla cintura tra rossa e bianca siccome quella che, come si è detto, era fatta della coda di un bue rossiccio. Si accommiatarono da tutti e dalla buona Maritorna, che promise di recitare un rosario, tuttoché peccatrice, affinché il Signore favorisse così difficile e cristiana impresa com'era quella a cui s'accingevano. Non fu appena uscito dall'osteria il curato che soprapreso da uno scrupolo, non forse l'essersi travestito a quella foggia disdicesse ad un sacerdote, benché avesse a cogliere un gran frutto, pregò il barbiere di cambiarsi travestimento. Parevagli più adatto che egli fingesse di essere la donzella bisognosa, riserbando a sé le parti da scudiere, mentre non avrebbe così profanata la sua dignità; dichiarando che se vi si rifiutava, egli avrebbe desistito dall'impresa, checché fosse per avvenire a don Chisciotte.

In questa Sancio li sopraggiunse, e vedendoli travestiti a quel modo non poté contenersi dal ridere. Il barbiere aderì al desiderio del curato che dopo il travestimento gl'insegnò come dovesse contenersi e parlare a don Chisciotte per persuaderlo e costringerlo a seguitarlo, lasciando il soggiorno da lui scelto per compiere quella inutile penitenza. Lo assicurò il barbiere che avrebbe fatto ogni cosa per l'appunto, anche senza avere avuta la lezione, ma non volle subito travestirsi riserbandosi a farlo giunti che fossero dove stavasi don Chisciotte; e perciò tenne a parte i suoi panni. Il curato si adattò la barba, e proseguirono il viaggio, guidati da Sancio Pancia, il quale diede loro contezza delle avventure del pazzo ritrovato nella montagna, tacendo però l'affare del valigiotto e di ciò che conteneva, perché nella sua zotichezza non mancava di astuzia.

Arrivarono il giorno seguente al luogo dove erano sparsi i segnali dei rami che doveano guidar Sancio al padrone, e quando li conobbe disse loro che quello era l'ingresso, e che poteano cominciare a travestirsi, posto che giudicavano che ciò fosse per tornar utile alla libertà del suo padrone. Questa dichiarazione di Sancio fu in conseguenza dell'avergli detto il curato ed il barbiere che mercé il concertato travestimento tolto avrebbero il suo padrone dalla trista vita che si era prescelta, raccomandandogli di non palesarli mai e di fingere sempre di non conoscerli.

E qualora (come era ben naturale) gli domandasse se avesse recapitata la lettera a Dulcinea, lo assicurasse di averlo fatto, ma che non sapendo essa leggere gli aveva risposto a voce, dicendogli che gli comandava sotto pena d'incorrere nella sua disgrazia, di andarne subito a lei per cosa d'importantissima urgenza. Erano persuasi che un comando di Dulcinea, congiuntamente a ciò che aveano essi divisato di fare, potrebbe ricondurlo a miglior condizione di vita; ed assicurarono Sancio che in questa guisa avrebbero posto il suo padrone sulla vera strada di farsi imperadore e monarca; perché quanto al diventare arcivescovo non era da pensarci. Ascoltò Sancio ogni cosa, se la impresse ben bene in testa, ringraziandoli vivamente della premura che si davano, affinché il suo padrone diventasse imperadore e non arcivescovo, essendo egli convinto che per compensare largamente gli scudieri fossero più a proposito gli imperadori che gli arcivescovi erranti. Soggiunse eziandio che sarebbe opportuno ch'egli li precedesse recando a don Chisciotte la risposta della sua signora, stimando che ciò basterebbe a farlo partire di là senza ch'eglino si prendessero altre brighe. Persuasi di questo, deliberarono di aspettarlo fino a tanto che ritornasse colle nuove d'aver ritrovato il suo padrone. S'internò egli dunque nella montagna, lasciando il curato ed il barbiere in un sito dove scorreva un piacevole ruscello cui facevano grata e fresca ombra collinette amene ed arbori frondosi.

Il giorno in cui vi arrivarono era uno dei più caldi del mese di agosto, che in quelle parti suol essere cocente assai, e l'ora le tre della sera, ciò che rendeva il luogo piacevolissimo, e niente noioso il tempo necessario ad attendere il ritorno di Sancio. Standosene ambedue seduti all'ombra udirono una voce che senza essere accompagnata da alcuno stromento, dolce e ben modulata dava un suono eccellente; del che non poco si maravigliarono, giacché quelli non parevano luoghi da sentirvisi canti così soavi. E nel vero, quantunque si soglia dire che per le selve e pei campi si trovano pastori atti a melodie maravigliose, sono però queste piuttosto fantasie di poeti che verità. Si accrebbe in loro la maraviglia quando si accorsero che i versi cantati non erano propri di gente rustica, ma di cittadini coltissimi; nella quale opinione li confermò vie più il canto seguente:

 

“Chi m'ha rapita la mia pace? — Il Dispetto.

Chi raddoppia il mio dolore? — La Gelosia.

Chi mette a prova la mia tolleranza? — L'Assenza.

E così al mio affanno non è alcun rimedio, poiché me ne tolgono ogni speranza, Dispetto, Gelosia e Assenza.

 

Chi mi cagiona questo dolore? — Amore.

Chi contrasta alla mia felicità? — Fortuna.

Chi permette il mio affanno? — Il Cielo.

E così debbo apparecchiarmi a morire di questo male, poiché al mio danno congiurano Amore, Fortuna, il Cielo.

 

Chi può mitigar la mia sorte? — Morte.

E chi ottiene felicità in amore? — L'Incostanza.

E chi ne guarisce gli affanni? — La Follia.

E così non è buon consiglio voler guarire la passione quando i rimedi ne sono Morte, Incostanza, Follia.”

 

L'ora, il tempo, la solitudine, la voce e la maestria del cantore cagionarono ammirazione e diletto nei due che lo intesero, e che non fecero il più piccolo movimento per attendere se altra cosa si udiva; ma poiché il silenzio si protraeva assai lungamente, pensarono di andare in traccia di sì bravo cantore. Li distolse però dal farlo la voce medesima che sentir si fece cantando di nuovo così:

 

“Santa amicizia che lasciando la tua apparenza nel mondo, con leggiere ali salisti lieta all'empireo soggiorno fra le anime benedette nel cielo;

Donde quando ti aggrada ci mostri la vera pace coperta di un velo, a traverso del quale traspar l'ardore delle buone opere che si fanno malvage;

Lascia, deh! il cielo all'amicizia, e non permettere che l'inganno vesta le tue sembianze, così distruggendo ogni sincera intenzione.

Se tu non le strappi la tua maschera, ben tosto il mondo si vedrà nel caos della primitiva discorde confusione.”

 

Un profondo sospiro dié fine a quel canto; e il curato e il barbiere rinnovarono la loro attenzione sperando che ripigliasse: ma udendo che la musica erasi convertita in singulti e dolorosi lamenti procurarono di sapere chi fosse questo infelice la cui voce era tanto delicata quanto n'erano dolorosi i sospiri; né andò guari che girando dietro la punta di un masso si avvennero in un uomo della statura e della figura descritta da Sancio quando fece il racconto dell'avventura di Cardenio. Questo uomo, veduti che li ebbe, non fece alcun atto di maraviglia né punto si mosse; ma si presentò loro innanzi come tutto assorto in gravi pensieri, con la testa inchinata al petto e senza mirarli, benché côlto all'improvviso. Il curato che sapeva dire acconciamente quattro parole (poiché non ignorava la sua disavventura, ed ai ricevuti contrassegni lo riconobbe), se gli avvicinò, e con brevi e molto prudenti detti lo pregò di abbandonare una vita infelice per non perderla fra quegli orrori; ciò che sarebbe stato il maggiore di tutti i mali. Era quello per Cardenio un lucido intervallo, quieto di quegli accessi furiosi che sì di frequente lo traevano fuori di sé medesimo; e perciò vedendo quei due in vesti non usate dagli abitatori di quelle solitudini, non lasciò di mostrarne qualche stupore, che in lui si accrebbe sentendosi parlare dei casi suoi come di cosa conosciuta pubblicamente: e ciò è quello che fatto aveva il curato col suo discorso. Rispose pertanto in questa maniera: — Conosco assai bene, o signori, chiunque voi siate, che il cielo che soccorre i buoni e talor anche i malvagi, a me v'invia senza il mio merito in questi luoghi deserti e lontani dal commercio degli uomini; e comprendo che il fine a cui foste mandati si è di persuadermi con vere e sode ragioni che io debba abbandonare il presente mio tenore di vita: ma voi non sapete che togliendomi io dalle mie presenti sciagure incapperei in altre molto peggiori. Mi terrete perciò qual uomo che assai debolmente ragiona, e quel che peggio sarebbe, di poco sano intendimento: né mi maraviglierei se ciò credereste, perché veggo io stesso che la rimembranza continua delle mie disgrazie è di tal possa e tende siffattamente a perdermi che senza ch'io valga a impedirla, rimango qual pietra onninamente priva di ragione e di buon senso. Di ciò anche m'avveggo quando taluni mi dicono e mostrano i segni delle cose da me fatte durante i formidabili accessi che mi predominano, sicché non mi resta che dolermi inutilmente e maledire senza pro la sventura mia, e scolparmi alla meglio coll'accusarne la causa, rendendola palese a chi si invoglia di esserne istrutto: ché certamente gli uomini di buon senno non potranno maravigliarsi che da cagione sì brutta nascano pessimi effetti: e se non vi potranno rimediare non me ne faranno colpevole per lo meno, convertendo anzi in commiserazione delle mie disgrazie lo sdegno in loro provocato dagli accessi della mia follia. Pertanto se voi, signori, vi siete qui condotti colla stessa intenzione di altri che ci vennero, prima di mettere in campo le vostre sagge persuasioni, pregovi di porgere orecchi al racconto delle mie disavventure, perché quando le abbiate intese vi persuaderete che inutilmente procaccereste di temperare l'amarezza di un male incapace di raddolcimento.”

Quei due non d'altro desiderosi che d'intendere dalla propria sua bocca la cagione per cui trovavasi a sì dolente partito, lo pregarono che loro ne facesse il racconto, offrendosi di non impiegar l'opera loro se non in ciò che credesse opportuno egli stesso a suo ristoro e rimedio. Con questa fiducia l'infelice cavaliere cominciò la dolente sua storia, ripetendola quasi con le stesse parole fin dove l'avea pochi dì prima condotta quando ne avea fatto a don Chisciotte e al capraio il racconto, che troncò poi ad un tratto per causa del maestro Elisabatte, e dell'avere voluto don Chisciotte sostenere il decoro della cavalleria, siccome ci ha fatto sapere la istoria. Volle dunque la buona ventura che a quel punto non fosse côlto dall'accesso della pazzia ed avesse campo di poterne compire la narrazione: e quindi arrivato al passo del biglietto trovato da don Fernando nel libro di Amadigi di Gaula, soggiunse Cardenio, che lo teneva a memoria perfettamente, e ch'era così concepito:

 

Lucinda a Cardenio.

 

“Vo tutto giorno scoprendo i vostri meriti i quali mi obbligano e sforzano ad accrescere la mia stima per voi. Se volete disobbligarmi conservando sempre disobbligato il mio onore, vi si offre opportuna occasione di farlo. Ho un padre che conosce voi ed ama teneramente sua figlia; e che senza contrariare la mia volontà sarà per condiscendere alla vostra domanda, la quale non potrà essere che di giustizia e di dovere. Ciò eseguirete sempre che sia verace la stima che dite di professarmi e di cui non dubito.”

 

“Questo biglietto m'indusse a domandare Lucinda in isposa, come già vi ho detto; ed il biglietto medesimo convinse Fernando di che sano discernimento e lodevole contegno fosse dotata Lucinda, fiore dell'età nostra; e lo fece risolvere a intraprendere l'ultima mia rovina. Dissi a don Fernando stesso le difficoltà che moveva il padre della giovane, il quale bramava che il mio gliela domandasse per mia consorte, del che io non osava pregarlo temendone un rifiuto, non già perché non gli fossero note le qualità, la bontà, la virtù e bellezze di Lucinda, ch'era tale da illustrare qualunque altro casato di Spagna; ma perché io ben sapeva com'egli bramava che non mi accasassi sì presto, e stessi a vedere ciò che di me disponesse il duca Riccardo. In somma risposi che non mi avventurava di farlo sapere a mio padre sì per questo riguardo come per molti altri che mi rendevano timido, senza sapere nemmen io quali si fossero; se non che mi pareva difficile assai il conseguire quanto io bramava. A tutto ciò mi rispose don Fernando, che s'incaricava egli stesso di parlarne al mio genitore, e persuaderlo a conferire con quello di Lucinda. O Mario ambizioso! O Catilina crudele! O Silla scellerato! O Galalone imbrogliatore! O traditore Vellido! O Giuliano vendicativo, facinoroso! Che mal'azione ti ha fatta un infelice che con sì candida fede ti scoperse i segreti e le gioie del proprio cuore? In che ti offese egli mai? Che parole ti ha egli proferite o quai consigli ti ha dati che non mirassero al maggior lustro del tuo onore ed al tuo profitto? Ma e di che mi querelo io mai sventurato che sono! mentre quando i maligni influssi traggono sopra un infelice la corrente delle disgrazie e gli piombano addosso con ogni violenza e furore, non vi è forza sopra la terra che le allontani né industria umana che le possa prevenire! Chi sarebbesi immaginato che don Fernando avesse voluto pagare di tanta ingratitudine i miei servigi e la mia fiducia? E che mentre poteva ottenere tutto quello che avesse voluto far suo, dovesse proprio mettersi in capo di rapirmi la mia sola agnelletta, e non ancora da me posseduta! Ma lasciamo a parte tali riflessioni come superflue e senza profitto veruno, e ritorniamo all'interrotto filo della disgraziata mia istoria. Dico dunque che parendo a don Fernando incomoda la mia presenza, stabilì d'inviarmi a suo fratello maggiore, con pretesto di chiedergli danari per sei cavalli, che a fine di riuscire più agevolmente nell'indegno suo proposito, egli comprò nel giorno medesimo in cui gli si offrì la opportunità di parlare a mio padre. Poteva io antivedere un tradimento? Doveva io immaginarlo? No, certamente: che anzi con grandissima soddisfazione mi sono esibito di partire sull'istante, contento della compera ch'egli aveva fatta. In quella notte parlai con Lucinda, e le feci sapere ciò ch'erasi concertato fra me e don Fernando, e che sperasse lieta fine ai nostri buoni ed onesti desiderii. Ella (che al pari di me non nutriva il menomo sospetto di don Fernando) mi raccomandò di tornare al più presto, perché confidava che le nostre brame non tarderebbero ad essere contentate se non quanto i nostri parenti tardassero ad abboccarsi fra loro. Non so qual pensiero le venisse in quel punto, ma nel finire quelle parole i suoi occhi si empierono di lagrime, la sua voce si estinse. Pareva che volesse dirmi ancora più cose, e che un gruppo le stringesse la gola per modo che ne rimase impedita.

Questo nuovo accidente e sì inusitato, mi destò la più grande maraviglia perché ogni volta che la buona sorte, e l'accortezza mia ci concedevano alcun colloquio, seguiva questo colla più viva gioia e soddisfazione, ben lungi dall'esservi immischiate lagrime, sospiri, gelosie, sospetti o timori. Io non faceva che gioire del fortunato destino che me l'aveva concessa amante e signora; io portava al cielo la sua bellezza, il suo merito ed il suo discernimento che mi rendeano estatico, ed essa me ne compensava con un perfetto ricambio, lodando in me tutto ciò che, come innamorata, le sembrava degno di encomio. C'intertenevamo parlando di alcune faccenduole de' nostri vicini e conoscenti, né mai aveva io osato più in là, che a prendere quasi a forza una delle sue belle e bianche mani e accostarla alle mie labbra, per quanto lo permetteva la ristrettezza di una bassa inferriata che ci divideva. La notte poi che precedette al giorno della mia partenza fu amareggiata dai suoi pianti e sospiri; dopo di che fuggì lasciandomi pensieroso ed attonito per avere veduti in lei indizî sì tristi e sì nuovi di afflizione. Tuttavolta non volendo distruggere io stesso le mie speranze, attribuii ogni cosa all'amore, ed alla forza di quel dolore che suol produrre la lontananza della persona amata. In fine io mi partii malinconico e pensieroso, coll'anima piena di ombre e fantasmi, senza sapere di che sospettassi o potessi temere: chiari presentimenti del tristo evento e della sciagura che mi erano apparecchiati!

Giunsi al luogo dov'ero diretto; consegnai le lettere al fratello di don Fernando, e n'ebbi buona accoglienza, ma contro ogni mio desiderio m'impose di attendere otto giorni; e frattanto mi confinò in luogo appartato da non poter esser veduto dal duca suo padre; perché il fratello suo gli scriveva di mandargli una certa somma senza saputa del padre stesso; tutte invenzioni, giacché non sarebbero punto mancati danari al fratello per accelerare la mia partenza. Fui in sull'orlo di non obbedire, sembrandomi impossibile di vivere per tanti giorni diviso da Lucinda: e tanto più quanto che io l'aveva lasciata, come dissi, in grande tristezza. Prevalse ad onta di ciò il dovere di leale servidore, ed ho obbedito, tuttoché conoscessi che ne andava a scapitare la mia salute; ma, scorsi quattro giorni dopo il mio arrivo, giunse un uomo in traccia di me, e mi consegnò una lettera che con istringimento di cuore conobbi dalla soprascritta essere di Lucinda. L'apersi tremante, tenendo per fermo non per altro dovermi ella scrivere che per parteciparmi cosa importante assai mentre poche volte il faceva quando io l'era vicino. Chiesi al messo, prima di leggerla, chi gliel'aveva consegnata, e il tempo che impiegato avea per raggiungermi; ed egli mi rispose che passando a caso per una strada della città all'ora del mezzogiorno una bella signora lo chiamò da un balcone cogli occhi pieni di lagrime e all'infretta gli disse: — Fratello, se siete cristiano come l'aspetto vostro dimostra, vi prego per amor di Dio che vi rechiate sull'istante al luogo ed alla persona che sono indicati in questa soprascritta, e che sono notissimi. Ciò eseguendo vi acquistereste merito verso Dio; e perché possiate farlo con minore vostro disagio tenete per voi quanto sta involto nel fazzoletto. — Ciò dicendo me lo gittò dalla finestra, e vi trovai legati cento reali, questo anello d'oro che ho meco, e la lettera che vi ho consegnata. Senza attendere alcuna risposta la signora si allontanò dalla finestra, dopo avere veduto che la lettera ed il fazzoletto erano stati da me raccolti, e dopo altresì che io l'ebbi con cenni assicurata che avrei eseguiti i comandi suoi. Ben compensato com'io fui dell'impegno di ricapitare la lettera, e scorgendo dalla soprascritta che voi eravate quello a cui era diretta, perché vi conosco assai bene, per soprappiù vinto dalle lagrime di quella bella signora, determinai di non fidarmi di chicchessia, e di venire a ricapitarvela io stesso; e in sedici ore, da che mi fu consegnata, ho fatto il viaggio che sapete esser di diciotto leghe.” Mentre così mi parlava il grato e nuovo corriere, io stava ascoltandolo colla più viva attenzione, e mi tremavano le gambe in modo che appena potevo reggermi in piedi. Aperta la lettera, questa così diceva:

“La parola datavi da don Fernando di parlare con vostro padre perché conferisse col mio fu da esso adempita assai più per sua propria soddisfazione che per vostro profitto. Sappiate, o signore, ch'egli mi ha dimandata in isposa; e mio padre mosso dall'eminente onore ch'egli crede ricevere da don Fernando vi acconsentì, ed è ciò tanto vero quanto che fra due giorni seguirà il matrimonio così segreto e solitario che testimonii ne saranno unicamente il cielo e qualche domestico. Immaginate quale io sia rimasta! Pensate se vi convenga il venire; s'io poi vi ami o no, lo dimostrerà l'esito. Piaccia a Dio che questa lettera arrivi alla vostra mano prima che la mia si trovi sforzata da congiungersi a quella di un uomo che sa mantenere sì male la promessa fede.”

Questo fu in sostanza il contenuto della lettera che mi determinò a pormi subito in viaggio senz'attendere altra risposta ed altri danari, avendo allora chiaramente compreso che don Fernando mi aveva inviato al fratello non per la compera dei cavalli, ma per eseguire un premeditato disegno. Mi nacquero le ali ai piedi: lo sdegno che aveva concepito contro don Fernando, e il timore di perdere la gemma guadagnata con la servitù e con l'amore di tanti anni, mi fecero volare; sicché nel giorno dopo giunsi al mio paese all'ora e al tempo ch'era conveniente per parlare a Lucinda. Entrai in città con segretezza, lasciando la mula con cui feci il viaggio in casa di quel buon uomo che mi aveva recata la lettera; e mi favorì la sorte per modo che potei parlare con Lucinda, la quale trovavasi all'inferriata, testimonio dei nostri amori. Ci riconoscemmo entrambi; non però in quel modo con cui essa avrebbe dovuto ricevermi. Chi è mai che vantar possa di avere penetrato e conosciuto il confuso immaginare e la mutabile condizione di una donna? Certamente nessuno. Parlo a tal modo perché non mi vide Lucinda appena che mi disse: — Cardenio, io vo a farmi sposa: mi attendono in sala il traditore don Fernando e l'avaro mio genitore con altri che saranno testimoni di mia morte e non già di mie nozze. Non turbarti, amico, ma cerca di essere presente a questo sagrifizio; il quale se io non potrò distornare con quanto sarò per dire, tengo ascoso un pugnale che vincerà la soperchieria e la violenza, mettendo fine alla vita e dando principio alla pubblica conoscenza di quell'amore che ti ho giurato e che giuro di mantenerti.” Io le risposi turbato e in gran fretta, temendo che mi mancasse il tempo. “Signora, il fatto renda veritiere le tue dichiarazioni; che se un pugnale hai pronto a fine di provarne la verità, io porto al fianco una spada per difenderti o per trafiggere me stesso quando nemica mi si mostrasse la sorte.”

Non credo che possa avere intese tutte queste parole perché la chiamarono tosto, essendo attesa allo sposalizio. Venne la notte della tristezza; ottenebrossi il sole delle mie gioie, restarono gli occhi miei privi di luce e senza facoltà il mio intelletto. Io non mi attentava di entrare nella sua casa, né altrove potea rivolgermi, ma riflettendo quanto importasse la mia presenza per le conseguenze di tanto evento, mi rincorai e vi entrai. Io conoscea tutti gl'ingressi e le uscite, e tra questo e pel sordo rumore che vi si faceva, potei procurarmi senz'essere scoperto, un nascondiglio nella sala dietro le tende di una finestra le quali mi lasciavano agio di vedere quanto si stava eseguendo. Chi potrà dire come mi tremasse il cuore in quel nascondiglio? Chi le cose buone e ree da me immaginate? Furono tali e tante che né si possono dichiarare, né bene sta che siano dette. Ora sappiate che lo sposo entrò nella sala col suo ordinario vestito, senz'alcuna pompa, avendo per padrino un cugino di Lucinda, né altri testimoni vi erano fuorché i servitori di casa. Poco appresso uscì da una galleria Lucinda accompagnata da sua madre e da due donzelle, adorna ed acconcia come si conveniva alla sua bellezza, alla sua condizione, e ad una donna che dir si poteva la perfezione della gentilezza e del gusto. Sospeso e quasi fuori di me medesimo non ebbi agio di esaminare particolarmente il suo vestito; solo mi accorsi che il colore era incarnato e bianco. Abbagliavami lo splendore delle gioie che le adornavano il capo, vinte però dalla bellezza de' suoi lunghi e biondi capelli; né essa splendeva meno dei doppieri che ardevano in quella sala fatale. O memoria, mortale nemica della mie quiete! a che mi vai ora rappresentando la incomparabile perfezione di quella mia adorata nemica? Non sarà meglio, o crudele memoria, che tu mi faccia risovvenire e mi sottoponga invece quanto ella fece in quel punto, perché io, irritato da sì manifesta offesa, mi accinga non dirò a vendicarmi, ma a lasciare questa misera vita! Non vi annoiate, o signori, per queste mie digressioni, ché la mia pena non è di quelle che possano essere narrate succintamente e in fretta, anzi ogni sua circostanza mi sembra che meriti un lungo ragionamento. — Rispose a queste parole il curato, che ben lungi dall'annoiarsi in udirlo, ciascuno di loro provava gran diletto nel sentire le minute particolarità che egli raccontava, giudicandole tali da meritarsi di non essere passate sotto silenzio, ma piuttosto ascoltate con somma attenzione non altrimenti che tutto il racconto. — Dico adunque, soggiunse Cardenio, che standosene tutti in sala arrivò il curato della parrocchia, e prendendo la mano dei due fidanzati per compiere ciò che conviene in tal atto, disse: “Volete voi, signora Lucinda, prendere il signor Fernando, che sta qui presente, per vostro legittimo sposo come comanda la santa Madre Chiesa?” Io allungai il collo e trassi la testa fuori delle tende, e con estrema attenzione, e con cuore agitato mi feci ad udire ciò che rispondesse Lucinda, attendendo dalle sue parole la sentenza della mia morte o la conferma della mia vita. Ma perché non mi bastò l'animo di farmi vedere a quel punto e sclamare: “Ah Lucinda, Lucinda! guarda quello che fai, considera ciò che mi devi, pensa che sei mia e che non puoi darti ad altri! Avverti che il pronunziare un , e il farmi perdere la vita dovrà essere un punto solo. E tu, traditore don Fernando, ladro della mia gloria, morte della mia vita! che brami? che pretendi? Considera che non puoi da cristiano raggiungere lo scopo dei tuoi desideri perché mia sposa è Lucinda, ed io sono suo consorte.” Ma folle che io sono! Presentemente che lungi mi trovo dal pericolo, dico che avrei dovuto fare ciò che non feci; e dopo avermi lasciato rubare un sì prezioso pegno, maledico il ladro che me lo ha tolto e di cui potevo prendere vendetta se avessi avuto cuore di farlo, come l'ho adesso di querelarmi. Ma sì, allora fui scimunito e codardo, ed ora mi sta bene vivere svergognato, pentito e pazzo per tutto il resto dei giorni miei! Il sacerdote attendeva la risposta di Lucinda, che stette buona pezza prima di darla; e poi, quando io credeva che traesse il pugnale per essere consentanea a sé stessa, o che sciogliesse la lingua per far sentire qualche verità e manifestare un inganno che ridondasse a profitto mio, sento che dice con voce fioca e tremante: Sì, lo voglio. Ripete don Fernando il medesimo, e postole in dito l'anello restano uniti con indissolubil nodo. Se non che mentre lo sposo era per abbracciare la sposa, questa, recandosi una mano al cuore, cadde svenuta fra le braccia della madre. Pensate come io mi restassi conoscendo in quel perdute le mie speranze, fallaci le promesse e le parole di Lucinda, ed impossibile di ricuperare in verun tempo un bene che in quel punto io aveva per sempre totalmente perduto! Senza consiglio, in ira al cielo, fatto nemico della terra che mi sosteneva, l'aere direi quasi, negava l'alito ai miei sospiri, e l'acqua l'umore alle lagrime ed io ardeva tutto di sdegno e di gelosia.

Lo svenimento di Lucinda mise in tutti il terrore. Sua madre le allentò alcun poco i vestiti che le ricoprivano il seno, perché avesse alcun refrigerio; donde fu veduto che tenea nascosto un viglietto, di cui subito si impossessò don Fernando, facendone lettura al chiarore di uno di quei doppieri. Poteva appena averlo letto che si assise appoggiando ad una mano la guancia, e mostrando per tal guisa di essere assorto in grave pensiero senza darsi premura alcuna di apprestare (come facevano gli altri) i soccorsi dell'arte alla sua sposa affinché rinvenisse. Vedendo io il generale sconvolgimento della gente di casa mi avventurai di uscire, fossi o no per essere riconosciuto, con determinazione di dare, se mi avessero veduto, in sì straordinari eccessi che il mondo tutto venisse a conoscere lo sdegno che mi traeva fuor di me stesso per vendicarmi del perfido don Fernando, e nel tempo medesimo della incostanza di quella svenuta traditrice: ma la mia fatalità che mi tiene in vita per opprimermi di maggiori mali (se pur è possibile che di maggiori me ne possano accadere), dispose che in quel momento mi abbandonasse oltre misura il discernimento, che da poi ho perduto; e perciò senza prendere vendetta de' miei maggiori nemici (il che mi sarebbe facilmente riuscito mentre nessuno pensava a me), risolvetti di prenderla contro me stesso e di punirmi della pena debita degli altri. Determinai di essere più rigoroso nel gastigar me stesso, di quello che sarei stato contro di loro, se pure gli avessi uccisi, perché una repentina morte termina presto la pena, ma quella che si estende in molti tormenti, uccide continuamente senza però liberar dalla vita. Mi tolsi finalmente da quella casa, e recatomi presso colui che teneva in custodia la mia mula, la feci sellare, e senza dirgli addio salitovi sopra, uscii dalla città, non osando, come un altro Lot, di volgere la testa a mirarla. Quando mi vidi solo in campagna, al primo imbrunire della notte, la quale coll'oscurità e col silenzio m'invitava al pianto e alle querele, senza verun riguardo o timore di essere inteso e conosciuto, alzai la voce e sciolsi la lingua alle più forti maledizioni contro Lucinda e contro don Fernando, come se per tal modo potessi vendicarmi dall'offesa che mi aveano fatta. Chiamai Lucinda ingrata, menzognera, sconoscente, e sopratutto interessata, dacché l'opulenza del mio nemico le avea tanto accecato l'intelletto ch'ella sdegnò di esser mia per darsi invece all'uomo a cui la fortuna erasi mostrata più liberale. Pure in mezzo alle esecrazioni io andava cercando qualche sua difesa, dicendo a me stesso che non era a stupire se una giovane cresciuta nella casa paterna, accostumata mai sempre ad essere obbediente, si fosse lasciata piegare a compiacere altrui sposando un personaggio sì cospicuo, sì ricco, e fornito di sì gran nobiltà; mentre rifiutandolo, potea giudicarsi che le mancasse il discernimento e che portasse amore ad un altro; cosa che suol tornare in pregiudizio della buona opinione e della fama delle fanciulle. D'altra parte io diceva in contrario, che quand'ella avesse fatto sapere ch'io ero suo sposo, sarebbesi conosciuto che non avea poi scelto sì male da meritarsi castigo; mentre prima che se le fosse offerto don Fernando non poteano bramare certamente i suoi genitori (quando avessero bilanciati colla ragione i loro desideri) uno sposo di me più adatto alla loro figliuola. Io aggiungeva che ella stessa, prima di avventurarsi all'estrema necessità di dover dare la sua mano, avrebbe potuto dire che io le avea già data la mia, perché sarei allora volato a confermare per vera la sua finzione. Conchiusi finalmente che il poco amore, la inferma ragione, la molta ambizione e il desiderio di grandeggiare fecero che Lucinda si dimenticasse delle parole colle quali mi avea ingannato, trattenuto e sostenuto nelle mie speranze e nelle oneste mie brame. Sfogandomi a questo modo e con tanta perturbazione di animo ho viaggiato tutto il restante della notte, e sull'apparire del giorno mi trovai all'ingresso di queste montagne per le quali andai errando tre giorni senza direzione o strada prefissa di sorta alcuna, finché giunsi non so in qual parte di queste solitudini, in un prato, ed ivi domandai ad alcuni pastori quale fosse il recesso di queste balze più aspro e più solitario. Mi diressero eglino dove io loro avea chiesto, e mi v'incamminai risoluto di perdere la vita. Penetrando tra queste solitudini morì la mia mula di stanchezza e di fame, o, come credo più vero, per non voler sostenere più oltre il peso inutile di mia persona. Restai a piedi privo di forze, sfinito di fame senza curarmi di rinvenire chi mi porgesse soccorso, e mi rimasi non so per quanto tempo in tale situazione steso in terra senza più sentire bisogno di cibo. Alcuni caprai mi si accostarono e mi diedero senza dubbio da mangiare; ed istrutti dello stato in cui mi trovava, furono testimoni di tante e tanto strane pazzie da me dette e fatte, che mi giudicarono uomo fuori del senno. Io medesimo me ne sono convinto, poiché mi sento sì fiacco e pesto, e cado in eccesso di frenesia, stracciandomi i vestiti di dosso, mettendo le più alte strida tra questi deserti, maledicendo la mia trista ventura, e ripetendo invano l'adorato nome della mia nemica, senza mirare ad altro che a terminare i miei giorni con voci da disperato. Quando poi torno in me stesso mi trovo sì debole e rovinato che posso movermi appena. Io soglio abitare ordinariamente nella cavità di un sughero capace di questo mio misero corpo, e i vaccai e i caprai che scorrono queste montagne, mossi da spirito di carità, mi sostentano, lasciando qualche cibo sparso per le strade e pei massi dove suppongono che io possa passando trovarlo: e per tal guisa, benché mi manchi il giudizio, la naturale necessità mi fa conoscere il cibo, e mi fa nascere la volontà di prenderlo.

Altre volte, quando mi trovano in buon senno, essi mi narrano che io assalgo altrui per le strade e che tolgo le vivande forzatamente ai pastori che le portano dalle loro capanne, quantunque di buon grado volessero offrirmele. Passo in questa maniera la mia misera vita, finché piacerà al cielo di condurla al suo ultimo fine o di fare in modo che si cancelli in me la memoria della bellezza e del tradimento di Lucinda, e della offesa di don Fernando: che se ciò avvenisse mai mentre pur sono vivo, io tornerei a ragionar sensatamente; ma dove questo non sia possibile, non mi resterà che far voti al cielo perché abbia pietà di quest'anima, non sentendomi io tanto coraggio o forza di trarre il corpo da quelle angustie in cui di mio proprio volere l'ho posto.

Ecco, o signori, la storia dolente della mia disgrazia. Ditemi ora: si può ella narrare con minor dolore di quello che in me avete veduto? Ora non vi date punto fastidio o nel consigliarmi o nel persuadermi ch'io mi appigli a quel rimedio che la ragione potrebbe indicarvi come il più atto a guarirmi, ch'io ne trarrei quel profitto che può produrre una medicina ordinata dal medico ad un infermo che si rifiuta di prenderla. Non cerco salute senza Lucinda; e poiché piace a lei di essere d'altri, mentre è o dovrebbe esser mia, piacerà a me di essere vittima della sventura, quando avrei potuto vivere felice in sua compagnia. Ha voluto essa colla sua incostanza la perdita mia, ed io appagherò le sue brame procurando di perdermi; e sarà esempio ai posteri che a me solo mancò fin quello che rimane ai più grandi sventurati, ai quali suole recare alleviamento la impossibilità di ottenere l'oggetto amato; mentre anzi è per me sorgente di nuovi mali e di maggiori fatalità, perché io porto opinione che non si possa finirla neppure colla morte.”

Qui pose termine Cardenio al suo lungo ragionamento e alla sua tanto dolente quanto amorosa istoria. Mentre si disponeva il curato a dirgli alcuna parola di consolazione, tacer lo fece una voce che gli giunse all'orecchio, e che con espressioni di dolore diceva ciò che si leggerà nel seguente capitolo.


CAPITOLO XXVIII

 

RACCONTASI LA NUOVA E PIACEVOLE AVVENTURA
SUCCESSA AL CURATO ED AL BARBIERE NELLA MONTAGNA MEDESIMA.

 

Ho più volte pensato quanto dovettero essere felici ed avventurosi i tempi nei quali visse al mondo l'arditissimo cavaliere don Chisciotte della Mancia; il quale per aver presa l'onorata deliberazione di far rivivere tra le genti il perduto e quasi estinto ordine della errante cavalleria, è cagione che godiamo in questa nostra misera età di qualche lieto trattenimento, non solo gustando le dolcezze della sua verace istoria, ma ben anche i racconti e gli episodî che in quella s'incontrano, non men dilettevoli e complicati della istoria medesima: la quale, proseguendo ora il suo pettinato, torto ed innaspato filo, ci fa sapere che mentre il curato disponevasi a consolare Cardenio, gli tolse di farlo una voce venutagli agli orecchi: “Oh Dio! diceva, sarebbe possibile che io avessi trovato luogo che servir potesse di sepolcro al pesante carico di questo corpo che a mio dispetto sostengo? L'ho trovato sì; ché non può ingannarmi nelle mie speranze la solitudine di queste montagne. Ahi sventurata! quanto meglio d'ogni vivente mi faranno dolce compagnia queste balze per isfogare col cielo la sciagura che sì mi opprime. No, non vi è più sopra la terra persona da cui si possa sperare consiglio negli incerti eventi, alleggiamento nelle querele, e rimedio nei mali!” Il curato ed i suoi compagni udirono queste parole; e sembrando loro, com'era infatto, che non fosse lontano chi si lamentava, si misero tosto a cercarne; né andarono più che venti passi, ed ecco dietro un masso videro seduto a piè d'un frassino un giovane in abito di contadino, del quale non iscôrsero subito il volto, giacché teneva la testa bassa per lavarsi i piedi nelle acque di un ruscelletto ch'ivi scorreva.

Vi giunsero eglino sì chetamente che non furono da lui sentiti, né ad altra cosa quegli ponea mente se non al suo lavacro, discoprendo due piedi di tanta bianchezza che parevano pezzi di cristallo misti alle pietre sulle sponde di quel ruscello. Ne ammirarono la candidezza e la bellezza, sembrando loro che non fossero fatti per calpestar zolle, né per camminare fra l'aratro ed i buoi, come pareva richiedere l'abito di cui il giovane era vestito. Accortosi pertanto di non essere stato veduto, il curato che precedeva gli altri fece motto ai compagni che si mettessero in agguato, celandosi dietro un macigno ivi presso. Ciò tutti eseguirono, stando attenti ad ogni atto di quel garzone, il quale portava una piccola zimarra bigia con una cintura bianca ed un paio di calzoni larghi di panno nero, con una montera del panno medesimo. I suoi calzoni erano rimboccati su fino a mezzo la gamba che parea di alabastro. Terminato che ebbe di lavarsi i piedi, trasse un asciugatoio che teneva sotto la montera e se li asciugò; poi volendo sollevarsi dal volto i capegli, alzò la testa e scoperse una bellezza sì incomparabile, che Cardenio disse al curato con bassa voce: — Poiché non è Lucinda, non è questa nemmeno persona umana e pare divina. Il garzone si trasse la montera, e scuotendo la testa fece mostra di una pomposa treccia di biondi capelli, tale da movere invidia ai raggi del sole. Si avvisarono da tutto ciò, quello che parea un contadino dover essere invece una delicata fanciulla, e la più bella che avessero sino a quel punto veduta. Cardenio dichiarò ai suoi compagni che non altri fuori che questa incognita avrebbe potuto disputare la palma dell'avvenenza alla sua Lucinda. Bionde trecce non pur le coprivano le spalle, ma ondeggiavano per ogni banda, di modo che i soli piedi se le scoprivano: tali erano e tante! Adoprava per pettinarsi due mani che se i piè nell'acqua erano sembrati pezzi di cristallo, quelle pareano fiocchi di neve appena caduta: cose tutte che eccitavano nei tre astanti il più vivo desiderio di conoscere chi ella fosse. Si determinarono in fine di lasciarsi vedere; e nel movimento che fecero per rizzarsi, la vezzosa giovane sollevò la testa, e spartendo con le gentili sue dita i capelli sugli occhi che n'erano coperti osservò d'onde venisse il rumore. Non ebbe appena vedute quelle persone che balzò in piedi, e senza più badare a calzarsi, né a raccoglier le trecce, pigliando prestamente un involto che aveva dappresso, si mise a fuggire tutta turbata e confusa. Ma dopo appena sei passi tollerare non potendo le delicate sue piante l'asprezze delle pietre, cadde in terra; di che i tre amici volarono a darle assistenza, e il curato fu il primo a dirle: — Fermatevi, signora, chiunque voi siate, che noi tutti non siamo qui se non per assistervi; né vogliate fuggire per cagion nostra, poiché né lo potranno fare i vostri piedi, né potremo noi acconsentirvi.” A tutto ciò non rispondeva ella parola alcuna ma stava confusa ed attonita; se non che il curato fattosi più vicino e presala per la mano, proseguì dicendo: — Quello che la vostra povera veste vorrebbe celare, è scoperto dai vostri capelli che manifestano non essere lievi le cagioni che tanta bellezza nascosero sotto abito sì mal confacente, e che vi hanno trascinata in solitudini sì remote come è questa dove fu per noi gran ventura trovarvi, se non per rimedio dei vostri mali, almeno per darvi un qualche utile consiglio: ché niuna sventura tanto opprime o conduce a tali estremità (quando non manchi la vita) da non comportare un consiglio suggerito con purissima intenzione. Coraggio dunque, mia signora, o signor mio o quello che più vi piace di essere, calmate l'agitazione che vi ha prodotto il vederci, e partecipateci la vostra buona o trista fortuna, che in tutti noi uniti o in ciascuno di noi in particolare troverete soccorso alle vostre sventure.”

Mentre che il curato ragionava in tal modo, stavasene la travestita giovane come stupefatta, guardando ognuno di loro senza mover labbro o proferire parola; alla foggia di quel contadino il quale d'improvviso scorga cosa da lui per lo addietro né immaginata né vista. Ma ripigliando il curato a parlarle con nuove ragioni atte a poterla persuadere, in fine mandò essa un profondo sospiro, ruppe il silenzio e disse: — Poiché non giovò a celarmi la solitudine di queste balze, e i miei sciolti e scomposti capelli torrebbero fede ad ogni menzogna, inutile mi sarebbe fingere più oltre ciò che, quand'anche fosse creduto, lo sarebbe forse più per gentilezza che per altro rispetto. Dopo questo, o signori, io mi professo tanto obbligata alle offerte vostre che mi trovo costretta di soddisfare interamente alle domande che ora mi fate. Ho gran timore per altro che il racconto che sono per farvi, abbia da produrre in voi noia non meno che compassione, non essendo rimedio per sanare le mie afflizioni, né alleviamento per mitigarle; ma perché intanto non iscapiti la mia riputazione nel giudizio che potreste formare di me, vedendomi femmina giovine, sola, travestita, cose tutte le quali congiunte ed anche separate possono screditarmi, vi paleserò quanto avrei desiderato di non iscoprire ad alcuno.” Tutto questo fu detto dall'avvenente giovane con lingua così spedita, e con accento così soave, che gli astanti mirarono in lei non meno il suo discernimento che la sua bellezza: e venendole allora ripetute le richieste e le preghiere di affrettarsi a mantenere la sua promessa, ella senz'altro lasciarsi pregare, si rassettò le calze, con onesta disinvoltura, raccolse i capelli, si pose a sedere su di un sasso, e, fattosi cerchio de' tre viandanti, e sforzandosi di ritenere una lagrima che le spuntava dagli occhi, con chiara e riposata voce così cominciò la sua istoria:

“In quest'Andalusia vi è una terra da cui prende titolo un duca che è uno di quelli che fra noi si chiamano grandi. Ha questi due figliuoli, il maggiore erede del suo Stato, ed anche, a quanto sembra, de' suoi buoni costumi; ed il minore non so di che possa esser erede se non se dei tradimenti di Vellido e delle cabale di Galalone. Sono vassalli di questo potente i miei genitori, di basso lignaggio ma doviziosi per modo che se pari alla fortuna fosse il loro nascimento né resterebbe ad essi che desiderare, né io avrei temuto di trovarmi avviluppata nelle presenti mie sventure, le quali procedono dal non esser eglino di nobile stirpe. Veramente non è tanto abbietta la loro condizione da doversene vergognare, ma non è tanto alta da ingannarmi se credo che non d'altronde proceda la sciagura mia che dalla bassezza di questo loro stato. In sostanza sono eglino gente di villa e alla buona senza meschianza di alcuna razza sconveniente, e come suol dirsi, sono cristiani vecchi e stantii, e colle loro fortune e col loro buon tratto vanno ogni dì più acquistando credito di onoratissima gente e di non volgari persone. La ricchezza e la nobiltà, di cui facevano maggior conto, consisteva nel vantarsi ch'io fossi loro figliuola; e non avendo fuori di me in famiglia altri eredi, ed essendo genitori amorosissimi, potea risguardarmi come una giovane bene avventurata. Io era lo specchio in cui si miravano, il bastone della loro vecchiaia, l'unica meta dei loro voti, che per essere sempre santi e preziosi, venivano dal canto mio e colla grazia del cielo sempre assecondati. Per tale ragione come io signoreggiava sul loro cuore, così disponevo delle loro facoltà; da me riceveano legge i dipendenti; passava per le mie mani il conto del seminato e del raccolto; quello dei mulini, dell'olio e dei tini; quello del bestiame grosso e minuto; quello degli alveari e delle api; in fine io era la dominatrice di tutto ciò che può possedere un dovizioso abitatore delle campagne qual è mio padre; e ne avea egli sì grande soddisfazione che non la saprei significare con parole. Una parte della giornata, dopo avere ordinate le faccende dei mandriani e dei soprastanti, ed assettati altri affari, io la occupavo in esercizî convenienti alle donzelle, cucire, ricamare, filare; o se talvolta me ne astenevo, era per applicarmi alla lettura di qualche libro di divozione o per toccar l'arpa, addottrinandomi l'esperienza che la musica rimette gli animi scomposti e alleggerisce i mali dello spirito. Questo era il tenore di vita che io passava in casa paterna: che se esso da me vi è raccontato minutamente, nol fo già per ostentazione, né per farvi sapere che posseggo ricchezze e fortune, ma perché sappiate che senza mia colpa caddi da felicissimo stato nella miseria in cui mi vedete. Io conducevo dunque i miei giorni in tante e sì varie occupazioni, e in ritiro sì rigoroso che ben poteva agguagliarsi a quello di un monastero; perché non veduta, a quanto io credeva, da altri che dalle persone di casa, andavo ad ascoltar la messa assai di buon'ora, accompagnata da mia madre o da altre serventi; e tanto chiusa in me stessa, che vedevo appena quella terra ch'io calcava coi piedi. Ad onta di tutto questo gli occhi dell'amore, o della curiosità per dir meglio (ai quali non possono assomigliarsi quelli di lince) fecero che si volgesse sopra di me l'attenzione di don Fernando, figlio minore di quel duca da me poc'anzi menzionato.”

Non ebbe la narratrice pronunziato appena il nome di don Fernando, che Cardenio cambiò di colore in viso, e cominciò a sudare con alterazione sì grande, che il curato e il barbiere temettero in lui un accesso di pazzia, poiché già sapevano che soleva esserne assalito di tanto in tanto. Cardenio però non altro fece che trasudare e stette quieto, guardando senza battere palpebra la contadina, pensando chi volesse essere; ed ella, senza punto avvedersi dei moti di Cardenio, proseguì la sua istoria.

“Non mi ebbe Fernando quasi veduta, e tosto (secondo che ebbe egli a dire da poi) restò tanto preso di me quanto lo provarono le sue successive dimostrazioni. Voglio tacere le tante diligenze usate da lui per palesarmi la sua volontà. Subornò tutta la gente di mia famiglia; diede e offrì regali e favori ai miei parenti; si facevano feste, allegrezze ogni giorno lungo la strada dov'io abitavo; le serenate impedivano a tutti il sonno; innumerabili erano i biglietti che, senza saper come, mi giungeano alle mani e contenevano detti amorosi ed offerte, dove i giuramenti erano sempre in maggior numero delle parole. Io non mi sentivo però commossa e intenerita; anzi s'indurava il mio cuore come contro a mortale nemico: e quanto egli faceva per piegarmi a suo favore produceva in me un effetto contrario. Non mi offendeva però la gentilezza di don Fernando, e lungi dall'avere a sdegno le sue premure io provava non so quale soddisfazione nel vedermi amata e riputata a quel modo da sì gran cavaliere; né mi rincresceva di leggere le mie lodi nei suoi scritti; che per quanto noi altre donne manchiamo di bellezza, ci è però sempre di grande compiacenza il sentirci riputate per belle: non pertanto opponevasi a tutto l'onestà mia, aiutata da continui consigli dei miei genitori, che già conoscevano molto bene le intenzioni di don Fernando, il quale non avea omai più riguardo che il suo amore fosse a tutto il mondo palese. Mi dicevano che nella mia sola virtù stava l'onore e la riputazione loro; che considerassi quanta disuguaglianza era da me a don Fernando, e che avrei un dì conosciuto apertamente, come le intenzioni di lui, checché ne dicess'egli, erano volte assai più a contentare sé stesso che al mio vantaggio: che se io volessi mettere un valido ostacolo alle sue insidie, eglino mi avrebbero subito fatta sposa a chi mi piacesse, scegliendo un partito tanto fra i principali della nostra terra come fra i circonvicini, mentre questo non poteva mancare alle loro ricchezze ed alla mia buona riputazione. In forza di queste sicure promesse e delle verità che mi esponevano, io accrebbi la mia fermezza, né volli rispondere giammai parola che dar potesse a don Fernando la più lontana speranza di venire a capo delle sue brame. Tutte le precauzioni della mia vigilanza, interpretate da lui come spregi, furono altrettanti incentivi ad infiammare i suoi perversi desideri, ché altro nome non merita l'amore che fingeva di portarmi: il quale se fosse stato verace amore, non sarei ora qui a parlarvene in questo luogo. Seppe finalmente don Fernando che i miei genitori avevano divisato di maritarmi per fargli perdere ogni speranza di possedermi, o almeno perché io avessi più attente guardie per custodirmi: e questa nuova o questo sospetto fu la cagione che egli si determinasse a fare ciò che sono ora per narrarvi.

Standomi una notte nella mia stanza con una sola cameriera, senza che io sapessi immaginar il come, e ad onta di ogni riguardo e di ogni scrupolosa precauzione, nella solitudine e nel silenzio del mio ritiro me lo vidi comparire dinanzi. Riavuta ben tosto dallo stupore in cui mi fece cadere quell'improvvisa apparizione, mentre egli con dolci parole accompagnate da lagrime e da sospiri cercava di acquistar fede alle sue fallaci proteste d'amore, raccolsi gli smarriti miei spiriti, e con quanto coraggio era in me gli dissi: “Se come, o signore, mi trovo fra le vostre braccia, fossi tra le zanne di un fiero leone e non potessi liberarmene se non a condizione di far cosa contraria alla mia onestà, già non sarebbe possibile che io m'inducessi a commetterla. Sono vostra vassalla, non però vostra schiava: e tanto io stimo altamente me stessa, contadina ed umile, quanto voi potete stimarvi per essere signore e cavaliere. Tutto questo vi dico perché non isperiate mai di ottenere da me quella corrispondenza di affetto che è riserbata soltanto a colui che potrà esser mio legittimo sposo. — Se altro non brami, bellissima Dorotea (è questo il nome della sventurata che vi favella), se altro non brami disse lo sleale cavaliere, ecco che ti do la mano in pegno della solenne promessa di essere tuo, e ne chiamo in testimonio il cielo dinanzi al quale nulla si nasconde, e quella immagine santa di nostra Signora che hai qui da canto.”

Quando Cardenio intese ch'ella chiamavasi Dorotea cominciò a turbarsi di nuovo confermandosi nella prima sua opinione: ma non volle interrompere il racconto per vedere se concorreva con ciò che sapeva egli stesso; soltanto disse: — Che! Dorotea vi chiamate, o signora? Altre volte udii parlare di qualcuna che portava cotesto nome, e le cui sventure somigliavano molto alle vostre: continuate che a suo tempo udirete da me cose le quali vi recheranno non so se più meraviglia o dolore.” Dorotea pose mente alle parole di Cardenio ed ai suoi strani e laceri vestiti, e pregollo che se alcuna cosa sapesse della sua vicenda gliela partecipasse senza indugio, perché se la fortuna le avea lasciata qualche prerogativa era questa un cuore capace di sostenere qualunque nuovo disastro da cui fosse assalita. — Farete, o signora, soggiunse Cardenio, che non vi venga poi meno il coraggio quando vi dirò quello che penso, se sarà vero quanto ora suppongo: ma a ciò resta tempo; e a voi non può importare che io mi affretti a parlarne. — Sia pure ciò che si voglia, rispose Dorotea, io seguito la mia narrazione col dirvi che don Fernando recatasi in mano un'immagine santa che trovavasi nella mia stanza, la volle per testimonio dei nostri sponsali, e con parole efficacissime e con giuramenti straordinari protestò di essere mio consorte. Stette fermo nel proposto suo ad onta che fosse da me avvertito che badasse bene a quello ch'egli faceva, e ponesse mente allo sdegno che ne avrebbe suo padre quando sapesse che si fosse accasato con una villana sua vassalla; che non lo accecasse la mia qual si fosse bellezza, perché non bastava questa a scolparlo dal commesso errore, e che se bramava farmi alcun bene, per l'amore che mi portava, mi lasciasse correre un destino conforme al mio stato, perché i maritaggi disuguali non godono della pace, né durano lungo tempo con quella soddisfazione con cui cominciano. A tutte queste riflessioni altre ne aggiunsi delle quali non mi sovviene; ma non per questo egli desistette. Debbo però confessarvi che io cominciai poi a dire fra me: Veramente non sarei io la prima che per via del matrimonio fosse salita da basso ad alto stato; né don Fernando sarebbe il primo a cui o bellezza o prepotente affetto avesse fatto contrarre un maritaggio non confacevole alla sua grandezza. Pareami quindi che non fosse bene ostinarsi a rigettare quella grandezza che la fortuna mi offeriva, e alla quale don Fernando voleva legittimamente innalzarmi; mentre irritandolo con persistente ripulsa potevo espormi a pericolo molto grave. Vinta pertanto da queste considerazioni, e dalle preghiere e dai giuramenti che don Fernando veniva ripetendo dinnanzi all'immagine già detta, e col testimonio della cameriera, dichiarai di accettarlo come legittimo sposo. Sventurata! da quel momento parve che si spegnesse tutto l'ardore dell'animo suo. Il giorno che successe alla notte della mia miseria cominciò ad apparire, ma non tanto presto, quanto don Fernando bramava. Io dico questo perché si affrettò a lasciarmi sola: e mediante le arti della mia cameriera, la cui malizia le avea dato l'adito a entrare, prima del giorno uscì dalla mia stanza; non senza ripetere (benché non più con calore e coll'asseveranza di prima) i suoi giuramenti, in pegno dei quali mi lasciò un ricco anello che di sua mano mi pose in dito. Partì, ed io rimasi non so dire se mesta od allegra: so dire bensì che tutta io era confusa, pensosa e quasi fuori di me. Il tradimento di ricevere don Fernando nella mia stanza fu opera, come dissi, della mia cameriera; pur non ebbi allora il coraggio di rimproverarla, non sapendo decidere se bene o male fosse stato l'accaduto. Dissi a don Fernando che collo stesso mezzo potrebbe venire quando voleva a trovarmi, finché poi si potesse far pubblico il nostro matrimonio: ma egli non ritorno più, né mi fu dato di rivederlo, né in istrada, né in chiesa per oltre un mese in cui mi tenni occupata di questo solo pensiero, sapendo pure che egli trovavasi presso alla mia terra, e che il più dei giorni andava alla caccia; esercizio cui era sommamente affezionato. Furono affannosi ed infausti i giorni e le ore da me impiegate nelle indagini, e cominciai a buon diritto a temere della fede datami, ed a rimproverare la cameriera della sua temerità con parole da essa non prima intese. So quanto ebbe a costarmi l'infrenare le lagrime e il conservare il volto composto, affinché non mi chiedessero i genitori donde nascesse tanto mio rammarico, e non fossi costretta ad essere con loro menzognera. Ma un punto solo distrusse insieme colle speranze i riguardi e le circospezioni; e questo punto fu allora che si sparse per il paese la voce che don Fernando in una città vicino erasi fatto sposo ad una donzella bellissima, quanto si può mai dire, e di nobilissimi genitori, quantunque di fortune non tanto grandi da poter aspirare a sì nobile maritaggio. Fu detto che si chiamava Lucinda, e aggiunsero altre circostanze degne di maraviglia dalle quali fu accompagnato quell'imeneo.”

Udì Cardenio il nome di Lucinda, ed altro non fece che stringersi nelle spalle, mordersi le labbra, inarcare le ciglia, ed indi a poco lasciarsi cadere dagli occhi due fiumi di pianto, ma non si lasciò Dorotea per questo di proseguire il suo racconto dicendo: “Pervenne alle orecchie mie la novella, e invece di gelarmisi il cuore udendola, m'accese così gran collera e tal furore che fui tentata di andar per le strade pubblicando ad alta voce la slealtà e il tradimento di don Fernando; ma frenai per allora lo sdegno col proposito di operare in quella notte ciò che poi posi ad effetto; e fu d'indossare queste vesti cedutemi da un bifolco allevato in casa di mio padre, a cui resi nota interamente la mia sventura, pregandolo di accompagnarmi alla città dove io sperava di trovare il mio nemico. Dopo essersi egli molto opposto al mio ardito divisamento, vedendomi irremovibile, protestò che mi sarebbe compagno, com'egli disse, fino in capo del mondo. Raccolsi e rinchiusi subito in un involto di tela un abito di donna e qualche gioia e qualche danaro per tutto ciò che potesse accadere, e nel silenzio di quella notte e senza far motto alla cameriera traditrice, mi allontanai dalla casa paterna, accompagnata dal servo e da una folla di pensieri, mettendomi in viaggio a piedi, e portata a volo dal desiderio di giungere alla città, se non per distruggere ciò che credea già compito, per chiedere almeno a don Fernando con qual cuore si fosse condotto a sì nera azione. Vi pervenni in due giorni e mezzo, chiesi tosto contezza dei parenti di Lucinda; ed uno da me interrogato mi disse più di quanto avrei voluto sapere. M'indicò la casa di Lucinda; informandomi nel tempo stesso di ciò ch'era accaduto nel maritaggio di lei: cosa tanto pubblica nella città che in ogni circolo se ne parlava. Soggiunse che la notte in cui Fernando si fece sposo a Lucinda, dopo aver ella pronunziato il di essere sua sposa, era caduta in uno svenimento, e che essendole dallo sposo medesimo slacciate le vesti sul petto perché rinvenisse, vi trovò una carta scritta da lei stessa in cui dichiarava di non poter essergli sposa per aver già sposato Cardenio. Seppi che questo Cardenio era uno dei principali cavalieri della città, e che Lucinda pronunziò soltanto quel per non mancare di obbedienza ai suoi genitori. Infatti si disse che da quel biglietto appariva la risoluzione di lei di darsi la morte dopo le cerimonie degli sponsali, per certi motivi ch'essa allegava, aggiungendosi che la conferma di quanto avea scritto si ebbe nel ritrovarle ascoso fra le vesti un pugnale. Le quali cose tutte udite da don Fernando furon cagione che parendogli di essere stato deriso e sprezzato dalla giovane, si scagliasse egli medesimo contro di lei con quel pugnale prima ancora che rinvenisse; e l'avrebbe ferita se i genitori e gli altri circostanti non l'avessero trattenuto. Si disse ancora che don Fernando si tolse di là immantinenti, e che Lucinda non si risentì sino al giorno seguente, rendendo allora consapevoli gli autori della sua vita di essere realmente sposa di questo Cardenio da me nominato poc'anzi. Seppi in oltre che questo Cardenio, secondo che si diceva, era presente al maritaggio di lei con don Fernando, e che vedendola sposata (ciò che non avrebbe mai creduto), fuggì disperatamente dalla città, lasciando una lettera in cui dichiarava il torto fattogli da Lucinda e la sua determinazione di ritirarsi in luoghi lontani e rimoti dal commercio umano. Tutte queste cose erano sparse per la città, e ne parlava ognuno, e crebbero a dismisura i discorsi quando si seppe che Lucinda fuggita dalla casa paterna erasi allontanata dalla città, né sapevasi per dove avesse rivolti i suoi passi. Allora ogni speranza in me venne meno, e mi sembrò fortuna di non aver trovato don Fernando piuttosto che trovarlo ammogliato, parendomi di non veder chiusa del tutto la porta alla mia salvezza, e confidando che forse il cielo gli avesse impedito quel secondo matrimonio per richiamarlo al primitivo dovere e ricordargli ch'era cristiano e che aveva maggior obbligo all'anima sua che ai rispetti del mondo. Immersa in tetri pensieri io mi consolava senza vera cagione di conforto, nutrendo lunghe e vane speranze per sostenere una vita che già abborrisco.

Niuna ragione poteva rendere plausibile un mio più lungo soggiorno in quella città, poiché non mi veniva fatto di ritrovarvi don Fernando; e frattanto mi giunse all'orecchio un pubblico bando in cui promettevasi gran premio a chi mi rinvenisse, dando i contrassegni della età e del vestito medesimo che io portava. Intesi vociferarsi altresì che mi avea strappata dalla casa paterna il servitore che mi seguiva; il che mi punse nel più vivo del cuore, conoscendo allora quanto io aveva scapitato nella riputazione, poiché non contenti di ascrivermi a colpa la fuga di casa mia, immaginavano che ne fosse cagione un soggetto basso e indegno de' miei buoni pensieri. Altro non bisognò a persuadermi di lasciar tosto quella città in compagnia d'un solo servitore, il quale presto cominciò a farmi sospettare della fedeltà che mi aveva giurata. Entrammo in quella notte nel più folto di questi boschi col timore di essere sopraggiunti: ma un male chiama l'altro, come suol dirsi, ed il termine di una disgrazia spesso è principio di un'altra maggiore: e così a me successe; poiché il servitore ch'erasi fino allora conservato fedele e sicuro, quando mi vide in queste solitudini dove nessuno avrebbe potuto aiutarmi da lui, non si vergognò di tenermi tali parole delle quali fremo ancora e arrossisco. Il giusto cielo mi diede vigore per sostenere contro le sue vili impertinenze le mie giuste intenzioni; e quando egli mi si avvicinò risoluto di essere violento, poiché le finte preghiere non gli erano valse, con poca fatica e con lievi forze io lo feci cadere in un precipizio dove lo lasciai non so se morto o vivo; poi, con quella prestezza che una subita paura suol infondere, m'internai tra queste balze senz'altro pensiero o disegno che di ascondermi e di fuggire da mio padre e dalle mani di coloro che vanno cercandomi per comando di lui. Corrono non so quanti mesi da che vi sono, e qui trovai un custode di armenti che mi prese al suo servizio in un villaggio posto nel cuore di queste montagne, cui ho servito come bifolco durante questo tempo, procurando di starmene sempre tra i campi per celare questi capelli, che ora senza pensarlo mi hanno scoperta rendendo vana ogni industria ed ogni premura mia anche verso il mio nuovo padrone.

Avvedutosi anche costui che io non era uomo, diede ricetto nel suo cuore a quella stessa malvagia intenzione da cui era colto il mio primo servo: e non potendo liberarmi anche da lui come da quello, ho creduto in fine più savio partito celarmi di nuovo fra questi massi, e tornai ad inselvarmi ed a cercare senza opposizione di chicchessia di poter invocare con sospiri e con lagrime il soccorso del cielo alle mie disavventure affinché mi concedesse mezzo e favore onde sottrarmene. Sono disposta adesso a lasciare la vita fra queste solitudini sicché non rimanga memoria di una infelice che senza sua colpa avrà dato argomento che si parli tanto di lei e tanto si mormori sì nel suo che negli altri paesi.”

 


CAPITOLO XXIX

 

SEGUITA LA NARRAZIONE, ED INDI TRATTASI DEL GRAZIOSO ARTIFIZIO E DEL MODO USATO PER TOGLIERE IL NOSTRO INNAMORATO CAVALIERE DALLA SUA ASPRISSIMA PENITENZA.

 

“Tale, o signori, è la veridica istoria della mia tragedia: considerate, e giudicate ora se i sospiri che avete uditi, le parole che avete intese e le lagrime che scaturirono dagli occhi miei, potevano avere una legittima causa: e ponendo mente alla qualità della mia disgrazia, vedrete che riesce vana ogni consolazione, quando il male non abbia rimedio. Vi prego soltanto (ciò che potrete facilmente eseguire, e lo dovrete) di consigliarmi dove potrei passare la vita senza che mi opprima il timore e l'angoscia di essere colta da quelli che mi vanno cercando. Ciò da voi chieggo, perché quantunque io sappia che il grande amor che mi portano i miei genitori potrebbe rendermi sicura di essere da loro ben ricevuta, tanta però è la vergogna che mi assale pensando di presentarmi loro in modo tanto diverso della loro aspettazione, che reputo migliore partito fuggirne eternamente la vista piuttosto che trovarmi dinanzi a loro, sapendo che non ravvisano più in me l'impronta di quella illibatezza su cui dovevano riposare.”

Tacque dopo avere ciò detto, col volto acceso da un rossore che palesava ben chiaramente il sentimento e la vergogna che celava nel cuore. Le sue parole produssero in chi l'aveva intesa non so se più rammarico o maraviglia: e sebbene volesse il curato cercare di consolarla e darle consiglio, Cardenio lo prevenne dicendo. — E che, o signora? voi siete la bella Dorotea, l'unica figliuola del ricco Clenardo?” Restò maravigliata Dorotea nel sentir il nome di suo padre pronunziato da un uomo di sì bassa apparenza, e perciò gli disse: — Chi siete voi, fratello, cui è noto il nome del padre mio, mentre se mal non m'appongo, non so finora d'averlo palesato nell'intero corso del racconto di mie sventure? — Sono, rispose Cardenio, quell'infelice che, secondo le vostre parole, fu chiamato da Lucinda suo sposo: sono lo sventurato Cardenio ridotto a mal punto da colui che guidò voi pure in sì terribile fatalità: quello son io tratto da Fernando alla condizione che vedete, lacero, ignudo, spoglio di ogni umano conforto, e ciò ch'è peggio, coll'intelletto sì guasto, che appena di quando in quando mi concede il cielo di poterne far uso. Sì, Dorotea, quello son io che mi trovai presente alle ingiustizie di don Fernando, e aspettai quel con cui Lucinda promise di essergli sposa. Son io colui che non aspettai il successo dello svenimento, né ciò che derivar potesse dal foglio trovatole in seno. Come incapace di sopportare tante sventure congiunte insieme, uscii allora da quella casa lasciando una lettera al mio ospite che la facesse pervenire alle mani di Lucinda; e volai tosto tra queste solitudini deliberato di terminarvi la mia vita, che dopo quel momento io detesto come un nemico mortale. Non piacque alla sorte di appagare il mio desiderio, contentandosi di recare offesa al mio intelletto; forse per riserbarmi alla buona ventura d'incontrarmi in voi; poiché se è vero, come non dubito, tutto quello che raccontaste, potrebbe essere che ci riserbasse il cielo a qualche migliore avvenimento in compenso dei sofferti disastri. La mia speranza non è mal fondata; perché se Lucinda non può farsi sposa a don Fernando per essere mia, né don Fernando con lei per essere vostro, avendone essa fatta dichiarazione così solenne, possiamo ragionevolmente confidare di vederci restituito dal cielo ciò che è nostro e che non fu né alienato né distrutto. E poiché abbiamo ora questa consolazione fondata non già sopra vane speranze o sopra fantastici pensieri, vi supplico, o signora, di appigliarvi ad altre risoluzioni, giacché penso di così fare io pure attendendo fortuna migliore. Giuro in tanto in fede di cavaliere e di cristiano di non mai abbandonarvi finché non vi vegga unita a don Fernando; e se con sode ragioni condurre io non lo potrò al proprio dovere, prometto di usare della libertà che mi concede l'esser cavaliere, sfidandolo a giusto duello pel torto che vi usa (senza parlare delle offese ch'egli ha fatte a me pure, e delle quali lascio la cura al cielo); insomma io voglio essere in terra l'unico vostro soccorso.”

Ciò che disse Cardenio terminò di compiere la maraviglia in Dorotea, e non sapendo rendergli grazie convenienti a tanta offerta, volle gettarseli a' piedi. Non consentì Cardenio, e il curato rispose per ambidue, approvando il lodevole ragionare di Cardenio; e soprattutto pregandolo, consigliandolo, persuadendolo che se ne andassero uniti al suo paese, dove si sarebbe cercato rimedio alle cose delle quali eglino abbisognavano, e dove avrebbero potuto indagare di don Fernando, e pensare al modo di ricondurre Dorotea ai suoi genitori, ovvero di prendere que' partiti che fossero creduti più opportuni. Aggradirono Cardenio e Dorotea il consiglio, ed accettarono l'offerta amichevole. Il barbiere, ch'era restato sospeso e taciturno sopra quanto avea inteso, fece anch'egli il suo piccolo ragionamento, e si offerse con non minor cuore del curato a tutto ciò che valesse a servirli. Fece nel tempo stesso una breve narrazione della causa che colà li aveva tratti, e delle stranezze e delle pazzie di don Chisciotte, e come ne stavano attendendo lo scudiere ch'era andato a cercarlo. Allora Cardenio si ricordò come di un sogno, della quistione avuta con don Chisciotte, e la raccontò agli astanti senza saper loro spiegare qual motivo l'avesse prodotta. Stando in questi ragionamenti s'intese da lungi la voce di Sancio Pancia, il quale non avendoli rinvenuti dove li aveva lasciati, li chiamava altamente. Gli andarono incontro, e chiedendogli di don Chisciotte, fece egli sapere di averlo trovato coperto della sola camicia, spossato, pallido, mezzo morto di fame, sospirando per la sua signora Dulcinea; e che avendogli detto ch'ella gli comandava che di là si partisse per recarsi al Toboso dove lo stava aspettando, rispose ch'era deliberato di non comparire davanti alla sua bellezza, se non avea fatte prima prodezze tali che lo rendessero degno della sua grazia; e che se a ciò non avesse adempito, correva pericolo di non arrivare giammai ad essere imperatore, siccome era obbligo suo, e neppure arcivescovo, ch'era il meno a cui potesse aspirare; e perciò pensassero eglino al modo di trarlo da questa intricata situazione. Il curato rispose che non se ne pigliasse fastidio, mentre l'avrebbero essi fatto partire di là a suo marcio dispetto. Partecipò allora a Cardenio ed a Dorotea il divisamento suo per rimediare alla pazzia di don Chisciotte od almeno per ricondurlo al suo paese; e Dorotea che doveva in ciò avere gran parte, promise che senza dubbio avrebbe saputo e potuto sostener la persona di una giovane sventurata con più verità del barbiere; e che tanto più ciò le sarebbe agevole quanto che aveva seco i vestiti per comparire tale naturalmente. Soggiunse che a lei lasciassero l'incarico di fingere quanto fosse d'uopo all'oggetto, perocché avendo studiato molti libri di cavalleria, sapeva benissimo la condotta delle donzelle infelici quando chieggono favori ai cavalieri erranti. — Altro non abbisogna, disse il curato, se non che ci accingiamo all'opera; che senza dubbio la sorte ci si mostra favorevole, poiché d'improvviso a voi, signori miei, si è incominciato ad aprire una porta per rimedio alle vostre sventure, ed a noi si renderà facile il conseguire quello di cui abbisogniamo.” Trasse allora Dorotea dall'involto che seco avea una zimarra di ricco tessuto ed appariscente, ed un mantellino di seta verde; cavò da una cassetta un collare ed altre gioie con cui si adornò in un momento per modo che sembrava una doviziosa e nobil signora. Disse che avea recati seco quei monili, ed altri ancora, da casa sua per ciò che le potesse occorrere, ma che non ne avea fatto uso perché non erasele offerta mai un'opportuna occasione. Tutti rimasero soddisfatti della sua buona grazia, leggiadria e bellezza, riprovando assai don Fernando che avesse vilipesa una giovane di tanti pregi.

Quello che più di ogni altro fece le maraviglie fu Sancio Pancia, parendogli (come era realmente) di non avere veduto creatura più bella in tutto il corso della sua vita; e domandò al curato con viva premura che gli facesse sapere chi fosse quella sì rara signora, e che così andasse cercando per quei luoghi disabitati ed alpestri. — Questa bella signora, fratello Sancio, è, rispose il curato, per nulla dirne, l'erede per linea retta mascolina del gran regno di Micomicone, la quale viene a cercare del vostro padrone per domandargli un favore, ed è che le disfaccia un torto ossia un'offesa che le fece un gigante furbo; e si è questa principessa partita dall'interno della Guinea, chiamata dalla fama che rende celebre il vostro padrone per tutto il mondo. — Fortunata ricerca e felice ritrovamento, disse a tal punto Sancio Pancia, e più ancora se il mio padrone è avventurato a segno da disfare questa ingiuria e drizzar questo torto, ammazzando l'indegno gigante che dice vossignoria e lo ammazzerà in un fiato, sapete, quando non sia un qualche fantasima; perché il mio signore non ha sopra le fantasime alcuna podestà. Ma di una cosa fra le altre debbo supplicare la signoria vostra, signor curato, ed è che per distogliere il mio padrone dall'idea di farsi arcivescovo (di che temo molto) vossignoria lo consigli a sposarsi con questa principessa, e così si metterà fuori del caso di ricevere gli ordini arcivescovili; donde egli giugnerà facilmente ad essere imperatore, ed io al conseguimento di ciò che desidero. Io ci ho studiato sopra, ed ho veduto assai chiaramente e trovato che per nulla mi sta bene che il mio padrone divenga arcivescovo; perché io non sono fatto per la chiesa avendo moglie; e se mi trovassi costretto di andare ad ottenere dispense per campare mercé le rendite ecclesiastiche con questa benedetta moglie e figliuoli, sarebbe un non finirla mai più. Perciò, signore, il punto sta qui, che il mio padrone si mariti con questa donna, che non so finora come si chiami, e per questo non le dico il suo nome. — Si chiama, rispose il curato, principessa Micomicona, perché chiamandosi Micomicone il suo regno, è chiaro che il suo nome debba essere Micomicona. — Di ciò non vi è dubbio, rispose Sancio, perché ho veduti molti a prendere il nome e sopranome della terra in cui nacquero, chiamandosi don Pietro di Alcala, Giovanni di Ubeda e Diego di Vagliadolid; e lo stesso deve usarsi là nella Guinea, prendendosi le regine il nome dai loro regni. — Così debb'essere, disse il curato, e per quanto riguarda il matrimonio del vostro padrone, ci metterò del mio quanto posso.” Sancio rimase di ciò tanto contento quanto il curato era pieno di maraviglia della sua semplicità, e di vedere quanto aveva fitti nel capo gli stessi spropositi del suo padrone, dandosi perfino a credere fermamente che egli potesse diventare un imperadore.

Erasi messa intanto Dorotea sopra la mula del curato; e il barbiere s'era aggiustato al viso la coda di bue a foggia di barba, e raccomandarono a Sancio che li guidasse dove trovavasi don Chisciotte, avvertendo che non dicesse di conoscere il curato e il barbiere, perché da ciò dipendeva che il suo padrone diventasse imperadore.

Il curato però né Cardenio vollero andar con loro, affinché don Chisciotte non si richiamasse alla memoria la quistione avuta con Cardenio; e il curato perché stimò che la presenza loro fosse inutile affatto. Perciò li lasciarono andare innanzi ed essi gli andavano seguitando a piedi a poco a poco. Non lasciò il curato di avvertire Dorotea di quanto dovea fare, ed ella rispose che stesse di buon animo, perché eseguirebbe ogni cosa appuntino come esigevano ed insegnavano i libri di cavalleria. Avevano fatti appena tre quarti di lega quando scoprirono don Chisciotte fra certi intricati cespugli, ed era in quel momento vestito, benché non armato.

Tostoché Dorotea lo vide, avendole detto Sancio che quegli era don Chisciotte, diede fortemente di sprone alla mula, e la seguitò il ben barbato barbiere. Arrivata a lui, lo scudiere si gettò a terra, e andò a ricevere in braccio Dorotea, la quale smontando con molta disinvoltura corse tosto ad inginocchiarsi dinanzi a don Chisciotte; e benché egli tentasse con ogni sforzo di farla levare, essa senza muoversi così gli disse: — Non mi leverò di qua, o valoroso e bravo cavaliere, se prima la vostra bontà e cortesia non mi concede un favore, il quale ridonderà in onore e pregio della vostra persona, e a prò della più sconsolata e oltraggiata donzella che il sole abbia mai veduta; e se il valore del vostro braccio corrisponde al clamore dell'immortale vostra fama, siete obbligato a dare assistenza a questa sfortunata che da tanto lontani paesi viene all'odore del vostro celebrato nome, cercando rimedio alle sue dissavventure. — Io non vi farò veruna risposta, o bella signora, disse don Chisciotte, né sentirò cosa alcuna toccante le vostre vicende, finché non vi alziate da terra.— No, non mi alzerò, o signore, ripigliò la sconsolata donzella, se non mi concedete prima il favore che vi chieggo. — Ve lo concedo, e prometto di fare ogni cosa per voi, replicò don Chisciotte, quando non ne derivi danno o disonore al mio re, alla mia patria, ed a colei che tiene le chiavi di questo cuore e della mia libertà. — Ciò non sarà certamente, mio buon signore, soggiunse la giovane dolente.” Sancio frattanto disse piano piano all'orecchio del suo padrone: — Può la signoria vostra senza pensarvi concederle il favore che domanda, perché è cosa da nulla, trattandosi solo di ammazzare un gigantaccio; e questa che lo chiede è l'alta principessa Micomicona, regina del gran regno Micomicone di Etiopia. — Sia quale si vuol essere, rispose don Chisciotte, io farò quello cui sono obbligato, e ciò che mi detta la coscienza conforme alla mia professione; poi volgendosi alla donzella disse: — La vostra grande bellezza si alzi che io le concederò il favore che dimanderà. — Quello che richieggo si è, disse la donzella, che la magnanima vostra persona mi segua sul momento dove io sarò per condurla, e mi prometta di non impegnarsi in altra avventura, né in veruna domanda, finché non mi abbia vendicata di un traditore che contra ogni diritto divino ed umano mi usurpa il regno. — Replico che ve lo prometto, rispose don Chisciotte; e potete, o signora, da quindinnanzi dar bando alla malinconia che vi opprime, e fare che riprendano nuovo spirito e nuova forza le vostre illanguidite speranze, che con l'assistenza di Dio e mercé il valore del mio braccio voi vi vedrete presto restituita al vostro regno, e seduta sul trono del vostro antico stato, ad onta e a dispetto dei poltroni che vi si opponessero; e diasi tantosto mano all'opera, che dall'indugio, come si dice, nasce talvolta il pericolo.” La bisognosa donzella fece ogni sua possa per baciargli le mani; ma don Chisciotte, che amava di esser tenuto un ben creato e cortese cavaliere, non lo permise, la fece anzi alzare da terra e l'abbracciò con molta affabilità e bel costume; poi ordinò a Sancio che guardasse se erano ben assettate le cinghie a Ronzinante, e lo armasse sul fatto di tutto punto. Sancio calò giù l'armatura che a guisa di trofeo stava pendente da un arbore, e, riviste le cinghie, armò il suo padrone in men ch'io nol dico. Il quale vedutosi armato: — Andiamo, disse, nel nome di Dio a dar favore a questa alta signora.” Stavasene tuttavia ginocchioni il barbiere facendo ogni sforzo per trattenere le risa ed occupandosi con ogni studio a impedire che gli cadesse la barba: che se caduta gli fosse, andato sarebbe a vuoto il loro disegno lodevolissimo: e vedendo ch'era già concesso il favore, e che la diligenza di don Chisciotte andava accelerandone il compimento, levossi, e presa l'altra mano della sua signora, l'aiutarono in due a montare sulla mula. Don Chisciotte salì subito sopra Ronzinante, e il barbiere si rassettò sulla sua cavalcatura, restando Sancio a piedi, ciò che gli fece tornare in mente la dolorosissima perdita del suo asino; ma già tollerava ogni cosa pazientemente; perché se il suo padrone, come a lui pareva certissimo, era non pur sulla strada, ma prossimo a diventar imperatore, egli stava per accasarsi con quella principessa, divenendo per lo meno re di Micomicone. Gli dava un po' di fastidio il pensiero che quel regno fosse in terra dei Negri, e che i suoi vassalli dovessero essere tutti negri; ma poi nella sua fantasia trovò buon rimedio dicendo seco medesimo: — Che importa a me che i miei vassalli sieno negri? Io non avrò altra briga che quella di trasportarli sulle navi in Ispagna, dove potrò venderli e me li pagheranno a contanti, e con questi potrò comprarmi qualche titolo o carica con cui vivere riposatamente in tutto il corso della mia vita. Oh s'io dormissi e non fossi capace a un bisogno di vendere, per esempio, un trenta mila vassalli! Affé di Dio che li saprò metter a profitto come mi tornerà meglio: e sieno pur negri che io li farò diventar bianchi e gialli: vengano, vengano che io me ne lecco le dita.” Immerso in queste sue fantasie andava egli sì veloce e contento che non sentiva l'incomodo di camminare a piedi.

Stavansi Cardenio ed il curato ad osservare questi avvenimenti con attenzione tenendosi ascosi fra i cespugli, né sapeano come fare per accompagnarsi cogli altri nel viaggio. Ma il curato che era uomo che la sapea lunga, immaginò sul fatto come venire a capo dei suoi desideri. Egli trasse una forbice che portava in un astuccio, e tagliò con gran prestezza la barba a Cardenio, poi lo vestì con un suo cappotto bigio e un collaretto nero, restando egli in calze e farsetto. Compariva perciò Cardenio tanto differente da quello che pareva prima, che non avrebbe conosciuto più sé medesimo se si fosse guardato in uno specchio. Fatto ciò, quantunque gli altri avessero viaggiato nel mentre ch'ei si travestivano, giunsero facilmente sulla strada maestra prima di loro, perché le balze e i cattivi passi di quei luoghi facevano che camminassero più velocemente i pedoni che le persone a cavallo. In effetto presto si trovaron al piano appié della montagna, ed uscitone fuori anche don Chisciotte coi compagni, il curato si pose a mirarlo con molta gravità, come chi cerca di rammentarsi qualcuno e di riconoscerlo; e dopo averlo buona pezza osservato se gli fece incontro a braccia aperte, dicendogli con sonora voce:

— Sia il ben trovato lo specchio della cavalleria, il buon compatriotta don Chisciotte della Mancia, il fiore e l'esempio della gentilezza, la difesa e il rifugio dei bisognosi, la quinta essenza dei cavalieri erranti.”

Nel dire questo teneva abbracciato il ginocchio della gamba sinistra di don Chisciotte, il quale attonito di ciò che vedeva e sentiva dire e fare da quell'uomo, si pose a guardarlo con attenzione, e lo conobbe finalmente, restando come trasecolato a tal vista. Fece con gran forza per voler ismontare: ma il curato nol permise a niun modo, per lo che disse don Chisciotte:

“Me lo permetta vossignoria, signor curato, che non si conviene che io mi stia a cavallo quando se ne sta a piedi una sì rispettabile persona come la signoria vostra.

— Nol consentirò a patto alcuno, rispose il curato: se ne resti a cavallo la vostra grandezza, poiché a cavallo compie gloriosamente le maggiori imprese e avventure che siensi nell'età nostra vedute; ché a me, benché indegno sacerdote, basterà montare in groppa di una delle mule di questi signori che viaggiano colla signoria vostra, se però lo comportano, ed anche farò conto di cavalcar Pegaso o di mettermi sopra il daino o l'alfana cavalcati dal famoso Muzaracche, che stassene attualmente incantato nella gran caverna Zulema lontano assai poco dalla gran Compluto.

— Io non aveva posto mente a ciò, signor curato, replicò don Chisciotte, ma credo bene che la principessa mia signora comanderà per amor mio al suo scudiere che dia alla signoria vostra la sella della sua mula, poiché egli potrà accomodarsi sulla groppa, quando però la mula sia abituata a due cavalcatori.

— Credo che porterà, rispose la principessa, e immagino ancora che non abbisognerà domandarlo due volte al signor mio scudiere, ch'egli è sì gentile e costumato da non permettere che un ecclesiastico se ne vada a piedi quando può andare a cavallo.

— Così sia, rispose il barbiere, e smontando sul fatto offerse la sella al curato che accettò senza farsi molto pregare: ma volle la mala sorte che mentre il barbiere volea montar sulle groppe, la mula ch'era vetturina (e questo basta ch'era cattiva) tirò due calci all'aria sì impetuosi, che se avesse colto maestro Niccolò nel petto o nella testa, gli avrebbe fatto maledire l'ora in cui si era messo in traccia di don Chisciotte. Tale e tanta però fu la sua paura che stramazzò, e la sua barba si svelse: laonde per non essere scoperto fu presto a coprirsi la faccia con ambe le mani, e dolersi come se gli si fosser rotti i denti. Quando vide don Chisciotte quel gruppo di barba senza ganasce e senza che lo scudiere fosse per ciò insanguinato, disse:

— Viva il cielo che questo è un gran miracolo! gli fu strappata la barba dal viso come se l'avesse avuta posticcia!”

Il curato, scorgendo il pericolo di tutta la sua invenzione, affrettossi immantinente a raccorla colà dove maestro Niccolò era caduto, e mettendosi la testa di lui fra le gambe, gliela appiccò di nuovo, sussurrando certe parole che disse essere opportune da recitare all'uopo di attaccar barbe come si sarebbe veduto. Riattaccata dunque che la ebbe si discostò, e lasciò lo scudiere sì ben barbato e sano com'era prima, della qual cosa rimase don Chisciotte maravigliato oltre misura; e pregò il curato che a tempo e luogo gl'insegnasse le magiche parole, perché certamente la loro virtù doveva estendersi ad altri mali. Rispose il curato che così era per lo appunto; e promise che gli avrebbe insegnato questo ed altri segreti. Stabilirono dunque che cavalcasse il curato, e che poi ognuno si desse il cambio di tanto in tanto finché giugnessero all'osteria la quale trovavasi a due leghe di là.

Saliti tutti e tre a cavallo, cioè don Chisciotte, la principessa e il curato, restando Cardenio, il barbiere e Sancio Pancia a piedi, don Chisciotte disse alla donzella:

— La grandezza vostra, signora mia, mi conduca per la strada che brama.” E prima ch'ella desse risposta il curato soggiunse:

— Verso qual regno vuole guidarci la signoria vostra? Mi immagino verso il regno di Micomicone, poiché credo che non vorrà andare altrove, se io pure ho qualche intelligenza di queste cose.”

Dorotea che stavasene sull'avviso di tutto, comprese che avea da rispondere affermativamente, e perciò disse:

— Appunto, o signore, io debbo dirigermi verso quel regno.

— Se così è, disse il curato, fa di mestieri che attraversiamo la mia terra, e moverà per quella parte la signoria vostra prendendo la via di Cartagena, dove potrà imbarcarsi con la buona ventura: e se avrà prospero vento, mare tranquillo e senza burrasche, si troverà ella in poco meno di nove anni a vista del gran lago Meone, voglio dire Meotide, che giace distante dal regno della grandezza vostra poco più di cento giornate.

— Parmi, soggiuns'ella, che vossignoria si inganni perché non sono ancora due anni da che me ne sono partita, e ad onta che non abbia avuto la sorte di navigare con prospero vento, pur sono giunta a vedere ciò cui miravano le ardenti mie brame, il signor don Chisciotte della Mancia, le cui gesta maravigliose mi si resero note subito che ebbi posto il piede in Ispagna; e furono esse che m'indussero a farne ricerca per mettermi sotto le ali della sua protezione affidando la giustizia della causa al suo braccio invincibile.

— Basta, basta, cessino le mie lodi, disse a tal punto don Chisciotte, giacché son nemico dichiarato di ogni adulazione: e sebbene in questo vossignoria non mi aduli, nondimeno restano offesi i miei orecchi da somiglianti discorsi. Ciò di che posso assicurarvi, signora mia, si è che ad ogni costo io mi adoprerò a favorir la vostra causa, se anche ne andasse la vita; ma riservando ciò a miglior tempo, prego il signor curato che mi faccia sapere la cagione che a queste parti il condusse così solo, senza servitore, e con vestiti sì leggeri che al vederli io ne spasimo.

— Risponderò brevemente, disse il curato, perché saprà la signoria vostra, signor don Chisciotte, ch'io e maestro Niccolò, nostro amico e barbiere, che ce ne andavamo a Siviglia a riscuotere certo danaro mandatomi da un tal mio parente che da molti anni passò nelle Indie, e non erano meno di sessantamila pezzi duri, né sono bagattelle: ora sappia che passato ieri per questi luoghi quattro assassini ci assalirono spogliandoci di ogni cosa e perfino delle barbe, e ce le strapparono in modo che convenne metterne al barbiere una posticcia, e conciarono assai male anche questo giovinotto (ed accennò Cardenio) che qua vedete; ed il peggio si è che corre voce in questi dintorni, che quelli che ci assalirono furono galeotti, i quali quasi in questo medesimo sito furono liberati per opera di un uomo sommamente valoroso che li ha sciolti in onta al commissario ed alle guardie che li custodivano. Costui dovea certamente esser uomo privo di senno, o qualche furfante come loro, o una persona senz'anima e senza coscienza, poiché volle mettere il lupo nell'ovile, la volpe fra le galline, la mosca nel mele; e così frodare la giustizia, opporsi al re suo signore naturale, facendo fronte ai suoi giusti comandi, privare le galere delle braccia occorrenti, rimettere in movimento la Santa Ermandada, che da molto tempo se ne stava in riposo, e commettere in fine un'azione che tornerà a danno dell'anima sua ed a grave pregiudizio della sua persona.”

Avea Sancio fatta sapere al curato ed al barbiere l'avventura dei galeotti condotta a fine dal suo padrone con tanta gloria, e per questo andava il curato ripetendola con tratti ben forti per vedere ciò che ne facesse o dicesse don Chisciotte, il quale cangiavasi di colore ad ogni parola, né osava dire ch'egli era stato il liberatore di quella buona gente.

— Questi, conchiuse il curato, furono quelli che ci hanno assassinato; ma Dio perdoni a colui ch'è stato causa che non fossero strascinati al meritato supplizio.”

 


CAPITOLO XXX

 

DELL'ARTIFIZIO USATO DALLA BELLA DOROTEA CON ALTRE COSE PIACEVOLI E DI TRATTENIMENTO.

 

Le parole del curato non erano ancora finite, che Sancio disse: — Vi protesto da galantuomo, signor curato, ch'è stato il mio padrone che ha fatta questa bella prodezza, né mi giovò punto di dirgli e di ripetergli che badasse a quello che faceva, e che era peccato di dare la libertà ai galeotti, perché erano tutti condannati come grandissimi bricconi.” Disse allora don Chisciotte: — Non si appartiene per nulla a noi erranti cavalieri di investigare e conoscere se gli afflitti, incatenati ed oppressi ne' quali c'incontriamo, sieno tratti in quel modo, e si trovano in quelle angustie per delitti commessi od altrimenti; bensì è debito nostro di soccorrerli come bisognosi, guardando unicamente a quello che soffrono, e non alle furfanterie delle quali fossero macchiati e colpevoli. Io m'incontrai in un branco di gente tribolata e tapina, ed esercitai verso di essa quello che mi comanda la religione che professo: ci pensi chi ci ha da pensare, e a chi ciò sembrasse malfatto, salva la santa dignità del signor curato e la sua onorevole persona, dico ch'è un ignorante del debito di cavalleria, che mente come malnato, e che son pronto a provarglielo colla spada o come più gli tornasse a grado.” Ciò detto stringevasi le staffe, e già calava il morione, perché il bacino del barbiere, o com'egli diceva, l'elmo di Mambrino, lo portava appeso all'arcione per farlo racconciare dal maltrattamento che avea sofferto dai galeotti.

Dorotea che aveva intendimento e molto buon garbo, come quella cui era noto il pazzo umore di don Chisciotte, vedendo che tutti, non eccettuato lo stesso Sancio Pancia, si facevano beffe di lui, non volle essere a meno degli altri e gli disse: — Signor cavaliere, si rammenti la signoria vostra il favore che mi ha promesso: ella per essere fedele alla sua parola non dee occuparsi di altra avventura per urgente che sia; si calmi, ché se stato fosse a cognizione del signor curato che i galeotti ebbero libertà mercé quell'invitto suo braccio, avrebbesi fatto tre cuciture alla bocca e tre volte sarebbesi morsicato la lingua, anziché proferire parola che possa tornare in aggravio di vossignoria. — Giuro, disse il curato, che così saria passata la cosa, e piuttosto mi sarei anche pelata una delle mie basette. — Io la farò finita, signora mia, rispose don Chisciotte, rintuzzerò la giusta collera che già nel mio petto erasi concitata, e mi conserverò quieto e pacifico, finché abbia adempiuto con voi il contratto dovere: ma in compenso di tale mia determinazione vi supplico narrarmi se non vi dispiace, la vostra sventura, e quali e quante sieno le persone delle quali debbo darvi compita e intera satisfazione. — Lo farò ben volentieri, rispose Dorotea, quando però non v'infastidisca di udire un racconto di miserie e di sciagure. — “Ciò non può accadere, o signora mia, rispose don Chisciotte. E Dorotea soggiunse: — Poiché così è, mi prestino ora attenzione le signorie vostre.” Cardenio e il barbiere se le posero accanto desiderosi di udire come la giudiziosa Dorotea fingesse la sua istoria; e lo stesso fece Sancio che rispetto a lei vivea nell'inganno medesimo del suo padrone. Essa, dopo essersi bene assettata in sella, e premesso un poco di tossire con altri graziosi gesti, cominciò con molto bel garbo a parlare nella seguente maniera:

“Bramo prima di tutto che sappiano le signorie vostre, padroni miei, che il mio nome si è...” e qui s'interruppe un cotal poco per essersi dimenticato il nome che le avea posto il curato: ma egli fu pronto ad aiutarla dicendo: ­— Non è meraviglia, signora mia, che la grandezza vostra si turbi e s'imbarazzi nel racconto delle sue dissavventure; ché suole alcune volte accaderne di tali che tolgono la memoria a coloro che vengono da esse percossi, per modo che si dimentichino sino del proprio nome, come accade a vossignoria, la quale non si ricorda più che si chiama la regina Micomicona, legittima erede del gran regno di Micomicone; ma ora chiamata a sé stessa potrà la signoria vostra far tornare alla sua travagliata memoria tutto quello che ci vorrà raccontare. — Quest'è vero, rispose la donzella, e abbiate di certo che di qui innanzi non sarà duopo rammentarmi cosa veruna, perché io condurrò a buon termine la verace mia istoria. Proseguo intanto a dirvi che il re mio padre, che si chiamava Trinacrio il saggio, fu esperto assai nella così detta arte magica, per la quale previde che mia madre chiamata la regina Sciaramaglia doveva morire prima di lui, e ch'egli poco dopo sottoposto sarebbe alla stessa sorte, di maniera che io era destinata a restar orfana di padre e di madre. Il buon uomo non era tanto per questo travagliato, quanto per sapere infallantemente che uno smisurato gigante, signore di una grande isola quasi confinante col nostro regno, chiamato Pantafilando dalla Fosca Vista (giacché quantunque abbia gli occhi a suo luogo e dritti, guarda sempre al rovescio come se fosse guercio, e questo fa per ispaventare chi lo mira), quando avesse notizia della mia orfanezza invaderebbe con esercito poderoso il regno mio per appropriarselo tutto senza lasciarmi pur una terra dove ritirarmi. Giunse egualmente a sapere che io poteva sottrarmi da tanta sventura se avessi voluto accasarmi con lui, ma prevedeva che non avrei acconsentito a sì disuguale matrimonio, e in ciò disse il vero, perché neppure mi passò per mente di farmi sposa non solo con quel gigante, ma neppure con verun'altro per smisurato che fosse. Però mi diceva mio padre che dopo la sua morte, quand'io vedessi che Pantafilando cominciasse ad invadere il mio regno, mi astenessi da ogni difesa, perché era lo stesso che annichilarmi: che anzi gli lasciassi in pieno potere il regno se volevo sottrarre alla morte me e i miei buoni fedeli vassalli; giacché non era possibile difendermi dalla diabolica forza del gigante se non se dirigendomi in compagnia di alcuni fedeli miei verso le Spagne dove avrebbero avuto rimedio i miei mali, trovando un cavaliere errante, la cui fama in quel tempo sarebbesi dilatata per tutto questo regno, ed il quale dovea chiamarsi, se mal non mi oppongo, don Azote, o don Gigote. — Dovete dire don Chisciotte, signora, soggiunse a questo punto Sancio Pancia, o con altro nome il cavaliere dalla Trista Figura. — Questo è vero, ripigliò Dorotea: e disse anche di più, che dovea essere di alta corporatura, secco nel viso, e che dal lato destro sotto all'omero manco, e quivi accanto, aver dovea un neo bigio con certi peli a guisa di setole.” Don Chisciotte ciò udendo disse al suo scudiere: — Vien qua figliuolo Sancio, assistimi a spogliarmi, che voglio vedere se il cavaliere sono io da quel savio re profetizzato. — E perché vuole spogliarsi vossignoria? disse Dorotea. — Per vedere se ho cotesto neo ricordato da vostro padre, rispose don Chisciotte. — Non serve che vossignoria si spogli, disse Sancio, ch'io so benissimo ch'ella ne ha uno di questa fatta in mezzo al filo della schiena, ch'è segno di essere uomo forte. — Ciò basta, disse Dorotea; perché cogli amici non si deve cercare il pelo nell'uovo, e trovisi nell'omero o sulla spina poco importa: basta che il neo vi sia, e sia poi ove si vuole che tutto è una medesima carne. Il mio buon genitore senza dubbio colse nel segno appuntino, ed io non vado errata nel raccomandarmi al signor don Chisciotte, essendo l'uomo predetto dal padre mio, perché i segnali del viso vengono accompagnati dalla celebrità che vanta questo cavaliere non pure in Ispagna, ma eziandio per tutta la Mancia; perché appena sbarcata in Ossuna intesi a parlare di tante sue prodezze che il cuore m'indovinò lui essere quel desso ch'io andava cercando. — Ma come sbarcò vossignoria in Ossuna, domandò don Chisciotte, se non è porto di mare?” Prima che Dorotea rispondesse, il curato prese la parola e disse: — Dee la signora principessa aver voluto dire che sbarcò in Malaga, ma poi fu in Ossuna la prima volta che sentì parlare di vossignoria. — Così volli dire per l'appunto, soggiunse Dorotea. — E questo è credibile, soggiunse il curato; e ora prosegua la maestà vostra. — Non occorre che io dica altro, ripigliò Dorotea, se non che la mia sorte fu sì felice che mi avvenni nel signor don Chisciotte, ond'è che già mi tengo regina e dominatrice di tutto il mio regno, avendomi egli promesso per sua cortesia e magnificenza di venir meco dovunque lo condurrò: né sarà altrove che a fronte di Pantafilando dalla Fosca Vista, perché lo uccida, e mi faccia restituire ciò che m'ha usurpato contro ogni diritto: e cederà tutto ciò come desideriamo, essendo questa la profezia del savio Trinacrio mio buon padre, il quale lasciò scritto altresì in lettere greche e calde, che io non so leggere, che se questo cavaliere della profezia dopo aver tagliata la testa al gigante volesse farsi mio sposo, io lo accettassi senza replicare parola, dandogli il possesso del mio regno congiuntamente a quello della mia persona. — Che ti sembra, amico Sancio? disse don Chisciotte a tal passo; l'odi tu? non tel diss'io? noi già abbiamo un regno da comandare, e una regina da fare nostra sposa. — Così è veramente, soggiunse Sancio, e sarebbe un gran furfante quello che non facesse un tal matrimonio subito dopo aver tagliate le canne della gola al signor Pantafilando. Cospetto! forse che la regina non è bella? Così fossero tutte le pulci del mio letto!” Nel dire questo spiccò due salti di allegrezza, poi corse a tenere per le redini la mula cavalcata da Dorotea; fattala fermare si buttò ginocchioni dinanzi a lei, supplicandola che le porgesse la mano per baciargliela in prova che già la teneva per sua regina e signora.

Chi poteva tra gli astanti trattenersi dal ridere vedendo la pazzia del padrone e la dabbenaggine del servitore? Dorotea gli porse la mano, promettendogli di farlo gran signore del suo regno quando le si concedesse tanto bene dal cielo, e ne potesse godere. Sancio rese grazie con tali e tante espressioni che fecero rinnovare universalmente le risa. “Questa, o signori, seguitò poi Dorotea, è la mia istoria, né altro mi resta a dirvi se non che di tutta la gente che trassi meco dal regno mio, altri non mi rimase che questo barbato scudiere, perché si annegarono gli altri per una gran burrasca che ci colse a vista del porto. Egli ed io prendemmo terra, si può dire per miracolo, sopra due tavole dell'infranto legno; e miracolo e mistero può ben chiamarsi il corso della mia vita, come avete sentito. Se in qualche parte del mio racconto mi avete trovata noiosa o di poco buon garbo, incolpatene, come ben disse il signor curato al principio della mia narrazione, gli straordinari e non interrotti travagli che tolgono la memoria a chi li patisce. — Non toglieranno però a me, alta e valorosa signora, disse don Chisciotte, la memoria di affrontare, come ho promesso, in servigio vostro i pericoli, per grandi e inusitati che sieno; e vi confermo nuovamente quanto promisi, e giuro di seguitarvi sino in capo al mondo, purché arrivi a cimentarmi col vostro nemico cui, coll'assistenza del cielo e di questo mio braccio, troncherò la superba testa con questa che non voglio dir buona spada, poiché Gines Passamonte m'ha rubata la mia.” Queste ultime parole le pronunziò fra' denti, e proseguì poi: — Dopo di aver recisa quella testa e posta voi nel pacifico possedimento del vostro Stato, sarete libera di disporre della vostra persona come vi sarà più in grado; perché avendo io impegnata la memoria, prigioniera la volontà, perduto l'intendimento per quella... ed altro non dico: no, non è possibile ch'io volga il pensiero a maritaggi neppure per sogno, quando anche fosse con l'unica Fenice.” Parve a Sancio sì male ciò che da ultimo disse il suo padrone del non voler pigliar moglie, che montato in gran collera alzò la voce e disse: — Giuro per Satanasso, che vossignoria, signor don Chisciotte, non ha un'oncia di cervello. Com'è possibile ch'ella rifiuti di accasarsi con sì alta principessa come si è questa? Suppone ella forse che la fortuna le possa offrire ogni quarto d'ora di simiglianti venture? è forse più bella la signora Dulcinea? No per certo, nemmeno per metà, e sto quasi per dire che non è degna di baciare le scarpe a questa che ci sta ora davanti. Se vossignoria vorrà pescare tartufi nel mare andrà in fumo la contea che aspetto: eh! si mariti, si mariti sul fatto, faccia il diavolo quel che sa fare, acchiappi questo regno che le viene a bocca baciata da vobis vobis, e quando è diventato re mi faccia marchese o contestabile, e poi crepi chi avrà invidia del nostro bene.” Don Chisciotte sentendo proferire sì grosse bestemmie contro la sua signora Dulcinea non poté tollerare; ed alzando il lancione, senza rispondere a Sancio una sola parola, e senza dirgli questa bocca è mia, gli diede due sì forti bastonate che il poveretto stramazzò quanto era lungo, e se Dorotea con un grido non lo pregava di trattenersi, lo avrebbe sicuramente lasciato morto. — Pensi tu, gli disse poi, manigoldo villano, di potermi a tuo talento mettere le mani davanti, e che il tuo ufficio sia sempre quello di offendermi ed il mio di perdonarti? Non farti a crederlo, vigliacco scomunicato, che tale ben sei per avere oltraggiato la senza pari signora Dulcinea. Non sai, zotico e ad un tempo furbo e bifolco, che io non varrei nemmeno contro una pulce se colei non infondesse valore al mio braccio? Dimmi volpone della lingua di vipera, e chi pensi tu che abbia guadagnato questo regno, tagliata la testa a questo gigante, e te fatto marchese (che tutto questo lo do per faccenda bella e finita) se non se il volere di Dulcinea, servendosi del mio braccio per istrumento delle sue imprese? Essa combatte in me, in me riporta vittoria; ed io vivo e respiro in lei, e da lei mi viene vigore ed assistenza. Ah furfante! ah ingrato! ecco di qual maniera poiché ti sollevai dalla polvere e ti vidi diventato signore titolato, corrispondi a chi ti imparte i benefizi!”

Non era Sancio così malconcio da non sentire ciò che gli diceva il padrone; però alzandosi alla meglio si pose dietro al palafreno di Dorotea, e di là si fece a rispondergli: — Favorisca dirmi vossignoria: se ella ha deliberato di non pigliare per moglie questa gran principessa, è così evidente che non diverrà padrone del suo regno: e non essendolo che favori mi potrà mai impartire? Questo è il mio dolore: eh! si faccia sposo alla prima con questa regina, ora che l'abbiamo qui come piovuta dal cielo; e poi chi le impedisce di non poter tornare alla signora Dulcinea? poiché vi debbono pur esser stati nel mondo dei re che tennero questo modo: e quanto poi alla bellezza, non dico parole, ma se ho da confessare il vero, mi sembrano belle ambedue, tuttoché io non abbia veduta per anco la signora Dulcinea. — Come, disse don Chisciotte, fellone bestemmiatore? Non mi hai tu recato testé una sua ambasciata? — S'intende, rispose Sancio, che non ho avuto agio di conoscerne i pregi particolarmente e a puntino; però nel suo tutt'insieme mi par bella. — Ora ti compatisco, disse don Chisciotte, e ti chieggo scusa del dispiacere che ti ho fatto; ma non è in potere degli uomini il raffrenare i primi movimenti. — Questo lo veggo pur troppo, rispose Sancio; e in me il primo movimento è sempre quello di chiacchierare, e non posso intralasciare di far sentire quanto mi viene sulla lingua. — Con tutto ciò, rispose don Chisciotte, guarda, o Sancio, come parli; perché tante volte torna la gatta al lardo che... di più non dico. — Ho inteso, rispose Sancio; ma il signore vede gl'inganni, e sarà giudice di chi farà maggior male, o io nel non parlar bene, o vossignoria nel non operarlo. — Basta così, disse Dorotea: or via, Sancio, baciate la mano al vostro padrone, chiedetegli scusa, e siate quind'innanzi meglio avvertito nell'impartire le vostre lodi ed i vostri biasimi; né dite male della signora Dulcinea del Toboso, che non conosco se non per dichiararmele serva, e poi abbiate fidanza in Dio che non vi mancherà uno stato da vivere da principe.” Se ne andò Sancio a capo chino a dire a don Chisciotte che gli porgesse la mano; ei gliela stese con molta gravità, e, presala, la baciò e, baciata che la ebbe, don Chisciotte gli diede la sua benedizione, ordinandogli di appartarsi alcun poco con lui per conferire d'importantissimi affari. Obbedì Sancio, e condottisi in disparte ambedue, don Chisciotte gli disse: — Da poi che ritornasti non ebbi agio di chiederti di molte particolarità intorno all'ambasceria da te eseguita; ma giacché la sorte ci offre tempo e luogo, non mi toglierai tu il bene che dee in me derivare dalle novelle felici che sarai per darmi. — Domandi vossignoria ciò che brama, rispose Sancio, che saprò dare principio e fine a ogni cosa; ma la supplico, signor mio, di non essere da qui innanzi tanto vendicativo. — Perché dici tu questo, o Sancio? gli domandò don Chisciotte. — Lo dico, rispose, perché le bastonate or ora ricevute sono più per la quistione che il diavolo suscitò fra noi due nella scorsa notte, che non per quello che dissi in offesa della signora Dulcinea, ch'è da me amata e venerata come una reliquia, benché tale non sia, ma per la considerazione ch'ella è cosa tutta affatto della signoria vostra. — Non torniamo, disse don Chisciotte, a cotali cimenti che m'inquietano; io ti ho perdonato frattanto, e sai bene che si suol dire: a nuovo peccato nuova penitenza.”

Mentre si trattenevano in questi discorsi videro venir per la strada da loro battuta un uomo portato da un asino, e quando fu vicino sembrò loro che fosse un zingaro: ma Sancio Pancia, che al solo vedere asini sentiva fuggirsegli l'anima dagli occhi, appena vide quell'uomo, e subito riconobbe esser egli Gines di Passamonte, e dal filo dello zingaro ritrovò il gomitolo del suo asino, ch'era quel desso cavalcato da Passamonte; il quale per non essere conosciuto e poter vendere l'asino, erasi travestito da zingaro, il cui linguaggio e altre molte cose sapea, come se fosse derivato da quella schiatta. Lo vide Sancio e il conobbe, e non lo ebbe appena adocchiato e riconosciuto, che sclamò: — Ah Ginesiglio ladrone! rendimi la mia gioia e il mio vanto, abbandona il mio asino, lascia il mio bene, fuggi, scappa malandrino, restituisci la roba che non è tua.” Non vi era d'uopo di tante parole né di tante ingiurie, poiché Gines alla prima smontò, e pigliando un trotto che molto somigliava ad un andar di carriera si allontanò e sparve in un baleno dagli occhi di tutti. Sancio si avvicinò al suo asino, ed abbracciandolo strettamente gli disse: — Come stai, ben mio, asino degli occhi miei, compagno mio?” e con questo lo accarezzava e lo baciava proprio come avrebbe potuto baciare una persona. L'asino stava cheto e lasciavasi baciare ed accarezzare da Sancio senza rispondere alcuna parola. Intanto arrivò tutta la brigata, e ad uno ad uno tutti fecero a Sancio le congratulazioni più vive per aver ritrovato il suo asino, e don Chisciotte specialmente, il quale gli disse che non per questo annullava l'ordine dei tre poledri, della qual cosa gliene rese Sancio vivissime grazie.

Mentre questi due fra loro s'intertenevano disse il curato a Dorotea ch'ella aveva spiegata molta bravura sì nella narrazione come nel farla sì breve, e nell'averla configurata sul modello dei libri di cavalleria. E la giovine rispose che molti di quei libri avea letti per passatempo, ma che ignorava del tutto dove fossero le provincie ed i porti di mare, che perciò avea detto a capriccio di essere sbarcata in Ossuna. — Me ne accorsi, replicò il curato, e perciò entrando a parlare per voi tutto ho aggiustato. Ma non è ella strana cosa a vedere quanto facilmente questo sventurato cittadino si beve tutte queste invenzioni e menzogne, solo perché veston lo stile e la somiglianza delle scempiaggini contenute ne' libri suoi? — Sì, disse Cardenio; è cosa tanto singolare che volendo inventarla non so quale ingegno sarebbe sì acuto da trovare ed ordire così bene tante singolarità. — V'ha anche di più, disse il curato; che dalle semplicità in fuori dette da questo cittadino nelle materie della sua pazzia, negli altri propositi la discorre con sodi ragionamenti, e mostra di avere un intendimento chiaro e a portata di tutti, di maniera che se non gli toccano le sue cavallerie non vi sarà chi nol tenga per un uomo sensato perfettamente.”

Intanto che andavano trattenendosi in siffatti discorsi, proseguì don Chisciotte i suoi, e disse a Sancio: — Lasciamo, amico Pancia, ogni risentimento fra noi, e rappacifichiamoci, e dimmi ora senza amarezza o rancore di sorta alcuna: dove e come trovasti tu Dulcinea? che faceva? che le hai tu detto? che ti ha risposto? che cosa notasti nel suo sembiante alla lettura della mia lettera? chi te l'ha copiata? Aggiungi quel più che nel caso presente è degno di sapersi e di domandare per esserne soddisfatti: il tutto senza bugie o menzogne per compiacermi, e senza omissioni che mi possano dispiacere. — Signore, volendo io dire la verità avete da sapere, rispose Sancio, che nessuno mi ha copiata la lettera perché io non portai lettera alcuna.” — Ed è per lo appunto come tu dici, soggiunse don Chisciotte, perché il libro delle memorie dove la scrissi lo trovai presso di me due giorni dopo la tua partenza; di che provai un'amarezza grandissima, non sapendomi figurare come tu potessi regolarti utilmente trovandoti senza lettera; ed ho sempre supposto che te ne saresti tornato addietro per averla.” — Così avrei fatto, rispose Sancio, se non l'avessi avuta a mente per la lettura che me ne fece vossignoria; di modo che la recitai ad un sagrestano che me la copiò dalla testa parola per parola, soggiungendomi che in tutto il corso della sua vita, benché avesse vedute lettere amorose, non ne aveva udito né letto una tanto pregievole come quella. — L'hai tu, disse don Chisciotte, tuttavia presente alla memoria? — No, signore, rispose Sancio, perché recitata che la ebbi, vedendo che ad altro non poteva servire me la sono dimenticata; e se qualche cosa me ne ricordo, egli è quello della tramenata, voglio dire della sovrana signora; e l'ultimo: “vostro fino alla morte il cavaliere dalla Trista Figura,” e in mezzo a queste due cose vi ho posto più di trecento “anime, vite e occhi miei.”

 


CAPITOLO XXXI

 

DEI PIACEVOLI RAGIONAMENTI CHE SEGUIRONO TRA DON CHISCIOTTE
E LO SCUDIERE SANCIO PANCIA CON ALTRI SUCCESSI.

 

Tutto questo non mi dispiace, proseguì don Chisciotte. Ma ci arrivasti? e in che si occupava quella regina della bellezza? Certamente tu la trovasti intenta a infilzare un vezzo di perle, o a ricamare qualche impresa d'oro per questo cavaliere suo prigioniero. — La ho trovata, rispose Sancio, che vagliava del grano in una corte di casa sua. — Fa conto, disse don Chisciotte, che i granelli di quel frumento toccati dalle sue mani diventano altrettanti grani di belle perle. Ponesti ben mente, o amico, se il grano fosse del gentile o del grosso? — Era ravanese, rispose Sancio. — Io ti accerto, disse don Chisciotte, che vagliato dalle sue mani avrà dato pane del più saporito: ma andiamo innanzi. Quando le presentasti la mia lettera la baciò ella? se la mise sopra la testa? fece qualche singolare dimostrazione degna di tanta lettera? Di' su: come si è contenuta nel cerimoniale?

— Quando io stava per presentargliela, rispose Sancio, era ella molto incalorita a dimenare quella parte del grano che era restata nel vaglio e mi disse: “Mettete, amico, quella lettera sopra a quel sacco, non ho tempo di leggerla finché non abbia terminato di vagliare tutto il grano che qua vedete. — Prudente signora! disse don Chisciotte; ciò fece per aver campo di leggerla a suo grand'agio, e di prendersene consolazione. Continua frattanto, o Sancio, e rispondimi: Mentre compiva siffatte faccende quai colloqui passarono fra lei e te? quali dimande ti fece sul conto mio? e tu che le rispondesti? non indugiare; dammi notizie di tutto, né omettere alcuna benché menoma circostanza. — Nulla mi ha ella domandato, disse Sancio; ma le feci sapere ben io in qual modo vossignoria stava facendo penitenza per servigio di lei: ignudo dalla cintura in su, passeggiando nell'interno di queste montagne come uomo salvatico, dormendo sulla nuda terra, senza mai mangiare un boccone a tavola apparecchiata, senza mai farsi radere la barba, piangendo e maledicendo la sua fortuna. — Errasti, lo interruppe don Chisciotte, nell'asserire ch'io malediceva la mia fortuna; che la benedico anzi, e la benedirò in tutto il corso della mia vita, avendomi fatto degno di amare una sì alta signora, come è Dulcinea del Toboso. — È vero, rispose Sancio: ella è tanto alta che in fede mi sorpassa d'un buon palmo. — E che è questo, Sancio? disse don Chisciotte: ti misurasti forse con lei? — Appunto, rispose Sancio; e ciò feci allora quando aiutandola a mettere un sacco di grano sopra un asino, ci accostammo tanto che ho potuto riconoscere ch'ella era oltre un palmo più grande di me. — Ma dimmi: non è egli vero, replicò don Chisciotte, che ella accompagna la sua alta statura coll'ornamento di mille milioni di grazie dell'animo? Non mi negherai, o Sancio, una cosa: quando ti trovasti sì accanto a lei non sentisti un odore sabeo, una fragranza aromatica; un non so che di prezioso che non saprei distinguere con nome suo proprio, ma che pure si ravvicina a quell'olezzo e a quell'odore che si sente nella bottega di un elegante profumiere? — Quello che so dire, rispose Sancio, si è che io le ho sentito un tanfo di pesce secco: e questo proveniva dall'essere molto sudata, e tanto che le grondava giù un succidume piuttosto puzzolente. — Questo è impossibile, rispose don Chisciotte, ma forse che tu eri allora infreddato o mandavi cattivo odore tu stesso; perché io so benissimo la fragranza che getta quella rosa tra le spine, quel giglio dei prati, quell'ambra liquefatta. — Può darsi tutto questo, rispose Sancio, perché molte volte mi accorgo che mando da per me quel tanfo istesso che mi è parso allora che provenisse dalla signora Dulcinea; né è da maravigliarsi che un diavolo somigli ad un altro. — Or bene, disse don Chisciotte, e quando terminò di vagliare il grano e di mandarlo al mulino, che fece dopo letta la lettera? — Non la lesse, rispose Sancio, perché disse che non sapeva né leggere né scrivere anzi la stracciò in minutissimi pezzi, dicendo che non la volea dare a leggere a chicchessia, affinché non si divulgassero i suoi segreti per lo paese, e che le bastava quanto avea da me inteso riguardo all'amore che le porta vossignoria, e alla penitenza che sta facendo per lei. Mi ordinò finalmente che le dicessi che le baciava le mani, che avea voglia molto maggiore di vederla che di scriverle; e che perciò lo supplicava e gli comandava che, vista la presente, senza indugiare un momento, si partisse da queste brutte montagne, né facesse altre pazzie, ma si avviasse subito al Toboso, sempre che non la ritenessero affari di somma importanza, perché avea gran desiderio di vedere vossignoria. Le dirò che le scapparono molte risa quando intese che ella si chiama il cavaliere della Trista Figura; ed avendole io chiesto se erasele presentato il Biscaino da lei malconcio, mi rispose che sì, e che lo ha riconosciuto per un uomo molto dabbene; e la stessa dimanda le feci riguardo ai galeotti, ma mi assicurò che fino a quel punto non erano comparsi. — Tutto finora cammina a dovere, disse don Chisciotte; ma dimmi per vita tua: di quale gioia ti fece dono quando prendesti da lei commiato in ringraziamento delle nuove che di me le recasti? Sai che è costumanza usitata fra i cavalieri e dame erranti di regalare agli scudieri, alle donzelle o ai nani che recano novelle delle loro signore, o alle dame quelle dei loro cavalieri, qualche ricca gioia in attestato di aggradimento delle loro ambascerie.

— Può essere che sia così, disse Sancio, ed io tengo questa per buona usanza; ma la osservarono forse nei tempi antichi, mentre ora si usa regalare invece un pezzo di pane e di formaggio, e questo fu il donativo che mi porse la signora Dulcinea dalle muraglie della corte quando le annunziai che io voleva partire; ed anche per maggior contrassegno le dirò ch'era formaggio pecorino. — Ah, essa è liberale estremamente! disse don Chisciotte: e se non ti diede un gioiello d'oro sarà ciò derivato per non averlo alle mani, ma ci è sempre tempo, e quando la vedrò io farò in modo che ti regali quanto ho detto. Ma sai tu, Sancio, di che sono io adesso trasecolato? Del tuo andare e tornare quasi per aria, poiché non hai impiegati tre interi giorni tra l'andata e il ritorno da qui al Toboso, ch'è la distanza di trenta leghe, di maniera che io debbo supporre che quel savio negromante che veglia sopra le cose mie, e mi è amico, e senza la cui attenta e continua assistenza io non potrei mai riuscire buono e perfetto cavaliere errante, non avrà mancato di prestarti in tutto il viaggio grandi soccorsi senza che punto te ne avvedessi. Vi hanno dei savî che prendono un cavaliere errante addormentato nel proprio letto, e senza sapere il come e il donde, egli trovasi poi lontano nella seguente mattina più di mille leghe dal luogo dove si mise a passar la notte: o se così non fosse non potrebbero i cavalieri erranti assistersi vicendevolmente nei loro pericoli come fanno ogni giorno. Occorre talvolta che uno stia nelle montagne dell'Armenia combattendo con qualche dragone o con qualche fiera fantasima o con qualche esimio cavaliere, ed avendo la peggio nella battaglia trovasi al punto di morte; ma quando meno sel crede, eccoti comparire portato da una nuvola o da un carro di fuoco qualche altro cavaliere amico venuto in poche ore dall'Inghilterra; e aiutato da lui, resta libero dalla morte, e trovasi la notte in casa a lieta e gradita cena; eppure erano distanti l'uno dall'altro ben tremila leghe; ma tutto ciò si opera per via della industria e dell'arte di questi savî incantatori che hanno in custodia cavalieri sì valorosi. Per tutte queste cose io non ho, Sancio mio buono, veruna difficoltà a credere che in sì breve spazio di tempo tu sia andato e tornato di qua al Toboso, e ripeto che indubitamente qualche savio dee averti fatto viaggiare per aria senza che tu te ne sia accorto.

— Così debbe essere andata la faccenda, disse Sancio, perché in fede mia Ronzinante marciava come si fosse stato l'asino di un zingaro, e pareva che avesse l'argento vivo negli orecchi.

— E come ne aveva dell'argento vivo! disse don Chisciotte, e aggiungivi ancor una legione di demonï, che sono genti che marciano e fanno marciare senza stancarsi mai. Ma lasciamo tutto questo da parte: che ti sembra ch'io debba ora fare rispetto al comando di Dulcinea di andarla a vedere? Perché sebbene io conosca da per me stesso che sono in obbligo di obbedire al comando, veggo però che mi si rende impossibile l'adempierlo a cagione del favore che promisi a cotesta principessa che con noi si accompagna, e le leggi di cavalleria vogliono ch'io attenda alla data parola piucché al mio gusto particolare. Da una parte mi stimola e tormenta il desiderio di vedere la mia signora; d'altra parte sono forzato e chiamato dalla promessa fede e dalla gloria che mi riprometto da questa impresa. Miglior partito sarà ch'io mi dia la più gran fretta nel viaggio; così raggiungerò subito questo gigante, e troncatogli al mio arrivo il capo, e posta la principessa nel possesso del suo regno, darò volta subito subito per condurmi a vedere il bel sole che illumina i miei sensi; e farò tali scuse che sarà tenuta per buona ventura la mia tardanza, vedendo che ogni cosa torna in aumento della gloria di Dulcinea; perché quanto ho conquistato, sono per conquistare, e conquisterò col mezzo dell'arme nel corso della mia vita, tutto io riconosco dal favore che la mia buona signora m'imparte, e dall'essere io cosa sua.

— Ah poveretto me! disse Sancio: quanto male la pensa vossignoria! Mi dica, signore, si propone ella dunque di fare inutilmente un sì gran viaggio, e di trascurare e perdere l'occasione di un sì ricco e nobile matrimonio com'è questo, la cui dote è un regno? E non riflette ella che a quanto intesi dire è un regno di più di ventimila leghe di circuito, abbondantissimo di tutte le cose necessarie alla vita umana, e più esteso e cospicuo dei regni del Portogallo e della Castiglia congiunti insieme? Taccia per amor del cielo; si vergogni di ciò che ha detto; accolga il mio consiglio, mi perdoni e si mariti nel primo luogo dove si trovi il curato, ed anzi lo faccia qui, che abbiamo appunto il curato il quale potrà sposarla a suo piacere. Avverta che io sono in età da poter dare dei buoni consigli, e che qui cade a proposito quello che dice: meglio un passero in mano che una grue nell'aria; e s'altri ti dà l'anello, tu porgi il dito.

— Tu mi consigli al maritaggio, rispose don Chisciotte, perché io divenga re, ucciso che abbia il gigante e quindi possa darti il promesso guiderdone; ma ti dico che senza ammogliarmi potrò soddisfare con somma facilità al tuo desiderio, e prima di accingermi alla battaglia, farò che sia sottoscritta una convenzione per cui, riuscendomi la vittoria, mi si conceda una parte del regno da poterla dare a chi più mi piace; ed in tal caso a chi vuoi tu che io la doni se non a te?

— E chi ne dubita? rispose Sancio: ma avverta la signoria vostra di sceglierla vicina al mare, perché se non mi piacesse il soggiorno io possa imbarcare i miei negri vassalli, e valermene come ho detto; e non si prenda ella per ora veruna briga di andar a vedere la signora Dulcinea, ma si accinga all'impresa di dare la morte al gigante, e concludiamo quest'affare, dal quale in fede mia v'è da sperar grande onore e profitto.

— Certamente, o Sancio, disse don Chisciotte, che tu dici il vero, e bisognerà che mi appigli al tuo consiglio di seguitare cioè la principessa prima di vedere Dulcinea. Ti avverto però di non fare parola a chicchessia, e nemmeno a quelli che sono con noi di ciò che abbiamo discusso e conchiuso; perché si vede che Dulcinea stassene riguardata a modo da non volere che si rendano palesi i pensieri suoi; e quindi sarebbe assai male che io ovvero altri in vece mia, li scoprisse.

— Ma come dunque, replicò Sancio, la signoria vostra ordina ai vinti dal valore del suo braccio che vadano tutti a mettersi innanzi alla signora Dulcinea, aggiungendo alle sottoscrizioni del suo nome che la ama e che è il suo innamorato? e di più perché trova ella necessario che coloro che ci vanno debbano porsi in ginocchio dinanzi a lei, e significarle che si recano per comando di vossignoria ad offrire servitù, non restando in questo modo nascosi i pensieri di ambedue gl'innamorati?

— Quanto sei semplice! disse don Chisciotte: non ti avvisi tu, Sancio, che tutto ciò ridonda a suo maggior esaltamento? Hai da sapere che nel nostro ordine di cavalleria è grande onore per una dama avere molti cavalieri erranti che la corteggiano, senz'altra intenzione che di dedicarle servitù, perché essa è quella che è, e senza sperare altro compenso dei molti e retti desiderî se non che degnisi di accettarli per i suoi cavalieri?

— Questa maniera di amare, disse Sancio, è propria soltanto (per quanto intesi alla predica) dell'amore che si dee portare a Dio per sé solo, senza badare a speranza di bene o timore di danno; benché io mi contenterei di servirlo ed amarlo per qual si fosse cagione.

— Non ho mai veduto un villano più furbo di te, disse don Chisciotte, perché tu m'improvvisi alle volte certi ragionamenti che pare proprio che tu li abbia studiati.

— Eppure in fede mia, io non so nemmeno leggere, rispose Sancio.

In questa mastro Niccolò li chiamò ad alta voce, perché aspettassero un poco, volendo i compagni fermarsi a bere ad una fontana ivi trovata. Don Chisciotte si fermò, e n'ebbe Sancio grandissimo piacere per vedersi liberato dalla necessità di dire tante bugie col timore di poter essere scoperto dal suo padrone; perché quantunque gli fosse noto che Dulcinea era una contadina del Toboso, non l'aveva egli però mai veduta. Erasi frattanto Cardenio vestito dell'abito che Dorotea portava indosso la prima volta in cui fu scoperta: non molto ricco a dir vero, ma tuttavia migliore de' cenci dai quali egli era prima coperto. Si assisero tutti presso alla fonte, e con quello che il curato seco recò dalla osteria soddisfecero assai parcamente alla fame.

Nel tempo che ivi si trattenevano, passò un ragazzo il quale facendosi a guardarli ad uno ad uno con grande attenzione, di lì a poco si accostò a don Chisciotte, ed abbracciandogli le ginocchia si mise a piangere dirottamente dicendo:

— Ah signor mio! non mi ravvisa la signoria vostra? mi osservi bene che io sono quell'Andrea servitore che fu da lei liberato dall'arbore a cui stava legato.” Don Chisciotte lo riconobbe, e prendendolo per la mano e rivoltosi ai circostanti si mise a dire:

— Perché comprendano le signorie vostre quanto importa ch'esistano al mondo cavalieri erranti che disfacciano i torti e gli insulti fatti dai temerarî e malvagi, sappiano che passando io per un bosco negli scorsi giorni intesi certe grida come di persona afflitta e bisognosa. Accorsi all'istante, spinto dal mio dovere, a quella parte da cui mi pareva che uscisse un lamento, e trovai legato a una quercia questo ragazzo che ora mi compiaccio di poter mostrare, perché sarà testimonio di quanto dico, incapace di mentire in verun modo. Ripeto che stava egli legato a una quercia ignudo dal mezzo in su, ed un villano, che poi seppi essere il suo padrone, gli dava non poche frustate con le redini di una cavalla. Nol vidi appena che gli domandai la causa di sì atroce procedere, e colui mi rispose che lo conciava a quel modo, perché essendo suo servitore gli mandava a male siffattamente le sue robe da tenerlo per ladro piuttosto che per disattento. Disse allora il ragazzo:

— Signore, egli non mi frustava per altro che per avergli domandato il mio salario.

— Il padrone, continuò don Chisciotte, soggiunse non so quali sue parole o discolpe che quantunque da me intese, non furono ricevute per buone. In fine lo feci slegare ed ho obbligato il villano a condurlo seco ed a pagarlo un reale sopra l'altro profumatamente. Non è egli vero tutto questo, figliuolo Andrea? Notasti tu con quale impero io comandai, e quanto umilmente promise il tuo padrone di fare quanto gl'imposi? Rispondi, non turbarti, non dubitare; racconta il successo a questi signori, affinché si vegga e si consideri quanto giovi che vi abbiano dei cavalieri erranti lungo le grandi strade.

— È verissimo tutto ciò che ha detto la signoria vostra, rispose il ragazzo; ma la fine poi dell'affare fu tutto al rovescio di quello ch'ella s'immagina.

— Come al rovescio? replicò don Chisciotte: non fosti pagato da quel villano?

— Non solo non mi ha fatto alcun pagamento, soggiunse il ragazzo, ma in vece, poiché la vide uscita del bosco e restammo soli, mi tornò a legare alla medesima quercia, e mi diede di nuovo tante frustate che restai un san Bartolommeo scorticato. Ad ogni sua frustata aggiungeva per maggior scherno: “Va a chiamare ora il tuo gran cavaliere” quasi beffandosi di vossignoria, e colla aggiunta di parole sì spropositate che ne avrei riso io pure se non avessi sentito sì gran dolore. In sostanza mi acconciò di maniera che dovetti stare finora in uno spedale per farmi curare; della qual mia disgrazia la signoria vostra ha tutta la colpa, perché se avesse seguitato il suo cammino, e non fosse venuto dove non era chiamato, né si fosse frammesso nei fatti altrui, il mio padrone sarebbesi contentato di darmi una o due dozzine di staffilate, avrei avuto il pagamento di tutto ciò che mi doveva, e sarei rimasto in libertà: ma perché vossignoria si pose senza titolo ad oltraggiarlo, e lo villaneggiò inconvenientemente, così lo prese la più fiera collera, e non potendola sfogare sopra di lei, quando si vide solo, scaricò sul mio dosso tanta tempesta che non sarò più buono a cosa alcuna se vivessi mille anni.

— Il male è proceduto, disse don Chisciotte, dall'essermi tolto di là prima che colui t'avesse pagato compiutamente, dovendomi bene esser noto per inveterata sperienza che nessun contadino mantiene la parola quando vegga che l'adempierla non fa al caso suo: ti sovverrà per altro, o Andrea, che giurai di andarlo a cercare per ritrovarlo, quand'anche fosse stato nel ventre di una balena, se non ti avesse pagato.

— Questo è verissimo, replicò Andrea, ma non mi giovò uno zero.

— Or ora vedrai, disse don Chisciotte, quanto importasse quel giuramento; e nell'atto stesso si alzò all'infretta ordinando a Sancio di mettere la briglia a Ronzinante che stava pascolando mentr'essi mangiavano.” Dorotea gli domandò che cosa pensasse di fare: ed egli rispose che volea andar a cercar conto di quel villano per castigarlo della sua temerità, e fare che pagasse Andrea fino all'ultimo maravedis, a dispetto ed a vergogna di quanti villani si trovassero al mondo. Essa allora gli fece riflettere che nol potea fare, dovendo egli mantener la promessa di non frammettersi in veruna impresa se non avea prima compìta la sua, e sapere meglio di ogni altro che tanta collera andava raffrenata sino al ritorno dal suo regno.

— È vero, è vero, rispose don Chisciotte, ed è perciò necessario che Andrea tolleri fino al mio ritorno come voi dite, o signora; ma gli giuro e prometto di nuovo che non mi darò più pace, finché io non lo abbia vendicato e fatto pagare.

— Io non mi curo di questi giuramenti, disse Andrea, e vorrei piuttosto aver danari per fare il viaggio sino a Siviglia che quante vendette si possono fare al mondo: mi dia, se lo può, qualche cosa da mangiare, e resti in pace vossignoria con tutti i cavalieri erranti, che faccia Dio che possano errare verso sé medesimi, come hanno errato verso di me.” Sancio cavò dalla sua saccoccia un pezzo di pane e un altro di cacio, e dandoli al ragazzo gli disse:

— Prendi, fratello Andrea; noi tutti sentiamo compassione della tua disgrazia.

— Come ci avete dunque parte anche voi? disse Andrea.

— Questa porzione di pane e di cacio che ti do presentemente, disse Sancio, sa il cielo quanto mi può costare; perché tu devi sapere, amico, che noi altri scudieri di cavalieri erranti andiamo soggetti a molta fame, a molti malanni, ed a qualche altra cosa che si sente molto meglio che si dica.”

Andrea tolse il pane ed il cacio, e vedendo che altro non gli davano, abbassò la testa e si mise, come suol dirsi, la via tra le gambe. Nell'atto di partirsi disse a don Chisciotte:

— Signor cavaliere errante, se un'altra volta mi trova, quand'anche mi vedesse fare in pezzi, per amor di Dio non mi aiuti, ma mi lasci col mio malanno, che non sarà mai tanto grande quanto quello che potrà provenirmi dai soccorsi di vossignoria.”

Volea alzarsi don Chisciotte a conciarlo per le feste, ma egli si mise a correre in maniera che a nessuno bastò l'animo di tenergli dietro. Svergognato sommamente restò don Chisciotte per la istoria di Andrea e durarono grande fatica gli astanti a trattenersi dal ridere per non vederlo dare nelle furie.

 


CAPITOLO XXXII

 

TRATTASI DI CIÒ CHE ACCADDE NELLA OSTERIA A DON CHISCIOTTE ED AI SUOI SEGUACI.

 

Levaronsi dopo aver terminato di mangiare, e montarono sulle loro cavalcature; e nel dì seguente senza che occorresse cosa alcuna degna di considerazione, giunsero all'osteria, con spavento e stupore di Sancio, il quale non poté fare a meno di entrarvi sebbene ciò fosse contro ogni sua volontà. L'oste, l'ostessa, la sua figlia e Maritorna vedendo arrivare don Chisciotte gli uscirono incontro a riceverlo con dimostrazioni di molta allegria ed egli corrispose loro con gravità e con apparenti segni di gratitudine. Ordinò che gli allestissero un letto, raccomandando che fosse migliore di quello dell'altra volta: al che l'ostessa rispose che se pagasse meglio di allora sarebbe servito da principe. Don Chisciotte soggiunse che così appunto farebbe; e però gliene allestirono uno più usabile nello stesso stanzone di prima, ed egli subito vi si coricò trovandosi tanto privo di forze quanto di buon giudizio.

Non erasi egli appena addormentato che l'ostessa si accostò al barbiere, e presolo per la barba gli disse: — Per la vita mia che voi non metterete più a profitto la mia coda per farvi la barba, e me la dovrete subito restituire.” Il barbiere non gliela voleva rendere benché ella la tirasse a sé: ma il curato gli disse che poteva dargliela, giacché non vi era più bisogno di quella finzione, potendo egli farsi vedere alla scoperta da don Chisciotte, col dirgli che quando fu spogliato dai ladri galeotti era venuto a rifugiarsi in quella osteria; e se domandasse dello scudiero della principessa, gli rispondesse che l'avea preceduta per avvisare i suoi sudditi che essa era in cammino alla loro volta, accompagnata dal comune liberatore. Allora il barbiere diede volentieri la coda all'ostessa, e gli altri restituirono quanto ella aveva loro prestato per conseguire la liberazione di don Chisciotte.

Tutta la gente dell'osteria fece le più alte maraviglie sì della bellezza di Dorotea, come della leggiadra figura del pastore Cardenio. Il curato ordinò che si apprestasse quanto avessero per cibarsi, e l'oste colla speranza di miglior paga allestì un conveniente desinare. Dormiva don Chisciotte frattanto, e si avvisarono di non isvegliarlo perché sarebbegli per allora più giovato il dormire che il mangiare. Sul finir del pranzo, essendo presenti l'oste, l'ostessa, sua figliuola, Maritorna, e quanti vi erano in quell'osteria, ragionarono intorno alle pazzie di don Chisciotte ed al misero stato in cui lo avevano ritrovato. Raccontò l'ostessa ciò che gli era avvenuto col vetturale, poi dando un'occhiata se a sorte eravi Sancio, e non lo vedendo, narrò per intiero l'istoria dello sbalzamento per aria colla coperta di che risero tutti moltissimo. Avendo poi detto il curato che i libri di cavalleria letti da don Chisciotte gli avevano guasto il cervello, soggiunse l'oste: — Non so come possa esser questo, perché in verità non avvi miglior lettura al mondo, ed io qui ne tengo due o tre con altre istorie che hanno data veramente la vita non pur a me solo ma ben anche a molti altri. Nei giorni di festa e alla stagione delle messi si raccolgono sul mezzogiorno molti segatori, fra i quali ve ne ha sempre qualcuno che sa leggere, e che ne prende uno, e noi gli facciamo cerchio in più di trenta, e ne stiamo ascoltando con gran piacere la lettura mandando al diavolo la malinconia. Posso dire di me, che quanto sento raccontare i terribili e furiosi colpi tirati da questi cavalieri, mi viene la frega di fare altrettanto, starei giorno e notte sempre ad udirli. — Ed io né più né manco, disse l'ostessa, ché non godo un'ora di quiete se non allora che voi ve ne state ascoltando queste letture, le quali vi tengono tanto assorto che dimenticate di borbottare. — Questo è vero, soggiunse Maritorna; e in fede mia che io ci ho il più gran gusto a sentire, per esempio, che un cavaliere e una dama riposano sotto un alloro. — E a voi che ne sembra, bella giovane? disse il curato rivolgendosi alla figlia dell'oste. — Nol so, o signore, rispose ella, in coscienza mia: io pure li sento leggere, e in verità ad onta che non li intenda ne provo diletto; per altro non mi vanno a sangue quei colpi che piacciono tanto a mio padre, ma m'interessano i lamenti dei cavalieri quando si trovano lontani dalle loro signore, e mi commovono fino a farmi piangere di compassione. — Di maniera che, buona giovane, disse Dorotea, se piangessero per cagion vostra, voi non indugereste ad apprestare loro il rimedio? — Non so quello che farei, rispose la ragazza, e posso dire soltanto che tra quelle signore ve ne sono alcune tanto crudeli che meritano dai cavalieri il nome di tigri, di leonesse ed altri siffatti. Dio buono! non so come possa darsi gente così spietata e di sì poca coscienza, che per non voler consolare un uomo di onore lo lascino morire o diventar matto, ed io non arriverò mai a capire perché facciano tanto le schizzinose: se le proposizioni dei cavalieri sono oneste si facciano con essi spose, ché questo debb'essere l'unico loro scopo. — Taci, disse l'ostessa, che tu ti mostri un po' troppo infarinata di tali faccende, e non si conviene alle donne saperne e parlarne tanto. — Non ho creduto, soggiunse la giovane, potermi dispensare dal rispondere poiché fui interrogata. — Orsù, signor oste, disse il curato, portatemi questi libri, che bramo vederli. — Oh! ben volentieri,” rispos'egli; ed entrando nella sua stanza cavò fuori una vecchia valigia chiusa con una catenuzza, ed aprendola vi trovò tre libri grandi ed alquanti fogli manoscritti di bel carattere e li portò tutti al curato. Il primo libro apertosi era Don Cirongilio di Tracia, l'altro Felice Marte d'Ircania, ed il terzo La Storia del gran capitano Gonzalo Fernandez di Cordova con la Vita di Diego Garzia di Parades. Quando il curato ebbe letto il titolo dei due primi, si volse al barbiere, e disse: — Qui ci vorrebbero la nipote e la serva del nostro amico. — Non importa, rispose il barbiere; ché so pur io gittarli in corte e metterli sotto il camino dove ci sarà un buon fuoco. — E che? vorrebbe forse vostra signoria bruciare i miei libri? disse l'oste. — Io brucierei, disse il curato questi due solamente, cioè quello del don Cirongilio e quello di Felice Marte. — Ma, replicò l'oste, sono forse questi libri eretici o flemmatici, che li volete abbruciare? — Scismatici dovete dire, soggiunse il barbiere, e non flemmatici. — Questo io voleva dire, replicò l'oste; ma se pur ne vuole vossignoria bruciare qualcuno, cada la scelta su quello del gran capitano o su quello di Diego Garzia, perché gli altri mi sono tanto cari che lascerei bruciare un figliuolo anziché permettere ch'altri desse alle fiamme alcuno di essi.

— Fratello, disse il curato, questi due libri sono bugiardi e pieni zeppi di spropositi e di chimere, laddove quello del gran capitano è storia vera, e racconta i fatti del Gonzalo Fernandez di Cordova che meritò per le sue molte e grandi imprese di essere chiamato da tutti il gran Capitano, sopranome celebre, luminoso e conveniente a lui solo. Quanto poi a Diego Garzia di Parades egli fu un cavaliere dei principali della città di Trusciglio nella Estremadura, guerriero valorosissimo e dotato dalla natura di tanta forza che fermava con un sol dito la ruota di un mulino nella sua maggiore furia; e postosi con uno spadone in mano all'ingresso di un ponte impedì ad un esercito innumerabile l'andare innanzi, e fece in oltre tali altre prodezze, che se in vece di scriverle egli stesso colla modestia di chi parla di sé, altri le avesse scritte senza verun riguardo e da uomo disappassionato, avrebbero oscurato quelle degli Ettori, degli Agilli e dei Rolandi. — Oh ella è pur bella, disse l'oste, e voi fate le maraviglie perché fu ritenuta una macina da mulino col dito? Legga, per Bacco, la signoria vostra ciò che ho letto io medesimo di Felice Marte d'Ircania, che con un solo manrovescio tagliò per mezzo cinque giganti, come se fossero stati di ricotta, o come tanti di quei fratini che fanno i ragazzi di baccelli o di fave fresche. Un'altra volta assalì un grandissimo e poderosissimo esercito, composto di un milione e seicentomila soldati, armati tutti da capo a piedi, e li sbaragliò, e li fece fuggire tutti come tante mandre di pecore. E dove lasciamo noi il buon don Cirongilio di Tracia? Fu sì animoso e valente che navigando, come leggesi nel libro della sua istoria, per un fiume, ed essendo uscito dall'acqua un drago di fuoco, nol vide egli appena che gli saltò in groppa, e gli strinse con ambedue le mani la gola per modo che sentendosi il drago in procinto di essere strozzato, non trovò altro scampo che piombare al fondo del fiume strascinando seco il cavaliere che non per questo si volle staccare da lui: e quando poi furono abbasso egli si trovò in un palazzo e in un giardino sì vago ch'era maravigliosa cosa a vederli; ed ivi il drago si trasformò in un vecchio decrepito, da cui tali e tante cose gli furono dette che non si potrebbero sentire di più. Deh non si opponga vossignoria, ché se ella leggesse queste imprese impazzirebbe per lo piacere; e venga il canchero al gran Capitano e al signor don Diego Garzia.”

Dorotea ciò udendo, disse a Cardenio con voce sommessa:— Manca poco al nostr'oste di fare a seconda parte di don Chisciotte. — A me pure sembra così, rispose Cardenio; perché agl'indizî che ci porge, egli tiene per indubitato che quanto raccontano quei suoi libri, sia stato né più né meno come vi è scritto, né tutti i predicatori del mondo gli farebbero credere il contrario. — Badate bene, fratel mio, tornò a dire il curato, che non vi furono al mondo giammai né Felice Marte d'Ircania, né don Girongilio di Tracia, né gli altri cavalieri dei quali trattano i libri di cavalleria, tutti composti e immaginati da oziosi cervelli, intenti solo, come voi stesso diceste, a dare passatempo agli sfaccendati, quali sono i vostri segatori quando li leggono. Io vi giuro con asseveranza che mai non furono al mondo siffatti cavalieri, né si diedero mai cotali prodezze e tali spropositi. — A me non si vendono lucciole per lanterne, come io non sapessi quanti diti ha una mano, o dove mi duole la scarpa; e non si creda la signoria vostra d'ingannarmi perché, viva il cielo, so distinguere il nero dal bianco. è ben singolare ch'ella voglia persuadermi che il contenuto di questi buoni libri sia un impasto di menzogne, quando sono belli e stampati con licenza dei signori del Consiglio reale; come se quelle fossero persone da permettere che si stampassero tante battaglie, tanti incantesimi e tante bugie da far perdere il giudizio. — Io già vi ho detto, replicò il curato, che ciò si fa ad oggetto di dare trattenimento ai nostri oziosi pensieri, e nello stesso modo che si permettono nelle ben regolate repubbliche i giuochi degli scacchi, di pallacorda e del trucco per passatempo di quelli che non vogliono, non debbono, o non possono lavorare: e per questa stessa ragione si permette la stampa di tali libri, stimando, com'è di verità, che non possa darsi uomo di sì crassa ignoranza che tenga per veritiera alcuna delle istorie che vi si leggono. Se mi fosse poi lecito e mel concedesse chi adesso mi ascolta, io direi ciò che dovrebbero contenere i libri di cavalleria per essere buoni e per riescire di piacere e di profitto ad un tempo: spero però che potrò una qualche volta conferire con chi trovasi in caso di rimediarvi; e frattanto credete, signor oste, a ciò che vi ho detto; prendetevi i vostri libri, pensateci voi per ciò che vi si appartiene alla verità od alle bugie che contengono che buon pro vi faccia; e voglia Dio che non camminiate sul piede su cui cammina il vostro ospite don Chisciotte. — Oh questo poi no, rispose l'oste, ch'io non sarò mai così pazzo da farmi cavaliere errante, conoscendo assai chiaramente che non si usa oggidì ciò che si usava nei vecchi tempi, nei quali si dice che andavano vagando pel mondo questi erranti cavalieri.”

Sancio, ch'erasi trovato presente alla metà di questo discorso, restò molto confuso e pensoso sentendo che non erano in uso ai dì presenti i cavalieri erranti, e che i libri tutti di cavalleria erano solo una serie di balordaggini e di menzogne. Propose in cuor suo di attendere per vedere dove andava a parare il viaggio del suo padrone, perché se non vedesse probabile la felicità ch'egli sperava, faceva disegno di abbandonarlo, e di tornarsene con sua moglie e i suoi figliuoli agli usati lavori.

L'oste andava già a riporre il valigiotto ed i libri; ma il curato gli disse: “Aspettate che voglio vedere che cosa contengono questi fogli scritti con sì bel carattere.” L'oste li cavò fuori, e dandoli al curato, questi trovò che erano otto fogli manoscritti, con questo titolo: NOVELLA DEL CURIOSO INDISCRETO. Scorso che n'ebbe un tratto soggiunse: — Non mi dispiace il titolo di questa novella, e mi viene voglia di leggerla tutta:” al che l'oste rispose: — Può leggerla vostra riverenza, perché le dico che essendo stata letta da altri forastieri, se ne trovarono contenti assai, e me l'hanno con una grande istanza richiesta; ma non aderii alle loro domande, perché una volta o l'altra potrebbe ritornare colui che dimenticò qui la valigia, ed è giusto che ogni cosa gli sia restituita: e benché vi confessi che me ne dorrà assai, voglio nondimeno fargliene la restituzione, perché quantunque oste sono però buon cristiano. — Avete ogni ragione, amico mio, disse il curato: ma ad onta di tutto ciò se la novella mi piace mi dovrete permettere di copiarla. — Ben volentieri, rispose l'oste.” Mentre così fra loro la discorrevano, Cardenio erasi tolta la novella, ed aveva cominciato a leggere; sembrandogli di trovarla quale il curato se l'era immaginata, lo pregò che egli la leggesse in modo da essere inteso da tutti. — Lo farò volentieri, soggiunse il curato, e sarà forse meglio occupare adesso il tempo a leggere piuttosto che dormire.” Disse allora Dorotea: — Sarà per me un dolce riposo il gustare di un qualche racconto, perché non ho ancora l'animo tanto quieto da poter dormire. — Orbene, ripigliò il curato, voglio leggerla per curiosità se non altro, e forse che vi sarà qualche cosa che ci piaccia.” Maestro Nicolò pregollo pur con ogni istanza, e così fece Sancio Pancia; e vedendo il curato che avrebbe data soddisfazione a tutti nell'atto che si sarebbe egli pure intertenuto piacevolmente, disse: — Poiché così volete, porgetemi tutti attenti orecchio che la novella comincia nella seguente maniera.


CAPITOLO XXXIII

 

SI RACCONTA LA NOVELLA DEL CURIOSO INDISCRETO.

 

A Firenze, città celebre e ricca d'Italia nella provincia di Toscana, vivevano Anselmo e Lotario, due cavalieri ricchi e di nobile stirpe, tanto amici fra loro che quanti li conoscevano li chiamavano per eccellenza ed antonomasia i due amici. Erano senza moglie, giovani di una medesima età e di eguali inclinazioni, donde formavasi un perfetto vincolo di mutua affezione: né altra differenza si può dire che fosse fra loro se non che Anselmo era inclinato ai passatempi amorosi più di Lotario, il cui principale diletto consistea nella caccia. Ma l'uniformità degli animi faceva che intralasciasse Anselmo i piaceri proprî per attenersi a quei di Lotario se l'occasione lo richiedeva; e n'avea egli da Lotario un perfetto ricambio, a modo che non camminava oriuolo con tanta regolarità, quanto la concorde volontà di questi due amici. Era Anselmo perdutamente invaghito di una donzella bellissima, che deliberò col parere di Lotario, senza cui a nulla determinato sarebbesi, di chiederla in isposa a' suoi genitori siccome fece. L'ambasciata fu eseguita da Lotario, ed egli concluse il maritaggio con soddisfazione sì grande dell'amico che in breve si trovò al possesso della tanto amata donzella: e Camilla (che così chiamavasi) era sì contenta di avere Anselmo in isposo che non si rimanea di renderne grazie al cielo cui dichiaravasi debitrice di tanta felicità.

Nei primi giorni delle nozze, che sono giorni di letizia, continuò Lotario secondo l'usato a frequentare la casa del suo amico Anselmo, il quale era sempre sollecito in fargli onore e festeggiarlo. Passate poi le prime allegrezze dello sposalizio e rallentata la frequenza delle visite e gratulazioni, cominciò Lotario con maturo consiglio ad allontanarsi dalla casa di Anselmo, sembrandogli (con quel riguardo ch'è proprio dell'uomo prudente) che non debbano essere così frequenti le visite in casa degli amici come quando sono ancora nubili. Perocché quantunque sia vero che la buona e leale amicizia non può né dee nutrire sospetto alcuno, è però sì geloso l'onore nell'ammogliato, che sembra possa ricever ombra dagli stessi fratelli nonché dagli amici.

Notò Anselmo il contegno di Lotario, e gliene fece gravi doglianze, dicendogli che se avesse potuto sospettare che il matrimonio dovesse portargli l'alienazione dell'amico, non si sarebbe mai accasato; ed aggiunse che se la loro buona corrispondenza mentr'egli era nubile avea fatto meritare ad essi un nome sì dolce come quello di essere chiamati i due amici, non volesse adesso che per soverchia circospezione, non fondata sopra verun motivo, andasse a dileguarsi un nome sì prezioso e sì caro. Lo supplicava perciò, se pure questa parola poteva usarsi fra loro, che tornasse a divenire padrone di casa sua frequentandola come prima, assicurandolo che la sua sposa Camilla non avea altro piacere né altra volontà che quella del marito; e che avendo ella saputo quale fosse il tenore della loro amicizia, molto affliggevasi di essere innocente cagione che si raffreddasse. A tutte queste e a molte altre ragioni che Anselmo addusse a fine di persuadere Lotario a ripigliare la consueta frequenza in sua casa, rispose l'amico con sì gran prudenza, discrezione e maturo consiglio, che Anselmo restò soddisfatto della sua buona intenzione, e stabilirono d'accordo che Lotario andasse a pranzo da Anselmo due giorni soltanto ogni settimana, e nei dì delle feste. Benché poi così avessero convenuto fra loro, Lotario avea fra sé stabilito di non oltrepassare i confini che conveniva all'onore del suo amico, la cui riputazione stavagli a cuore più della sua propria. Diceva egli, e diceva molto bene, che il marito cui aveva concessa il cielo bella consorte, dovea usar grande attenzione nella scelta degli amici che la visitavano in casa, e così pure nel conoscere con quali amiche conversava la moglie; perché quello che non si fa né si concerta nelle piazze, nei templi, nelle pubbliche feste o in mezzo ad altre solennità (luoghi che non sempre possono i mariti interdire alle loro mogli), si stabilisce e si agevola in casa dell'amica o della parente, nella quale più che in altri si mette fiducia. Sosteneva però Lotario ch'era necessario al marito di avere un qualche amico che lo rendesse avvertito delle mancanze che potessero seguire in suo discapito, accadendo talvolta che il soverchio amore portato dal marito alla moglie non gli lasci conoscere o dire a fine di non isdegnarla, che faccia ella o intralasci di fare alcune cose, il fare o non fare le quali sarebbe per ridondarle in discapito o in vitupero: al che, se in tempo un amico lo avverte, si può rimediare assai facilmente. Ma dove troverassi amico sì prudente, sì leale, sì veritiero come lo avrebbe voluto Lotario? Io non so scorgerlo che in Lotario solo, il quale con ogni premura e diligenza prendeva il più vivo interesse per l'onore di Anselmo, e procurava di diminuire od accorciare i giorni stabiliti per le visite alla casa di lui, affinché il volgo ozioso e la maldicenza non trovassero di che mormorare vedendo un giovane ricco, gentiluomo e costumato, fornito di molte qualità pregievolissime, entrare in casa di una donna sì bella com'era Camilla. Quantunque potesse bastare il suo carattere e la bontà sua ad infrenare le malediche lingue, tuttavia non voleva esporre a verun pericolo la sua riputazione né quella dell'amico, e quindi la maggior parte dei giorni stabiliti li occupava Lotario in altre cose che facea supporre indispensabili; ed in tal guisa con le lagnanze dell'uno e con i pretesti dell'altro passava il tempo. Un giorno in cui andavano passeggiando amendue per un prato fuori della città, Anselmo tenne a Lotario il seguente ragionamento:

— Credevi tu forse, amico Lotario, che ai benefizî che Dio mi ha impartiti col farmi nascere figlio di tai genitori quali furono i miei, e versando in favore mio con prodiga mano i doni della natura e della fortuna, io corrispondere non potessi con gratitudine pari al bene ricevuto, ed a quello principalmente di darmi te per amico e Camilla in isposa, gioie amendue che apprezzo se non quanto dovrei, almeno quanto posso? Eppure a malgrado di questi vantaggi che sogliono essere quel tutto che rende contenti gli uomini, io sono il più disgraziato e malcontento uomo del mondo. E la ragione di questo si è che da alcuni giorni in qua mi solletica e tormenta un desiderio sì strano e sì fuor del comune che mi maraviglio di me medesimo, e m'incolpo e meco stesso mi adiro, e procuro di tacerlo e vorrei nasconderlo anche a me stesso; ma poiché sento che mi sarebbe impossibile tenerlo pienamente segreto, voglio deporlo nel tuo cuore, confidando che se con quella diligenza e premura che formano il carattere del vero amico, ti studierai di darmi rimedio, io presto mi troverò liberato dall'angustia che ora mi cruccia; e la mia contentezza, per opera tua, arriverà al grado cui giunse la mestizia prodotta dalla mia stravaganza.

Lotario stavasene stupito delle parole di Anselmo, né sapeva a che dovesse riuscire così lungo preambolo; e benché si studiasse d'indovinare qual desiderio potesse sconvolgere siffattamente l'amico, andava sempre a colpire assai lungi dal vero.

Per liberarsi adunque dall'angustia che una tale sospensione gli causava, disse che faceva troppo manifesta offesa alla sua leale amicizia mendicando parole per iscoprirgli i suoi più segreti pensieri, mentre doveva sicuramente promettersi da lui o consigli per infrenarli, o rimedio per conseguire i bramati effetti. — Ciò è vero, rispose Anselmo, e con questa certezza ti confido, amico Lotario, che la cosa che tanto mi affanna si è il pensare se Camilla mia sposa sia sì buona e perfetta come io la stimo, e non posso conoscere questa verità se non provandola in modo che un esperimento di fatto mi renda chiare le doti del suo buon carattere, come il fuoco mostra quelle dell'oro. E ciò deriva da una opinione che quella sola moglie si possa dir virtuosa la quale, posta alla prova, non si piega alle lagrime ed alle importunità dei solleciti amanti. Perché diceva: come loderemo la bontà di una donna se nessuno la persuade a diventare cattiva? che merito ha ella mai dello starsi ritirata e guardinga se le manca occasione di darsi bel tempo? se sa che il marito cogliendola in atto d'infedeltà, le toglierebbe la vita? Perciò quella ch'è buona per timore o perché le manca occasione di essere altrimenti, io non voglio averla in quel conto in cui terrei quella che stimolata e cinta da insidie uscisse dal cimento con la corona della vittoria. E per queste e per molte altre ragioni che potrei dirti ad accreditare ed avvalorare la mia opinione, io desidero che Camilla mia sposa passi per la trafila di queste difficoltà, e si affini e si esperimenti col fuoco dei sollecitatori e con gli stimoli di chi fornito di meriti procuri d'interessarla ed accenderla. S'ella come ne sono sicuro, riporterà in questa battaglia la palma, io mi terrò senza pari nella fortuna; dirò ch'è adempiuto il mio desiderio, e ch'io appunto trovai nella moglie la donna forte, di cui dice il Savio: Chi la troverà? Che se poi avvenga il contrario, mentre avrò la più grande compiacenza di essere stato indovino, soffrirò senza rammarico tutto l'amaro di quella trista esperienza. Ora, avvertendoti che inutilmente ti adopereresti a distogliermi dalla risoluzione di appagare questo mio desiderio, devi, amico Lotario, disporti ad essere lo strumento di questa prova tanto da me desiderata, e io ti aprirò a tal uopo il campo per modo che nulla ti manchi di quanto può esserti necessario. M'induce fra le altre cose a fidarmi di te la certezza, che se Camilla vacillasse nella sua virtù, saprai lealmente astenerti dall'approfittare della sua debolezza, e il mio onore non riceverà alcuna macchia. Se brami pertanto che io viva una vita veramente degna di questo nome, ti accingerai senza indugio colla diligenza e colla lealtà che di te mi prometto, alla battaglia che ti propongo.”

“Questo fu il tenore del ragionamento che Anselmo fece a Lotario, il quale prestò attenzione sì intensa che se non fosse scritto ciò che rispose sarebbesi detto che non aprì mai bocca. Vedendo però che Anselmo avea terminato di parlare, dopo essere stato buon tempo guardandolo, come se mirasse cosa a lui sconosciuta, e per cui gliene derivassero ammirazione e spavento, gli disse: — Io mi fo a credere, amico Anselmo, che tutto questo tu me l'abbi detto per burla; ché altrimenti non ti avrei permesso di proseguire, poiché col non darti orecchio non saresti andato tanto innanzi col tuo lungo discorso. E quasi mi pare, o che tu non conosci me, o che da me tu non sei conosciuto: ma ciò veramente non è, sapendo io benissimo che tu sei Anselmo, come tu sai che io sono Lotario. Ma di questo sventuratamente mi accorgo che tu non sei l'Anselmo di prima, e ch'io non sono più tenuto da te quell'amico ch'io sono; tali cose dicesti e richiedesti da me! Perché i buoni hanno da mettere alla prova i loro amici e servirsi di loro, come disse un Gentile usque ad aras, volendo con ciò inferire che non si debba far uso della loro opera in cose che offendano la giustizia. Che se portò siffatta opinione dell'amicizia un Gentile, quanto più essa non dee prevalere in un cristiano, il quale sa che l'amicizia divina debb'essere anteposta alla umana qualunque ella sia? E quand'anche l'amico andasse tant'oltre da preferire gl'interessi del suo amico ai riguardi verso il cielo, ciò non ha da essere per cose lievi e di poco momento, ma solo quando si tratti dell'onore e della vita dell'amico suo. Ora dimmi, Anselmo; quale di queste cose hai tu in pericolo ch'io debba, per compiacerti, imprender opera sì detestabile come quella che mi comandi? Tu adesso mi chiedi, a quanto mi sembra, che io metta ogni premura e sollecitudine a farti perdere onore e vita perdendo la mia nel tempo medesimo; essendo di tutta evidenza ch'io ti levo la vita nel porre ogni mio studio per involarti l'onore, perché l'uomo privo di questo è peggio che morto: e divenendo io lo strumento, come tu vuoi che io sia, di tanto tuo danno, non vengo forse a restare disonorato e quindi uomo senza vita? Ascolta, amico Anselmo, e non interrompermi finché abbia terminato di dirti tutto ciò che mi si faccia alla mente sopra il tuo desiderio, e resterà poi tempo a te di replicare ed a me di ascoltarti. — Molto mi piace la tua proposta! rispose Anselmo; di' pur ciò che vuoi. Lotario proseguì: — “Sembrami, Anselmo, che tu la pensi alla foggia dei Mori, i quali non si possono convincere dell'errore della loro setta con la autorità della sacra Scrittura, né con ragioni dedotte dalla speculazione dell'intelletto o fondate sopra articoli di fede, ma conviene loro sottoporre esempi di fatto; facili, intelligibili, dimostrativi, indubitabili con quasi matematiche dimostrazioni che non si possono negare, come sarebbe questa: “Se da due parti eguali si levano due parti eguali, quelle che restano sono ancora eguali.” E poiché non bastano le sole parole a farli capaci nemmanco di queste verità, conviene fargliele toccar con mano, e porgliele dinanzi agli occhi; né questo pure è sufficiente a persuaderli della verità della religione nostra. Mi veggo ora costretto a dovermi condur teco al modo medesimo, perché il capriccio che in te nacque, è strano cotanto e tanto lontano da tutto ciò che ha pur ombra di ragionevole, che sembrami tempo perduto l'occuparmi a provarti la tua semplicità (ché non voglio per ora darle altro nome), e starei quasi per abbandonarti alla tua follia in pena del tuo mal desiderio, se non me lo vietasse l'amicizia che ti professo; la quale non consente ch'io ti abbandoni in un manifesto pericolo di perderti. Ed affinché ad evidenza tu lo vegga, dimmi Anselmo: non mi hai tu prescritto che io debba tentar una donna che vive appartata dal mondo? insidiare un'onesta? offrire doni ad una disinteressata? importunare una prudente? Quest'è ciò che m'hai detto di fare: ora sei tu certo di avere una moglie riservata, onesta disinteressata e prudente, che cosa vai tu cercando? e se ti credi che possa uscire vittoriosa da tutte le seduzioni, siccome ne uscirà senza dubbio, di quali più preziosi titoli pensi tu allora onorarla oltre a quelli che già possiede? o come potrà essa diventar migliore dopo questa vittoria di quello che già è di presente? O tu dunque non la reputi quale vai dicendo, o non sai quello che dimandi. Se non la tieni nel conto che la vuoi far credere, tu non puoi desiderare cotesta prova se non forse per avere occasione di vendicarti dei suoi mali diporti: ma se ella è veramente qual mostri di crederla, sarà così imprudente il far esperienza sulla verità stessa, perché confermata che sia, nulla si accresce alla stima che per lo innanzi se le dovea. Egli è dunque incontrastabile che il tentare cose dalle quali può ridondare danno piuttosto che vantaggio, è da uomini di poco senno e da temerarî: e più lo è quando estendono il loro tentativo a quelle azioni alle quali nessuno li eccita o li sforza, facendo scorgere ben da lontano che il loro divisamento nasce da manifesta pazzia. Non si tentano le cose difficili se non per onore di Dio e del mondo, o per servire ad entrambi congiuntamente. Quelle in servigio di Dio sono le azioni che fecero i santi, i quali impresero a vivere vita di angeli sotto spoglie umane: le altre che s'imprendono pei riguardi del mondo sono le navigazioni, lo scorrere paesi e climi diversi, ed il trattare genti straniere, ad oggetto di acquistare di quelli che si chiamano beni di fortuna; e quelle finalmente che si intentano per Dio e pel mondo congiuntamente, sono le imprese dei valorosi soldati; i quali, vista appena nel muro nemico aperta la breccia non maggiore del foro fattovi da una palla, subito senza pensare in verun modo all'evidente pericolo che sovrasta, portati dal desiderio di trionfare per la fede, per la patria, pel sovrano, affrontano animosamente mille morti che li stanno attendendo. Queste sono le cose che sogliono sperimentarsi, ed il farlo ridonda ad onore, a gloria e vantaggio, tuttoché sieno piene d'inconvenienti e pericoli: ma in quella che dici di voler imprendere e riconoscere, non può averci gloria il Signore, né sono per derivartene beni di fortuna e lode umana: e se pure riescissi a talento tuo non perciò te ne troveresti più contento, o riputato di quello che sei presentemente; ma nel caso opposto dovresti cadere nella miseria più grande che immaginar tu possa. A nulla ti gioverebbe che ignota restasse ad ogni altro la tua sventura, mentre basterebbe che ella fosse nota a te solo, e già n'avresti afflizione e tormento. Per confermarti una tal verità voglio recitarti un'ottava del celebre poeta Luigi Tansillo, che leggesi nel fine della sua prima parte delle Lagrime di S. Pietro, ed è la seguente:

 

“Crebbe il dolore e crebbe la vergogna

Nel cor di Piero all'apparir del giorno,

E benché non vegg'altri, si vergogna

Di sé medesmo, di ciò c'ha d'intorno;

Che al magnanimo spirto non bisogna

La vista altrui per arrossir di scorno:

Ma di lor si vergogna talor ch'erra,

Sebben nol vede altro che cielo e terra.”

 

Tu dunque non potrai celare il tuo segreto rammarico, mentre ti tradirà il continuo tuo pianto: che se non ti usciranno lagrime dagli occhi, ti sgorgherà sangue dal cuore, nella stessa guisa con cui piangeva quel semplice dottore del quale racconta il nostro poeta, che fece la prova del vaso da cui con saggio avviso si astenne il prudente Rinaldo: e ben che sia quella una finzione poetica, racchiude però in sé stessa molti segreti morali degni di essere considerati e imitati. Oh quanto mai con ciò che sono per dirti finirai di convincerti del grande errore che vorresti commettere! Dimmi, Anselmo: se il cielo e la buona fortuna ti avessero fatto padrone e legittimo posseditore di un diamante finissimo il cui merito e la cui singolarità fossero celebrati altamente da quanti gioiellieri veduto l'avessero, e che la loro voce unanime si fosse accordata a proclamarlo fra i diamanti perfetto in bontà e finezza, sino al segno cui estendere mai si possa la natura di una tal pietra, e tu medesimo lo credessi senza saperne nulla in contrario sarebb'ella cosa ben fatta che ti nascesse la brama di pigliare quel diamante, porlo fra l'incudine ed il martello, ed ivi provare a furia di colpi se egli sia così duro e fino come fu detto? E posto il caso che la pietra resistesse al folle tuo sperimento, non perciò acquisterebbe un più grande valore od una maggiore celebrità. E se si rompesse? sarebbe perduta ogni cosa, sì per certo, e ne avrebbe guadagnata il suo padrone la taccia di vero balordo. Fa tuo conto, Anselmo amico, che Camilla è diamante finissimo, tale sì nella tua che nella estimazione degli altri; e non vi ha ragione di cimentarlo ad essere infranto, perché quantunque si rimanga qual è intatto, non può acquistare un pregio maggiore di quello che già possiede: e se si pregiudicasse o cedesse, pensa quale ti rimarresti senza di lei, e con quanta ragione dovresti dolerti di te medesimo per essere stato tu stesso cagione della sua e della tua perdita. Considera che non v'è gioia al mondo di sì alto valore come la moglie casta e onorata, e che tutto l'onore delle mogli consiste nel buon concetto che godono nell'universale: e poiché Camilla tua sposa è tale da essere, come sai, un modello di bontà, non rendere, te ne prego, dubbiosa una verità così bella! Non conviene esporre la donna a cimenti da farla inciampare e cadere; anzi si dee sgombrarle il cammino da ogni intoppo, affinché velocemente corra a raggiungere la sua perfezione, che consiste nell'essere virtuosa. Raccontano i naturalisti che l'ermellino ha una pelle bianchissima, e che quando i cacciatori lo vogliono pigliare, usano di cacciarlo verso certi luoghi da loro appositamente infangati; dove il mondo animale arrivando si ferma e si lascia pigliare piuttostoché insozzare la sua bianchezza, la quale da lui è pregiata più che la libertà stessa e la vita. L'onesta e casta consorte è l'ermellino, e la virtù di lei è più tersa della neve: ma chi vuol che sia gelosamente custodita dee valersi di un modo diverso da quello che con l'ermellino si tiene. Non deesi porle sott'occhio il fango dei regali e della servitù di importuni amanti; perché forse, e senza forse non è capace di sostenersi da se medesima e superare quelli impedimenti; ma bisogna allontanargliegli e metter davanti la limpidezza della virtù, e la bellezza che in sé contiene la buona riputazione. Puossi altresì paragonare la fida moglie ad uno specchio di cristallo lucido e senza macchia, il quale si appanna e si oscura se alito il tocchi. La fida moglie esige la riserva e la stima con cui si custodisce e si pregia un vago giardino ricco di fiori e di rose, il cui padrone non permette che alcuno lo prema col piede o gli dia il guasto, ma soltanto che da lontano e diviso da rastrelli di ferro si goda della sua fragranza e simmetria.

Voglio per ultimo riferirti quello che sentii già in una commedia moderna, opportuno al nostro discorso. Un vecchio prudente consigliava il genitore di una donzella che la facesse vivere ritirata e ben custodita, e tra l'altre cose gli diceva: “La donna è fragile come il vetro; nessuno provi se può rompersi; perché potrebbe accader cosa che poi gli increscesse: mentre la rottura è possibile ma non così il raggiustarla.” Tale è l'opinione comune, ed è ben fondata, giacché se vi sono delle Danai nel mondo vi sono anche delle pioggie d'oro.

Tutto ciò che fin qui, o Anselmo, ti ho detto, appartiene unicamente a te; resta ora che ti sottoponga quello che risguarda la persona mia: e se sarò diffuso nel mio ragionamento, perdonami ed accusane il labirinto in cui entrasti, e dal quale bramo di farti uscire. Tu mi tieni in conto di amico, e vuoi togliermi l'onore: opera contraria all'amicizia: né a ciò stai contento; ma vuoi che io te disonori. Ella è cosa evidente che tu mi vuoi togliere l'onore; perché quando Camilla si vegga da me stimolata, come tu vuoi, è certo che ha da tenermi in conto di uomo disonorato, da che tenterò cosa tanto contraria all'obbligo dell'amicizia nostra. Non è poi da revocarsi in dubbio che a te io lo tolga, perché mancando il rispetto a Camilla, in lei io mancherò di rispetto a te stesso. Il marito della donna traviata, benché inconsapevole, pur si macchia del traviamento di lei, e ne rimane vituperato. Colui poi che sa i reprensibili portamenti di sua moglie, è in certo modo guardato con occhio di disprezzo, anziché di compatimento, benché si conosca che quella sventura in lui deriva non per sua colpa, ma per la depravazione della sua trista compagna. Voglio anche dirti la ragione che a buon diritto fa tenere disonorato il marito della trista moglie, benché non sappia che ella sia tale, né perciò sia egli consapevole, né le abbia dato il menomo impulso a traviare. Non istancarti di udirmi, perché tutto dee ridondare a tuo vantaggio. Iddio quando creò il nostro primo padre Adamo nel paradiso terrestre, dice la divina scrittura, che lo fece cadere in un sonno profondo, e mentre se ne stava dormendo gli cavò una costola dal lato sinistro di cui formò la nostra prima madre Eva. Adamo poi appena svegliato, disse: “Questa è carne della mia carne ed osso dell'ossa mie.” E dio pronunziò queste parole: “Per amore di costei l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre, e saranno due in una medesima carne.” Così venne instituito il sacramento del matrimonio, annodato con lacci che la sola morte può sciogliere. Tanta forza e virtù sì grande ha in sé questo sacramento che unisce due persone diverse in una medesima carne: e massimamente risplende la sua potenza nelle buone famiglie, dove benché il marito e la moglie abbiano due anime, non tengono che una volontà sola. Ora, siccome la carne della sposa è una cosa medesima con quella dello sposo, le mancanze che la deturpano, si trasfondono nella carne del marito; benché da lei (come si è detto) non siasi dato motivo a tanto male. E siccome un dolore di piede o di qualche altro si voglia membro è sentito da tutto il corpo per essere tutto di una medesima carne; così è partecipe il marito nel disonore della moglie per essere una cosa stessa con lei. Pon mente, o Anselmo, al pericolo cui ti esponi, né voler turbare la quiete in seno a cui se ne vive la tua buona consorte: avverti che ti porta troppo scarso guadagno ciò che vai ad avventurare; e che quello che perderai sarà di sì grande rilievo da non saperlo dire: che a me mancherebbero le espressioni a tal uopo. Se quanto ho detto non vale a rimoverti dal tuo sconsigliato proposito, cerca un altro strumento del tuo disonore e della tua disgrazia, ch'io non voglio esserlo a patto di perdere la tua amicizia, ch'è la perdita più grande che immaginare mai si possa.”

Ciò detto, si tacque il prudente e virtuoso Lotario, ed Anselmo restò sì confuso e pensoso, che per buono spazio di tempo non poté proferire parola, ma finalmente soggiunse. — Volli, amico Lotario, ascoltarti con l'attenzione che vedesti, e nelle tue ragioni e negli esempi e nelle comparazioni ebbi campo di ammirare il tuo molto discernimento e la vera amicizia che a me ti stringe; e veggo e confesso nel tempo medesimo, che se al tuo parere non mi appiglio e persisto nel mio, rinunzio al mio bene, e m'immergo in un torrente di calamità. Hai da sapere però ch'io sono attaccato presentemente da quella infermità a cui sogliono andar soggette alcune donne incinte, per la quale si trovano forzate a cibarsi di terra, gesso, carbone, e di altre benché peggiori cose; ed è perciò necessario di usare di qualche artifizio affinché risanino. Conviene dunque che tu leggermente e simultaneamente cominci a stimolare Camilla che non debbe essere sì debole da cadere ai primi incitamenti: mi appagherà questo sperimento solo; e tu avrai servito al dovere dell'amicizia non pure dandomi la vita, ma convincendomi che illeso è il mio onore. E devi tenerti obbligato a far questo per una sola ragione, ed è che essendo io deciso di mettere in pratica questa prova, non dei permettere ch'io renda palese ad altri la mia follia, con danno dell'onor mio, la cui custodia ti è tanto a cuore. Né importa se Camilla avrà per qualche tempo una sinistra opinione di te; perché presto riconoscendosi in lei per opera nostra la integrità che speriamo, le potrai scoprire l'artifizio di cui ci siamo valsi, e riacquisterai tutta intera la sua stima. Poiché dunque sì poco tu avventuri, e tanta soddisfazione puoi darmi, non puoi per nessuna ragione persistere nel tuo rifiuto: perché, come dissi, cominciata appena quest'opera, darei per vinta la causa. Vedendo Lotario la risoluta volontà di Anselmo, e non avendo più né esempi, né ragioni da addurgli, a fine di evitare un peggior male determinò di contentarlo e di fare ciò che potesse, fermo per altro nel proposito suo di condurre questo affare in modo che senza mettere a cimento Camilla, Anselmo ne rimanesse soddisfatto; e gli rispose perciò che tenesse segreto ad ogni altro il suo divisamento, e che darebbe principio all'impresa ogni volta che egli volesse.

L'abbracciò teneramente Anselmo, come se da lui ricevesse un favore; e si accordarono che l'opera cominciasse nel giorno seguente, al qual fine avrebbe avuto Lotario libero campo di parlare con Camilla da solo a sola, anzi Anselmo gli avrebbe somministrato gioie e danari da offrirle per tentarla. Lo consigliò di fare allegre serenate, di scrivere molte poesie per lodarla, e che s'egli non voleva prendersi siffatta briga, se l'avrebbe tolta egli stesso. A tutto si offrì Lotario, ma con intenzione ben diversa da quella di Anselmo; ed essendosi così convenuti si recarono a casa dove trovarono Camilla, che stava non senza affanno attendendo lo sposo che tardato avea in quel giorno più dell'usato.

Si portò poi Lotario alla sua abitazione, e rimase Anselmo nella propria, tanto contento quanto Lotario pensieroso, non sapendo in qual modo dirigersi per condurre a buon fine una sì mal immaginata impresa. Si applicò pertanto a pensare in quella notte al modo d'ingannare Anselmo senza offendere Camilla, e recossi nel seguente giorno a pranzo presso l'amico, la cui moglie assai piacevolmente lo accolse come colei che stimava una grande fortuna per suo marito l'avere un tale amico. Finito il pranzo e sparecchiata la tavola, Anselmo disse a Lotario che se ne restasse con Camilla, mentre egli dovea andare per un affare molto importante, e che sarebbe ritornato fra un'ora. Lo pregò Camilla che si rimanesse, e Lotario si offerse a tenergli compagnia; ma non diede ascolto Anselmo né all'uno né all'altra; pregò l'amico che stesse aspettandolo, avendo egli a trattare con lui di cose di molto rilievo: disse a Camilla che non si scostasse da Lotario sino al suo ritorno: in fine seppe fingere sì bene e la necessità e l'importanza di doversi assentare, che nessuno avrebbe potuto avvedersi della simulazione. Partì Anselmo e restarono a tavola Camilla e Lotario, mentre i servitori di casa pranzavano. Lotario si trovò nello steccato a seconda dell'umore dell'amico suo, e con a fronte un nemico il qual vincere poteva con la sola sua bellezza uno squadrone di armati cavalieri. Non è a dire se vi fosse per Lotario ragione di temere! Appoggiò il gomito sul bracciuolo della sedia, sostenendo una guancia colla mano aperta, e pregando Camilla a perdonargli la poca civiltà, le domandò licenza di togliersi un po' di riposo sin al ritorno di Anselmo. Rispose Camilla che avrebbe avuto riposo più agiato sul letto che non su una sedia, e quindi lo pregò a coricarsi: le rese grazie Lotario, ed ivi se ne rimase a dormire finché tornò Anselmo, il quale supponendo che avessero avuto ambedue il tempo e di parlare e di dormire, era impaziente che Lotario si svegliasse per uscire con lui e domandargli conto dell'avvenuto. Tutto seguì conforme al suo desiderio: si svegliò Lotario; uscirono insieme. Anselmo lo interrogò, e rispose Lotario, non essergli paruto cosa ben fatta discoprirsi alla prima così del tutto, e ch'erasi perciò limitato a lodare la somma bellezza di Camilla, con dirle che tutta la città ammirava il suo ingegno e la sua avvenenza. Questo essergli sembrato ottimo principio per introdursi nella sua buona grazia, e per indurla ad ascoltarlo con lieto animo un'altra volta, valendosi a ciò fare dell'artifizio medesimo che suol usar lo spirito maligno quando imprende a trarre in inganno qualcheduno. Di tutto ciò si compiacque Anselmo, e proseguì coll'assicurar Lotario che avrebbegli pôrta ogni giorno eguale occasione, ancorché non si partisse di casa, in modo che non potesse Camilla mai sospettare il suo artifizio. Passarono molti giorni nei quali Lotario fece supporre ad Anselmo che avea parlato a Camilla (quando per verità era stato con lei taciturno), senza poter trarre da lei il menomo segno ch'ella fosse disposta a declinare del proprio dovere, e neppure avere ombra di speranza; che anzi avea minacciato di lamentarsi di lui col marito se persistesse nel suo tentativo. — Va bene, disse Anselmo; fin qua ha fatto Camilla resistenza contro le sole parole; fa mestieri conoscere adesso come si regoli a fronte dei fatti. Ti darò domani duemila scudi d'oro da offrirle e donarle, ed altrettanti ne avrai per comprare rare gioie colle quali adescarla; che le donne, massimamente le belle, sogliono affezionarsi, per quanto sieno caste, a simil genere di adornamenti ed alle comparse brillanti. Resistendo essa a tal prova io ne rimarrò soddisfatto compiutamente, né ti darò altra molestia.” Rispose Lotario che avendo già cominciato egli avrebbe condotta quell'impresa al suo termine, benché prevedesse di uscirne svergognato e vinto.

Ricevette nel dì successivo i duemila scudi, e con essi duemila confusioni, non sapendo che dirsi per nuovamente mentire; stabilì però di fargli credere ch'era Camilla sì contraria ai regali ed alle promesse come alle parole, e che non occorreva proseguire oltre perché era tempo perduto. Ma la sorte che guidava diversamente le cose, fece che avendo Anselmo lasciati soli Lotario e Camilla, come altre volte solea, si rinchiuse nelle sue camere e dal pertugio della serratura, guardando e ascoltando, si accorse che in più di una mezz'ora Lotario non disse mai parola a Camilla, né gliela avrebbe detta se si fosse trattenuto un secolo intero con lei. Si avvide allora che tutto era finzione e menzogna quanto l'amico gli aveva fatto credere delle risposte di Camilla, e per assicurarsene uscì dall'appartamento, e chiamato a parte Lotario gli domandò che c'era di nuovo, e di che umore se ne stava Camilla. Rispose Lotario che non voleva spingere oltre l'affare, giacché rispondeva sì sdegnosa e con asprezza sì grande che più non gli dava il cuore di soggiungere una sola parola. — Ah, disse Anselmo, ah Lotario, Lotario, quanto male corrispondi al tuo dovere ed alla mia confidenza! Io ti sono stato guardando finora pel pertugio di questa serratura, e mi assicurai che tu non dicesti parola a Camilla; ciò che mi prova che tu le hai da dire ancora la prima. Ora se così va la faccenda, né va altrimenti ché tu m'inganni, perché vuoi togliermi artifiziosamente la via di conseguire il mio intento?” Altro non disse Anselmo: ma questo bastò per lasciare confuso e sdegnato Lotario; il quale, come punto nell'onore per essere stato scoperto menzognero, giurò ad Anselmo che da quel momento in poi si toglieva proprio carico il soddisfarlo, e non mentirgli, come vedrebbe in effetto se gli tenesse l'occhio sopra a suo talento; e tanto più quanto che non sarebbe stato necessario di usare veruna diligenza; perché il partito da lui preso per soddisfarlo, tolto gli avrebbe qualunque sospetto. Anselmo gli dié credenza, e per offrirli opportunità più certa e meno paurosa, stabilì di allontanarsi di casa per otto giorni, recandosi da un suo amico in una villa poco lontana dalla città, da cui finse di essere mandato a chiamare con estrema premura per iscusare con Camilla la sua partenza. Disgraziato e imprudente Anselmo! e che t'accingi a fare? che vai tu cercando? quali ordini da te si danno? Guardi che operi contro te medesimo cercando il tuo disonore e volendo la tua perdizione. Buona è la tua sposa Camilla, tu godi tranquillamente del merito suo, nessuno te ne turba il possedimento, le brame di lei si confinano alle pareti domestiche, tu sei il suo cielo in terra, l'unico suo desiderio; il compimento delle sue brame e la misura della sua volontà uniformata colla tua interamente e con quella del cielo: ora se la miniera del suo onore, della sua bellezza, della onestà e della ritiratezza ti fornisce senza veruna tua fatica quante ricchezze mai puoi bramare, perché vuoi tu scavar nelle viscere della terra, e cercare nuove vene e nuovo tesoro non più veduto mettendo ogni cosa in pericolo? Perché non pensi piuttosto che a chi cerca l'impossibile è spesse volte e con ragione negato anche il possibile. Però un poeta diceva: Io vo cercando nella morte la vita, nella malattia la sanità; nella prigione la libertà, nella chiusura l'uscita, nel traditore la lealtà: ma l'avverso mio destino d'accordo col cielo ha decretato, che poiché cerco l'impossibile, anche il possibile mi sia negato.

Andò Anselmo il dì seguente alla campagna, lasciando detto a Camilla che Lotario verrebbe ogni giorno a pranzare con lei durante la sua lontananza, e che lo tenesse in conto della sua persona medesima. Si afflisse Camilla, come prudente ed onesta consorte, al ricevere quell'ordine, e rispose che non le pareva ben fatto che altri occupasse il posto del marito assente; e che se a ciò s'induceva stimando che non sapesse ella porsi alla testa della famiglia, ne facesse in tale occasione la prova, e conoscerebbe per esperienza ch'era capace e di questo e di molto più. Le replicò Anselmo che così aveva stabilito, e ch'ella fosse contenta di obbedirlo. Disse Camilla che si sarebbe sottomessa ad ogni modo al suo volere. Partì Anselmo, e Lotario fu il giorno seguente a casa dell'amico, dove Camilla lo ricevette con onorevole e conveniente accoglienza, mettendo però ogni studio per non restarsi con lui da sola a solo. Aveva essa a tal fine ordinato che stessero i servi e le cameriere da vicino, e specialmente una donzella, chiamata Leonella, da lei molto amata per essere cresciute insieme fin da fanciulle, e per averla seco condotta quando si accasò con Anselmo. Nei primi tre giorni nulla le disse Lotario, tuttoché ne avesse avuto grand'agio quando si sparecchiava la tavola, e si affrettavano i domestici di andarsene a pranzo, perché così ordinava Camilla. Aveva raccomandato a Leonella di pranzare prima di lei e di non iscostarsele poi un momento; ma essa che aveva il pensiero a cose di sua maggior soddisfazione, non obbediva fedelmente la padrona, che anzi la lasciava sola come se le fosse stato ordinato. L'onestà però di Camilla e la gravità e la compostezza della sua persona erano tali da infrenare la lingua di Lotario: ma intanto ch'egli per le molte virtù di Camilla era costretto a dover tacere, cominciò a contemplare a parte a parte la estrema bellezza e bontà di lei, capaci d'innamorare non solo chi ha un cuore di carne, ma una statua di marmo. Coll'opportunità che gli offrivano il tempo e il luogo avea campo a considerare quanto era degna di essere amata; ed in breve accorgendosi che al cospetto di tanta bellezza la sua virtù mal reggeva, cominciò a desiderare di ritirarsi lontano dalla città dove l'amico più nol trovasse, né fosse possibile a lui di più riveder Camilla; ma il diletto che provava nel riguardarla lo distoglieva tosto di tal pensiero. Faceva forza e combatteva seco medesimo al fine di scacciare e non sentire il contento che gli recava il mirare Camilla: incolpava sé solo della sua follia, chiamavasi malvagio amico e cattivo cristiano; faceva paragone fra sé ed Anselmo, conchiudendo essere assai più riprovevole la pazzia e la confidenza di Anselmo che la sua poca fedeltà; e se avesse potuto scolparsi verso Dio con sì vero fondamento come verso gli uomini, non avrebbe temuto castigo per la sua colpa. Insomma la bellezza e la bontà di Camilla, congiuntamente alla occasione che l'ignorante marito gli aveva pôrta, diedero il crollo alla lealtà di Lotario. Quindi senza por mente ad altro fuorché a quello cui lo faceva inclinare il proprio piacere, dopo tre giorni di continuo conflitto contro sé stesso cominciò a parlare amorosamente a Camilla; la quale vedendo il grave turbamento e udendo le affettuose sue espressioni ne restò attonita, ed altro non fece che partirsi dal sito ove trovavasi per entrare nelle proprie camere senza rispondergli una sola parola. Lotario non perdé la speranza che sempre nasce congiuntamente all'amore; anzi incalorì maggiormente per modo che la buona donna per torgli occasione stabilì d'inviare in quella notte medesima come fece, un suo servitore ad Anselmo con un biglietto del seguente tenore.

 


CAPITOLO XXXIV

 

CONTINUA LA NOVELLA DEL CURIOSO INDISCRETO.

 

“Come suol dirsi che mal conviene all'esercito essere senza il suo generale, ed alla fortezza senza il suo castellano, così porto opinione che disconvenga alla donna maritata e giovine starsene senza il marito, qualora da giustissime cagioni non sia impedito. Io mi trovo tanto afflitta di non avervi presso di me, e tanto incapace di tollerare la vostra assenza, che se non accelerate il vostro ritorno, sarò costretta di ritirarmi in casa de' miei genitori, se pur restar dovesse la vostra senza custode; poiché colui che per tale lasciaste, se vi rimase con questo titolo, mi pare che attenda più a voler contentare i suoi capricciosi desiderî, che alla vostra riputazione. Essendo voi uomo prudente, non credo di dover altro soggiungere, ed anche sta bene ch'io non dica di più.”

Questa lettera ricevuta da Anselmo lo assicurò che Lotario aveva cominciata l'impresa, e che l'animo di Camilla era quale egli desiderava. Lietissimo dunque rispose alla moglie che non facesse novità in casa di sorta alcuna, perché tornerebbe presto assai. Stupì Camilla della risposta di Anselmo che la mise in maggior confusione di prima, mentre non avea coraggio di starsene in casa e meno ancora di recarsi presso i suoi genitori. Restando, vedeva posta a cimento l'onestà sua; partendo, si opponeva ai comandi di suo marito. Finalmente si appigliò al partito peggiore, di non partirsi, proponendo seco stessa di non sottrarsi alla presenza di Lotario a fine di non provocare le dicerie dei domestici; e già rincrescevale di avere scritta al marito quella lettera: non forse potesse dargli cagione di credere che per avere Lotario notata in lei qualche scostumatezza avesse ardito mancarle del riguardo dovuto. Posta però da lei ogni fiducia nel proprio contegno, si affidò al cielo ed alla rettitudine delle sue intenzioni, ripromettendosi di resistere tacendo a tutto ciò che Lotario fosse per dirle, senza farne alcuna altra comunicazione al marito per non metterlo in qualche cimento o in qualche tribolazione. Andava poi a poco a poco cercando maniera per iscolpare Lotario verso Anselmo, quando le domandasse per qual motivo si fosse indotta a scrivergli quella lettera; e con tali risoluzioni più onorate che prudenti, dié retta un altro giorno ai discorsi di Lotario, il quale seppe essere tanto seducente che la fermezza di Camilla cominciò a vacillare, e l'onestà sua ebbe a durare molta fatica per non palesare la compassione destata in lei dalle lagrime e dalle dichiarazioni del nuovo amante. Il quale tanto insistette, e tanto seppe assalirla, ora lodando la sua bellezza ora piangendo e pregando, che finalmente Camilla si trovò innamorata di lui quanto egli era di lei: e tutti e due dimenticarono Anselmo. — Esempio è questo che ad evidenza ci mostra che la fuga sola trionfa dell'amore, e che nessuno dee porsi in lotta con sì poderoso nemico, perché a vincere le umane sue forze nulla meno ci vuole che forze divine. La sola Leonella fu partecipe del segreto della padrona, perché non poterono celare a lei i due infelici amici e novelli amanti il loro segreto. Del resto Lotario non palesò a Camilla il disegno di Anselmo, per non iscapitare nell'amor suo, lasciandole credere che fosse tutta spontanea la sua affezione verso di lei, e non per altrui sollecitazione.

Tornò dopo pochi giorni Anselmo, e corse tantosto a vedere Lotario e lo trovò in casa: si abbracciarono entrambi; e Anselmo domandò all'altro notizie della sua vita o della sua morte. — Quello ch'io posso dirti, rispose Lotario, sì è che tu possiedi una consorte che a buon diritto può essere esempio e corona di tutte le mogli dabbene: furono sparse al vento le mie parole; non valsero le offerte: i presenti non vennero accettati, si schernirono le finte mie lagrime: a dir breve, come Camilla accumula in sé ogni bellezza, ogni attrattiva, così parimenti ha in sé unite l'onestà, il contegno, la circospezione, e le virtù tutte che possono rendere lodevole ed esemplare una moglie onorata. Riprenditi, amico, i danari tuoi che qui gli ho intatti, perché la integrità di Camilla sdegna sì bassi oggetti, come sono le promesse e i donativi: chiamati soddisfatto, o Anselmo, né spingere oltre le prove; e poiché valicasti a piede asciutto il mare delle difficoltà e dei sospetti che si sogliono e si possono avere delle mogli, non voler entrare nel profondo pelago di nuovi inconvenienti, né ti venga mai voglia di sperimentare con piloto novello la bontà e la fortezza del naviglio che ti dié in sorte il cielo. Fa tuo conto di trovarti in sicuro porto; e quivi attendi tranquillamente l'estremo fine, da cui non evvi mortale che possa sottrarsi.” Soddisfattissimo rimase Anselmo delle parole di Lotario, e le tenne per pronunziate da un oracolo: ma lo pregò a non desistere dall'impresa, quand'anche non fosse che per curiosità unicamente e per passatempo, dispensandosi però da allora in avanti di usare di certe straordinarie attenzioni delle quali erasi valso sino a quel momento. Bramava che componesse qualche sonetto per Camilla sotto il nome di Clori, impegnandosi egli di farle supporre che egli si fosse innamorato di una dama cui avesse posto quel nome per poterle dar quelle lodi che si convenivano all'onestà sua; anzi se mai non avesse voluto prendersi la briga di comporlo, disse che lo avrebbe fatto egli stesso. “Questo non occorrerà, soggiunse Lotario, non essendomi tanto avverse le muse che non vengano a visitarmi una qualche volta fra l'anno; fa pur supporre a Camilla ciò che dicesti intorno ai miei finti amori, che io comporrò i versi; i quali, se mancheranno di merito conveniente al soggetto, conterranno per lo meno il meglio che possa escire dalla mia penna.

Restarono in tal modo accordati insieme l'indiscreto e l'amico traditore; e tornato a casa Anselmo chiese a Camilla quello ch'ella meravigliavasi che non le avesse tuttavia domandato: cioè che le dicesse su qual fondamento si era determinata a scrivergli la lettera da noi riferita. Rispose che erale sembrato di essere guardata da Lotario con maggior libertà di quello che faceva mentre si trovava egli in casa; ma che poi se n'era disingannata, e portava opinione che tutto fosse una semplice fantasia, mentre Lotario sottraevasi già dal vederla e dal trovarsi da solo a sola. Le rispose Anselmo che non dovea nutrire il menomo sospetto essendo noto a lui che Lotario era amante di una donzella delle più distinte della città, da lui celebrata sotto il nome di Clori; oltre di che ella dovea riposare sulla lealtà di lui e sulla grande amicizia che passava fra loro due. Se Camilla non fosse stata già avvertita da Lotario, gli amori di Clori non essere altro che una sua finzione con Anselmo per potersi occupare talora in questa guisa a lodarla, ella sarebbe certamente caduta nella disperata rete della gelosia, ma conoscendo la verità della cosa, vi passò sopra con indifferenza. Standosene un giorno tutti e tre a tavola, Anselmo pregò Lotario che recitasse alcuna delle poesie da lui composte in lode della sua amata Clori, perché non essendo conosciuta da Camilla, potea dire liberamente ciò che più gli venisse a grado. — Tuttoché, disse Lotario, essa la conoscesse, nulla io sarei per celare, perché se un amante nel lodare la bellezza della sua signora, la taccia di crudele, nulla toglie a ciò che le debbe: sia però come si voglia, vi dirò che ho composto ieri un sonetto per la ingratitudine di questa Clori, ed eccolo:

 

“Nelle tacite ore della notte, quando il dolce sonno occupa i mortali, io al cielo ed a Clori fo noto in parte i miei molti affanni.

“E quando il sole si mostra per le rosee porte d'oriente con sospiri e accenti interrotti rinnovo l'antico lamento.

“E quando dallo stellato suo seggio invia il sole i suoi raggi diritti alla terra, cresce il mio pianto e si raddoppiano i gemiti.

“Torna poi la notte, ed io mi riconduco alle mie triste querimonie: ma sempre per mio duro destino trovo sordo il cielo, sorda Clori.”

 

Piacque il sonetto a Camilla, ma riuscì molto più grato ad Anselmo che ne fece alte lodi, e trattò la dama da crudele eccessivamente perché non corrispondeva a sì grande amore. A questo passo soggiunse Camilla:— È poi vero tutto quello che dai poeti innamorati si dice? — Come poeti, rispose Lotario, non sono veritieri allo scrupolo, e come innamorati non sanno mai esprimere pienamente quello che sentono. — Di ciò non vi ha dubbio, replicò Anselmo, il quale menava buona ogni cosa a Lotario per fargli trovar credito appresso Camilla, che tanto poco curavasi dell'artifizio di Anselmo quanto grandemente era innamorata di Lotario. In tal guisa per la soddisfazione che provava del felice andamento delle sue cose, e più ancora per la certezza che a lei erano diretti gli scritti di Lotario, e ch'essa era la vera Clori, lo pregò che se avesse a mente qualch'altro sonetto od altri versi, li recitasse. — Ne so un altro, rispose Lotario: temo però che non sia così buono o per meglio dire che sia peggiore del primo. Giudicatelo voi:

 

“Ben so di morire; e se altri non mi dà fede, più certa è la mia morte; così è più certo altresì ch'io ti cadrò, o bella ingrata, ai piedi, anziché pentirmi di amarti.

“E s'io fossi nella regione dell'obblio, privo di vita, di gloria e d'ogni favore, allora potrebbe vedersi nell'aperto mio core come vi sta scolpito l'avvenente tuo aspetto.

“è questa una reliquia ch'io custodisco contro il male a cui mi mena la mia costanza, che dal tuo rigore piglia maggior forza.

“Sventurato chi naviga sotto oscuro cielo, per mare ignoto e pericoloso, senza stelle e senza porto!”

 

“Anselmo lodò questo secondo sonetto come avea fatto del primo, ed andava aggiungendo in tal maniera anello ad anello alla catena che ad ogni momento più rinforzava la sua infamia: perché quanto più lo assicurava Lotario della integrità dell'onor suo, tanto maggiormente lo rendeva disonorato.

In tal guisa i passi tutti che si facevano da Camilla per cacciarsi ognor più nel fondo del suo vituperio, la sollevavano nel giudizio del marito all'apice della virtù e della buona fama! In questo avvenne che trovandosi Camilla da sola a sola colla sua donzella, le disse: — Ho vergogna, Leonella mia, di me stessa pensando come presto ho concesso a Lotario il pieno possedimento della mia volontà; ed ho ragione di temere che abbia egli a disistimarmi per avermi trovata così pieghevole a' suoi desideri. — Ciò non dee affliggervi punto né poco, signora mia, rispose Leonella. Non vi è ragione di temere lo scapito nella opinione, quando quello che presto si concede sia realmente buono in sé stesso, e degno di estimazione: dicendosi oltre a ciò per vecchio proverbio, che chi dona presto dona due volte. — Ma si suole anche dire, soggiunse la padrona, che quello che costa poco, si stima meno. — Non fa ciò al proposito vostro, ripigliò Leonella, perché l'amore (a quanto ne intesi dire) vola talvolta e tal'altra cammina, con questo corre, tardo è con quell'altro; chi ne resta intiepidito semplicemente, e chi abbruciato; ferisce l'uno, uccide l'altro: comincia ad un punto la carriera dei desiderî, e nell'atto medesimo la termina; suole nella mattina porre l'assedio ad una fortezza, e la sera ha fatto seguirne la resa, non vi essendo forza alcuna che gli resista. Ora se così va la cosa, che mai vi atterrisce, o di che temete? Non si turbi l'intelletto vostro con vani e scrupolosi fantasmi; ma accertatevi invece che siete stimata da Lotario al modo stesso con cui egli è apprezzato da voi, e la soddisfazione che mostra per la vostra condiscendenza vi prova che in lui non fa che accrescersi la estimazione e l'affetto.

Maravigliossi Camilla delle parole della sua cameriera, e la tenne per pratica nelle cose di amore più di quello che non avrebbe creduto: e lo ebbe a confessare colei stessa, scoprendo a Camilla che amoreggiava un giovane bennato della stessa città; del che però n'ebbe turbamento la padrona temendo allora che il suo onore fosse troppo male raccomandato nella confidenza che aveva data a Leonella. Si impegnò anzi a conoscere se le cose fossero tra loro ite più oltre dei ragionamenti, e Leonella con poca vergogna e con molta franchezza rispose di sì: perché il mal contegno delle padrone toglie la vergogna alle serventi. Altro non poté fare Camilla se non se pregare Leonella che tacesse all'amante ciò che sapeva di lei, e trattasse segretamente le cose sue affinché non pervenissero a cognizione di Anselmo né di Lotario. Leonella il promise, ma si condusse poi in modo da avvalorare il timore concetto dalla padrona di vedersi posta a cimento per colpa della serva nella riputazione: e ciò si accrebbe dopoché la disonesta e ardita Leonella, vedendo impegnata Camilla in un illecito amore, si era arditamente permesso di fare entrar in casa il suo amante, sulla certezza che quand'anche fosse veduto da lei, non avrebbe osato di farne motto ad alcuno: ecco il danno che corre, fra gli altri, nei traviamenti delle padrone: elle si rendono schiave delle loro serve, e trovansi costrette a tenerne celato ogni difetto. Ma le precauzioni non bastarono a mantenere il segreto, e Lotario si accorse un giorno che alcuno era uscito dalla casa di Anselmo. Non conoscendo chi si fosse costui, lo credette da prima un fantasima; ma vedendolo camminare e avvolgersi nel mantello, e coprirsi e fuggire studiatamente gli sguardi, lasciò quel suo semplice sospetto per farne sottentrare un altro da cui provenuta sarebbe la comune rovina se Camilla non vi avesse posto rimedio. Lotario si fece a credere che l'uomo da lui veduto uscire in ora sì straordinaria vi fosse entrato non già per amore di Leonella (ché non gli sovvenne a quel punto ch'ella nemmeno fosse al mondo), ma di Camilla: perché il primo a perdere la stima di una donna è sempre colui che l'ha fatta traviare. Parve poi che in tale circostanza mancasse a Lotario interamente il giudizio, e usciti gli fossero di mente tutti i suoi prudenti discorsi; perché senza farne pur uno di buono o sensato, e senz'altro volerne sapere, prima che Anselmo si levasse da letto, fuori di sé per la gelosa rabbia che gli squarciava le viscere, morendo di voglia di vendicarsi di Camilla, che torto veruno non gli avea fatto, recossi da lui e gli disse: — Sappi Anselmo, che corrono molti giorni da che sono in lotta meco medesimo, facendomi violenza per non palesarti ciò che non è possibile né giusto che a te si celi. Ti sia noto dunque che la tua Camilla ha rinunziato ad ogni sentimento di virtù e di dovere, di che tu medesimo potrai chiarirti seguitando i miei consigli. Fingi di allontanarti, come altre volte facesti, e nasconditi invece nella tua guardaroba, al che ti daranno comodità e le tappezzerie e gli arnesi che vi si trovano, dov'ella ha promesso di ricevermi alla prima occasione; e così ci assicureremo tutti e due de' suoi pensieri. Sospeso, attonito e maravigliato rimase Anselmo delle cose dettegli da Lotario, perché tenendo Camilla per vincitrice dei finti assalti di Lotario, cominciava già a godere della gloria del suo trionfo. Se ne stette taciturno buon tempo e cogli occhi fissi in terra, indi rispose: — Tu hai eseguito, o Lotario, il dovere di amico, di che non ho mai dubitato; ed io voglio seguire in tutto i tuoi consigli; a te dunque mi affido, e tu custodisci il segreto con quella gelosia ch'è necessaria in un caso tanto impensato.” Promise Lotario: ma partito che fu di casa si pentì interamente di ciò che aveva fatto, considerando che avrebbe potuto vendicarsi di Camilla senza valersi di un mezzo sì crudele e disonorato. Malediceva il suo proprio giudizio, vituperava la sua imprudente risoluzione, né sapeva di qual mezzo valersi per distruggere il già fatto, o per escirne mercé un ragionevole partito. Si decise al fine di palesare il tutto a Camilla; e siccome occorreva di non perder tempo, procacciò il mezzo di trovarla sola in quello stesso giorno. Poiché essa lo vide, ed ebbe occasione di potergli parlare liberamente, gli disse: — Sappiate, amico Lotario, che io ho un tormento al cuore che me lo agita di maniera da farmelo scoppiare nel petto; e debb'essere maraviglia se ciò non avviene, essendo giunta la impudenza di Leonella al segno di conversare con l'amante suo quasi intera la giornata con tanto danno della mia riputazione quando potrà considerarlo chi lo vede escire di casa mia in ore sì inusitate: e il peggio sì è che non posso farle rimprovero, né castigarla, essendo essa a parte dei miei errori, ciò che mi costringe a tacere de' suoi, per lo che io pavento di una qualche disgrazia.” Credeva Lotario al principio di un tale discorso che fosse questo un artifizio di Camilla per gettare sopra Leonella il suo proprio peccato: ma vedendola piangere, averne pena e chiedergli rimedio, conobbe essere lei veritiera, donde rimase confuso, e più che mai pentito di ciò che aveva fatto: tuttavolta rispose a Camilla che non si crucciasse punto mentre egli avrebbe saputo metter freno alla temerità di Leonella. — Le scoprì poi tuttociò che la furiosa rabbia della gelosia gli aveva fatto confessare ad Anselmo, e quanto avevano deliberato fra loro. Domandò perdono di sì furiosa pazzia e implorò consiglio per rimediarvi onde uscir libero dall'intricato labirinto in cui s'era follemente gettato. Si spaventò Camilla al discorso di Lotario, e con molto sdegno e con giustissime riflessioni biasimò e vituperò sì indegno procedere e sì inconsiderata risoluzione. Ma siccome la donna ha naturalmente, piucché uomo anche astuto, pronti compensi, trovò sul fatto il modo di accorrer ad un pericolo che pareva inevitabile. Non ispiegò affatto il suo divisamento, ma l'avvertì di fare in maniera che mentre Anselmo stavasene celato nella camera, egli ci entrasse chiamato da Leonella, e che rispondesse a quanto gli fosse ella per dire, e sempre in modo come se non fosse dal marito inteso. Insisté vivamente Lotario perché gli discoprisse per intiero le sue intenzioni per potersi prestare colla più grande esattezza in tutto ciò che si credesse da lei necessario. — Torno a dirvi, disse Camilla, che altro non avete a fare che rispondermi a quanto vi dimanderò; né volle dargli anticipato conto di ciò che le pareva opportuno, temendo di trovarlo renitente al suo disegno. Posto ordine a tutto, Lotario si separò, e Anselmo nel dì seguente, col pretesto di recarsi dal suo amico alla campagna, finse di partirsi, ma andò invece a nascondersi: e lo poté fare a suo grande agio, avendogliene offerta Camilla e Leonella sicura opportunità. Si rinserrò dunque nella guardaroba con quel batticuore che ognuno può immaginarsi. Rese già certe Camilla e Leonella che stavasene ascoso Anselmo, si avvicinarono alla guardaroba, e appena postovi il piede Camilla, traendo un profondo sospiro, disse: — Leonella mia! non saria meglio che prima di porre ad esecuzione ciò che ti voglio celare, affinché tu non ti accinga a farmi veruna opposizione, io prendessi il pugnale di Anselmo che ti ho chiesto, e con questo trafiggessi questo infame mio petto? Ma no, che non è ragione ch'io paghi la pena dell'altrui colpa: voglio prima di tutto sapere ciò che in me hanno veduto gli arditi e disonesti occhi di Lotario, per renderlo temerario a segno di scoprirmi un suo tanto reo desiderio, come si è quello che ardì palesare in oltraggio del suo amico e del mio onore. Fatti, Leonella, alla finestra, e chiamalo, che dee senza dubbio trovarsi in istrada, aspettando di poter mandare ad effetto le sue prave intenzioni: sarà però prima eseguita la mia, quanto crudele, onorata altrettanto. — Ah! signora, rispose la sagace ed avvertita Leonella, e che pensate voi di fare con questo pugnale? Divisate forse di spegnere con esso la vostra o la vita di Lotario? Considerate che in ogni modo ne scapiterà la vostra riputazione e la vostra fama: vi sta meglio dissimulare l'offesa e non accogliere un sì perfido uomo a quest'ora, qui, sole: non vi dimenticate che siamo deboli donne; ch'egli è uomo e risoluto, cieco e trasportato dalla passione, e che potreste riceverne qualche oltraggio. Male si abbia il signor Anselmo mio padrone che ha concessa tanta libertà a quell'uomo indegno in casa sua: ma se, come sembrami che vogliate fare, lo ammazzerete, che faremo noi da poi che egli sia morto? — Che faremo? rispose Camilla; lasceremo che Anselmo lo sotterri, poiché sarà giusto che tenga per riposo la fatica che farà per seppellire la propria sua infamia. Chiamalo, finiscila, che ogni indugio alla dovuta vendetta sembrami oltraggio della lealtà che debbo al mio sposo.”

Tutto ciò era inteso da Anselmo, ed ogni parola che diceva Camilla lo faceva cambiare di opinione; ma quando la sentì decisa di ammazzare Lotario, si credette obbligato a discoprirsi affinché non succedesse tanta disgrazia. Lo ritenne però la brama di veder dove andasse a finire una sì ferma ed onesta risoluzione, proponendosi di uscir fuora a tempo da impedirne l'effetto. Fu colta frattanto Camilla da un forte svenimento: e Leonella, posandola sopra un letto che quivi trovavasi, cominciò a piangere dirottamente, ed a dire: — Ahimè sventurata, se per mia somma disgrazia mi morisse adesso fra le braccia il fiore dell'onestà del mondo, la corona delle mogli onorate, l'esempio della castità!” e a queste aggiungeva altre dichiarazioni, tali che chiunque l'avesse udita, tenuta avrebbe lei per la più dolente e leale donzella del mondo, e la sua padrona per una novella perseguitata Penelope. Poco tardò a risentirsi Camilla, e disse: — E perché non vai tu, Leonella, a chiamare il più traditore amico che siasi veduto al mondo? Affrettati, cammina, corri, vola; non si ammorzi il mio sdegno colla tardanza, né finisca in sole minacce ed invettive la vendetta che voglio prendermi di costui. — Vado a chiamarlo, signora mia, disse Leonella, ma voi dovete darmi prima di tutto questo pugnale; che non voglio lasciarvi in pericolo di far cosa per la quale abbiano poi a piangere tutta la loro vita quelli che vi amano. — Vattene pur sicura, Leonella mia, rispose Camilla, perché sebbene io ti paia ardita e poco avveduta nella difesa dell'onor mio, nol sarò al segno di Lucrezia che si ammazzò senz'avere commessa veruna colpa, e senz'avere tolta prima la vita a chi fu cagione della sua disgrazia. Morrò sì; ma vendicata di colui che mi astrinse a piangere innocente.” Molto si fece pregare Leonella prima di andare a chiamar Lotario: vi si indusse alfine, e mentre tardava a tornare, restò Camilla dicendo fra sé: — Quanto sarebbe mai stato meglio che avessi da me allontanato Lotario, come feci altre volte invece che dargli adito di tenermi per disonesta e ribalda col tardare a disingannarlo! Sarebbe stato senza dubbio assai meglio; ma se fatto lo avessi io non mi terrei vendicata, né risarcito sarebbe l'onore di mio marito se da per sé stesso, conosciuto il torto, rientrato egli fosse ne' suoi doveri. Paghi il traditore colla vita il concepimento di un pensiero sì disonesto; conosca il mondo (se a caso arriva a saperlo) che Camilla non pure serbò fedeltà allo sposo, ma si vendicò eziandio di colui che osò pensare di offenderlo... Or non sarebbe più savio partito dar conto di ogni cosa ad Anselmo?... ma nella lettera che gli scrissi quando era in villa non gli diedi io qualche cenno?... Egli soverchiamente buono non procurò rimedio al male, e riposando sulla fede dell'amico, non poté né volle credere che cercasse di offendere il suo onore; né l'ho creduto io medesima per molti giorni, né gli darei credenza giammai, se non fosse giunta a tale la sua temerità da non poter essere più rivocata in dubbio dagli offerti regali, dalle costanti promesse e dalle perfide e continue sue lagrime. Ma che vo io fantasticando? ha duopo forse una forte risoluzione di qualche consiglio? No, certamente, il traditore si avanzi, e se ne faccia vendetta: entri il falso e perfido uomo, venga, muoia, finiamola; poi ne accada che può. Pura io mi abbandonai in potere di colui che il cielo mi fece sposo, e pura mi voglio conservare con lui.” E dicendo questo passeggiava per quella stanza col pugnale sguainato, in tal modo che pareva uscita di senno; e non già una donna inspirata dall'onore, ma un disperato bravaccio.

Anselmo, coperto dalle tappezerie dietro le quali era ascoso, ogni cosa sentiva con somma sua ammirazione, e gli sembrava di avere avute prove abbastanza luminose senza cercarne di vantaggio, e già bramava che Lotario non comparisse per tema di qualche sinistro; stava per uscire ad abbracciare la buona moglie ma non fu in tempo, perché in quell'istante tornò Leonella conducendo Lotario per mano. Quando lo vide Camilla, segnò col pugnale una striscia sulla terra dinanzi a lui e gli disse: — Considera ciò che sto per dirti, Lotario: se per avventura tu osassi passare questo segno che vedi, od anche solo accostarviti, al punto che io ti vegga a ciò determinato, io mi trapasso il petto con questo pugnale di cui sono armata; e innanzi che tu ti accinga a dirmi una sola parola voglio che mi ascolti; che ti resterà poi tempo a soggiungere quello che più vorrai. Prima di tutto voglio che tu mi dica se conosci Anselmo mio marito, e in che opinione lo tieni; in secondo luogo voglio sapere egualmente se tu conosci me: rispondimi, non turbarti, né vi pensare molto perché non ti domando cose difficili.” Non era stato Lotario sì poco accorto da non comprendere i divisamenti di Camilla sino da quando gl'insinuò la prima volta d'indurre Anselmo a nascondersi, e secondò per tanto la sua intenzione con tanta prudenza che fecero vestire a quella menzogna l'apparenza della più candida verità. Rispose a Camilla in tal modo:

— Non mi avvisai, o bella Camilla, che tu mi avessi fatto venir qua per domandarmi cose tanto lontane dal proposito per cui ne vengo; e ben sai che tanto più è grave ogni indugio quanto più si crede vicino il conseguimento del bene sperato: ma affinché tu non creda che io rifiuti di rispondere alle tue inchieste, dico che conosco il tuo sposo Anselmo, che ci conosciamo ambedue sino dai nostri più teneri anni: mi dispenso dal parlare sulla importanza della nostra amicizia che ti è sì nota da non potermi scusare del torto che l'amore mi costringe ad usargli; ma l'amore è poderosa discolpa dei più grandi errori! io poi conosco te e ti tengo in quel concetto medesimo ch'egli ti tiene; e se ciò non fosse, pensi tu che per oggetto meno prezioso di te mi sarei indotto a mancare a ciò che debbo a me stesso, ed a tradire quelle sante leggi dell'amicizia che non possono essere violate se non da un potente nemico com'è l'amore? — Se ciò confessi, rispose Camilla, o nemico mortale di tutto ciò che merita di essere amato, come osi tu comparire dinanzi a chi sai ch'è lo specchio dove si mira quell'uno di cui tu dovresti guardare per conoscere quanto a torto l'offendi? Ah infelice me! Forse qualche atto da me inavvertito ti ha incoraggiato nel tuo perverso disegno: perché senza di ciò, quando fu mai che le tue preghiere abbiano ottenuta parola o indizio per cui avesse potuto nascere in te raggio alcuno di speranza di vedere soddisfatti gl'infami tuoi desiderî? quando mai le tue amorose espressioni non furono ributtate e riprese da me con la più grande asprezza e severità? quando vedesti da me credute le tue molte promesse, od accolti i tuoi grandiosi regali? Pur incolpo me stessa della tua temerità, perché senza dubbio qualche involontario mio sguardo alimentò la tua impertinenza, ed ora saprò io castigarmi e portare la pena che merita la tua colpa. E perché tu vedessi che divenendo io verso di me spietata non era possibile non esserlo ad un tempo verso di te ancora, testimonio ti volli del sacrificio che ho deciso di fare all'offeso onore di così reputato marito da te oltraggiato col torto più grande che immaginare si possa, ed all'onore di me che non mi sono sottratta alle occasioni col riguardo da me dovuto, se pure alcuna te ne offersi per favorire ed avvalorare le tue male intenzioni. Ti replico dunque che il sospetto che alcuna mia inavvertenza ti abbia fatto nascere pensieri sì riprovevoli, è quello che mi addolora, e che mi fa desiderare di punirmi colle proprie mie mani, e non altrimenti, perché venendo castigata da altrui renderei pubblica maggiormente la mia colpa. Ora prima che questo avvenga voglio che meco muoia chi darà compìta soddisfazione al desiderio di vendetta che nutro, e che può e dee compiersi eziandio dalla disinteressata giustizia, senza riguardo veruno a chi mi guidò a sì disperato partito.” Ciò dicendo con una forza e destrezza incredibile assalì Lotario col nudo pugnale, e con tale apparenza di trafiggergli il petto che dubitò egli medesimo della intenzione di lei, e fu costretto a valersi della sua industria e della sua lestezza per non rimanerne ferito, mentre essa, deliberata di spingere la finzione sino all'estremo, vedendo che non potea ferire Lotario, o fingendo di non poterlo, disse: — Giacché la sorte non vuol dare intera soddisfazione al giusto mio desiderio, non potrà divietarmi almeno che in parte io nol compia:” e liberata da Lotario la mano con cui teneva afferrato il pugnale ne drizzò la punta sopra l'ascella dal lato manco presso alla spalla, ove sapea che la ferita sarebbe leggiera, e subito si lasciò cadere in terra come svenuta.

Stavano Leonella e Lotario tutti sospesi ed attoniti di tale avvenimento, e dubitavano tuttavia della verità di quel fatto, vedendo Camilla stesa in terra e bagnata nel proprio sangue. Si affrettò Lotario con molta celerità, impaurito e privo quasi di respiro, a trarle il pugnale di mano, e nel vedere che di nessuna conseguenza era la sua ferita, si calmò in lui lo spavento e altamente trasecolò della sagacità, della prudenza e del molto discernimento della leggiadra donna. Allora per fare egli pure la parte sua proruppe in un doglioso e lungo lamento sulla misera spoglia di Camilla, come se fosse defunta, maledicendo altamente non pure sé stesso ma chi lo aveva trascinato a quel tristo punto, sapendo di essere inteso dal suo amico Anselmo, aggiungeva espressioni da rendere sé più degno di compassione che non Camilla, tutto che fosse giudicata estinta. Leonella la prese fra le braccia e l'adagiò sul letto, e confortandosi ad alta voce che tuttavia non fosse morta, pregò Lotario che si desse premura di far venire in gran segretezza chi la curasse. Gli chiedea consiglio nel tempo sul modo da tenersi per informare Anselmo della ferita di sua moglie se per avventura tornasse prima che fosse risanata. Rispos'egli, che dicessero ciò che loro tornava più a grado non trovandosi più in caso di porger utile consiglio ad altri. Le fece però premura di ristagnarle il sangue, poiché egli volea recarsi in luogo di non essere più veduto da niuno: e con dimostrazione di grave e insanabile dolore partì da quella casa, e quando si vide solo e sottratto agli sguardi di ognuno, non cessò di farsi mille segni di croce, attonito e trasecolato delle arti usate da Camilla, e del contegno sì naturale di Leonella sua cameriera. Rifletteva alla sicurezza che aveva riportato Anselmo di possedere nella moglie una seconda Porzia, e bramava di trovarsi con esso lui per celebrare uniti insieme la menzogna e la verità più simulata che immaginare si possa. Leonella frattanto ristagnò il sangue alla sua padrona che non era più di quello che occorreva per accreditare il suo inganno, e lavando la ferita con poco vino la fasciò il meglio che seppe, dicendo, mentre la curava, tali cose che bastato avrebbero anche senz'altre prove a persuader Anselmo, che possedeva in Camilla il simulacro dell'onestà. Alle parole di Leonella aggiunse le sue Camilla tacciandosi di codarda e di vigliacca per esserle mancato il cuore nel maggior uopo di togliersi una vita che tanto abborriva. Domandava consiglio alla sua donzella per decidersi se dovesse palesare o no l'avvenuto al suo amato consorte; ed essa era colle sue risposte di avviso che glielo celasse, per non metterlo nella necessità di vendicarsi contro Lotario; il che non poteva accadere senza pericolo di lui e detrimento del suo buon nome. Rispondeva Camilla che accoglieva il consiglio sembrandole molto prudente, ma che in ogni modo conveniva dar ragione ad Anselmo di quella ferita che non gli si poteva occultare: al che rispose Leonella che nemmeno per gioco volea per questo suggerirle una menzogna.

— Ed io, sorella, ripigliò allora Camilla, come potrò regolarmi? io che non arrischierei d'inventare e sostenere una menzogna se ne andasse la vita? Ora se non sappiamo trovare partito da sottrarcene, gli paleserò dunque candidamente la verità, né vorrò mai che mi colga egli in bugia.

— Non ve ne prendete pena, o signora; da qui a dimani, rispose Leonella penserò io al modo da tenere con lui, e chi sa che trovandosi la ferita in quel sito non si possa coprirla per modo che egli non la veda, mentre io spero che il Cielo si compiacerà di dar favore ai nostri tanto giusti ed onorati pensieri. Datevi pace, signora mia, procurate di calmare il vostro turbamento affinché il padrone non vi trovi agitata, e lasciate poi il resto a mio carico; e ripeto che vi affidiate al Cielo che sempre aiuta le buone intenzioni.”

Attentissimo erasene stato Anselmo ad ascoltare ed a vedere la rappresentazione della tragedia della morte del proprio suo onore, la quale fu eseguita con sì maravigliosi ed efficaci effetti da quei personaggi, che parvero trasformati nella verità medesima di ciò che fingevano. Bramava eccessivamente la notte e che gli si offrisse opportunità di uscire di casa per abboccarsi col suo buon amico Lotario a fine di congratularsi con lui della margarita preziosa che aveva trovata coll'essersi assicurato della bontà della sua sposa. Si presero cura quelle donne di dargli luogo ed agio da poter uscire, ed egli cogliendo il tempo andò fuori e volò a Lotario cui diede innumerevoli abbracciamenti; né sarebbe possibile riferire le espressioni del suo contento e le lodi date alla sua Camilla. Lotario udì ogni cosa senza poter dar segno di grande contentezza, standogli sulla coscienza l'inganno in cui si ritrovava l'amico, e quanto fosse da lui amaramente oltraggiato e benché Anselmo non vedesse in Lotario un ricambio di giubilo, credeva che ciò derivasse dall'avere lasciata Camilla ferita e dall'esserne stato egli la causa. Perciò fra le altre cose gli disse che non dovesse temere per conto di Camilla, da che la ferita era lieve; che perciò vivesse tranquillo, e quindi innanzi partecipasse alle sue contentezze, perché la sua industria lo aveva sollevato all'apice della tanto desiderata felicità. Mostrò eziandio desiderio che in altro non dovevano intertenersi che in comporre poesie in lode a Camilla col mezzo delle quali eterna vivesse ne' vegnenti secoli la sua memoria. Lodò Lotario il divisamento, e disse che avrebbe data tutta la mano per parte sua alla fabbricazione di sì illustre edifizio: e con ciò rimase Anselmo il più saporitamente ingannato di ogni altro marito del mondo. Egli stesso condusse per mano Lotario a casa sua credendolo l'istrumento della sua gloria, quando all'opposto vi conduceva la cagione della rovina di sua riputazione. Camilla lo ricevette con apparenze nemiche, ma in fatto con cuore amoroso e contento. Durò alcun tempo l'inganno, finché a capo di pochi mesi la fortuna rivoltò la ruota, e recò apertamente in luce la malvagità fino allora celata, con grande artifizio, avendo ad Anselmo costato la vita la sua impertinente curiosità.


CAPITOLO XXXV

 

CHE TRATTA DELLA VALOROSA E SMISURATA BATTAGLIA CHE FECE DON CHISCIOTTE CON ALQUANTI OTRI DI VINO ROSSO; E DOVE SI DÀ FINE ALLA NOVELLA DEL CURIOSO INDISCRETO.

 

Il fine della novella era vicino quando dal camerone in cui era passato a dormire don Chisciotte, escì Sancio Pancia tutto scompigliato sclamando: “Accorrete, signori, presto, presto, accorrete a soccorrere il mio padrone che trovasi impegnato nella più accanita e fiera battaglia che abbiano veduto mai questi miei occhi. Viva Dio! ch'egli diede una coltellata al gigante nemico della signora principessa Micomicona, e gli tagliò la testa netta netta come se fosse propriamente stata una rapa. — Che vieni tu, Sancio a raccontarci? disse il curato, lasciando di leggere ciò che restava della novella: hai tu perduto il cervello? come può essere, se il gigante sta lontano di qua due mila leghe?” Udirono in questo un grande strepito da dove stava don Chisciotte, il quale con quanto fiato aveva in petto gridava: “Fermati ladrone, malandrino, poltronaccio, che ti ho già preso, e a nulla ti varrà la tua scimitarra:” e con ciò pareva che tirasse gran colpi nelle pareti. Disse Sancio a quel punto: — A che serve le vostre signorie si trattengano ad ascoltare il fracasso? entrino, entrino a partire la battaglia, e a dare aiuto al mio padrone; quantunque non vi sarà forse bisogno, perché senz'alcun dubbio, il gigante è già ammazzato, e adesso renderà conto a Dio della sua mala vita passata. Ho veduto io stesso correre il sangue per terra e la testa tagliata è caduta da una banda: ed oh che gran testa! pareva un otre di vino. — Voglio esser morto, disse allora l'oste, se don Chisciotte, o don diavolo, non colpì con qualche coltellata alcuni degli otri pieni di vino rosso i quali stavano presso al capezzale del suo letto, e il vino uscitone sarà quello che par sangue a cotesto balordo.” Entrò subito nel camerone seguìto dagli altri tutti, e vi trovarono don Chisciotte nell'arnese più strano del mondo. Stava in camicia, con in testa un berrettino dell'oste rosso, unto e bisunto; teneva ravvolta al braccio sinistro la coperta del letto, quella stessa che Sancio odiava non senza il suo gran perché; portava la spada sfoderata nella mano diritta colla quale tirava colpi spietati, esprimendosi come se realmente fosse venuto alle mani con qualche gigante: e il più bello si è che non aveva ancora gli occhi aperti, e dormendo sognava di essere alle prese col gigante. Era sì scaldata la sua immaginazione nell'avventura alla quale credeva di andare, che gli fece sognare di essere pervenuto al regno di Micomicone, e di essere già impegnato nel conflitto col suo nemico e così freneticando avea dati tanti colpi contro gli otri, credendo di averli drizzati contro il gigante, che tutto quello stanzone si era fatto un lago di vino. Vedendo l'oste come andava la cosa, ne pigliò sì gran rabbia che andò colle pugna serrate alla volta di don Chisciotte, e gli diede tanti sorgozzoni, che se Cardenio e il curato non lo avessero distaccato con violenza, gli finiva di buon senno la guerra del gigante. Ad onta di tutto ciò non risvegliavasi il povero cavaliere; ed allora il barbiere, cavata dal pozzo una gran secchia di acqua fredda, gliela gettò addosso tutto ad un tratto, con che don Chisciotte cominciò ad aprire gli occhi; ma non ancora tornò in cervello per modo che potesse conoscere lo stato in cui si trovava. Dorotea non volle restar presente al combattimento del suo campione né a quello del suo nemico. Sancio andava cercando la testa del gigante da per tutto, e non trovandola mai disse: — Per fermo che questa è una casa incantata; perché l'altra volta che mi sono trovato in questo sito in cui sono adesso, mi diedero molte morsicature e molte percosse senza sapere da chi venissero, e senza che potessi vedere alcuno; ed ora non so più trovare questa testa che ho veduto tagliar cogli occhi miei proprî mentre il busto buttava un fiume di sangue. — Che sangue e che fiume di' tu, nimico di Dio? disse l'oste: non vedi, ladrone, che il sangue e il fiume altro non sono che questi miei otri tutti forati, e il vino rosso che scorre per questo camerone? Che io possa veder nuotare nell'inferno l'anima di chi li ha bucati! — Io non ne so niente, rispose Sancio, e dirò solo che sono sfortunato a segno che s'io non trovo quella testa n'andrà in fumo la mia contea dileguandosi come sale nell'acqua:” e con ciò Sancio stava assai peggio svegliato, che il suo padrone addormentato: tanto lo avevano reso ubbriaco le promesse di don Chisciotte! L'oste si disperava nel vedere la flemma dello scudiere e la malefica pazzia del padrone; e giurava che la cosa non sarebbe ita come la volta passata quando ne andarono via senza pagare. Protestò che loro non sarebbero valsi i privilegi della cavalleria per dispensarsi l'uno e l'altro dal soddisfare; ma si preparassero ad indennizzarlo sino anche delle animelle degli otri rotti. Il curato tenea don Chisciotte per mano, il quale credendo di aver compìta l'impresa e di trovarsi dinanzi alla principessa Micomicona s'inginocchiò appié del curato, e gli disse: — Ben può la grandezza vostra, potente e bella signora, vivere da oggi in avanti sicura che non le recherà più verun danno questa malnata creatura; ed io sino da questo punto sciolto mi trovo dalla parola datavi, avendola coll'aiuto di Dio, e mercé l'assistenza di quella per cui vivo e respiro, pienamente adempita. — Nol dissi io? soggiunse Sancio, ciò udendo, eh non era già io imbriaco! vedete voi come il mio padrone ha messo in sale il gigante? non v'ha più dubbio; io sono già investito della mia contea.

Chi mai poteva contenersi dal ridere trovandosi presente agli spropositi del padrone e del servitore? Tutti ne facevano il più grande schiamazzo, eccetto l'oste che si dava al diavolo. In fine tanto fecero il barbiere, Cardenio e il curato, che con molto sudore riposero in letto don Chisciotte, il quale fiacco e rifinito ripigliò un sonno profondo. Lo lasciarono dormire, e si recarono alla porta dell'osteria a consolare Sancio che disperavasi di non aver trovata la testa del gigante: ma ebbero poi assai più che fare per acchetar l'oste desolatissimo della repentina morte degli otri suoi: e la ostessa gridava con voce disperata: “In mal punto e in mal'ora entrò in casa mia questo cavaliere errante; che mille demoni se lo avessero portato via! ahi quanto caro mi costa! l'altra volta se n'è partito senza pagarmi lo stallaggio, la cena, il letto, la paglia e la biada per lui e pel suo scudiere con un ronzino e un giumento, e tutto col pretesto di essere un cavaliere venturiero. Venga il malanno a lui e alle tariffe della cavalleria per le quali questi signori non pagano mai un maravedis. Per colpa di costoro è venuto qua quest'altro signorino che mi portò via la mia coda, e me la restituì sì mal concia e dipelata, che mio marito non potrà più valersene come solea: e finalmente per compir l'opera mi ha rotto gli otri e versato il vino: che versato io possa vedere tutto il suo sangue! Oh non si pensi ora di scapparla netta, che giuro per le ossa di mio padre e per gli anni di mia madre che l'hanno da pagare maravedis sopra maravedis, e non mi chiamerei come mi chiamo, né sarei figlia di chi sono.” Queste ed altre cose diceva l'ostessa inviperita, ed era in ciò secondata dalla sua buona serva Maritorna, la figliuola sola taceva sorridendo di tanto in tanto.

Il curato rimediò ad ogni cosa, promettendo di compensare i danni il meglio che avesse potuto sì degli otri come del vino, e singolarmente del pregiudizio della coda di cui ella faceva tanto gran conto. Dorotea consolò Sancio dicendogli che quando fosse provato a tutta evidenza che il suo padrone ammazzato avesse il gigante, e si vedesse ella pacifica posseditrice del suo regno lo investirebbe della maggior contea che fosse al mondo. Sancio si sentì rinascere, ed assicurò la principessa che egli aveva veduta la tronca testa del gigante, ed in prova di ciò che asseriva, dichiarò che aveva una barba che gli arrivava fino alla cintola, e che se questa benedetta testa non si trovava, era perché quanto succedeva in quella osteria era tutto un'incantagione, di che protestava di aver avute certissime prove l'altra volta che vi si fermò ad alloggiare. Dorotea disse di credergli, ma non che se ne pigliasse fastidio, mentre sarebbe andato a dovere e al modo da lui desiderato. Tranquillizzato che fu ognuno, il curato bramò di terminare la lettura della novella, vedendo che vi mancava assai poco. Cardenio, Dorotea e gli altri tutti lo pregarono che la finisse, ed egli per contentare gli altri ad un tempo e sé stesso continuò come segue:

“Accadde pertanto che la piena fiducia che riponeva Anselmo nella bontà di Camilla, lo faceva vivere una vita contenta e senza pensieri, mentr'ella per dar colore all'inganno facea mal viso a Lotario, acciocché Anselmo credesse il contrario dell'amore che gli portava: e perché la finzione avesse sempre più apparenza di verità, facea Lotario scorgere la sua ripugnanza di recarsi a lei perché le sue visite non erano gradite: ma il tradito Anselmo tenevasi molto raccomandato affinché questa cosa non succedesse; ed in tal guisa era egli stesso il fabbro del suo disonore quando credeva di avere assicurata la propria felicità. Frattanto Leonella nel veder favoriti gli amori suoi, giunse al segno di abbandonarvisi senza riserbo alcuno, fidandosi di essere protetta dalla padrona. Finalmente sentì Anselmo una notte camminare per la stanza di Leonella, e recandosi per veder chi fosse, si accorse che qualcuno gl'impediva di aprirne la porta: ma tanto si adoperò che riescì a vedere un uomo che dalla finestra saltava in strada, voleva correre per raggiungerlo e riconoscerlo, ma non gli riuscì né l'una né l'altra cosa, perché Leonella lo trattenne dicendogli: Calmatevi, signore, non vi alterate né inseguite colui che saltò dalla finestra: egli è mio sposo.” Non volle Anselmo prestarle fede, che anzi accecato dalla collera trasse un pugnale per ferire Leonella, intimandole di palesargli il vero o l'ucciderebbe. Essa fuori di sé per timore e senza sapere ciò che si dicesse, così parlò: — Non mi uccidete, o signore, che vi rivelerò cose d'importanza più grandi assai di quello che voi non credereste. — Palesale all'istante, disse Anselmo, o tu sei morta. — Sarà impossibile il farlo subito, disse Leonella, poiché io sono fuori di me stessa, datemi tempo sino a dimani, e sentirete un racconto che resterete preso di meraviglia: assicuratevi intanto che colui che saltò dalla finestra è un giovine di questa città da cui io ebbi promessa che sarà mio sposo.” Si acchetò Anselmo ciò udendo, e le concesse il termine chiesto, non immaginando mai di sentire colpevole Camilla, poiché riposava con piena fiducia e tranquillità sulla sua virtù. Lasciò pertanto chiusa Leonella nel suo appartamento, da cui egli partì, avendole intimato che uscita non sarebbe se prima svelato non avesse ogni cosa. Si recò sul fatto a vedere Camilla, ed a farle sapere l'avvenuto con la cameriera, e la promessa di lei di palesargli cose grandi e importanti. Non è mestieri dire se siasi o no turbata Camilla: sì grande fu lo spavento che la colse, credendo veracemente (ed era da crederlo), che Leonella volesse scoprire ad Anselmo la sua mancanza di fede, che non ebbe cuore di attendere per vedere se vero o fallace si fosse il sospetto di lei; e quando le parve che Anselmo si fosse addormentato, in quella notte medesima pose in un involto le sue gioie e i denari, e senza essere veduta da chicchessia fuggì di casa e si recò a quella di Lotario. Lo informò del successo, gli chiese asilo di sicurezza e gli propose una fuga con lui per condursi in luogo fuori di pericolo di essere smascherati da Anselmo. La confusione in cui Camilla pose Lotario fu tale ch'egli non seppe risponder parole e nemmeno risolversi a verun partito: ma si decise in fine di condurre Camilla ad un monastero in cui era abbadessa una sua sorella. Piacque a Camilla, il partito, e colla celerità ch'esigeva la circostanza, Lotario le fu scorta, ed egli medesimo uscì subito della città senza dar conto ad alcuno della sua partenza. Venuto il giorno né essendosi Anselmo accorto che Camilla gli si era tolta da lato, pel gran desiderio di sapere ciò che Leonella gli avea a dire, si alzò e recossi dov'ella stava rinserrata. Entrò nella stanza, ma non rinvenne più la donzella: bensì due lenzuola annodate alla finestra, prova evidente ch'erasi calata in istrada e fuggita. Tornò sconsolatissimo per far palese a Camilla l'avvenimento ma non trovandola né in letto né per tutta la casa, ne rimase fuori di sé. Chiese di lei a tutti i domestici, e nessuno gliene seppe dar conto, e cercando di Camilla gli venne fatto di vedere ch'erano aperti gli armadi suoi, e che vi mancava il meglio delle sue gioie. Allora si persuase che Leonella non era altrimenti la cagione della sua disgrazia; e tal quale egli si ritrovava e senza terminare di vestirsi, dolente e tapino recossi dal suo amico Lotario per metterlo al fatto di ciò che eragli occorso; ma quando non lo trovò ed invece intese dai domestici ch'erasi tolto di casa nella scorsa notte seco portando quanto avea di danaro, fu sul punto di perdere affatto il sentimento. Per dir breve, ritornandosene a casa non vi trovò pur uno dei domesti suoi, ma ogni cosa abbandonata e deserta. Non sapea che pensare, che dirsi, che fare, ed era sul punto di dare in follia. Si vedeva in un istante rimasto senza moglie, senz'amico, senza domestici, abbandonato, a parer suo, dal Cielo che lo copriva, e quello che peggio era, senza onore perché la fuga di Camilla gli distruggeva anche questo. Si determinò alfine, dopo lunga irresoluzione, di recarsi alla villa appresso quel suo amico dove aveva fatto soggiorno, quando aveva dato campo egli stesso agli altri di macchinare la sua disavventura. Chiuse le porte di casa, montò a cavallo, e con affannoso respiro si pose in viaggio; ma non giunse alla metà del cammino, quando oppresso dall'affanno gli fu forza smontare per legar ad un arbore il suo cavallo, al cui tronco lasciossi cadere mettendo i più dogliosi sospiri; e qui si trattenne fino al declinare del giorno, quando vide venire dalla città un uomo a cavallo, e pregatolo a soffermarsi un istante, le domandò quali nuove correvano in Firenze. “Le più strane, rispose il cittadino, che da molto siensi intese in quella città; perché pubblicamente si dice che Lotario, quel grande amico di Anselmo, il ricco abitante a San Giovanni, se ne fuggì nella passata notte con Camilla moglie del detto Anselmo, la quale in fatti è sparita. Questo disse una servente di Camilla che fu colta nella notte che calavasi giù da una finestra della casa di Anselmo con due lenzuola aggruppate. A me non è noto per disteso come sia passato l'affare, e so soltanto che la maraviglia è universale nella città per tale avvenimento, poiché nessuno poteva attendersi un simil fatto dalla grande amicizia che passava fra quei due, e che giunta era a sì alto grado, a quanto ne dicono, ch'erano chiamati i due amici. — Sapreste per avventura, disse Anselmo, a qual parte siansi avviati Lotario e Camilla? — Neppure per sogno, disse il cittadino, tuttoché la giustizia per trovarli abbia fatte le più diligenti perquisizioni. — Andatevene pur con Dio, signore, gli disse Anselmo. — E con Dio restatevi,” soggiunse il cittadino partendo. Ricevute a questo modo sì dolorose novelle, trovossi Anselmo in procinto di perdere non pure il cervello, ma ben anche la vita. Si levò, come poté, e giunse a casa dell'amico, il quale era ignaro tuttavia della sua disgrazia, ma come lo vide così spossato e sparuto, si avvisò che qualche grave sciagura gli fosse accaduta. Chiese Anselmo senz'altro di essere posto a letto, e che gli desse l'occorrente per iscrivere; fu servito del tutto, e lasciato solo (perché così volle) e colla porta della camera serrata. In tale solitudine cominciò il pensiero della sua sventura ad accendergli talmente la fantasia, che chiaramente conobbe dai sintomi mortali che lo assaltavano, d'esser vicino a perdere la vita, e si decise allora di rendere a tutti palese la causa della strana sua morte: ma datosi appena a scrivere, prima di stendere sulla carta quanto bramava gli mancò il respiro, e rimase morto, vittima del dolore prodottogli dalla sua indiscreta curiosità.

“Vedendo la seguente mattina il padrone di casa ch'era già tardi, e che Anselmo non chiamava, si determinò di entrare nella sua stanza per sapere se erasi liberato dalla piccola indisposizione. Così fece, ma con ispavento lo vide steso colla bocca all'ingiù, colla metà della persona sul letto e coll'altra metà sul tavolino sopra il quale stava la carta scritta ed aperta tenendo egli tuttavia in mano la penna. Si accostò l'amico avendolo prima chiamato e preso per mano; ma non sentendosi rispondere, e trovandolo freddo freddo conobbe che già non era più in vita. Stupito e doglioso all'estremo, chiamò i suoi servitori per riconoscere la disgrazia avvenuta ad Anselmo, e tolto quel foglio che riconobbe di pugno del suo amico, vide ch'era così concepito:

“Un folle ed indiscreto desiderio mi ha privato di vita. Se le nuove della mia morte perverranno a Camilla le sia noto che le perdono non essendo essa obbligata a cose soprannaturali, né io avrei dovuto esigerle da lei. Poiché sono stato io medesimo il fabbro del mio disonore, non ho di che...”

“Fin qui scrisse Anselmo: dal che si ebbe a dedurre che a quel punto, senza poter compire lo scritto, mancata gli fosse la vita. Nel giorno seguente diede lo sconsolato amico ragguaglio del tragico fine di Anselmo ai parenti suoi, i quali seppero altresì qual era il monastero in cui si trovava Camilla. Anche questa sciagurata era quasi giunta al punto di accompagnare lo sposo nel suo viaggio all'eternità; e ciò non per le nuove ricevute della morte di lui, ma per aver risaputo che il suo amico Lotario se n'era fuggito. Dicesi che quantunque rimasta vedova non volle però uscire dal monastero; e non volle nemmanco farsi monaca, finché dopo alquanti mesi le giunsero nuove che Lotario era morto in battaglia data in quel tempo dal signor di Lautrec al gran capitano Gonzalo Fernandez di Cordova nel regno di Napoli, dove erasi recato il troppo tardi pentito amico. Quando ciò pervenne a notizia di Camilla, si determinò a fare la sua professione, ma terminò in breve la esistenza in seno alla più cupa tristezza e malinconia. Questo fu il fine della luttuosa istoria fine causato da un insensato principio.”

— Mi è piaciuta moltissimo questa novella, disse il curato, ma non so darmi a credere che il fatto sia vero; ma se poi è finzione, male immaginò l'autore, non essendo verosimile che siavi marito sì sciocco da cimentarsi a sì disgustosa sperienza come fece Anselmo. Sarebbe probabile il caso tra un amante ed una amata, ma tra marito e moglie è impossibile: non mi dispiace però il modo con cui è stata scritta.”

 


CAPITOLO XXXVI

 

SI RACCONTANO ALTRI VARI AVVENIMENTI SUCCESSI NELL'OSTERIA.

 

— Evviva! gridò l'albergatore d'in su la porta dell'osteria; vedo da quella parte avanzarsi una buona comitiva di gente: se sono diretti a questa vôlta noi faremo un gaudeamus.

— Che genti sono? disse Cardenio.

— Quattr'uomini, rispose l'oste, a cavallo con lancie e targhe, tutti con maschera nera, ed accompagnano una donna vestita di bianco che ne viene sopra una sella donnesca, col viso coperto di nero; poi altri due servitori a piedi.

— Sono molto vicini? dimandò il curato.

— Tanto, rispose l'oste, da essere quasi arrivati.”

Ciò udendo Dorotea si coperse il viso, e Cardenio entrò nel camerone di don Chisciotte, e quasi subito dopo arrivarono nell'osteria tutte le persone già annunciate dall'oste.

Smontati da cavallo i quattro che erano di figura molto gentili e assai bene in assetto, andarono ad aiutare la dama a discendere dalla sua sella; e presala uno di essi fra le sue braccia l'adagiò sopra una sedia, che stavasi all'ingresso della stanza dov'erasi ritirato Cardenio. In questo mentre nessuno di loro erasi levata la maschera, né pronunziato avea parola eccettuata però la donna, che nell'atto di sedere mandò un profondo sospiro, e si lasciò cadere le braccia come persona inferma e desolata. Frattanto i servitori a piedi posero in istalla i cavalli, e dietro a loro andò il curato, desideroso di sapere che gente era quella che siffatto arnese vestiva, e guardava sì rigoroso silenzio. Si rivolse ad uno dei domestici, gliene chiese conto, ed ebbe questa risposta;

— In fede mia, o signore, io non saprei dirvi chi sia questa gente; mi pare bensì che sia di gran nobiltà, e colui singolarmente che prese la signora fra le sue braccia, siccome vedeste; e dico questo perché tutti gli altri lo rispettano ed eseguiscono esattamente ogni suo comando.

— E chi è la signora? domandò il curato.

— Neppure in questo posso compiacervi, rispose il servo, giacché durante tutto il viaggio non le ho mai veduta la faccia; bensì la ho sentita molte volte a mandar certi lamenti che pareva che ne dovesse morire: non è poi da farsi maraviglia se noi servitori non sappiamo più di quello che vi ho detto, non essendo se non due giorni che io e il mio compagno venimmo per caso a questo servizio, mentre avvenendosi in noi per istrada, fummo da loro persuasi e pregati che li seguitassimo sino in Andalusia coll'offerta di darci un buon pagamento.

— Né avete inteso il nome di alcuno di essi? domandò il curato.

— No, certamente, rispose il giovane, perché marciano tutti sì taciturni ch'è uno stupore; né si ode fra loro altro che sospiri e singhiozzi della povera signora, sì dirotti che movono tutti noi a gran compassione. Noi crediamo senz'altro che dovunque la menino vi sia condotta per forza, ed a quanto apparisce dal suo vestito, essa è monaca, o sta per entrare in un monastero, il che è forse più probabile; ma perché forse il ritiro non le andrà a sangue, verrà di qui tanta sua disperazione.

— Tutto questo può darsi, disse il curato:” e lasciandoli tornò a Dorotea, la quale avendo inteso i sospiri della signora velata, mossa naturalmente a compassione se le accostò e disse:

— Che male vi sentite, signora mia? S'egli fosse mai della natura di quelli che possono per uso e sperienza di donne essere curati, io mi offro ben volentieri ad assistervi.

Taceva costantemente la sconsolata donna, e benché Dorotea le reiterasse le offerte, proseguiva a serbare un rigoroso silenzio, finché arrivò quel cavaliere velato a cui il servo affermava che obbedivano gli altri tutti, e disse a Dorotea: “Non vogliate disturbarvi, o signora, ad offerire nulla a questa straniera, perché ha in costume di non aggradire ciò che si fa per suo bene; né la eccitate a rispondervi, a meno non vi piaccia udir qualche menzogna dalla sua bocca.

— Non ne ho mai proferito una sola, disse allora colei che sino a quel punto avea taciuto; ed anzi la mia disgrazia deriva dall'essere io veritiera e nemica del mentire; ne allego testimonio voi stesso, che dal candore di quella verità che vive sulle mie labbra, traete adesso argomento di essere falso e mendace.” Udì Cardenio queste parole chiaramente e distintamente, come quello che stavasi molto vicino a chi le proferiva, mentre n'era diviso dalla sola porta della stanza di don Chisciotte. E non le ebbe appena sentite che esclamò: “Dio grande! che sento io mai? qual voce mi giunge all'orecchio?” A queste parole si volse la signora con grande agitazione, né vedendo chi le proferiva, si alzò in piedi avviandosi per entrare nella stanza; ma il cavaliere si oppose, né lasciolla muovere un passo. Cadde a lei pel gran turbamento e scompiglio il velo che le copriva il volto, e lasciò scorgere una incomparabile bellezza ed un celeste sembiante, benché scolorito e impaurito. Andava cercando avidamente cogli occhi ogni angolo di quei luoghi con sì grande ansietà che sembrava persona fuori del senno; e questi movimenti produssero molta afflizione in Dorotea non meno che in quanti la stavano guardando, senza poterne indovinar la cagione. La teneva il cavaliere con molta forza immobile per le spalle, e trovandosi tutto affacendato, non poté impedire che la maschera gli cadesse, come cadde in effetto, lasciando scoperto il sembiante. Alzò gli occhi in quel punto Dorotea, che teneva abbracciata la signora incognita, e vide che quello che sforzavasi a rattenerla, era il suo sposo don Fernando. L'ebbe conosciuto appena che traendo dall'intimo del petto un lungo e dolentissimo: Oimé!” cadde svenuta: e se non fosse stato il barbiere, che la sostenne trovandosele appresso, sarebbe stramazzata sul suolo. Si affrettò il curato a torle dal viso il velo che la copriva per ispruzzarla di acqua affinché rinvenisse, né l'aveva appena scoperta che fu riconosciuta da don Fernando, il quale al vederla restò come uomo morto. Non per questo si staccò egli da Lucinda, che pur voleva allontanarla siccome quella che avea riconosciuto Cardenio nel sospirare, ed egli lei. Cardenio ancora avea udito il doloroso oimé di Dorotea quando cadde svenuta, e credendo che fosse proceduto dalla sua Lucinda, escì fuori tutto convulso dalla stanza, ed il primo in cui si avvenne fu don Fernando, il quale teneva tuttavia stretta fra le braccia Lucinda. Fu allora che don Fernando conobbe Cardenio; egli, Lucinda, Cardenio e Dorotea restarono tutti mutoli e sospesi, non potendo comprendere lo spettacolo che loro stava dinanzi. Tacevano e si guardavano l'un l'altro: Dorotea don Fernando, don Fernando Cardenio, Cardenio Lucinda e Lucinda Cardenio. Prima a rompere il silenzio fu Lucinda che, volto il parlare a don Fernando, così gli disse:

“Lasciatemi, don Fernando, lasciatemi una volta che bene sapete chi mi son io; lasciate che mi appoggi all'olmo di cui sono vite, dal cui sostegno non hanno potuto rimovermi le importunità, le minacce, le promesse, le lusinghe, i regali. Considerate per quali disusate ed a noi ascose vie mi vien dal Cielo posto innanzi il vero mio sposo e già sapete per mille pericolose sperienze che la sola morte potrà cancellarlo dalla mia memoria: decidetevi una volta per sì evidenti disinganni a convertire (giacché non potete far altra cosa) l'amore in rabbia, l'affezione in disprezzo e finite, con ciò di togliermi questa misera vita, ma sappiate che io la perderò volentieri purché ciò mi accada dinanzi al mio sposo; che la mia morte gli sarà prova incontrastabile del candore di quella fede che gli ho serbata e gli serberò fino all'ultimo respiro.”

Era frattanto rinvenuta Dorotea, ed avea inteso tutto ciò che erasi detto da Lucinda, di maniera che conobbe bene chi ella fosse; e vedendo che don Fernando la teneva tuttavia fra le braccia, né le rispondeva parola, ella sforzandosi quanto poteva, si alzò per gittarsi ai suoi piedi, e spargendo un fiume di belle e dolenti lagrime così prese a dirgli: “Se i raggi di questo sole che voi tenete ecclissato fra le braccia non vi abbagliassero gli occhi, avreste veduto, o signore, che quella che sta ginocchioni ai vostri piedi è la sfortunata Dorotea, che tale sarà finché a voi non piaccia di mutar la sua sorte.

“Sì, sono io quell'umile contadina che piacque alla vostra bontà di sollevare all'altezza di potere chiamarsi vostra. Quella sono io che rinserrata fra i cancelli dell'onestà visse contenta, finché vinta dai vostri scongiuri e da quei sentimenti che parevano sì amorosi e sinceri aprì la porta del suo ritiro, e vi rese signore della sua libertà: dono da voi sì male accolto come chiaramente dimostrano il luogo e il modo del presente incontro fra noi! Non vorrei, mio signore, che sospettaste di trovarmi qui trascinata sui passi del mio disonore; ma lo sono su quelli del vivo cruccio e dell'afflizione che in me produsse il vedermi da voi dimenticata. Voi voleste che divenissi vostra e lo voleste per modo che vi rende impossibile di non essere mio. Considerate una volta che lo sviscerato amore che vi porto, può essere degno compenso della bellezza e della nobiltà per cui mi abbandonaste. La vezzosa Lucinda, essendo voi mio, essere non può vostra sposa, perché già è sposa di Cardenio; e vi sarà molto più facile, se ben riflettete, ridurre la vostra volontà ad amare chi vi adora, che non è tentare di ridurre ad amarvi chi vi abborrisce tuttoché da voi sia amata. Voi avete sollecitata e vinta la mia resistenza; vi era pienamente palese la mia condizione; vi è noto per quali promesse io mi arresi alla vostra volontà; né potete trovar pretesto per accusarmi di avervi ingannato. Ora se così è, com'è senza dubbio, e se voi siete cristiano non meno che cavaliere, perché volete con tante difficoltà indugiare a rendere felice il fine come fu il principio? E se non mi amate per ciò che sono (che sono vostra vera e legittima sposa) amatemi almeno ed accoglietemi per vostra schiava, che mi terrò per contenta, solo che io vi possa essere vicina, né permettete col vostro abbandono e col vostro disprezzo che si accresca danno al mio disonore; non funestate la vecchiezza ai miei genitori, che non lo meritano i servigi da loro come buoni vassalli prestati alla vostra casa in ogni tempo; e se vi sembra di avvilire il vostro sangue meschiandolo al mio, considerate che poca o nessuna nobiltà evvi al mondo che non abbia battuto lo stesso sentiero, e che quella che portano seco le mogli non accresce il pregio delle illustri discendenze: tanto più che la vera nobiltà consiste nella virtù, e se di questa voi vi spogliate negandomi ciò che giustamente mi dovete, io resterò con maggiori diritti di nobiltà di quelli che voi non abbiate. Ciò che vi dico per ultimo, mio signore, si è che, vogliate o non vogliate, io sono vostra sposa. Ne fanno fede le vostre parole, che non sono né possono essere mendaci, se pur volete poter vantarvi di quella nobiltà per cui mi vilipendete; ne fan fede la vostra sottoscrizione e il testimonio del Cielo da voi chiamato ad assistere alle vostre promesse. E dopo tutto questo non tacerà la vostra stessa coscienza, ma vi rimorderà in mezzo al corso dei vostri passatempi, facendovi presenti le verità che vi ho esposte, ed avvelenando ogni vostro contento.”

Queste ed altre ragioni disse l'afflitta Dorotea con tal sentimento e collo spargimento di tante lagrime che fece piangere gli stessi compagni di don Fernando ivi presenti. La ascoltò don Fernando senza interromperla, finché, terminate le parole, essa cominciò a mandare tanti singhiozzi e sospiri che sarebbe stato cuor di bronzo quello che a vista di sì intenso dolore non ne fosse rimasto intenerito. Lucinda la stava guardando, tocca non meno dall'affanno di Dorotea che maravigliata del suo grande discernimento e della sua bellezza; e cercava di avvicinarsele per dirle qualche parola di consolazione, ma non glielo permettevano le braccia di don Fernando che tuttavia la tenevano stretta. Pieno di confusione e di stupore, dopo avere per buona pezza mirato Dorotea con somma attenzione, egli aprì le braccia, e mettendo in libertà Lucinda disse: “Vincesti, bella Dorotea, vincesti, né è possibile di resistere a tante virtù che concorrono a difenderti.” Lucinda dopo il sofferto svenimento sarebbe caduta per debolezza quando fu lasciata libera da don Fernando, ma trovandosele a lato Cardenio, ch'erasi messo a tergo di don Fernando, per non essere conosciuto, posposto ogni timore e cimentandosi ad affrontare ogni evento, si prestò a sostenerla, ed accogliendola fra le sue braccia le disse: — Se gradisce e se vuole il pietoso Cielo ch'io possa gustar qualche riposo, o leale, costante ed unica signora mia, non credo che tu possa chiamarti più sicura di quello che sei mentre ti accolgono queste braccia che in altro tempo ti avrebbero stretta quando le necessarie solennità mi avessero dato dritto di chiamarti mia sposa.” A questo discorso fissò Lucinda gli occhi sopra Cardenio, ed avendo cominciato a riconoscerlo prima per la voce e poi per la vista, quasi fuori di se stessa e senza riguardo ai circostanti se gli gittò colle braccia al collo, ed unendo il suo al viso di lui gli disse: “Voi sì, signore, voi siete il padrone di questa prigioniera creatura in onta all'avversa sorte e in onta alle minaccie di questa mia vita che solo per voi si sostiene.” Strano spettacolo si fu questo per don Fernando e per tutti gli altri restando ognuno maravigliato di tanti immaginati successi. Sembrò a Dorotea che don Fernando avesse perduto il colore del viso, e che facesse moto per vendicarsi di Cardenio portando la mano alla spada. Un tale sospetto la mosse con indicibile celerità ad abbracciargli le ginocchia e tenendolo stretto per modo da non lasciargli adito a moversi, senza intermettere il pianto un momento solo proruppe: “Che meditate voi di fare, unico rifugio mio, in tale impensato avvenimento? Avete ai vostri piedi la vostra sposa, e quella che vorreste fosse vostra sta fra le braccia di suo marito. Credete voi cosa giusta o possibile il disfare ciò che dal Cielo si è fatto? Non è forse miglior consiglio sollevare alla vostra altezza colei che, esempio di virtù e di fermezza, vi sta qui dinanzi bagnando di amoroso pianto il viso e il petto del vero suo sposo? Vi prego, per quanto v'ha in cielo di sacro, e per onore di voi stesso vi supplico che il presente sì chiaro disinganno non solo non accresca lo sdegno vostro, ma lo diminuisca per modo da permettere con quiete e tranquillamente che questi due amanti vivano uniti senza ostacolo per tutto il tempo che loro concederà il Cielo. Sarà questa la più alta prova della generosità ond'è fornito il nobile ed illustre vostro cuore, e conoscerà il mondo che la ragione prevale in voi ad ogni passione.”

Frattanto che parlava a questa maniera Cardenio, benché tenesse abbracciata Lucinda, non perdeva di vista don Fernando, deliberato se mai facesse qualche moto in suo pregiudizio, di difendersi e di offendere anche quei tutti che se gli palesassero nemici a costo della propria vita. In questo mentre gli amici di don Fernando, il curato e il barbiere che furono presenti ad ogni cosa, intervennero a rendere la scena più grave, né vi mancò quel buon uomo di Sancio Pancia. Si fecero tutti attorno a don Fernando supplicandolo di aver compassione delle lagrime di Dorotea, e che vero essendo (come non dubitavano) ciò che da lei era stato esposto, non la lasciasse delusa nelle sue giuste speranze. Gl'insinuarono di considerare che non già per caso, siccome parea, ma per disposizione particolare del Cielo trovaronsi uniti tutti dove meno potevano pensarlo; tenesse per fermo che la morte sola avrebbe potuto dividere Lucinda da Cardenio, e che se pure li separasse il filo di una tagliente spada, eglino avrebbero avuta per felicissima la loro morte. Soggiunse il curato che negl'irrimediabili eventi era proprio dell'uomo saggio, sforzando e vincendo se stesso, spiegare un generoso cuore e concorrere per quanto stesse da lui a far sì che potessero i due sposi goder di quel bene che veniva loro impartito dal Cielo. Considerasse la bellezza di Dorotea cui poche o forse nessuna potevano uguagliarsi; riflettesse alla sua umiliazione ed all'estremo amore che gli portava; e sopra ogni altra cosa badasse che vantandosi cavaliere e cristiano, doveva innanzi tutto mantenere a lei la parola; e che ciò eseguendo servirebbe al dovere verso Dio, e n'avrebbe la piena approvazione delle genti dabbene, le quali conoscono e sanno ch'è prerogativa della bellezza, benché sia collocata in bassa persona (quando però abbia per compagna la onestà) di poter sollevarsi e compararsi a qualunque altezza, senza nota di biasimo in chi la solleva e la adegua a sé; e che non può ascriversi a colpa il seguire le proprie inclinazioni quando si compiono senza offesa del Cielo. Aggiunse a queste tante e tali altre ragioni che il cuore di don Fernando, derivato veramente da nobil sangue, si piegò, e si lasciò vincere dalla forza della verità, la cui luce tutto lo veniva occupando: e la prova che diede di essersi arreso e di avere accettato il proposto consiglio si fu il chinarsi, l'abbracciar Dorotea e prorompere in queste parole: “Alzatevi, signora mia, che non è dovere che stiasi prostesa ai miei piedi quella che dee stare scolpita nel mio cuore; e se non vi ho provata finora la verità dei miei detti, ciò forse avvenne per suprema disposizione, affinché riconoscendosi da me il tenore della fede con cui mi amate, possiate voi ricevere un corrispondente ricambio di stima e di affetto. Quello di che vi prego si è che non mi rinfacciate il mio sconsigliato procedere e la mia ingratitudine, perché quell'impulso che m'indusse a volervi per mia sposa, quel medesimo poi mi aveva strascinato a tentare di non esser vostro. In prova che ciò sia vero volgetevi e mirate gli occhi della già contenta Lucinda, e troverete in essi la discolpa di tutti i miei falli; e giacché ella pervenne al colmo dei suoi desiderî, ed io in voi ho trovato chi compirà i miei interamente, viva ella sicura e contenta lunghi e felici anni col suo Cardenio, ch'io pregherò genuflesso il Cielo che mi conceda lo stesso colla mia Dorotea.” Così dicendo reiterò gli abbracciamenti, ed era tanto commosso che a gran fatica impedì che le lagrime non dessero maggior dimostrazione del suo amore e del suo pentimento. Non era ciò da temersi per quelle di Lucinda e di Cardenio, e per quelle di quasi tutti gli altri che erano quivi presenti, da che tante ne fecero piovere dagli occhi, gli uni pel loro particolare contento, gli altri per l'altrui felicità che sembrava essere ivi accaduta qualche sciagura. Piangeva lo stesso Sancio, ma ebbe a confessare di poi che non per altro piangeva egli se non se per vedere che Dorotea non era più, come si figurava, la regina Micomicona, dalla quale attendevasi tanti benefizi. Durò qualche tempo unitamente alle lagrime la generale maraviglia, dopo di che Cardenio e Lucinda si posero ginocchioni dinanzi a don Fernando ringraziandolo del favore da lui ricevuto, e ciò con sì obbliganti espressioni che don Fernando non seppe rispondere, ma li rialzò e li abbracciò con molta affezione e con singolare cortesia. Domandò poscia a Dorotea com'erasi recata in quel luogo sì discosto dal suo paese, ed ella brevemente e con bel garbo narrò quanto aveva riferito a Cardenio; di che n'ebbero sì grande soddisfazione don Fernando e i compagni suoi, che avrebbero desiderato che non terminasse il racconto sì presto: tanta era la grazia con cui esponeva Dorotea la storia delle sue passate disavventure. Finito ch'ebbe di parlare, narrò don Fernando ciò che eragli avvenuto nella città dopo di aver trovato in seno a Lucinda il foglio con cui dichiarava di essere già sposa a Cardenio; disse ch'era stato sul punto di ucciderla se i parenti di lei non gli avessero impedito di compiere il suo tristo disegno; e che quindi se ne partì pieno di risentimento e di dispetto deciso di vendicarsi a tempo più opportuno; che gli pervenne a notizia essersi sottratta Lucinda dalla casa paterna senza che alcuno sapesse dove si fosse diretta: e che finalmente a capo di alcuni mesi egli seppe in modo da non dubitarne ch'erasi ritirata in un monastero, determinata di restarvi per tutta la sua vita, se non avesse potuto farsi sposa a Cardenio: che avendo ciò risaputo, egli con quei tre cavalieri, se ne andò al luogo di sua dimora senza farle sapere il suo arrivo, temendo che ciò potesse renderla più guardinga: che un giorno veduto aperto il convento, lasciò due dei compagni suoi di guardia alla porta, ed egli penetrò con l'altro nel monastero in traccia di Lucinda: e trovatala appunto nel chiostro, mentre stava parlando ad una monaca, impadronendosi di lei (senza darle adito a verun tentativo per sottrarsi da loro), seco la condussero in luogo dove poi pensarono il modo di partirsi senza opposizione di chicchesia; e che tutto ciò eseguirono a mano salva, per esser situato il monastero molto lungi dall'abitato. Soggiunse che Lucinda perdette i sentimenti tosto che si vide in loro potere: che altro dopo d'allora non fece che piangere e sospirare senza proferire parola alcuna, e che finalmente accompagnati così dal silenzio e dal pianto, erano giunti a quell'osteria, dove pareagli di aver trovato il paradiso e dove finalmente avevano trovato un termine tutte le disavventure.


CAPITOLO XXXVII

 

CONTINUA LA STORIA DELLA CELEBRE PRINCIPESSA MICOMICONA CON ALTRE GRAZIOSE AVVENTURE.

 

Sancio aveva ascoltato tutto ciò con molto dolore dell'anima sua, vedendo svanire le speranze di tante promesse, e la bella Micomicona essersi trasformata in Dorotea e in don Fernando il gigante, mentre che il suo padrone saporitamente dormiva senza verun pensiero delle cose che venivano accadendo. Non poteva Dorotea assicurare se stessa se fosse vero o sognato il bene allora posseduto: lo stesso dubbio occupava anche Cardenio e Lucinda; e rendeva grazie al cielo don Fernando per l'ottenuto favore di essere uscito da un intricato labirinto, che lo metteva a cimento di perdere l'anima e la riputazione. Finalmente quanti trovaronsi nell'osteria erano contenti e giulivi del successo che avevano avuto casi sì difficili e disperati. Il curato, come persona accorta, lodava tanti avvenimenti, e felicitava ciascuno particolarmente pel conseguito bene ma chi giubilava sopratutti era l'ostessa per la sicurtà riportata da Cardenio e dal curato di essere poi risarcita dei danni e delle perdite a lei procurate da don Chisciotte. Il solo Sancio, come già si è detto, era lo sconsolato, il malgiunto: quindi andò al suo padrone appena fu svegliato, e con malinconico viso disse: — Può bene vossignoria, signor cavaliere dalla Trista Figura, dormire a suo beneplacito senza pensiero di dover ammazzare nessun altro gigante, né di restituire la principessa al suo regno, perché non c'è altro da fare. — E ben te lo credo, rispose don Chisciotte, perché ho dato al gigante una sì straordinaria e sanguinosa battaglia che non darò mai più l'eguale in tutto il corso della mia vita, mentre con un solo man rovescio, taf, gli ho buttata in terra la testa, e fu in sì gran copia il sangue sparso che ne correvan torrenti come se fosse stata acqua. — E come se fosse stato vino rosso, potrebbe dire molto meglio la signoria vostra, soggiunse Sancio; poiché voglio che ella sappia, se pur lo ignora, che il gigante morto non era altro che un otre forato, il sangue fior di vino rosso, e la testa... la testa è il malanno che se ne porta ogni cosa. — Che diamine vai tu dicendo, pazzo che sei? replicò don Chisciotte; hai tu perduto il cervello? — Si levi vossignoria, disse Sancio, e vedrà la bella prodezza che ha fatta, e quello che dovremo poi pagare all'oste. Vedrà in oltre la regina trasformata in una semplice dama chiamata Dorotea, con altri avvenimenti che se vorrà riflettere bene la faranno maravigliare. — Non me ne maraviglierei punto, replicò don Chisciotte, perché se ben ti ricordi, l'altra volta ti dissi che quanto qui succedeva era tutto opera d'incantesimo, e non sarebbe da stupire gran fatto se lo stesso ci accadesse presentemente. — Vorrei darvi fede, rispose Sancio, se l'essere io sbalzato per aria colla coperta fosse stata cosa da incanto, ma fu vera e reale, e ho veduto io coi miei propri occhi l'oste istesso di adesso, il quale teneva un capo della coperta, e mi sbalzava alto al cielo con gran lestezza e velocità, e più rideva quanto più gli riusciva di cacciarmi in alto. Dove si conoscono le persone colle quali si ebbe che fare, quanto a me, benché indegno peccatore, credo che non vi sia incantesimo di sorta alcuna, ma un grande macinamento e una molto mala ventura. — Orsù a queste inezie non è da pensare adesso, replicò don Chisciotte: dammi i vestiti, e lasciami uscire, ché voglio vedere io stesso gli avvenimenti e le trasformazioni che tu mi narri.”

Sancio gli diede i panni, e nel tempo che si vestiva, il curato raccontò a don Fernando ed agli altri le pazzie di don Chisciotte e l'artifizio usato per cavarlo dalla montagna, dov'erasi intestato di voler restare per immaginati sdegni della sua signora. Fece palesi nel tempo stesso le avventure narrate da Sancio, di che non poco si divertirono e risero, parendo loro quello che pure sembrava agli altri, cioè che il genere della sua pazzia fosse il più strano che trovar si potesse in cervello uscito dai gangheri. Disse inoltre il curato che non potendo oramai andar oltre col suo disegno, era necessario inventarne un altro per tentare di ricondurre don Chisciotte al suo paese. Cardenio propose di seguitare la finzione sperando che Lucinda farebbe e rappresenterebbe a sufficienza il personaggio di Dorotea. “No, disse don Fernando, non lo permetto, anzi bramo che Dorotea prosegua la sua invenzione, ch'io mi darò tutto il pensiero di trovare il rimedio per questo povero cavaliere, quando il suo paese non sia di qua molto lontano. — Non lo è più di due giornate, gli risposero, ed egli: — Anche se fossero quattro le camminerei volentieri per desiderio di condurre a fine una buon'opera.”

Intanto uscì fuori don Chisciotte armato di tutto punto, con in testa l'elmo di Mambrino, tuttoché ammaccato, con la rotella al braccio e con in mano il suo tronco o lancione. Don Fernando e non meno di lui tutti gli altri restarono attoniti e maravigliati vedendo la strana figura di quest'uomo, quel viso sì lungo, secco e giallo, la sproporzione delle sue armi e il suo grave contegno. Se ne stettero cheti per sentire ciò che dicesse, ed egli posti gli occhi con molto sussiego e gravità sopra la bella Dorotea, parlò in questa maniera:

— Sono informato, vezzosa signora, da questo mio scudiere come la grandezza vostra si è ridotta al niente, e fu distrutta la vostra condizione, perché di regina e padrona che solevate essere, vi siete trasformata in una privata donzella. Se ciò è avvenuto per ordine del re Negromante vostro padre, immaginando che non poteste da me avere il necessario e debito aiuto dico ch'egli va errato di grosso, né conosce come dovrebbe le storie cavalleresche, perché se le avesse attentamente lette e considerate presentemente e per sì lungo tempo come ho fatt'io, avrebbe trovato ad ogni passo che tanti altri cavalieri di reputazione più scarsa della mia hanno condotto a fine imprese assai più difficili di questa: e sappiate che non sono scorse molte ore da che io mi trovai a cimento con il gigante, e… Ma sarà meglio passarla in silenzio per non essere tacciato di menzognero: lo dirà il tempo che tutto discopre, e quando noi meno ci penseremo. — Voi avete cozzato con due otri, e non già con un gigante, soggiunse l'oste a tal punto.” Don Fernando gli accennò di tacere non volendo che s'interrompesse in modo alcuno il ragionamento di don Chisciotte, il quale proseguì a questo modo: “Dico in fine, alta e desiderata signora, che se per la da me enunciata cagione vostro padre ha operato una tale metamorfosi nella vostra persona, voi non gli avete a prestare credenza alcuna, non vi essendo pericolo al mondo che non sia superabile dalla mia spada; colla quale atterrando la testa del vostro nemico, io fra brevi giorni porrò sulla vostra una corona.”

Tacque don Chisciotte aspettando la risposta della principessa: la quale avendo inteso che don Fernando voleva che ella proseguisse la finzione, finché don Chisciotte fosse ricondotto al suo paese, con molta grazia e gentilezza così soggiunse: — Qualunque sia colui che vi ha detto, valoroso cavaliere dalla Trista Figura, ch'io mi sono cangiata e tolta dall'essere mio, non vi disse la verità perché la stessa ch'io era ieri sono anche oggidì; vero è peraltro che un qualche cambiamento hanno in me prodotto certi tratti di mia buona sorte, che fu la migliore ch'io mi potessi desiderare; ma non ho lasciato però di essere quella di prima e di conservare la stessa fiducia nel valore del vostro invincibile ed invulnerabile braccio di cui intendo valermi: perciò, signor mio, la bontà vostra restituisca l'onore al padre che mi ha generata; ed anzi lo tenga in conto d'uom saggio, prudente e avveduto, avendo egli trovato mercé la sua scienza, via sì facile e sicura per prestare rimedio alla mia disgrazia; né io dubiterò mai che se non fosse stato per mezzo vostro, non sarei giunta a godere della presente sì fortunata sorte, di che quanti son qui, tutti mi sono testimonî: resta adesso che dimani mattina ci mettiamo in cammino, poiché oramai è troppo inoltrato questo giorno: il rimanente del buon successo io lo rimetto nelle mani della provvidenza e del vostro buon cuore.” Parlò a questo modo la valente Dorotea; dopo di che don Chisciotte si rivolse a Sancio, e tutto sbuffante di collera si fece a dirgli: “Ora sì mi converrà dirti, Sanciuzzo mio caro, che sei il più gran furfante che si trovi in Ispagna; dimmi, ladrone vagabondo, non mi hai tu or ora fatto credere che questa principessa erasi trasformata in una donzella che si chiama Dorotea e che la testa che io credeva di aver tagliata al gigante era il malanno che ne porta ogni cosa, con la giunta di altre infinite bestialità che mi avvolsero nella maggior confusione in cui fossi mai trovato nel corso della mia vita? Ah corpo di… (e guardò il cielo stringendo i denti), che starei per isbranarti affinché dal tuo esempio imparassero a non essere bugiardi quanti scudieri di cavalieri erranti saranno quind'innanzi al mondo. — Si calmi vossignoria, mio signore, rispose Sancio, che potrei bene essermi ingannato per quello che risguarda il cambiamento della signora principessa Micomicona; ma per quanto si appartiene alla testa del gigante, o almeno al foramento degli otri e dell'essere vino rosso il creduto sangue, non mi sono, viva Dio, ingannato; perché gli otri se ne stanno là forati presso il capezzale del suo letto, e il vino rosso ha allagato tutta la camera: e s'ella non lo crede si accorgerà al friggere delle uova; voglio dire che lo vedrà quando qui il signor oste le domanderà il pagamento dei danni sofferti; e in quanto poi all'altro particolare della signora regina, non vi è certamente chi più di me si allegri fino al cuore che essa seguiti ad esser tale, perché ci ho la mia parte come ogni altro. — Ora sì, o Sancio disse don Chisciotte, che ti conosco per un scimunito! ti perdono, e basta. — Basta d'avanzo, disse don Fernando, né di ciò più si parli: e poiché la signora principessa vuol differire la partenza a dimani, poco restando di questa giornata, così si faccia, e passiamo intanto questa notte in buona compagnia, finché nasca il nuovo giorno, in cui noi tutti ci faremo seguaci al signor don Chisciotte, perché vogliamo essere testimonî delle valorose e inaudite gesta che egli ha da compiere nel corso di questa impresa che ha tolta a suo carico. — Quello son io che ho debito di servirvi e di accompagnarvi, rispose don Chisciotte, e molto mi è grato il favore che mi s'imparte e la buona opinione in cui mi veggo tenuto; e per certo la manterrò, o mi costerà la vita, e più ancora se più possa darsi.” Passarono allora fra don Chisciotte e don Fernando molti gentili e cortesi complimenti che vennero interrotti dall'arrivo nell'osteria di un passeggiero, il quale sembrava agli arnesi un cristiano tornato recentemente dalla terra dei Mori. Portava una casacca di panno turchino con le falde corte, con mezze maniche e senza collare, erano azzurri anche i suoi calzoni e dello stesso panno; era coperto da un berrettino bene assettato in testa, ed aveva un paio di borzacchini alla moresca, e ad armacollo una scimitarra damaschina. Lo seguitava una donna seduta sopra un giumento, vestita alla moresca, coperta con un velo che le scendeva giù dal capo, ed era attaccato ad una cuffia di brocato: aveva un giubbone in dosso che arrivava fino a terra. Era l'uomo di robusto e gradevole aspetto, dell'età di quarant'anni o poco più; brunotto di colore, con lunghe basette e con barba molto aggiustata, di maniera che se fosse stato meglio vestito si sarebbe potuto arguire che fosse personaggio di qualche importanza. Domandò, entrando nella osteria, una stanza ed essendogli stato risposto che non ve n'era alcuna in libertà, mostrò di averne dispiacere, ed appressandosi a quella che al vestito pareva un'Araba la invitò a smontare, ricevendola fra le sue braccia. Lucinda, Dorotea, l'ostessa e Maritorna, curiose di vedere quel vestito nuovo per loro, si fecero intorno alla forestiera; e Dorotea, che fu sempre graziosa, costumata e prudente, sembrandole che sì la donna come il compagno suo fossero in molta angustia per non trovar una stanza per loro soli, disse: — Non vi prendete pensiero, signora mia, per la mancanza di quei comodi dei quali voi abbisognate, come avvien pur troppo spesso nelle osterie; che se vi piacesse di prendere qualche riposo in compagnia di noi altre (accennando Lucinda) forse che in tutto il vostro viaggio non avrete trovato una più cordiale e cortese accoglienza.” A tutto questo nulla rispose l'incognita e coperta donna, né altro fece che alzarsi di dove era seduta, e incrocicchiate le mani sul petto ed abbassata la testa, si chinò in segno di gratitudine. Il suo silenzio e gli atti suoi la fecero credere senza dubbio una Mora, e che non sapesse intendere i cristiani. Sopraggiunse in questo lo schiavo ch'erasi prima occupato in altre faccende, e vedendo che stavano le donne tutte facendo cerchio alla sua compagna, e che nulla ella rispondeva a quanto le dicevano, così parlò: — Signore, questa donzella intende soltanto la nostra lingua, né altra ne sa parlare, e perciò né ha risposto né risponde alle vostre dimande; —Nulla noi le chiediamo, disse Lucinda, se non che la invitiamo a passare questa notte in nostra compagnia esibendole una parte del luogo in cui riposeremo noi stesse, ed offrendoci con quell'affetto e cortesia che obbligano a compiacere gli stranieri tutti che ne hanno bisogno, e specialmente le persone del nostro sesso. — Vi bacio le mani, signora mia, rispose lo schiavo, e per lei e per me, e apprezzo grandemente, siccome debbo, il favore offertoci, che molto grande debb'essere se viene da persone sì ragguardevoli come sembra che siate voi. — Ditemi, o signore, soggiunse allora Dorotea: questa straniera è ella cristiana o mora? Poiché e il suo abito e il silenzio fanno supporre che sia quale noi non vorremmo che fosse. — Mora disse lo schiavo, e nell'arnese e nel corpo, ma cristiana nell'anima, avendo un vivo desiderio di farsi tale. — Non è dunque battezzata? replicò Lucinda. — Non la è finora, rispose lo schiavo, perché non se ne ebbe opportunità, da che si tolse da Algeri sua patria, né si trovò sin qui in un frangente sì vicino alla morte che obbligasse a battezzarla prima di essere appieno istrutta delle cerimonie tutte comandate dalla santa nostra religione: ma se a Dio piace adempirà quanto prima a questo sacro dovere e con la solennità che si convien alla sua condizione, ch'è assai maggiore di quello che può apparire dal suo e dal mio vestimento.”

Queste risposte fecero nascere negli astanti tutti la brama di sapere chi fosse la mora e lo schiavo; ma nessuno si permise per allora di progredire nelle dimande, conoscendo che quello era tempo da procurare ad ambedue qualche riposo, piuttosto che rendersi loro importuni con soddisfazione della propria curiosità. Dorotea dunque la prese per mano, se la fece sedere vicina, e la pregò che si togliesse il velo dal viso. Essa mirò lo schiavo, come se gli domandasse di farle sapere che cosa voleasi da lei, e quello che dovesse ella fare. Le disse egli in lingua araba che domandavano che si scoprisse, e che così facesse. Alzò colei il velo e lasciò scorgere un sembiante sì vago, che Dorotea la trovò più bella di Lucinda, e questa più di Dorotea, e conobbero i circostanti tutti che se v'era chi agguagliare potesse la bellezza delle due sopradette, dovea darsene il vanto alla Mora, non mancando anche chi la considerasse alcun poco prevalente; e siccome la bellezza ha prerogative e grazie per cattivarsi gli animi e rendere soggetta la volontà, così si unirono tutti nel desiderio di servire e di accarezzare la vezzosissima Mora. Domandò don Fernando allo schiavo come essa si chiamasse, ed egli rispose: “Chiamasi Lela Zoraida;” ma avendo la Mora compreso la dimanda fatta allo schiavo si affrettò a dire con molta grazia “No, no, Zoraida: Maria, Maria,” dando con ciò a conoscere che si chiamava Maria e non Zoraida Queste parole ed il vivo affetto con cui ella le accompagnò, commossero l'animo dei circostanti, e delle donne singolarmente che sono di loro natura tenere e compassionevoli. Lucinda l'abbracciò con molta affezione, dicendole: “Sì, sì, Maria, Maria;” cui rispose la Mora: — Sì, sì, Maria, Zoraida macange,” che significa no. Ma intanto era sopraggiunta la notte, e, d'ordine dei compagni di don Fernando, l'oste aveva imbandita una cena la migliore che si potesse ottenere. Arrivato il momento, si assisero tutti a una lunga tavola a guisa di quelle usate nei tinelli domestici, non essendovene né di tonde, né di quadre nell'osteria. Vi fecero sedere nel primo posto don Chisciotte, volendo la principessa Micomicona, per essere il suo difensore le stesse a lato; indi seguitavanli Lucinda e Zoraida; don Fernando e Cardenio erano dirimpetto a loro; poscia lo schiavo e gli altri cavalieri; ed accanto alle signore il curato e il barbiere. Cenarono tutti in grande allegria, accresciuta dal vedere che don Chisciotte, lasciando di prendere cibo, e mosso dallo spirito stesso che lo spinse al lungo ragionamento quando cenò coi caprai, così si fece a parlare: “Veramente, quando ben si considera, signori miei, grandi e inaudite cose si veggono da quelli che professano l'ordine della errante cavalleria. E chi sarà mai infatti ch'entrando in questo punto per la porta di questo castello, e vedendoci come ora ci troviamo, giudichi e creda che noi siamo quelli che noi siamo in effetto? Chi potrebbe dire a questa signora che mi sta a fianco, sia la famosa regina da noi tutti venerata, e che io sia quel cavaliere dalla Trista Figura, di cui suona sì altamente la fama? Non si deve rivocare in dubbio ormai che quest'arte e questo esercizio non sia superiore a quanti ne trovarono gli uomini e tanto più si ha da tenere in pregio quanto più va soggetto a cimenti inauditi. Si tolgano a me innanzi coloro che hanno detto che le lettere sono da tenere in maggior pregio delle armi; che sia chi esser si voglia, certamente non sa quello che gli esca di bocca. A sostegno delle loro ragioni asseriscono costoro che i travagli dello spirito eccedono quelli del corpo, e che le armi si esercitano solamente col corpo, come se fossero esercizio da facchini alle quali basti esser dotato di gran vigoria, e come se non provasse angustie infinite l'animo del guerriero che trovasi alla testa di un esercito o difende un'assediata città collo spirito non meno che col corpo. Ed in fatti riflettasi che con le sole forze materiali non è possibile giungere a conoscere o congetturare i divisamenti dell'inimico, i suoi disegni, gli stratagemmi, le difficoltà, o premunirsi contro i temuti danni: cose tutte proprie unicamente dell'intelletto, e nelle quali non può né punto né poco parte veruna del corpo. Ora se le armi vogliono l'opera dello spirito come le lettere, vediamo presentemente quale dei due spiriti soffra maggiormente travaglio se quello del letterato o quello del guerriero. Ciò risulterà ad evidenza quando si ponga mente agli effetti ed al fine a cui ognuno di loro s'incammina; perché quello scopo è certo da tenersi in maggior conto ché vôlto è a fine più nobile e più cospicuo. La mira cui tendono le umane lettere (non intendo parlare ora delle divine, il cui soggetto è quello di condurre le anime al cielo; ché ad un fine sì augusto nessun altro può andare del parti) è la retta amministrazione della giustizia distributiva, il dare il suo a ciascheduno, il prestarsi colla più grande premura e diligenza affinché sieno eseguite a dovere le buone leggi: assunti a vero dire grandi, nobili e degni di essere celebrati altamente. Non sono però oggetti di quella celebrità che merita l'esercizio delle armi; le quali hanno per iscopo e per fine la pace, ch'è il maggior bene che possa essere dagli uomini desiderato nella presente vita. Ed infatti le prime felici novelle diffuse per lo mondo e ricevute da tutti gli uomini, furono quelle che recarono gli angeli nella notte della natività, quando cantavano dall'alto delle sfere: “Sia gloria nei cieli e pace nella terra agli uomini di buona volontà:” ed il saluto che insegnò il migliore maestro del cielo e del mondo ai suoi diletti e colleghi fu che all'entrare in qualche abitazione dicessero: “Sia pace in questa casa” e molte altre forme insegnò loro, come: “Vi do la mia pace; vi lascio la mia pace; sia la pace con voi:” come il miglior tesoro che da così gran mano potesse donarsi; gioiello senza il quale non si può godere di alcuna felicità in terra né in cielo. Questa pace è il vero fine della guerra; poiché arme e guerra sono una medesima cosa. Posta la verità che la pace dia fine alla guerra, e che prevale per sì augusto titolo all'oggetto cui mirano le lettere, passiamo ora al confronto delle fatiche materiali che stanno a carico dell'uomo di lettere con quelle che sono proprie dell'uomo d'arme e veggasi quali siano di maggior peso.”

A questa guisa e con tanto sodo ragionare andava proseguendo don Chisciotte il discorso in modo che condusse gli astanti a non considerarlo più come pazzo: anzi perché i più erano cavalieri, ai quali sono predilette le armi, lo ascoltavano assai volentieri; ed egli proseguì in questa maniera: “Dico ora dunque che gli esercizi corporali del letterato sono questi: principalmente la povertà, non già perché tutti sono poveri, ma per supporre il peggio di siffatta condizione. E dicendo povertà, sembrami che non si possa dire nulla che più vivamente dipinga la sua infelice fortuna: perché il povero nulla ha di buono. Sostiene il letterato la povertà soffrendo la fame, il freddo, la nudità colla giunta di tanti e tanti altri disagi; ma ad onta di tutto ciò non è a sì disperato partito che egli non mangi, benché un po' più tardi del costume, approfittando se non altro di quello che avanza ai ricchi, che è il più grande avvilimento a cui possono condursi i letterati, e che si dice vivere allo scrocco; né manca poi al letterato il modo di sottrarsi al freddo andandosi se non altro a scaldare a qualche braciere o all'altrui camino, per la qual cosa se non caccia da sé i brividi interamente, li mitiga almeno, e finalmente dorme coperto la notte. Non voglio estendermi ad altre minutezze, come sarebbe a dire l'essere senza camicia e senza scarpe, l'avere il vestito logoro e spelato, e quel divorare con tanta ingordigia quando per buona sorte venga il letterato ammesso a qualche banchetto. Ma battendo costoro la strada aspra e difficoltosa che ho dipinta, qua inciampando, cadendo di là, costà rimettendosi, e tornando quivi a cadere, pervengono pur finalmente a conseguire l'oggetto proposto: ed in fatti abbiamo veduto che molti letterati, dopo essere passati per queste scilli e per queste cariddi, portati a volo da una propizia fortuna, riescirono finalmente a poter governare e comandare nel mondo; mutata la fame in sazietà, in refrigerio il freddo, la nudità in ricchi vestiti, il letto di stuoia in morbide piume ed in sontuosi damaschi; premio giustamente attribuito al merito loro. Contrapposte però dopo tutto questo, e messe a paragone le corporali loro fatiche con quelle del guerriero, restano di gran lunga al disotto, come ora m'impegno di dimostrare.”


CAPITOLO XXXVIII

 

CONTINUA IL SINGOLARE DISCORSO DI DON CHISCIOTTE SOPRA LE ARMI E LE LETTERE.

 

Don Chisciotte ripigliò il suo ragionamento, dicendo: Poiché abbiamo considerato l'uomo di lettere dal lato della povertà e delle sue conseguenze, vediamo adesso se più ricco è il soldato, e conosceremo che non avvi chi di lui sia più povero nella povertà stessa; mentre egli non ha che una misera paga, e questa pure tardi o non mai gli viene corrisposta, né gli rimane se non quello che si procaccia con le sue mani con notabile pericolo della vita o della coscienza. Tanta suol essere talora la sua nudità che un collare trinciato e logoro gli serve di vestito e di camicia, e nel verno in campagna aperta suole difendersi dalle inclemenze del cielo col solo fiato che gli esce di bocca; il quale movendo da un corpo vôto, mi fo a credere che debba essere freddo contro tutte le regole della madre natura. Quando poi sopraggiunge la notte, per ristoro di tanti disagi gli è bello apparecchiato un letto; il quale non dirà mai che sia angusto, mentre può pigliarsi lo spazio di terra a lui occorrente, e voltarsi e rivoltarsi senza temere che le lenzuola si vadano raggomitolando. Aggiungasi a ciò l'obbligo rigoroso di non mancare ai doveri del suo esercizio; e in premio di tutto questo nel giorno della battaglia, gli porranno sulla testa una laurea di fila per curarlo da qualche ferita che il lascerà malconcio per sempre. O se ciò non avvenga, e lo conservi e vivo e sano il pietoso Cielo, rimarrà povero come prima: e per migliorare un pochino la sua condizione ci vorranno tanti rischi, che l'uscirne sano è un prodigio. Tutto il contrario accade dei letterati; i quali o a dritto o a torto sanno trovarsi compensi; e così maggiore è la fatica del soldato, e molto minore la speranza del premio. A tutto questo si potrebbe rispondere esser più facile premiare duemila uomini di lettere che trentamila soldati, perché quelli si premiano con ufficî che debbono per necessità appartenere ad uomini studiosi, mentre ai soldati bisogna far parte delle cose proprie del padrone cui servono: ma ciò avvalora ancor più la mia proposizione Ma lasciamo da parte questa difficoltà ch'è un labirinto di molto difficile uscita, e ritorniamo a trattare della preminenza fra le armi e le lettere; argomento tutt'ora indeciso. Dicono alcuni che senza lettere non si potrebbe sostenere le armi; perché ha sue leggi anche la guerra, e, tanto è dir leggi, come lettere e letterati. A ciò rispondono le armi, ché le leggi non potrebbero sostenersi senza di loro, mentre colle armi si difendono le repubbliche, si conservano i regni, le città vengono custodite, hanno sicurezza le strade, i corsari sono scacciati dal mare. Ora è manifesto altresì che debbesi avere una più grande estimazione a quella cosa che ha maggior prezzo. Costa tempo, veglie, fame, nudità, giramenti di capo, indigestioni di stomaco ed altri malanni di questa fatta, oltre a quelli da me riferiti, l'arrivare ad una eminente celebrità nelle lettere; ma per giungere al vanto di buon soldato, oltre tutto quello che soffre il letterato, le difficoltà si accrescono incomparabilmente, per essere ad ogni passo in procinto di perdere la vita. Qual cosa può mai arrivare ad un uomo di lettere, che somigli a quanto prova il soldato allorché senta, per esempio, che l'inimico sta minando il sito dove egli si trova, né per questo può di là togliersi, né fuggire il pericolo che gli sovrasta? Niente altro gli è permesso fuorché avvertirne il suo capitano, affinché accorra con qualche contromina, standosi però egli fermo al suo posto con pericolo di volare al cielo senz'ale o di sprofondarsi senza volerlo. E se questo sembra pericolo di poco momento, vediamo se non ve n'abbia un maggiore nell'investirsi che fanno due galere in mezzo al mare, dove il soldato chiuso in brevissimo spazio si vede dinanzi tanti ministri di morte quanti sono i cannoni della parte contraria, non più lontani della lunghezza di una lancia; e vede che lo sdrucciolare di un piede lo farebbe andar a visitare i profondi seni di Nettuno: e a fronte di tutto questo, intrepido ed infiammato dall'onore che lo stimola, si fa bersaglio a tanto fuoco di artiglieria e procura di balzare per sì tremendo passo nel vascello nemico. Ciò poi che reca maggior meraviglia si è che caduto uno appena di dove non potrà più rialzarsi sino alla fine del mondo, un altro va ad occupare il suo posto; se pur cada, un altro vi succede senza dar tempo al tempo della loro morte: valore e ardimento il più grande che possa darsi tra tutti i pericoli della guerra! Oh benedetti pure quei secoli nei quali non si conosceva la furia spaventevole degli infernali strumenti di artiglieria, l'inventore dei quali io reputo che ora trovi nell'inferno il premio della sua diabolica invenzione; per la quale fe' sì che un infame e codardo braccio dia morte ad un valoroso cavaliere! Ora dunque, ciò tutto considerato, io sto per dire che mi pesa fino all'anima di avere intrapreso questo esercizio di cavaliere errante in età sì detestabile, come quella in cui viviamo; perché quantunque nessun pericolo mi metta spavento, inorridisco al pensare che poca polvere e poco piombo possano spegnere quelle celebrità a cui potrebbero sollevarmi per tutto il circolo della terra il valore del mio braccio e il filo della mia spada. Ma faccia il cielo ciò che di me ha disposto; ché tanto io godrò della estimazione degli uomini, se arriverò a dar fine alle imprese cui aspiro, quanto più i pericoli ai quali mi cimenterò saranno grandi e maggiori di quelli affrontati dai cavalieri erranti dei passati secoli.”

Fece don Chisciotte questo lungo ragionamento nel tempo che gli altri stavano cenando, dimenticandosi di mangiare pur un boccone, tuttoché Sancio, gli avesse insinuato di cenare anche egli e che avrebbe poi trovato tempo per discorrerla a suo piacimento. Venne in tutti coloro che udito lo avevano nuova compassione, considerando che un uomo, il quale sembrava avere intendimento sì retto e sì giudizioso ragionare, lo perdesse poi sì disgraziatamente se trattavasi della sua sciagurata e folle cavalleria. Soggiunse il curato che aveva avuto molte buone ragioni in tutto ciò che aveva detto in favore delle armi, e ch'egli quantunque uomo di lettere e dottore, acconsentiva all'opinione di lui. Terminarono di cenare, levarono le tovaglie, e mentre l'ostessa, sua figlia e Maritorna assettavano il camerone di don Chisciotte della Mancia, dove avevano stabilito che in quella notte si raccogliessero le donne sole, don Fernando pregò lo schiavo arrivato colà con Zoraida di raccontargli le sue avventure. Rispose lo schiavo che farebbe di buon grado ciò che gli si dimandava, benché temesse di non riuscire così a dilettarli come forse s'immaginavano. Ne mostrarono gradimento il curato e tutti gli altri, che di nuovo gliene fecero istanza, ed egli vedendosi pregare da tanti disse non dovevano usarsi preghiere dove si poteva comandare. “Stiensi dunque, soggiunse, attente le signorie loro e udranno una narrazione veritiera, senza alcuna di quelle menzogne che sogliono in tali racconti frammischiarsi con curioso e studiato artifizio.” Quindi sedettero tutti, e vedendo egli che ognuno taceva aspettando quello che a dire si accingesse, con voce gradevole e riposata cominciò nel modo che segue il suo racconto.


CAPITOLO XXXIX

 

VITA ED AVVENTURE DELLO SCHIAVO.

 

“C'è nelle montagne di Leone una terra donde trasse origine il mio lignaggio, cui fu più favorevole e benigna la natura che la fortuna, benché a fronte della povertà di quei popoli godesse mio padre la riputazione di ricco: e tale sarebbe stato realmente se tanto si fosse curato di mantenere le sue sostanze, quanto dava opera a mandarle a male. Il carattere di uomo liberale e generoso procedeva in lui dall'essere stato ascritto alla milizia in tempo della sua giovinezza; perché la professione del soldato rende splendido il misero, e prodigo il liberale: e se v'ha chi tra l'armi sia spilorcio, può considerarsi come un mostro che di rado apparisce. Oltrepassava mio padre i confini della liberalità, e cominciava ad eccedere nel modo che nuoce all'uomo che ha moglie e figliuoli, i quali gli hanno a succedere nel nome e nell'essere. Tre ne aveva egli tutti maschi e tutti in età da potersi eleggere da sé stessi uno stato. Vedendo egli che, per quanto diceva, non potea ripararsi dalla sua mala inclinazione, volle togliere da sé lo strumento e la causa che lo avrebbe reso scialacquatore, e ciò fece spropriandosi della sua facoltà. Un giorno chiamati tutti e tre i suoi figli nelle sue stanze, loro parlò presso a poco nel seguente modo: “Figli miei, per dirvi che siete cari al mio cuore altro non mi è duopo se non se chiamarvi col dolce nome di miei figli: ma per dimostrarvi poi che non vi amo, basti che io vi dichiari che mando in rovina il patrimonio ch'io dovrei presentarvi: affinché però conosciate quind'innanzi che voglio amarvi da padre, e che non voglio distruggere come padrigno quello che vi appartiene, mi sono determinato di appigliarmi insieme con voi ad un partito da me pensato e disposto con maturo consiglio, son già molti giorni. Voi tutti vi trovate in età da poter fare scelta di uno stato, o per lo meno da poter eleggervi un esercizio che anche nell'avvenire vi arrechi onore e profitto. Io dunque voglio distribuire in quattro parti la mia facoltà; tre ne darò a voi perché ognuno abbia la sua, e riterrò la quarta per me affine di sostenermi nel resto dei giorni che piacerà al Cielo lasciarmi. Bramerei però che ognuno, avuta la sua parte, seguisse una delle strade che sono per indicarvi. Avvi nella nostra Spagna un proverbio, a parer mio molto vero, come sono tutti quelli che consistono in brevi sentenze dedotte da lunga e prudente sperienza, ed è questo: Chiesa, Mare, o Casa reale, come se dicesse: chi vuol acquistare ricchezze segua o lo stato ecclesiastico, o la via del mare esercitando il traffico, oppure vada a servire nella casa del re, perché si suol dire: Vale più un nonnulla che sia dato da un re, che ogni grazia di un signore particolare. Ciò vi dico perché bramerei, anzi è mio volere che uno di voi si applicasse alle lettere, un altro alla mercatura, ed il terzo al servigio del re nella guerra, essendo troppo difficile il poterlo servire nel suo palagio; e poi quantunque la guerra non dia molte ricchezze, suole procacciare molto valore e molta fama. Fra otto giorni io darò scrupolosamente a ciascuno di voi la parte sua in danari, ed intanto voi ditemi, se vi piace, di applicarvi al partito ed al consiglio che testé vi ho proposto.”

Ordinando egli a me, maggiore di età che rispondessi pel primo, cominciai dal dirgli che non rinunziasse alle sue facoltà se prima non se ne fosse valso a proprio talento, essendo noi altri giovani troppo per utilmente amministrarle; e passai poi a concludere che avrei servito al suo desiderio, perché la mia inclinazione mi portava all'esercizio delle armi, servendo così ed a Dio ed al re mio signore. Lo stesso gli fu risposto dal secondo fratello, il quale scelse di portarsi alle Indie, seco recandosi quanto gli fosse toccato in parte. Il minore, a quanto io reputo, più sensato degli altri, disse che amava di abbracciare lo stato ecclesiastico, e d'andar a compiere in Salamanca gli studi già cominciati. Terminato che avemmo di accordarci e di scegliere i rispettivi nostri esercizî, ci abbracciò tutti il nostro genitore, ed in brevissimi giorni diede esecuzione a quanto ci aveva promesso consegnando ad ognuno la parte sua, che, per quanto mi sovviene, furono tremila ducati in contante; ed acquistato avendo un nostro zio la intera facoltà, n'eseguì il pagamento in effettivo danaro, affinché la sostanza non uscisse dal ceppo della famiglia. Ci licenziammo tutti e tre dal nostro buon padre in un medesimo giorno; e parendo a me che fosse poco umana cosa lasciare un vecchio genitore con facoltà sì meschina, l'obbligai a togliersi duemila ducati del mio, bastandomi il rimanente per provvedermi quant'erami duopo ad esercitar il mestiere del soldato. Mosse il mio esempio li due miei fratelli; sicché diede ognuno di essi al padre mille dei suoi ducati: e così li restarono quattromila ducati in contante; in aggiunta ai tremila che sembrava loro valer potesse la facoltà ritenutasi in beni stabili. Venne l'istante del nostro distacco da lui e da quel nostro zio, e ciò fu non senza amarezza e pianto comune; e la madre pregavaci che le facessimo sapere, sempreché ne avessimo l'opportunità, ogni nostro avvenimento fortunato od avverso che fosse. Fatta questa promessa, ed abbracciatici tutti ed avuta la paterna benedizione, l'uno si diresse a Salamanca, l'altro si volse a Siviglia, ed io presi la via di Alicante; avendo saputo che colà era pronta alla vela una nave diretta a Genova con un carico di lana. Saranno ventidue anni da che mi tolsi dalla casa del padre; nel corso dei quali, tuttoché io abbia scritte alcune lettere, nulla più seppi né di lui né dei miei fratelli, e brevemente vi narrerò adesso ciò che mi avvenne in questo tratto di tempo.

Imbarcandomi in Alicante arrivai a Genova con prospero viaggio, e di là mi portai a Milano dove mi provvidi d'arme e di ogni foggia di guerresco ornamento; e di là mi piacque di andare ad arruolarmi negli eserciti del Piemonte: se non che poi avendo inteso, cammin facendo verso Alessandria della Paglia, che il gran duca d'Alba passava nelle Fiandre, cangiai risoluzione, e mi posi al servigio di lui nelle guerre che fece. Mi trovai presente alla morte dei conti d'Eguemon ed Hornos, e giunsi ad essere alfiere d'un celebre capitano di Gualdalasciara, chiamato Diego d'Urbino. Dopo qualche tempo ch'io militava nelle Fiandre s'ebbero nuove della lega fatta dalla Santità di Pio V, di felice memoria, con Venezia e Spagna contro il nemico comune ch'è il Turco; il quale a quel tempo stesso, armata mano, aveva tolta la famosa isola di Cipro ai Veneziani: perdita deplorabile e disgraziata. Seppi senza poterne dubitare che il generale di questa lega doveva essere il serenissimo don Giovanni d'Austria fratello naturale del nostro buon re don Filippo, e divulgossi tosto il grandissimo apprestamento di guerra che si faceva. E tanto quella notizia m'incitò e commosse l'animo, che per desiderio di trovarmi nella giornata che con grande impazienza era attesa da tutti, sebbene io avessi fondate, e posso dire, quasi certe speranze di essere promosso nella prima occasione al grado di capitano, tutto abbandonai ad oggetto di portarmi in Italia; e volle la mia buona sorte che il signor don Giovanni d'Austria fosse di recente arrivato a Genova per indi passare a Napoli per unirsi coll'armata dei Veneziani, siccome poi fece a Messina. Nella giornata più avventurosa che abbiano avute le armi cristiane, io salii al grado di capitano di fanteria, e più che ai miei meriti ho dovuto un tal posto alla mia buona fortuna; ma io solo fui poi lo sfortunato in quel giorno che riescì per la cristianità sì felice, essendosi disingannato il mondo intero dell'errore in cui stava che i Turchi fossero invincibili in mare. In quel giorno dunque in cui l'orgoglio e la superbia ottomana rimasero fiaccati, tra tanti avventurati che vi furono (perché sorte migliore ebbero i Cristiani che caddero estinti, degli altri che vivi e vincitori uscirono della battaglia), io mi trovai infelicissimo. In cambio di riportare una navale corona, come sarebbe avvenuto ai tempi di Roma, nella notte che seguitò al dì della vittoria, mi trovai colle catene ai piedi e coi ceppi alle mani; ed ecco in qual modo. Avendo l'ardito e fortunato Ucciali re d'Algeri investita e presa la capitana di Malta, dove non sopravvissero se non tre cavalieri, anch'essi gravemente feriti, accorse per darle aiuto la capitana di Giannandrea Doria, dove io mi trovava colla mia compagnia. Facendo ciò che m'indicava il dovere in somigliante occasione, io saltai nella galea nemica, la quale, allontanandosi da quella da cui era investita, impedì ai miei soldati di seguitarmi, e per tal modo io restai solo in mezzo a nemici tanto numerosi che si rese inutile ogni mia resistenza. In fine carico di ferite mi arresi, e poiché siccome avrete già inteso dire, o signori, l'Ucciali si pose in salvo coll'intera sua squadra, io venni quindi a restare in suo potere, e fui solo doglioso fra tanti contenti, e solo schiavo fra tanti tolti alle catene; che furono quindicimila i Cristiani che ricuperarono in quel dì memorando la libertà dopo essere stati vogatori al servigio dell'armata turchesca. Mi condussero a Costantinopoli dove il gran signore Selim fece generale di mare il mio padrone per avere dati contrassegni di bravura nella battaglia, riportato avendo a prova del suo valore lo stendardo della religione di Malta. Mi trovai in Navarino nell'anno secondo, che fu del settantadue, vogando nella capitana dei Tre fanali. Io potei vedere e notare l'occasione quivi perduta di prender nel porto tutta l'armata turchesca; perché i levantini e i giannizeri che lo equipaggiavano, tenevano per indubitato di essere investiti dentro al porto medesimo, ed avevano pronte le robe e i passamachi (che sono le loro scarpe) per fuggire per terra senz'aspettare l'assalto: sì grande timore avevano essi della nostra armata. Dispose però il Cielo altrimenti, non già per colpa o disattenzione del generale che comandava ai nostri, ma per i peccati della cristianità, e perché vuole e permette Iddio che abbiamo sempre sopra di noi qualche ministro delle sue vendette. L'Ucciali dunque poté ritirarsi a Modone, ch'è un'isola presso Navarino, e lasciando in terra le milizie, fortificò la bocca del porto standosene inerte fino al ritorno del signor don Giovanni. In questo viaggio avvenne il conquisto della galea, chiamata la Presa, capitano della quale era un figlio del famoso corsaro Barbarossa. Fu essa pigliata dalla capitana di Napoli, chiamata la Lupa; comandata da quel fulmine di guerra, dal padre dei soldati, dal fortunato e non mai vinto capitano don Alvaro de Bazan, marchese di santa Croce: né voglio omettere di far sapere ciò che avvenne nel conquistare la Presa. Era sì crudele il figlio di Barbarossa, e faceva sì mal trattamento de' suoi prigionieri, che vedendo gli schiavi al remo che la galera, la Lupa, andava per abbordarli, e che loro era già addosso, tutti abbandonarono il remo e presero il loro capitano che stavasene all'albero fra la poppa e la corsia, gridando che si vogasse a tutto potere; e gettandolo da un banco all'altro, e da poppa a prora, gli diedero tanti morsi che discosto un passo dall'albero piombò l'anima sua all'inferno: conseguenza, come si è detto, della crudeltà con cui trattava, e dell'odio che tutti gli portavano. Ritornammo a Costantinopoli, e nell'anno successivo si venne a sapere che il signor don Giovanni aveva conquistato Tunisi, tolto ai Turchi quel regno e messovi in possesso Muley Hamet, troncando la speranza di rimontare sul trono a Muley Hamida, il più valoroso Moro che il mondo abbia veduto.

Il sultano sentì al vivo una tanta perdita ma usando sagacità propria di tutti quelli della sua casa, stipulò la pace coi Veneziani, che più di noi n'erano desiderosi; e l'anno seguente 1574, assalì la Goletta ed il Forte che don Giovanni aveva lasciati mal difesi presso Tunisi. In mezzo a tanti avvenimenti, io condannato al remo, non avevo speranza alcuna di riacquistare la libertà, od almeno non mi attendeva di conseguirla col mezzo del mio riscatto, essendo risoluto di non far sapere a mio padre la mia disavventura. La Goletta si arrese ed anche il Forte; contro le quali piazze eranvi settantacinquemila soldati turchi pagati, e più di quattrocentomila tra Mori ed Arabi di tutte le nazioni dell'Africa, e con essi tante munizioni e tanti strumenti di guerra e tanti guastatori, che colle mani gettando pugni di sabbia avriano potuto seppellirle. La prima a cedere fu la Goletta tenuta fin allora per inespugnabile: e non si perdette già per colpa dei suoi difensori, i quali fecero prodigi di valore, ma perché l'esperienza fece conoscere quanto facilmente potevansi alzare trincee in quella deserta arena, dove a due palmi sotterra si trovò l'acqua che i Turchi non seppero discoprire a due canne di profondità. Con molti sacchi di sabbia levarono dunque le trincee tant'alto che sormontavano le mura della fortezza, e tirandovi a cavalieri toglievano agli assediati ogni mezzo atto alla propria difesa. Fu universale opinione che i nostri non avrebbero dovuto chiudersi nella Goletta, ma attendere in campagna aperta lo sbarco dei nemici: ma questo è un ragionare proprio di chi è lontano ed ha poca sperienza di simil fatti; perché se solo settemila soldati erano alla difesa e della Goletta e del Forte, come potevano in sì piccolo numero, per quanto essi fossero valorosi, uscire in campagna e cimentarsi in confronto di sì grande quantità di nemici? E come può non restare soccombente una fortezza priva di ogni soccorso, tanto più se viene assediata da una moltitudine di accaniti nemici, e nel loro stesso paese? Parve però a molti, ed a me pare ancora, che fosse gran mercé del Cielo e fortuna della Spagna il precipitare che fece quella officina, centro di malvagità, e quella voragine o spugna fatta per assorbire un'infinita quantità di danari, che si disperdevano senza profitto e senza altro oggetto che di conservare la memoria del conquisto fattone dalla felicissima memoria dell'invittissimo Carlo V; quasi che a farla eterna, com'è, e sempre sarà, fosse stato necessario che avesse ad essere sostenuta da quelle pietre. Si arrese eziandio il Forte, fu guadagnato palmo a palmo dai Turchi, mentre i soldati che n'erano alla difesa pugnarono con tanta gagliardia e con tanto valore, che in ventidue assalti generali sostenuti restaronvi estinti più di venticinquemila nemici. Non fecero prigione uom sano dei trecento che vi rimasero: prova evidente ed indubitabile di lor gagliardia e costanza, e del distinto merito con cui si erano difesi. Si arrese a patti un piccolo forte o torre situata alla metà dello stagno, comandata da don Giovanni Zinochera, cavaliere di Valenza e famoso soldato, e si fece prigione don Pietro Portocarrero, generale della Goletta, il quale adoperato aveva ogni industria per difenderla; e tanto dolore gli arrecò il perderla, che ne morì mentre lo conducevano prigioniero a Costantinopoli. Restò eziandio in ischiavitù il generale del Forte, che chiamavasi Gabrio Serbelloni, cavaliere milanese, grande ingegnere e soldato valorosissimo. Perirono in queste due fortezze molti ragguardevoli personaggi, uno dei quali fu Pagano Doria cavaliere dell'abito di San Giovanni, di animo generoso; di che n'è stata prova la sua liberalità da esso usata a favore del suo fratello il famoso Andrea Doria: e ciò che rese più lagrimevole la sua morte si fu l'essere stato ucciso da alcuni Mori, ai quali si era affidato, poiché vide perduto il forte, e che se gli offrirono di condurlo in abito di Moro a Tabarca, ch'è un piccolo porto e casa tenuta dai Genovesi in quella riviera, ed ove si esercitano nella pesca del corallo. Troncarono la testa al Capo dei Mori, e la offrirono di poi al generale dell'armata turchesca, il quale rese sempre più vero il nostro proverbio castigliano: che quantunque piaccia il tradimento, si aborrisce sempre il traditore; che il generale fece appiccare chi gli recò quel presente per non averglielo portato vivo. Fra i Cristiani che rimasero vittime del Forte, uno si fu don Pietro d'Aghillar, nativo di non so qual paese d'Andalusia, già alfiere nel forte stesso, soldato di molta considerazione e di raro intelletto, e che aveva altresì molta grazia e spontaneità nella poesia. Io aggiungo questa particolarità perché il suo destino lo trasse alla mia galea e al mio banco e lo fece schiavo del mio stesso padrone. Prima che noi salpassimo da quel porto compose questo cavaliere due sonetti a foggia di epitaffi, uno per la Goletta, e un altro per il Forte, e in verità che ve li voglio recitare avendoli a memoria, persuadendomi che potranno recare diletto piuttosto che noia.

Quando lo schiavo nominò don Pietro d'Aghillar, don Fernando guardò i suoi compagni, e tutti tre se ne sorrisero: e quando parlò dei sonetti disse uno di loro: “Prima che vossignoria li reciti, favorisca dirmi ciò ch'è avvenuto di questo don Pedro. — È a mia cognizione, rispose lo schiavo, che dopo due anni passati in Costantinopoli, fuggì in abito d'Arnauta con un greco esploratore, ma non so se abbia ricuperato la libertà, lo che però credo avvenuto, giacché dopo oltre un anno ho veduto il greco in Costantinopoli, ma non mi venne fatto di domandargli l'esito di quel viaggio. — Gli andò bene il tentativo, rispose il cavaliere. Sappiate che questo don Pietro è mio fratello, e trovasi al presente in patria sano, ricco ed ammogliato con tre figliuoli. — Sia lode al Cielo, disse lo schiavo, pel favore che gli ha concesso, non essendovi quaggiù alcun contento che a quello si agguagli di ricuperare la libertà perduta. — E c'è di più, replicò il cavaliere, che so a memoria i sonetti composti da mio fratello. — Li faccia sentire la signoria vostra, disse lo schiavo, che li reciterà meglio di me. — Ben volentieri: quello per la Goletta è il seguente:

 

“Alme felici che, sciolte dal mortale incarico, saliste dalla bassa terra all'altezza del cielo:

“Voi che accese di zelo e di nobile sdegno provaste la forza de' vostri corpi; e del vostro e dell'altrui sangue imporporaste i flutti del mare o la polve dei campi:

“La vita prima del valore venne meno alle affaticate vostre braccia, le quali morendo ottennero la vittoria nell'atto stesso che rimanevano vinte:

“E in questa misera caduta mortale acquistaste tra le mura e la spada la rinomanza del mondo e la gloria eterna de' cieli.”

 

— Tal quale lo so io pure, disse lo schiavo.

— Quello per il Forte, se male non mi appongo, soggiunse il cavaliere, è così concepito:

 

“Dal mezzo di questa rocca e di questi bastioni rovesciati e distrutti, le sante anime di tremila soldati salirono vive al miglior soggiorno.

“Avevano prima esercitata invano la forza delle vigorose loro braccia, finché stanchi e pochi resero la vita sotto la spade.

“Ecco il suolo a cui attaccano mille ricordanze lagrimevoli de' secoli andati e del tempo presente.

“Ma non mai dal suo duro seno salirono al cielo alme più pure, né mai sostennero corpi più valorosi.”

 

Piacquero i sonetti, e si rallegrò lo schiavo per le nuove ricevute del suo camerata; poi proseguendo il racconto disse: “Pigliata la Goletta ed il Forte, i Turchi diedero commissione che si smantellasse la prima, non occorrendo tal precauzione per l'altro rimasto sì maltrattato da non lasciare quasi più parte alcuna da mandar a terra. Per accelerare questa operazione minarono da tre lati, ma da nessuna parte riuscì loro di far saltare in aria quello che pareva più debole, cioè le vecchie muraglie. Si smantellò con molta facilità quanto era tuttavia in piedi delle nuove fortificazioni fatte dal Fratino: in fine l'armata tornò a Costantinopoli vincitrice e trionfante, e dopo pochi mesi passò fra gli estinti l'Ucciali il mio padrone, soprannominato Ucciali Fartax, che significa in lingua turchesca, il rinnegato tignoso, perché era coperto di tigna; ed è costume dei Turchi di pigliare un soprannome o da qualche loro particolare difetto, o da qualche virtù di cui vadano adorni: e ciò deriva dal non esservi tra loro se non quattro nomi di famiglie le quali discendono dalla casa ottomana, e le altre, siccome ho detto, lo prendono sempre o da virtù o da difetti loro propri. Questo tignoso vogò al remo, schiavo del gran Signore, pel corso di quattordici anni; pervenuto poi oltre i trentaquattro, per avere comodità di vendicarsi di uno schiaffo ricevuto da un Turco, rinnegò la sua fede. Sì grande fu il suo valore che senza ricorrere ai turpi mezzi ed a quelle indirette vie per le quali i più arrivano ad essere favoriti dal Gran Signore, salì sul trono di Algeri e poi fu generale di mare, ch'è la terza dignità che si conferisce in quell'impero. Era calabrese di nazione e buon uomo, trattando con grande umanità i suoi schiavi, che ascesero al numero di tremila; i quali poi, siccome ordinò col suo testamento, andarono ripartiti tra il Gran Signore (erede di quanti muoiono, e compartecipe insieme coi figli della sostanza che lasci il defunto) e tra i suoi rinnegati. Io toccai in sorte ad un rinnegato veneziano, ch'essendo piloto di una nave era stato fatto prigioniero dall'Ucciali il quale lo amava sopra tutti gli altri suoi garzoni e riuscì poi il più crudele rinnegato che sia stato giammai. Chiamavasi Azanaga; accumulò grandi ricchezze, e montò sul trono di Algeri. Ivi l'ho io seguìto partendo da Costantinopoli alquanto contento di trovarmi sì vicino alla Spagna, non già perché avessi intenzione di far sapere a veruno l'infelice mia sorte, ma per non so quale speranza che in Algeri potesse riuscirmi ciò che in Costantinopoli m'era sempre fallito, dove avevo tentate infinite maniere di fuggire, ma tutte invano. Pensavo di rintracciare in Algeri altri mezzi di secondare gli ardenti miei voti, non avendo perduto giammai la speranza di riacquistare la libertà: e quando io vedeva mal riuscire l'intento da me immaginato, senza cadere di animo andavo studiando nuovi mezzi che alimentavano le mie speranze, tuttoché fossero deboli e inefficaci. A questo tristo modo io conducevo la vita, rinserrato in una prigione che i Turchi chiamano bagno, in cui stanno imprigionati gli schiavi cristiani, sì quelli che sono di proprietà del re, come gli altri che appartengono a private persone, e quelli che chiamano dell'Almazen, ch'è lo stesso che dire, schiavi del Consiglio, i quali servono la città nei lavori pubblici e in altri offizî. Molto difficilmente ottengono questi tali la libertà, perché appartenendo al comune e non ai particolari padroni, non si sa con chi trattare pel loro riscatto, se pure n'avessero i mezzi. In quei bagni dunque dove alcuni signori privati tenevano custoditi gli schiavi che miravano alla loro liberazione, io mi trovava, ed erano in mia compagnia anche alquanti schiavi del re i quali non sogliono escire colla ciurmaglia al lavoro se non quando comincia a perdersi la speranza del riscatto, o quando si crede che l'aumento delle fatiche possa farli più solleciti a comperarsi la libertà; nel qual caso, raddoppiano per costoro i lavori penosi, come a dire il far legna sulle montagne, ch'è insopportabile travaglio. Stavami dunque frammischiato con questi schiavi da riscatto: ed essendosi saputo il mio grado di capitano, ad onta che avessi dichiarato ch'io era povero e che dovevo quel posto a mille fatiche, mi collocarono nel numero dei cavalieri e della gente da molto prezzo. Mi posero una catena più per segnale di riscatto che per custodia, e a questo modo io passava la vita tra quegli orrori con molti altri cavalieri, e gente di qualità di cui si teneva certa la liberazione. Quello che più di tutto mi pesava sul cuore non era già la fame o la nudità da cui quasi sempre eravamo tutti travagliati, ma sibbene l'essere testimonio continuamente alle non più vedute e inaudite crudeltà che si esercitavano dal padrone contro i Cristiani. Ogni giorno ne faceva appiccar qualcheduno, un altro impalare, ed un altro tagliar gli orecchi, e tutto ciò per cause di sì lieve momento e così fuor di ragione che dicevano i turchi stessi essere ciò per suo capriccio, e non per altro che per covar anima di fiera a danno del genere umano. La indovinò con costui un solo soldato spagnuolo chiamato Saavedra, il quale benché avesse fatto cose che rimarranno lungamente scolpite nella memoria di quelle genti per riacquistare la sua libertà, non gli diede, né mai dar gli fece un colpo di bastone, né gli disse mai un'aspra parola; anche pel più leggiero de' suoi mancamenti noi avevamo gran timore che lo facesse impalare: timore da cui era colto egli pure. Se il tempo non mancasse io potrei contarvi molte imprese di questo soldato che vi desterebbero maraviglia: ma bisogna pur ch'io continui il mio racconto.

Vi dirò pertanto che le finestre di un ricco Moro riuscivano sopra il cortile della nostra prigione, e potevano (come d'ordinario sono quelle dei Mori) piucché finestre chiamarsi pertugi; tuttavia erano fornite d'inferriate grosse e strettissime. Accadde che un giorno mentre io stava in una loggia della nostra prigione con altri tre compagni esercitandoci a saltare colle catene per ingannare il tempo, ed eravamo soli per essere gli altri Cristiani al lavoro, alzando per caso gli occhi, vidi che sporgeva in fuori da quelle sì strette inferriate una canna, a capo di cui stava legato un pannilino; e la canna dimenavasi e movevasi quasi invitando di andare a pigliarla. Uno dei miei compagni andò a mettersi sotto alla canna per vedere se la calavano, o ciò che ne volessero fare: ma non vi fu appena sotto che la canna venne alzata e mossa da destra a sinistra per modo, come se chi la tenea avesse voluto dire, no, colla testa. Toltosi di là il cristiano, tornò quella ad essere abbassata: ed avendo un altro dei miei compagni fatto lo sperimento medesimo, riuscì come il primo. Si provò un terzo, ma con eguale successo. Vedendo questo volli io pure tentar la mia sorte, e non mi fui collocato appena disotto la canna, che questa fu lasciata cadere e venire ai piedi miei dentro al bagno. Affrettatomi a sciorre il pannilino vi trovai un nodo, dentro cui erano dieci ziani, moneta d'oro basso usata dai Mori ed equivalente a dieci dei nostri reali. Non occorre dirvi quale allegrezza n'abbia io provata; fu sì grande quanto la maraviglia in pensare da chi potesse derivare quel benefizio a me con tanta evidenza specialmente diretto. Presi il denaro, che giugnea molto a proposito; feci in pezzi la canna, me ne ritornai alla loggetta; poi volgendo gli occhi alla finestra, vidi che ne usciva una mano bianchissima che l'aperse e poi la rinchiuse rapidamente. Di qui conoscemmo od almeno immaginammo che da qualche donna che in quella casa viveva, quel benefizio si dovesse da noi riconoscere; ed in segno ch'era da noi aggradito facemmo alquante riverenze alla moresca, piegando la testa, chinando la persona e portando le braccia sul petto. Di lì a poco uscì dalla stessa finestra una piccola croce fatta di canne che tantosto si ritirò. Abbiamo dovuto congetturare a quest'indizio che in quella casa stesse rinchiusa qualche schiava cristiana che avesse voluto a quel modo beneficarci; se non che la bianchezza della mano e le smaniglie ch'erano attortigliate al braccio ci tolsero da tale supposizione immaginandoci in vece ch'essere potesse qualche cristiana rinnegata; ché sogliono elleno essere prese per legittime mogli dai loro padroni, e l'hanno per gran ventura, essendo tenute in maggior conto delle nazionali.

Ma noi andavamo a cogliere ben lungi dal vero; e dopo d'allora nostro unico trattenimento era guardare qual porto di sicurezza la finestra da cui era comparsa la stella di quella canna. Scorsi quindici giorni senza che più comparisse; né la mano, né verun altro segnale; e quantunque durante quell'intervallo di tempo cercassimo con ogni diligenza di sapere chi vivesse in quella casa, e se in essa vi fosse qualche Cristiana rinnegata, non ci venne fatto di scoprire se non che era abitata da un ricco e principalissimo Moro che chiamavasi Agi-Morato, già castellano della Patta, carica molto considerevole appresso quelle genti. Quando noi disperavamo di veder piovere mai più da quel pertugio altri ziani, ci ricomparve inattesa la canna ed altro pannilino attaccatovi con nodo più grosso, in un momento che il bagno era rimasto vuoto come la prima volta. Come allora vi andammo tutti e tre successivamente, restando io l'ultimo di tutti; ma la canna si piegò per me solo. Sciolto il nodo, vi trovai quaranta scudi d'oro spagnuoli ed una lettera scritta in arabo, con una croce nell'alto dello scritto. Baciai la croce, pigliai gli scudi, tornai alla loggetta, facemmo tutti il nostro saluto, ricomparve la mano, ed io diedi segno che avrei letta la lettera, e incontanente si chiuse la finestra. Confuso e lieto restò ognuno di noi per quella inattesa avventura; ma perché nessuno intendeva l'arabo, la difficoltà di trovare chi lo leggesse andava di pari passo col desiderio di poterne conoscere il contenuto. In fine io mi determinai di fidarmi di un rinnegato nativo di Murcia che mi dimostrava una leale amicizia, il quale tenea certificati della sua bontà da tutti i nostri compagni (come sogliono procacciarsi i rinnegati quando hanno intenzione di ritornare fra' Cristiani), ciò che c'impegnava a riporre in lui la nostra fiducia; tanto più che se i Mori gli avessero trovati indosso tali scritti lo avrebbero bruciato vivo. Erami noto che possedeva egli assai bene l'arabo, non solo per parlare ma anche per iscrivere in quell'idioma; tuttavia prima di aprirgli il mio cuore lo pregai che mi leggesse quel foglio facendogli credere di averlo trovato in una buca della mia nicchia. L'aprì egli e lo stette guardando per qualche tempo, indi si mise a leggere borbottando fra' denti. Gli domandai se lo intendeva, ed egli mi rispose che lo leggeva molto bene, e che me lo dichiarerebbe parola per parola purché gli dessi penna e carta. Ebbe tosto quanto desiderava, si pose a tradurlo a poco a poco, e disse sul terminar del suo lavoro: — Quanto qui leggerete tradotto è ciò che contiene la lettera parola per parola, avvertendovi che dove sta scritto Lela Marien vuol significare Maria Vergine nostra signora.” Prendemmo il foglio ed era del tenore che segue:

 

“Quando io era bambina mio padre aveva una schiava la quale m'insegnò nella mia lingua il rito cristiano, e molte cose mi disse di Lela Marien. Morì la Cristiana, ed io so che non andò al fuoco, ma con Alà; perché due volte la vidi dopo la sua morte, e mi disse che fuggissi in terra cristiana a vedere Lela Marien che molto mi amava. Io non saprei in che modo andarvi, e da questa finestra ho veduto molti Cristiani, ma nessuno fuori di te mi parve cavaliere. Io son molto bella e ragazza, ed ho molti denari da portar meco; guarda tu di far in maniera che possiamo fuggire. Se ti piacerà tu diverrai mio marito; e, non volendo, non importa, perché Lela Marien me lo troverà. Ciò ti scrivo, ma guarda bene a cui dai a leggere questa carta, né fidarti di Moro alcuno, che tutti sono traditori. Bada che mi dà gran pensiero la segretezza, perché se mio padre giugnesse a scoprire che ti scrivo mi getterebbe in un pozzo, e mi coprirebbe di pietre. Io porrò un filo nella canna, tu attaccavi la risposta, e se non hai chi la scriva in arabo fammelo sapere con contrassegni, che Lela Marien mi concederà la grazia d'intenderti. Essa e Alà ti conservino, e questa croce che bacio e ribacio, avendomi così ordinato la schiava.”

 

Considerate, o signori, se v'era ogni ragione di maravigliarci o rallegrarci del contenuto di questa lettera; e tali infatti furono la gioia e la maraviglia nostra, che il rinnegato s'accorse che quella lettera non era trovata a caso, ma ch'era realmente diretta ad alcuno di noi. Ci chiese dunque che se il suo sospetto non era vano, ci fidassimo di lui e tutto se gli rendesse palese, essendo egli pronto a cimentare la vita per la nostra libertà. Detto questo, cavò dal seno un crocifisso di metallo che teneva nascosto, e spargendo copiose lagrime giurò per lo Dio rappresentato da quell'immagine, in cui egli, tutto che peccatore indegno, bene e fedelmente credeva, di conservarsi leale e segreto in tutto che gli volessimo palesare, sembrandogli che per opera di quella che aveva scritta la lettera avessimo egli e noi tutti a ricuperare la libertà, e così trovarsi egli ancora in possesso di quanto ardentemente bramava, cioè di rimettersi nel grembo della santa Chiesa sua madre, dalla quale come membro infetto stava diviso per sua ignoranza e per suo peccato. Accompagnò il rinnegato con tante lagrime e con segni di gran pentimento le sue proteste, che noi tutti concordemente ci siamo persuasi d'informarlo del fatto, e perciò ogni cosa seppe da noi. Gli mostrammo il finestrino da cui compariva la canna, ed egli notando la casa, ci assicurò che avrebbe fatto in modo di sapere chi vi abitasse. Parve altresì che bisognasse allestire una risposta al biglietto della Mora, il rinnegato scrisse sul fatto ciò che io andava dettando, e furono le parole che ora vi riporterò fedelmente perché nessuno dei punti essenziali di questo avvenimento mi uscì di memoria, né mai mi uscirà finché avrò vita. In conclusione ecco la mia risposta alla Mora:

 

“Il vero Alà ti conservi, signora mia, e quella benedetta Marien ch'è la vera madre di Dio, la quale ti pose in cuore il desiderio di rifuggirti in paese cristiano, portandoti singolare affezione. Pregala tu che si degni di farti sapere in qual modo potrai mandare ad effetto l'opera ch'essa ti comanda; poiché è opera buona: ed ella ti esaudirà senza dubbio. Io mi offro anche per parte di tutti i cristiani compagni di secondare i tuoi desiderî quand'anche dovesse andarne la vita. Non intralasciare di scrivermi e parteciparmi tutto quello che delibererai di fare, ed io ti risponderò sempre con esattezza; che il grande Alà ci ha fatto conoscere uno schiavo cristiano, il quale parla e scrive la tua lingua sì bene, come potrai comprendere da questa lettera: in tal maniera senza verun timore puoi farci sapere ogni tuo desiderio. Ti fo promessa da buon cristiano di prenderti, giunti che saremo come tu accenni in terra cattolica, per mia legittima sposa; e tu sai che i Cristiani meglio che i Mori adempiono le promesse. Alà e Marien sua madre ti custodiscano signora mia.”

 

Scritta e suggellata la lettera, attesi due giorni finché gli schiavi, come al solito, fossero usciti del bagno, e mi recai tosto all'usato terrazzino per vedere se compariva la canna, che in fatti non tardò molto a farsi vedere. Non mi si presentò appena, che senza esaminare chi fosse che la facea comparire mostrai la lettera come per fare intendere che volevo attaccarla al filo pendente dalla canna. Vi legai la mia carta e indi a poco a poco tornò a farsi vedere la nostra stella con la bianca bandiera di pace, il picciolo fazzoletto. Lo lasciò cadere, io lo raccolsi, e sciolto il nodo vi trovai oltre cinquanta accrescimenti di consolazione a me ed a' miei compagni confermandoci di ricuperare la libertà. Tornò in quella notte medesima il nostro rinnegato, e ci riferì di avere saputo che in quella casa abitava il Moro già detto, il quale chiamavasi Agi-Morato, ricchissimo quanto potesse mai dirsi; che aveva una sola figliuola erede dell'intiera sua facoltà; e che per la città correva voce essere essa la più bella fra le donne di Barberia, sì che molti dei viceré che vi arrivavano chiesta l'aveano in moglie, ma ella non avea voluto mai maritarsi; e seppe ancora che ebbe una schiava cristiana la quale da poco era morta. Tutta questa relazione confrontavasi col contenuto della lettera. Ci ponemmo allora a consiglio col rinnegato intorno al modo che era da prescegliersi per trarre la Mora di casa sua e farci tutti suoi compagni nella fuga in terra cristiana; e fu preso il partito di aspettare il secondo scritto di Zoraida, che così si chiamava quella che presentemente vuol essere nominata Maria. Conoscevamo chiaramente che non da altri che da lei partir poteva lo scioglimento delle difficoltà che si opponevano al nostro divisamento. Adottato questo consiglio, ci ripeté il rinnegato di star di buon'animo, perché egli a costo di perdere la vita ci procurerebbe la libertà.

Passarono quattro giorni senza che uscissero gli schiavi dal bagno, il che fu cagione che per altrettanto spazio di tempo non comparisse la canna; a capo dei quali giorni, trovandosi il bagno deserto, comparve il pannilino sì pregno che prometteva un felicissimo parto. Piegossi verso di me direttamente la canna ed il pannilino, e vi trovai un'altra lettera con cento scudi d'oro effettivi. Era presente il rinnegato cui demmo a leggere la lettera, dopo esserci ritirati nella nostra stanza, ed era concepita nei termini seguenti:

 

“Io non so, signor mio, quale partito indicarti per la nostra fuga in Ispagna, né Lela Marien me lo ha fatto sapere ancorché glielo abbia dimandato. Tutto quello che potrò fare si è calar giù da questo mio finestrino una gran quantità di danari in oro. Procura tu con essi il riscatto dei tuoi amici. Uno di loro vada poi in terra di Cristiani, comperi una barca e torni a prendere i suoi compagni, ed io mi troverò nel giardino di mio padre ch'è situato subito fuori della porta di Bab-Azoun presso la marina; donde soglio soggiornare la state intera in compagnia del padre e dei miei servitori. Di notte tempo potrai venire a prendermi con tutta sicurezza e condurmi alla barca; ma bada bene che devi essere mio marito, perché in caso diverso pregherò Marien che ti punisca. Se non hai di chi fidarti che vada a comperare la barca, fa di riscattarti tu stesso, e vattene solo, che ritornerai più avvertitamente e più presto d'ogni altro, essendo cavaliere e cristiano. Procura d'informarti dov'è situato il giardino, e di farmi sapere quando ti trovi solo nel bagno, ed io ti darò molto denaro. Alà ti conservi, signor mio.”

 

Era questo il contenuto della seconda lettera; sentita la quale ognuno si offrì a voler essere riscattato promettendo di andare e ritornare fedelmente; ed io pure mi offersi a tutto questo. Il rinnegato a tutto si oppose, protestando di non voler consentire che uno solo di noi procurasse il proprio riscatto finché non lo avessimo tutti insieme. La sperienza gli aveva insegnato quanto difficilmente i liberati mancassero alla parola data mentre erano schiavi. Soggiunse che già molti altri esempi vi erano di schiavi che dovevano tornare in servigio dei loro compagni, e più non tornarono; perciocché la libertà ricuperata ed il timore di perderla nuovamente, cancellava a tutti dalla memoria qualsivoglia grande obbligo. E raccontò in prova un fatto recente stranissimo, dicendo in conclusione che il danaro disposto pel riscatto del Cristiano dovesse darsi a lui per comperare una barca in Algeri, ciò ch'egli effettuerebbe fingendo di essere mercante che avesse affari in Teutano e in quella costa, dopo di che troverebbe agevolmente modo di farci fuggire tutti dal bagno e di prenderci tutti con lui. Oltre di che disse, se la Mora, come faceva credere, somministrerà il contante pel riscatto di tutti, allora essendo voi liberi potrete imbarcarvi anche di bel mezzogiorno; ed aggiunse la maggiore difficoltà che gli si parava dinanzi essere quella, che i Mori vietano ai rinnegati il posseder barche qualora non sia un gran vascello, temendo che quello che fa l'acquisto (s'è Spagnuolo singolarmente) nol faccia per altro che per rifuggirsi in terre cristiane. Ci assicurò nondimeno che toglierebbe anche questo inciampo, facendo che un Moro di Tanger partecipasse con lui nell'interesse della barca e nel guadagno delle mercanzie, e con questo ripiego verrebbe ad essere padrone della barca, lo che riuscendogli assicurava dell'esito il più fortunato dell'impresa.

Benché a me ed a' compagni miei paresse miglior partito quello d'inviare a Majorca per la compera di essa barca; come consigliato aveva la Mora, non abbiamo nulla ostante osato di contraddirgli, temendo che una nostra opposizione ci scoprisse, e ci mettesse a pericolo di perderci affatto, rendendo anche palese quanto aveva fatto Zoraida per la quale avremmo tutti dato la vita. Ci determinammo perciò di metterci nelle mani di Dio ed in quelle del rinnegato, rispondendo in quello stesso momento a Zoraida che avremmo seguito il suo consiglio avendolo considerato sì buono come se le fosse venuto da Lela Marien, e che dipendeva da lei sola il ritardo o la celerità dell'esecuzione del nostro tentativo. Mi offersi nuovamente di esserle sposo; e dopo tutto questo un altro giorno in cui era nel bagno l'usata solitudine, in più riprese col mezzo della canna e del pannilino ci fece essa arrivare duemila scudi in oro ed una lettera in cui diceva che al primo sciuma (che è il giorno di venerdì) sarebbesi recata al giardino di suo padre, e che innanzi alla nostra fuga ci avrebbe somministrati altri danari; aggiungendo che se non bastassero ancora, glielo facessimo sapere che essa ci avrebbe forniti di quanto le avessimo chiesto, come colei che teneva la chiave del tesoro di suo padre, sì grande che, per quanto ella ne levasse non sarebbe mai possibile avvedersene. Ebbe tantosto il rinnegato da noi cinquecento scudi per comperar la barca: ottocento servirono pel mio riscatto, dando il danaro ad un mercante di Valenza che trovavasi allora in Algeri, ed il quale mi comperò dal re, guarentendo sulla sua persona che col primo vascello procedente da Valenza sarebbe pagato il mio riscatto. Così fu mestieri di regolarsi perché se avesse sborsato il danaro sul fatto, avrebbe destato nel re il sospetto che già da molto tempo fosse stato in Algeri l'occorrente per liberarmi, e che il mercante lo avesse trattenuto per qualche suo fine. Era infatti sì cavilloso il mio padrone, che non mi avventurai ad alcun patto di fare così tosto lo sborso. Il giorno innanzi al venerdì in cui la bella Zoraida doveva recarsi al giardino, ci diede altri mille scudi, e c'informò della sua partenza, pregandomi che, seguìto il riscatto mio, m'istruissi della situazione del giardino di suo padre, e cercassi ad ogni modo l'occasione di vederla. Le risposi brevemente che farei quanto essa mi ordinava, e che ci raccomandasse tutti a Lela Marien con le orazioni che la schiava le avea insegnate: fatto ciò, si pose ordine al riscatto dei tre nostri compagni per agevolare la fuga dal bagno, ed anche per ovviare che non vedendosi liberati, mentre io già lo era, o mormorassero o fossero consigliati dal maligno spirito a qualche atto pregiudizievole a Zoraida. Tuttoché a liberarmi da ogni timore bastasse la piena cognizione delle loro qualità, non volli avventurare in modo alcuno la buona riuscita di sì grande affare, e quindi li feci riscattare colla stessa cautela usata pel conto mio; consegnando al mercante la somma occorrente perché con cuore sicuro offrire potesse la necessaria sua guarentigia. Nulla però abbiamo scoperto a lui del nostro segreto, perché troppo grande era il pericolo che ne poteva provenire.


CAPITOLO XL

 

SEGUITA LA STORIA DELLO SCHIAVO.

 

“Quindici giorni appena erano passati e già il nostro rinnegato avea comperata una barca atta a contenere più di trenta persone; colla quale per meglio assicurare e dar colore all'astuzia, fece viaggio ad una terra chiamata Sargello, a trenta leghe da Algeri dalla parte d'Orano, dove si fa gran traffico di fichi e di uve passe. Due o tre volte ripeté quel viaggio in compagnia del Tagarino sopraccennato. Tagarini chiamano in Barberia i Mori di Aragona, e quei di Granata sono detti Mudeschiari e nel regno di Fez i Mudeschiari si chiamano Elchi, genti delle quali si vale il re nella guerra più che d'ogni altro. Ogni volta che passava con la sua barca, dava fondo in una cala, non lontana due tiri di balestra dal giardino dove Zoraida abitava, ed ivi a suo grand'agio fermavasi il rinnegato coi giovani Mori, che vogavano al remo, od a dire l'Azala, o come a provarsi di fare da scherzo ciò che pensava poi di fare daddovero. Con tale pretesto recavasi al giardino di Zoraida, chiedeva delle frutta, e suo padre gliele dava senza conoscerlo; ma benché cercasse ogni modo di parlare a Zoraida, e farsi riconoscere per colui che di mia commissione doveva condurla in terra dei Cristiani, e dirle che vivesse sicura e di buon animo, non gli fu possibile farlo, perché le More non si lasciano veder mai né da Mori né da Turchi a meno che non sieno loro mandati dal marito o dal padre. è bensì loro permesso di trattare cogli schiavi cristiani più di quello che si converrebbe, ed a me sarebbe doluto che il rinnegato le avesse parlato, perché forse l'avrebbe posta in somma apprensione, vedendo che il suo affare andava per le bocche di costoro; ma Iddio che disponeva le cose altrimenti non favorì questo buon desiderio del nostro rinnegato; il quale vedendo che con tanta sicurezza si andava e tornava da Sargello da potervi dar fondo ad ogni suo piacere, e conoscendo che il Tagarino suo compagno si uniformava pienamente ai voleri suoi, ed inoltre ch'io era già riscattato, sicché nessun'altra cosa mancava fuorché cercare alcuni pochi cristiani i quali vogassero al remo, mi disse che scegliessi quelli che doveano seguitarmi, e che li tenessi pronti al primo venerdì prefisso alla nostra partenza.

Perciò m'accordai con dodici Spagnuoli, tutti uomini capacissimi al remo, e di quelli che avevano libera l'uscita dalla città; né fu poco ritrovarne tanti in quella occasione, essendovi in corso venti vascelli che avevano assoldata tutta la gente abile al navigare; né si sarebbero trovati neppure questi se il loro padrone avesse avuto pronta al corso la galera che si stava per lui costruendo in Astigliero. Ai marinai null'altro io dissi; se non che il primo venerdì sera se ne uscissero accortamente uno per volta, e si avviassero al giardino di Agi-Morato, e che quivi mi attendessero. Li avvisai uno per uno, commettendo loro che non facessero sapere ad altri cristiani, coi quali per caso si fossero incontrati, di avere avuta da me la posta in quel luogo.

Usata una tale avvertenza, mi restava di adempiere ad altra cosa da me dovuta, ed era di partecipare a Zoraida come passavano le cose, perché se ne stesse sull'avviso né concepisse timore nel vedersi assalita da noi prima del tempo che figurar si potesse che la barca dei Cristiani fosse di ritorno. Io mi determinai allora di recarmi al giardino per tentare di abbordarmi con lei. Col pretesto pertanto di raccogliere alcune erbe vi fui un giorno prima della partenza, ed il primo in cui mi avvenni fu il padre suo, il quale mi parlò nella lingua usata in tutta la Barberia ed anche in Costantinopoli tra gli schiavi ed i Mori, e che non è dialetto né moro, né castigliano, né di verun'altra nazione, ma un miscuglio d'ogni linguaggio con cui c'intendiamo tutti fra noi. Dico dunque che mi domandò in tal favella che cosa cercassi in quel suo giardino, e di chi fossi schiavo. Risposi ch'io era schiavo di Arnaute Mami, (e ciò dissi per essermi noto che gli professava gran amicizia) e che andavo cercando alcune erbe per fargli una saporita insalata. Mi chiese s'io ero un uomo da riscatto, e quanto ne voleva per me il mio padrone.

Stavamo in questi ragionamenti, quando uscì dalla casa posta sul giardino la bella Zoraida, la quale non mi aveva veduto da molto tempo; e siccome le More non usano gran riserbo nel mostrarsi ai cristiani; né tampoco gli schivano, come già dissi, non si ritrasse per la mia presenza, né oppose la minima difficoltà a raggiungermi, quando suo padre che la vide da lungi, la chiamò, e le impose che ci venisse dappresso. Sarebbe ora inutile se mi accingessi a descrivere la sua molta bellezza, la leggiadria e il singolare e ricco vestito con cui l'amata Zoraida si mostrò ai miei occhi: voglio dirvi soltanto, che pendevano dal suo bianchissimo collo, dalle trecce e dagli orecchi tante e sì ricche perle da superare il numero de' suoi capelli. Nel collo dei piedi, ch'erano scoperti secondo il costume di quel paese, aveva due carcadi (che così chiamansi in moresco le smaniglie, o cerchietti dei piedi) di oro purissimo con sì grande quantità di diamanti legati in essi, che mi disse da poi ella stessa, che erano valutati oltre diecimila doble dal padre suo; e le smaniglie che aveva alle mani valevano altrettanto. Erano infinite e di gran valore le perle, perché la maggior gala delle More consiste in ricche perle, ed in catenelle d'oro; ed è perciò che si trovano fra i Mori piucché appresso le altre nazioni siffatti ornamenti. Il padre di Zoraida aveva fama di possedere le più singolari gioie che fossero in Algeri, e più di dugentomila scudi spagnuoli, delle quali cose tutte era padrona questa che presentemente è signora mia. Si può conghietturare da ciò che le è rimasto dopo le tante sofferte traversie, quanto cogli ornamenti testé descritti paresse bella, e quale essa fosse nella sua proprietà.

A dir breve Zoraida mi comparve perfetta in ogni sua parte, od almeno mi sembrò più leggiadra di ogni altra da me finora veduta; e pensando altresì a tutti gli obblighi ch'io le aveva, sembravami avere dinanzi una deità discesa dal cielo in terra per mio bene e per mia felicità. Poiché ci ebbe raggiunti, le disse suo padre ch'io era uno schiavo del signor Arnaute Mami, e che venivo a cogliere per lui l'insalata. Sciolse ella la lingua, ed in quel misto linguaggio da me poc'anzi accennato, mi domandò se io era cavaliere, e perché non procuravo il mio riscatto. Le risposi ch'erami già riscattato, e che avevo una chiara prova dell'amore del mio padrone nel prezzo che sborsato aveva per la mia libertà, consistente in mille e cinquecento zoltani. Al che rispose:

— In verità che se tu fossi stato schiavo di mio padre avrei voluto che ne chiedesse due volte tanti, perché voi altri cristiani sempre mentite, e vi fate assai poveri per ingannare i Mori. — Potrebbe ciò anche darsi, o signora mia, le rispos'io, ma io sono stato veritiero costantemente e col mio padrone e con quanti vi sono al mondo. — E quando sei tu di partenza? disse Zoraida. — Io credo che sarà dimani, diss'io; giacché vi è qui un vascello francese che dimani appunto si mette alla vela, ed io penso di approffittarmi della occasione. — Non sarebbe meglio, disse Zoraida, attendere i vascelli di Spagna, ed imbarcarsi su di essi piuttosto che su quelli dei Francesi che ti sono nemici? — No, rispos'io. Se vi fosse qualche probabile congettura che fosse per arrivare un vascello spagnuolo, io lo aspetterei; ma partirò così dimani, perché il desiderio che ho di rivedere la patria e le persone che amo, è sì grande, che non mi lascia attendere nuova occasione comunque potesse essere migliore. — Tu devi essere ammogliato nel tuo paese, disse Zoraida e brami per ciò di rivedere la moglie. — Non sono ammogliato, risposi, bensì ho dato la mia parola di divenir marito al mio arrivo. — È bella, la donna cui desti la tua parola? soggiunse Zoraida. — È sì bella, io le risposi, che nulla, nulla le manca per essere tale, e per dirvi la verità a voi somiglia moltissimo.”

Di ciò non poté fare meno di ridere suo padre, e disse:

— Guarda bene o cristiano, che debb'essere dotata di somma bellezza chi vuol somigliare alla mia figliuola, che è la più bella di tutto questo regno: se non lo credi osservala attentamente, e confesserai che dico il vero.”

Ci serviva spesso d'interprete il padre di Zoraida in questa nostra conversazione, come colui che meglio intendeva; perché sebbene parlasse ella la lingua bastarda che, siccome dissi, colà si usa, faceva conoscere i suoi sentimenti più a cenni che a parole.

Standoci in questi e simili discorsi sopravenne un moro correndo, e disse ansante che quattro Turchi, saltata la chiusa del giardino, andavano rubando le frutta ancora immature. Trasalì a tale annunzio il vecchio e Zoraida non meno di lui; perché è comune e connaturale ai Mori il temere dei Turchi e dei soldati singolarmente, i quali sono assai prepotenti, e sogliono trattarli peggio che schiavi. In fine disse a Zoraida suo padre: — Figlia, ritirati in casa, e rinchiuditi mentre io vo a parlare con questi cani, e tu, cristiano, raccogli le tue erbe in buon'ora, e tornati con l'aiuto di Alà al tuo paese.” Io m'inchinai; si recò egli in traccia dei Turchi, e mi lasciò solo con Zoraida che fece le viste di andarsene dove le aveva detto suo padre; ma appena s'internò esso fra gli alberi del giardino, ch'ella rivolgendosi a me cogli occhi pieni di lagrime, mi disse:

— Atameji, cristiano, atameji?, che significa: “Te ne vai tu, cristiano, te ne vai?”. Io le risposi: — Sì, me ne vado ma non certamente senza di te; attendimi ai primi albori, e non atterrirti della nostra venuta, che ti condurremo sana e salva in terra di cristiani.”

Io le dissi questo in maniera che m'intese bene, ed io lei; e passandomi essa un braccio al collo con lenti passi cominciò ad avviarsi in mia compagnia verso la sua abitazione. Volle la sorte (che poteva essere assai disgraziata se il Cielo non avesse altrimenti disposto) che andando ambedue noi nel modo sopraindicato, e tenendomi essa avvicinato e stretto, suo padre, che già tornava dopo avere discacciati i Turchi, ci vide in quel modo appunto, e noi pure ci accorgemmo di esser da lui veduti. Zoraida non levò per questo il suo braccio dal mio collo; ed anzi quasi a me si abbandonò appoggiando la sua testa al mio petto, e piegando alquanto le ginocchia, mostravasi come colta da svenimento: ed io allora assecondando il suo prudente consiglio mi recai come in atto di sostenerla contro mia voglia.

Suo padre ci raggiunse correndo, e nel vedere sua figlia a quel modo le domandò che avesse; ma non gli dando ella risposta alcuna, soggiunse: “Ah ella sviene pel subitaneo spavento recatole da questi cani.” In ciò dire staccandola da me la strinse al suo seno, ed ella traendo un lungo sospiro e con gli occhi umidi di pianto, ritornò a dire: Ameji, cristiano, ameji. “Vattene, cristiano, vattene.” Le disse suo padre: — Non serve, o figlia, che parta il cristiano; egli nulla non ti ha fatto di male, e i Turchi sono già partiti; non avere più timore che nessuna cosa debb'ora affannarti, perché ti replico, che i mariuoli sono tornati donde erano venuti.

— Signore, diss'io al padre suo, i Turchi le infusero spavento, come voi dite; ma poiché essa rinviene, e mi comandò di partire non voglio darle fastidio; restatevi in pace, e con vostra permissione tornerò se occorra, a cogliere erbe in questo giardino; che, a quanto ne dice il mio padrone, gli somministra la più saporita insalata che egli possa mai desiderare.

— Te ne potrai tornare ogni volta che ti sia in grado, rispose Agi-Morato, perché mia figliuola non ti disse di andartene per aver avuto molestie da alcun cristiano, ma piuttosto credendosi di parlare coi Turchi, e fors'anche perché tu non perdessi tempo a raccorre gli erbaggi.”

Con ciò io tolsi da amendue licenza, ed essa (a quanto sembrava) coll'anima che le fuggiva dal seno, se n'entrò con suo padre, restando io nel giardino che visitai da per tutto a mia voglia. Osservai diligentemente gl'ingressi e le uscite, il sito della casa, e la opportunità di cui mi poteva prevalere per compiere il nostro disegno. Fatto questo, me ne tornai, e diedi contezza al rinnegato ed ai compagni miei di ciò che mi era avvenuto.

Mi pareva mill'anni di poter arrivare a godere senza timore del bene che mi offeriva la sorte col possesso della bella Zoraida; e finalmente passò il tempo, e arrivò il giorno ed il punto da noi tanto desiderato, ed attenendoci tutti al consiglio ed alle disposizioni prese, dopo le più mature considerazioni da noi fatte, avemmo il buon successo da noi bramato; perché il venerdì seguente al giorno in cui io parlai colla bella Zoraida, il rinnegato sull'imbrunire della notte diede fondo colla barca quasi di rimpetto al sito dove ella trovavasi. Di già i cristiani che dovevano vogare erano pronti e nascosti per diverse parti di quei contorni. Stavansene tutti sospesi e lieti attendendomi, desiderosi d'investire la barca che avevano sott'occhio, non conoscendo il disegno del rinnegato, e credendo che da noi si dovesse guadagnare la libertà colla forza, e coll'uccidere i Mori, che stavano dentro la barca stessa. Avvenne dunque che quando mi feci vedere coi compagni miei, tutti quelli ch'erano nascosti si unirono a poco a poco a noi; e ciò accadde mentre la città era chiusa, né si vedeva persona in tutta quella campagna.

Trovandoci tutti riuniti ci nacque il dubbio se fosse miglior consiglio far prima uscire Zoraida od ammazzare prima tutti i Mori Bagarini, che nella barca dormivano: e standoci a questo modo incerti arrivò il nostro rinnegato, e domandò per qual causa restavamo noi neghittosi, essendo già l'ora opportuna che i Mori tutti erano disattenti ed i più di essi eziandio addormentati. Gli esponemmo le nostre difficoltà, ed egli rispose che sopra tutto importava di impadronirsi subito del vascello, il che poteva farsi agevolmente e senza verun pericolo; e che subito, dopo saremmo volati a prender Zoraida. Piacque ad ognuno il partito, e senza più perder tempo, servendoci egli di guida, arrivammo al vascello, e saltandovi dentro egli il primo mise mano ad una scimitarra dicendo in moresco: “Nessuno di voi si muova, o sarà ucciso.”

Frattanto eranvi già entrati tutti i Cristiani. I Mori, gente pusillanime, udendo il loro Arraèz o comandante parlar a quel modo, ne concepirono alto spavento, e senza più si lasciarono in silenzio legar le mani dai Cristiani, che minacciavano in oltre, se alzassero la voce, di passarli a fil di spada. Ciò eseguitosi, e rimasta la metà dei nostri a far loro la guardia, gli altri tutti insieme al rinnegato, che era la loro guida, si avviarono al giardino di Agi-Morato, e volle la buona sorte che recandoci ad aprire la porta, trovassimo facilità sì grande come se non fosse stata chiusa; di maniera che con molta quiete e silenzio arrivammo alla casa senza esser sentiti di chicchessia.

Stava la bellissima Zoraida aspettandoci alla finestra, e come sentì venir gente, domandò a bassa voce s'eravamo Nazzareni, volendo dire se eravamo cristiani. Io le risposi che sì, e che scendesse. Quando ella mi riconobbe, non perdette un momento, e senza soggiungere parola, scese, aprì la porta e mostrossi a tutti sì leggiadra e sì riccamente vestita che non saprei con parole manifestarlo. Non la vidi appena, che le presi una mano e la baciai e ribaciai; il rinnegato fece lo stesso, ed anche i miei due compagni; gli altri che non sapevano punto come passasse la cosa, imitarono il nostro esempio, di maniera che fu un ringraziarla di tutti, e riconoscerla signora della nostra libertà. Le chiese il rinnegato in lingua moresca se fosse nel giardino suo padre. Ella rispose che v'era, e che stava dormendo.

— Sarà necessario svegliarlo, replicò il rinnegato, e condurlo con noi con quanto vi ha di prezioso in questo vostro giardino.

— No, no, diss'ella: non s'ha punto da toccare mio padre; né v'è in questa casa più di quello ch'io porto meco, e già è tanto da farvi tutti ricchi e contenti. Aspettate un poco e vedrete.”

Detto questo, rientrò in casa dicendo che subito sarebbe ritornata, e che noi frattanto stessimo cheti senza alzar alcun rumore. Io dimandai al rinnegato ciò ch'ella avea detto: egli me lo significò, ed io risposi non doversi fare se non ciò che a Zoraida piacesse ed intanto essa comparve di nuovo strascinando seco un forziere pieno di monete d'oro.

Volle la mala fortuna che si destasse in quel punto suo padre, e sentisse l'andirivieni che si faceva per lo giardino; laonde affacciatosi alla finestra, e conosciuto che quanti vi si trovavano erano tutti cristiani, si pose a gridar quanto poteva nella sua lingua: “cristiani, cristiani, ladri, ladri;” a queste grida ci trovammo tutti in grandissima e spaventevole confusione; ma il rinnegato vedendo il nostro pericolo, e quanto importava l'uscir salvi da tal frangente, a gran fretta salì con alcuni dei nostri, dove stavasi Agi-Morato non avendo io osato di abbandonare Zoraida, che quasi fuori di sentimento erasi lasciata cadere fra le mie braccia. In conclusione tutti i nostri si diedero sì bene le mani d'attorno che scesero in un baleno con Agi-Morato menandolo con le mani legate, e con un fazzoletto alla bocca che non gli lasciava proferire parola; e minacciaronlo che un solo suo movimento gli sarebbe costato la vita. Quando sua figlia lo vide chiuse gli occhi, e il padre rimase spaventato, ignorando che ella si trovasse tra le nostre mani di suo consenso. Siccome era soprattutto necessario in quel punto il fuggire, entrammo in barca assai prestamente e accortamente, ed ivi ci attendevano quelli che vi erano rimasti i quali tutti temevano di qualche nostra sventura.

Erano scorse appena due ore della notte ch'eravamo già imbarcati, ed allora si sciolsero al padre di Zoraida le mani, e gli fu levato il fazzoletto dalla bocca; ma il rinnegato tornò a dirgli che una parola sola gli avrebbe fatto perdere la vita. Vedendo egli quivi la figliuola cominciò teneramente a sospirare, e maggiormente quando si accorse ch'io la teneva strettamente abbracciata, e che ella senza fare difesa alcuna, né si doleva, né altrimenti tentava di ritrarsi da me. Taceva dunque, ma taceva trattenuto dalle minacce del rinnegato. Trovandosi alfine Zoraida nella barca, e vedendo che davasi de' remi in acqua e che suo padre e gli altri Mori se ne stavano legati, disse al rinnegato che da me ottenesse il favore di sciogliere quei Mori, e di liberare suo padre, perché ella si annegherebbe piuttosto che avere per sua colpa dinanzi a sé schiavo quel genitore da cui tanto fu amata. Il rinnegato lo disse a me, ed io acconsentii; ma egli mi fe' riflettere che ciò non doveva farsi, poiché lasciando liberi i Mori, avrebbero chiamato aiuto di terra, e messo sossopra la città tutta, donde potevano uscir barche leggere a fine di impedire la nostra fuga; e tutto quello che si sarebbe potuto fare si era di ridonar loro la libertà pervenuti che fossimo alla prima terra di cristiani. Fu da tutti adottato un tale consiglio del quale si persuase anche Zoraida.

Quindi con lieto silenzio e con sollecita diligenza ognuno dei nostri vogatori diede di piglio al remo, e raccomandandoci a Dio di pieno cuore cominciammo navigare verso l'isola di Majorca, ch'è la terra dei cristiani più vicina. Non fu possibile continuare questo cammino pel vento contrario e pel mare un po' burrascoso, e ci bisognò pigliar terra alla volta di Orano, non senza nostro rincrescimento, giacché temevamo di essere scoperti da quei di Sargello, città discosta da Algeri sole sessanta miglia. Temevamo eziandio d'incontrarci in alcuna galeotta, di quelle che si staccano d'ordinario da Tetuano; benché ognuno si persuadesse che l'imbattersi in qualche galea di mercanti, purché non fosse di quelle che vanno in corso, non ci avrebbe certamente nuociuto, anzi poteva esserci vantaggioso dandoci occasione di acquistare un legno più acconcio al nostro viaggio.

Durante la navigazione teneva Zoraida chinata la testa fra le mani per non vedere suo padre, ed io sentiva che continuamente invocava Lela Marien che la aiutasse. Avevamo navigato per trenta miglia, quando apparve il giorno, e ci trovammo a tre soli tiri di archibugio da una terra deserta in cui alcuno non ci potea scoprire. Contuttociò a forza di remi ne cacciammo un poco più in mare che era tornato alquanto tranquillo, ed avendo corse quasi due leghe, si ordinò la voga ai quartieri finché si avesse mangiato un poco, poiché la barca era bene provveduta di vettovaglie. I vogatori rifiutarono il cibo dicendo che non era quello il tempo da riposare, ma si ristorassero quelli che non erano al remo, mentr'eglino non lo avrebbero lasciato a patto veruno. Così si fece, ed in questo cominciò a soffiare un vento sì furioso che ci astrinse a far subito vela, lasciando i remi ed a drizzare ad Orano, non essendo possibile fare altro viaggio. Tutto ciò fu eseguito con grande celerità, ed in tal guisa si fecero a vela otto miglia all'ora senz'aver altro timore fuori che quello d'incontrarci in qualche corsaro. Apprestammo di che mangiare ai Mori Bagarini che furono racconsolati dal rinnegato, il quale li assicurò che non erano altrimenti schiavi, e che alla prima occasione sarebbero lasciati andar liberi. Lo stesso fu detto anche al padre di Zoraida il quale rispose: “Ogni altra cosa io potrei sperare o attendermi dalla vostra liberalità, o cristiani, eccetto che di vedermi ridonata la libertà; né dovete tenermi sciocco a segno di crederlo, che non vi sareste esposti a tanto pericolo con questa intenzione; sapendo sopratutto chi mi son io, e qual prezzo potete sperare. Anzi se volete venire a patti subito vi offro quanto possedo per riacquistare la libertà mia e quella di mia figliuola, la quale è la più grande e la miglior parte dell'anima mia.” Ciò detto, si mise a piangere sì amaramente che tutti ci mosse a compassione, e costrinse Zoraida ad alzare gli occhi.

Vedendolo ella ne sentì commozione sì viva, che si tolse da me, e corse ad abbracciarlo; ed accostando il dolente viso di lui al suo, sì dirotto, sì tenero, sì compassionevole era il loro pianto che mossero noi tutti a lagrimare con essi. Quando il padre si avvide che Zoraida era adorna di vestiti e carica di molte gioie le disse in suo linguaggio:

— Che vuol dir ciò, figlia mia? Iersera prima che c'intervenisse sì terribile sciagura tu portavi i tuoi casalinghi vestiti, e adesso ti veggo raffazzonata delle migliori vesti che tieni quando è prospera la fortuna? Come n'avesti il tempo? o qualcosa ti ha persuasa a cambiamento siffatto? Dammi risposta, che io mi trovo più sbalordito di questo che della stessa disgrazia in cui sono fatalmente caduto.”

Tutto ciò che il padre diceva alla figlia (la quale nulla rispondeva) ci era dichiarato dal rinnegato. Scoprì poi il padre in un lato della barca quel forziere dove solea Zoraida tenere le sue gioie. Egli sapeva benissimo che rimasto era in Algeri, e che non lo aveva trasportato nel giardino. Restò quindi assai confuso, e le chiese come quel forziere fosse venuto alle nostre mani, e che cosa vi si rinchiudesse. Rispose allora il rinnegato senza aspettare che Zoraida parlasse: “Non ti dar pensiero, o signore, di chiedere conto a tua figlia di tali cose, mentre tu verrai al chiaro di tutto con una sola ch'io ti risponda, e questa si è che tua figliuola è cristiana: ch'ella è stata la lima delle nostre catene, e la liberatrice della nostra schiavitù. Ella si parte spontanea da questi paesi, e sì contenta e soddisfatta, quanto mi vo figurando, di vedersi in questo suo nuovo stato, quanto può esserlo colui che dalle tenebre esce alla luce, dalla morte alla vita, dalla pena alla gioia.

— È vero, o figlia mia, quanto dice costui? soggiunse il Moro.

— È vero, rispose Zoraida.

— Dunque, replicò il vecchio, tu sei cristiana, e quella sei che diede il padre in potere dei suoi nemici?”

Zoraida rispose:

— Io quella non sono che a sì malaugurato partito ti ha posto; pur sappi che non ebbi mai desiderio di abbandonarti, né di farti male, ma di fare a me solamente del bene.

— E qual'è, figliola, questo bene che ti sei procurata? soggiunse il padre.

— Domandalo, rispose ella, a Lela Marien che meglio di me saprà dirtelo.”

Non ebbe il Moro ciò appena inteso che in un baleno si lasciò cadere in mare caporovescio, e sarebbesi senza dubbio affogato, se le lunghe sue vesti non lo avessero tenuto un cotal poco a galla dell'acqua. Zoraida mise un grido; ognuno si affrettò al suo aiuto, e presolo pel giubbone mezzo affogato, e già privo di senso, lo ritraemmo dal mare.

Era Zoraida sì addolorata, che proruppe nel pianto più tenero e disperato. Lo rivoltammo colla bocca all'ingiù, come se fosse morto, rigettò molt'acqua, e tornò in sé dopo alcune ore, nel corso delle quali essendosi mutato il vento, ci trovammo nella necessità di nuovamente drizzare la prora verso terra, facendo forza coi remi per non investirla. Per nostra buona fortuna giungemmo ad un seno di mare allato ad un piccolo promontorio, dai Mori chiamato Cava-rumia, che significa nella nostra lingua la mala donna cristiana. è tradizione tra i Mori che si trova colà sepolta cotesta Cava che fu cagione della perdita della Spagna, perché Cava nel loro idioma significa donna cattiva e rumia cristiana: ed è tenuto per mal augurio l'essere costretti a dar ivi fondo; né questo fanno mai senza un assoluto bisogno. Per noi invece è stata quella Cava un porto di sicurezza contro il mare fatto assai burrascoso.

Lasciammo le nostre sentinelle in terra senza abbandonare mai il remo. Si mangiò di quello che il rinnegato avea provveduto, e si fecero le più calde preghiere a Dio ed alla Madonna affinché ci si dessero aiuto e favore per poter condurre felicemente a fine la nostra impresa. Si ordinò ad istanza di Zoraida di sbarcare a terra suo padre e gli altri Mori tutti che stavano legati, non potendo a patto alcuno il pietoso suo cuore tollerare di vedersi dinanzi legato il padre, e schiavi quelli del suo paese. Ebbe da noi promessa che ciò sarebbe fatto al momento della nostra partenza, poiché dal lasciare i prigionieri in quel luogo disabitato non ne veniva alcun pericolo a noi. Non furono poi infruttuose le nostre preci: anzi il Cielo le accolse facendo spirare un vento favorevole, rendendo tranquillo il mare, e invitandoci a riprendere l'incominciato viaggio. Si slegarono allora da noi i Mori, e ad uno ad uno furono fatti scendere in terra, di che mostravano grande stupore; ma quando si venne allo sbarco del padre di Zoraida, ch'era tornato in sé interamente egli ci disse: “Perché credete, o cristiani, che questa rea femmina si rallegri ora che voi mi ridonate la libertà? Pensate forse che ciò proceda dalla pietà che sente di me? No, no: essa ne gode, perché le riesce importuna la mia presenza a voler mandare ad effetto i pravi suoi desiderî: né manco crediate ch'ella siasi mossa a mutar religione per parerle più sana la vostra che la sua. No: ella a ciò si è decisa perché sa che nel vostro paese il vivere licenzioso e senza freno si usa più che nel nostro.” Volgendosi poscia a Zoraida, mentre da me e da un altro cristiano era tenuto a gran forza che non desse in eccessi: “Figlia indegna e sconsigliata, le disse, tu dunque vai forsennata e cieca in mano di questi cani, nostri naturali nemici? Maledetto sia il punto in cui ti generai, e maledetti i benefizî e gli agi nei quali ti ho allevata!”

Ma vedendo noi che egli non avrebbe finito sì presto, ci affrettammo a metterlo a terra di dove proseguì colle maledizioni e le querele, pregando Maometto di muover Alà a mandarci tutti dispersi e distrutti nel fondo del mare.

Date le vele ai venti, né potendo più udire le molte sue grida, osservammo che cosa facesse. Si svelse i peli della barba, strappossi i capelli e voltolossi per terra. Una volta sforzò la voce in modo che l'abbiamo inteso dire: “Ritorna, amata figliuola, ritorna a terra che tutto io perdono; lascia a coloro il denaro e le gioie, torna a consolare l'infelice tuo padre, che privo di te morrà su questa arena deserta.” E tutto questo era inteso da Zoraida, la quale piangeva amaramente senza potere altro dire a suo padre se non che: “Piaccia ad Alà, padre mio, a Lela Marien, che mi ha voluto cristiana, di consolarti nella tua afflizione: sa bene Alà che io non potevo far altrimenti, e che questi cristiani furono obbligati dalla mia volontà! perché quando anche non avessi voluto seguitarli, e avessi voluto rimanermene in casa mia, ciò mi sarebbe stato impossibile; tanto l'anima mia era bramosa di mandare ad effetto quest'opera che a me pare ottima quanto da te, o caro padre, è tenuta per trista.”

Così si sfogava senza che il genitore potesse più udirla, e già era sparito dagli occhi nostri. Consolando io allora Zoraida, ci applicammo al viaggio intrapreso, cui dava ogni favore un prospero vento, di maniera che si tenne per certo da noi di trovarci nella mattina del giorno seguente alle spiagge di Spagna. Siccome di rado o non mai interviene che il bene sia disgiunto da qualche male che lo turba e sconvolge, così vollero o la nostra cattiva sorte, o forse le maledizioni scagliate dal Moro contro sua figlia (che sempre debbono temersi qualunque sia il padre che le proferisca) vollero, dico, che trovandoci già nell'alto, ed essendo ormai scorse tre ore della notte, viaggiando a vele spiegate e coi remi legati, mercé la facilità del vento che risparmiava la fatica di adoperarli, scorgemmo al chiarore della luna presso di noi un vascello che a piene vele, tenendo un poco a forza il timone, ci si attraversava dinanzi, ed era così vicino che ci obbligò ad ammainare per non investirlo; ed esso per egual modo fece forza col timone per lasciarci liberamente passare.

Eransi i navigatori posti a bordo del vascello per domandar chi fossimo, e dove eravamo diretti, e da qual parte venivamo; ed essendoci fatte queste dimande in lingua francese, disse il nostro rinnegato: “Nessuno risponda perché questi certamente sono corsari francesi e di quelli che ne fanno quanto mai possono.” Per questo avvertimento nessuno fiatò, ed essendo passato un poco avanti il vascello, in modo ch'era rimasto sottovento, spararono d'improvviso due pezzi di artiglieria, amendue, io credo, con palle incatenate poiché una troncò il nostro albero per mezzo precipitandolo in mare unitamente alla vela, e immediatamente dopo, una palla venne a colpire a mezzo la nostra barca, di modo che tutta la sgominò senza però uccidere alcuno.

Vedendo noi che a poco a poco andavamo calando a fondo cominciammo a domandare soccorso con alte grida, ed a pregare quei del vascello che ci accogliessero a fine di non restar annegati. Ammainarono tosto, e gittando in mare lo schifo vi entrarono dentro dodici Francesi bene armati con archibugio, e con torce accese, e in tal guisa giunsero alla nostra barca, dove scorgendo il picciol numero che noi eravamo e l'immediato pericolo di annegarci, ci accolsero, dichiarando che quanto ci era avvenuto traeva origine dalla scortesia di non aver dato loro alcuna risposta. Il nostro rinnegato prese il forziere in cui stavano riposte le ricchezze di Zoraida, e lo gittò in mare senz'essere osservato da alcuno. In fine passammo tutti nel vascello dei Francesi i quali, dopo essersi informati di tutto ciò che volevano saper da noi, come se stati fossero nostri capitali nemici, ci spogliarono di ogni nostro avere, togliendo a Zoraida sino i cerchietti che aveva ai piedi.

A me non recava tanta pena il vederla spogliata di tante ricchissime e preziose gioie, quanto il raccapriccio di vederla esposta a qualche peggiore oltraggio: ma l'avidità però di quelle genti non si estende che al denaro, né questa è sazia se non giunge sino ad appropriarsi gli abiti degli stessi schiavi, quando possono sperare da essi qualche profitto. Proposero poscia alcuni tra loro di ravvolgerci tutti in una vela e di gittarci in mare; perché divisando di approdar a qualche porto di Spagna e di farsi credere Bretoni, temevano di esser castigati se ci portavano vivi con loro. Il capitano però ch'era colui che avea spogliata la mia amata Zoraida, e che pur dovea essere il più pietoso, dichiarò che trovavasi pago della conseguita preda, né voleva toccare alcun porto di Spagna; ma passare a dirittura e di notte lo stretto di Gibilterra, e tornarsene, se avesse potuto, alla Roccella donde egli era partito. Vennero quindi in risoluzione di accordarci il loro schifo e tutto l'occorrente per la corta navigazione che restavaci a fare: ciò ch'eseguirono il dì seguente rimpetto alle spiagge di Spagna, la cui vista ci rallegrò di maniera che più non ci rammentavamo delle nostre disgrazie e della nostra povertà come se nulla ci fosse avvenuto: sì grande era il nostro contento per la libertà riacquistata.

Poteva essere il mezzogiorno all'incirca quando ci fecero entrare nello schifo somministrandoci due barili d'acqua e poco biscotto: e il capitano, mosso da non so qual spirito di compassione, diede quaranta scudi d'oro a Zoraida nel momento del suo imbarco, né permise che i suoi soldati le togliessero gli abiti che tuttavia le vedete ora indosso. Entrati nello schifo rendemmo loro grazie del ricevuto benefizio, mostrandoci più contenti che dogliosi. Si scostarono essi proseguendo il loro viaggio allo stretto; e noi, senz'avere altra mira fuorché quella di approdare alla prima terra che ci si parasse dinanzi, ci affrettammo a vogare in modo che sul tramontare del sole la vedemmo sì vicina, che sperammo di giungervi prima che s'inoltrasse molto la notte.

Non essendo allora alcun chiarore di luna, e facendosi oscuro il cielo, e non sapendo per soprappiù dove ci dovessimo fermare, ci parve prudente di non toccar terra come avrebbero pur voluto alcuni dei nostri, dicendo che vi approdassimo quand'anche fosse in uno scoglio o in altro luogo fuori dell'abitato, mentre noi saremmo usciti da ogni timore; e tanto più che sogliono frequentare quelle acque i corsari di Teutano, i quali pernottano in Barberia, e si trovano sul far del giorno alle coste di Spagna, di dove, fatta per lo più qualche preda, tornano a dormire nelle proprie loro case. Tra le diverse opinioni quella che allora prevalse, fu che ci accostassimo a poco a poco, e che permettendo la bonaccia del mare, sbarcassimo dove fosse più agevole il farlo. Così seguì; e prima ancora della mezzanotte ci trovammo alle falde di una montagna altissima, la quale non era sì presso al mare da non concederci poco terreno in pianura dove sbarcare comodamente.

Sbarcati, baciammo il terreno, e con lagrime di perfetta gioia rendemmo grazie al Signore per gl'incomparabili benefizî che ci aveva impartiti nel nostro viaggio. Tolte le vettovaglie ch'erano nella barca, le traemmo a terra, e salimmo gran parte di quella montagna, tuttavia col cuore non affatto tranquillo, perché non sapevamo ancora se fossimo veramente in terra di cristiani.

Venne il giorno (a quanto ci parve) tardi assai più di quello che da noi si bramasse, e salimmo sul colmo della montagna per veder se di là si scoprisse qualche villaggio o albergo pastoreccio; ma per quanto spalancassimo gli occhi non ci venne fatto di vedere né persona, né cammino, né altra meta cui drizzarci. Non ci stancammo però di proseguire le nostre indagini, persuasi di dover finalmente trovare chi c'indicasse una qualche via: ma ciò che a me dava grande afflizione si era il veder camminare a piedi Zoraida per sì aspri sentieri. La tolsi, è vero, qualche volta sulle mie spalle, ma più che sollievo sentiva essa rammarico della fatica che io faceva per lei, né volle che la sostenessi a patto veruno; e perciò tenuta da me per la mano essa veniva pazientemente viaggiando sforzandosi eziandio di parer lieta.

Avendo camminato poco più di un quarto di lega venne ai nostri orecchi il suono di un campanellino, chiaro segno che là appresso eravi qualche mandra, e perciò stando ognuno all'erta per vedere se si scopriva alcun uomo, c'incontrammo a piè d'un sughero in un pastore giovanetto che spensieratamente tranquillo stava con un coltello intagliando un bastone. Gli demmo voce ed egli alzando la testa si rizzò in piè prestamente, e (per quanto di poi ci ha detto) i primi che se gli presentarono dinanzi furono il rinnegato e Zoraida, alla cui vista credette che gli fossero addosso tutti quelli di Barberia. Si diede alla fuga, e si cacciò velocemente nel più folto del bosco, dove con grandi strida si mise ad esclamare: “I Mori sono in paese; i Mori, i Mori, all'arme!”

Restammo a tai voci tutti confusi, né sapevamo a qual partito appigliarci; ma considerando che le grida del pastore potevano mettere sossopra il vicinato, e che la cavalleria che stava di guardia alla costa potea venire sul fatto a riconoscere ciò che fosse, ci accordammo che il rinnegato si togliesse gli abiti di turco, e vestisse una giubba o casacca da schiavo, che gli fu somministrata da uno dei nostri restando questi in camicia. In tal modo raccomandandoci a Dio, ci drizzammo per la strada additata dal pastore, temendo ad ogni momento di vederci sorpresi dalla cavalleria. Né fu vano il timore, perché non passarono due ore che usciti da quei luoghi scoscesi e pieni di cespugli, e giunti in una pianura scoprimmo da cinquanta soldati che correndo chetamente a mezzo galoppo venivano alla volta nostra. Vedutili appena, noi gli abbiamo attesi a piè fermo, e quando ci raggiunsero e videro che in vece dei Mori che cercavano, si presentava loro un cristiano meschinello, restarono trasognati, ed uno di essi ci chiese se a caso fossimo noi quelli per cui cagione avean gridato all'armi. Sì, gli diss'io, e volendo cominciare a dargli alcun conto di dove noi venivamo, e chi eravamo, uno dei cristiani compagni nostri conobbe dalla ginetta colui che fatta ci aveva la dimanda, e disse senza darmi luogo a proferire più una sola parola:

“Sieno grazie al Signore che a sì buona parte ci ha condotti! Se io non m'inganno punto, la terra in cui ci troviamo è quella di Valez-Malaga; e se gli anni di mia schiavitù non mi hanno fatto perdere la memoria della vostra persona, voi, o signore, che dimandate conto di noi, siete don Pietro di Bustamante mio zio.”

Appena ebbe ciò pronunziato lo schiavo cristiano, che colui scese di cavallo, ed abbracciando il giovane, gli disse: “Cugino dell'anima e della vita mia, io ben ti conosco; già ti abbiamo pianto per morto io e tua sorella e tua madre e tutti i tuoi che vivono; e faccia il Signore che godano adesso della consolazione di rivederti! noi sapevamo che tu eri in Algeri, come attestano in fatti gli abiti tuoi e quelli dei tuoi compagni, ed ora mi pare che la tua libertà possa dirsi un miracolo:

— Così è per lo appunto, rispose il giovane: e tempo verrà che vi racconterò gli eventi per disteso.”

Tosto che gli altri soldati si assicurarono che noi eravamo schiavi cristiani smontarono di cavallo, ed ognuno c'invitava a salire sul suo per condurci in città di Valez-Malaga, discosta una mezza lega. Andarono alcuni di essi a levare la barca dal suo sito per condurla alla città; altri si misero in groppa ai cavalli, e Zoraida fu posta sul cavallo dello zio del cristiano. Accorse a riverirci un popolo numeroso che seppe il nostro arrivo per mezzo di alcuno che ci precorse e non faceansi già meraviglie nello scorgere schiavi liberati, né schiavi mori (perché tutta la gente di quella costa è solita a vedere e gli uni e gli altri), ma sì erano attoniti della bellezza di Zoraida, la quale attiravasi l'ammirazione di tutti dopo un viaggio sì disastroso, manifestando grande letizia per vedersi in terra di cristiani senz'altro timore di sinistra fortuna. Queste circostanze le avevano aggiunto grazie così attraenti, che se l'affezione non m'ingannava io avrei osato dire ch'era ella la più leggiadra creatura che potesse trovarsi, od almeno che io avessi giammai veduta.

Ci recammo alla chiesa per render grazie al Signore del ricevuto benefizio, ed entrata che vi fu Zoraida, disse tosto ch'erano ivi delle facce che rassomigliavano a quella di Lela Marien. Le dicemmo ch'erano sue immagini, ed alla meglio il rinnegato le diede a conoscer ciò che significavano, affinché le adorasse, come se ognuna di esse fosse veracemente quella stessa Lela Marien che le era apparsa. Ella che ha un giusto discernimento ed un comprendere molto facile e sottile, intese pienamente quanto le venne accennato intorno a quei pii simulacri. Di là ci divisero per farci alloggiare in varie case della città; ma il rinnegato, Zoraida ed io fummo accolti in casa dei genitori del cristiano, gente fornita mezzanamente de' beni di fortuna, e che ci trattò con sì grande amorevolezza come se fossimo stati loro figliuoli.

Per sei giorni ci siamo trattenuti in Valez, a capo dei quali dato buon conto dal rinnegato di sé medesimo, recossi egli alla città di Granata per convertirsi e per entrare nel grembo santissimo della Chiesa col mezzo della Santa Inquisizione. Gli altri cristiani liberati passarono tutti dove più tornò loro in acconcio, e restammo soli Zoraida ed io, senz'avere altro che le monete ch'ella ricevette dalla cortesia del Francese, e colle quali comperai questo asinello su cui è qui arrivata. Tenendole io finora luogo di padre e di scudiere, ma non di sposo, drizziamo i nostri passi a vedere se vivo è mio padre, ovvero se alcuno dei miei fratelli sia stato dalla fortuna più di me favorito: tuttoché mi sembri che nessuna maggior buona sorte possa agguagliarsi al possedimento che il Cielo ora mi concede della vaga Zoraida, che da me si valuta al di sopra di ogni altra fortunata ventura. La pazienza con cui ella soffre i disagi, conseguenze della povertà, e la brama che mostra di esser fatta cristiana me la rendono ammirabile sopra ogni credere, e m'impegnano a fedelmente servirla e ad esserle compagno per tutto il corso della mia vita. La soddisfazione che m'inebria nel vedermele unito di cuore e di volontà, non è da altra cosa turbata fuorché dal dubbio angoscioso in cui sono, se troverò in patria un conveniente ricetto per lei, o se il tempo e la morte abbiano operato tali cambiamenti nelle fortune e nella vita di mio padre e de' miei fratelli che io non incontri appena chi mi conosca, se mai essi più non esistono.

Ho terminata la mia istoria, o signore, la quale se sia riuscita importante e peregrina potranno giudicarlo i vostri sani intelletti, altro non sapendo io dire se non che ne feci il racconto il più brevemente che ho potuto per timore di non esservi a noia; timore che mi ha costretto ad omettere molte altre minute particolarità.”


CAPITOLO XLI

 

SI RACCONTANO ALTRI AVVENIMENTI SUCCEDUTI NELL'OSTERIA,

E MOLTE COSE DEGNE DI ESSERE RIFERITE.

 

A queste parole, già tacendo lo schiavo, don Fernando soggiunse: — La singolarità e la novità dei vostri successi agguagliano il merito della esposizione dell'importante racconto, in cui tutto è peregrino e raro, e pieno di avvenimenti che recano maraviglia, e tengono sospesi gli animi di chi li ascolta; ed è sì grande il piacere da noi provato, che quando bene dovesse coglierci il nuovo giorno mentre dura la narrazione, avremmo nondimeno piacere che la ricominciasse.” Ciò detto, don Fernando e gli altri tutti offerirongli la loro servitù in tutto quello che potessero; e ciò con parole e dichiarazioni sì amorevoli e veritiere che il capitano ne attestò la più sincera e viva gratitudine. Gli offerse don Fernando, qualora gli fosse piaciuto di accompagnarsi a lui, che avrebbe impegnato il marchese suo fratello ad essere il padrino al battesimo di Zoraida, ed oltracciò che si toglieva egli a proprio carico di rimandarlo al proprio paese colla decenza dovuta alla sua persona. Tutto fu dallo schiavo aggradito, senza però accettare alcuna di tante liberali offerte.

Sopraggiunse la notte, ed allorché si fece oscura arrivò all'osteria un cocchio unitamente ad alcuni uomini a cavallo. Chiesero alloggio, ma rispose l'ostessa che non eravi nell'osteria un palmo solo di luogo disoccupato. — Comunque sia, disse uno di quelli che stavano a cavallo, e ch'era già entrato, debb'esservi alloggio pel signor giudice ch'è qui con noi.” Si turbò l'ostessa a tal nome, e disse: — Signore, dovete sapere che non ho letti: se ne porta seco qualcuno sua signoria, il signor giudice (che sarà facil cosa che l'abbia) entri alla buon'ora, che per lo comodo di sua signoria cederemo mio marito ed io la nostra camera. — Sia pur così” rispose lo scudiere. In questo mentre era già uscito del cocchio un uomo, che dall'abito che portava lasciò conoscere l'ufficio e la carica che sosteneva; perché la sua lunga zimarra con maniche gonfie indicava essere egli un giudice, come il suo servitore avea detto. Conduceva per mano una giovane che pareva dell'età intorno di sedici anni, vestita da viaggio, e sì galante, sì vigorosa, sì leggiadra che fece ammirarsi da tutti. Se non si fossero trovate colà Dorotea, Lucinda e Zoraida, sarebbesi detto che difficilmente poteva vedersi bellezza eguale a quella di questa nuova straniera.

Trovossi presente don Chisciotte all'entrare del giovane, e della giovane e non li vide appena che disse: “Può la signoria vostra avanzarsi con sicurezza e passeggiare a sua voglia per questo castello, perché quantunque angusto e male in ordine, non sarà mai che siavi ristrettezza o disagioso sito nel mondo che non faccia luogo alle armi e alle lettere; e molto maggiormente se le armi e le lettere sieno guidate dalla bellezza, come ora lo sono per mezzo della signoria vostra in questa vezzosa donzella, cui debbono non pure aprirsi e spalancarsi i castelli, ma ritirarsi le rupi e dividersi ed abbassarsi le montagne per farle degna accoglienza. Entri, io ripeto, la signoria vostra in questo paradiso, che qui troverà stelle e soli che accompagneranno quel cielo che la signoria vostra seco conduce: troverà quivi l'arme al loro apice di perfezione, e la bellezza negli estremi del vero merito.”

Restò trasognato il giudice al ragionamento di don Chisciotte, e si mise ad esaminarlo di proposito, maravigliandosi non meno delle sue parole che della sua figura. Senza aprir bocca, tornò ad esaminarlo di nuovo, quando gli comparvero innanzi Lucinda, Dorotea e Zoraida, tratte colà dall'avere sentito dall'ostessa l'arrivo degli ospiti e della leggiadra donzella che avevano curiosità di vedere e di accogliere. Don Fernando, Cardenio e il curato fecero a essa giovane un'accoglienza ancor più compita e cortese. Il signor giudice entrò confuso sì per quello che vedeva, come per quello che sentiva dire: ed intanto le dive dell'osteria davano la benvenuta alla vezzosa ragazza. In fine conobbe il giudice molto bene che distinte e nobili dovevan essere le persone che là si trovavano; ma la disposizione, la faccia e gli arnesi di don Chisciotte lo avrebbero fatto dare in pazzia. Dopo di avere egli ricambiate le comuni e cortesi offerte da esso lui praticate, e fatto esame degli agi che offerire potesse quell'albergo, si decise a ciò che già prima era stato disposto, cioè a lasciare che le donne tutte si raccogliessero nel camerone, e che gli uomini se ne stessero al difuori, come in atto di far loro la guardia. Fu molto pago il giudice, che sua figliuola (ch'era la donzella) dimorasse con quelle signore, al che condiscese essa pur volentieri; e valendosi dell'angusto letto dell'oste, e della metà di quello che seco recava il giudice, si accomodarono tutti in quella notte meglio che avessero immaginato.

Lo schiavo, che nell'osservare il giudice si sentì battere fortemente il cuore, presentendo che fosse quegli il fratello suo, domandò ad uno dei servi che lo accompagnavano, come si chiamasse e di qual paese foss'egli. Il servitore rispose che chiamavasi dottore Giovanni Perez di Viedma, che avea sentito dire essere una terra delle montagne di Leone. Col fondamento di questa informazione, e di ciò che veduto aveva, terminò lo schiavo di persuadersi che quegli fosse quel suo fratello che per consiglio del padre doveva avere battuta la strada delle lettere. Baldanzoso e contento chiamò a parte don Fernando, Cardenio e il curato, e raccontò loro il fatto, assicurandoli che quel giudice doveva esser il fratel suo. Il servo avendogli anche detto che passava giudice alle Indie nel tribunale del Messico, e seppe inoltre che quella ragazza era sua figlia, nel cui parto era morta la madre, ch'egli era ricco per essergli rimasta la dote della moglie per la sopravvivenza della figliuola. Chiese tosto consiglio sulla maniera di aversegli a discoprire a fine di assicurarsi prima se, fattosi conoscere, fosse per essere rifiutato come povero, od accolto con buon viso come fratello. “Lasciatene il pensiero a me, disse il curato, che non mi cade neppur in pensiero che non dobbiate, signor capitano, essere il bene accolto; tanto più che il merito e la prudenza nel fratello vostro tralucono col non averci qua dato alcun segno di tracotanza o d'ingratitudine, o di non saper valutare come ben si conviene gli scherzi della fortuna. — Con tutto ciò, soggiunse il capitano, non vorrei darmegli a conoscere così all'improvviso, ma bene a rilento. — V'ho già detto, rispose il curato, ch'io lo disporrò in modo che ne resteremo soddisfatti.

Era frattanto la cena in ordine, e tutti si assisero a tavola, ad eccezione dello schiavo e delle vezzose donne che cenarono nella loro camera. Il curato rivoltosi al giudice, si mise a dirgli: — Ebbi, o signor giudice, a conoscere un tale che portava lo stesso nome di vossignoria a Costantinopoli, dove trovavasi schiavo da alcuni anni addietro, ed era uno dei più valorosi soldati e capitani che vantasse la fanteria spagnuola; ma in pari al merito ed al valore egli aveva la sfortuna.

— E come, signor mio, domandò il giudice, come chiamavasi egli?

— Ruy Perez di Viedma, rispose il curato; ed era nativo di un paese delle montagne di Leone. Mi raccontò egli quanto avvenne col padre e coi suoi fratelli, che in verità se non lo avessi conosciuto per uomo veritiero, avrei tenuta la sua narrazione nel numero di quelle che si fanno dalle vecchie al fuoco nella stagione d'inverno. Ci fece credere che suo padre avendo tre figli avea divisa fra loro la sua facoltà accompagnandola con consigli migliori di quelli di Catone, e vi so dire che quello che scelse il partito dell'armi si portò valorosamente cotanto, che senz'altro mezzo, fuorché quello del proprio merito, giunse in pochi anni al grado di capitano di fanteria, e doveva esser presto maestro di campo. Ma là dove aveva tutta la ragione di giudicar favorevole la fortuna, quivi gli si mostrò appunto nemica; poiché perdette la libertà nella giornata fortunatissima in cui venne da tanti ricuperata, e ciò fu nella battaglia di Lepanto, come io la perdei alla Goletta. Dopo differenti successi ci trovammo compagni in Costantinopoli; e di là passò egli in Algeri dove mi è noto che gli accadde uno dei più strani casi che sieno avvenuti nel mondo.”

Qui proseguì il curato la istoria, e raccontò brevemente al giudice quello che con Zoraida era accaduto al fratello di lui. Teneva il giudice gli orecchi tesi, e prestava tanta attenzione, quanta non ne aveva forse mai dimostrata nell'esercizio della sua carica. Il curato dipinse al vivo quel punto in cui furono dai Francesi spogliati i cristiani, che trovavansi nella barca, e la povertà a cui erano ridotti la vezzosa Mora ed il suo camerata, aggiungendo che non sapeva quale ne fosse poi stato il destino, cioè se fossero giunti in Ispagna, o se i Francesi li avessero condotti in Francia.

Quanto si narrava dal curato era tutto inteso dal capitano, che stava poco da loro discosto, e notava i movimenti tutti di suo fratello; il quale vedendo già che il curato era giunto al termine del suo racconto, dopo un sospiro esclamò:

— Ah signore, voi non sapete di quale importanza sono per me le cose che raccontaste; esse mi costringono a spargere quelle lagrime che contro ogni mia voglia mi vedete cadere dagli occhi! Quel capitano sì valoroso da voi menzionato debb'essere stato mio fratello maggiore, il quale come più gagliardo, e di pensieri più elevati di me e di un altro mio fratello minore, scelse l'onorato e degno esercizio delle armi, che fu una delle due strade proposteci da nostro padre, come appunto vi disse il vostro camerata, nella verace sua storia. Io ho seguitato il cammino delle lettere per mezzo delle quali, col favore del Cielo, e mercé la mia diligenza, sono salito al grado in cui mi vedete. Mio fratello minore trovasi al Perù tanto ricco che ha non pure pagata la parte toccatagli, ma di più ha somministrato a mio padre con che soddisfare la sua liberalità; ed io pure soccorso da lui, mi trovai nel caso di sostenermi con decoro e con fasto, e di farmi onore cogli studi fino a giungere al posto ora da me occupato. Vive tuttavia mio padre, non altro desideroso che di aver contezza del suo figliuolo maggiore, e dimanda a Dio con incessanti preghiere che la morte non arrivi a chiudergli gli occhi se prima non rivegga quelli del suo figliuolo; il quale mi maraviglio, come, essendo fornito di sì buon senno, siasi dimenticato di dare ragguaglio a suo padre delle sue tribolazioni e disavventure; che se fossero state note o ad esso o ad alcuno di noi, non avrebbe avuto bisogno di aspettare il miracolo della canna per ottener il suo riscatto. Quello che ora mi angustia si è la difficoltà di sapere se i pirati francesi gli abbiano ridonata la libertà o lo abbiano ucciso per nascondere il furto da loro commesso: e tutto questo sarà cagione ch'io non prosegua più il mio viaggio con quell'animo lieto con cui l'ho intrapreso, ma immerso nella malinconia e nella tristezza. O mio buon fratello, e chi sa mai dove ti trovi adesso! oh come mi affretterei a raggiungerti e a liberarti dai tuoi affanni ancorché ne avessi a patire io altrettanti! Chi sarà mai che rechi al nostro vecchio genitore la novella che tu sei vivo? Se pur ti trovassi nelle più segrete carceri di Barberia, trarre te ne saprebbero le sue ricchezze, le mie e quelle del fratel nostro. Ah bella e generosa Zoraida, chi potrà compensare degnamente i benefizi da te impartiti a quell'infelice? Perché non poss'io trovarmi presente al rinascere della tua bell'anima e a quelle nozze che avrebbero recato a noi il più alto contento?”

In queste ed in simiglianti espressioni disfogavasi il giudice, pieno di tanta compassione per le nuove ricevute di suo fratello, che tutti gli astanti lo accompagnavano colla commozione inspirata dal suo cordoglio. Vedendo allora il curato proceder ogni cosa a seconda delle loro brame, non volle tenerlo più a lungo in pena, ma levatosi di tavola, entrò dove stava Zoraida, e, presala per mano uscì fuori accompagnato da Lucinda, Dorotea e dalla figlia del giudice. Stava aspettando il capitano per vedere ciò che divisasse di fare il curato, e questi, presolo per l'altra mano, se ne ritornò con ambidue dove trovavasi il giudice unitamente agli altri cavalieri, e disse: “Cessi, mio signor giudice, il vostro pianto, e gioisca il cuor vostro quanto mai sa bramar di gioire, poiché avete dinanzi il vostro buon fratello e la vostra buona cognata. Questi che vi presento è il capitano Viedma, e questa è la bella e virtuosa Mora che tanto lo ha beneficato. I francesi dei quali vi ho detto, lo ridussero alla povertà che vedete e con ciò aprirono libero campo alla generosità del vostro bel cuore.”

Corse il capitano ad abbracciare il fratello, il quale da prima con ambe le mani lo allontanò un poco da sé per meglio raffigurarlo e rassicurarsi, ma quando si riconobbero si strinsero al seno, e si baciarono spargendo pianto sì tenero di allegrezza che la maggior parte dei circostanti ne fu indicibilmente commossa. Credo che sia molto più agevole pensare che scrivere ciò che si dissero ambidue i fratelli, ed i sentimenti che dispiegaronsi a vicenda. Domandaronsi l'un l'altro con ansiosa curiosità ogni passato successo, e fecero vedere nella pienezza sua la leale e perfetta amicizia dei due buoni fratelli ed amici, Zoraida fu lodata e festeggiata dal giudice, il quale offerse loro di entrare a parte di ogni suo avere, e volle che Zoraida ricevesse gli abbracciamenti di sua figliuola. La bella cristiana e la vezzosissima Mora confusero le loro lagrime con quelle di tutti gli astanti.

Stavasene attento a tutto ciò don Chisciotte senza proferir parola, considerando sì straordinari successi, e tutti attribuendoli alle chimere della errante cavalleria. Concertarono finalmente che il capitano e la bella Mora si recassero col fratello a Siviglia per consolar il padre coll'aspetto del suo caro figliuolo, e per affrettare quanto fosse possibile le nozze e il battesimo di Zoraida. Era necessaria tanta sollecitudine, non potendo il giudice intralasciare il suo viaggio; anzi gli bisognava imprenderlo fra un mese colla flotta che facea vela da Siviglia per la nuova Spagna; e gli sarebbe stato di troppo discapito il perdere quella opportunità. In fine ognuno rimase lieto e contento; ed essendo allora oltrepassata la mezzanotte, si risolsero di ritirarsi e di riposare per poche ore. Don Chisciotte si offerse di fare la guardia al castello per impedire che qualche gigante o qualche malvagio incantatore venisse ad assalirli, invidioso del gran tesoro di bellezze che ivi si richiudevano. Queglino che lo conoscevano gli attestarono il loro gradimento, e diedero contezza al giudice dello strano umore di don Chisciotte, di che rise anche egli.

Il solo Sancio Pancia si disperava che tanto s'indugiasse l'andar a letto, e fu egli l'unico che si adagiò meglio di ogni altro coricandosi sopra i fornimenti del suo asino, che tanto gli costarono come si dirà più avanti. Ritiratesi dunque le signore nella loro stanza, ed accomodatisi gli altri alla meglio, don Chisciotte uscì dell'osteria per far sentinella al castello siccome aveva promesso. Avvenne poi che, già essendo vicina a comparire l'alba, giunse all'orecchio delle donne una voce sì intonata e sì armoniosa che le obbligò tutte a prestarle attenzione, e Dorotea specialmente che era svegliata e presso cui stavasene donna Chiara di Viedma, la figlia del giudice. Nessuno potea indovinare chi fosse la persona che cantava sì bene, ed era una voce sola senza accompagnamento di stromento alcuno. Sembrava talora che cantasse nel cortile, altra volta nella stalla. In tale incertezza venne Cardenio alla porta della camera, e disse: — Chi non dorme ascolti che sentirà la voce di un vetturino, il quale canta in modo che fa stupore. — Noi lo udiamo già, o signore, rispose Dorotea.” Con questo, Cardenio partì, e stando Dorotea ad ascoltare intese che la canzone era questa:


CAPITOLO XLII

 

STORIA GRADEVOLE DEL VETTURINO, CON ALTRI AVVENIMENTI SUCCESSI NELL'OSTERIA.

 

“Io son nocchiero d'Amore, e nel profondo suo pelago navigo senza speranza d'afferrar mai nessun porto.

“Vo seguitando una stella che da lontano mi splende più bella e più rilucente di quante ne vide mai Palinuro.

“Ignoro dov'ella mi guidi; e così navigo confuso coll'anima tutta in lei sola, né d'altro pensiero occupata.

“Importuni riguardi e non usata onestà sono le nubi nelle quali s'avvolge allorché mi sforzo di affissarmi in lei.

“O Chiara, brillante stella, il cui raggio mi consuma, il punto in cui tu sarai velata al mio sguardo, sarà il punto della mia morte!”

Quando il cantore arrivò a questo passo, parve a Dorotea che fosse mal fatto che Chiara ancora non godesse di sì bella voce, e perciò scuotendola la chiamò dicendo: — Perdonami, o giovinetta, se ti risveglio, ma desidero che tu pure gusti di una voce tanto soave, quale non avrai forse più udita.” Chiara svegliossi, ma sonnacchiosa ancora non intese ciò che Dorotea le dicesse, e tornando a domandarglielo ella ripeté il già detto. Chiara cominciò allora a starsene attenta; ma non ebbe appena uditi due versi, che la colse un tremito sì grande come se la quartana l'avesse assalita, anzi abbracciando strettamente Dorotea le disse:

— Deh! mia buona ed amorosa signora, perché mai mi avete svegliata? Il maggior bene che la fortuna potesse farmi per ora si era di tenermi chiusi gli occhi e l'udito per non veder né sentire questo sventurato cantore!

— Che dici tu, mia buona fanciulla? replicò Dorotea; bada bene che colui che canta è un condottiero di mule.

— Egli è un signore che ha vassalli, rispose Chiara, ed è sì padrone di questa anima mia, che nessuno potrà discacciarnelo mai, a meno che non si stanchi egli medesimo di restarne al possesso.”

Rimase maravigliata Dorotea di ciò che intese dalla giovane, sembrandole che la qualità delle sue espressioni, e il suo giudizio fossero superiori all'età che dimostrava, e perciò le soggiunse:

— Voi parlate in modo, o buona ragazza, che non vi so intendere; dichiaratevi più apertamente e rispondetemi: Che significa ciò che dite di anima e di vassalli, e di questo musico, la cui voce v'inquieta tanto? Ma no, tacete per ora, ché la brama di conoscere la causa delle vostre inquietudini non mi tolga il piacere che provo nell'ascoltare il cantore, il quale già ricomincia con nuovi versi e con altro tono.

— Fate ciò che vi aggrada, rispose Chiara, ma per nulla sentire ella si turò gli orecchi con ambe le mani, del che non poco si maravigliò Dorotea, la quale stando attenta al cantore udì che proseguiva nel modo seguente:

“O mia dolce speranza, che vincendo insuperabili ostacoli, seguiti la via che tu medesima ti hai trovata ed aperta, non ismarrirti comunque ti trovi presso all'ultimo passo.

“Non sono de' peritosi gli onorati trionfi e la vittoria; né coloro conseguono la felicità i quali non contrastano alla fortuna, e tutti i lor sentimenti commettono all'ozio.

“Ben è ragionevole e giusto che Amore venda a caro prezzo le sue glorie, poiché non ha il mondo miglior tesoro: ed è manifesto che tiensi a vile ciò che a vil pregio s'aquista.

“L'amorosa perseveranza compie talvolta cose impossibili: però sebbene io mi sia proposto un fine malagevolissimo, non dispero per ciò di levarmi dalla terra al cielo!”

Qui ebbe fine il canto, e qui cominciarono nuovi singhiozzi di Chiara; donde si accrebbe in Dorotea il desiderio di saper quello che prima le aveva già domandato. Chiara, temendo allora di essere udita da Lucinda, abbracciò Dorotea strettamente, poi le accostò la bocca all'orecchio per modo che parlare poteva con tutta sicurezza di non essere da altri sentita, e disse:

— Questi che canta signora mia, è figliuolo di un cavaliere del regno di Aragona e signore di due terre, il quale abitava rimpetto alla casa di mio padre quand'era alla corte; e benché mio padre tenesse le finestre di case impannate di tela nell'inverno, e con gelosie nella state, nondimeno questo cavaliere che andava allo studio, mi vide, non saprei bene dirvi se in chiesa od altrove. Egli si è di me invaghito, e me lo fece conoscere dalle finestre di casa sua con tanti indizi e con tante lagrime ch'io gli ebbi a dar fede e ad amarlo, senza sapere io stessa quello che mi volessi. Fra i segnali che mi faceva, uno era quello di avvicinare le sue mani e di unirle, significandomi in tal maniera che desiderava di accasarsi meco: e quantunque mi compiacessi meco di quel suo desiderio, io non sapea però a cui confidarmi, perché sono sola e priva di madre. Senza dir parola ad alcuno io mi limitava a corrispondergli alzando un tal poco l'impannata o le gelosie, e, quando mio padre trovavasi fuori di casa, mi lasciavo appieno vedere, e di questo egli faceva tal festa, che ne pareva fuor di sé stesso. Giunse intanto il tempo della partenza di mio padre, ed egli lo seppe, ma non da me, perché non glielo potei mai dichiarare. Cadde infermo, a quanto intesi, per afflizione di animo, né potei vederlo il giorno della nostra partenza per torre da lui commiato, almeno cogli occhi. Ma dopo due giorni di viaggio, nell'entrare in una osteria lontana di qui una giornata, io lo vidi alla porta vestito da vetturino sì naturalmente, che sarebbe stato impossibile il ravvisarlo se non lo avessi avuto troppo bene scolpito al vivo nel cuore. Lo riconobbi, e ne provai ammirazione e contento; ed egli mi osservò di nascosto del genitore, ai cui sguardi sempre a gran cura s'invola quando passa dinanzi a me nelle strade o nelle osterie dove arriviamo. Io conosco bene la sua nobile condizione, e considerando che l'amore che mi porta, lo induce a viaggiare a piedi e con tanto suo disagio, ciò è cagione ch'io mi muoia di ambascia, e porti sempre gli occhi dove restano le orme dei piedi suoi.

Non so veramente con quale intenzione mi tenga dietro, né come abbia potuto sottrarsi dalla casa del suo genitore che lo ama eccessivamente per non aver alcun altro erede e perch'egli è degnissimo di essere amato, come vossignoria si persuaderà bene, vedendolo. Mi è noto che tutto quello ch'egli canta, è parto del suo proprio ingegno, avendo inteso dire ch'è un bravissimo studente e poeta, e so dirvi di più che ogni volta che io lo veggo o l'odo cantare, tremo tutta, ed un gran batticuore mi conturba, pensando che mio padre potrebbe riconoscerlo ed avvedersi dei nostri amori. Non gli ho detto mai una sola parola; e non pertanto lo amo sì vivamente che sembrami di non poter vivere senza di lui. Eccovi, o signora, quanto io posso dire di questo cantore, la cui voce vi recò sì gran diletto; e basti essa sola per provarvi che non è egli già un vetturino, ma dominatore di cuori, e signore di vassalli siccome vi ho detto.

— Non proseguite, signora Chiara, disse Dorotea dandole allora infiniti baci, non proseguite, vi ripeto, e attendete il nuovo giorno, che spero nel cielo d'incamminare le cose vostre per modo da condurle a quel termine fortunato che loro si addice.

— Ah signora, qual fine si può sperare mai essendo il padre suo tanto ricco e tanto grande, che gli sembrerà ch'io non possa divenire non pure la sposa, ma nemmeno la serva di suo figlio? Io poi non lo vorrei per mio marito senza l'assenso di suo padre, per quanto v'ha di più prezioso al mondo. Altro non bramerei adesso se non che questo giovane ritornasse a casa sua, né mi seguitasse; che forse più non vedendolo nel nostro lungo viaggio, mi si allevierebbe la pena che mi affligge tanto; ma pur troppo anche questo immaginato rimedio mi sarà di poco sollievo! Non so che voglia significare questo mio stato, né come io abbia concepito sì grande amore essendo ambedue noi e così giovani e probabilmente pari di età; poiché per quanto dice mio padre, io compirò i sedici anni al giorno del san Michele venturo.”

Dorotea non seppe contenersi dal ridere sentendo Chiara parlare così all'infantile, e le disse:

— Riposiamoci, signorina, il poco tempo che credo ci avanzi di questa notte, e al nuovo giorno o troveremo qualche rimedio, o io non sono quella che sono.” Con questo tornarono a dormire, e nell'osteria regnava un gran silenzio. Erano svegliate la sola figlia dell'oste e Maritorna, le quali conoscendo l'umore di don Chisciotte, e sapendo che stava fuori dell'osteria armato e a cavallo facendo la sentinella, si misero in capo di fargli una burla, od almeno di passare un poco di tempo piacevolmente a spese della sua pazzia.

La cosa andò in questo modo. In tutta l'osteria non v'era finestra che riescisse sopra la strada, ma un buco solo per cui solevano gettar fuori la paglia. Si posero a questo buco le due semidonzelle, e videro don Chisciotte a cavallo appoggiato al suo lancione, gettando di tanto in tanto sì dogliosi e profondi sospiri che per ognuno di essi pareva dovesse uscirgli l'anima dal petto. Udirono inoltre che con tenera, gentile e amorosa voce così stava fra sé dicendo:

“O mia signora Dulcinea del Toboso, estremo di tutte le bellezze, apice del più fino discernimento, archivio delle più brillanti grazie, deposito dell'onestà, idea insomma di tutto ciò che vi ha di utile, di onesto e di dilettevole al mondo, in che si occuperà di presente la tua signoria? Ti passerebbe forse dinanzi alla mente questo cavaliero tuo schiavo, che tanti perigli per solo desiderio di servirti, e di spontanea sua volontà va ad affrontare? Dammi tu nuove di lei, o pianeta dalle tre facce, che forse con invidia ora la stai mirando nell'atto che passeggia per qualche galleria dei suoi sontuosi palagi, o mentre appoggiato il seno a qualche indorata finestra, se ne sta considerando come possa, salva la sua onestà e grandezza, allegerire le procelle che per sua colpa questo incatenato mio cuore va sopportando, e qual compenso dee dare in premio alle mie pene, e quale tranquillità ai miei travagli, e finalmente quale vita alla mia morte e quale ricompensa alla mia servitù! E tu, o sole, che stai insellando con gran fretta i destrieri tuoi per affrettarli di vedere la mia signora, ti supplico che al primo mirarla tu la saluti da parte mia; ma guardati bene di non darle la pace nel viso quando la rimiri e la inchini, ch'io ne avrei molto maggior gelosia che tu non avesti per quella leggera, ingrata, che tanto ti fece sudare e correre per le pianure di Tessaglia o per le sponde del Peneo; ché ora non mi sovviene chiaramente quale sia stato il corso che tu pure facesti come geloso ed innamorato.”

Era don Chisciotte giunto a questo passo del suo doglioso ragionamento, quando la figlia dell'ostessa comincio a far zi zi ed a dirgli: “Mio signore, se le piace, qua, qua, si accosti.” A questa voce don Chisciotte si volta, e al chiarore della luna, la quale splendeva in tutta la sua pienezza, vede ch'era chiamato da quel buco che a lui parve una finestra colle inferriate d'oro, come sogliono essere quelle dei sontuosi castelli, qual egli s'immaginava che fosse quell'osteria. Gli fece sognare all'istante la pazza fantasia che la vezzosa figliuola della signora del forte castello, vinta una seconda volta dall'amore suo, tornasse ad importunarlo; e con questo pensiero, per non mostrarsi ingrato e scortese, voltò le redini a Ronzinante ed appressatosi al buco, e veduto le due giovani, disse: “Sommamente mi duole, belle signore mie, che posto abbiate le vostre mire amorose sopra un oggetto che non può corrispondervi come sarebbero degne le vostre qualità e la molta gentilezza che vi adorna; ma di ciò incolpar non dovete un infelice cavalier errante che trovasi nella circostanza di non poter obbligar la sua volontà ad altri fuorché a quella che veduta appena dagli occhi suoi acquistò sul cuore di lui un assoluto predominio. Perdonatemi, mie buone signore, ritiratevi nel vostro appartamento, né mi costringete, mostrandovi a me affezionate, a divenire maggiormente scortese. Se da me voi volete cosa che possa appagare i desideri vostri, ma che però non sia amore, vi giuro per l'assente mia nemica di concedervela sull'istante, sebbene mi domandaste una ciocca dei capelli di Medusa ch'erano tanti serpenti ovvero gli stessi raggi del sole rinchiusi in una caraffa.

— Nulla occorre di tutto questo, disse a tal punto Maritorna.

— Ebbene, rispose don Chisciotte, e di che abbisogna adunque, o saggia matrona, la signoria vostra?

— Che mi porgiate una sola delle vostre belle mani, disse Maritorna, per potere isfogare sopra di essa le ardenti brame che a questo buco mi hanno tratta con sì grave pericolo del mio onore, mentre se fossi scoperta dal padre, l'orecchio sarebbe il pezzo più grande che rimanesse intero nel duro mio sacrifizio.

— Vorrei vedere anche questa, rispose don Chisciotte; ma dovrà questo genitore prima pensarci bene se non vorrà condursi al più disgraziato fine che immaginar mai si possa per aver osato di porre le mani sulle delicate membra della sua istessa innamorata figliuola.”

Si persuase dopo di ciò Maritorna che don Chisciotte avrebbe pôrta senza dubbio la chiesta mano, e proponendo tra sé medesima quello che dovesse fare, discese dal buco, nella stalla, prese il capestro del giumento di Sancio Pancia, e con molta lestezza tornò al buco, quando appunto don Chisciotte si era rizzato in piedi sopra la sella di Ronzinante, per arrivare alla inferriata, dov'egli pensava che stesse la ferita donzella. Nel porgere la mano, disse:

— Prendete, o signora mia, questa mano, o a meglio dire, questa destra punitrice di tutt'i malfattori; prendete, replicò, questa mano che non fu tocca da verun'altra donna, e nemmeno da quella che tutto signoreggia il mio corpo. Né già ve la porgo perché la baciate, ma per darvi campo di ammirare la tessitura dei nervi, l'aggregato dei muscoli, la larghezza e la capacità delle vene, ed affinché da questi esami riconosciate quale debb'essere la gagliardia del braccio cui sta attaccata.

— Ora la vedremo, disse Maritorna; e facendo un cappio scorsoio al capestro, glielo mise al polso della mano, poi allontanandosi dal buco legò fortemente la corda al chiavistello dell'uscio del pagliaio.

Don Chisciotte che sentì nella mano la ruvidezza della fune, disse:

— Sembrami che la signoria vostra, bella matrona, più mi grattugi, che non mi accarezzi la mano: non la maltrattate a questo modo, ch'essa non è punto colpevole del male che vi fa la mia volontà, né è giusto che sì piccola parte sostenga tutto il peso del vostro sdegno; avvertite che chi ama non si vendica mai tanto aspramente.”

Ma tutte queste ciarle di don Chisciotte non erano intese da alcuno; poiché quando Maritorna l'ebbe legato, presto si tolse di là colla compagna scoppiando dalle risa, e lasciandolo impastoiato in modo da riescirgli impossibile il potersi sciorre. Stava egli dunque, come si è detto, ritto su Ronzinante, col braccio dentro il buco, e legato il polso della mano al chiavistello dell'uscio, coll'affannoso pensiero che se Ronzinante fosse sguizzato di sotto ai suoi piedi dall'una parte o dall'altra, sarebbe rimasto egli penzolone appiccato pel braccio; e perciò non osava di fare il più piccolo movimento; benché avrebbe dovuto essere persuaso che la naturale flemma, quiete e tranquillità di Ronzinante lo avrebbero lasciato là senza moversi anche per un secolo intero. Ma finalmente trovandosi così legato, ed essendo già partite le dame, cominciò a pensare che tutto accadesse per via d'incantesimo, come la volta passata quando quel malefico moro del vetturale lo bastonò acerbamente in quel castello medesimo. Malediceva pertanto il suo poco discernimento, perché essendogli quel castello riuscito sì mal soggiorno la prima volta, non avrebbe dovuto avventurarsi di entrarvi una seconda. è legge invariabile dell'errante cavalleria, che quando un'avventura qualunque non risponda alla prova, il cavaliere che l'ha tentata considerandola come cosa a lui interdetta, dee lasciarne ad altri l'incarico, e non è tenuto a mettervisi da capo.

Con tutto ciò andava stirando il braccio per vedere se potesse distaccarsi, ma era sì strettamente accappiato che inutile se gli rendeva qualunque sperimento. Vero è bensì che tirava pian piano affinché Ronzinante non si movesse, e quantunque tentasse di sedere o di adagiarsi sulla sella, non poteva far di meno di restarsene in piedi per non istrapparsi la mano. Oh allora sì che avrebbe dato qualunque prezzo per aver quella spada di Amadigi che spezzava ogni incanto! Malediceva la sorte che teneva preso a tale incantagione un cavaliere, da cui il mondo poteva aspettarsi tante nobili imprese: e chiamava a gran voce il suo buon Sancio Pancia, il quale sepolto nel sonno e prosteso sopra la bardella del suo asino non ricordavasi nemmeno della madre che l'aveva partorito. Chiamò in aiuto i savî Ligargeo e Alchiffo, e invocò la sua buona amica Urganda perché lo soccorressero. Finalmente giunse l'istante in cui si trovò sì disperato e rabbioso che mugghiava come un toro, e non isperava neppur col nascere del nuovo giorno di vedere la fine di tanta miseria, che supponeva eterna atteso il suo incantamento. Tanto più ciò teneva per certo in quanto che vedeva Ronzinante non muoversi né punto né poco; e credeva che senza mangiare, bere e dormire, egli ed il suo cavallo avrebbero dovuto restare colà finché cessato non fosse il maligno influsso dell'avversa stella, o finché qualche altro più savio incantatore non giugnesse a disfare la stregoneria.

S'ingannò di molto nelle sue molte fantasie; perché cominciò appena ad apparire il sole che arrivarono all'osteria quattro uomini a cavallo molto ben vestiti portando i loro archibusi sopra gli arcioni. Picchiarono forte alla porta, che stava tuttavia chiusa, e don Chisciotte, il quale immaginavasi di far tuttavia la sentinella, sentendoli, con alta ed arrogante voce disse loro:

— Cavalieri, scudieri, o chiunque voi siate, picchiar non dovete alla porta di questo castello, e dovete pur sapere che a quest'ora quelli che vi si rinchiudono, stanno dormendo e non usano di aprire la fortezza se prima il sole non è tutto alzato; allontanatevi dunque ed attendete che il giorno s'inoltri, che conosceremo allora se sia giusto o no che vi sia aperto.

— Che diamine di fortezza, disse uno di loro, o di castello è mai codesto da obbligarci a queste cerimonie? Se siete l'oste ordinate che ci aprano, che noi siamo passeggieri e non vogliamo se non dare la biada alle nostre cavalcature, e passare avanti perché abbiamo gran fretta.

— Sembra a voi, o cavalieri, disse don Chisciotte, che io abbia ciera da oste?

— Non so di che v'abbiate ciera, rispose un altro; dico bene che vi scappano di bocca spropositi bestiali chiamando castello quest'osteria.

— È un castello, soggiunse don Chisciotte, e dei migliori di questa provincia, e rinserra persone che hanno tenuto scettro in mano e corona in testa.

— Direbbesi meglio al rovescio, disse un passeggiero; lo scettro in testa e in mano la corona; e sarà probabile che qua dentro si trovi qualche compagnia di commedianti, i quali sogliono avere scettri e corone senza fine. In questa piccola e romita osteria io non crederò mai che possano aver albergo persone degne di scettro e di corona.

— Poco v'intendete, disse don Chisciotte, delle cose del mondo, e vedesi bene che ignorate gli avvenimenti proprî della errante cavalleria.”

Cominciavano gli altri ad inquietarsi di quel colloquio con don Chisciotte, e quindi tornarono a picchiare con tanta furia che si svegliò l'oste, e con esso tutti gli altri che stavano dormendo, curiosi di sapere chi battesse con sì poca creanza. Avvenne in questo che saltò il grillo ad uno delle cavalcature dei quattro passeggieri di andar a fiutar Ronzinante, il quale malinconioso e triste colle orecchie basse sosteneva senza muoversi il suo stirato signore; e come quello che in sostanza era di carne, tuttoché sembrasse fatto di legno, non poté a meno di non iscuotersi, né lasciar di fiutare egli pure chi gli faceva carezze. Mossosi alquanto il cavallo, si mossero in conseguenza gli appaiati piedi di don Chisciotte, sotto ai quali mancata essendo la sella avrebbe dovuto precipitar se non fosse stato col braccio legato. Ciò gli causò sì acuto spasimo, che già ne faceva spacciata la mano, e rimase tanto vicino a terra, che già la toccava colle punte dei piedi; ma anche questo era peggio per lui, mentre sentendo che poco gli mancava per poggiarvi fermamente, stiravasi e facea d'ogni sua possa per giugnervi. Pareva uno di coloro i quali posti al tormento della corda, si trovano talvolta calati sì abbasso che accrescono eglino stessi il loro strazio nello stirarsi che fanno, colla fiducia di porre piede sicuro in terra per poco che vadan ancora distendendo la vita.


CAPITOLO XLIII

 

SEGUITANO INAUDITI SUCCESSI NELL'OSTERIA.

 

E tali furono all'ultimo le strida che mandò don Chisciotte, che spalancando la porta dell'osteria uscì l'oste atterrito per vedere chi urlava sì forte; e lo stesso fecero quelli che stavano di fuori. Maritorna, svegliatasi a tanto frastuono, immaginandosi quello che poteva essere, si recò al pagliaio, e sciolse senz'essere veduta da chicchessia il capestro che sosteneva don Chisciotte, per lo che egli stramazzò sull'istante a vista dei passeggieri e dell'oste, i quali appressatisi a lui gli chiesero che cosa avesse e perché gridasse. Egli, senza rispondere parola, si tolse la fune dal polso, e rizzatosi montò presto sopra Ronzinante, imbracciò la targa, intestò il lancione, e pigliando buono spazio del campo, tornò a mezzo galoppo dicendo:

“A qualunque si sia che dirà che io sia stato con giusta causa incatenato (sempreché la mia signora principessa Micomicona mi conceda di farlo) io do una mentita, lo accuso e lo disfido.” Rimasero fuori di sé i nuovi viandanti nell'udire le rodomontate di don Chisciotte; ma l'oste fece in loro cessare la maraviglia narrando chi egli fosse, e dicendo che non doveano farne alcun caso per essere egli fuor di cervello. Chiesero allora se mai fosse giunto a quella osteria un giovane della età di quindici anni all'incirca, in abito di vetturino, e diedero i contrassegni personali, quei medesimi dell'amante di donna Chiara. Rispose l'oste che aveva tali e tanti forastieri che gli era mancato il tempo di abbadare a quello che domandavano: ma avendo uno di loro veduto il cocchio in cui era venuto il giudice, disse:

“Egli deve ritrovarsi qui senz'altro, essendo quello il cocchio a cui si dice che sempre tien dietro; uno di noi si fermi alla porta, ed entrino gli altri a fare diligente ricerca: e sarebbe anche ben fatto che uno girasse attorno all'osteria acciocché non fuggisse scavalcando le muraglie della corte:

— E così si farà, rispose uno di costoro: ed entrando due degli altri, uno rimase alla porta, e l'altro si mise a girare qua e là; e tutto questo era osservato dall'oste, che non sapeva indovinare lo scopo di tante diligenze, quantunque le sospettasse rivolte alla ricerca di quel giovinetto di cui prima gli avevano dato i contrassegni.

Andava di già allontanandosi l'aurora e tanto per tal cagione quanto pel grande strepito fatto da don Chisciotte si erano tutti svegliati e si alzavano, e Dorotea e donna Chiara singolarmente, le quali avevano passato una pessima notte l'una pel batticuore di aver l'amante così da vicino e l'altra per la smania di rivederlo. Don Chisciotte, che si accorse di non essere curato da chicchessia, né che alcuno rispondeva alle sue dimande, sbuffava di collera e di dispetto: e se avesse trovato che le leggi della sua cavalleria dessero licenza ad un cavaliere errante di cimentarsi in qualche impresa, mentre avea dato la sua parola e la fede di non imprenderne alcuna se non dopo avere adempiuto alla precedente promessa, avrebbe assalito tutti, e si sarebbe fatto dar ragione a mal grado di loro. Sembrandogli che ciò non gli fosse lecito, né ch'egli potesse accingersi a nuovi cimenti finché non avesse rimessa la regina Micomicona sul suo seggio, gli fu forza aspettar di vedere dove mirassero le diligenze usate dai passeggieri, uno dei quali trovò il giovane ricercato che dormiva accanto di un vetturale, ben lontano dal pensare ch'altri cercasse di lui, e meno ancora di poter essere discoperto. Quell'uomo lo prese per un braccio, e si fece a dirgli: “In verità, signor don Luigi, che si addice molto bene ad un pari vostro l'abito che vestite; e questo letto su cui dormite è veramente appropriato ai molti agi nei quali foste allevato!” Si fregò gli occhi il giovane, tuttavia sonnacchioso, e avendo fisamente guardato l'uomo che così lo teneva, e conosciuto per un servo di suo padre, gliene venne tale paura da non aver cuore, o non potere in effetto dire una sola parola per buon tratto di tempo; ma il servo proseguì dicendo:

— Altro qui non occorre di fare, o signor don Luigi, se non che vi contentiate di ritornarvene a casa vostra, quando non vi piaccia che passi all'altro mondo il vostro genitore; perché ad altro fine certamente nol può condurre l'affanno in cui l'ha gettato la vostra fuga.

— Ma, disse don Luigi come seppe mio padre che io mi era diretto a questa parte e sotto questo abito?

— Uno studente, rispose il servitore, a cui confidaste le vostre risoluzioni, gli ha svelata ogni cosa, mosso dalla compassione che gli fece vostro padre quando si accorse di avervi perduto. Egli spedì quattro dei suoi servitori in traccia vostra, e qui ci troviamo tutti disposti a servirvi, assai più contenti di quello che immaginar mai si possa per le nuove felici che arrecheremo al nostro padrone col fargli rivedere un oggetto sì caro al suo cuore.

— In quanto a ciò, soggiunse don Luigi, non accadrà se non quello che io sarò per risolvere, o che verrà ordinato dal Cielo.

— Qual altra volontà, replicò il servitore, potete voi avere mai, o come può disporre il Cielo altrimenti se non se che ve ne ritorniate, non essendo possibile che diversamente si faccia?”

Furono intesi tutti questi discorsi dal vetturino il quale stava accanto di don Luigi; e rizzandosi, corse a dar conto dell'avvenuto a don Fernando, a Cardenio e agli altri tutti ch'eransi già alzati. Narrò loro siccome quell'uomo dava del don a quel ragazzo; quale era il dialogo tra loro seguìto, e come il servitore volea ricondurlo a suo padre, al che il giovane con quella bella voce di cui il Cielo lo aveva dotato, cercava di contraddire. Nacque in tutti un vivo desiderio di sapere più accertatamente chi egli si fosse, e di mettersi alla sua difesa quando altri volesse usargli violenza; e a tal effetto si recarono dove stava egli disputando coi servi.

In questo uscì Dorotea dalla sua stanza e dietro a lei donna Chiara, tutta turbata. Dorotea, appressatasi a Cardenio, gli raccontò brevemente la storia del cantore e di donna Chiara, ed egli la informò della venuta dei servitori di suo padre. Non parlò sì piano che non lo udisse donna Chiara, la quale rimase sì attonita, che se Dorotea non fosse stata in tempo per sostenerla, cadeva senza dubbio svenuta. Cardenio disse a Dorotea che ritornasse con Chiara nella stanza, mentre egli avrebbe procurato di rimediare ad ogni cosa; ed esse lo obbedirono.

Già tutti quei quattro ch'erano venuti in traccia di don Luigi, entrati nell'osteria, lo circondavano e persuadevano che senza indugiare un istante solo tornasse a consolare suo padre.

Rispondeva egli che non potea in nessun modo partire se prima non avesse dato fine ad un interesse nel quale erano impiegati l'anima, l'onore e la vita sua. Non per questo lasciavano di sollecitare i servi, protestando che non sarebbero ritornati senza di lui, e che, volesse o non volesse, lo avrebbe costretto a seguirli.

— Non farete altrimenti, replicò don Luigi, a meno che non siate disposti a portarmene senza vita; che quest'è ad ogni modo quello che deve accadere, qualunque sia il mezzo che si usi da voi per farmi partire.”

Erano frattanto accorsi a tale contrasto tutti quelli che si trovavano nell'osteria, e specialmente Cardenio, don Fernando e i loro compagni, il giudice, il curato, il barbiere e don Chisciotte, cui parve non essere più necessario di far la guardia al castello. Cardenio al quale era nota la sventura del giovinetto, domandò a quelli che lo volevano ricondurre a casa, perché volessero costringerlo a ciò contra il proprio suo sentimento.

— Ci obbliga a questo, rispose uno dei quattro, il dare la vita a suo padre che arrisica di perderla per la lontananza di questo cavaliere.”

Don Luigi allora disse: — Non è luogo questo da rendere palesi le cose mie; sono uomo libero; tornerò se così mi piaccia, ma in caso diverso nessuno di voi mi può costringere colla forza.

— La forza vi verrà fatta dalla ragione, uno soggiunse, e quando essa non basti con vossignoria, basterà a convincere noi per servire all'officio che qua ci ha tratti, e che siamo in obbligo di adempiere.

— Prendiamo quest'affare dalla sua radice, soggiunse a tal punto il giudice.” Il servo che lo riconobbe, perché abitava vicino a casa sua, rispose:

— Non conosce vossignoria, signor giudice, che questo cavaliere è figlio del suo vicino, e che si tolse dalla casa paterna in arnese affatto disdicevole alla sua condizione? l'osservi bene, e lo raffigurerà senza dubbio.”

Si fece il giudice a guardarlo con attenzione, e riconosciutolo, lo abbracciò, dicendogli:

— Che fanciullaggini sono queste, signor don Luigi, e quali cause vi hanno indotto a questa risoluzione ed a vestire abito tanto sconveniente alla nobile vostra famiglia?”

Spuntarono le lagrime agli occhi del giovinetto, e non poté rispondere parola al giudice, il quale intimò ai quattro servi di tranquillizzarsi, perché ogni cosa terminerebbe in bene: poi prendendo per mano don Luigi, seco lo trasse in disparte, chiedendogli che cosa volesse significare quel suo travestimento.

Mentre gli andava facendo questa ed altre interrogazioni si udirono alte grida alla porta dell'osteria; e nascevano dalla fuga tentata da due degli ospiti che vi avevano alloggiato alla notte, i quali mentre tutti erano intenti a voler sapere che cosa si volessero quei quattro, tentavano di andarsene senza pagare. L'oste però, che badava assai più ai proprî che ai fatti degli altri, fermatili alla porta aveva chiesto loro il pagamento del debito, accompagnando la dimanda con sì offensive espressioni che quei due gli rispondevano colle pugna; e tanto lo maltrattavano che il povero uomo era costretto a domandare aiuto gridando. L'ostessa e la sua figliuola non videro uomo più a proposito per quella circostanza di don Chisciotte, cui la giovine si mise a dire:

— Soccorra, signor cavaliere, col valore che Dio le ha concesso, il povero mio padre; che due tristi uomini lo bastonano come un asino.”

Qui don Chisciotte rispose posatamente e con molta flemma:

— Vaga donzella, non posso aderire alle vostre suppliche, essendomi vietato di frammettermi in altre avventure fintanto che io non dia compimento a quella per cui ho impegnata la mia parola. Vi dirò per altro come si potrebbe fare perché io mi prestassi a servirvi. Correte, e dite a vostro padre che sostenga la battaglia quanto più può e alla meglio, e che non si dia per vinto finché io avrò chiesto alla principessa Micomicona la licenza di soccorrerlo; e s'ella me lo concede, tenete per certo che io lo trarrò salvo dal suo pericolo.

— Oh meschina di me: disse allora Maritorna, che si trovava presente: prima che ottenga vossignoria questa licenza il mio padrone sarà andato già all'altro mondo.

— Fate ch'io impetri questa licenza, rispose don Chisciotte, e poco importerà ch'egli sia a questo o all'altro mondo, giacché io saprei cavarlo anche dal mondo di là, o per lo meno lo vendicherò per tal modo di chi ve lo avesse mandato, che voi, signora, ne otterrete più che mezzana soddisfazione.”

Nel dire questo gli apparì Dorotea, ed egli volò alle sue ginocchia, chiedendo con cavalleresche ed errantesche parole che piacesse alla grandezza sua di dargli licenza di accorrere in aiuto del castellano di quella fortezza, il quale trovavasi in un terribile frangente. La principessa gliela accordò volentieri, ed egli imbracciando ben tosto la targa e mettendo mano alla spada corse alla porta del castello, dove gli ospiti continuavano a mazzicare furiosamente l'oste. Vi giunse appena, che sbigottì e ristette, ed in vano Maritorna e l'ostessa lo rimproverarono di questa sua indolenza, e lo istigavano a soccorrere l'una il padrone e l'altra il marito. — Mi fermo, disse don Chisciotte, perché non mi è lecito di metter mano alla spada contro gente abbietta; ma chiamate qui il mio scudiere Sancio Pancia, che a lui può convenire questa difesa e vendetta.”

Ciò seguiva alla porta dell'osteria dove le pugna ed i sorgozzoni fioccavano sempre a danno del povero oste e con rabbia di Maritorna, dell'ostessa e di sua figlia, che disperavasi di vedere la codardia di don Chisciotte, e il pessimo stato di quel povero uomo. Ma qui lasciamolo, che non mancherà chi lo soccorra; e se ciò non fosse, soffra e taccia chi si crede da più di quello che comportano le sue forze. Torniamo adesso a cinquanta passi addietro a conoscere ciò che don Luigi rispose al giudice, che in disparte come dicemmo, chiedevagli ragione della sua venuta a piedi e in abito sì sconveniente. Il giovanetto dunque, prendendolo strettamente per mano, quasi per provargli che da qualche gran doglia era punto nel cuore, e spargendo in copia le lagrime, così si espresse:

— Signor mio, altro non vi so dire se non che dal momento in cui il Cielo dispose, e la vostra vicinanza permise, ch'io vedessi donna Chiara vostra figliuola e signora di questo mio cuore, da quel momento cominciai a farla dominatrice della mia volontà: e se la vostra nol vieta, vero signore e padre mio, in questo giorno medesimo ella debbe essere mia sposa. Per lei ho abbandonato la casa paterna; per lei ho vestito quest'abito a fine di seguitarla dovunque ne vada, come la saetta mira allo scopo e il marinaro alla tramontana; e tutto ciò senza palesarle il mio amore e soltanto lasciandole da lontano vedere le mie lagrime. La ricchezza e la nobiltà dei miei genitori vi è nota, e vi è noto ch'io sono l'unico loro erede. Se vi sembra che questi sieno titoli bastevoli per determinarvi a rendermi felice, ricevetemi tosto in luogo di figlio: e se mai non piacesse a mio padre per qualche suo disegno il bene che ho saputo procurarmi, considerate che il tempo è più efficace a produrre cambiamenti nelle cose, che la volontà degli uomini.”

Tacque, ciò detto, l'innamorato giovane; e il giudice restò sospeso, confuso e trasognato in udirlo, sì pel modo e pel buon giudizio con cui gli aperse il suo cuore, com'anche per trovarsi in tali circostanze da non sapere a qual partito appigliarsi in sì repentino ed inatteso evento. Null'altro dunque gli rispose, se non che si desse pace e procurasse di trattenere i servi per quella giornata a fine di guadagnar tempo, e intanto considerare e conoscere quale fosse per loro il più savio consiglio. Gli baciò don Luigi affettuosamente le mani che bagnò del suo pianto, il che intenerire poteva un cuore di marmo non che quello del giudice; il quale come uomo assennato, scorgeva pienamente l'utilità di quel matrimonio per sua figliuola qualora avesse potuto concorrervi l'assenso del padre: ma s'immaginava pur troppo che questi avrebbe voluto un collocamento di molto maggiore importanza.

In questo mentre eransi gli ospiti già rappacificati coll'oste, e gli aveano pagato il suo conto, a ciò indotti più che dalle minacce, dalle persuasive e buone ragioni di don Chisciotte. I servi di don Luigi attendevano il fine della sua conferenza col giudice e le risoluzioni che ne piglierebbe. Il demonio frattanto, che mai non dorme, fece ch'entrasse in questo punto nell'osteria il barbiere, a cui don Chisciotte avea tolto l'elmo di Mambrino, e Sancio Pancia rubati i fornimenti dell'asino per cambiarli con quelli del suo. Guidando costui in istalla il suo giumento vide Sancio che stava assettando non so che cosa della bardella, e avendolo tosto riconosciuto fu tanto ardito di affrontarlo con queste parole: “Ah ladrone infame! t'ho pur colto una volta: rendimi il mio bacino e la mia bardella e tutti i fornimenti che m'hai rubato.” Sancio assalito così all'impensata, e sì bruttamente vituperato, afferrò la bardella con una mano, e diede coll'altra al barbiere uno sgrugnone sì forte che uscire gli fece il sangue dalle gengive. Non per questo lasciò il barbiere la bardella che avea già afferrata, e alzando la voce per modo che tutti coloro ch'erano nell'osteria lo intesero, cominciò chiaramente ad esclamare: “Al re! alla giustizia! io son qua per farmi rendere il mio, e questo assassino da strada mi vuol morto.”

— Menti per quanta gola tu hai, rispose Sancio, io non sono un assassino, e questo è bottino che a me di diritto mi appartiene per averlo guadagnato in guerra giusta il mio signor don Chisciotte.” Stava questi presente alla zuffa, e godeva quanto mai si può dire vedendo come ben si portava ad offesa e a difesa il suo scudiere: e parendogli che si mostrasse uomo di vaglia, proponeva in cuor suo di armarlo cavaliere alla prima occasione che se gli presentasse, non senza gran guadagno di tutto l'ordine della errante cavalleria. Fra le altre cose dette dal barbiere nel fervor della zuffa, ecco le più osservabili:

— Signori, questa bardella è mia com'è vero che dovrò morire: la conosco come se l'avessi partorita io medesimo: qua nella stalla sta il mio asino che non mi lascerà mentire: se non credete a me, o signori, provategliela, e se non gli sta dipinta voglio essere un infame: e di più vi dico, che in quel malaugurato giorno in cui mi fu tolta la bardella, mi fu rubato ancora un bacino d'ottone nuovo, di cui io non mi era ancora servito, e che valeva più di uno scudo a gittarlo via.” Allora non poté don Chisciotte fare a meno di non rispondere, e mettendosi in mezzo ai due, dividendoli e depositando la bardella sul terreno alla vista di tutti perché apparisse la verità chiaramente, soggiunse:

— Affinché veggano le signorie vostre coi propri occhi l'errore in cui versa questo dabben uomo, chiamando bacino quello ch'è, e sarà sempre, l'elmo di Mambrino toltogli in guerra giusta, e passato in poter mio con lecito e legittimo possesso, io voglio che qua sia recato. Non mi intrammetto in ciò che alla bardella si appartiene, né su questo punto altro so dire se non che il mio scudiere Sancio mi domandò licenza di levare i fornimenti del cavallo di questo vinto codardo per adornare con essi il suo proprio; io glieli ho lasciati ed egli li prese: e se ora di fornimenti si sono trasformati in bardella, questa sarà una delle mutazioni tanto frequenti nelle cose della cavalleria. Ora tu, Sancio figliuolo, corri e porta qua l'elmo che quello scioccone chiama bacino.

— Deh, padron mio, rispose Sancio, cerchiamo una prova a nostro favore diversa da questa che mette in campo la signoria vostra, giacché tanto il bacino è l'elmo di Mambrino, come è sella da cavaliere la costui bardella.

— Eseguisci il mio comando, replicò don Chisciotte, che quanto avviene in questo castello non ha poi tutto a procedere per via d'incantamenti.”

Andò Sancio a prendere il bacino, e lo recò al padrone, il quale tosto come lo vide, lo prese in mano e disse:

— Considerino le signorie vostre con qual fronte questo scioccone può dire che bacino sia questo, e non l'elmo da me annunziatovi. Giuro per l'ordine della cavalleria che professo che questo è l'elmo stesso che io ho conquistato, né vi ho fatto finora la minima mutazione.

— Di ciò non v'ha dubbio, disse Sancio, perché dal punto in cui il mio padrone lo prese non lo usò che in una sola battaglia, e fu quando ridonò la libertà ai malfattori incatenati. E certo se non fosse stato per questo bacinelmo egli non l'avrebbe allora passata bene; tali e tante furono le pietre che gli piovvero addosso in quel combattimento.”


CAPITOLO XLIV

 

SCIOGLIESI IL DUBBIO SULL'ELMO DI MAMBRINO E SULLA BARDELLA; E SI NARRA LA SINGOLARE AVVENTURA DEGLI SGHERRI DI CAMPAGNA E DEL MIRABILE CORAGGIO DEL NOSTRO DON CHISCIOTTE.

 

“Qual è dunque, disse il barbiere, l'opinione delle signorie vostre intorno questi galantuomini, che vanno perfidiando che questo non sia un bacino, ma un elmo? — A chi sostenesse il contrario, disse don Chisciotte, direi a tutte prove che come cavaliere mente, e come scudiere mille volte mente per la gola e arcimente.”

— Allora il nostro barbiere maestro Nicola, conoscendo a fondo l'umore di don Chisciotte, volle maggiormente incitarlo, e rendere più clamorosa la burla, perché tutti ne facessero gran risate, e perciò voltosi all'altro barbiere, gli disse:

— Signor barbiere, o chiunque voi siate, siavi noto che io esercito la vostra medesima professione; che corrono da oltre venti anni da che vi sono matricolato, e che conosco uno per uno gl'istrumenti tutti della barbieria. Oltre a ciò fui soldato nella mia prima età, e so molto bene che cosa sia elmo, morione, celata con buffa ed ogni altro arnese della milizia, e intendo di sapere dar conto dei diversi generi di armature e di armi, e dico (salvo però un miglior parere, e rimettendomi sempre al più sano giudizio) che questo mobile ora tenuto da cotesto buon signore, non solo non è bacino da barbiere, ma tanto è lontano dall'esserlo, quanto il bianco dal nero, e dalla verità la menzogna: sostengo però che quantunque questo sia un elmo, non è un elmo intiero. — E così è per lo appunto, disse don Chisciotte, perché gli manca la metà, ch'è il mento. — E così è,” soggiunse il curato indovinando già le intenzioni del suo amico barbiere.

Lo stesso affermarono Cardenio, don Ferdinando, i compagni suoi ed anche il giudice, se non avesse avuto l'animo vôlto a più gravi pensieri per l'affare di don Luigi, avrebbe egli pure aiutato a dar colore alla beffa; ma trovavasi sì concentrato in sé stesso che poco o nulla in fatto vi prendea parte.

— Dio m'aiuti! disse a tal punto il corbellato barbiere, com'è dunque possibile che genti fornite di onore sostengano che questo non sia un bacino, ma un elmo? questa è cosa che farebbe impazzire un'intera università comunque fosse sapiente! Or bene, se questo bacino è un elmo, per la stessa ragione anche questa bardella sarà una sella da cavallo, come ha detto questo signore.

— A me sembra bardella, disse don Chisciotte, ma ho già dichiarato che non voglio pronunziare giudizio sopra di ciò.

— Eppure, soggiunse don Fernando, non v'ha che il signor don Chisciotte che possa decidere, e ognuno di noi si sottomette a lui in affari di cavalleria.

— Io vi giuro, o signori, disse don Chisciotte, che tali e tante e sì strane cose mi sono avvenute in questo castello nelle due volte che vi ho alloggiato, che non mi permetto di rispondere risolutamente sopra quanto qui avviene, persuaso che qui sempre abbia luogo qualche incantesimo. La prima volta mi ha dato molto che fare un Moro incantato che vi soggiornava, e la passò assai male anche Sancio mio fedele seguace; in questa notte medesima poi rimasi appiccato quasi due ore per questo braccio senza saper come o perché m'incogliesse tanta sventura; e però sarebbe, a parer mio, troppo rischioso ogni giudizio pronunziato in mezzo a sì grande confusione di cose. Ho già fatto risposta intorno al dubbio se questo sia un bacino od un elmo, ma non oso definire se quest'altro sia bardella o fornimento da cavallo, e rimetto la decisione al saggio parere delle signorie vostre, ché forse per non esser ascritte alla cavalleria errante, com'io lo sono, non avranno forza contro le loro persone gl'incantamenti che predominano nel castello, e potranno giudicare delle cose come sono realmente, e non già come a me appariscono.”

— Non si può negare, replicò don Fernando, che il signor don Chisciotte non abbia parlato con molta saviezza rimettendo in noi la decisione di questo caso; e affinché ciò proceda colla dovuta regolarità io raccoglierò segretamente il voto di tutti questi signori, e darò poi chiara e piena notizia di quanto giudicheranno.”

Tutto ciò dava da ridere a quelli che conoscevano l'umore di don Chisciotte; ma chi non n'era informato sembrava che tutto fosse una vera pazzia, ed erano specialmente di questo avviso don Luigi e i quattro suoi servitori, non meno che gli altri tre passeggieri giunti per caso a quell'osteria, e che avevano ciera da sgherri di campagna, come erano in fatto. Quegli che più d'ogni altro ne trasecolava, era il nuovo barbiere, il quale vedeva d'innanzi ai suoi occhi trasformato il suo bacino nell'elmo di Mambrino, e pensava che in ricchi fornimenti da cavallo avesse poi a cambiarsi anche la sua bardella. Tutti facevano grande schiamazzo nel vedere in qual modo si andavano da don Fernando raccogliendo le voci dall'uno e dall'altro parlando loro all'orecchio affinché dichiarassero se fosse bardella o fornimento da cavallo quella gioia che aveva occasionata una sì tumultuosa discussione. Raccolti da lui i voti di coloro che conoscevano don Chisciotte, disse ad alta voce:

— Il fatto sta, mio galantuomo, che io sono annoiato di raccogliere tanti pareri mentre ad ogni dimanda ch'io faccio mi si risponde essere uno sproposito l'asserire che questa sia bardella di giumento piuttosto che fornimento da cavallo, e di cavallo di razza; e però dovete avere pazienza, perché a dispetto di voi, e del vostro asino, questo è fornimento da cavallo e non è bardella, e voi per parte vostra adduceste prove assai deboli a sostegno della vostra opinione.

— Dio non mi faccia salvo, disse il barbiere, se tutte le signorie vostre riveritissime non s'ingannano, e così comparisca l'anima mia al tribunale di Dio, come questa è bardella e non fornimento da cavallo; ma così vanno le leggi; come... e non dico di più; né sono già briaco, ma digiuno ancora, se pur non m'avviene pei miei peccati.”

Non movevano meno alle risa l'insistenza del barbiere che gli spropositi di don Chisciotte, il quale disse a tal punto:

— Altro non resta da fare se non che ognuno si prenda ciò che è suo, e a chi Dio l'ha data san Pietro la benedica.” Uno de' quattro servitori di don Luigi, soggiunse: — A meno che questa non sia burla già ordita, io non mi darò a credere mai che uomini di sì retto discernimento, come sembrano essere quelli che qui si trovano, abbiano cuore di sostenere che questo non è bacino; e quella non è bardella; ma poiché veggo che si ostinano in affermarlo, mi persuado che sotto ci covi qualche arcano, perché al corpo di... (e fu quasi per bestemmiare) non vi sarà al mondo chi mi dia ad intendere che questo non sia bacino da barbiere e questa non sia bardella da asino. — Potrebbe anche darsi, disse il curato, che fosse da asina. — Tanto fa, il servitore soggiunse, che in questo non istà l'essenza del fatto, ma sibbene che sia o no bardella, come le signorie vostre sostengono.”

Udendo questo uno degli sgherri di campagna, ch'era allora entrato ed avea inteso il tenore della controversia, pieno di rabbia e di stizza, perché venuta eragli la noia, si fece a dire: — Tanto è questa bardella, quanto mio padre; e chi dice o ha detto diversamente dev'essere briaco. — Menti come villano infame, rispose don Chisciotte, ed alzando il lancione, che non si lasciava mai uscire di mano, gli misurò un colpo sì giusto sopra la testa, che se lo sgherro non se ne fosse schermito, sarebbe morto disteso. Il lancione dando in terra si ruppe in pezzi e gli altri sgherri che videro maltrattare il loro compagno, levaron la voce domandando che tutti dessero mano alla Santa Hermandada. L'oste, ch'era pure della consorteria, si affrettò a dar di piglio all'archibuso e alla spada, e si pose dal lato dei suoi compagni; i servitori di don Luigi tolsero in mezzo il loro padrone perché in tanto scompiglio non iscappasse; il barbiere vedendo che la casa era sossopra, afferrò la sua bardella, e Sancio fece il medesimo; don Chisciotte impugnata la spada, attaccò allora la sbirraglia. Don Luigi intimava ai suoi servi che lo lasciassero che voleva accorrere alla difesa di don Chisciotte; Cardenio e Fernando si eran uniti per sostenerlo nella zuffa; il curato strillava; strillava l'ostessa; sua figlia affliggevasi; Maritorna piangeva; Dorotea era confusa; Lucinda era attonita; donna Chiara sbigottita. Il barbiere bastonava Sancio, e questi dava al barbiere un perfetto ricambio. Don Luigi colpì con un pugno sì forte uno dei suoi servidori che gli fece uscire il sangue di bocca, perché aveva ardito pigliarlo per un braccio affinché non fuggisse; il giudice lo difendeva; don Fernando calcava coi piedi uno sgherro e calpestavalo alla peggio; l'oste tornava a rinforzare le grida domandando che fosse aiutata la Santa Hermandada. Tutto era confusione nell'osteria, né altro vi dominava che pianti, strida, schiamazzi, rimescolamenti, paure, disgrazie, coltellate, sorgozzoni, bastonate, calci e spargimenti di sangue. In mezzo a questo caos ed a questa confusione di tante cose, don Chisciotte si risovvenne della discordia universale seguita nel campo di Agramante, e quindi si fece a dire con un tuono di voce per cui ne rimbombò l'osteria tutta:

— Ognuno si fermi; si rimettano tutte le spade nel fodero; tutti si acchetino, e mi ascoltino tutti quanti hanno cara la propria vita.”

A questa voce terribile tutti arrestaronsi, ed egli proseguì a dire:

— Non vel diss'io, già, o miei signori, che questo castello è incantato, e che senza dubbio qualche legione di demonî vi fa soggiorno? Bramo che vediate coi vostri propri occhi in prova del mio detto com'è venuta e trapiantata fra noi la Discordia che un tempo sconvolse il campo di Agramante; osservate, o signori, in qual modo qua si combatte per lo brando, là per lo cavallo, colà per l'aquila, costà per l'elmo; e tutti pugniamo e nessuno sa quello che si faccia. Orsù vengano le signorie vostre, signor giudice e signor curato: faccia l'uno la parte del re Agramante e l'altro quella del re Sobrino; e attengano di rappacificarci: perché viva Dio, è pure una grande ribalderia che tanta gente di sì alta portata come noi siamo, si ammazzino per cause tanto frivole.”

Gli sgherri che non capivano le frasi di don Chisciotte, e si trovavano malconci da don Fernando, da Cardenio e dai compagni loro, non voleano darsi pace; il barbiere avrebbe voluto finirla, perché nella zuffa si era guasta tutta la barba e la bardella; Sancio come leal servidore, obbedì alla voce del suo padrone; si acchetarono pure i quattro servi di don Luigi vedendo che loro tornava conto di così fare, e l'oste solo andava susurrando, che dovessero castigarsi le insolenze di quel matto, il quale ad ogni tanto metteva in iscompiglio tutta la sua osteria. Finalmente lo strepito cessò; la bardella restò per sella da cavallo sino al giorno del giudizio, il bacino per elmo, e l'osteria per castello nella immaginazione di don Chisciotte.

Rimessa la tranquillità negli animi, e fattisi tutti amici a persuasione del curato e del giudice, tornarono i servi di don Luigi ad insistere che se n'andasse con loro. Frattanto il giudice si consigliò col curato, con don Fernando e con Cardenio intorno al partito che dovesse prendere nella sua difficile circostanza, informandoli di quanto era passato fra lui e don Luigi. In fine accordaronsi nel dire che don Fernando si facesse conoscere dai servi di don Luigi, e loro significasse di avere deciso che il giovane si recasse con lui nell'Andalusia, dove avrebbe trovato, presso il marchese suo fratello, quell'accoglienza che dovuta era al suo merito ed alla sua condizione; poiché si vedeva il giovinetto disposto a lasciarsi mettere in pezzi piuttosto che tornarsene in quel modo e in quell'abito in casa del padre. Riconosciuta la nobiltà di don Fernando dai quattro servi ed intesa la volontà di don Luigi, stabilirono che tre di loro portassero a suo padre la nuova dell'avvenuto, e che restasse l'altro al servizio senza mai allontanarsene, fino a tanto che venissero altre disposizioni rispetto a lui.

A questo modo si assopì quell'incendio per l'autorità del re Agramante e per la prudenza del re Sobrino: ma vedendosi il nemico della concordia e l'odiatore della pace sprezzato e deriso, e che poco frutto acquistato avesse nel porre tutti in sì confuso laberinto, imprese di tentare altri scompigli, suscitando di bel nuovo quistioni e inquietudini. Si acchetarono gli sgherri per avere conosciuto la qualità delle persone colle quali erano venuti a contesa, e si ritirarono dalla zuffa immaginando benissimo che qualunque fosse stato il successo ne andavano eglino a perdere. Uno di costoro per altro (e fu quello macinato e pesto da don Fernando) si risovvenne che fra gli ordini che seco recava, uno ne aveva per don Chisciotte, contro cui il tribunale avea decretato l'arresto per la libertà ch'egli avea data ai galeotti: disgrazia già preveduta da Sancio.

Con questo pensiero, volle lo sgherro rendersi prima certo se i contrassegni rispondevano alla figura di don Chisciotte; e tratta fuori una pergamena trovò tutto quello ch'egli andava cercando. Misesi a leggere adagio (come inesperto lettore), e ad ogni parola guardava don Chisciotte, confrontando i segni del mandato con lui stesso; e accertatosi ch'egli era veramente quel desso, tenendo tutt'ora nella sinistra l'ordine dell'arresto, con la dritta pigliò don Chisciotte pel collare sì fortemente che non poteva nemmeno tirare il fiato, e gridò: “Date mano alla Santa Hermandada; e perché si conosca la ragionevolezza del fatto, si legga quest'ordine, e si vegga che contiene la commissione di legare questo assassino da strada.” Il curato lesse l'ordine: e vide esser vero quanto lo sgherro asseriva.

Ma il cavaliere errante vedendosi maltrattato a sì crudel modo da quel villano malandrino, raccolse quante forze poté mai avere, strinse con ambe le mani lo sgherro per la gola sì fortemente che avrebbe perduta la vita s'altri non accorreva in suo aiuto. L'oste che doveva per necessità unirsi al partito della sbirraglia, accorse ad aiutarla; l'ostessa, che vide il marito involto in una zuffa, tornò a gridare, e così fece Maritorna e la figliuola, chiedendo mercede al cielo ed agli astanti. Sancio vedendo quello che accadeva, disse: “Viva Dio, ch'è vero quanto si va dicendo dal mio padrone circa l'incantesimi di questo castello, non essendo possibile di vivervi un'ora sola in quiete.”

Don Fernando allontanò lo sgherro da don Chisciotte, e con piacere di entrambi sviticchiò loro le mani, colle quali si erano così fieramente abbrancati. Ad onta di tutto ciò insisteva la sbirraglia a voler prigione il colpevole, e lo domandarono ad alta voce, così esigendo il servigio del re e della giustizia, contro quel ladro ed assassino di strada. Don Chisciotte si mise a rider nel sentirsi così chiamare, e con molta gravità, disse loro:

— Ascoltate, gentaglia vile e malnata: chiamate voi dunque assaltare alla strada il donare la libertà a uomini incatenati, il lasciar andare i prigioni, il soccorrere i miserabili, il rizzare i caduti, il dare aiuto ai bisognosi? Oh gente infame e degna per lo basso e vile vostro intendimento che il Cielo non vi renda mai capaci di conoscere il valore che in sé racchiude l'errante cavalleria, né vi faccia mai aprir gli occhi sull'errore e sulla ignoranza in cui siete mancando del rispetto che pur dovreste alla presenza, anzi pure all'ombra di qualsivoglia cavaliere errante! Ditemi, ladroni in quadriglia, e non già sgherri ma assassini da strada (con permissione del tribunale) ditemi: chi fu quell'ignorante che sottoscrisse l'ordine di arresto contro un cavaliere della mia portata? e non seppe che i cavalieri erranti vanno esenti da ogni procedura giudiziale, e che la loro legge è la spada, il tribunale il loro ardimento e le prammatiche del foro la loro volontà? Chi fu il mentecatto, ripeto, cui non sia noto che nessuna nobiltà di cittadino è fornita di tante preminenze ed esenzioni quanto ne gode quella acquistata da ogni cavaliere errante nel giorno in cui si arma cavaliere e si dedica al duro esercizio della cavalleria? Quando mai in fatti è avvenuto che un cavaliere errante pagasse dazio, gabella, tassa, porto o tragitto? o polizza al sarto? o scotto al padrone del castello dov'egli alloggiasse? qual re si rifiutò mai di averlo seco alla mensa? Quale si è quella donzella che non siasi affezionata a lui? e finalmente qual cavaliere errante fu, è, o sarà mai al mondo cui manchi l'animo per dare egli solo quattrocento bastonate a quattrocento sgherri cui saltasse in capo di offenderlo?

Tali cose dicea don Chisciotte; e il curato frattanto attendeva a persuadere la sbirraglia ch'egli era un vero pazzo, di che ne erano prove le opere e le parole; e che in conseguenza desistessero dalla impresa, perché se pure lo avessero arrestato, bisognava poi rimetterlo in libertà a titolo di pazzia. Ma colui che teneva l'ordine dell'arresto, rispose che non erano eglino i giudici competenti della pazzia di don Chisciotte, e ch'era suo preciso dovere di eseguire i comandi dei superiori arrestandolo; salvo poi a chi spetta, di rimetterlo in libertà.

— Va bene tutto questo, rispose il curato ma ora nol dovete arrestare, né si lascerà egli prendere per quanto lo creda. In sostanza tanto seppe dire il curato, e tante pazzie fece don Chisciotte che sarebbero stati più di lui pazzi gli sgherri a non valutare le sue follie. In conseguenza credettero miglior consiglio di rappacificarsi con lui, e di farsi eziandio mediatori della pace fra il barbiere e Sancio Pancia, che stavano tuttavia in accanita baruffa. Gli sgherri dunque, come membri della giustizia, composero la lite all'amichevole per modo che ognuna delle parti ne rimase se non contenta, soddisfatta in parte almeno, ordinando che si cambiassero le bardelle e non le cinghie né le cavezze; quanto poi all'elmo di Mambrino, il curato sottomano e senza che don Chisciotte se ne avvedesse, diede al barbiere otto reali, e n'ebbe la ricevuta colle solite dichiarazioni a reciproca ed eterna cauzione.

Posto fine in tal modo a queste risse, ch'erano le più importanti e principali, restava che i servitori di don Luigi si persuadessero di partire in tre, restando il quarto in compagnia di don Fernando dovunque gli fosse piaciuto di condurlo. Ma la fortuna che avea cominciato a volger propizia, si mostrò a tal punto molto benigna; perché aderirono i servitori a tutto ciò che bramava don Luigi, di che n'ebbe donna Chiara sì gran giubilo che le traspariva dal volto in modo da essere conosciuto da ognuno. Zoraida tuttoché non comprendesse ancora bene gli avvenimenti, si rattristava e si rallegrava secondo gl'indizi degli altri sembianti, e sopra tutto quello del suo Spagnuolo, dal quale non distaccava mai gli occhi, perché lo teneva fitto nel cuore. L'oste che aveva notata molto la ricompensa data dal curato al barbiere, domandò il pagamento della sua polizza per l'alloggio di don Chisciotte, e per la rottura degli otri in un colla perdita del vino, giurando che Ronzinante non sarebbe uscito dall'osteria e neppure l'asino di Sancio se prima non foss'egli restato soddisfatto interamente di ogni suo avere. Il curato trovò ripiego ad ogni cosa, e don Fernando pagò l'oste, benché anche il giudice si fosse di buon volere a ciò offerto.

A questo modo tutti restarono in pace, e così d'accordo che non pareva più che in quell'osteria avesse signoreggiato la discordia che sovvertì il campo del re Agramante, com'erasi cacciato in testa don Chisciotte, ma sì bene la pace e la quiete che regnò ai tempi di Ottaviano Augusto. Di tutto il successo fu universale opinione che si dovesse ringraziare il buon animo e la molta eloquenza del curato, non meno che la liberalità incomparabile di don Fernando.


CAPITOLO XLV

 

DELLA MANIERA STRAVAGANTE CON CUI FU INCANTATO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA
CON ALTRI CELEBRI AVVENIMENTI.

 

Trovandosi don Chisciotte sbarazzato da tanti litigi, siccome pure lo scudiere de' suoi, trovò ben fatto di proseguire l'incominciato suo viaggio, per metter fine alla grande avventura a cui era stato prescelto. Si pose dunque ginocchioni dinanzi a Dorotea, la quale non gli permise che proferisse parola sino a tanto che non si fosse rizzato in piedi; ed egli per obbedirla si alzò e le disse:

— È comune proverbio, o bella signora, che la diligenza scaccia la mala ventura, ed in molti e gravi affari mostrò la sperienza che la sollecitudine del negoziante guida a buon termine il piato dubbioso. Non può aversi maggior prova di questa verità quanto in fatto di guerra, dove la straordinaria celerità previene i disegni dell'inimico, ed accelera la vittoria prima che la parte avversaria si acconci alla difesa. Tutto ciò io metto nella vostra considerazione, alta e preziosa signora, perché sembrami che la nostra dimora in questo castello sia infruttuosa e potrebbe diventare di tanto pregiudizio da accorgercene pur troppo coll'andare del tempo; imperocché chi sa mai se per occulti e diligenti esploratori non abbia risaputo il gigante vostro nimico ch'io vado a distruggerlo, ed usando del benefizio del tempo non voglia munirsi in qualche inespugnabile castello o fortezza contro cui non potesse avere consueta efficacia la mia avvedutezza, né la forza dell'infaticabile mio braccio? Perciò, mia signora, prevenghiamo, come vi ho detto, colla nostra diligenza i disegni suoi, e senz'altro ripigliamo il cammino, perché il vedervi restituita nella pristina grandezza non da altro dipende che dal venire presto a cimento col vostro nimico.”

Tacque don Chisciotte, ed attese con molta gravità la risposta della bella infanta, la quale con garbo signorile e adattato allo stile di don Chisciotte, gli rispose in questa guisa:

— Aggradisco, signor cavaliere, il desiderio che dimostrate di proteggermi nella mia grande sciagura, appunto come cavaliere dedicatosi a proteggere gli orfani e i bisognosi. Voglia il Cielo che il mio e il vostro desiderio si compiano perché abbiate occasione di conoscere che al mondo vivono donne che sanno riconoscere i benefizi. Quanto poi alla mia partenza segua pure all'istante; io non ho altro volere che il vostro; disponete di me liberamente e come vi piace, mentre quella che una volta affidò a voi la difesa di sua persona, ed ha rimesso nelle vostre mani il riacquisto del proprio impero, non dee farsi lecito di contrastare a ciò che dalla prudenza vostra venga disposto.

— Or bene, disse don Chisciotte, poiché una tanta signora sì fattamente con me si umilia, io non voglio perdere l'occasione di rialzarla a sedere una volta sull'ereditario suo trono. Si vada tosto, ché il desiderio m'è di sprone al cammino, solendosi dire: che l'indugio talvolta partorisce pericolo. E giacché non fu creato ancora dal Cielo, né vide tuttavia l'inferno chi mi spaventi o mi renda codardo, metti, o Sancio, la sella a Ronzinante, allestisci il tuo giumento e il palaferno della regina, togliamo licenza dal castellano, e da questi signori, e partiamoci immediatamente.”

Sancio che tutto ascoltava, disse, dimenando la testa:

— Ah signore, signore v'è più male nel villaggio che il pastore non pensa, con sopportazione delle donne dabbene.

— Che male, disse don Chisciotte, o che villaggio o pastore vai tu rimestando, villan manigoldo?

— Se vossignoria va in collera, rispose Sancio, io metterò la lingua nel sacco, e lascerò di dire quello a cui sono obbligato come buon scudiere, e come deve spiegarsi col suo padrone un leal servitore.

— Di' pur ciò che vuoi, replicò don Chisciotte, purché non ti metta in capo d'incutermi timore; ché se tu l'hai, diportati da quello che sei, ed io che non l'ho mi regolo da mio pari.

— Non è già per questo, poveraccio di me! disse Sancio; ma perché io tengo per cosa sicura che questa signora che si chiama regina del gran regno Micomicone tanto sia regina come la madre che mi ha fatto: perché se tal fosse davvero non si affratellerebbe con queste persone in maniera che certo non si conviene ad una grande costumata signora.”

Arrossì Dorotea a queste parole, ricordandosi che Sancio l'avea veduta a stretto colloquio con don Fernando, di cui egli non sapeva ch'essa era sposa: però non trovando ella opportuna risposta, egli proseguì il suo discorso dicendo:

— Questo, signor padrone, le dico; perché se dopo aver fatto viaggi lunghi e pericolosi, e passato male notti e peggiori giorni, dovessimo cogliere il frutto che abbiamo già colto in quest'osteria, non c'è ragione alcuna che io mi affretti a insellare Ronzinante, a mettere la bardella al giumento e ad allestire il palafreno; e sarebbe più savio partito non muoverci di qua; e porti pazienza chi ha bisogno del nostro aiuto.” Non è possibile descrivere la bile da cui fu preso don Chisciotte per le temerarie espressioni del suo scudiere; fu sì grande che con voce soffocata e interrotta, schizzando vivo foco dagli occhi, disse:

— Ah villanaccio, furfante, animale senza ragione, idiota, insolente, temerario, mormoratore, audace, così osi parlare in presenza mia di tante inclite dame, e nella tua confusa testa hai osato di concepire tali inverecondie e indegnità in loro aggravio? Togliti al mio cospetto, mostro di natura, depositario di menzogne, ricettacolo di cabale, granaio di furfanterie, inventore di malvagità, pubblicatore d'infamie, nimico del rispetto dovuto alle reali persone: vattene e non comparire mai più al mio cospetto sotto pena della mia indignazione.”

Detto questo inarcò le ciglia, gonfiò le guance, guardò di ogni intorno e diede col piè destro un colpo in terra, segni tutti dell'ira che lo rodeva nel cuore. A tali furiose parole e spaventevoli gesti Sancio rimase sì attonito ed impaurito che avrebbe voluto che la terra se gli aprisse di sotto ai piedi e lo avesse inghiottito vivo; né seppe altro fare, che volger le spalle e togliersi dinanzi all'irata faccia del suo padrone. L'accorta Dorotea, la quale conoscea a fondo l'umore di don Chisciotte, per ammorzare tanta collera così si fece a dirgli:

— Non arrovellate, signor cavaliere dalla Trista Figura, per le scimunitaggini proferite dal vostro buono scudiere, mentre fors'egli non le ha dette senza fondamento; oltre di che il suo retto giudizio e la sua religiosa coscienza tolgono qualunque sospetto di malvagia intenzione. Si dee credere senza mover dubbio alcuno che in questo castello (a quanto signor cavaliere, ne dite) tutto avvenga e proceda per via d'incantesimi; e potrebbe darsi che Sancio per arte diabolica avesse veduto quanto asserì a detrimento della mia buona fama.

— Giuro per tutte le potenze del Cielo e per la vita di Dulcinea, rispose don Chisciotte, che la grandezza vostra ha dato proprio nel segno, e che qualche maligna visione si affacciò a quel poveraccio di Sancio, e gli fece scorgere ciò che sarebbe stato impossibile che fosse da lui veduto senz'opera d'incantesimo; mentre io sono pienamente convinto della bontà e semplicità di questo disgraziato, e non ho bisogno della testimonianza di alcuno.

— La cosa passa appunto così; e così sarà eziandio in avvenire, disse don Fernando; e dee perciò la signoria vostra, signor don Chisciotte perdonargli e ricondurlo al grembo della sua buona grazia sicut erat in principio, e prima che le fantasime lo facessero uscir di cervello.” Rispose don Chisciotte che gli perdonava. Allora il curato gli ricondusse Sancio, il quale gli venne in atto di somma umiltà, e inginocchiatosi, prese la mano al suo padrone che gliela porse, e dopo essersela lasciata baciare gl'impartì la benedizione, e gli disse:

— Ora finirai di convincerti, Sancio figliuolo, esser vero quanto altre volte ti ho detto, cioè che le cose tutte che passano in questo castello seguono solo per incanto.

— Così crederò, rispose Sancio, eccettuato però l'affare dello sbalzamento della coperta ch'è succeduto per le vie ordinarie.

— Non crederlo, rispose don Chisciotte, perché, se così fosse stato, io ti avrei vendicato allora e lo farei adesso di bel nuovo; ma né il potei né lo posso non sapendo verso cui esercitare la vendetta dell'offesa che hai patita.”

Bramarono tutti di venire al fatto della coperta, e l'oste raccontò loro punto per punto il volo di Sancio Pancia. Ognuno scoppiava dalle risa, e Sancio intanto s'irritava talmente, che gli sarebbe venuta un'altra volta la mosca sul naso, se non fosse stato nuovamente assicurato dal suo padrone che tutto era seguito per incantesimo. Con tutto ciò l'imbecillità di Sancio non giunse mai a tale di persuadersi che ciò fosse vero; ma ritenne per invariabile e pura verità di essere stato sbalzato in aria per opera d'uomini in carne e in ossa, e non già per sognate od immaginate fantasime, come il suo padrone credeva e affermava.

Erano già scorsi due giorni che la illustre comitiva alloggiava nell'osteria; e parendo che fosse ormai tempo di partirsene, pensarono come senza obbligar Dorotea e don Fernando ad accompagnar don Chisciotte alla sua terra nativa per seguitare l'invenzione di liberare la regina Micomicona, potessero il curato e il barbiere venire a capo di guarirlo dalle sue pazzie. Il modo concertato fu questo: un carradore di buoi, il quale si abbatté per sorte a passar per quella strada, fu da essi accordato perché lo conducesse seco, e acconciarono di vincastri commessi a griglia una specie di gabbia capace di contenervi agiatamente don Chisciotte.

Fatto ciò don Fernando e i suoi compagni e i servitori di don Luigi e la sbirraglia e l'oste, tutti di commissione e per consiglio del curato si coprirono la faccia, trasfigurandosi chi in uno e chi in altro modo, sicché don Chisciotte dovesse crederli gente diversa da quella veduta fino allora nel supposto castello. Tutti entrarono poi con alto silenzio dove egli stava dormendo; e gli si accostarono mentre egli non sospettando in verun modo ciò ch'era per accadergli, tranquillamente sognava. Lo ghermirono, e gli legarono strettamente le mani e i piedi con tanta celerità che quando si svegliò già gli era impossibile il moversi; ma rimase attonito e fuori di sé nel vedersi dinanzi figure così insolite e strane.

Cadde tosto dove la stravolta sua fantasia lo portava, e credette che tutte quelle figure fossero fantasime abitatrici di quel castello, e ch'egli se ne stesse senza verun dubbio incantato, né potesse mutare di sito, né difendersi: il tutto per lo appunto seguì come avea pensato che dovesse succedere il curato macchinatore di quel complotto. Il solo Sancio, tra tutti quelli ch'erano presenti, restava perfettamente in cervello e nello stato di prima; e benché poco gli mancasse per cadere nella infermità del suo padrone, pure conobbe chiaramente chi erano quelle contraffatte figure, ma non osò di aprir bocca, finché veduto non avesse dove andava a finir quell'assalto e quella prigionia del padrone. Questi non moveva sillaba aspettando l'esito della sua disgrazia; il quale fu questo, che recata ivi la gabbia ve lo rinchiusero dentro, e vi conficcarono dei legni sì fortemente che non li avrebbe mai potuti spezzare. Lo portarono sopra le spalle, e nell'uscire dalla stanza si udì una voce spaventosa che facea gran rimbombo, ed era mandata fuori dal barbiere, non già quello della bardella, ma l'altro; diceva:

— O cavaliere dalla Trista Figura, non ti rincresca di andare così prigioniero, che ciò è necessario perché abbia un più sollecito fine l'avventura in cui ti ha posto il tuo sommo valore. Questa avrà termine quando il furibondo Leone mancego con la candida Colomba tobosina si uniranno insieme, ed avranno le loro alte cervice umiliate sotto il blando giogo matrimoniale; e da questo inaudito consorzio usciranno alla luce del mondo i bravi leoncini che imiteranno gli artigli sbranatori del valoroso genitore. Avverrà tutto questo prima che il seguace della fuggitiva ninfa compia due volte il giro delle rilucenti immagini col rapido e naturale suo corso. E tu, il più nobile e obbediente scudiere che cingesse mai spada, o avesse barba al mento ed olfato al naso, non atterrirti, né ti dolere se vedi esserti così tolto dinanzi il fiore della errante cavalleria; presto, se al fabbricatore dell'universo sia grado, ti vedrai sublimato a tanta altezza che non conoscerai più te medesimo, e non riusciranno vane le promesse che ti fece il tuo padrone. Da parte della maga Mentironiana ti assicuro che sarai pagato del tuo salario, e ciò vedrai in effetto; ma seguita intanto le pedate del valoroso e incantato cavaliere perché conviene che tu vada al posto dove ambedue dovete trovarvi. Restatevene, addio; io torno nella mia cupa caverna.”

Nell'annunziare la profezia il barbiere alzava più che mai la voce, e andava poscia diminuendola con sì tenero accento che quelli pure che erano a parte della burla poco mancava che non credessero essere vero quanto ascoltavano. Le udite parole racconsolarono don Chisciotte il quale ne comprese a puntino tutto il significato, e specialmente la promessa che gli era fatta di unirsi in santo e debito matrimonio con l'amata sua Dulcinea del Toboso, dal cui grembo fortunato sarebbero usciti i leoncini, i quali sarebbero stati figliuoli per eterna e perpetua gloria della provincia della Mancia. Tenendo ciò per infallibile diede un grido, mandò un lungo sospiro, e disse:

— O qualunque ti sia, che sì gran bene, hai pronosticato, procurami, te ne prego, dal savio incantatore che regge i miei destini la grazia che non mi lasci perire in questa prigione dove ora mi rinserrano sino a tanto che io non vegga compite sì liete e tanto incomparabili ed alte promesse, quante sono quelle che mi vengono fatte. Se a tal favore ei discende io mi ascriverò a gloria la pena di questo carcere, e a dolce alleggiamento le catene che mi tengono avvinto; né già terrò per duro campo di battaglia il letto sul quale ora mi trovo steso, ma piuttosto per soffice origliere e per talamo avventuroso. Per quanto appartiene al conforto di Sancio Pancia mio scudiere, confido nella bontà e nel suo onesto procedere, che non mi abbandonerà negli eventi di prospera o rea fortuna. Accadendo che o per sua o per mia mala sorte non gli potessi donare l'isola che gli ho promesso, o fargli altro equivalente benefizio, non avrà egli mai ad esser frodato del suo salario, avendo io già ordinata nel mio testamento la sua mercede, se non conforme ai suoi molti e leali servigi, in proporzione almeno alla mia facoltà.”

Sancio Pancia s'inginocchiò e gli baciò a capo chino le mani: né avrebbe potuto baciargliene una sola; poiché ambedue erano strettamente legate insieme. Le fantasime alzarono di peso la gabbia, la trasportarono e la accomodarono sopra il carro.


CAPITOLO XLVI

 

ANCORA DELLA STRAVAGANTE MANIERA CON CUI FU INCANTATO DON CHISCIOTTE.

 

“Lessi già, disse don Chisciotte, quando si vide ingabbiato a quel modo e messo sopra il carro, molte e gravi istorie di cavalieri erranti, ma non ho letto, né veduto, né udito mai che sieno stati in tal guisa condotti gli incantati cavalieri, né colla lentezza propria di questi infingardi e melensi animali. Furono sempre portati per aria con incredibile rapidità, rinchiusi in qualche nube oscura o di color cinerognolo, ovvero sopra qualche carro, ippogrifo od altro simigliante animale. Non posso intendere com'io abbia a vedermi trascinato adesso da un carro tirato da buoi: ma chi sa che la cavalleria e gli incanti dei nostri tempi non abbiano preso una piega diversa da quelli degli antichi! Potrebbe anche darsi che essendo io, come lo sono, nuovo cavaliere nel mondo ed il primo che ha risuscitato l'esercizio già disusato della errante cavalleria, siensi per la stessa ragione inventati nuovi generi di incantesimi e nuove forme di condurre gli incanti: che te ne sembra, Sancio, figliuolo?

— Non saprei che rispondere, disse Sancio, perché non so un'acca delle scritture cavalleresche; per altro ardirei affermare e giurare ancora che tutte le visioni alle quali noi andiamo incontro non sono pienamente cattoliche.

— Altro che cattoliche, che Iddio ci aiuti, rispose don Chisciotte! Come possono esserlo mai se non si tratta che di demoni, i quali hanno pigliati corpi fantastici per operare siffatte stravaganze e guidarmi a sì deplorevole situazione? E se tu voi conoscere in fatto una tale verità, toccali, palpali, e vedrai che non hanno corpo se non se d'aria, e non sono che mere apparenze.

— Viva Dio, replicò Sancio, io li ho toccati, o signore, e questo diavolo qui, il quale cammina con tanta prestezza, ha una carne soda come una pietra; e in questo ancora è differente da quello che ho inteso dire dei diavoli, perché io so che essi puzzano di zolfo e di altri pessimi odori, ma costui dà una eccellente fragranza d'ambra, che si sente mezza lega lontano.” Sancio indicava così don Fernando; il quale, come dilicato signore, solea mantenersi olezzante della persona.

— Non farne punto le maraviglie, amico Sancio, rispose don Chisciotte, perché ti assicuro che anche i diavoli tengono dei profumi, e ne sogliono portare seco; ma non possono tramandarli a noi per essere spiriti: o se pure ne tramandano, non sono mai grati, ma fetidi e puzzolenti; e la ragione si è perché portano seco l'inferno dovunque vanno, e non debbono trovar mai sollievo di sorta alcuna dai loro tormenti; laonde, poiché il grato olezzo è una cosa che soddisfa e diletta, non è possibile mai che ne sieno in possesso: e se pare a te, come dici, che questo demonio odori di ambra, o tu certamente t'inganni o egli vuole ingannarti affinché tu nol tenga per un demonio.”

Passarono tutti questi colloqui tra padrone e servitore; e temendo don Fernando e Cardenio che Sancio non colpisse nel segno rispetto alla loro invenzione, di cui lo vedevano già entrato in sospetto, determinarono di affrettare la partenza. Chiamando perciò a parte l'oste, gl'imposero che insellasse Ronzinante e mettesse la bardella al giumento di Sancio, il che egli tosto eseguì. Aveva frattanto il curato patteggiato cogli sgherri perché accompagnassero don Chisciotte sino alla sua terra, contribuendo loro un tanto per giorno. Cardenio attaccò da un lato dell'arcione della sella di Ronzinante la targa e dall'altro il bacino, poi con cenni comandò a Sancio che montasse sul suo asino, e che prendesse Ronzinante per la briglia, e collocò ai due lati del carro due sgherri coi loro archibusi. Prima che il carro si movesse uscirono fuori l'ostessa, sua figlia e Maritorna, per prender licenza da don Chisciotte, fingendo di piangere per compassione della sua disgrazia. Egli disse loro:

— Non piangete, no, mie buone signore, che tutte queste avversità sono così consuete alla professione ch'io esercito: e se non mi accadessero tante traversie non porterei il vanto di famoso cavaliere errante, perché ai cavalieri di poco conto e di poca celebrità non avvengono di simiglianti sciagure, non essendovi al mondo chi mai li rammenti: sono riservate ai valorosi, come a coloro che sono invidiati da molti principi e da tanti cavalieri che tentano nuocere ai meritevoli con i mezzi più indiretti e maligni. La virtù sola è ad onta di ciò sì possente che da per sé, e a dispetto di quanta negromanzia fosse mai saputa dal suo primo inventore Zoroastro sino a noi, riuscirà salva da ogni pericolo, e darà di sé così chiara luce al mondo come la dà il sole al cielo. Perdonatemi, belle dame, se per qualche mia trascuraggine vi avessi apportato dispiacere; che di animo deliberato non so di averne mai fatto alcuno; e pregate Dio che uscire mi faccia da questa prigione, dove mi ha posto un qualche incantatore perverso. Se un giorno n'escirò libero non mi fuggiranno giammai dalla memoria i favori da voi ricevuti in questo castello, e vi mostrerò la mia gratitudine col servirvi e ricompensarvi come meritate.”

Nel tempo che le supposte dame del castello conversavano con don Chisciotte, il curato e il barbiere si accommiatarono da don Fernando e dai compagni suoi, dal capitano, da suo fratello e da tutte quelle contente signore, e specialmente da Dorotea e da Lucinda; e si abbracciarono tutti promettendosi a vicenda di darsi notizie dei loro successi. Don Fernando indicò al curato dove potesse scrivergli per informarlo come la sarebbe finita in riguardo a don Chisciotte, assicurandolo che gli sarebbe riuscito graditissimo l'averne le nuove; e ch'egli poi gli avrebbe dato ragguaglio di tutto ciò che potea soddisfarlo così rispetto al suo maritaggio, come al battesimo della bella Zoraida, all'affare di don Luigi ed al ritorno di Lucinda in seno alla sua famiglia. S'impegnò il curato di eseguire con ogni esattezza quanto gli veniva raccomandato, reiteraronsi gli abbracciamenti una e più volte: e rinnovaronsi reciprocamente le gentili offerte. L'oste si accostò al curato, e gli consegnò alcune carte dicendogli di averle trovate nella fodera del valigiotto dove stava la Novella del curioso indiscreto, e che non essendo più tornato il suo padrone a ricuperarle, se le recasse pure con sé, non facendone egli verun caso per non saperle ben decifrare. Le aggradì il curato, e spiegandole sull'istante vide che in fronte degli scritti leggevasi: Novella di Ricometto e Cortadiglio. Immaginando che si trattasse di qualche piacevole storietta, ed avendo molto gradito l'altra del Curioso indiscreto, suppose che anche questa lo avrebbe soddisfatto, potendo darsi che fossero state composte ambedue da un medesimo autore: la tenne dunque custodita, riserbandosi di farne la lettura a tempo più opportuno.

Montò a cavallo, e così pure il barbiere suo amico, ambedue involti nei loro pappafichi per non essere così presto riconosciuti da don Chisciotte. Camminavano dietro il carro coll'ordine seguente: prima era il carro guidato dal suo carradore; ai due lati lo accompagnavano gli sgherri, come si è detto, coi loro archibusi: veniva poi Sancio Pancia sopra il suo asino, tenendo la briglia di Ronzinante; ed ultimi erano il curato ed il barbiere a cavallo delle loro grandi e poderose mule colle facce tutte coperte, e con grave e serioso contegno adattandosi al tardo passo dei buoi. Stava don Chisciotte seduto nella gabbia colle mani legate, coi piedi distesi ed appoggiato alle grate, sì taciturno e paziente come se non fosse stato uomo di carne, ma statua di pietra. Con lentezza e in silenzio viaggiarono per oltre due leghe, finché giunsero ad una valle che parve al carradore sito opportuno per prendere qualche riposo e pascere i buoi. Lo disse al curato; ma il barbiere fu di avviso che seguitassero il cammino ancora alcun poco, sapendo egli che dietro a un poggetto che scorgevasi poco discosto, vi era altra valle fornita di erba molto migliore. Fu accolto il consiglio del barbiere, e continuarono il viaggio.

Intanto volgendosi addietro il curato, vide sei o sette uomini a cavallo bene assettati e vestiti, i quali presto raggiunsero il convoglio perché marciava colla lentezza dei buoi. Uno di costoro, ch'era un canonico di Toledo e il padrone di tutti gli altri che lo accompagnavano, vedendo la ben ordita processione del carro, degli sgherri, di Sancio, di Ronzinante, del curato, del barbiere, e più di ogni altro, di don Chisciotte, ingabbiato ed imprigionato, non poté a meno di non domandare che cosa significasse il condurre un uomo a quel modo; benché si fosse immaginato, nel vedere la sbirraglia, che dovesse essere colui un qualche facinoroso o assassino di strada, od altro cattivo soggetto così castigato dalla Santa Hermandada. Quello tra gli sgherri cui venne fatta la dimanda rispose:

— Signore, neppure noi sappiamo che voglia significare un tal modo di condurre questo cavaliere, né alcuno meglio di lui stesso ve lo potrà dire.”

Udì don Chisciotte il discorso, e soggiunse:

— Di grazia, le signorie vostre, signori cavalieri, sono elleno versate e perite in materia di errante cavalleria? Se lo sono io darò lor conto delle mie disgrazie, ma in caso diverso non perderò il mio tempo in inutili ciarle.” Si erano già avanzati in questo mentre il curato ed il barbiere (vedendo don Chisciotte in discorso coi passeggieri) a fine di rispondere eglino in modo che non si scoprisse il loro artifizio. Il canonico a cui don Chisciotte aveva indirizzato il discorso, rispose:

— Se ho da dirvi il vero, o fratello, io tengo più sulle dita i libri della cavalleria delle Sommele di Villapando, e perciò se questa è la difficoltà che voi potreste avere, essa è tolta, e parlate.

— Lodato sia Iddio, replicò don Chisciotte, poiché siete conoscitore di questi affari io bramo, signor cavaliere, che voi sappiate ch'io me ne vo strascinato in questa gabbia per invidia e frode d'incantatori maligni, essendo che la virtù è più perseguitata dai tristi che amata dai buoni. Cavaliere errante sono io, ma non già di quel novero che non merita che la fama ne renda eterno il nome per celebrità, ma sì bene di quelli che a dispetto e in onta dell'invidia medesima e di quanti maghi creò la Persia, bracmani l'India, ginnosofisti l'Etiopia, ha da collocar il suo nome nel tempio dell'immortalità perché serva d'esempio e di specchio dei vegnenti secoli agli erranti cavalieri, e segni loro il cammino per salir all'apice ed alla gloriosa altezza delle armi.”

Disse il curato a tal punto:

— È vero quanto si espone dal signor don Chisciotte della Mancia, il quale va incantato sopra questo carro non per veruna sua colpa, ma bensì per mala intenzione di quelli che odiano la virtù ed invidiano il merito. Questi è il signor cavaliere dalla Trista Figura, se l'avete inteso mai a nominare, le cui valorose imprese e strepitosi fatti resteranno scolpiti in duri bronzi ed eterni marmi, comunque l'invidia adoperi ogni sua possa per oscurare la sua gloria e la malignità per tenerla celata.”

Quando il canonico sentì il prigioniero ed il libero a parlare in tal guisa fu per farsi un segno di croce, né sapea credere a sé stesso quello che gl'interveniva; e così anche tutti i compagni. Sancio Pancia, che si era avvicinato, ed avea inteso il discorso, per aggiungervi le frange, disse:

— Signori, o mi vogliano bene o mi ributtino per quello che sto per dire, è tutt'uno. Tanto è vero che il signor don Chisciotte mio padrone sia incantato quanto è vero che la madre di voi altri abbia me partorito. Egli se ne sta perfettamente in cervello, mangia, beve e serve ad altre sue bisogne come il resto degli altri uomini, e come faceva ieri prima che lo ingabbiassero: e se così è perché mai vogliono farmi credere adesso che egli sia incantato? Ho inteso dire da molti che gli incantati non mangiano, non dormono, non parlano; ma il mio padrone, se non viene interrotto, parla più che trenta avvocati.”

Voltandosi poscia verso il curato, proseguì dicendo: — Ah signor curato, signor curato, cred'ella forse che io non l'abbia conosciuta? Pensa vossignoria che quantunque io sia cheto non indovini dove vadano a finire questi nuovi incantesimi? Sappia bene ch'io la raffiguro per quanto ella si copra bene la faccia, e sappia che io pure la intendo per quanto si sforzi di avviluppare i suoi imbrogli; in fine, dove regna la invidia non può vivere la virtù, né dove sta la miseria può aver luogo la liberalità. Maledetto sia il diavolo, che se non fosse per colpa di sua riverenza sarebbe a quest'ora il mio padrone ammogliato colla regina Micomicona, ed io sarei conte per lo meno; che altro non avrei potuto aspettarmi dalla bontà del mio signore dalla Trista Figura e dal merito della mia leale servitù. Io comprendo pur bene da tutto questo, quanto sia vero il proverbio: Che la ruota della fortuna gira più che una macchina da mulino; e quelli che ieri si trovavano in posto eminente, oggidì non hanno di che mangiare. Mi duole per i miei figliuoli, mi duole per la mia moglie, che quando potevano e dovevano sperare di vedermi ritornare già fatto governatore o viceré di qualche isola o regno, mi vedranno entrare in casa fatto mozzo di stalla. Tutte queste cose signor curato mio, non le dico per altro né che per pregare quanto più posso la vostra Riverenza ch'ella si rechi a coscienza il mal governo che fa di questo mio buon padrone; e badi bene che Dio Signore nell'altra vita non le dimandi conto della sua prigionia, e non le imputi a colpa se il mio signor don Chisciotte non soccorre i bisognosi, e non fa tutto quel bene che farebbe qualora fosse fuori di questa gabbia.

— Oh bella davvero: disse a questo punto il barbiere; voi pure, o Sancio, siete dello stesso avviso del vostro padrone? Viva il cielo che vo' vedendo che bisognerà tenere voi pure incantato al pari di lui in una gabbia, poiché pizzicate della sua pazzia, e andate così goffamente immaginando di dover essere governatore di un'isola.

— Io, rispose Sancio, non sono pazzo per nessun conto, ma galantuomo; e so che il mio padrone potrebbe conquistare tante isole da non trovare a chi darle; e guardi bene come parla vossignoria, signor barbiere, perché tutto non consiste al mondo nel fare delle barbe, e passa gran differenza da un Pietro a un Giovanni: ciò perché ci conosciamo tutti, e a me non si vendono lucciole per lanterne; e per quello che riguarda l'incantesimo del mio padrone, Dio sa la verità: ma lasciamo questa cosa, che tanto più puzza, quanto più si rimescola.”

Non volle rispondere il barbiere perché Sancio non iscoprisse colla semplicità sua quello che tanto premeva di nascondere agli altri. Con questo fine il curato avea detto al canonico che camminasse un poco più, che gli svelerebbe l'arcano dell'ingabbiato con altre cose di sua soddisfazione. Lo compiacque il canonico, e andò innanzi co' suoi compagni e con lui, prestando attento orecchio a quanto il curato gli diceva sulla condizione, vita, pazzia e costumi di don Chisciotte; sull'origine e della causa delle sue stravaganze, e di tutto il seguito degli avvenimenti sino al punto dell'averlo rinchiuso in quella gabbia, per ricondurlo al suo paese e tentare qualche rimedio affine di sanarlo. Fecero nuovamente le meraviglie il canonico e i suoi servitori nell'udire la peregrina istoria di don Chisciotte; e quando l'ebbero ascoltata per intero, disse il canonico:

— Trovo per verità, signor curato, dal canto mio che sono di grande pregiudizio alla repubblica i così detti libri di cavalleria: e tuttoché anch'io istigato da un falso piacere li abbia conosciuti quasi tutti, non mi avvenne però mai di poterne leggere un solo dal principio al fine, trovandoli presso a poco tutti di una stessa pasta, né avendo l'uno merito maggiore dell'altro. Parmi che questo genere di libri e di composizioni cada nella classe delle favole così dette Milesie, che sono racconti spropositati i quali mirano a dilettare e non a dare insegnamento, a differenza degli apologhi che dilettano ed ammaestrano ad un tempo stesso. Se il fine principale di simiglianti opere è quello di ricrear l'animo, non so come possano giugnere a conseguirlo, essendo piene di tante stoltezze fuori d'ogni proporzione o credibilità. E infatti che vaghezza mai o quale proporzione di parti col tutto può spiegare un libro od una favola, dove un giovinotto di sedici anni dà un colpo a un gigante grande come una torre, e lo partisce in due come se fosse pasta di zucchero? E che si può credere quando ci vengono a dipingere una battaglia, raccontandoci che i due nemici contano da parte loro un milione di combattenti? Che diremo noi della facilità che ha una regina o imperatrice di darsi in balia di un errante e sconosciuto cavaliere? Qual ingegno mai, se non è barbaro e incolto del tutto, potrà restare soddisfatto leggendo che una gran torre piena di cavalieri solca da sé sola il mare come nave, guidata da prospero vento, ed oggi pernotta in Lombardia, e dimani trovasi allo spuntar del dì nelle terre del Pretegianni dell'Indie, e in altre ancora, che non furono mai scoperte da Tolomeo né vedute da Marco Polo? Né alcuno mi dica che gli autori di tanti libri scrivono ogni cosa per mera finzione, e che non sono punto tenuti alle leggi ordinarie; giacché tanto è più vaga la finzione quanto più al vero si avvicina, e tanto più gradita riesce quanto ha più in sé del dubbioso e del possibile. Le favole debbono associarsi al discernimento dei loro lettori ed essere scritte in modo che rendendo facili gl'impossibili, appianando le difficoltà, tenendo in sospeso gli animi, rendano il lettore o maravigliato o soddisfatto, e lo occupino in modo che la maraviglia vada di pari passo col diletto; né potrà mai conseguire un tal fine chi si scosta dalla verisimiglianza e dalla imitazione della natura in cui consiste la perfezione di uno scrittore. Non ho mai veduto libro di cavalleria che non somigli ad una chimera o ad un mostro piuttostoché a proporzionata figura. Oltre a ciò duro n'è quasi sempre lo stile, incredibili le imprese, lascivi gli amori, malaccorte le cortesie, eterne le battaglie, sciocchi i ragionamenti, spropositati i viaggi; tutto in somma è alieno da ogni ragionato artifizio e degno di essere bandito dal mondo cristiano, come pericolosa inutilità.”

Lo stava ascoltando il curato con somma attenzione, parendogli uomo di grande intendimento, e che avesse ragione in tutto ciò che diceva. Gli rispose pertanto che avendo egli pure in odio i libri di cavalleria avea dato alle fiamme quelli che possedea don Chisciotte, i quali erano molti; del che non poco rise il canonico, il quale a fronte di tutto il male che ne avea detto, trovava però in essi una cosa buona ed era questa, che possono prestar materia ad un uomo di vaglia di farsi onore, dando libero corso alla penna per descrivere naufragi, tormenti, incontri e battaglie; per dipingere un capitano valoroso in tutte le parti che si ricercano ad essere tale; per mostrarlo prudente nell'antivedere le astuzie dei suoi nemici od oratore eloquente nel persuadere o sconsigliare i suoi soldati, maturo nel consiglio, veloce nell'eseguire, e valente sì nel difendersi come nell'assalire. Opportuna può essere, seguitò a dire, la pittura o di un lamentevole e tragico avvenimento, o di un lieto e inatteso accidente: qua vedesi descritta una bellissima dama, onesta, avveduta e ritirata: là un cavaliere cristiano di gentile costume; altrove uno sfacciato e barbaro prepotente o un principe cortese, pieno di valore ed accorto, e rappresentare si può bontà e lealtà di vassalli o grandezze e premi di signori. Ha l'autore opportunità di mostrarsi astrologo, cosmografo, musico, conoscitore delle materie di stato, politico, e talvolta si può offrire l'occasione di farsi credere anche negromante, se così gli piaccia. Può egli mettere in mostra le accortezze di Ulisse, la pietà di Enea, il valore di Achille, le sventure di Ettore, i tradimenti di Sinone, l'amistà di Eurialo, la magnanimità di Alessandro, la valentia di Cesare, la lealtà e clemenza di Traiano, la fedeltà di Zopiro, la prudenza di Catone, e tutte quelle azioni finalmente che possono rendere perfetto un personaggio illustre, ora in un solo raccogliendole, ora dividendole in molti. Facendo tutto questo con istile piacevole e con ingegnosa invenzione che miri possibilmente al vero, comporrà l'autore una tela tessuta di varî e bei lacci, che nel suo insieme mostrerà tale perfezione e bellezza da conseguire miglior fine di ogni scritto, cioè l'utile insieme e il diletto.

La libera composizione di siffatte opere apre finalmente il campo all'autore di farsi conoscere epico, lirico, tragico, comico, con le parti tutte che si rinchiudono nelle dolcissime e gradite scienze della poesia e dell'oratoria: ché l'epica si può dettare in prosa non meno che in verso.


CAPITOLO XLVII

 

SEGUITA A RAGIONARE IL CANONICO IN MATERIA DI LIBRI DI CAVALLERIA,
CON ALTRE COSE DEGNE DEL SUO MOLTO TALENTO.

 

— Vossignoria, signor canonico, disse il curato, ha ogni ragione: e perciò io trovo che sono degni di riprensione tutti coloro che fino al presente hanno composte siffatte opere senza aver riguardo a verun sano ragionamento né all'arte o alle regole colle quali avrebbero potuto diventar celebri nella prosa come lo sono nel verso i principi della poesia greca e latina.

— Io pure, riprese a dire il canonico, ebbi qualche tentazione di comporre un libro di cavalleria con tutte le avvertenze dette pocanzi; e se ho a dirvi il vero ne ho anche scritto oltre cento carte: e per conoscere se l'effetto corrispondesse alla mia opinione, le ho comunicate a persone amanti di tali letture, dotte e sensate, ed eziandio ad ignoranti che si dilettano di sentire spropositi e rodomontate, ed ho conseguito da tutti un'approvazione pienissima. Ad onta di ciò non ho proseguito la mia opera, sì perché parvemi tutta aliena dalla mia professione, sì per avere sperimentato che il numero degli scimuniti sormonta quello dei prudenti, ed è poi più aggradevole il conseguire lode dai pochi che sanno, che non beffe dai molti che non sanno; non voglio però sottomettermi all'incerto giudizio del volgo leggero ch'è per la gran parte formato dei leggitori di opere di questa fatta. Quello poi che mi fece dimettere assolutamente il pensiero di condurre a termine il mio lavoro fu un ragionamento che feci meco medesimo, nato dalle commedie che oggidì si rappresentano, e dissi: Se quelle che ora sono in pregio, tanto le fantastiche quanto le tratte dalla storia, sono per la maggior parte un ammasso di spropositi e cose senza capo e senza coda, e nondimeno il volgo le gusta e le approva come buone: se gli autori che le compongono, e i recitanti che le mettono in pubblico, sostengono che così dee farsi, perché così e non altrimenti le brama il volgo; e se quelle nelle quali si ammira una ragionata condotta, conforme l'arte prescrive, piacciono solo ad alquanti intelligenti, mentre gli altri tutti non si trovano al caso di conoscerne l'intrinseco merito; in conseguenza di tutto ciò anche il mio libro verrebbe considerato una superfluità dopo che mi sarei bruciate le ciglia per attenermi ai riferiti precetti, e avrei gettato tempo e fatica. Benché siami accinto talvolta di persuadere agli attori che s'ingannano nella loro opinione, e che maggiore sarà il concorso esponendo commedie composte secondo le regole dell'arte, anziché spropositate, pure li ho ritrovati tanto ostinati e insistenti nella loro opinione che niun argomento per evidente che fosse, sarebbe valso a farli cangiare di proposito. Sovviemmi che parlai un giorno ad uno di questi pertinaci in tal modo: Ditemi di grazia, non vi ricordate che, pochi anni sono, si consegnarono alle scene di Spagna tre tragedie composte da un famoso poeta di questi regni, che furon ammirate da quanti le udirono, tanto semplici come dotti, tanto nobili come plebei, e produssero più danari ai commedianti quelle tre sole che trenta delle migliori che d'allora in qua si sieno mai recitate?

— Vossignoria certamente, soggiunse l'attore cui io parlava, intende rammentare la Isabella, la Fillide e l'Alessandra. — Questo appunto, io replicai; e considerate bene s'erano in esse osservati i precetti dell'arte, e se, attesa la loro regolarità, mancassero di effetto e di riuscire ben gradite dal pubblico. Il difetto non istà dunque nel volgo che dimandi spropositi, ma in quelli che recitare non sanno altra cosa; non fu sproposito la Ingratitudine vendicata, né la Numanzia, né lo furono il Mercadante innamorato, né la Nemica favorevole, come ancora alcune altre commedie composte da giudiziosi poeti con gloria del nome loro, e guadagno di quelli che le hanno eseguite. Aggiunsi a queste altre cose, in forza delle quali, per quanto mi parve, restò il recitante un poco confuso, e non però soddisfatto, né sifattamente convinto, che mutasse opinione.

— Ha versato vossignoria, signor canonico, disse il curato allora, in argomento che risvegliò in me un vecchio rancore contro le commedie di oggigiorno, non minore di quello che porto ai libri di cavalleria: ciò nasce dal considerare che, in conformità alla dottrina di Tullio, dovendo essere la commedia specchio della vita umana, esempio dei costumi e immagine della verità, trovo in vece che quelle che ora si recitano, essere specchi di spropositi, esempi di scioccherie e immagini di disonestà. E infatti, quale più grand'errore può darsi quanto il vedere al primo atto un bambino in fasce e rivederlo nel secondo uomo di già cresciuto e maturo? Chi può tollerare che ci si dipinga un vecchio spaccone e un giovine poltrone, uno scudiere rettorico e un consigliere scimunito, un re servitore ed una principessa fante di un'osteria? Che dirò poi intorno alla osservanza del tempo in cui possono o potevano accadere le azioni che si dànno al pubblico? Ho veduto commedie moderne nelle quali cominciava in Europa la prima giornata, era in Asia la seconda, e la terza aveva fine nell'Africa; di maniera che se in quattro giornate fosse stata divisa, la quarta terminata sarebbe in America, e così rappresentata si sarebbe in tutte le quattro parti del mondo. Se la imitazione è l'oggetto principale della commedia, com'è possibile che possa restare soddisfatto verun anche mezzano ingegno, quando fingendosi un'azione avvenuta ai tempi del re Pipino o di Carlomagno nel tempo stesso che vi fanno eglino la principal figura, si voglia poi introdurre l'imperatore Eraclio ch'entra colla croce in Gerusalemme, e fa il conquisto della Santa casa con Goffredo il Buglione, quando grandissima disparità di anni tra l'uno e l'altro correva? Fondandosi talvolta la commedia sopra finti soggetti, si vuole attribuirle verità di storia col frammischiarvi fatti avvenuti a differenti persone e in tempi diversi, e ciò non già con tracce verosimili, ma con evidenti ed inescusabili errori. Il peggio poi si è che si trovano ignoranti, i quali dicono che questo è il meglio, e sostengono che, diversamente volendo, la sarebbe una sofisticheria. E facendoci a parlare delle commedie spirituali che diremo noi? Quanti falsi miracoli non si fingono in esse, e quante cose apocrife e malintese, attribuendo i portenti di un santo ad un altro! Tuttociò torna a pregiudizio della verità, ad oltraggio della storia e a vitupero degl'ingegni spagnuoli, perché gli stranieri che si applicano con somma esattezza alle leggi della commedia, ci tengono in conto di barbari e d'ignoranti, scorgendo nelle nostre assurdità e gli spropositi che per noi si commettono. Né basterebbe già per discolparci l'asserire che il fine principale a cui mirano le ben regolate repubbliche, permettendo che si rappresentino commedie, è d'intertenere il popolo con qualche lecito passatempo, e togliere così gli animi dalle grame voglie che l'ozio suole produrre, e che dove questo fine sia conseguito, non occorre parlare di leggi, né vincolare ad esse gli autori e gli attori. Risponderò a questi tali che verrebbesi a raggiungere cotesto fine molto meglio e senza confronto con le buone commedie piuttostoché con le cattive, perché la rappresentazione di una bene ordinata commedia, oltre al divertire lo spettatore cogli scherzi, lo rimanda addottrinato dalle verità, maravigliato dagli avvenimenti, illuminato dai ragionamenti, ammaestrato dal magistero e dagli esempli, sdegnato contro il vizio ed innamorato della virtù. Tutti questi effetti può risvegliare la buona commedia nell'animo dell'uditore, sia pur egli zotico e ignorante; ed è quasi impossibile che la commedia la quale in sé contenga tutte queste parti, non possa rallegrare, trattenere e rendere soddisfatti più dell'altre che ne mancano, quali sono quelle che d'ordinario noi vediamo sulle scene. Né la colpa è dei poeti che le compongono, perché ve n'ha taluno il quale sa benissimo che scrive male e conosce per eccellenza ciò che dovrebbe fare; ma dicono (e dicono il vero) che non sarebbero comperate da chi le recita se non fossero di un falso gusto; per la qual cosa il poeta cerca di adattarsi al volere e al capriccio del commediante che gli dee pagare la sua opera. Fanno di ciò prova le infinite commedie composte da un felicissimo ingegno di questi regni con sì grande vaghezza, con sì bel garbo, con versi di sì acconcia eleganza, con sì gravi sentenze, e finalmente con tanta facondia e altezza di stile, che meritano una celebrità universale: costretto però questo poeta a conformarsi al piacere dei commedianti non poté cogliere in tutte, come in alcune, il vero punto della perfezione. Alcuni scrittori compongono senza pensare a ciò che si fanno, e sì sciaguratamente che, terminata la rappresentazione, sono obbligati i commedianti a fuggire ed a nascondersi per tema di essere castigati. Ora cesserebbero tutti questi disordini e molti altri che da me si tacciono se si trovasse alla corte una persona intelligente e saggia, la quale assumesse di prendere in esame le commedie tutte che si compongono: e non solo quelle che sono scritte per la corte, ma quelle tutte che voglionsi rappresentare nel restante della Spagna. Questo è il segreto per ottenere una riforma del teatro. Se poi ad un altro, od al revisore stesso si desse l'incarico di esaminare i libri di cavalleria che di nuovo si componessero, potrebbe per certo riuscirne taluno della perfezione testé accennata da vossignoria, arricchendo in questo modo la nostra lingua dell'aggradevole e prezioso tesoro della eloquenza, ed ottenendo che alla luce dei libri nuovi restassero oscurati i vecchi, con onesto passatempo non pure degli oziosi, ma sì che anche delle persone dabbene, non essendo possibile che l'arco stia sempre teso, né che l'umana fiacchezza possa sostenersi senza una qualche lecita ricreazione.”

Erano arrivati a tal passo del loro ragionamento, quando raggiunti furono dal barbiere, che disse al curato:

— Questo è il sito, o signore, da me poco fa indicatovi come opportuno a riposarci ed a far pascere abbondantemente e rinfrescare i buoi.

— Così appunto pare anche a me, rispose il curato: e significando al canonico ciò che divisava di fare, volle egli pure restarne in loro compagnia, allettato dal prospetto di una valle giocondissima che gli stava dinanzi agli occhi. A tal fine e per compiacer se stesso e per godere della conversazione del curato cui erasi affezzionato, e per sapere minutamente le prodezze di don Chisciotte, ordinò ad alcuno dei servi suoi che se n'andassero all'osteria (ch'era poco discosta) e provvedessero di che mangiare per tutti, giacché designava di trattenersi in quel sito.

Frattanto vedendo Sancio che poteva parlare al suo padrone senza la perpetua vicinanza del curato e del barbiere, che gli erano sospetti, si accostò alla gabbia dove stavasi rinserrato e gli disse:

— Signor mio, per iscarico della mia coscienza voglio dire ciò che passa intorno all'incantamento di vossignoria. Sappia che questi due che vengono col viso coperto, sono il curato ed il barbiere del nostro paese, e mi figuro che abbiano divisato di condurlo a questo modo per la invidia che provano della gran nominanza a cui pervenne la signoria vostra colle sue prodezze. Per ciò poi, signor padrone, voi non siete incantato, ma ingannato e imbalordito: e per prova di questo io fo adesso alla signoria vostra una domanda e s'ella mi risponde, come tengo per fermo che debba rispondermi, toccherà con mano che questo è tutto un inganno.

— Interroga, Sancio mio garbatissimo, come meglio ti piace, disse don Chisciotte, ché io ti risponderò appuntino: ma quanto alla tua opinione che sieno il curato ed il barbiere nostri patriotti quelli che ci accompagnano, benché così ti possa parere, non ti dare però a credere a verun patto che così sia realmente e quello che hai da sapere e da intendere è solo che se ad essi rassomigliano, come tu asserisci, ciò proviene perché riesce agevole agli incantatori il prendere le forme che più loro tornano a genio: e preso avranno quelle dei nostri amici per avvilupparti in un labirinto di fantasie dalle quali non ti potresti mai trarre quand'anche tu possedessi il filo di Teseo. L'avranno inoltre anche fatto perché si confonda la mente mia, né sappia trovar l'origine di questa mia fatalità; perché se mi dici da un canto che sono accompagnato dal curato e dal barbiere del nostro paese, mi trovo dall'altro rinserrato in una gabbia, eppure io so benissimo che forze umane (a meno che non fossero soprannaturali), non sarebbero state giammai sufficienti per ingabbiarmi. E che vuoi tu mai ch'io dica o pensi, se non che il modo del mio incantesimo vince quant'altri ne lessi mai in tutte le storie che trattano dei cavalieri erranti? Ora tu ben puoi darti pace e levarti dal capo che sieno quello che dici, perché tanto lo sono essi quanto io sono turco. Se fuori di questo altra cosa ti resta da dimandarmi, fammi pure le tue interrogazioni, che io seguiterò a risponderti anche sino a dimani.

— Madonna mi aiuti! sclamò Sancio; e fu sull'orlo di aggiungervi una bestemmia: è egli possibile che la signoria vostra sia di cervello sì duro e sì mancante di midollo che non si conosca ad evidenza che io non dico se non la pura verità, e che la malizia e non l'incanto è la principale cagione di questa disgrazia? Ma poiché ella è pure così, io voglio accingermi a provarle evidentemente ch'ella non è incantato altrimenti; e se non mi crede, il Signore sia quello che uscire la faccia di questo malanno e la conduca anche in braccio della mia padrona Dulcinea quando men se lo pensa.

— Finisci di scongiurarmi, disse don Chisciotte, e chiedimi ciò che brami, che io, ripeto, ti risponderò per filo e per segno.

— Questo è quello che voglio, replicò Sancio: ora la cosa che io desidero di sapere si è ch'ella mi dica senz'aggiungere o levar sillaba, ma con netta e leale verità, come spero che sarà per fare e come la dicono tutti quelli che professano l'esercizio delle armi, sull'esempio di vossignoria, vero cavaliere errante...

— Ti replico, rispose don Chisciotte, che non mentirò mai, e finiscila di tirarmi giù per le lunghe.

— Dico, soggiunse Sancio, che sono certissimo della bontà e della lealtà del mio padrone, e per questo (facendo ciò al caso nostro) gli chiedo, parlando con riverenza, se per caso dopo che vossignoria sta qui ingabbiato le è venuto mai voglia di alleggerirsi o per dinanzi o per di dietro?

— Non comprendo; disse don Chisciotte, che cosa sia questo alleggerirsi: spiegati meglio se vuoi ch'io ti risponda a dovere.

— È possibile che non intenda la signoria vostra che cosa ciò voglia dire? Eppure questo è quello che fanno tutti i bimbi appena spoppati e i ragazzi delle scuole. Farò più chiaramente la mia dimanda: non le viene mai il prurito di fare ciò che uno non può fare per un altro?

— Ora t'intendo, Sancio: sì sì, molte volte, disse don Chisciotte, e l'ho anche adesso questo prurito: anzi cavami, Sancio mio da questo pericolo, che credo certo di aver cominciato.

 


CAPITOLO XLVIII

 

TRATTASI DEGLI ASSENNATI RAGIONAMENTI TENUTI DA SANCIO PANCIA COL SUO SIGNOR DON CHISCIOTTE.

 

— Ah! disse Sancio, ho colto nel segno, e quest'è quello che io bramava sapere quanto mi è cara la vita. Ora mi dica: potrebbe negare vossignoria ciò che suol dirsi comunemente quando una persona si trova di malavoglia: Io non so che cosa abbia quel tale che non mangia, non beve, non dorme, né risponde a proposito alle dimande sì, che pare proprio un incantato? Da questa maniera di dire ne viene la conseguenza che coloro che né mangiano, né bevono, né dormono, né fanno i bisogni naturali, sono gli incantati ma non già quelli che sentono i naturali pruriti, come vossignoria, che beve se le dànno da bere, mangia quando ha da mangiare, e risponde a chi la interroga.

— Tu dici il vero, o Sancio, rispose don Chisciotte, ma io ti ho già detto che si trovano molte specie d'incantesimi; e potrebbe darsi che col variare dei tempi fossero succeduti molti cambiamenti, e che gl'incantati di questa nostra età facciano tutto quello che faccio io, quantunque per i tempi addietro non lo facessero: e devi sapere che contro l'uso dei tempi nulla c'è da sofisticare. Io so e resto convinto di essere incantato, e questo basta per tranquillità della mia coscienza, ché mi affliggerei se pensassi di non esserlo, e mi vedessi rinchiuso in questa gabbia impoltronito e codardo, defraudando del dovuto soccorso coloro che in questo momento possono aver bisogno di me.

— Contuttociò per altro, rispose Sancio, io dico che per un soprappiù e per una particolare mia soddisfazione sarebbe ben fatto che la signoria vostra s'ingegnasse di uscire di questa gabbia, al che io le darei ogni aiuto, e che poi tentasse di montare sopra Ronzinante, il quale sembra pur egli incantato, tanto sta malinconioso ed afflitto. Fatto questo, noi farem prova di andare un'altra volta a cercare nuove avventure; e se ci riuscissero male, ci resterà sempre tempo di tornare nella gabbia maledetta, dove prometto in fede di buono e leale scudiere di rinchiudermi unitamente alla signoria vostra, se per caso foss'ella tanto disgraziata, o io sì dappoco che mi mancasse l'animo di eseguire quanto suggerisco.

— Sono contento di fare quello che dici, fratello Sancio, replicò don Chisciotte; e quando tu vegga l'occasione di mettermi in libertà, io farò a modo tuo: ma tu vedrai quanto t'inganni nella vera conoscenza della mia disgrazia.”

S'intertennero il cavaliere errante e il mal errante scudiere in siffatti ragionamenti, finché arrivarono ove già smontati li attendevano il canonico, il curato e il barbiere. Staccò il carradore i buoi e lasciolli andare al pascolo a loro piacimento per quel verde ed ombroso luogo, la cui frescura invitava a goderne non tanto le persone incantate come don Chisciotte, quanto le accorte e bene avvertite come il suo scudiere. Pregò questi il curato che lasciasse uscire alcun poco di gabbia il suo padrone, perché se non lo permettesse non sarebbe rimasta sì asciutta quella prigione quanto esigeva la decenza d'un tanto cavaliere qual'era il suo padrone. Comprese il curato l'oggetto della dimanda, e gli disse che ben volentieri lo avrebbe compiaciuto s'egli si fosse costituito garante che il suo padrone vedendosi in libertà non farebbe delle sue, e non anderebbe in parte dove poi fosse impossibile raggiungerlo.

— Guarentisco io che non fuggirà, rispose Sancio.

— Io pure fo lo stesso per tutto quel che potesse succedere, disse il canonico, quand'egli mi dia parola da cavaliere di non iscostarsi da noi, finché non glielo permettiamo.

— Sì, do la mia parola, rispose don Chisciotte, che stava con gli orecchi tesi ascoltando ogni cosa, e tanto più quanto che colui ch'è incantato come sono io, non ha libertà di disporre a piacere della sua persona, perché l'incantatore può fare che non si muova da un luogo all'altro in tre secoli; e poi se fuggisse lo farebbe tornar indietro volando.”

Allora il canonico si fece dare la mano, benché don Chisciotte le tenesse ambedue legate, e sulla sua fede e parola fu cavato fuori dalla gabbia colla più viva soddisfazione. La prima cosa ch'ei fece fu lo stirarsi tutto il corpo; poi andò a visitare il suo Ronzinante, e dandogli due palmate sulla groppa, gli disse:

— Ripongo ancora le mie speranze nel Cielo, o vero specchio dei palafreni, che presto giugneremo ambedue alla meta dei nostri desiderî, tu portando il tuo signore, ed io montando sopra di te ed esercitando l'officio per cui Dio mi ha mandato al mondo.”

Ciò detto, si appartò alcun poco con Sancio, poi ritornò dove gli altri lo attendevano, molto più lieto di prima, e con vivissima brama di eseguire quanto gli fosse ordinato dal suo scudiere. Lo guardava il canonico, e maravigliavasi della stranezza delle sue pazzie. Nelle proposte e risposte egli dimostrava un retto discernimento, ma usciva affatto dal seminato (come altre volte si disse), soltanto quando trattavasi di cose di cavalleria. Mosso pertanto il canonico da compassione, e dopo essersi tutti posti a sedere sul prato, aspettando il cibo, così prese a dire:

— È egli possibile, signor cavaliere, che sì gran potere abbia avuto sopra vossignoria la trista e oziosa lettura dei libri di cavalleria da averle tolto il giudizio per modo da farle credere di essere incantato, con altre cose di tal natura tanto lontane dal probabile come lo è la menzogna dalla verità? E come può darsi mai umano intelletto, il quale si persuada che sia vissuta al mondo una infinità di Amadigi e una moltitudine di cavalieri e tanti imperadori di Trebisonda e tanti Felismarti d'Ircania, e tanti palafrenieri, e tante erranti donzelle, serpi, fantasime, giganti, e inaudite avventure, e tante specie d'incantesimi e battaglie e furiosi incontri, e tanta bizzaria di vestiti, e tante principesse innamorate, e tanti scudieri, conti e nani, e tante lettere e tanti concetti amorosi, e tante gagliarde donne, finalmente tante e sì spropositate cose come sono quelle che nei libri di cavalleria si contengono? Io so dire di me che leggendoli, quando considero che sono tutte bugie e frivolezze, mi dànno qualche piacere; ma se richiamo alla mente quello che sono in realtà, butto contro alla muraglia il migliore ch'io mi abbia, e lo gitterei anche sul fuoco come ben meritevole di tanto castigo. Giunge questa razza di opere sino all'ardire di turbare gli ingegni dei giudiziosi e ben nati cittadini; di che n'è prova lo stato presente di vossignoria, che hanno ridotto a tale da essere necessario di rinchiuderla in una gabbia, conducendola sopra un carro tirato da buoi, come si trascina un qualche leone o una qualche tigre da paese a paese per farvi sopra guadagno col mostrarli alla gente. Eh via, signor don Chisciotte, combatta le sue opinioni, rimettasi alla ragione, e si valga in suo pro di quella discrezione di cui lo ha favorito il Cielo, impiegando il felicissimo suo talento in altre letture che tornino a giovamento della sua coscienza e ad ingrandimento del suo onore. Che se per secondare una inclinazione spontanea si sente portata ad occuparsi nella lettura di prodezze e di opere di cavalleria, legga nella Sacra Scrittura il Libro dei Giudici e vi riscontrerà verità maravigliose e fatti stupendi tanto, quanto magnanimi. Vantano poi un Viriato la Lusitania, Roma un Cesare, Cartagine un Annibale, un Alessandro la Grecia, un conte Fernando Gonzales la Castiglia, un Cid la Valenza, un Gonzalo Fernandez l'Andalusia, un Diego Garzia di Parades la Estremadura, Xeres un Garzia di Perez de Vargas, e un Garcilasso Toledo, e un don Manuel di Leone Siviglia, le cui mirabili gesta leggendo, potrà procacciarsi trattenimento, istruzione, diletto e ammirazione nel considerare il merito d'ingegni grandemente elevati. Questa sì che sarà lettura degna del suo retto discernimento, signor don Chisciotte mio, e ne verrà erudito nella storia, innamorato della virtù, ammaestrato nella bontà, migliorato nei costumi, valoroso senza temerità, ardito senza audacia; e tutto ciò ad onore di Dio, e ad utilità sua particolare, non meno che ad onore e gloria della Mancia, di dove per quanto ho inteso, la signoria vostra trasse la sua origine.”

Stette don Chisciotte attentissimo ad ascoltare il ragionamento del canonico, e quando vide che avea terminato, dopo averlo lungamente guardato in volto, gli disse:

— Sembrami, signor canonico, che il suo discorso tenda a farmi credere che non abbiano avuto mai esistenza al mondo i cavalieri erranti e che i libri tutti di cavalleria sieno falsi, bugiardi, nocivi ed inutili alla repubblica. Ella aggiunge ch'io ho fatto male nel leggerli e peggio nel prestarvi fede, e più male ancora nell'imitarli, intrapreso avendo di farmi seguace della durissima professione della errante cavalleria da essi insegnata; e nega che siano mai vissuti gli Amadigi o di Gaula, o di Grecia, o verun altro di quei cavalieri dei quali vanno piene le istorie.

— Così per lo appunto, come va ripetendo la signoria vostra, rispose il canonico.” Don Chisciotte allora soggiunse.

— Vossignoria disse altresì che mi avranno recato molto danno siffatti libri coll'avermi fatto uscire di senno e ridotto ad essere rinserrato in una gabbia, e che sarebbe per me più saggio partito di farne l'ammenda, cambiando lettura ed applicandomi a quella di libri più utili, e da poterne trarre più istruzione e diletto.

— Così è, disse il canonico.

— Sappia, replicò don Chisciotte, che io tengo per fermo che ella e non io sia il pazzo e l'incantato, avendo proferite tante bestemmie contro una verità sì ricevuta nel mondo, e tenuta per tanto sincera, che chi la negasse, come fa vossignoria, si meriterebbe la pena medesima che dic'ella di statuire a quei libri quando li legge e le vengono a noia. La ragione di questo si è che lo accingersi a dimostrare a chicchessia che non furono al mondo Amadigi, né tutti gli altri cavalieri di ventura, dei quali vanno piene zeppe le storie, sarebbe lo stesso come voler provare che il sole non illumini, il gelo non agghiacci, né la terra ci sostenga: e di fatto, quale sottile ingegno può mai darsi quaggiù che giunga a persuadere altrui che non sia vero ciò che accadde nel tempo di Carlomagno alla infanta Florida con Guy di Borgogna, e ciò che raccontasi di Fierabrasse sul ponte di Mantible? Giuro a Dio che tutto questo è tanto vero, com'è chiaro giorno in quest'ora. Che s'ella spaccia ogni cosa come menzogna, sarà falso per la stessa ragione che sieno stati mai Ettore, Achille, la guerra di Troia, i dodici Paladini di Francia e il re Artù d'Inghilterra, il quale vive tuttora ma trasformato in corvo, ed è atteso di momento in momento il suo ritorno al suo regno. Bisognerà osare egualmente di asserire che bugiarda sia la storia di Guerino il Meschino e quella della conquista di Santo Griale; che sieno apocrifi gli amori di don Tristano e della regina Isotta, e quelli di Ginevra con Lancilotto, benché viva tuttora chi quasi ricordasi di avere conosciuta la matrona Chintagnona, che fu la miglior mescitrice di vino che mai avesse la Gran Bretagna: ed è ciò tanto vero che mi diceva una mia nonna da parte di padre, ogni volta che essa vedeva una qualche matrona vestita con manto: “Quella, nipotino mio, pare proprio la matrona Chintagnona;” dal che arguisco, che la dovette conoscere di persona o averne almeno veduto qualche ritratto. Chi negare potrà mai che vera sia la storia di Pietro e della bella Magalona, quando fino ai dì nostri si vide nell'armeria del re il bischero con cui si voltava il cavallo di legno che portava per aria il valoroso Pietro: bischero da considerarsi più grande di un timone da carretta? Non vedesi ancora accanto a questo bischero la sella di Babieca, ed in Roncisvalle il corno di Orlando, lungo quanto una trave? Da tali fatti dobbiamo concludere necessariamente che vissero i dodici Paladini, che v'ebbe un Pietro, un Cid ed altri cavalieri di tal genere, di quello cioè che dicono le genti che va cercando venture. Se non si vuole concedermi neppur questo, domando io: non è verità forse che fu cavaliere errante il valoroso Lusitano Giovanni di Merlo, il quale recossi in Borgogna e venne a singolare tenzone nella città di Ras col famoso signor di Ciarnì, chiamato Mossen Pierre, e dopo nella città di Basilea con Mosè Enrico di Remestan, riuscendo trionfante da ambedue queste imprese e carico di gloria e celebrità? Che dirò io delle avventure e delle disfide che incontrarono in Borgogna i valorosi spagnuoli Pietro Parba e Gutierre Chisciada (dal cui lignaggio per linea retta maschile io discendo) i quali trionfarono dei figli del conte di San Polo? Mi si neghi adesso che don Fernando di Guevara andasse in Germania a cercar avventure, e così però che venisse a sanguinosa battaglia con messer Giorgio cavaliere della casa del duca d'Austria! Dicasi che sono state burle le giostre di Suero Chignones del Passo, le gesta di don Mossen Luigi di Falces contra don Gonzalo di Gusman, cavaliere castigliano, e tante e tante altre imprese compite da cavalieri cristiani di questi o dei regni stranieri, sì autentiche e vere che, torno a dire, chi si facesse a negarle mancherebbe affatto di senso comune e di ogni maniera di buon ragionare.”

Restò il canonico maravigliato di udire come don Chisciotte andasse affastellando verità e menzogne; e vedendo la piena cognizione che aveva delle cose spettanti alla sua errante cavalleria, gli rispose:

— Negare non posso, signor don Chisciotte, che contengono verità alcune delle cose dette da vossignoria, e quelle in ispecial modo che risguardano i cavalieri spagnuoli. Concederò che sieno vissuti i dodici Paladini di Francia, ma non crederò mai che abbiano fatte quelle cose che l'arcivescovo Turpino scrive di loro; mentre la verità può consistere nell'essere eglino stati bravi cavalieri e scelti dai re di Francia, e da loro chiamati Pari per essere tutti eguali nel valore, nella condizione e nel coraggio: che se pure non lo erano in fatto, ragione vuole che si creda che lo fossero, sussistendo allora una tal qual religione alla foggia della nostra di San Jacopo o di quella di Calatrava, i cui seguaci si suppone che debbano essere cavalieri valorosi, intraprendenti e bennati: e come dicesi presentemente, cavaliere di san Giovanni o d'Alcantara, diceano a quel tempo, cavaliere dei dodici Paladini; perché furono dodici Pari i trascelti per lo esercizio della religione militare: quanto poi al Cid, non v'ha dubbio che vi è stato, siccome ancora Bernardo del Carpio, ma per ciò che riguarda le loro prodezze si narrano infinite esagerazioni. Finalmente per quanto spetta al bischero, che dice vossignoria essere stato usato dal conte Piero e che attualmente sta accanto alla sella di Babieca nell'armeria del re, io confesso il difetto mio di essere sì ignorante o tanto corto di vista che sebbene abbia veduto la sella, non mi venne mai fatto di scorgervi il bischero, quantunque tanto smisurato quanto vossignoria lo ha descritto.

— Ed io vi dico che vi è sicuramente, replicò don Chisciotte, e per maggiore contrassegno affermerò ch'è riposto in una tasca di vacchetta perché la muffa non lo guasti.

— Tutto può essere, rispose il canonico, io però giuro che non mi ricordo di averlo veduto: ma concediamo pur che vi sia, non per questo mi obbligherò a credere che siano vissuti tanti Amadigi, né tanta turba di cavalieri come si racconta, né v'è ragione che un uomo delle qualità che voi possedete, sì pieno di onore e dotato di sì fino discernimento si dia a credere che sieno vere tante e sì strane pazzie, come sono quelle che stanno scritte negli spropositati libri di cavalleria.

 


CAPITOLO XLIX

 

DI ALTRE CONTROVERSIE SEGUITE FRA DON CHISCIOTTE ED IL CANONICO, E DI ALTRI SUCCESSI.

 

— Voi le dite grosse davvero! sclamò don Chisciotte. E che? i libri che s'imprimono colla licenza del re e coll'approvazione dei suoi delegati, e che con generale soddisfazione vengono letti e celebrati dai grandi e dai piccoli, dai poveri e dai ricchi, dai letterati e dagli ignoranti, dai plebei e dai nobili, e finalmente da ogni qualità di persone, qualunque ne sia il loro stato, hanno da essere bugiardi? E non varrà a difenderli quella tanta limpidezza di verità di cui sono rivestiti, facendoci conoscer il padre, la madre, la patria, i parenti, delle persone, e il tempo e il luogo delle prodezze narrate, punto per punto, giorno per giorno, secondo che furono eseguite da uno o da più cavalieri? Taccia vossignoria, né pronunci sì grosse bestemmie, ma dia retta a quello a cui la consiglio come prudente; e se si vuol persuadere li legga, e vedrà quale diletto ne ricaverà. Per provarle poi col fatto quanto io espongo, mi risponda se può darsi più vivo piacere di quello dell'immaginare di vedersi innanzi un gran lago di pece che bolle a ricorsoio ed in cui vanno nuotando e guizzando in qua e in là e lucertole e serpenti e tante altre sorti di feroci e spaventevoli bestie! Dal bel mezzo del lago mi pare di udire una triste voce che dice: O tu, cavaliere qualunque ti sia, che stai mirando il lago terribile, se giunger brami a vedere il bene che è di sotto a queste nere onde non saresti degno di mirare le alte meraviglie che in queste acque si ascondono; mostra l'ardimento del coraggioso tuo cuore, balza in mezzo al suo nero e ribollente liquore, perché altri ne rinchiudono e contengono i sette castelli delle sette Fate, che giacciono sotto questa nerezza! Intesa appena dal cavaliere del Lago la voce terribile, senza altre riflessioni e senza por mente al pericolo che va ad affrontare, e senza nemmeno alleggerirsi del peso delle forti sue armi, raccomandandosi a Dio e alla sua signora, si precipita in mezzo al bollente lago, e quando né pensa né sa quale debba essere il suo porto, si trova in mezzo a floridi campi in confronto dei quali nulla sono gli Elisi. Ivi scorge più trasparente il cielo e più rilucente il sole; e gli si offre alla vista una deliziosa foresta, rivestita di alti e frondosi arbori che colla loro verdura consolano gli occhi: ivi sorprendono l'udito col canto dolcissimo ed innocente piccioli ed infiniti dipinti augelli che per gl'intrecciati rami vanno saltellando. Scopresi in poca distanza un ruscello le cui fresc'onde somiglianti a liquidi cristalli, vanno scorrendo sulla minuta rena, che quasi gareggia coll'oro forbito e colle più candide perle. Ammirasi da altra parte una fonte artifiziosa di variato diaspro e di liscio marmo formata; ed altrove una ne sorge dove i minuti nicchi delle telline con le torte variopinte case e con chiocciole in bel disordine collocate mostrano fra loro frammischiati pezzi bellissimi di cristallo e di contraffatto smeraldo componenti uno svariato lavoro, di maniera che la natura sembra vinta dall'arte, sua imitatrice. In altro canto si eleva un forte castello, o superbo palagio, le cui muraglie sono di oro massiccio, i merli di diamanti, di giacinti le porte, e di stupenda archittettura costrutto, che sebbene la materia che lo compone sia tutta diamanti e carbonchi e rubini e perle e oro e smeraldi, è nondimeno vinta assai dal lavoro. Resta poi a vedersi dopo sì grandi maraviglie altra cosa che più di tutte esilara e rallegra, ed è l'uscita dalle porte del castello di un gran numero di donzelle, i cui vaghi e ricchi vestiti se fossero da me descritti come li troviamo nelle storie, sarebbe un non finirla mai più! Ecco là l'ardito cavaliere che, balzato nel lago, è preso per mano da quella delle donzelle che sembra la più speziosa, la quale seco lo guida, senza dischiuder le labbra, dentro la ricca torre o castello. Dov'egli è profumato e rivestito di sottilissimo bisso, e riceve un largo manto, il cui valore è quanto quello di una bella città, ed anche più. Che descrizione può mai darsi più deliziosa di quando leggiamo che la donzella predetta ed un'altra sua compagna lo conducono in una sala dove stanno apparecchiate le tavole così simetricamente disposte da restarne egli stupefatto e trasecolato? Oh il bell'istante quando gli danno nelle mani un'acqua tutta ambra, e di rarissimi fiori distillata! quando lo assidono sopra una sedia di avorio! quando tutte le donzelle amorosamente lo servono serbando un rispettoso silenzio! quando gli apprestano tanti diversi cibi e tanto saporitamente conditi, che l'appetito non sa più per quale decidersi! E poi che diremo di quella musica che durante il pranzo soavemente risuona da per tutto senza sapere donde proceda? Quando è terminato il mangiare, e sparecchiate le tavole, resta il cavaliere appoggiato sulla sua sedia ripulendosi i denti a suo bell'agio ed entra intanto alla impensata per la porta della sala un'altra donzella molto più vaga delle altre, e si asside allato di lui, ed imprende a narrargli che un castello si è quello dov'egli si trova, e ch'ella vi sta incantata, con altre cose che fanno stupire il cavaliere, e destano ammirazione, in tutti quelli che leggono la sua istoria. Non vo' dilungarmi da vantaggio, perché dal poco che ho detto si può inferire che qualunque parte si legga di ogni storia di un cavaliere errante, debb'essa produrre stupore o diletto; e credami vossignoria, come altra volta le ho detto, legga questi libri, e vedrà dileguarsi ogni melanconia che la opprimesse, e rendersi migliore la sua condizione comunque affannosa. Se deggio parlare di me, io posso affermare che dal tempo in cui mi sono applicato all'esercizio della errante cavalleria mi trovo valoroso, cortese, liberale, gentile, generoso, splendido, audace, piacevole, paziente, sopportatore di fatiche, di prigionie, d'incanti: e tuttoché io mi sia veduto poco fa rinserrato in una gabbia come un pazzo, penso, nondimeno, mercé il valore del mio braccio e col favore del Cielo, che mi vedrò fra pochi giorni re di qualche regno, dove mi si aprirà il campo di mostrare la grandezza e la magnanimità del generoso mio cuore. Io ho osservato, o mio signore, che il povero resta inabile a poter palesare la virtù della liberalità con chicchesia: benché egli la possegga in grado eminente. Quella gratitudine che consiste nel solo desiderio è cosa morta; e questa è la ragione per cui io vorrei che la fortuna mi presentasse senza indugio qualche opportunità di poter diventare un imperatore, poiché io mostrerei il mio animo beneficando gli amici. Allora sì, ch'io avrei specialmente a cuore questo poveretto di Sancio Pancia mio scudiere, ch'è il più buon uomo del mondo, e a cui io vorrei regalare una contea, che gli ho promessa da molto tempo, benché qualche volta io dubiti ch'egli sia per essere poi da tanto da governare il suo nuovo Stato.”

Udì Sancio queste ultime parole del suo padrone, e gli disse: “Procuri pure vossignoria, signor don Chisciotte, di regalarmi questa contea tante volte da lei promessa quante da me desiderata, e posso assicurarla che mi trovo capacissimo a governarla: e quando anche nol fossi, ho sentito a dire che vi sono degli uomini i quali prendono in appalto gli Stati dei gran signori, pagandone un tanto all'anno, e si danno la briga di governare essi, e frattanto se ne sta il padrone a panciolle godendo la rendita senza pigliarsi pure un fastidio. Io mi regolerò a questo modo, né guarderò le cose per lo minuto, ed anzi, preso ch'io abbia il governo, comincierò dall'abbandonarlo un poco per volta, finché poi lo rinuncerò affatto per godermi le mie entrate come un duca, e ci pensi chi ci vuol pensare.”

— Questo, fratello Sancio, disse il canonico, si riferisce unicamente al godimento delle rendite; ma l'amministrazione della giustizia appartiene tutta al signore dello Stato, ed è qui dove fa duopo sfoggiare l'abilità ed il giusto discernimento, e principalmente la buona intenzione di fare le cose con rettitudine: che se ciò manca al principio, andranno sempre errati il mezzo ed il fine; ed è per questo che suol aiutare Iddio il buon desiderio del semplice ed opporsi al cattivo dell'uomo falso ed astuto.

— Io non m'intendo di queste filosofie, rispose Sancio Pancia, e solo posso ripetere che sia pure presta a venire la contea, che già mi tengo da tanto da saperla ben governare, avendo tant'animo quanto un altro, e tanto corpo quanto un altro, anche più grande di me: e tanto sarei re del mio Stato come ciascun uomo del suo, ed essendolo, farei quello che fosse di mio volere; e facendo le cose di mia volontà, farei quello che mi piacerebbe, io mi troverei uomo contento; trovandomi uomo contento, non mi resterebbe cosa da desiderare; e non restandomi cosa da desiderare, non occorre altro: venga lo Stato e addio e a rivederci, come disse quel cieco all'altro che non ci vedeva.

— Questa non è cattiva filosofia, come voi dite, o Sancio, replicò il canonico; con tutto ciò vi sarebbe molto da dire intorno a queste contee.”

Soggiunse allora don Chisciotte:

— In somma io non saprei che cosa più occorrere possa, e mi rimetto all'esempio del grande e non mai abbastanza lodato Amadigi di Gaula, che fece conte dell'Isola Ferma il suo proprio scudiere. Per i meriti stessi posso ben io senza scrupolo di coscienza eleggere conte Sancio Pancia, ch'è uno dei migliori scudieri che mai vantasse cavaliere errante.”

Restò attonito il buon canonico dei regolari spropositi (se li spropositi aver possono regolarità) che don Chisciotte aveva detto; del modo con cui aveva dipinta la ventura del cavaliere del Lago; della impressione fatta in lui dalle menzogne dei libri che aveva letti: lo rendevano poi stupito soprattutto le sciocchezze di Sancio che con tanto coraggio desiderava di pervenire alla contea promessagli dal suo padrone.

Ma erano già di ritorno colla vettovaglia i servitori del canonico, i quali aveano condotto le cavalcature all'osteria per riposare. Apprestaronsi le tavole, o per meglio dire si distese un tappeto sopra la verde erbetta del prato, dove si assise la brigata all'ombra degli alberi più frondosi, né si volle prescegliere altro sito affinché i carradori non perdessero la opportunità per lo pasto dei loro buoi.

Mangiavano tutti di buona voglia, quando inaspettatamente udirono un gran fracasso ed un suono di campanello che veniva dalle folte macchie vicine. Videro nel tempo istesso uscire da quei cespugli una bella capra che aveva la pelle chiazzata di nero, bianco e bigio, e dietro a questa un capraio chiamandola, e alla sua usanza invitandola, che si fermasse e ritornasse al branco. La fuggitiva capra, corse alla volta della gente quasi domandasse aiuto, e si fermò. La raggiunse il capraio, e prendendola per le corna la sgridò dolcemente come se fosse stata capace d'intenderlo, dicendole così:

— Ah vagabonda vagabonda, schiazzata schiazzata che sei! e com'è che oggi zoppichi? Non ti spaventano i lupi, figliuola? Mi dirai tu che no, mia vezzosa? Ma veramente, quale stupore? tu sei femmina e non puoi startene quieta; che maledetta sia la condizione tua e di tutte quelle che t'imitano. Tornati, amica, tornati se non contenta, sicura almeno nella tua stalla e colle tue compagne; ché sei tu che le devi guardare ed essere a loro guida; ma se ti sbranchi che sarà mai di loro?”

Le parole del capraio erano un piacere di quanti le udivano, ma singolarmente del canonico, che replicò:

— Via, via, fratello, acchetatevi un poco, né vogliate darvi sì gran fretta per obbligar la capra a tornarsi al suo gregge, che essendo ella femmina, come voi dite, ha da seguitare naturale suo istinto per quanto voi vi sforziate ad opporvele. Pigliate questo boccone, bevete un poco per ammorzare la collera, e riposerà frattanto la capra.”

Così dicendo gli porse sulla punta del coltello un pezzo di coniglio freddo. Lo prese il capraio, si mostrò grato, bevette alquanto, e deposto ogni dispetto disse:

— Non vorrei che per avere io parlato con questa bestia come se fosse una creatura ragionevole, le signorie vostre mi avessero in conto di scimunito, perché in verità non furono senza un'arcana ragione le parole che ho dette; io sono un villano, è vero, ma so bene come si dee procedere cogli uomini e colle bestie.

— Lo credo senza verun dubbio, soggiunse il curato, perché la sperienza mi ammaestra che le montagne producono uomini di sapere ed anche nelle capanne pastoreccie alberga la filosofia.

— Se non altro accolgono, replicò il capraio, uomini sperimentati; e perché tenghiate per vera questa mia sentenza, e la tocchiate con mano, quantunque io vegga di trovarmi a convito senza essere invitato, pure se non vi dispiacesse ascoltarmi, vorrei alle brevi raccontarvi una istoria che confermerebbe ciò che questo signore (accennando il curato) ha detto.”

Rispose don Chisciotte:

— Supponendo che la vostra istoria contenga in sé l'apparenza di un'avventura cavalleresca, io, quanto a me, ne ascolterò ben volentieri, e vi ascolteranno eziandio questi signori: cominciate dunque, amico mio, che noi tutti vi presteremo ogni attenzione.

— Tranne però la mia persona, disse Sancio, che me ne vado con questo poco di cibo a quel fiumicello perché voglio prenderne una corpacciata da restarne satollo per tre giorni interi: tanto più che ho udito dire dal mio signor don Chisciotte, che lo scudiere del cavaliere errante ha da mangiare quando può a crepapancia, potendo accadergli di entrare in una selva sì folta da non saperne uscire in sei giorni; e se l'uomo non è sfamato, o non ha le bisacce ben provvedute, può restarsene, come qualche volta accade, simile ad un pezzo di carne di mummia.

— Tu cogli nel segno, o Sancio, don Chisciotte soggiunse: vattene dove ti piace, e mangia a sazietà, che io mi trovo già empiuto, e non mi resta altro che pascere lo spirito, lo che farò ascoltando la storia di questo buon uomo.

— Faremo lo stesso noi pure, disse il canonico, e pregò il capraio a dare principio a quanto aveva promesso. Il capraio diede due palmate sui fianchi alla capra che tenea per le corna dicendole:

— Statti vicina a me, chiazzata, che avremo poi tempo di ritornare al nostro gregge.”

Parea che la capra lo intendesse, perché nell'assidersi che fece il padrone, si distese accanto a lui agiatamente, e lo guardò in faccia come se volesse stare attenta alle parole del capraio, il quale cominciò così la sua narrazione.


CAPITOLO L

 

IL RACCONTO DEL CAPRAIO A DON CHISCIOTTE ED AI SUOI COMPAGNI.

 

A tre leghe da questa valle si trova una Terra picciola ma delle più ricche di questi contorni, nella quale viveva un contadino sì avventurato, che quantunque le ricchezze si tirino dietro gli onori, era egli però più pregiato per le virtù che lo adornavano che per le possedute dovizie. Quello che formava sopra ogni altra cosa la sua felicità, si era l'avere una figliuola di singolare bellezza, di raro giudizio, graziosa e piena di virtù; di maniera che egli, che la conosceva e la custodiva, non poteva a meno di non essere contento nel veder i doni speciosi dei quali il cielo e la natura l'aveano arricchita. Era bella fin da bambina. Nell'età di sedici anni cominciò a spargersi la fama di tanti pregi per tutte le terre circonvicine: ma che dico io per le circonvicine, quando si estese alle città più lontane, penetrò fino nelle reggie e si rese nota ad ogni genere di persone, che da ogni parte accorrevano a vederla come cosa rara o immagine prodigiosa? Era custodita dal genitore, o a meglio dire era essa custode di sé medesima.

Le dovizie del padre e la leggiadria della figliuola mossero molti così del paese come forestieri a domandarla in isposa; ma egli stavasene dubbioso, né sapeva determinarsi a cui dovesse concederla. Fra i molti pretendenti io fui quell'uno al quale diedero molte e grandi speranze l'essere conosciuto pienamente dal padre suo, del suo stesso paese, di buona stirpe, in età florida, ricco di sostanze e dotato di buon ingegno. La chiese un altro del paese medesimo, il quale potendo gareggiar meco nelle stesse qualità tenne in bilancia la volontà del padre, cui pareva bene accasata la figliuola con ognuno di noi due. Per uscire di sua incertezza stabilì di significare a Leandra (è questo il nome di colei che mi rende infelice) ch'essendo ambedue noi eguali nel merito amava ch'ella scegliesse a sua voglia. Cosa degna d'essere imitata dai genitori tutti che vogliono dare uno stato ai loro figliuoli. Non dico già che essi debbano lasciar loro l'arbitrio di seguitare il proprio capriccio, ma non vietare di scegliere tra molti buoni partiti quello che loro più aggrada. Non so dire per chi inclinasse Leandra; ma il padre ci teneva dubbiosi mettendo in campo la soverchia gioventù della figlia con espressioni generali che né lui obbligavano, né tampoco noi altri disobbligavamo.

Il mio rivale chiamasi Anselmo, io Eugenio e ciò vi dico perché vi sieno palesi i nomi delle persone che sono gli attori di una tragedia, il cui fine è tuttora pendente, ma già è certissimo che dovrà essere infelicissimo. In questo tempo ritornò al paese certo Vincenzo dalla Rocca figlio di un povero contadino dello stesso luogo il quale aveva militato in Italia e in altre parti. Lo tolse dalla sua casa un capitano, che si abbatté a passare di qua colla sua compagnia quand'egli contava l'età di dodici anni; e tornò il giovane dopo altri dodici splendidamente vestito da soldato, pieno di guernimenti di cristallo e di sottili collane di acciaio. Oggi si adornava ad una foggia, domani ad un'altra, sempre però con molta bella apparenza e con poca spesa. I contadini che sono maliziosi naturalmente, gli posero gli occhi addosso, scandagliarono con esattezza le sue gale e le sue gioie, e si accorsero che i suoi vestiti non erano più di tre, ma che egli dava loro tante e sì varie forme che potevan parere infiniti. Non vi maravigliate se vi trattengo intorno ai vestiti, giacché formano essi gran parte della presente istoria.

Soleva egli sedersi sul muricciuolo ch'è sotto il palazzo grande della nostra piazza; e quivi, raccontando le sue prodezze, faceva stare ognuno a bocca aperta per ascoltarlo. Non v'era paese nel mondo che non avesse veduto, né battaglia dove non si fosse trovato: aveva ammazzati più Mori che non sono in Marocco e in Tunisi, e fatte, a suo dire, più singolari disfide che Gante e Luna, Diego Garcia de Parades e mille altri che nominava; e di tutte era uscito vittorioso senza aver perduta mai una sola goccia di sangue. Mostrava poi cicatrici, che quantunque non si potesse distintamente conoscere che cosa fossero, le millantava come archibugiate avute in differenti incontri e fazioni. Finalmente con insolita arroganza dava del tu ai pari suoi e a tutti coloro che lo conoscevano, e diceva che non aveva altro padre che il braccio, altro lignaggio che le sue azioni, e che quantunque soldato, al re medesimo non la cedeva. Aggiungasi a tanta sua arroganza che egli conosceva un pocolino la musica e sapeva pizzicare una chitarra in modo che, secondo alcuni, la faceva parlare.

Ma questa non era la sola sua dote, poiché componeva anche in poesia, e ad ogni bagatella che accadesse nel paese, faceva una canzone lunga una lega e mezzo. Questo soldato che vi ho dipinto, questo Vincenzo dalla Rocca, questo bravo, questo galante, questo musico, questo poeta fu parecchie volte veduto ed ammirato da Leandra da una finestra della sua casa ch'era posta di rimpetto alla piazza. L'orpello dei suoi vaghi vestiti giunse ad innamorarla, e l'ammagliarono le sue canzoni, di ognuna delle quali disseminava venti e più copie. Le arrivarono all'orecchio le imprese ch'egli di sé medesimo raccontava, e finalmente (avendo il demonio così disposto) s'innamorò di lui prima ch'egli avesse l'animo a vagheggiarla. Siccome nelle galanterie non ve n'ha alcuna che più facilmente si compia di quella in cui la donna è d'accordo, così accadde che speditamente convennero Leandra e Vincenzo del loro amore: e prima che alcuno di noi potesse sospettar nemmeno della forza delle sue brame, essa le aveva di troppo compite, abbandonando la casa dell'amato e solo suo genitore, ed allontanandosi dal paese in compagnia del soldato.

Estrema fu la maraviglia di tutto il paese e di quelli a cui fu noto il successo; io restai affatto fuori di me, Anselmo attonito, doglioso il padre, svergognati i parenti. Ma furono incrocichiate le strade, visitati ovunque i boschi e le macchie, ed a capo di tre giorni si trovò la capricciosa Leandra in una grotta, deserta e senz'alcuna delle gioie che aveva rubate nella casa paterna.

Fu ricondotta all'afflitto padre, e le fu chiesto conto del suo trascorso. Confessò senza velo di essere stata indotta in inganno da Vincenzo dalla Rocca, il quale con promessa di farla sua sposa, la rapì alla casa paterna promettendole che l'avrebbe condotta in Napoli, una delle più ricche e deliziose città del mondo; ed essa mal consigliata e peggio ingannata gli aveva dato fede. Vincenzo guidata l'aveva nelle gole di una dirupata montagna, e poi lasciatala in quella grotta dove fu rinvenuta. Disse e affermò che il soldato senza farle altra offesa l'aveva spogliata e fuggito si era, abbandonandola a sé medesima. Questo alleviò in parte il dolore dello sconsolato padre a cui nulla pesavano le perdute ricchezze, quando ricuperava incontaminata la figlia.

Lo stesso giorno in cui ricomparve Leandra, suo padre la rinserrò nel monastero di una città qui vicina, aspettando che il tempo distruggesse in parte la mala opinione ch'erasi meritata. E valse appo alcuni a scolparla la molto giovanile età; ma altri persistevano a dire che, dotata com'era di precoce ingegno, aveva con quel fatto mostrata pur troppo la sua inclinazione. Rinchiusa Leandra nel chiostro, Anselmo rimase cogli occhi ciechi per non avere cosa che guardandola gli piacesse, ed i miei pure restarono nelle tenebre, e privi di ogni sorta di contentezza. Con l'assenza di Leandra cresceva la nostra tristezza, andava scemando la nostra tolleranza, maledicevamo le seduzioni e gli sforzi del soldato, ed era da noi detestata la poca riserbatezza della donzella. Finalmente Anselmo ed io prendemmo di concerto la risoluzione di abbandonare il paese, e di venircene in questa valle dove col pascere un branco di pecore, di cui egli è padrone, ed un branco di capre, che sono mie, noi passiamo la vita tra queste piante, cantando per obblìo od alleviamento dei nostri amori, ora le lodi, ora i biasimi della vaga Leandra, e sospirando fra noi soli, o soli comunicando col cielo le nostre querele.

A nostro esempio molti altri pretendenti della giovinetta sono venuti ad abitar in queste montagne, e vi si esercitano come noi, e tanti sono essi che sembra trasformato questo sito nella pastorale Arcadia: sì esso è popolato di pastori e di greggi, né v'ha angolo che non risuoni del nome della nostra tiranna. Questi la maledice, la chiama quegli volubile, inconsiderata, inonesta: uno la condanna per facile e per leggera; altri la assolve e le perdona, e tal altro la incolpa e vitupera: chi celebra la sua bellezza, chi maledice la sua indole: in fine tutti la detestano e tutti l'adorano, e tanto distendesi la follìa che v'ha chi si sdegna di lei senz'averle parlato mai, e chi si lamenta e prova la rabbiosa infermità della gelosia.

Non avvi cavità di rupe o margine di ruscello, od ombra di arbore non occupati da qualche pastore che racconta ai venti le sue sventure; l'eco, dovunque può, ripete il nome di Leandra, Leandra risuonano le montagne; Leandra vanno mormorando le fonti; e Leandra ci ha tutti incantati, aspettando senza speranza, e temendo senza conoscere la cagione del nostro timore.

Tra tanti ubbriachi di amore quello che meglio di ogn'altro si conduce e che spiega buon giudizio è il mio rivale Anselmo, il quale avendo tante ragioni di lamentarsi, duolsi però unicamente della lontananza, e al suono di un ribecchino, che gli risponde per eccellenza, esprime le sue querele con versi nei quali mostra il felice suo ingegno. Io mi appiglio al più agevole partito, e a parer mio più sicuro, ed è quello di condannare la leggerezza delle donne, la loro incostanza, le loro vuote promesse, e finalmente il poco loro discernimento nell'eleggere a cui debbono volgere i desideri e gli affetti.

Questi miei sensi hanno dato cagione, o signori, alle parole ch'io indirizzava alla capra accorsa fra voi, la quale, siccome femmina, poco si può stimare, benché sia la migliore del mio gregge. Sarò stato troppo prolisso nel mio racconto, ma non sarei corto in servirvi se vi piacesse di arrivare alla mia capanna, ch'è qua vicina, dove potrò offerirvi latte e cacio saporito, con varie e mature frutte non meno alla vista che al gusto assai dilettose.”


CAPITOLO LI

 

RACCONTASI LA QUISTIONE CH'EBBE DON CHISCIOTTE COL CAPRAIO E LA RARA VENTURA DEI DISCIPLINANTI, DA LUI POSTA A TERMINE CON FORTUNATO SUCCESSO, MA CON NON POCA FATICA.

 

La novella del capraio piacque ad ognuno che lo udì, e specialmente al canonico; il quale con istraordinaria attenzione notando lo stile e parendogli degno di qualsivoglia uomo di Corte, si persuase di quello che gli aveva detto il curato, che anche le montagne producono uomini addottrinati. Tutti fecero mille offerte ad Eugenio, ma quello che più di ogni altro si mostrò liberale fu don Chisciotte, che gli disse:

— Tenete per certo, fratello capraio, che se io mi trovassi nella possibilità di dar opera a qualche avventura, mi porrei subito in cammino per farvi cosa gradita, e trarrei di monistero (dove senza dubbio sarà contro sua voglia) Leandra a dispetto dell'abbadessa, e di quanti volessero oppormisi. Io la metterei alla vostra intera disposizione, ma a patto che eseguiste fedelmente le leggi della cavalleria, le quali comandano che a niuna donzella si faccia torto; spero per altro in Dio che non avrà sì gran possa la forza di un incantatore maligno da estendersi oltre il confine di ciò che far potrebbe un meglio intenzionato incantatore, e frattanto vi lascio nella fiducia di ottenere la mia protezione ed il mio aiuto, com'è debito della professione mia, il cui scopo è sempre di prestar favore ai bisognosi e agli oppressi.”

Lo mirò il capraio, e scorgendolo sì malvestito e di sì brutta guardatura ne fece tra sé le meraviglie, e disse al barbiere che gli era vicino:

— Signore, e chi è quest'uomo di figura sì stravagante che usa di questo linguaggio?

— E chi può esser egli, rispose il barbiere, se non il famosissimo don Chisciotte della Mancia, il disfacitore di ogni ingiustizia, il raddrizzatore di torti, il rifugio delle donzelle, lo spavento dei giganti, il trionfatore delle battaglie?

— A vostro dire, rispose il capraio, costui si assomiglia a quelli che son descritti nei libri dei cavalieri erranti: ma io porto opinione o che voi, mio signore, burliate, o che questo gentiluomo abbia molto guasto il cervello.

— Tu sì che sarai un insolente furfante, soggiunse subito don Chisciotte, tu sarai il pazzo, l'insensato, non io che ho più giudizio di quella sozza di madre che ti ha partorito.”

E in ciò dire tutto infuriato e sbuffante, dato di piglio ad un pane che aveva dinanzi, lo scagliò con tanta rabbia sulla faccia al capraio che gli ammaccò tutto il naso. Egli, che non era uomo da prendersi a giuoco, vedendosi maltrattato da senno, senza riguardo alcuno o al tappeto o alla tovaglia o agli altri commensali, saltò addosso a don Chisciotte con furia, e strettogli il collo con ambe le mani, lo avrebbe sicuramente soffocato se Sancio Pancia non fosse sopraggiunto in quell'istante, e assaltando il capraio di dietro alle spalle non lo avesse rovesciato sulla mensa con grande rovinìo di piatti e di bicchieri, e di quant'altro vi si trovava. Don Chisciotte, che si vide libero, gli si avventò contro, e il povero uomo già tutto insanguinato nel viso e pesto per le percosse di Sancio, andava carpone per ritrovare qualche coltello di tavola e fare una sanguinosa vendetta.

Il canonico ed il curato si frapposero, ma il barbiere fece in modo che il capraio poté mettersi sotto don Chisciotte, sul quale diluviarono allora tanti sgrugnoni che la faccia del povero cavaliere era tutta inondata di sangue, non meno che quella del suo avversario. Scoppiavano dalle risa il canonico ed il curato, e gli sgherri saltavano per lo contento, ed aizzavano l'uno contro l'altro come si fa dei cani quando sono alle prese. Il solo Sancio Pancia vedevasi alla disperazione non potendo svincolarsi da due servitori del canonico che gl'impedivano di aiutare il padrone.

Infine mentre stavano tutti in festa, ad eccezione dei due combattenti che l'uno l'altro si macinavano assai, si udì un suono di tromba sì lugubre che ognuno si rivolse alla parte donde sembrava che il suono movesse. Quello che più degli altri ebbe a turbarsi fu don Chisciotte, il quale benché stesse tuttavia sotto il capraio, e si ritrovasse più che mezzanamente pesto, disse:

— Fratello diavolo, che altro non puoi essere avendo avuto tanta vigoria da superare le mie forze, priegoti che facciamo tregua per un'ora e non più perché il funesto rimbombo di quella tromba che ai nostri orecchi risuona sembra che m'inviti a qualche nuova avventura.”

Il capraio che già era stanco di ammaccare e di essere ammaccato, lo lasciò tosto, e don Chisciotte balzò in piedi, e volgendo la faccia donde il rumore procedeva, vide che discendevano da un pendìo molti uomini vestiti di bianco al modo dei Disciplinanti.

Aveva il Cielo negata ai terreni la necessaria rugiada, e perciò in ogni luogo di quei contorni si facevano processioni, preghiere e discipline, domandando al Signore che concedesse pietosamente la pioggia, e a tale effetto la gente di un vicino paese recavasi processionalmente ad un devoto romitaggio, che in una collina fra quelle valli era posto.

Don Chisciotte che vide gli abiti stravaganti, dimenticò di averli tante e tant'altre volte avuti sott'occhio, s'immaginò che fosse qualche avventura, e subito si credette obbligato a provocarla, come cavaliere errante. Lo confermò di più in questa sua fantasia un'immagine che portavano vestita a bruno, e che egli sognò poter essere una qualche nobile matrona, condotta per forza da indegni e arditi malandrini. Corse dunque al suo Ronzinante che stava al pascolo, e in un batter di occhi lo infrenò, domandò la sua lancia a Sancio, montò a cavallo, imbracciò il suo scudo, e disse ad alta voce ai circostanti:

— Ora, valorosi compagni miei, vedrete quanto importi che abbianvi al mondo cavalieri che professino l'ordine della errante cavalleria: ora, dico, vedrete posta in libertà quella buona signora che costoro conducono prigioniera, e conoscerete in qual conto tener si debbano gli erranti cavalieri.”

Nel dir questo diede delle calcagna ai fianchi di Ronzinante (mancando egli di sproni), e a pien galoppo (ché non leggesi in tutta questa vera istoria che Ronzinante fosse mai corso a carriera aperta) andò ad incontrare i Disciplinanti.

Tentarono il curato, il canonico ed il barbiere di trattenerlo, ma inutilmente, né valsero a farlo tornare addietro le voci che dava Sancio, esclamando:

— Dove va ella, signor don Chisciotte? Che diavolo tiene ella nel corpo che la muove ad offesa della nostra fede cattolica? Guardi bene (oh povero me!) che quella è una processione di Disciplinanti, e che la signora che portano sulla barella, è l'immagine della benedetta Vergine addolorata: guardi bene a quello che fa, signor don Chisciotte, che prende dei granchi a secco.”

Inutilmente si affaticava Sancio perché il suo padrone andava già risoluto per raggiungere la processione e liberare la signora vestita a bruno. Egli non udiva parola alcuna; e se pure la avesse udita non sarebbe retrocesso quando anche glielo avesse comandato il re. Raggiunta la processione, trattenne il suo Ronzinante, che avea già voglia di riposarsi, e con rauca e turbata voce si fece a sclamare:

— O voi, che non dovete essere certo genti dabbene poiché tenete i volti coperti fermatevi ed ascoltate quello che vi voglio dire.”

I primi a fermarsi furono quelli che portavano la immagine santa; e intanto uno di quei chierici che cantavano le litanie, vedendo lo strano arnese di don Chisciotte, la magrezza di Ronzinante ed ogni suo atto sì proprio a movere o alle risa o al dispetto, gli rispose dicendo:

— Signor fratello, se qualche cosa ci ha a dire, dicalo presto perché i miei fratelli vanno macerando le carni colle discipline, e noi non possiamo né dobbiamo fermarci ad ascoltar le sue ciarle quando non siano tanto brevi da essere proferite in un fiato.

— Le proferirò in un fiato, replicò don Chisciotte, ed eccovi tutto: lasciate andare libera sul fatto quella signora le cui lagrime e il cui mesto sembiante dànno chiara mostra che la conduciate contro sua voglia, e che fatto le abbiate qualche notabile torto; perocché non consentirò mai che alcuno di voi muova un passo più innanzi senza porre la dama nella libertà ch'ella merita.”

A tali parole avvisandosi tutti che don Chisciotte dovesse essere qualche pazzo, cominciarono a ridere e a farne beffe; ma ciò mise il colmo alla sua furia e senz'aggiunger una sola parola trasse la spada, e si diresse alla volta della barella. Uno di quelli che la portavano, lasciando il peso ai compagni, andò incontro a don Chisciotte inalberando una forcina, o bastone forcuto, che serviva di sostegno a quel peso quando di tratto in tratto fermavansi a riposare; ma ricevendo un gran colpo che gli avventò don Chisciotte fu il bastone spezzato in due parti. Allora col tronco che gli restò in mano il Disciplinante aggiustò sì gran colpo alla spalla del cavaliere errante dal lato della spada, che non potendo difendersi colla targa contro la forza villana stramazzò mezzo rovinato.

Sancio Pancia, tutto ansante venne a raggiungerlo e vedendolo in terra gridò al suo offensore che non lo colpisse di più, essendo un povero cavaliere incantato che non avea fatto male ad alcuno in tutto il tempo di vita sua. Ciò che trattenne il Disciplinante non fu però lo schiamazzo di Sancio, ma il vedere che don Chisciotte non moveva più piede né mano. Già tutti credevano che fosse morto, sicché legossi presto la veste alla cintola, e si diede a fuggire per la campagna come un daino.

A questo punto arrivarono tutti gli altri della compagnia di don Chisciotte, ed allora i Disciplinanti che formata avean la processione e che li videro venir correndo e con seco gli sgherri coi loro archibusi, si fecero dattorno alla carretta, ed alzati i cappucci ed impugnate le discipline, i chierici coi candelieri stavano pronti a schermirsi dall'assalto, e decisi di tenersi sulla difesa od anche di offendere, potendo i loro aggressori; se non che la fortuna condusse l'affare impensatamente a buon termine.

Il curato fu conosciuto da un altro curato ch'era nella processione, e questa reciproca riconoscenza portò la calma dei due timorosi agitati squadroni. Il primo curato dié conto al secondo in due parole dell'umore di don Chisciotte, ed allora l'altro e con lui tutta la turba dei Disciplinanti passarono a vedere se il povero cavaliere fosse realmente morto. Sancio intanto nella sua disperazione era venuto a gettarsi sul corpo del suo padrone, e credendolo egli pure spacciato, prorompeva nel più dolente e insieme ridicolo pianto del mondo. Standogli sopra tutto scompigliato, così cominciò il suo lamento:

— Ah fiore della cavalleria, che da una bastonata sola vedesti rompere il corso dei tuoi anni bene impiegati! ah decoro della tua stirpe, onore e gloria di tutta la Mancia ed anche di tutto il mondo, che ormai privo di te per la tua morte resterà pieno di malfattori senza timore di essere castigati delle loro furfanterie! ah generoso più di tutti gli Alessandri, che per soli otto mesi di servitù mi avevi donata l'isola più grande che si trovi bagnata e circondata dal mare! ah umile coi superbi e arrogante cogli umili, affrontatore di pericoli, sopportatore di affronti, innamorato senza avere chi amassi, imitatore dei buoni, flagello dei tristi, nemico dei gaglioffi! oh in fine, cavaliere errante, che è tutto quello che si può umanamente dire!...”

A questi gemiti di Sancio, don Chisciotte si riscosse un poco e la prima parola che gli uscì di bocca fu questa:

— Quegli che da voi vive assente, dolcissima Dulcinea, si trova soggetto a miserie anche maggiori di queste. Aiutami, amico Sancio, a mettermi sopra il carro incantato ché non mi trovo più in grado di stringermi sulla sella di Ronzinante, poiché ho questa spalla tutta sconquassata.

— Lo farò volentieri, signor mio, rispose Sancio, e torneremo al nostro paese in compagnia di questi signori, i quali vogliono il vostro bene: giunti a casa disporremo in buona regola ogni cosa per poi uscire un'altra volta in campagna, e tenteremo nuove imprese che ci apportino maggior profitto con più credito e più fama.

— Saviamente parli, rispose don Chisciotte; sarà prudente così attendere che cessi il maligno influsso di stelle che ora predomina.”

Il canonico ed il curato fecero eco alle sue risoluzioni, ed essendosi eglino pigliato grande spasso della semplicità di Sancio, posero don Chisciotte nel carro come prima era venuto. La processione tornò a riordinarsi, e seguitò il suo viaggio; il capraio tolse licenza da tutti; la sbirraglia non volle andar più oltre; il curato pagò agli sgherri quanto era loro dovuto: ed il canonico pregò il curato che lo tenesse avvertito se don Chisciotte fosse per guarire dalle sue pazzie o vi persistesse, e con questo si licenziò per proseguire il suo viaggio. Infine si separarono tutti e andarono ai loro luoghi, restando soli il curato, il barbiere, don Chisciotte, Sancio Pancia, e il buon Ronzinante, che tutto sofferiva colla tolleranza del suo padrone. Il carradore attaccò i buoi, e adagiò don Chisciotte sopra un fascio di fieno, e coll'usata lentezza continuò il cammino che indicava il curato, ed a capo di sei giorni pervennero al villaggio di don Chisciotte dove entrarono di bel mezzogiorno.

Era una domenica ed in quell'ora trovavasi piena di gente la piazza per mezzo alla quale lentamente passò il carro. Traevano tutti a vedere che cosa vi fosse in così stravagante arnese, e restarono maravigliati nello scorgervi il loro compatriota; un ragazzo corse frettoloso a informare la serva e la nipote, che il loro zio e padrone se ne tornava magro, macilente, giallo e disteso sopra un mucchio di fieno in un carro tirato dai buoi. Fu cosa molto degna di compassione l'udire le grida che alzarono quelle buone donne, e le maledizioni che scagliarono contro quei detestabili libri di cavalleria, mentre per gran dolore si ripercuotevano la faccia: e tutto questo si rinnovò al rientrar che fece in casa sua don Chisciotte.

Alla novella diffusasi di questo ritorno accorse anche la moglie di Sancio Pancia, la quale sapeva bene che il marito era al servizio di don Chisciotte in qualità di scudiere. Appena vide Sancio, la prima cosa che gli chiese si fu se l'asino stesse bene, e Sancio le rispose che si portava meglio del suo padrone.

— Ringrazio il Signore, soggiuns'ella, che tanto bene mi ha fatto: ora ditemi di grazia, buon amico, che cosa avete portato dalle vostre scorrerie? Che zimarra avete comperato da regalarmi? Dove sono le scarpettine per i vostri figliuoli?

— Nulla di tutto questo, moglie mia cara, disse Sancio, ma ti ho portato cose di molto maggiore importanza e utilità.

— Oh questo sì mi piace, soggiunse la moglie: ora fa presto ch'io vegga queste cose d'importanza e di molta utilità, amico mio che rallegrerò questo mio cuore afflitto e sconsolato per tanti secoli della tua lontananza.

— Te le mostrerò a casa, moglie mia, disse Sancio, e contentati per adesso. Se a Dio piace che usciamo un'altra volta in campagna a cercare avventure, tu ben presto mi vedrai conte o governatore di un'isola, e non già di quelle da pochi soldi, ma delle migliori che si possano trovare in Terraferma.

— Lo voglia pure la Provvidenza, disse la moglie, ché ne abbiamo estremo bisogno; ma informami che cosa vogliono dire queste isole ch'io non m'intendo.

— Il mele non è fatto per la bocca dell'asino, rispose Sancio, ma tu lo vedrai a suo tempo, e resterai maravigliata a sentirti dare della signoria per la testa da tutti i tuoi vassalli.

— Ch'è ciò che tu di' dunque, Sancio mio, di signorie, di isole, di vassalli? replicò Giovanna Pancia; ché quest'era il cognome della moglie di Sancio, non perché gli fosse parente, ma perché usano nella Mancia le mogli portare il cognome dei loro mariti.

— Non t'affannare, Giovanna cara, a voler conoscere tante cose in un fiato; e ti basti sapere che ti dico la verità, e cuciti la bocca. Così alla sfuggita ti dirò al più, che non vi è al mondo maggiore diletto dell'essere scudiere di un cavaliere errante che vada cercando avventure; è vero che la maggior parte di queste non riescono come si vorrebbe: perché, di cento le novantanove vanno a finire a rovescio, ed io lo so per mia particolare sperienza, essendo stato una volta per causa delle venture sbalzato per aria con una coperta, ed altra volta molto ben bastonato: nulladimeno è una bella cosa aspettar le buone fortune, attraversare montagne, penetrare nelle foreste, calpestare i precipizî, visitare castelli, alloggiare in osterie senza pagare un solo maravedis.”

Passavano questi discorsi tra Sancio Pancia e Giovanna sua moglie nel tempo che la serva e la nipote accolsero don Chisciotte.

Lo spogliarono, e fecero che si coricasse nell'antico suo letto. Le guardava egli cogli occhi spaventati, né giugneva mai a concepire dove allora si trovasse. Il curato pregò la nipote di attender quanto potesse a compiacere lo zio e di rendersegli accetta, e che stesse bene all'erta che un'altra volta non iscappasse, narrando per disteso quanto era costato il ricondurlo a casa sua. Fu a questo punto che le donne alzarono di nuovo le grida al cielo, e rinnovarono le maledizioni contro i libri di cavalleria, pregando di cuore Iddio che piombare facesse pel centro dell'abisso gli autori di tante menzogne e di tanti spropositi

Finalmente restarono confuse e con gran timore di vedere lo zio ed il padrone, tostoché fosse migliorato un poco, alla stessa condizione di prima: ed avvenne appunto quello che si aspettavano.

Ma l'autore di questa istoria, ad onta che con diligenza abbia cercato di raccogliere le imprese fatte da don Chisciotte nella sua terza peregrinazione, non poté conseguire il suo intento, almeno con prove di autentici scritti, e restò unicamente registrato dalla fama negli annali della Mancia che la terza volta che partì don Chisciotte di casa sua se n'andò a Saragozza, dove si trovò presente ad una famosa giostra fattasi in quella città, e che ivi seguirono cose degne del suo valore e del suo singolare intelletto.

Non poteva poi saperne il fine, né gli sarebbe mai più venuto a notizia se la buona sorte non gli avesse fatto conoscere un vecchio medico che possedeva una cassetta di piombo; trovata, a quanto diss'egli, tra le rovine di un antico eremitaggio che si andava restaurando.

Erano in questa cassetta alcune pergamene scritte con lettere gotiche in versi castigliani, le quali contenevano molte prodezze di don Chisciotte, e davan notizia della bellezza di Dulcinea del Toboso, della figura di Ronzinante, della fedeltà di Sancio Pancia e della sepoltura del medesimo don Chisciotte, con diversi epitaffi ed elogi della sua vita e costumi. Quelli che si sono potuti leggere e mettere in netto furono gli appiedi registrati dal fide-degno compilatore di sì nuova e inaudita istoria. Ora l'autore non dimanda ai suoi lettori in premio dell'immenso lavoro che gli costò l'investigazione e gli esami in tutti gli archivii manceghi, se non che quanto egli manda alla luce ottenga lo stesso credito che sogliono concedere le discrete persone ai libri di cavalleria, i quali vanno pel mondo con tanta alta riputazione. Egli si terrà, ciò concesso, per soddisfatto e contento, prenderà coraggio nel far sbucar fuori altri documenti, se non tanto veridici, almeno di altrettanto merito nella invenzione e di gratissimo passatempo.

Le prime parole che si leggevano nelle pergamene trovate nella cassetta di piombo erano le seguenti:

 

GLI ACCADEMICI DELL'ARGAMASSIGLIA PAESE DELLA MANCIA

IN VITA E IN MORTE

DEL VALOROSO DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA

 HOC SCRIPSERUNT.

 

———

 

IL MONICONGO, ACCADEMICO DELL'ARGAMASSIGLIA

SULLA SEPOLTURA DI DON CHISCIOTTE.

 

SONETTO.

 

L'Arcitonante, che di spoglie ornata

 La Mancia fe' più che Giasone Creta:

 Il gran senno, che giunse a eccelsa meta

 Dovunque terra e cielo si dilata;

Del braccio il nerbo, la cui fama è stata

 Celebre dal Catai fino a Gaëta;

 La più terribil musa e più faceta,

 Che fosse a scolpir versi in bronzo usata:

Colui che dietro si lasciò Amadigi,

 Che a Galaor poco discosto giacque

 Da sua bravura e dall'amor condotto;

Colui che scordar fece i Belianigi,

E a cui su Ronzinante errar già piacque,

A questa fredda lapide sta sotto.

 

 

 

 

La storia di

Don Chisciotte

della Mancha

 

di

 

Miguel de Cervantes Saavedra

 

 

LIBRO SECONDO

 

PROLOGO

 

Viva Dio! grande al certo dev'essere l'ansietà con cui stai di presente attendendo, lettore illustre o plebeo che tu ti sia, questo Prologo, immaginandoti di trovarvi vendette, contese, vituperi a carico dell'autore del secondo don Chisciotte: intendo dire di quello che dicono essere stato generato in Tordessiglia e venuto alla luce in Taragona. Ma in verità che non mi talenta di darti una tale soddisfazione; mentre tuttoché le offese vadano suscitando la collera anche nei più deboli cuori, questa regola dee patire eccezione nel caso mio. Tu avresti voluto che io a quell'autore avessi dato dell'asino, dello scimunito, del temerario. Ciò non mi passa neppure in pensiero: sia punito egli della stessa sua colpa: se la mangi col proprio suo pane, e con ciò abbia fine ogni contesa. Quello che mi aveva provocato un tantino al risentimento, si fu ch'egli mi trattò da vecchio storpio, quasiché fosse stato in mia mano l'impedire che il tempo non iscorresse per me, o come se la mia storpiatura fosse effetto di mal costume, quando provenne da una cagione sì eminente per celebrità da non vantarne l'uguale i passati, i presenti, e fors'anco i secoli avvenire.

Se non risplendono le mie ferite agli occhi di chi le osserva, acquistano però pregio dalla cognizione che ognuno ha della loro origine. Al soldato è molto più glorioso il cadere estinto sul campo, che l'essere debitore della libertà alla fuga; ed io sento così al vivo la verità di questo principio, che se mi venisse adesso proposto e reso facile l'impossibile, presceglierei le ferite dalle quali fui ricoperto nella prodigiosa giornata a tutti nota, piuttosto che il non aver riportata ferita alcuna per non esservi intervenuto. Le cicatrici che può mostrare il soldato nella faccia o nel petto, sono marchi segnalati che lo innalzano al più alto onore, e gli dànno diritto di aspirare agli elogi più giusti. Deesi poi avvertire che non è la canizie che scrive, ma l'intelletto; il quale si rende più maturo collo scorrere della nostra età. Seppi eziandio che il mio avversario mi taccia d'invidioso, e che trattandomi da ignorante definisce che cosa è l'invidia; la quale, potendo essere di due nature, io protesto con candore di animo che non la riconosco se non inquanto sia onesta, nobile e volta ad una lecita emulazione. Se così è (come non si può rivocare in dubbio), non mi cadde in mente, né ho mai osato di perseguitare verun ecclesiastico, e meno ancora se aggiunga egli ai suoi titoli quello di essere ministro del Sant'Offizio. Se si è voluto prendere di mira un tale si è commesso grosso sproposito, mentre di questo tale da me si tengono in alto pregio l'ingegno e le opere, e le continuate virtuose sue fatiche formano il più giusto soggetto della mia ammirazione.

Protesto poi al critico autore tutta la mia gratitudine per avere egli deciso che sono le mie novelle più satiriche che esemplari, ma tuttavia buone, e che non avrebbero potuto esserlo, se non vi si trovasse un poco di ogni cosa. Sembrami che abbia anche detto ch'io sono assai scarso d'ingegno, e che egli è bene che io mi circoscriva nei termini della modestia, e ciò per non accrescere afflizione all'afflitto. Debbo credere che sia soverchiamente grande la modestia che investe anche quel signore, il quale non osa comparir in campo alla scoperta, ma vela il suo nome e mente eziandio la patria, quasi che fosse un reo di lesa maestà. Se ti avviene, o leggitore, per avventura di riconoscerlo, digli da parte mia che non me ne tengo per offeso, poiché so bene quali sono le tentazioni del demonio, e che una delle più pericolose quella si è di mettere in testa ad un uomo di essere da tanto di comporre e stampare un libro con cui guadagnar tanta fama quanti danari, e tanti danari quanta fama. In prova di ciò mi sarà grato che scherzosamente tu gli racconti la Novelletta seguente:

Fu già un pazzo in Siviglia che stavasi incaponito nel più curioso sproposito ed argomento in cui sia mai incorso pazzo al mondo. E questo era, che portando seco una canna appuntata alla sua estremità, se gli veniva trovato un qualche cane per istrada od altrove, con un piede ne teneva compressa al suolo una zampa e gli alzava l'altra colla mano; poi adattavagli alla meglio la canna in un certo buco, in cui soffiando lo faceva diventare rotondo come una palla. Compìto il giuoco, e date al cane due leggere spalmate sul ventre, lo lasciava andar libero, dicendo ai circostanti, che sempre erano molti: Credono ora le signorie loro che basti poca fatica per gonfiare un cane?

Ed ora stimano forse le signorie vostre che costi poco travaglio la composizione di un libro? Ma se non bastasse la evidenza di questo racconto, farai, amico lettore, sentire quest'altro che tratta egualmente di un pazzo e di un cane.

Viveva in Cordova un altro pazzo che usava portare sulla testa un pezzo di marmo, od un mattone grosso e pesante, e scontrandosi in qualche cane sbandato, gli andava accosto e gli lasciava piombare addosso quel peso. Inferociva il cane, e mettendo latrati ed urli la dava quanto poteva alle gambe. Avvenne che fra i cani ai quali egli fece quel brutto regalo, uno ne trovò di un berettaio che lo teneva molto caro. Cadde la pietra, e colse sulla testa il povero animale, che mezzo schiacciato assordò tutti coi latrati. Fu veduto ed udito dal padrone, che, tolta una lunga misura di legno, raggiunse il pazzo, né gli lasciò osso sano, dicendogli ad ogni bastonata: Furfante indegno, col mio povero bracco tu te la prendi? Non ti accorgesti, manigoldo che il mio cane era un bracco?

E reiterando il nome di bracco più e più volte, lasciò finalmente andare il pazzo tutto macinato dalle percosse. Posto costui in avvertenza da questo esempio, non uscì di casa per oltre un mese: a capo del quale tornò a farsi vedere collo stesso divisamento di prima, e portando anche una pietra più grande. Quando però abbattevasi in qualche cane lo guardava fissamente, e non osando scaricare la pietra, diceva a sé stesso: Guardate; che questo è bracco! In effetto, qualunque si fosse il cane in cui s'incontrava, fosse pure un côrso o cagnolino gentile, diceva sempre ch'era bracco, e in tal modo si astenne in progresso dal più avventare altre pietre.

Ora forse potrebbe avvenire a cotesto storico che non osasse far mostra del proprio ingegno col dare alla luce libri, che, privi essendo di merito, riescono più duri delle pietre. Infine quanto alla minaccia che mi fa il critico, che il suo libro toglierà al mio ogni guadagno, non me ne do il menomo fastidio, perché attenendomi al famoso intermezzo della Perendenga, gli rispondo: Viva per me il ventiquattro mio signore, e Dio per tutti. Abbastanza è per me se vive lunghi anni l'alto conte di Lemos, la cui pietosa e ben conosciuta liberalità mi sostiene a dispetto della nemica fortuna, e se mi conserva la suprema sua generosità l'illustrissimo don Bernardo di Sandoval e Roscias di Toledo. Mi manchino pure tutte le stamperie del mondo, ed escano pure alla luce contro di me più libri che non sono le parole colle quali sono composte le canzoni di Menico Revulgo. Questi due principi, senza essere stimolati da veruna mia adulazione né da altra maniera di plauso, ma condotti unicamente dalla loro bontà, si sono impegnati a darmi favore e ad impartirmi beneficenze, e ciò mi costituisce avventurato e dovizioso più assai che se la fortuna mi avesse per altro cammino portato all'apice della felicità. Può il povero vantare onore, non già il vizioso: la nobiltà può essere appannata dalla miseria, ma non oscurata affatto. Siccome poi la virtù di per sé stessa risplende, tuttoché non faccia uscire il suo lume se non attraverso di inconvenienti e di opposizioni, viene quindi tenuta nel più alto pregio dai nobili ed elevati ingegni, e per conseguente assai favorita.

Null'altro dirai al critico, o leggitore, né a te altro io voglio soggiungere, se non avvertirti di considerare che questa seconda parte del don Chisciotte, che ora ti offro, è lavoro del medesimo artefice, ed è della tempra stessa della prima; e che in essa ti presento don Chisciotte sino all'ultimo della sua storia, e finalmente morto e sepolto.

Mi sono a tale partito condotto affinché non siavi chi ardisca di uscire in campo con nuove falsificazioni, da che sono anche soverchie le passate; e basta poi che un discreto uomo abbia fatte gustare un poco queste giudiziose pazzie senza ravvolgervisi per entro eternamente. L'abbondanza delle cose, benché sieno buone, fa loro perdere il pregio; e vanno sino a mercarsi estimazione le meschine quando se ne faccia economia. Mi dimenticavo di prevenirti, o lettore, che puoi attenderti quanto prima il Persile che da me va compiendosi, ed altresì la seconda parte della Galatea.


CAPITOLO I

 

ESPERIMENTI DEL CURATO E DEL BARBIERE SOPRA LA MALATTIA DI DON CHISCIOTTE.

 

Cid Hamet Ben-Engeli nella seconda parte di questa istoria, e nella terza uscita di don Chisciotte, racconta che il curato ed il barbiere lasciarono scorrere un mese prima che si facessero vedere da lui, per non ridurgli alla memoria le passate cose. Non per questo mancarono di visitare sua nipote e la serva, raccomandando loro di blandirlo molto, e di fargli mangiare cose confortative e appropriate al cuore e al cervello, dal cui sovvertimento doveva credersi che procedesse tutta la sua disgrazia; e furono assicurati da ambedue che si sarebbero data la più viva premura, scorgendo già nel padrone un qualche segno che ei ritornava nel suo pieno giudizio. I due amici n'ebbero molto contento, avvisandosi di essersi attenuti al più sano consiglio col ricondurlo come incantato sul carro tirato dai buoi, siccome si è detto nell'ultimo capitolo della prima parte di questa altrettanto grande che veridica istoria. E così si determinarono di visitarlo e di conoscere se fosse reale quel miglioramento da loro tenuto quasi per impossibile; ma nel tempo stesso convennero di non toccare punto alcuno della errante cavalleria per non correre pericolo di riaprire una ferita ancor troppo fresca.

Si recarono dunque a fargli visita in casa, e lo trovarono seduto nel suo letto con indosso una camiciuola di rovescio verde, ed in capo un berrettino rosso di quei di Toledo; ed era sì secco ed allungato e stecchito che pareva proprio una mummia. Ebbero da lui cortese accoglienza, ed avendolo interrogato di sua salute ne ricevettero giudiziose ed acconce risposte. Versò il tema dei loro discorsi intorno a quella che si denomina Ragione di Stato, e intorno alla maniera di governare, emendando il tal abuso, riprovando il tal altro, promovendo la riforma del tal costume, sbandendone un'altra e costituendosi ognuno dei tre qual novello legislatore, quasi moderno Licurgo e fervente Solone, rinnovavano a parole il governo della cosa pubblica come se avessero posto lo Stato in un crogiuolo, e cavatone fuora un altro a loro senno più bello e perfetto. Parlò don Chisciotte sugli argomenti tutti discussi con tanta saggezza, che i due esaminatori si persuasero fermamente lui essere guarito affatto dalla vecchia pazzia.

Erano presenti a questi colloqui e la nipote e la serva, le quali rendevano incessanti grazie al Signore vedendo il loro zio e padrone ricondotto interamente al buon senno: ma il curato scostandosi un giorno dal suo primo divisamento, ch'era di non muovere parola intorno a cose di cavalleria, volle avere più compiuta esperienza se falsa o veritiera fosse la guarigione di don Chisciotte. Passando perciò da uno in altro proposito si fece a narrare certe nuove ch'erano venute dalla Corte e tra le altre disse che il Turco calava con assai poderosa armata senza potersi punto indovinare i disegni suoi, ed ignorandosi ove andasse a scaricarsi quel nembo terribile, timore che quasi ogni anno fa dare all'armi la nazione, tiene la cristianità tutta in grande apprensione, ed obbliga sua Maestà a guarnire le coste di Napoli e di Sicilia e l'isola di Malta. Rispose a ciò don Chisciotte:

— Ha la Maestà sua adempite le parti di prudentissimo guerriero nell'aver messi a tempo i suoi Stati in difesa sicché non possa coglierlo alla impensata l'inimico; ma se accettato avesse un mio consiglio, insinuato io le avrei di valersi di un provvedimento che da sua Maestà fino adesso non fu mai considerato.”

Appena il curato ciò intese, disse tra sé medesimo:

— Dio ti tenga sopra la sua santa mano, povero don Chisciotte, che già mi sembra di vederti piombare dall'alto vertice della tua pazzia al profondo abisso della tua semplicità.”

Ma il barbiere, ch'era venuto nel pensiero stesso del curato, domandò a don Chisciotte qual era il provvedimento ch'egli reputava sì utile; probabilmente, soggiunse, potrà aggiugnersi al novero dei molti impertinenti consigli che si sogliono dare ai principi.

— Il mio, signor barbitonsore, non sarà già impertinente, ma appartenente, replicò don Chisciotte.

— Non parlò con mala intenzione, rispose il barbiere, ma perché la sperienza ci ammaestra che la maggior parte dei disegni che si assoggettano a sua Maestà, si riduce a cose impossibili o spropositate, da riuscir poi in danno del re e del regno.

— Il mio, replicò don Chisciotte, non è però impossibile né spropositato, ma il più giusto e il più agevole e pronto che potesse cadere in mente di qualsiasi ministro di Stato.

— Non indugi più a dirlo, signor don Chisciotte, soggiunse il curato.

— Io non vorrei, ripigliò don Chisciotte, esporlo adesso qua, e che poi domani mattina pervenuto fosse agli orecchi dei signori consiglieri, ed altri cogliesse il frutto ed il premio dell'opera mia.

— Quanto a me, disse il barbiere, se questa sua risposta mi riguarda, giuro in faccia agli uomini e a Dio che non mi uscirà di bocca una sola delle parole di vossignoria né con re, né con Rocco, né con uomo terreno; giuramento che appresi dalla canzone del curato, il quale nel Prefazio con questa formola avvisò il re di chi gli aveva rubate le cento doble e la mula dell'ambio.

— Io non so di tante storie, disse don Chisciotte, ma essendo certo della onestà del signor barbiere, tengo per valido il suo giuramento.

— Quando nol fosse, soggiuse il curato, io garentisco per lui che non parlerà più di un muto, sotto pena di sottostare al pagamento di quanto sarà giudicato con definitiva sentenza.

— E chi dà guarentigia per vossignoria, signor curato? disse don Chisciotte.

— Il mio ministero, rispose il curato, che m'impone di guardare il segreto gelosamente.

— Or bene, soggiunse allora don Chisciotte; e che altro occorre se non che sua Maestà comandi per pubblico banditore che abbiano in un dato giorno a trovarsi uniti alla corte tutti i cavalieri erranti che sono dispersi per la Spagna? Ché quando ne comparisse niente più di una mezza dozzina, già basterebbero per distruggere l'immensa potestà del Turco.

Mi onorino le vostre signorie della loro attenzione, ed accompagnino il mio ragionamento. Sarebbe forse novità che un solo cavaliere errante avesse sbaragliato un esercito di dugentomila combattenti, come se tutti insieme fossero stati di paste dolci e soltanto con una gola? E in prova di questo favoriscano dirmi: quante storie non abbondano elleno di siffatte maraviglie? Vivesse di presente almeno (venga malanno a me, che ad altri non lo vo' augurare!) il famoso don Belianigi o alcuno degli innumerevoli discendenti da Amadigi di Gaula, che se oggidì si trovasse alcuno di quel lignaggio, e venisse alle prese col Turco, in verità che non lo manderebbe al prete per la penitenza: ma Dio Signore avrà cura del suo popolo, e farà uscir in campagna taluno che se non avrà la gagliardia dei trapassati cavalieri erranti, non sarà al certo inferiore ad essi nel coraggio; e Dio m'intende, e non dico altro.

— Ahi, ahi, sclamò la nipote a questo punto, ch'io possa morire se al mio buon zio non è tornato il capriccio di riprendere l'esercizio della cavalleria errante!”

Cui don Chisciotte:

— Cavaliere errante sono, e cavaliere errante morrò, se ne venga il Turco o se ne vada, e con quante forze gli pare; e torno a dire che Dio m'intende.”

Soggiunse allora il barbiere:

— Supplico le signorie vostre a permettermi di raccontare loro un piccolo caso occorso in Siviglia che per cadere ora perfettamente a proposito mi viene voglia di non tacerlo.”

Glielo permisero don Chisciotte e il curato; tutti gli prestarono attenzione, ed egli cominciò in questa guisa:

“Viveva nella casa dei pazzi in Siviglia un uomo collocatovi dai suoi parenti perché giudicato fuori di senno; era addottorato nei canoni in Ossuna, ma lo fosse pur anche stato in Salamanca, come alcuni dicono, fatto sta ch'era pazzo. A capo di molti anni da che viveasi rinchiuso si persuase di essere ritornato savio e giudizioso, e con tale supposizione egli scrisse all'arcivescovo, supplicandolo con grande istanza e con molto bene accomodate parole che lo facesse trarre dalla miseria in cui viveva, poiché per la misericordia del Signore aveva ricuperato il senno: soggiungendo che l'ingordigia dei parenti, i quali gli usurpavano gli averi suoi, era la sola cagione per cui lo teneano rinserrato, e voleasi che in onta al vero foss'egli trattato da pazzo infino alla morte.

Persuaso l'arcivescovo dalle molte sue lettere prudenti e assennate, spedì un suo cappellano perché s'informasse dal rettore della casa se vero fosse quanto il dottore scriveva, e venisse eziandio a ragionamento col pazzo, e lo rendesse pure alla libertà quando sembrato gli fosse da vero ritornato in buon cervello. L'ordine fu puntualmente eseguito dal cappellano, ed il rettore lo assicurò che pazzo tuttavia era quell'uomo; il quale, quantunque parlasse talvolta come persona di buon discernimento, pure non la finiva senza dare nei più madornali spropositi ch'erano tanti e sì grandi da far cadere al confronto gli attimi della sua saggezza; della qual cosa avrebbe egli potuto far prova passando col pazzo ad un colloquio.

Volle infatti il cappellano porsi a discorso col pazzo per più di un'ora, nel corso della quale non gli uscì di bocca parola meno che ragionevole, anzi si espresse con sì grande antivedimento che il cappellano trovossi obbligato a tenere il pazzo per uomo ricondotto alla sana ragione.

Tra le altre cose dette una si fu che il rettore lo guardava bieco per non perdere i regali che gli faceano i parenti suoi sollecitandolo a disseminare la voce ch'egli era pazzo benché avesse dei lucidi intervalli; che il maggior nemico che avesse a sua disgrazia si era la pingue sua facoltà; che gli voleano male per solo fine di usurpargliela; e avvalorando l'inganno, rendevano dubbiosa la grazia fattagli da Dio signore di restituirlo al pristino stato di sana mente. Infine parlava egli in maniera che faceva sospettare del rettore, dell'avidità e barbarie dei parenti; e appariva sì saggio che il cappellano si determinò di menarlo seco, affinché l'arcivescovo lo vedesse, e toccasse con mano la verità del fatto.

Con questa persuasione il cappellano indusse il rettore a consegnare al dottore i vestiti coi quali era entrato nell'ospedale. Il rettore disse al cappellano che tenesse gli occhi aperti perché il dottore senza dubbio veruno era ancora pazzo. A nulla servirono gli avvertimenti, e convenne obbedire, poiché l'arcivescovo così comandava. Si restituirono al dottore i suoi abiti ch'erano nuovi e decenti; ed egli come si vide vestito da uomo sciolto da ogni apparenza di pazzia, supplicò il cappellano che per atto di carità gli desse permissione di andare a pigliar commiato dai pazzi già suoi colleghi. Gli disse il cappellano che in ciò gli volea essere compagno anche per vedere i pazzi che si trovavano nell'albergo. In effetto montarono all'alto accompagnati da alcuni individui che si trovavano presenti, ed appressatisi ad una gabbia dove stava un pazzo furioso, benché allora tranquillo, gli disse il dottore:

— Fratello, datemi i vostri comandi, che me ne vo adesso a casa mia, da che piacque alla infinita pietà e misericordia di Dio Signore di farmi, senza mio merito, ritornare il mio buon giudizio: io sono già sano e guarito, ché al potere di Dio nulla è impossibile: ora sperate anche voi, ed abbiate in lui confidenza, poiché avendo a me restituita la sanità, a voi pure la ridonerà se in lui confiderete; io mi prenderò cura di farvi capitare qualche cosa da mangiare, e ve ne ciberete, mentre, come uomo sperimentato, io giudico che tutte le vostre pazzie procedano dall'avere lo stomaco digiuno ed il cervello pieno di vento: datevi animo, sforzatevi all'allegria che l'avvilimento delle disgrazie, col consumare la salute, ci va affrettando la nostra ultima ora.”

Un altro pazzo che rinchiuso era in un'altra carcere dirimpetto a quella del furioso se ne stava ascoltando il discorso del dottore e rizzandosi sopra una vecchia stuoia, dove tutto ignudo giaceva, dimandò con sonora voce chi era colui che se ne partiva sano e in cervello.

— Sono io, rispose il dottore: quello io sono, o fratello, che me ne vado, non essendo oramai più necessario qui il mio soggiorno: e rendo infinite grazie al Cielo per così segnalato favore.

— Guardate bene quello che dite, o dottore, né vi lasciate ingannare dal demonio, replicò il demente: non movete passo e restatevene in santa pace dove siete, che così vi risparmierete l'incomodo del ritorno.

— Io so che mi sento guarito, replicava il dottore, né occorrerà più andare e tornare innanzi e indietro.

— Voi guarito? soggiunse il pazzo; oh la vedremo! andate pure con Dio, ma io giuro a Giove, la cui maestà rappresento su questa bassa terra che per questo peccato solo che oggi si commette nella città di Siviglia, col lasciarvi uscire di questa casa come se già foste guarito, voglio darle sì terribile castigo che abbiasene a ricordare nei secoli dei secoli amen. E non sai tu, dottorello imbecille, che sta in mio potere il farlo, essendo io, come ti ho detto altre volte, Giove tonante che tiene in sua mano le fulminatrici saette colle quali soglio minacciare e posso incenerire l'universo? In un modo solo per altro io darò castigo a questo ignorante popolo; e lo farò col negare la pioggia alla città, al suo distretto e ai contorni per tre anni da computarsi dal giorno e dal punto in cui ho proferita questa minaccia: tu libero, tu risanato, tu in cervello, e io pazzo, io infermo, io fra i ceppi? che io possa restare morto se non interdico la pioggia! Alle voci e alle dichiarazioni del pazzo ponevano gli astanti somma attenzione; ma il nostro dottore voltosi al cappellano e prendendolo per mano, gli disse:

— Non abbia paura la signoria vostra e non faccia conto dell'espressione di questo pazzo,  perché se egli è Giove che nega la pioggia, io che sono Nettuno, padre e nume delle acque, farò piovere ogni volta che me ne venga il destro e ne conosca il bisogno.

Qui il cappellano:

— Non sarà bene per altro, signor Nettuno mio, il provocare lo sdegno del signor Giove: resti vossignoria nella sua abitazione, che ciò vedremo un altro giorno a più comodo ed agio.

Fecero grandi risate il rettore e gli astanti, del che prese molto collera il cappellano, ma intanto al povero dottore furono tolti di nuovo i vestiti e restò all'ospedale, e così termina l'istorietta.”

— E questo è dunque il racconto, disse al barbiere don Chisciotte, che per cadere bene in acconcio ella non ha potuto far meno di esporci? Ah, signor barbitonsore, è pure un gran cieco colui che non vede per la tela di uno staccio! Ed è egli possibile che non conosca vossignoria come i paragoni che si fanno da ingegno a ingegno, da valore a valore, da bellezza a bellezza, da prosapia a prosapia sono sempre odiosi e male accetti? Io, signor barbiere mio, non sono Nettuno il nume delle acque, né pretenderei di essere tenuto per savio se tale non fossi; né altro fo che affaticarmi per far conoscere al mondo l'errore in cui giace di non rinnovare a proprio vantaggio il felicissimo tempo in cui campeggiava l'ordine della errante cavalleria; ma non merita di godere sì eccelso bene la depravata età nostra come era fruito nei tempi nei quali gli erranti cavalieri pigliavano sopra di sé la difesa dei regni, la protezione delle donzelle, il soccorso degli orfani e dei pupilli, il castigo dei superbi e l'esaltamento degli umili. La maggior parte dei cavalieri d'oggidì fanno più vistoso sfarzo dei damaschi, dei broccati e delle ricche tele di cui si vestono, che della maglia di cui dovrebbero armarsi; non v'è più un cavaliere che dorma pei campi esposto al rigore del cielo, e armato da capo a piedi più non si trova chi senza levare i piè dalle staffe, appoggiato alla sua lancia si contenti di dormicchiare a foggia degli antichi cavalieri eroi: nessuno oggimai più si trova che uscendo di questo bosco si metta per quella montagna, e di là si conduca alla infeconda e deserta spiaggia di un oceano il più delle volte procelloso e agitato, ove trovando un piccolo legno senza remi, vele, alberi e sarte, entri con intrepido cuore, abbandonandosi alle onde implacabili del mare profondo che ora lo innalzano alle stelle, ed ora lo cacciano giù nell'abisso; ed affrontando la implacabile burrasca, si trovi scostato dal luogo del suo imbarco per tremila leghe: sicché poi trasportato in rimote e incognite terre, cose gli accadono degne di essere scritte non in pergamene, ma in bronzi.

Ora la infingardaggine trionfa della diligenza, l'ozio del travaglio, il vizio della virtù, l'arroganza del valore e la teorica della pratica delle armi che furono e risplendettero nell'età dell'oro e dell'errante cavalleria. E chi fosse di contrario avviso mi risponda per un poco: chi fu mai più onesto e valoroso del celebre Amadigi di Gaula? chi più assennato di Palmerino d'Inghilterra? chi più accomodato e manieroso di Tirante il Bianco? chi più galante di Lisvarte di Grecia? chi più feritore e ferito di don Belianigi? chi più intrepido di Perion di Gaula? chi più affrontatore di pericoli di Felismarte d'Ircania? chi più sincero di Splandiano? chi più precipitoso di don Zeriongilio di Tracia? chi più bravo di Rodomonte? chi più prudente del re Sobrino? chi più ardimentoso di Rinaldo? chi più invincibile di Roldano? e chi più avvenente e gentile di Ruggero? Tutti questi e molti altri cavalieri dei quali potrei parlare, furono, signor curato mio, cavalieri erranti, luce e gloria della cavalleria. Questi ovvero altri a loro simili vorrei che fossero quelli da me prescelti; che tali essendo ne avrebbe ottimo servigio la Maestà sua, risparmierebbe molte spese, e al Turco toccherebbe di strapparsi la barba pelo a pelo. Eh! appoggiato a queste vere dottrine non voglio io starmene a casa mia, se anche il cappellano non viene a trarmene fuori: e se Giove, come disse il Barbiere, non farà piovere, sono qua io che darò pioggia quando me ne venga la voglia: e dico questo perché sappia quel caro signor bacino da barba ch'è da me ben inteso.

— In verità, signor don Chisciotte, rispose il barbiere, che io non dissi per offenderla, né dee vossignoria aversene punto a male.

— Se io debba o no avermene a male, ciò a me si appartiene, replicò don Chisciotte.

A tal passo soggiunse il curato:

— Non avendo io sinora quasi mai favellato, non vorrei restarmene con uno scrupolo che mi rode e carica la coscienza, e che nasce da quanto pronunziò il signor don Chisciotte: posso parlare o no?

— Su questo e su altri più importanti soggetti, rispose don Chisciotte, può liberamente spiegarsi il signor curato e faccia pur noti i suoi dubbi, che non è bene lo starsene cogli scrupoli sulla coscienza.

— Poiché mel concede, rispose il curato, dico che il mio scrupolo consiste nel non potermi persuadere a verun patto che tutta la caterva degli erranti cavalieri testé riferiti da vossignoria sieno stati realmente e veracemente persone in carne ed ossa al mondo: e piuttosto crederei che tutto fosse finzione, favola, menzogne e sogni raccontati da uomini desti, o per meglio dire mezzo addormentati.

— Questo è un altro sproposito, rispose don Chisciotte, in cui caddero molti che non ebbero per vera l'esistenza di questi cavalieri nel mondo, ed io più volte in diversi luoghi e in differenti occasioni ho procurato d'illuminare i ciechi, e di trarli da questo universale inganno. Non vi sono qualche volta riuscito, ma talora sì bene, perché ho appoggiato alla verità le mie dimostrazioni: verità tanto incontrastabile, che sto per dire di avere veduto cogli occhi miei propri che Amadigi di Gaula era un uomo di alta statura, di bianca carnagione nel viso, di bellissima barba, tuttoché nera, di guardatura tra il mansueto e il feroce, di poche parole, restìo nello sdegnarsi e facile a deporre l'ira. E come qui ho disegnato Amadigi, potrei, a parer mio, dipingere e far conoscere di persona quanti cavalieri erranti si trovano nelle istorie del mondo. Questa perfetta mia cognizione dell'essere loro deriva dal fondamento di ciò che di essi mi ha tramandato la storia particolare; dalle imprese colle quali si segnalarono, ed infine dalle stesse loro qualità ricavare si può per filosofica induzione la fisonomia, il colore e sino la statura loro.

— Di che grandezza crede vossignoria, mio signor don Chisciotte, domandò il barbiere, che debba essere stato il gigante Morgante?

— Quanto ai giganti, rispose don Chisciotte, variano le opinioni se sieno o no stati al mondo: ma la Sacra Scrittura, che non può un attimo discrepare dalla verità ci fa sapere che vi furono, raccontandoci la storia di quel filisteaccio di Golia ch'era alto sette cubiti e mezzo, il che costituisce una smisurata grandezza. Anche nell'isola di Sicilia si sono trovati stinchi e spalle sì grandi da dovere concludere necessariamente che furono giganti quelli dei quali formavano parte, e ch'erano grandi come alte torri: verità alla quale conduce una induzione geometrica ed infallibile. Non saprei asserire con certezza quanto grande fosse Morgante; ma io credo che non debba essere stato molto smisurato; perché trovo osservabile nella storia, in cui si fa menzione particolare dell'eroiche sue gesta, che molte volte dormiva al coperto: e potendo stare in abitazioni coperte dal tetto è cosa evidente che non fosse sterminata la sua persona.

— Così è per lo appunto, disse il curato, il quale pigliava gusto a sentirlo dare in sì grossi svarioni: e gli dimandò allora come la intendesse rispetto alle facce di Rinaldo di Montalbano, di Orlando e dei dieci Paladini di Francia, poiché furono tutti erranti cavalieri.

— Quanto a Rinaldo, rispose don Chisciotte, ardisco dire che fosse largo di faccia, rosso di colore, cogli occhi irrequieti e un po' in fuora, puntiglioso e collerico soverchiamente, amico dei ladri e della gente perduta; quanto a Roldano o Rotolando od Orlando (ché tutti questi nomi gli dànno le istorie) sono di avviso, e mi confermo, che fu di statura media, largo di spalle, con le gambe un po' torte, brunetto il viso, di barba castagniccia, peloso nel corpo, di guardatura feroce, riservato in parlare, ma fornito di cortesia e di bel costume.

— Se Orlando non fu di migliore presenza di quella ora descritta da vossignoria, replicò il curato, non fa maraviglia, che Angelica la bella, lo rifiutasse per appigliarsi alla gentilezza, al brio ed alla buona grazia di cui dovea essere dotato il moretto imberbe al quale si abbandonò: ed ebbe ragione di amare piuttosto la piacevolezza di Medoro, che la rustichezza di quel paladino.

— Questa tale Angelica, rispose don Chisciotte, o signor curato, fu una donzella di poco buon odore, vagabonda, capricciosetta, e lasciò il mondo tanto pieno delle sue impertinenze quanto della fama della sua bellezza; disprezzò mille signori, mille valorosi, mille prudenti, e si contentò di un paggetto zerbinello senz'altri averi od altro nome che quello che poté dargli la affezione mostrata, da lei al suo amico. E il cantore della bellezza il famoso Ariosto, non osando o non volendo cantare ciò che avvenne a quella signora dopo di essersi data obbrobriosamente in preda all'amante, che certo non dovettero essere cose molto oneste, lasciò a mezzo la storia col dire:

 

E come del Catai ricevè 'l scettro

Fors'altri canterà con miglior plettro.

 

È certo che questo linguaggio dee considerarsi come una profezia, tanto più che i poeti si sogliono anche chiamare vaticinatori: e questa è verità incontrastabile, perché d'indi in poi un celebre poeta dell'Andalusia pianse e cantò le sue lagrime, come un altro famoso ed unico poeta castigliano cantò e mise a cielo la sua bellezza.

— Mi dica, signor don Chisciotte, soggiunse qui il barbiere: non vi fu mai alcun poeta che abbia composto qualche satira contro questa signora Angelica fra quei tanti che celebrarono i suoi meriti?

— Io sono di opinione, rispose don Chisciotte, che se Sacripante o Roldano fossero stati poeti avrebbero ben bene lavato il capo a quella donzella; giacché è proprio e connaturale ai poeti sdegnati e non accolti dalle finte o vere loro dame (cioè da quelle che trascelsero per arbitre della volontà loro) di togliersene vendetta con satire e con libelli; vendetta certamente indegna di un animo generoso; ma non seppi sin ora che sia stata scritta contro la signora Angelica poesia alcuna infamante, tuttoché ella avesse posto il mondo sossopra.

— Miracolo!” disse il curato; ma in questo udirono che la nipote e la serva, che già aveano lasciata a mezzo la conversazione, gridavano forte verso la corte, e tutti accorsero a quel rumore.


CAPITOLO II

 

NARRASI IL NOTABILE CONTRASTO SEGUITO TRA SANCIO PANCIA, LA NIPOTE E LA SERVA DI DON CHISCIOTTE; CON ALTRI GRAZIOSI SUCCESSI.

 

La storia racconta che le voci sentite da don Chisciotte, dal curato e dal barbiere partivan dalla serva; la quale incollerita e lottando con Sancio Pancia, che voleva ad ogni costo ed a suo dispetto entrare a veder don Chisciotte, dicevagli:

— Che vuoi tu, animalaccio, in casa nostra? vattene per le tue, vagabondo, ché tu sei quello, e non altri che disvia il padrone e lo conduce al precipizio.” Rispondeva Sancio:

— Serva del diavolo, il disviato e il malgiunto sono io e non già il tuo padrone? egli fu che mi ha fatto girare per questi mondi, e voi altre la sbagliate del doppio; egli fu che mi ha tolto di casa mia con mille pretesti, e mi ha promesso un'isola che sto sempre aspettando.

— Che le maledette isole ti possano affogare, Sancio birbone, rispose la nipote: e che cosa sono queste isole? sono forse qual che cosa da mangiare? ghiottone goloso che sei.

— Non da mangiare, ma da governare e da reggere meglio che quattro città e quattro magistrature, rispose Sancio.

— Con tutto questo, disse la serva, qua non entrerai tu, sacco di ribalderie, balla di tutte le malizie: vattene a governare la casa tua, a lavorare le tue terre; e finisci di pretender isole od isolotti.”

Si prendeano grande solazzo il curato e il barbiere nell'udire le baruffe che facevano quei due; ma don Chisciotte per timore che Sancio non incominciasse a snocciolar giù un mucchio di scioccherie maliziose, od a toccare certi punti disdicevoli alla sua riputazione, lo chiamò a sé, obbligando la serva a tacere e a lasciargli libero l'ingresso. Entrò Sancio, e sì il curato come il barbiere presero commiato da don Chisciotte, della cui guarigione disperarono, vedendo fino a qual segno stava ancor fitto nei suoi stravolti pensieri, e quanto fosse imbevuto nelle scioccaggini delle sue malerranti cavallerie; e perciò disse il curato al barbiere:

— Voi vedrete, compare, che quando meno ce l'aspettiamo il nostro idalgo esce un'altra volta in cerca di avventure.

— Io non ne dubito punto, rispose il barbiere; ma non mi fa tanta maraviglia la pazzia del cavaliere, quanto la balordagine dello scudiere; a cui pare così certo il fatto dell'isola, che niuna cosa ne lo potrebbe disingannare.

— Dio lo risani, disse il curato; noi intanto stiamcene ad osservare, e vedremo dove vada a parare questa macchina di spropositi di tal cavaliere e di tale scudiere, che paiono stampati in una medesima forma; sicché sembra che senza le balorderie del servitore non vagliano un'acca le pazzie del padrone.

— Così è, disse il barbiere, ma io bramerei di saper i discorsi che terranno fra loro presentemente.

— Io sono certo, rispose il curato, che la nipote e la serva ce li faranno sapere; ché non sono esse tali da tralasciar di appagare la loro curiosità.”

Frattanto don Chisciotte si rinchiuse con Sancio nel suo appartamento, e trovandosi tutti e due soli disse a Sancio:

— Molto mi pesa che tu mi vai incolpando di averti tolto di casa tua per le mie peregrinazioni: noi siamo usciti insieme; scambievole fu la nostra colleganza e la nostra varia fortuna; una medesima mutabilità di vicende abbiamo corso egualmente; e se tu fosti una volta sbalzato in aria colla coperta, io cento volte fui bastonato; ed in ciò solo ho io avuta una parte maggiore della tua.

— Quest'era ben di dovere, rispose Sancio, perché a detta di vossignoria, vanno le sventure più attaccate ai cavalieri erranti che agli scudieri

— Tu sei in errore, Sancio mio, disse don Chisciotte: giusta il detto: Quando caput dolet...

— Non intendo altro linguaggio che il mio, replicò Sancio.

— Ho voluto dire, soggiunse don Chisciotte, che quando duole la testa, dolgono anche tutti gli altri membri; e perciò essendo io il tuo padrone e signore, sono la tua testa, e te parte di me per essere mio servidore; e perciò dei provar dolore del mio male siccome debbo io sentirlo del tuo.

— A questo modo, disse Sancio, la dovrebbe essere; ma quando io membro ero sbalzato in aria sulla coperta, stava la mia testa dietro le muraglie della corte vedendomi a volare senza provar dolore di sorta alcuna; e se sono obbligati i membri a dolersi del male della testa, era la testa in dovere di dolersi del male dei membri.

— Vuoi forse con ciò inferire, o Sancio, disse don Chisciotte, che io non sentissi dolore in quel frangente? se ciò tu credi, non dirlo né pensarlo nemmeno, perché io provavo nello spirito maggiore tormento che tu nel corpo: ma lasciamo da parte questo discorso, che verrà tempo di ponderarlo, e facciamoci a quello che importa più. Dimmi, amico Sancio: che si dice di me in questa terra? In che opinione mi tiene il volgo? che pensano di me gl'idalghi, e che i cavalieri? che dicono del mio valore? delle mie prodezze? della mia cortesia? che si discorre circa l'assunto da me preso di risuscitare e restituire nel mondo il già smarrito ordine di cavalleria? Bramo, o Sancio, che tu mi dica per disteso ciò che intorno a tale proposito ti giunse all'orecchio, e senz'alterazione alcuna sì in bene che in male, dovendo i fedeli vassalli dire la verità ai loro padroni con perfetta schiettezza, senza ombra di quella cortigianeria che accresce e diminuisce le cose per vani rispetti. Voglio che tu sappia, Sancio mio, che se agli orecchi dei principi giungesse la verità ignuda e senza il manto dell'adulazione, questi sarebbero altri secoli, e le passate età verrebbero reputate di ferro in confronto della nostra, sicché potremmo dire che viviamo nell'età dell'oro; e vàlgati, o Sancio, questo avvertimento, perché limpidamente e colla più retta intenzione tu abbia a farmi sapere in tutta la purità le cose che sai, e che ti ho dimandate.

— Adempirò ben volentieri i suoi comandi, signor mio, rispose Sancio, a condizione però che non debba vossignoria sdegnarsi della mia relazione, poiché ella vuole ch'io dica le cose nude nude, senza aggiungere panni che le ricoprano.

— Oh non mi adonterò in modo alcuno, rispose don Chisciotte, e tu ben puoi, Sancio, liberamente parlare senza giri viziosi di espressioni figurate.

— Dico dunque per primo capo, Sancio soggiunse, che il volgo tiene vossignoria per un solennissimo matto, e tiene me, non che altro, per uno stolido. Gl'idalghi sono tutti d'accordo a protestare che non si contiene vossignoria nei confini della sua condizione, e che si ha arrogato il Don, e si è fatto cavaliere con poche viti e pochi solchi di terra, e con uno straccio dinanzi ed un altro di dietro. Dicono i cavalieri che spiace loro che gl'idalghi attentino alla loro preminenza, e specialmente quegl'idalghi scuderili che danno il nero di fumo alle scarpe, e rattoppano i buchi delle calzette nere con seta verde.

— Questo, disse don Chisciotte, non mi risguarda, andando sempre io bene vestito e non mai rappezzato; rotto potrebb'essere il mio abito, ma per colpa più dell'armi che della troppa vecchiezza.

— In quanto poi, seguitò Sancio, al valore, alla cortesia, alle prodezze ed all'assunto preso da vossignoria variano i pareri. Gli uni dicono: pazzo ma grazioso! altri: valoroso ma sfortunato! taluni: cortese ma impertinente! e di questo trotto vanno tirando fuori tante cose da non lasciare né a vossignoria né a me osso sano.

— Considera, mio buon Sancio, rispose don Chisciotte, che ove in eminente grado virtù risiede, ivi piomba la persecuzione; e pochi o niuno dei celebri personaggi delle andate età si sottrassero all'acuto morso della calunnia o della più fina malizia. Giulio Cesare coraggiosissimo, prudentissimo, valorosissimo capitano, fu tacciato di ambizione e di poca nettezza nei vestiti, ed eziandio nel costume. Alessandro, che meritò il sopranome di Grande per le sue imprese, venne accusato di essere stato una qualche volta ubbriaco. Di Ercole celebratissimo per le tante sue fatiche, raccontasi che fu intemperante ed effemminato. Si mormora di don Galaorre, fratello di Amadigi di Gaula, che fosse un accattabrighe smodato; e di suo fratello che fosse un piagnone: di maniera che, o Sancio, fra tante calunnie ad offesa dei buoni possono aver luogo alcune anche ad offesa mia purché sieno limitate a ciò che mi hai riferito.

— Qui sta il punto, al corpo di mio padrone, replicò Sancio.

— Ma v'è di peggio? domandò don Chisciotte.

— Resta la coda da scorticare, disse Sancio e quello che ho detto sino adesso, è stato rose e fiori; ma se brama saper vossignoria appuntino tutte le calunnie delle quali ella è fatta bersaglio, condurrò qui chi gliene potrà dire per disteso, e senza che ne manchi un briciolo. Sappia che rimpatriò ieri a sera il figliuolo di Bartolomeo Carrasco, il quale ritorna dallo studio di Salamanca fatto baccelliere, ed essendo io stato da lui per dargli il ben venuto, mi disse che già la storia della signoria vostra si leggeva su per i libri col titolo: L'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia, ecc. Aggiunse ch'io vi sono ricordato col medesimo mio nome di Sancio Pancia, e così pure la signora Dulcinea del Toboso, colla giunta di altri segretuzzi fra noi due soli, che io mi sono fatti mille segni di croce per lo stupore che possano essere venuti a notizia di chi li ha scritti.

— Scommetterei, o Sancio, disse don Chisciotte, che l'autore della nostra istoria debb'essere stato qualche savio incantatore; ché a costoro nulla è nascosto di quello che imprendono a scrivere.

— E come che costui è stato mago o incantatore! replicò Sancio; poiché per quello che ne dice il detto baccelliere Sansone Carrasco, l'autore dell'istoria si chiama Cide Hamete Berengena.

— Questo è nome di Moro, rispose don Chisciotte.

— Può darsi, soggiunse Sancio, poiché intesi dire comunemente che i Mori sono amici delle erbe berengane

— Tu devi andar errato o Sancio, disse don Chisciotte, sul sopranome di questo Cide che in arabico vuol dire signore.

— Potrebbe anche essere, replicò Sancio; ma se brama vossignoria che faccia venir qui il baccelliere io andrò in un fiato a cercarlo.

— Ne avrò grande soddisfazione, disse don Chisciotte, che mi ha posto in confusione tutto quello che mi hai detto, né mangerò boccone che mi piaccia sinché io non abbia le più esatte e le più ampie informazioni.

— Ed io corro in traccia di lui,” disse Sancio.

Partì dunque dal suo padrone, andò a trovare il baccelliere, col quale tornò di lì a poco e seguirono poi fra loro i seguenti graziosissimi ragionamenti.


CAPITOLO III

 

DEL RIDICOLO DISCORSO TENUTO DA DON CHISCIOTTE, SANCIO PANCIA E IL BACCELLIERE SANSONE CARRASCO.

 

Don Chisciotte era rimasto assorto in gravi pensieri aspettando il baccelliere Sansone Carrasco da cui attendeva il ragguaglio di ciò che di lui si narrasse nel libro annunziatogli da Sancio Pancia. Non potea persuadersi che la sua istoria avesse veduto la luce del mondo, mentre la sua spada era tuttavia intrisa e grondante del sangue dei nemici ch'egli s'immaginava di avere ammazzati; e se con tutto ciò volava per ogni dove la storia delle grandi sue gesta cavalleresche, questo dovea avvenire solo per incantesimo di qualche savio o amico o nemico: amico per ingrandirle ed innalzarle sopra le più segnalate di cavalier errante; nemico per annichilarle e metterle al disotto delle più vili che fossero state mai scritte di inglorioso scudiere. Dopo tutto questo andava fra sé stesso dicendo:

“Eppur delle imprese degli scudieri non si è mai usato di fare menzione in iscritto, e quand'anche vi fosse una tale istoria, dovendosi riferirla ad errante cavaliere, dovrebbe essere per necessità eloquentissima, alta, insigne, magnifica, veritiera.” Lo consolavano un poco queste riflessioni, ma si trovava poi sconfortato pensando che n'era Moro l'autore, poiché aveva il nome di Cide, né dai Mori attender poteasi verità alcuna, essendo tutti imbrogliatori, falsarii e lunatici. Temeva che non si fosse parlato degli amori suoi colla più rigorosa decenza, e che ne avesse quindi a ridondare pregiudizio ed oltraggio alla onestà della sua signora Dulcinea del Toboso; almeno bramava che fosse stata posta in chiaro lume la sua fedeltà e il decoro che aveale gelosamente serbato, sprezzando per tale suo idolo, regine, imperatrici e donzelle di ogni condizione, e infrenando gl'impulsi suoi naturali.

Stando così in queste ed in altre molte immaginazioni, giunsero a lui Sancio e Carrasco, il quale molto cortesemente fu accolto da don Chisciotte. Il baccelliere, quantunque si chiamasse Sansone, non era molto alto di statura, ma volpe fina, di colore macilento e di scaltrito giudizio. Contava l'età di ventiquattr'anni, aveva faccia tonda, naso schiacciato e bocca grande: indizi tutti di un uomo malizioso e amico delle galanterie e degli scherzi: ed egli ne diede subito una chiara prova allorché, vedendo don Chisciotte, se gl'inginocchiò dinanzi e gli disse:

— Mi dia la grandezza vostra a baciare le mani, signor don Chisciotte della Mancia, che per l'abito di San Pietro ch'io porto indosso, quantunque io non abbia ricevuto che i soli primi quattr'Ordini, giuro che vossignoria è uno dei più famosi cavalieri erranti che sieno stati o possano mai trovarsi in tutta la rotondità della terra. Benedetto sia Cid Hamet Ben Engeli che lasciò scritta la istoria delle prodezze di vossignoria, e più benedetto ancora sia quel dotto curioso che si pigliò la fatica di recarle dall'arabo nel nostro idioma castigliano: affinché ne avessero le genti universale trattenimento.”

Lo fece rizzare don Chisciotte, e così gli rispose:

— È egli vero dunque che corre per lo mondo la mia istoria e che la compose un Moro incantatore?

— Tanto è vero, signor mio, disse Sansone, che porto opinione che al dì d'oggi siano già stampati più di dodicimila esemplari di questo libro; e se non crede a me dicanlo il Portogallo e Barcellona e Valenza dove furono impressi. Corre poi fama che se ne stia facendo una impressione anche in Anversa, e a me pare certissimo, che non si darà nazione né lingua in cui non si abbia a tradurlo.

— Una delle cose, disse don Chisciotte a tal punto, che debbono recare più consolazione ad uomo virtuoso ed eminente, quella si è di vedersi vivente stampato in diversi idiomi, ed arricchito e di celebrità e di buon nome nelle lingue degli uomini: dissi di buon nome, perché in caso diverso, nessun genere di morte sarebbe peggiore del suo tormento.

— Se si tratta di alto nome e celebrità, rispose il baccelliere, vossignoria toglie la palma a tutti i cavalieri erranti: perché il Moro nel proprio idioma, e il Cristiano nel suo, si diedero la più viva premura di rappresentar molto al naturale la sua gagliardia, lo strepitoso suo coraggio nell'affrontar i pericoli, la sofferenza nelle traversie, la tolleranza sì nelle contrarie vicende come nelle percosse ricevute, e la onestà e la continenza negli amori platonici di vossignoria colla signora donna Dulcinea del Toboso.

— Giammai, replicò allora don Chisciotte, ho inteso chiamare col Donna la mia signora Dulcinea del Toboso, ma Signora semplicemente, ed in questo comincia a sbagliar la istoria

— Questa non è obbiezione di alcuna importanza, rispose Carrasco.

— No per certo, don Chisciotte soggiunse; ma dicami la signoria vostra, signor baccelliere: quali sono le mie prodezze di cui si è creduto di far maggior conto in cotesta opera?

— Variano in ciò le opinioni, rispose il baccelliere, a seconda dei gusti diversi. Alcuni sogliono preferire la ventura dei mulini da vento che sembrarono alla signoria vostra giganti e briarei; altri quella delle gualchiere; questi prediligono la descrizione dei due eserciti che poi erano due branchi di montoni: altri tiene in gran pregio la ventura del morto ch'era condotto a seppellire in Segovia: uno sostiene che va sopra ogn'altra la liberazione dei galeotti; un altro che nessuna sta a petto di quella dei due giganti benedettini colla questione del valoroso Biscaino.

— Favorisca dirmi, Sancio soggiunse: si parla mai della ventura dei mulattieri ianguesi, quando il nostro buon Ronzinante s'invogliò di procacciarsi anch'egli avventure?

— Nulla, rispose Sansone, ha ommesso quel savio: racconta ogni cosa con fedeltà, con esattezza, né tacque neppure le capriole che fece il buon Sancio sulla coperta.

— Io non ho fatto capriole sulla coperta, rispose Sancio, ma per aria, e furono più del bisogno.

— A quanto mi figuro, disse don Chisciotte, non vi è storia al mondo che non abbia il suo pro e contra, quelle massimamente che trattano di cavalleria, le quali non possono essere sempre piene di fortunati avvenimenti.

— Con tutto ciò, replicò il baccelliere, dicono alcuni che hanno letta la istoria che avrebbero desiderato di vedere dall'autore poste in dimenticanza le bastonate infinite date in diversi incontri al signor don Chisciotte.

— Queste sono verità, disse Sancio, e non potevano essere trascurate da chi racconta.

— Poteano per altro tacerle per giustizia, disse don Chisciotte, perché le azioni dalle quali non viene cangiata od alterata la storia possono passarsi sotto silenzio quando tendono a mettere in discredito il protagonista; e per mia fede che non fu Enea sì pietoso come cel dipinge Virgilio, né sì prudente Ulisse come ci viene descritto da Omero.

— Dice benissimo, vossignoria, soggiunse Sansone; ma altro si è lo scrivere poeticamente, altro il farlo storicamente; è lecito al poeta raccontare o vantare le cose non già quali furono ma quali avrebbero dovuto essere, mentre lo storico invece ha da scriverle non già come avrebbero dovuto essere, ma quali realmente furono senz'alterare in un punto solo la verità o con mutazioni o con aggiunte.

— Se è obbligo che questo signor autore Moro racconti il vero, disse Sancio, egli è indubitato che dee fra le bastonate del mio padrone far menzione anche di quelle da me ricevute, mentre non furono a sua signoria macinate giammai le spalle senza che fosse pesto anche a me tutto il corpo: né è da farsene maraviglia, perché come dice il medesimo mio padrone, le membra hanno da partecipare nel dolore della testa.

— Tu sei un furbo, Sancio volpone, rispose don Chisciotte; e in verità che non ti manca memoria quando ti giova l'averla.

— Se anche mi sforzassi, disse Sancio, a volermi dimenticare delle bastonate ricevute, non mel permetterebbero le lividure ancora fresche fresche sulle mie costole.

— Taci, Sancio, don Chisciotte soggiunse, e non interrompere il signor baccelliere, ché io lo prego di mettermi al fatto di tutto quello che di me si dice nella riferita mia istoria.

— E di me ancora, disse Sancio, ché dicono che sono uno dei suoi principali personagli.

— Personaggi (soggiunse Sansone) e non personagli, dovete dire, amico Sancio.

— Oh! mancava anche quest'altro rinfacciatore di bocaboli, soggiunse Sancio: seguiti pure ad emendarmi che non la finiremo mai più.

— Dio non mi dia bene, rispose il baccelliere, se voi non siete il secondo personaggio di quella istoria; ed avvi taluno cui vanno a sangue i vostri ragionamenti anche più di quelli di ogn'altro ivi introdotto, tuttoché vi sia chi vi taccia di soverchia credulità nel tenere per vero il governo di quell'isola promessavi dal signor don Chisciotte qui presente.

— Splende il sole per dar luce anche alle più riposte muraglie, disse don Chisciotte; e quando Sancio sarà avanzato in età, mercé la sperienza degli anni diverrà più accorto e più idoneo di quello che presentemente non sia per esercitare la carica di governatore.

— Oh povero me! soggiunse Sancio, se non sapessi governare un'isola con gli anni che ho indosso, non ne sarei più capace se vivessi gli anni di Matusalemme: il male si è che questa benedetta isola è stata trattenuta non si sa dove, non già che manchi a me buona testa per governarla.

— Rimettiti nel signore, disse don Chisciotte, che fa tutto per lo bene e per lo meglio, non movendosi foglia di arbore senza il voler di Dio.

— E questo è vero, disse Sansone, ché se Dio vorrà non mancheranno a Sancio mille isole da governare, non che una sola.

— Ho veduto una qualche volta, disse Sancio, dei governatori, che, a quanto mi pare, non valgono la suola delle mie scarpe, e con tutto ciò si rende loro ogni omaggio, e sono serviti in argento.

— Questi tali, replicò Sansone, non sono già governatori d'isole, ma di altri più manuali governi: chi è destinato a reggere isole dee per lo meno sapere grammatica.

— Di grama mi par di sapere qualcosa, ma di tica confesso che non me intendo punto né poco; ma lasciando l'affare del governo nelle mani di Dio, il quale disporrà di me a suo beneplacito, soggiungo, signor baccelliere Sanson Carrasco, che mi piace moltissimo che l'autore dell'istoria abbia fatto menzione di me in maniera che le cose da lui narrate intorno alla mia persona non sieno tali da infastidire i lettori. Da vecchio cristiano che sono, e da buono scudiere vi giuro che se avesse colui detto cose di me meno che proprie ci avrebbero sentiti i sordi!

— Questo sarebbe far miracoli, rispose Sansone.

— Miracoli o non miracoli, rispose Sancio, guardi ognuno come parla e come scrive delle persone, e non dia di piglio alla penna per raccontare fantasticamente e a suo capriccio i fatti altrui.

— Una delle accuse apposte a quella istoria, disse il baccelliere, si è che il suo autore vi ha inserita una novella intitolata il Curioso indiscreto non perché sia dispregievole e priva di buon senso, ma perché mal si conviene in quel luogo, non avendo punto che fare colla storia di sua signoria il signor don Chisciotte.

— Io rinnegherei me stesso, replicò Sancio, quando vedo a questo modo immischiati i cavoli con le sporte.

— Oh adesso sì ch'io sostengo, disse don Chisciotte, che non sia stato un savio l'autore della mia istoria, ma sì bene qualcuno di questi ignoranti cicaloni che senza verun proposito si accingono a scrivere, esca quello che vuol uscire; e si può rassomigliarlo ad Orbaneia, il pittore di Ubeda, che interrogato di quello che dipingesse rispose: quello che verrà fuori, ed una volta dipinse un gallo sì sconciamente che bisognò scrivervi sotto con caratteri gotici: questo è un gallo. Così per appunto accadrà della storia mia cui sarà necessario appiccare un buon commento perché sia intesa.

— Non vi sarà bisogno, rispose Sansone, perché ha il merito di tanta chiarezza che non v'è mai un passo difficoltoso. L'hanno tra le mani i fanciulli, dai giovani è letta, è intesa dagli adulti, ne fanno elogio i vecchi, ed è infine sì trita e nota e divulgata presso ogni sorta di gente, che appena s'imbattono in un magro ronzino, e subito gridano: ecco là Ronzinante; e i paggi specialmente sono coloro ai quali più che ad ogni altro va a sangue la sua lettura. Non havvi anticamera di signore dove non si trovi un don Chisciotte: uno lo piglia se un altro lo lascia, e se lo rubano dalle mani; e per dire tutto in un fiato procura questa istoria il più dilettevole e innocente trattenimento che finora si sia trovato, non riscontrandovisi, mai neppure per ombra una licenziosa parola od una proposizione meno che cattolica.

— Se fosse scritta altrimenti, disse don Chisciotte, potrebbe tacciarsi a buon diritto di menzognera; e gli storici che non si attengono alla verità, meritano di essere dati alle fiamme come i fabbricatori di monete false. Non posso poi immaginare per qual motivo l'autore si sia condotto ad inserirvi novelle straniere alla narrazione, quando le cose spettanti a me gli potevano bastar a dovizia. Egli doveva attenersi al proverbio: della paglia e del fieno, ecc., e in verità col solo manifestar i miei pensamenti, i miei sospiri, le mie lagrime, gli onesti miei desiderî e le mie ardite prodezze, aveva largo campo di comporre un volume molto maggiore, o di tale grandezza da equivalere nella mole alle opere tutte scritte dal Tostato. Insomma io penso signor baccelliere mio, che per comporre storie o libri di qualsivoglia natura, siavi d'uopo di un gran giudizio e di maturo discernimento: e che sia proprio unicamente di alti ingegni lo scrivere opere graziose e leggiadre. Il più difficile personaggio in una commedia è quello di chi fa la parte dello sciocco; perché non deve essere uno stolto da vero chi si propone di parer tale. La storia è come una cosa sacra: debb'essere vera; dov'è la verità v'è Iddio Signore quanto alla verità: ciò null'ostante vi sono taluni che scrivono libri sine fine, e li cavano dal loro cervello sì spensieratamente come se fossero paste fritte.

— Non trovasi, disse il baccelliere, libro sì sciagurato che in sé non contenga qualche cosa di buono.

— Non mi oppongo, soggiunse don Chisciotte, ma sovente accade che taluno che godea un'alta riputazione per i suoi scritti finché li tenne presso di sé, la perdette poi nel darli alle stampe, o se non altro la oscurò di assai

— Questo nasce, riprese Sansone, perché si conoscono i difetti dei libri tostoché si può fare su di essi matura ponderazione; e tanto più si vanno scrutinando quanto più grande è la fama degli autori che gli hanno composti. Gli uomini chiari per sommo ingegno, i grandi poeti, gli storici illustri, o sempre o per lo più, sono invidiati da quelli che attendono solo a scardassare le opere altrui senz'aver essi dato mai una pagina sola alla luce del mondo.

— Ciò non dee recar maraviglia, disse don Chisciotte, essendovi molti teologi non atti alla predicazione, ma esperti a conoscere gli errori e i mancamenti di quelli che predicano.

— La cosa cammina per lo appunto come voi dite, o signor don Chisciotte, soggiunse Carrasco: ma io vorrei che tali censori fossero più indulgenti e meno scrupolosi, e non istessero ad appuntare qualche macchiuzza nel chiarissimo sole di quell'opera della quale mormorano: che se aliquando bonus dormitat Homerus, pongano mente al molto tempo in cui stette desto l'autore per dare la sua fatica alla luce colle minori macchie che avesse potuto: e forse potrebbe anche esser che quello che ad alcuni suona male, fosse alcuna ombra aggiunta per accrescer il bello, come que' nèi che talvolta rendono più gustosa la vaghezza di un viso. Tengo dunque per fermo che molto avventura chi espone uno scritto alla critica del mondo, essendo impossibile comporlo tale da render soddisfatti e contenti quelli tutti che lo leggeranno.

— Il libro che tratta della mia persona, disse don Chisciotte, pochi avrà per certo appagato.

— Anzi al contrario, lo interruppe Carrasco; che siccome stultorum infinitus est numerus, così infiniti sono quelli che l'hanno assaporato. Non è mancato però chi ascrisse a difetto di memoria dell'autore l'essersi dimenticato di far sapere chi fosse il ladro che rubò il leardo a Sancio, perocché ei racconta che l'asino fu rubato, e poi di lì a poco vediamo che Sancio lo vien cavalcando senza che se ne sappia il come. Lo accusano similmente di avere omesso di dar conto dell'uso fatto da Sancio di quei cento scudi che trovò nel valigiotto in Sierra Morena, i quali scudi non sono più rammentati; mentre molti bramerebbero sapere che cosa Sancio ne fece e come li consumò: e questo dicono ch'è uno dei principali difetti dell'opera.”

Sancio rispose:

— Io, signor Sansone, non mi sento voglia d'investigar o di rifare conti... oh Dio! mi coglie in questo punto uno svenimento da cui se non posso ripararmi con un po' di buon vino vecchio corro a rischio di ammalarmi o di crepare: oh vi so dire che ne ho un barile a casa di perfetto ai vostri comandi, ed intanto penso di andarvi, ché la mia cara moglie mi aspetta: quando mi sarò ristorato lo stomaco tornerò qua e darò a vossignoria e a tutto il mondo quegli schiarimenti che più vorranno così rispetto alla perdita del giumento come all'impiego de' cento scudi.”

Senz'aspettare altre risposte od aggiunger parola, se n'andò Sancio a casa di filo. Don Chisciotte pregò vivamente il baccelliere che stesse a far penitenza seco, e il baccelliere accettò l'invito e restò. Si aggiunse al pranzo consueto un paio di piccioni, e a tavola si ragionò di cose toccanti la cavalleria. Carrasco secondò l'umore di don Chisciotte. Finito il desinare dormirono un pochetto; Sancio intanto tornò, e fu ripigliato l'interrotto ragionamento.


CAPITOLO IV

 

VENGONO SCIOLTI DA SANCIO PANCIA I DUBBII PROMOSSI DAL BACCELLIERE SANSONE CARRASCO E RESTANO SODDISFATTE LE SUE DOMANDE; CON LA GIUNTA Dl ALTRI SUCCESSI DEGNI DI ESSERE SAPUTI E RACCONTATI.

 

Sancio tornò a casa di don Chisciotte; e ripigliando l'interrotto discorso, si fece a dire:

— Quanto a quello che il signor Sansone disse che si desiderava di sapere da chi o come o quando siami stato rubato il giumento, rispondo: La stessa notte in cui scappando dalla Giustizia siamo entrati in Sierra Morena, dopo la sventurata avventura dei galeotti e l'altra del morto ch'era portato a Segovia, il mio padrone ed io ci siamo internati tra certe macchie, dove egli appoggiato alla sua lancia ed io sopra il mio leardo, stanchi e pesti in conseguenza delle passate scaramuccie, cominciammo a riposarci come se fossimo coricati su quattro sprimacciati guanciali. Io dormii sì profondamente che non so chi sia stato colui che a suo grand'agio mettendo quattro puntelli ai quattro angoli della bardella, mi lasciò là cavalcioni, e mi trasse di sotto il leardo senza che io abbia potuto accorgermene.

— Non vi è difficoltà in questo, né questa è novità, disse don Chisciotte, mentre lo stesso intervenne a Sacripante allorché trovandosi all'assedio di Albracca gli fu, mediante la stessa invenzione, cavato di sotto le gambe il cavallo dal famoso ladro Brunello

— Comparve il giorno, soggiunse Sancio, e nel destarmi non ebbi appena data intenzione di muovermi, che spostati i puntelli, diedi uno stramazzone in terra: guardai dell'asino e più non lo vidi. Piansi allora dirottamente, e feci un lamento sì lungo che manca una bella cosa all'opera se l'autore lo ha ommesso. A capo di alcuni giorni poi, trovandomi colla signora principessa Micomicona, io riconobbi il mio asino ch'era cavalcato da Gines di Passamonte in abito di zingaro; quell'imbroglione e quel gran furbo a cui dal mio padrone e da me erano state tolte le catene dai piedi e dalle mani.

— L'errore non consiste in questo, replicò Sansone; ma in ciò, che prima che fosse trovato da Sancio il giumento, dice l'autore che Sancio, cavalcava il leardo medesimo.

— A questo poi altro non so rispondere, disse Sancio se non che o lo storico è caduto in errore, o è stata trascuratezza dello stampatore.

— Così debb'essere indubitamente, disse Sansone; ma come furono impiegati i cento scudi?

— Sono sfumati, rispose Sancio, ed io li ho consumati a benefizio mio, di mia moglie e dei miei figliuoli: e questi scudi sono stati la cagione che mia moglie sopportò pazientemente i viaggi e le corse da me fatte servendo al signor don Chisciotte: ché se dopo sì lungo tempo fossi tornato a casa colle mani vôte e senza asino, la mala ventura mi avrebbe colto: e se c'è chi voglia altro sapere dei fatti miei, eccomi qua pronto a rispondere anche al re in persona: né serve che alcuno si dia la frega di mettere la sua pezzuola per sapere se abbia io portato, o non abbia portato, se abbia speso o non speso, ché se si avessero a pagare con denaro le bastonate che mi hanno regalate in questi viaggi, quando anche si valutassero a quattro maravedis per una, non avrei la metà del mio credito colla giunta di altri cento scudi. Si metta ognuno le mani al petto, né gli venga il ruzzo di giudicar il nero per bianco: perché ognuno segue la sua natura, ed il più delle volte anche peggio.

— Sarà mio pensiero, disse Carrasco, che l'autore della istoria, se la ristamperà, non lasci d'inserirvi quant'ora ha detto il buon Sancio, che sarà un notevole accrescimento di perfezione.

— Evvi altro da emendare in questa leggenda, signor baccelliere? domandò don Chisciotte.

— Debb'esservi sicuramente qualcosa, rispos'egli; non però più importante delle riferite.

— E per ventura, disse don Chisciotte, promette l'autore anche una seconda parte?

— Mai sì, rispose Sansone: dice però che non l'ha ritrovata, né egli sa a cui volgersi per trovarla, e noi dubitiamo se uscirà o no alla luce del mondo: tanto più che non riuscirono mai buone le seconde parti: altri sostengono che quanto si è scritto di don Chisciotte già è abbastanza; e certi uomini poi di umore più gioviale che saturnino, dicono: vengano pure delle altre chisciottate: combatta don Chisciotte e chiacchieri Sancio Pancia, e avvenga ciò che piace, che noi saremo contenti.

— E quale è lo scopo dell'autore? disse don Chisciotte.

— Quale? rispose Sansone: tosto che egli trovi la storia che va cercando con intento animo, la darà alle stampe più colla speranza di farne guadagno che di acquistarne lode.

— In questo caso, disse Sancio, l'autore non guarda che al denaro e all'interesse, e sarà maraviglia che gli riesca cosa degna di lode, perché non farà che imbastire e rimbastire, come fa il sarto alla vigilia di Pasqua: quelle fatture che si compongono in fretta, non riescono mai belle e perfette: oh badi bene, il signor Moro o chi egli si sia, a quello che fa, che io e 'l mio padrone gli potremmo dare sì abbondante materia di avventure e di successi varî fra loro da comporre non una sola seconda parte, ma cento; e badi il dabben uomo che noi non ce ne stiamo qui colle mani alla cintola, ma se ci verrà a ferrare il piede, si accorgerà da quale noi zoppicchiamo; quello poi che so dire si è che se il mio padrone si attenesse al mio consiglio, noi a quest'ora saremmo già in campagna a disfar nuove offese, e a raddrizzar torti, com'è lodevole costume di tutti i buoni cavalieri erranti.”

Non aveva Sancio finite queste parole, che Ronzinante mandò fuori un acuto nitrito da cui trasse don Chisciotte felicissimo augurio, e deliberossi di uscir fuori un'altra volta in nuova campagna fra tre o quattro giorni. Partecipando al baccelliere la sua risoluzione, gli domandò consiglio per dove cominciare dovesse la sua prima giornata; ed egli rispose che era di avviso che se ne andasse alla volta del regno di Aragona e nella città di Saragozza, dove tra non molto doveva farsi una solennissima giostra per la festività di san Giorgio, nella quale avrebbe potuto acquistar fama sopra tutti i cavalieri aragonesi; e ciò sarebbe lo stesso come superare i cavalieri tutti del mondo. Aggiunse che sarebbe a onoratissima e valorosissima la sua risoluzione, e lo avvertì a tenersi più riserbato nell'avventurarsi ai pericoli perché la sua vita non era sua, ma di tutti quelli che ne aveano d'uopo per essere soccorsi e difesi nelle loro sventure.

— Questo è quello che qualche volta mi fa uscire dei gangheri, disse Sancio a tal punto; perché il mio padrone assale cento uomini armati con quella facilità con cui un ragazzo goloso si getta addosso ad una mezza dozzina di frittelle. Corpo del mondo! signor baccelliere, ha da esservi il suo tempo di combatter e quello di ritirarsi, e non sempre si ha da gridare San Jacopo e avanti Spagna; e ciò tanto più quantoché io intesi dire, e dal mio padrone medesimo, se ben mi ricordo, che il valore sta in mezzo agli estremi che sono la codardia e la temerità: ora se così è, mi pare che l'uomo non debba né mettersi a fuggire senza ragione, né cimentarsi quando n'abbia il capriccio. In fine faccio avvertito il mio padrone che se vuole che io lo segua, ciò debb'essere a patto che nelle zuffe ha ad entrare egli solo, e che io non debbo aver altro obbligo fuori quello di tener conto della sua persona in ciò che si appartiene alla pulitezza e al buon servigio: ché in queste gli porterò l'acqua cogli orecchi; ma s'inganna poi a partito se crede che io debba cacciar mano alla spada, se pur fosse contro villani malandrini, e contro la vile ciurmaglia. A me, signor Sansone mio, non passa neppur in pensiero di acquistar fama di valoroso, ma bastami il nome del migliore e del più leale scudiere che abbia servito mai cavaliere errante; e se il mio signor don Chisciotte, obbligato dai miei molti e buoni servigi, vorrà regalarmi una delle molte isole che sua signoria dice di dover conquistare fra poco, io l'avrò per buona retribuzione; e in caso che non me la dia vi so dire che sono al mondo ancor io, e che l'uomo non ha da vivere sulle speranze che gli dànno gli uomini, ma nella confidenza in Dio; e può forse accadere che mi riesca più saporito il pane sgovernato che quello di governatore. E non potrebbe il diavolo apparecchiarmi in questi governi qualche trabocchetto da farmi inciampare e cadere e rompere i mascellari? Oh io nacqui Sancio, e Sancio voglio morire: e se a fronte di tutto questo piacesse al cielo, senza mio molto fastidio o risico, di offrirmi per caso qualche isola od altra simile cosa, non sarei già sì balordo da rifiutarla; ché dice il proverbio: se altri ti dà la giovenca, e tu mettile la corda al collo; e quando ti arriva il bene, portalo in casa tua.

— Voi, fratello Sancio, disse Carrasco, avete parlato come uomo da cattedra; confidate pure in Dio e nel signor don Chisciotte, che egli vi donerà un regno nonché un'isola.

— Tanto mi fa l'uno come l'altra, rispose Sancio; e so dire al signor Carrasco che se il mio padrone darà un regno a me non lo avrà messo per questo in un sacco rotto; ed io già mi ho tastato il polso ben bene, e mi trovo forte quanto basta per mettermi alla testa di regni ed al governo d'isole; cosa che ho già replicamente detto al mio padrone.

— State, o Sancio, sopra voi stesso, disse Sansone, ché gli offìci mutano i costumi; e potrebbe accadere che trovandovi fatto governatore non conosciate più la madre che vi ha partorito.

— Questo si ha da dire, rispose Sancio, a chi è nato nei deserti, e non ha l'anima unta con quattro dita di sugna da cristiano vecchio come la tengo io: né io sono uomo a cui si possa dare meritamente la taccia d'ingrato verso chicchessia.

— Piaccia a Dio che sia così, disse allora don Chisciotte e ne avremo la prova quando venga l'ora del governo, e che già mi pare di averlo dinanzi agli occhi...”

Ciò detto, pregò il baccelliere che s'egli era poeta volesse comporgli qualche verso che trattasse del commiato che pensava pigliar dalla sua signora Dulcinea del Toboso, coll'avvertenza di cominciare ogni riga con una lettera del nome di lei, di maniera che, unendo la prima lettera d'ogni verso, si leggesse Dulcinea del Toboso. Il baccelliere rispose che quantunque non fosse uno dei rinomati poeti viventi in Ispagna (i quali, a parer suo, non oltrepassavano il numero di tre e mezzo), non lascerebbe di comporre in tal metro, se non che la sua composizione trovato avrebbe grandi ostacoli a cagion che le lettere contenute in quel nome erano diciassette, e componendo quattro castigliane di quattro versi sopravvanza una lettera, e se di cinque (che si chiamano decine o ridondiglie) mancavano tre lettere; contuttociò procurerebbe d'incastrare una lettera dove meglio credesse per modo che nelle quattro castigliane si racchiudesse il nome di Dulcinea del Toboso.

— Così debb'essere assolutamente, disse don Chisciotte: che se il nome non è patente e a pennello, ogni altra donna potrebbe credere che la poesia fosse composta per lei.”

Così convennero, e la partenza fu stabilita tra otto giorni. Don Chisciotte prescrisse al baccelliere di non parlarne a nessuno, specialmente al curato ed al barbiere, nonché alla serva ed alla nipote, affinché non si opponessero a così onorata e valorosa risoluzione. Carrasco promise di obbedirlo; e con questo si tolse licenza da don Chisciotte, pregandolo che lo informasse di tutti i suoi o avventurosi o disgraziati successi quando ne avesse opportunità. Si separarono, e Sancio andò a metter in pronto ogni cosa per la terza uscita in campagna.


CAPITOLO V

 

DELL'ACCORTA E GRAZIOSA CONVERSAZIONE TENUTA DA SANCIO PANCIA CON TERESA SUA MOGLIE, E DI ALTRI AVVENIMENTI DEGNI DI FELICE RICORDANZA.

 

Entrando il traduttore di questa istoria a trascrivere il presente quinto capitolo, dichiara che lo tiene per apocrifo; giacché Sancio Pancia parla qui d'un modo troppo diverso da quello che lo scarso suo ingegno poteva promettere, e dice cose sì ponderate e sottili da parergli impossibile che le sapesse. Non volle per questo lasciar di tradurlo per non mancare al suo dovere, e quindi prosegue nel seguente modo:

Giunse Sancio a casa sua con sì grande giubilo e festa che a un tiro di balestra Teresa sua moglie si accorse della sua letizia e gli disse:

— Che rechi tu di buono, amico Sancio, ché sei così lieto?

— Moglie mia, le rispose, se piacesse a Dio vorrei non essere così contento come ti sembro.

— Non intendo, marito mio, replicò ella, né so concepir perché tu dica che brameresti, piacendo a Dio, non essere contento come apparisci; per quanto io sia balorda non so che vi sia chi non goda di esser contento.

— Sappi, Teresa, rispose Sancio, che la mia gioia proviene dall'essermi determinato di tornare al servigio del mio padrone don Chisciotte, il quale è ora deliberato d'uscire una terza volta in campagna a cercar avventure. Io voglio seguirlo costretto dalla necessità ed anche dalla speranza che mi consola nel pensar se potessi trovare altri cento scudi come i già inghiottiti; ma mi sconforta l'idea di dovermi divider da te e dai miei figliuoli, che se a Dio piacesse di darmi da mangiare a piede asciutto e in casa mia senza farmi girare per catapecchie e per precipizî (ché lo potrebbe fare con poca spesa e col solo volerlo), egli è di tutta evidenza che questa mia allegrezza sarebbe più stabile e vera, quando adesso è mista al dolore di dovervi abbandonare. Ho dunque detto bene che avrei un gran gusto, se Dio volesse, di non essere contento.

— Gran che, Sancio mio, gli rispose donna; da che sei divenuto membro di cavaliere errante tu parli in maniera raggirativa, tanto che nessuno ti può capire.

— Basta che m'intenda Dio, moglie mia, rispose Sancio, ch'egli è l'intenditore di tutte le cose; e non andiamo più in là. Ricordati, sorella, che bisogna tener bene in ordine in questi tre giorni il nostro asino, affinché sia poi atto a portare l'arme: tu raddoppia la dose del suo mangiare, esamina la bardella e le cose tutte, perché noi non anderemo già a nozze, ma sì bene a dare una giravolta per lo mondo, a contrastare con giganti e con visioni e con fantasime, ad udire fischi, ruggiti, mugghi e belamenti: e tutto ciò sarebbe ancora uno zucchero se non si dovesse venir alle prese con Janguesi e con Mori incantati.

— Credo bene, marito mio replicò Teresa che gli scudieri erranti non mangino il pane senza grandi sudori, e sta sicuro che io raddoppierò le mie preghiere al Signore perché presto ti liberi da sì trista condizione.

— Ti protesto moglie cara, Sancio soggiunse, che s'io non pensassi che fra poco sarò governatore di un'isola vorrei cadere morto se di qua mi movessi.

— Oh questo poi no, marito mio, replicò Teresa; viva la gallina se anche ha la pipita: vivi tu, e venga il canchero a quanti governi vi sono al mondo: sei uscito dal ventre di tua madre senza governo, sei vissuto sino adesso senza governo, e senza governo te ne andrai e sarai messo in sepoltura quando Dio vorrà; e poi tanti e tanti vivono a questo mondo senza aver alcun governo, e per questo tralasciano forse di passar avanti e di stare tra i viventi? La più buona salsa che si trova è la fame; quando questa non manca i poveri mangiano sempre con appetito: per altro statti bene all'erta, o Sancio, e se per caso otterrai questo tuo benedetto governo non dimenticare che hai moglie e figliuoli: ricordati che Sancetto ha ormai quindici anni compiti, ed è tempo che cominci andare alla scuola se il suo signor zio prete lo ha da incamminare al sacerdozio: ricordati che Maria Sancia tua figliuola capiterà male se non le daremo marito; e che mi va dicendo il cuore, che tanto ella ha voglia di maritarsi quanto l'hai tu del tuo governo, e al fine dei fini è sempre cosa prudente ed ottima che una ragazza sia accasata, o bene o male, perché non si perda altrimenti.

— Ti do la mia parola, rispose Sancio, che se la fortuna vuole ch'io mi guadagni qualche governuccio mariterò Maria Sancia sì altamente che non la potranno arrivare se non con chiamarla signora.

— A ciò non consento io, o Sancio, rispose la moglie: maritala con un suo pari, che questo è il meglio: se cambia gli zoccoli in pianelle e la zimarra di panno bigio in grandiglia e gammurra di seta, e se di una Mariuzza e di un tu si faccia la donna o la signora tale, la nostra ragazza non saprà più di essere a questo mondo, darà a ogni passo in ciampanelle, e farà presto conoscere il filo della sua grossa tela.

— Taci, sciocca, interruppe Sancio; ché le difficoltà non potranno durare più di due o tre anni, e poi la signoria e la gravità le calzeranno come dipinte; e quando anche ciò non fosse, che importa egli? diventi signora, e seguane quello che si vuole, ché non serve altro.

— Misurati, Sancio, col tuo stato, rispose Teresa, e non dimenticarti il proverbio che dice: Al figlio del tuo vicino nettagli il naso e piglialo per tuo. Oh la sarebbe una bella cosa l'accasare la nostra Maria con un gran conte o con un gran cavaliere, che venendogli poi qualche altra fantasia la facesse entrare in un guscio di noce, chiamandola villana, figlia di un rompizolle, di una pelarocche! io non lo permetterò finché mi staranno occhi aperti, sai; ché io non ho già allevato la mia figliuola perché abbia ad avere disgusti di questa sorta. Pensa, Sancio, a portare danari, e lascia poi a me di maritarla: abbiamo Lope Toccio, il figliuolo di Giovanni Toccio, giovane gagliardo e sano, che conosciamo molto bene, e che non guarda la ragazza di mal occhio; con questo, ch'è nostro uguale, sarebbe assai bene maritata, e noi la avremmo sempre dinanzi agli occhi e saremmo tutti una cosa, padri e figli, nipoti e generi, e la benedizione del Signore sarebbe sempre in casa nostra: e questo saria pur meglio che farla sposa in qualche corte o in qualche gran palazzo dove non trovi chi la intenda o chi sia inteso da lei.

— Ma dimmi un poco, moglie di Barabba, o bestia che sei, replicò Sancio: e perché mai opponi senza ragione alcuna ch'io mariti mia figliuola con chi possa darmi dei nipoti che ti chiamino signoria? Teresa cara, io ho sentito a dire da' miei antenati, che quello che non sa profittare della sorte quando gli si presenta, ha da dolersi di se stesso se le scappa di mano; e sarebbe pur mal fatto che noi non le aprissimo la porta ora che vi sta picchiando; e lasciamoci condurre dal vento prospero che adesso soffia. (Per questa maniera di dire, e per ciò che più sotto si esprime da Sancio, dichiarò il traduttore di questa storia di tenere per apocrifo il presente capitolo). E non ti pare egli, animalaccia, continuò Sancio, che sarà una buona fortuna se io sarò preposto a qualche governo, che dandoci buoni proventi ci tolga dal fango, e se potrò maritare Maria Sancia con chi mi va più a genio? Allora sentirò a chiamarti donna Teresa Pancia, e allora tu potrai sederti in chiesa sopra i tappeti, i guanciali e gli arazzi a dispetto e a vergogna delle mogli degli idalghi del paese... Ma no, no; restati pur sempre nel tuo guscio né darti pensiero alcuno di alzarti, e statti a tuo luogo come i santi delle muraglie; e non facciamo altre parole intorno a questo... già la Sancetta dev'esser contessa, di' pure tu quello che ti pare.

— Tu non sai quello che ti vai cianciando, replicò Teresa: a fronte di tante tue belle parole io sostengo che questa tale contea condurrà nostra figliuola sul carro della malora; fa pure a modo tuo, e fa che sia anche duchessa o principessa, che tutto sarà sempre contro la mia volontà ed il mio consenso. Eh, fratello mio, io non ho mai saputo scostarmi dalla mia condizione, e non posso soffrir le alture senza fondamento: Teresa mi chiamarono nel battesimo, nome semplice e schietto, senza giunte o ricami di donni e di donne: Cascascio si chiamò mio padre, e per esser tua moglie sono chiamata Teresa Pancia, che di giusta ragione dovrebbero chiamarmi Teresa Cascascio: ma tutto serve al costume, e mi contento di questo nome senza che vi appiccichino un don che sarebbe per me un peso insopportabile. E poi non voglio mai dare di che dire a chi mi vedesse andar vestita alla contessìle od alla governatorile, ché subito direbbero: Guardate in che albagia monta quella misera femminuccia: ieri aveva appena tanto pennacchio di stoppa da poter filare, ed oggi va alla messa coperta la testa colla falda del gamurrito in cambio di velo, e vuol comparire con faldiglia e con bottoni e in tono di gravità come se noi non sapessimo chi ella è! Se Dio mi lascia i miei sette sentimenti o cinque, o quelli che insomma che ho, non m'indurrò mai a farmi metter in canzone: va pur tu, fratello, ad esser governo o isolo, e monta tu in superbia a tuo piacimento, ma giuro per lo secolo che ha indosso mia madre, che né io né tua figliuola moveremo un passo fuori del nostro paese. La moglie onorata dee stare in casa facendo conto di avere le gambe rotte; e l'onesta figliuola ha da far consistere il suo divertimento nel lavorare per la famiglia. Va dunque tu a tua voglia col tuo don Chisciotte per le buone venture e lascia noi qui colle nostre male venture, che se ne saremo degne, il Signore migliorerà il nostro stato. Non vi sarà ragione che si abbia a mettere la giunta del don, che non hanno portato mai nostro padre né i nostri avi.

— Ora sì, replicò Sancio, che io suppongo che tu abbia in corpo qualche spirito folletto. Che Dio m'aiuti, come sei tu andata infilzando tanti spropositi senza né capo né coda? Che hanno qui a fare i Cascasci, i bottoni, i proverbi e l'albagia con quello ch'io dico? Vien qua, mentecatta e ignorante (ché ben posso darti cotesti nomi da che non intendi ciò che ti dico, e volgi le spalle alla fortuna); s'io avessi detto che mia figliuola avesse a precipitare da una torre o ad andare vagando per lo mondo come la infanta donna Uracca, ti darei ragione di non accogliere i miei disegni; ma se in due sole parole o in meno di un aprire o serrare gli occhi te le pianto addosso un don o una signora, e la tolgo dalle stoppie, e la pongo in gravità ed a sedere su di uno strato con più guanciali di velluto che non ebbero in uso i Mori della stirpe degli Almohadi di Marocco, perché non hai tu da volere quello che voglio io?

— Sai tu perché? rispose Teresa, per causa del proverbio che dice: Chi ti cuopre ti scuopre. Sul povero passa tutto senza osservazione, ma il ricco è minutamente considerato; e se il tale ricco fu povero un giorno, oh allora sì che si mormora e si maledice; e non fanno altro che dire le male lingue, che se ne trovano a monti per le strade e come sciame di pecchie.

— Badami, Teresa, rispose Sancio, e senti quello che ti voglio dire, e che non l'avrai forse più inteso in tutto il tempo della tua vita; e in questo punto, sai, non parlo di mia testa, oibò, sono tutte sentenze del padre predicatore che predicò la passata quaresima in questo paese.

Se male non ricordo egli così la discorreva: tutte le cose che ci sono presenti, e si mirano cogli occhi, stanno impresse nella memoria con forza molto maggiore delle passate. (Questo discorso che Sancio va facendo è il secondo motivo per cui il traduttore tiene per apocrifo questo capitolo, perché eccede la capacità sua). Seguitò dunque dicendo:

Donde nasce egli che quando ci si presenta una persona bene composta e vestita con isfarzo e con un gran codazzo di servitori, sembra che ci troviamo obbligati quasi a forza di portarle rispetto? e tuttoché ci torni a memoria l'umile condizione in cui l'abbiamo veduta precedentemente, quella primitiva bassezza, sia ella proceduta da povertà o da oscura prosapia, non avendo esistenza, non è più, e resta unicamente quello che ci vediamo dinanzi. Se quel tale cui sollevò la fortuna dal fondo di sua abbiezione (son le parole proprie del predicatore) all'apice della prosperità, fosse ben creato, liberale e cortese, né si mettesse e disputare sul conto di quelli che vantano antica nobiltà, non è egli vero, Teresa, che non si troverebbe chi si rammentasse del primiero suo essere? Sarebbe anzi riverito pel suo stato presente a meno che non incappasse in qualche invidioso contro il cui morso non vale fortuna per prospera che sia.

— Marito mio, io non t'intendo punto, disse Teresa; fa quello che ti pare e piace, né mi rompere altro la testa colle tue rettoriche; e se sei risolto a fare quello che dici...

Risoluto hai a dire, moglie mia, interruppe Sancio, e non risolto.

— Non ti mettere a disputare con me, marito mio, replicò Teresa, che io parlo come Dio vuole e non amo fantasticarmi, e soggiungo che se ti sta fitto in testa il governo, almeno conduci con te tuo figlio Sancetto per ammaestrarlo anche lui a governare, essendo ben fatto che i figliuoli sieno eredi, e si istruiscano dell'officio del genitore.

— Subito che sarò nominato governatore, disse Sancio, manderò a prenderlo per le poste, e ti manderò dei danari, che certo non mi mancheranno, poiché sempre si trova chi ne dà a prestito ai governatori quando ne sono senza; e allora lo vestirai in modo che non gli resti ombra di quello che era, ed apparisca quello che dovrà essere.

— Manda pur tu il denaro ch'io lo vestirò, e sarà bello come una palma, disse la moglie.

— Restiamo intesi, rispose Sancio, che nostra figliuola ha da essere contessa.

— Il giorno in cui la vedrò contessa, replicò Teresa, fo conto di seppellirla; ma torno a dire che tu farai quello che più ti andrà a garbo, perché si sa bene che noi altre donne nasciamo con l'obbligo connaturale di obbedire ai nostri mariti, fossero anche tanti stivali.”

Dopo questo discorso si pose a piangere sì dirottamente come se già si vedesse dinanzi morta e seppellita Sancetta. Sancio la racconsolò, assicurandola che dovendo farla contessa, indugerebbe il più che potesse; e così terminò il lungo colloquio, e tornò Sancio a rivedere don Chisciotte per disporre con lui ogni cosa per la partenza.



CAPITOLO VI

 

CIÒ CHE SEGUÌ TRA DON CHISCIOTTE, LA SUA NIPOTE, E LA SERVA: UNO DEI PIÙ IMPORTANTI CAPITOLI DI TUTTA L'ISTORIA.

 

Tra Sancio Pancia e sua moglie Teresa Cascascio seguiva il riferito colloquio, e intanto non se ne stavano già oziose la nipote e la serva di don Chisciotte, che per mille indizi venivano accorgendosi che lo zio e padrone divisava già di far la terza uscita in campagna, e di tornare all'esercizio della sua (come esse dicevano) malerrante cavalleria. Procuravano di distorlo, con ogni miglior modo da quell'infausto pensiero; ma tutto era un predicare al deserto, e il batter su di un ferro freddo. Contuttociò fra i molti ragionamenti con lui tenuti, gli disse la serva:

— In verità, padron mio, che se vossignoria non tiene piè fermo restando a casa sua, e se si conduce per monti e per valli come anima in pena, cercando queste avventure, che a me paiono invece disgrazie, io farò lagnanze tanto clamorose che giungeranno a Dio e al re, il quale vi porrà rimedio.”

Don Chisciotte rispose:

— Serva, non so che sarà per rispondere Iddio né tampoco la maestà del re alle tue querimonie; so unicamente che se io fossi re mi disobbligherei dal rispondere a quella infinita quantità di memoriali impertinenti che tuttogiorno gli vengono presentati: ché uno dei più grandi travagli che hanno i re, fra gl'infiniti, quello si è di essere obbligati ad ascoltare tutti, e rispondere a tutti; e per conto mio bramerei che non gli venisse recata molestia alcuna.”

Soggiunse la serva: — Signore, dica di grazia: in corte di sua maestà non vi sono cavalieri?

— Ve n'ha, e molti, rispose don Chisciotte, ed è ciò ben ragionevole, perché servano di ornamento alla grandezza dei principi e di pomposa mostra della maestà regia.

— E non potrebbe vossignoria, replicò l'altra, essere uno di quelli che a piè fermo servono al re e alle signore standosi in corte?

— Rifletti, amica mia, rispose don Chisciotte, che non tutti i cavalieri possono essere cortigiani, né tutti i cortigiani possono o debbono essere cavalieri erranti. V'hanno al mondo cavalieri di ogni sorta, e benché siamo tutti di una pasta, corre tra gli uni e gli altri una essenziale differenza. I cortigiani senz'uscire dagli appartamenti né dal limitare della corte scorrono il mondo tutto col solo tener gli occhi sopra una mappa, senza veruna spesa, né patir caldo o freddo o fame o sete; ma noi altri, che siamo veri cavalieri erranti, misuriamo col compasso de' nostri piedi tutta la terra, esposti al sole, al freddo, al vento, alla inclemenza del cielo, di notte e di giorno, a piedi e a cavallo: né conosciamo già solamente i nemici per descrizione, ma nel loro essere reale: e ci mettiamo contro di loro senz'alcun riguardo a pericolo od a circostanza, e senza perderci in bagattelle, né facendo conto veruno delle leggi regolatrici delle disfide, come a dire: se la lancia ovvero la spada dell'avversario sia troppo lunga, se porti seco reliquie o testimonî, o qualche celato inganno, e se hassi a partire e ridurre a pezzi il sole ovvero no, con altre cerimonie di simil natura che a te son ignote, e ch'io pienamente conosco. Devi sapere in aggiunta che il buon cavaliere errante, tuttoché trovisi a petto di dieci giganti la cui testa non pure tocchi, ma sormonti le nubi, i quali giganti abbiano in vece di gambe due grandissime torri, colle braccia somiglianti ad alberi di poderose navi, ed ognuno degli occhi loro sia come una gran ruota di mulino, ed arda più che un forno da vetri, non ha da concepirne il menomo ribrezzo: anzi con disinvoltura ed intrepido cuore li deve assalire e combattere, e vincerli e sbaragliarli se fosse possibile in un attimo, benché portassero armature formate di conchiglie di un certo pesce che dicono essere più duro che se fossero di diamanti, e in luogo di spade portassero taglienti coltelli di acciaio damaschino, o mazze ferrate con punte pure di acciaio, come più di due volte m'è avvenuto di vederne. Dico tutto questo, serva mia, perché tu vegga quale differenza passa tra gli uni e gli altri cavalieri e sarebbe mestiere che principe non vi fosse da cui non fosse tenuta in maggior estimazione questa seconda, o, a meglio dire, questa prima specie di cavalieri erranti, leggendosi nelle loro istorie esservene stato taluno fra loro che salvò non un solo, ma molti regni.

— Ah! signor zio, entrò a dir la nipote a tal punto, badi bene che quanto ella dice intorno ai cavalieri erranti è favola e mera invenzione, e meriterebbero le storie loro (se non fossero prima bruciate) che fosse soprapposto a ciascuna un sambenito, od altro segnale atto a farle conoscere come infami e guastatrici dei buoni costumi.

— Per quel Dio che mi tiene in vita, che che se tu non mi fossi nipote in dritta linea, come figlia della mia stessa sorella, ti darei tale castigo per le bestemmie da te proferite, che avesse a rendersi palese al mondo tutto. Come può esser mai che una tristanzuola che sa appena dimenare dodici piombini da reticelle, osi muovere lingua a censurare le storie dei cavalieri erranti? Che ne direbbe se ti udisse il signor Amadigi? Benché sono certo che anch'egli ti darebbe generoso perdono, avendo portato il vanto del più umile e cortese cavaliere dei giorni suoi, ed anche di celebre difensore delle donzelle. Potrebbe darsi però che qualcuno ti avesse sentita, e che te ne ridondasse gravissimo danno; poiché non tutti sono cortesi né circospetti, ma all'opposto ve n'ha di codardi e malcostumati, né tutti quelli che s'intitolano cavalieri lo sono interamente; ché alcuni sono di oro, altri di alchimia, ed hanno di cavaliere sol l'apparenza, ma non reggono poi al paragone della verità. Si dànno certi uomini di bassa portata e vili che impazziscono per apparire cavalieri; e cavalieri vi sono che, quantunque sublimi, fanno tutto il possibile per comparire uomini bassi, si alzano i primi mediante l'ambizione e la virtù; questi si abbassano o colla dappocaggine o col vizio, ed è quindi necessario grande sforzo d'ingegno per distinguere questi generi di cavalieri tanto eguali nel nome e tanto dissimili nelle azioni.

— Poffar il mondo! disse la nipote: tanto è dotto il mio signor zio, che in caso di bisogno potrebbe montare in pulpito, o andarsene a predicar per le strade; e con tutto ciò cade in una cecità sì perfetta, ed in pazzia tanto evidente che si dà a credere di essere valoroso mentre è vecchio, di avere gran forza mentr'è infermo, di drizzare torti mentre è curvato dagli anni, e soprattutto di essere cavaliere non lo essendo; perché quantunque gli idalghi possano diventar cavalieri, ciò per altro non accade mai ai poveri.

— Hai gran ragione, o nipote, in quello che dici, rispose don Chisciotte, e potrei aggiugner cose intorno ai lignaggi che ti fariano stupire, ma per non immischiare il divino coll'umano mi taccio. Considerate per altro mie buone amiche; a quattro sorta di stirpi (e statemi attente), possono ridursi tutte le razze o famiglie che si trovano al mondo: quelle che partirono da bassi principî, e si estesero dilatandosi in modo da pervenire a una somma grandezza; quelle che riconobbero grandi principî, e si andarono conservando e si conservano tuttavia quali erano nella loro primitiva origine: quelle che ad onta de' grandi cominciamenti terminarono in una punta come piramide, che rispetto alla sua base e fondamento può considerarsi un niente; quelle finalmente, e sono il maggior numero, nelle quali, né buon principio si riconosce, né mezzo mediocre e perciò finiranno senz'alcuna riputazione, come si è il lignaggio della gente plebea ed ordinaria. Quanto alle prime che partirono da bassi principî, e si alzarono alla grandezza che tutt'ora conservano, sia d'esempio la casa Ottomana, che da un umile e basso pastore che l'ha fondata, pervenne all'apice in cui la veggiamo. Del secondo lignaggio ch'ebbe principio nella grandezza e la conserva senz'aumentarla, servano di esempio molti principi, che tali sono per eredità, e la custodiscono senz'accrescerla o diminuirla, contenendosi pacificamente entro i confini dei loro Stati. Mille poi sono gli esempi di quelli che cominciarono grandi e terminarono in punta; perché tutti i Faraoni, i Tolomei d'Egitto, i Cesari di Roma con tutta la caterva (se pure se le può dar questo nome) d'infiniti principi, monarchi, signori medi, assirî, persiani, greci e barbari, tutti questi lignaggi e signorie finirono in punta, e si risolsero in nulla, così eglino, come quelli che diedero loro l'origine, perché invero non sarà possibile trovare a' dì nostri veruno dei loro discendenti; o se fosse possibile, li vedremmo ridotti nel più basso ed umile stato. Non voglio aggiunger nulla intorno al lignaggio plebeo, se non che serve egli unicamente ad accrescere il numero dei viventi che non possono ambire verun'altra fama ed elogio, né aspirare ad altra grandezza. Da tutto quello che ho detto, intendo che abbiate ad inferirne, scioccherelle mie, come sia grande la confusione che corre tra i lignaggi; e che appariscono grandi ed illustri quelli soltanto che tali si mostrano per la virtù, le ricchezze e la liberalità di chi li possiede. Dissi virtù, ricchezze e liberalità, perché il grande che fosse vizioso sfoggerebbe il vizio in grado eminente, ed il ricco non liberale sarebbe un miserabile avaro; infatti, chi tiene ricchezze non è già felice per possederle, ma per consumarle col farne buon uso. Al cavaliere che trovasi in povertà non altro resta per mostrarsi cavaliere veracemente, se non che essere virtuoso, usando affabilità, costumatezza, cortesia, compostezza e buon garbo, e lungi da lui debbe starsene la superbia, l'arroganza, la mormorazione. Metta sua opera in farsi conoscere caritativo, ché con soli due maravedis dati di buona voglia ad un povero, si mostrerà liberale quanto colui che fa limosina a tocco di campana; né vi sarà chi adorno veggendolo delle virtù già dette, tuttoché nol conosca, nol tenga in conto di uomo d'illustre condizione; ma ben sarebbe prodigio che ottenesse tal credito, chi fosse sfornito di qualità sì cospicue.

La lode è stata sempre il premio della virtù, e gli uomini virtuosi furono sempremai celebrati. Due sono le strade, figliuole mie, che guidano al possedimento delle ricchezze e dell'onore; l'una è quella delle lettere, l'altra quella dell'armi. Io l'arme tratto più che le lettere, e nacqui ad esse inclinato sotto gl'influssi del pianeta Marte: di sorte che mi è ormai quasi indispensabile di battere un tale cammino, e questo debbo calcare a dispetto di tutto il mondo, e sarebbe gettata al vento ogni vostra cura per indurmi a non voler ciò che mi costringono a voler i cieli, e dispone la fortuna, e ragione domanda, e soprattutto esige l'espressa mia volontà. Ho piena cognizione delle innumerabili traversie che sono annesse alla errante cavalleria, ma noti per egual modo mi sono gl'infiniti beni che da essi derivano: angusto il sentiero della virtù, vasto e spazioso quello del vizio, ed i loro fini sono assai differenti; mentre quello del vizio dilatato e aggrandito finisce in morte, e l'altro della virtù stretto e travaglioso finisce in vita, e non già in vita che termina ma in quella che non ha più fine. Ricordo quello che disse il nostro valoroso poeta castigliano:

“Per questi aspri sentieri si va alla sede dell'eternità, d'onde, chi una volta vi arriva, non declina mai più.”

— Ahi! meschina di me, disse la nipote, che il mio signore e poeta, sa di ogni cosa e di ogni cosa s'intende. Possa io morire se non sa fabbricare una casa come una gabbia, sol che si metta in testa di voler esercitare l'arte di muratore.

— Io ti assicuro, nipote, rispose don Chisciotte, che se questi pensieri cavallereschi non occupassero tutti i miei sensi, non vi sarebbe cosa che da me non si facesse, né bizzarra manifattura che non uscisse dalle mie mani, e massimamente gabbie e stuzzicadenti.”

La povera serva era rimasta a bocca aperta, udendo la lunga tiritera di don Chisciotte.

In questo picchiarono alla porta, e domandandosi chi era, rispose Sancio Pancia: “Son io.” Appena la serva l'ebbe conosciuto, che andò a rimpiattarsi per non vederlo: a tal segno era da lei abborrito! Gli aprì la porta la nipote, ed egli andò incontro a braccia aperte al suo padrone don Chisciotte, che con lui si chiuse in camera dove seguì fra loro un altro colloquio di non minore importanza di quello già riferito.


CAPITOLO VII

 

DI CIÒ CHE SEGUÌ TRA DON CHISCIOTTE ED IL SUO SCUDIERE, CON ALTRI FAMOSISSIMI AVVENIMENTI.

 

Appena la serva ebbe veduto Sancio in conferenza segreta con don Chisciotte, e subito s'immaginò che dalla loro consulta dovesse venire la determinazione di fare una terza uscita in campagna. Si racconciò dunque un poco, e copertasi del suo velo la testa andò in traccia del baccelliere Sansone Carrasco, sembrandole che per esser buono parlatore ed amico recente del suo padrone, potrebbe riuscire a distorlo da così strano sproposito. Trovollo che stava passeggiando nel cortile di casa sua, e al primo vederlo si gettò ai suoi piedi tutta affannata e in sudore. Carrasco che la vide sì dogliosa e sconvolta, le domandò subito:

— Che v'ha di nuovo, mia buona donna? che gran motivo v'ha di vedervi tanto agitata che pare abbiate a lasciare la vita da un momento all'altro?

— Nient'altro, mio signor Sansone, rispose, se non che il mio padrone se n'esce ed esce indubitamente.

— E da che parte n'esce? gli si è rotta forse qualche parte del corpo?

— Niente affatto, ma egli esce per la porta della sua pazzia, rispose la serva; e voglio dire, signor baccelliere dell'anima mia, ch'egli vuole adesso uscire di nuovo in campagna, che sarà la terza volta, andando a cercare pel mondo quello ch'egli chiama venture, benché io non sappia concepire perché si serve di questo male adattato nome. La prima volta lo ricondussero a casa attraverso ad un giumento e fracassato dalle bastonate; la seconda venne su di un carro tirato da buoi e rinserrato in una gabbia, dove egli s'immaginava di essere incantato: e arrivò il pover'uomo sì malconcio che non lo avrebbe conosciuto la madre che lo partorì, era smunto, giallastro, cogli occhi concentrati nelle ultime cavità del cervello, e tale che per farlo tornare in sé un cotal poco, mi bisognò mandare a male più di seicento ova, come ben lo sa Dio, il mondo e le mie galline, che non mi daranno mai una mentita.

— Ne sono certissimo, rispose il baccelliere, poiché sono sì buone, sì grasse e sì ben costumate che non direbbero una cosa per un'altra se pure scoppiassero: in sostanza, signora serva, non c'è più di questo? né altro disordine è successo se non che si dubita che il signor don Chisciotte, voglia andarsene per la terza volta?

— Niente altro, rispose la serva.

— Ebbene, soggiunse il baccelliere, non ve ne date fastidio: andatevene a casa vostra tranquilla, preparatemi qualche cosa calda da asciolvere, e intanto per la strada recitate l'orazione di sant'Apollonia, se la sapete, ch'io vi raggiungerò or ora, e vi farò vedere maraviglie.

— Meschina di me! replicò la serva: mi suggerisce vossignoria ch'io reciti l'orazione di sant'Apollonia? sarebbe buona se il mio padrone avesse male di denti, ma il suo male consiste in una infermità del cervello.

— So quello che dico, signora serva; andate, né vi mettete a piatire con me, rispose Carrasco, perché sapete bene ch'io sono baccelliere in Salamanca, né occorre di più.”

Con questo la serva andò via, e il baccelliere si recò subito in traccia del curato per conferire su quelle cose che a suo tempo saranno riferite.

Stavano intanto rinchiusi insieme in una camera don Chisciotte e Sancio, e passavano fra loro i discorsi che con molta esattezza e con veridica relazione racconta la storia. Disse Sancio al suo padrone:

— Signore, ho rilotta mia moglie a permettere ch'io seguiti vossignoria dove mi vorrà menare.

Ridotta hai a dire, o Sancio, risposegli don Chisciotte, e non già rilotta.

— Due o tre volte, replicò Sancio, se ben mi ricordo, ho pregato vossignoria che non si faccia a correggere i miei vocaboli quando ella già intende abbastanza quello che voglio dire; e se non l'intende, dice: Sancio, o diavolo, spiegati meglio, e allora se non saprò farmi capire potrà correggermi, che io sono sempre tocile.

— Ecco che non t'intendo, o Sancio, disse don Chisciotte, e non so che voglia significare io sono tocile.

Sempre tocile, vuol dire, rispose Sancio, sono sempre così.

— T'intendo ora manco, replicò don Chisciotte.

— Se non può intendermi, rispose Sancio, io non so come spiegarmi meglio, che Dio ci aiuti.

— Ah! ah! la indovino ora, rispose don Chisciotte: tu vuoi dire che sei docile, pieghevole, che ascolterai quello che ti dirò, e che metterai a profitto le mie lezioni.

— Che io caschi morto, disse Sancio, se vossignoria non mi aveva pur bene inteso da prima; ma si è goduto a confondermi per cavarmi di bocca qualche scempiaggine.

— Potrebbe anche essere, soggiunse don Chisciotte: ma in sostanza, e che dice Teresa?

— Teresa dice, rispose Sancio, che io leghi bene il mio dito con vossignoria; che carta canta e villan dorme: patti chiari, amici cari; è meglio un tien tieni che cento piglia piglia; e a questi proverbî io soggiungo che il consiglio della moglie è poco, ma colui che non lo piglia è sciocco.

— Sono del tuo stesso avviso, disse don Chisciotte, e tira pur innanzi così, amico Sancio, che oggi tu sputi perle.

— La conclusione si è, replicò Sancio, che, come la signoria vostra sa meglio di me, noi siamo tutti mortali; che oggi abbiamo gli occhi aperti e domani chiusi; e tanto se ne va l'agnello come il montone: e nessun vi è al mondo che possa contare su di un'ora sola di vita oltre ai confini che ha stabilito Domeneddio, perché la morte è sorda, e quando viene a picchiare la porta della nostra vita ha sempre gran fretta; non vagliono a tenerla indietro preghiere, forza, scettri o mitre, come tutti sanno e come disse il padre predicatore dal pulpito.

— Questo è tutto vero, soggiunse don Chisciotte, ma non vedo dove tu voglia adesso riuscire.

— Voglio riuscire, disse Sancio, che vostra signoria mi assegni un salario certo per ogni mese, che resterò al suo servigio, e che questo salario, mi venga pagato sulle sue rendite, perché non voglio stare in aspettativa di favori che giungono o tardi o male o non mai; finalmente voglio sapere quale sarà il mio guadagno, poco o molto che sia, che la gallina comincia a covare su di un uovo solo; e molti pochi fanno un assai; e quando si guadagna qualche cosa non si perde niente: è vero che se succedesse (cosa che né credo né spero) che vossignoria mi desse l'isola che mi ha promesso, non sarei così ingrato, né guarderei tanto pel sottile da non voler far stimare l'entrate dell'isola per iscontare dal mio salario gatta per tempo.

— Amico Sancio, rispose don Chisciotte, suole talora essere sì buona la gatta come la topa.

— Capisco, disse Sancio, e scommetto che io aveva in bocca ratta e non gatta, ma già non importa perché vossignoria mi ha ben inteso.

— E tanto inteso, rispose don Chisciotte, che sono giunto a penetrare il più intimo dei tuoi pensieri, e so a che fine li esponi, e a che cosa tiri con tanti tuoi proverbî. Sappi, Sancio, che ti assegnerei a dirittura il salario, se in qualche storia di cavalieri erranti avessi trovato pur un esempio che m'indicasse o mostrasse, almeno per congettura, il guadagno che gli scudieri faceano o in un mese o in un anno: ma ho lette tutte o quasi tutte cotali istorie, e non mi sovviene di avere trovato che alcun cavaliere errante abbia mai assegnato salario determinato allo scudiere: so bene questo che servivano tutti a mercede, e che quando se lo pensavano meno (se la sorte era ai loro padroni favorevole) trovavansi premiati col dono di qualche isola o con altra cosa equivalente, o la finivano per lo meno con un titolo e con una signoria.

Se con tali speranze e fondamenti ti piace tornare al mio servigio, sia alla buon'ora, ma pensare ch'io debba scomporre in qualsiasi modo l'ordine e le costumanze antiche della cavalleria, è un pensar l'impossibile. Ora dunque tornati, Sancio caro, a casa tua, e significa alla tua Teresa il mio animo: se a te ed a lei piace di restare con me a mercede bene quidem; in caso diverso amici come prima, che se non mancherà da mangiare nella colombaia, non vi mancheranno mai colombe; e pensa bene, figliuol mio, che più vale una buona speranza che un cattivo possesso, e più un buon avere che una mala piaga. Io uso di questo linguaggio figurato per farti vedere che so anch'io come tu sfoggiare proverbî, ma poi concludo che se rifiuti di servirmi a mercede e di correre la mia stessa sorte, restati pure con Dio che ti faccia santo, ché a me non mancheranno scudieri più obbedienti, più solleciti e non tanto importuni e ciarlatori come tu sei.”

Quando Sancio udì la ferma risoluzione del suo padrone, gli parve che il cielo s'annuvolasse, e gli caddero le ali del cuore; giacché aveva creduto per certo che il suo padrone non potesse e non volesse partire senza di lui per tutto l'oro del mondo. Stava dunque pensoso e sospeso, quando entrò Sansone Carrasco, seguìto dalla serva e dalla nipote, desiderose di udire con quali argomenti volesse provarsi a distogliere il lor signore dal proponimento di tornare in traccia di avventure. Sansone, volpe vecchia famosa, appena arrivato abbracciò don Chisciotte come la volta passata, e con alta voce gli disse:

— Oh fiore della errante cavalleria! o luce risplendente delle armi! oh specchio della nazione spagnuola! piaccia all'onnipossente Iddio che la persona o le persone che frapporranno ostacolo o sturberanno la tua terza uscita in campagna, non trovino nel labirinto dei loro desiderî la via di uscirne, né giungano mai al compimento delle lor brame.”

E voltosi alla serva le disse:

— Potete signora serva, tralasciare di recitar l'orazione di sant'Apollonia, poiché è determinazione precisa delle costellazioni che il signor don Chisciotte torni a metter in esecuzione i suoi alti e nuovi divisamenti, ed io aggraverei soverchiamente la mia coscienza se non intimassi a cotesto cavaliere, e non mi facessi a persuaderlo di non tenere più a lungo neghittosa e inceppata la forza del valoroso suo braccio e la eccellenza dell'animo suo valentissimo, mentre pregiudicherebbe ritardando, il drizzamento dei torti, la difesa degli orfani, l'onore delle donzelle, il favore delle vedove, il sostegno delle maritate, ed altre cose di simile natura che toccano, appartengono, dipendono e vanno annesse all'ordine dell'errante cavalleria. Orsù, signor don Chisciotte mio bello e bravo, pongasi la signoria vostra nella grandezza della sua carriera oggi piuttosto che dimani, e se qualcuno vi fosse che non lo volesse seguire, eccomi qua a supplire colla mia persona e con ogni mio avere; poiché terrei per ventura mia felicissima, se necessario si rendesse, che io avessi a servire la magnificenza vostra anche nella qualità di scudiere.”

Don Chisciotte a tal passo si volse a Sancio e gli disse:

— Non te l'ho io detto che avevano a sopravvanzarmi gli scudieri? Guarda un poco la persona che mi si offre, e vedrai che l'inaudito baccelliere Sansone Carrasco, perpetuo trastullo e rallegratore dei cortili delle scuole salamanticesi, sano di sua persona, agile di sue membra, taciturno, e che sa tollerare fame e sete, è posseditore delle qualità tutte che si richiedono ad essere buono scudiero di cavaliere errante. Non sia però mai che io per compiacere a me stesso rovesci la colonna delle lettere, o rompa il vaso delle scienze, o strappi la palma eminente delle buone e liberali arti: rimangasi in patria sua il novello Sansone, e col dar lustro a lei onori nel tempo stesso la canizie dei suoi antenati, che io mi adatterò a qualsivoglia scudiere, giacché Sancio non si degna più di venire con me.

— Sì, che mi degno, rispose Sancio intenerito e con qualche lagrima agli occhi, e seguitò a questo modo:

“Non sarà mai che si dica, o signore, per colpa mia, pane mangiato e compagnia disfatta; io non discendo da razza di gente ingrata, e tutto il mondo e i miei paesani spezialmente sanno di che razza furono i Pancia, e quale la mia progenie: e c'è di più ch'io ho conosciuto e penetrato per le sue buone opere il desiderio che ha la signoria vostra di beneficarmi; che se io mi sono impuntigliato di sapere con qualche precisione quanto dovrei guadagnare in conto di salario, ciò non è stato altro che per compiacere mia moglie, la quale, quando si è fitta in capo una cosa, non v'è cerchio che tanto stringe la botte come ella tenacemente stringe altrui a voler quello che vuole; ma finalmente l'uomo ha da esser uomo, e donna la donna.

E giacché sono un uomo, e non lo posso negare, voglio esserlo in casa mia ad ogni patto: dunque non resta altro se non che la signoria vostra faccia il suo testamento col codicillo ordinato a modo che non possa esser rinvocato, e mettiamoci subito in viaggio, affinché non ne soffra l'anima del signor Sansone, che dice essere mosso per coscienza a persuadere alla signoria vostra questa terza uscita in campagna: io mi offro nuovamente a servirla con ogni fedeltà e formula regale sì bene e nel miglior modo che mai scudiere al mondo abbia servito errante cavaliere nei presenti e nei passati secoli.”

Restò il baccelliere maravigliato nel sentire il parlare di Sancio Pancia; mentre tuttoché avesse letta la prima parte della istoria del suo padrone, non avrebbe pensato mai che sì grazioso foss'egli com'era quivi dipinto. Sentendolo a parlare e a dire: testamento e codicillo ordinato a modo che non possa essere rinvocato; invece di: testamento e codicillo che non possa essere rivocato; prestò credenza a tuttociò che avea letto, e tenne Sancio per uno dei solenni scimuniti dei nostri tempi.

Disse tra sé: Due pazzi di simil tempra, come padrone e servitore, non si vedranno mai più!

Finalmente Sancio e don Chisciotte si abbracciarono rassodando la loro amicizia, e col parere e coll'approvazione del gran Carrasco, ch'era allora l'oracolo, si stabilì che la partenza seguirebbe dopo tre giorni, e che intanto si appresterebbe l'occorrente al viaggio, e si provvederebbe una celata con buffa che don Chisciotte trovò necessario di portar seco ad ogni costo.

Sansone gliela offerì, perché sapeva che un suo amico non si sarebbe rifiutato di dargliene una che aveva, tuttoché la ruggine l'avesse resa più nera che bianca.

Sono indicibili le maledizioni che la serva e la padrona scagliarono contro il baccelliere; si strappavano i capelli, si graffiavano il viso, ed alla foggia delle prefiche di un tempo si querelavano della partenza del loro signore e padrone come se trattato si fosse della vera sua morte.

Sansone intanto persuadeva don Chisciotte a partire un'altra volta per mandare ad esecuzione quanto narrerà la storia più innanzi, e tutto per consiglio del curato e del barbiere coi quali egli si era benissimo inteso. Nei detti tre giorni dunque don Chisciotte e Sancio misero in assetto ciò che parve loro opportuno, ed essendosi pacificati Sancio con sua moglie, e don Chisciotte colla nipote e colla serva, sull'imbrunire della notte, senz'essere veduti da chi che sia, tranne il baccelliere che volle accompagnarli mezza lega circa fuori del paese, si avviarono al Toboso.

Era don Chisciotte sopra il suo Ronzinante, e Sancio, sopra il suo antico giumento colle bisacce ben provvedute per la bucolica, e con una borsa di danari che don Chisciotte gli avea data pei futuri bisogni. Sansone abbracciò il cavaliere, e lo pregò a volergli dare in avvenire le nuove della sua buona o trista ventura per averne consolazione nel primo caso, o per contristarsene se gli accadesse male, e ciò conformemente alle leggi dell'amicizia.

Promise don Chisciotte, Sansone tornò a casa, e i due viaggiatori pigliarono il cammino verso la grande città del Toboso.


CAPITOLO VIII

 

RACCONTASI CIÒ CHE ACCADDE A DON CHISCIOTTE RECANDOSI A VEDERE LA SIGNORA DULCINEA DEL TOBOSO.

 

Benedetto sia pure il potente Allah (dice Hamet Ben-Engeli al principio di quest'ottavo capitolo) benedetto sia Allah, ripete tre volte: e dice che gli dà questa benedizione per veder già usciti in campagna don Chisciotte e Sancio. Per la qual cosa tutti i lettori di questa dilettevole istoria possono contare che da questo momento hanno principio le nuove imprese e le nuove graziosissime bizzarrie di don Chisciotte e del suo scudiere. Vuole lo storico che debbano porsi in dimenticanza le trascorse cavallerie dell'ingegnoso idalgo, e che si ponga mente a quelle che sono ora per accadere, e che hanno il loro cominciamento sulla strada del Toboso, come le altre lo ebbero sui campi di Montiello. E veramente non è gran cosa quello ch'egli domanda a petto di ciò che promette narrare; lo che udiremo più avanti.

Rimasero soli don Chisciotte e Sancio, ed appena Sansone si fu allontanato da loro, Ronzinante cominciò a mandar nitriti e il giumento a soffiare e a ragliare; e ciò fu tenuto da entrambi, cavaliere e scudiere, in conto di felicissimo augurio. Per confessare la verità i soffiamenti e i ragli dell'asino vincevano di gran lunga il nitrire del ronzino, e per tale cagione si avvisò Sancio che la sua ventura dovesse superare quella del padrone; fondandosi non so se nell'astrologia giudiziaria (che tace la storia su questo punto) o sopra una volgar credenza che quando una bestia inciampi o cada al primo uscire di casa sia mal augurio; perché dall'inciampare o cadere altro non se ne può cavare che la scarpa rotta o le costole fracassate; e benché sciocco non pensava egli fuor di proposito. Don Chisciotte gli disse:

— Amico Sancio, si avanza la notte a gran passi, e con oscurità più grande di quella che ci bisogna per giungere col giorno al Toboso, dov'io sono determinato di recarmi prima di accingermi a verun'altra avventura. Piglierò quivi la benedizione e la buona licenza dalla senz'eguale Dulcinea, e con questa permissione penso e tengo per certo di dare felice compimento ad ogni più pericolosa avventura; ché nessuna cosa rende sì fortunati al mondo i cavalieri erranti quanto il favore delle loro dame.

— Così credo anch'io, rispose Sancio; trovo però difficile che vossignoria possa abboccarsi con lei, o almeno vederla in luogo dove poterne ottenere la benedizione, se già non gliela desse dalle muraglie della corte dove io la ho veduta la prima volta quando le ho portato la lettera contenente le pazzie e le stravaganze che si facevano da vossignoria nel bel mezzo di Sierra Morena.

— Parvero a te dunque muraglie di una corte, disse don Chisciotte, quelle per le quali vedesti la sua non mai abbastanza lodata gentilezza e beltà? Eh bada bene che debbono essere state gallerie, corridoi o logge od altre magnifiche stanze di sontuoso e reale palagio.

— Può essere tutto questo, rispose Sancio, ma a me parvero muraglie, quando la memoria non mi tradisca.

— Sia com'esser si voglia, replicò don Chisciotte, andiamocene a quella parte; purch'io in qualche modo la vegga, sia per muraglie o per finestre o per fessure o per balaustri di giardini; qualunque sarà il raggio del sole di sua bellezza che colpisca gli occhi miei, resterà illuminato il mio intelletto, e acquisterà forza il mio cuore di modo che sarò unico e senza pari nel senno e nella bravura.

— In verità signor padrone mio, rispose Sancio, che questo sole della signora Dulcinea del Toboso quando l'ho veduto io non era tanto luminoso da mandar fuori raggi di sorta alcuna: ma ciò sarà stato perché attendendo allora la sua signora a vagliare quel grano di cui le ho già detto, la molta polvere che ne esciva le avrà posto come una nuvola dinanzi al viso, e glielo avrà oscurato tutto.

— E che? disse don Chisciotte, tu continui tuttavia, o Sancio, nel dire, nel credere, nel pensare, nel perfidiare che la mia signora Dulcinea vagliasse grano, quando questo è un esercizio straniero del tutto a ciò che operano ed operar debbono le persone di alto grado, riserbate a sublimi occupazioni, e tali che mostrino a tiro di balestra la loro grandezza. Si vede bene che tu non conosci quei versi del nostro poeta nei quali si dipingono gli esercizi che intrattenevano dentro le loro abitazioni di cristallo quelle quattro ninfe che alzarono la testa di sopra alle onde del Tago diletto, e si assisero a lavorare in verde e fiorito prato quelle ricchissime tele descritteci dall'ingegnoso autore, che tutte erano di oro conteste e di seta e di perle. A questo e non a diverso lavoro doveva certamente essere intenta la mia signora allorché tu la vedesti; quando però la invidia che porta qualche malefico incantatore alle cose mie non alteri e trasfiguri tutto quello che più mi piace. Io arrivo a dubitare che in quella istoria che dicesi impressa delle mie geste gloriose, se per caso ne fu autore un qualche savio a me nemico, non abbia registrato una cosa per l'altra, confondendo con una verità mille menzogne, e facendosi piacere di raccontare altre azioni diverse da quelle ch'esige il proseguimento di una veracissima narrazione. Oh invidia, radice d'infiniti mali e tarlo delle virtù! Tutti i vizi seco si traggono, o Sancio, un non so che di diletto, ma non altro che dispiaceri, rabbie e rancori trae seco l'invidia.

— Questo è quello che dico ancora io, rispose Sancio, e penso che in quella leggenda o istoria di cui ci ha parlato il baccelliere Carrasco, il mio povero onore vada alla peggio, vilipeso e rimenato, come si suol dire, per le strade; eppure posso giurare che io non ho detto mai male di alcun incantatore, e che non ho tante facoltà da essere invidiato da alcuno: non negherò di essere un poco malizioso, e che qualche volta non mi manca un tantino di furberia, ma poi tutto è coperto dal mantello della semplicità sempre naturale e non mai artifizioso. E se anche non avessi altro merito fuor quello di essere un perfetto cattolico, seguace fedele di ciò che tiene e crede la Chiesa santa cattolica romana, e mortal nimico, come sono, di tutti i Giudei, dovrebbero gli scrittori usare con me indulgenza, né maltrattarmi nei loro scritti: ma alla fin fine dicano tutto quello che vogliono, ché io sono venuto al mondo nudo, nudo presentemente mi trovo, né posso perdere o far guadagno, mi mettano o no su per i libri, o mi mandino attorno per lo mondo di mano in mano; e non m'importa un fico secco che si scapriccino sulle mie spalle.

— Quello che tu dici, o Sancio, somiglia, disse don Chisciotte, a quanto intravenne ad un celebre poeta dei nostri giorni, il quale avendo composta una maliziosa satira contro le donne di allegra vita tralasciò di nominare una, della quale potevasi dubitare se tale o no fosse realmente; e vedendo ella di non essere nella lista colle altre, se ne querelò col poeta, chiedendogli quale diversità avesse notata in lei per non metterla nel novero delle ricordate, e che pensasse a tirare in lungo la satira, ed a collocarvela se non voleva avere altrimenti di che pentirsi. La compiacque il poeta, e ve la inserì in modo del tutto indegno di una signora, ma essa rimase soddisfatta di sentirsi rammentata benché fosse con sua ignominia. È anche simile a questo il caso di quel Greco che appiccò il foco al famoso tempio di Diana, una delle sette maraviglie del mondo, solamente perché si eternasse il suo nome nei secoli futuri e benché siasi comandato ad ogni scrittore di non menzionarlo mai, né di farlo passare in verun altro modo alla posterità, sicché non ottenesse il suo fine, tuttavia si seppe che Erostrato era il suo nome. Si confà egualmente a questo proposito l'avvenuto al grande imperatore Carlo V con un cavaliere romano. Bramò l'imperatore di vedere quel celebratissimo tempio della Ritonda, che anticamente era chiamato Panteon, ossia Tempio di tutti gli Dei, e meglio oggi si chiama di tutti i Santi; edifizio rimastoci il più conservato di quanti altri alzò la gentilità in Roma e quello che più di tutti mostra la fama della grandiosità e magnificenza dei suoi fondatori. È costrutto in forma di un mezzo arancio, di grande altezza e assai arioso, senza altra luce fuorché quella di una finestra, o a meglio dire un occhio tondo che ha sulla cima. E da quell'apertura stette l'imperatore contemplando quell'edifizio accompagnato da un cavaliere romano che andavagli dichiarando la eccellenza e le particolarità tutte di sì augusta mole e sì memorabile architettura. Alzatisi un cotal poco, il cavaliere disse all'imperatore: “Mille volte, sacra Maestà, mi venne la tentazione di abbracciarmi colla maestà vostra, e di precipitarmi congiuntamente a lei da questo pertugio per eternare al mondo il mio nome. — Vi ringrazio rispose l'imperatore, che non abbiate posto ad effetto sì perverso proponimento, e vi metterò d'ora innanzi in istato che non possiate darmi più questa sorta di prova di vostra lealtà: anzi vi comando né di parlarmi, né di trovarvi mai più dove io sia; e dopo queste parole gli fece un presente ricchissimo, e non volle più sapere di lui. Da tutte queste cose io intendo inferire, o Sancio, che il desiderio di acquistar fama è operativo in mille maniere. Chi ti dai tu a credere che indotto abbia Orazio Coclite a gittarsi con tutte le armi dal ponte nella profondità del Tevere? chi abbruciò a Muzio Scevola la mano? chi spinse Curzio a precipitarsi nella voragine ardente che apparve schiusa in mezzo a Roma? chi in onta di tutti i presagi di funesti avvenimenti mosse Cesare al passaggio del Rubicone? E venendo a più vicini esempi, chi crivellando le navi lasciò in secco e isolati i valorosi Spagnuoli condotti dal rinomatissimo Cortez alla scoperta del Nuovo Mondo? Tutte queste ed altre grandi e straordinarie imprese sono, furono e saranno sempre frutto di quel desiderio che hanno gli uomini di conseguire rinomanza come premio a parte della immortalità che meritano i fatti più strepitosi. Noi però cristiani, cattolici ed erranti cavalieri dobbiamo anelare più alla gloria delle vegnenti età (che eterna vive nell'eteree celesti regioni) che alla vanità della rinomanza che acquistasi nel presente transitorio mondo: rinomanza che per molto che duri va a perire colla distruzione del mondo medesimo, il quale ha il prestabilito suo fine; ed è per questo, o Sancio, che noi non dobbiamo operare se non secondo i dettami della cristiana religione che da noi si professa. Nella morte dei giganti punire intendiamo la superbia; nella generosità e cuor forte ha il suo castigo l'invidia; nella compostezza e tranquillità dell'animo l'ira; nella parsimonia dei cibi e nella veglia la gola e il sonno; nella lealtà che serbiamo a quelle da noi costituite arbitre dei nostri pensieri, trovano punizione la ingiuria e la disonestà; e lo ha la infingardaggine nel peregrinare per lo mondo cercando le occasioni che ci possono far essere non solo veri cristiani, ma anche celebri cavalieri. Questi, o Sancio, sono i mezzi pei quali si giunge all'apice della gloria che seco si trae la buona fama.

— Quanto espose vossignoria, disse Sancio, fu da me inteso benissimo, contuttociò bramerei che la signoria vostra mi asciolvesse un dubbio che in questo punto mi viene in mente.

Sciogliesse vuoi dire, Sancio, soggiunse don Chisciotte; spiega questo tuo dubbio ché io ti dirò quello che sento.

— Mi dica un poco vossignoria, continuò Sancio: questi Juni e Agosti e tutti questi cavalieri prodezzosi che ha nominati, e che ora sono morti, dove si trovano presentemente?

— I pagani, rispose don Chisciotte, sono all'inferno senza dubbio: ed i cristiani, avendo servito fedelmente alla religione, o stanno in purgatorio o in paradiso.

— Va bene, replicò Sancio, ma mi dica adesso: i sepolcri dove stanno i corpi di tutti questi gran signori, sono eglino illuminati da lampade di argento, o le pareti delle loro cappelle sono elleno guarnite di grucce, vesti di morto, capelliere, gambe ed occhi di cera? e se non hanno di queste cose quali sono in vece i loro trofei?”

Cui don Chisciotte:

— Erano per la maggior parte templi sontuosissimi i sepolcri dei Gentili: le ceneri del corpo di Giulio Cesare furono poste su di una piramide marmorea di smisurata grandezza, che oggidì chiamasi in Roma la Guglia di san Pietro; all'imperatore Adriano servì di sepolcro un castello tanto grande quanto un grosso paese, cui fu posto il nome Moles Adriani, ed è oggidì il castello Sant'Angelo in Roma; la regina Artemisia seppellì suo marito Mausolo in un sepolcro tenuto per uno delle sette maraviglie del mondo: ma nessuna di queste celebri sepolture, né molte altre ch'ebbero i Gentili, portarono adornamenti di grucce o di altre offerte e contrassegni da far credere santi quelli che vi si richiudevano.

— Ci siamo, rispose Sancio, e mi dica ancora: che vale di più, resuscitare un morto od ammazzare un gigante?

— La risposta è chiara, disse don Chisciotte: vale assai più il far rivivere uno ch'è morto.

— Vossignoria è in trappola, disse Sancio: dunque chi risuscita i morti, ridona la vista ai ciechi, drizza gli zoppi e risana gl'infermi, e chi ha dinanzi al sepolcro lampade che ardano, e la cappella piena di gente divota che adora ginocchioni le sue reliquie, si meriterà e a questo mondo e nell'altro una fama molto maggiore di quella che lasciarono dietro a sé quanti imperatori pagani e cavalieri erranti mai vissero.

— Confesso egualmente che questo è vero, rispose don Chisciotte.

— Per conseguenza, Sancio riprese a dire, questa fama, queste grazie, queste prerogative, come si dice, sono proprie dei corpi e delle reliquie dei santi che con approvazione e licenza della nostra santa madre Chiesa hanno a sé lampade, candele, grucce, vesti da morto, pitture, capelliere, occhi e gambe coi quali accrescono la divozione e aggrandiscono la cristiana loro fama. Portano i re sulle loro spalle i corpi dei santi o baciano le loro reliquie o i pezzetti delle loro ossa, e con questi arricchiscono i loro oratori e gli altari più sontuosi.

— E che vuoi tu che io inferisca da quanto vai dicendo, o Sancio? soggiunse don Chisciotte.

— Voglio che vossignoria conosca, continuò Sancio, che a noi sarebbe meglio metterci per la strada di diventare santi, e così per la più corta otterremmo quella fama cui vossignoria pretende; ed avverta che ieri o ier l'altro (ché non essendo da molto tempo si può parlare con questi termini) beatificarono due frati agli Scalzi, e adesso si tiene per gran ventura il poter toccare e baciare le catene dalle quali il loro corpo era cinto e tormentato, e sono in molto più alta venerazione di quella che la gente porta alla spada di Roldano, la quale dicono che sta nell'armeria del re nostro signore, che Dio conservi. Ora dunque signor mio, vale assai più essere umile fraticello di qualche Ordine, che valoroso ed errante cavaliere; e possono più presso Dio due dozzine di discipline che duemila colpi di lancia, comunque sieno diretti contro giganti o fantasime o visioni.

— Tutto questo è vero, rispose don Chisciotte, ma non possiamo tutti esser frati, e molte sono le strade per le quali il Signore guida i suoi alle regioni del cielo: la cavalleria è una religione, e v'hanno nel paradiso cavalieri che sono santi.

— Sarà forse vero, rispose Sancio, ma io ho sentito dire che vi sono in cielo più frati che cavalieri erranti.

— Per lo appunto, perché maggiore è il numero dei frati che quello dei cavalieri.

— Eppure molti sono gli erranti, disse Sancio.

— Molti sì, rispose don Chisciotte, pochi però quelli che meritano il nome di cavalieri.

In questi e simiglianti ragionamenti consumarono quella notte ed il seguente giorno senza che loro accadesse cosa degna di essere notata, il che non poco dispiacque a don Chisciotte. Finalmente il giorno dopo in sul fare della notte scoprirono la gran città del Toboso, alla cui veduta si riscosse tutto don Chisciotte e si contristò Sancio, perché non sapeva dove fosse l'abitazione di Dulcinea che non aveva mai veduta, come pure non la conosceva il suo padrone: e perciò l'uno per vederla l'altro per non averla veduta mai, erano agitatissimi, né sapeva Sancio come regolarsi quando il suo signore gli avesse dati i suoi comandi. Volle alla fine don Chisciotte che si entrasse nella città famosa sul declinare del giorno, e per aspettare questo momento si trattennero ambedue in un querceto vicino al Toboso. Venuto il determinato punto vi misero piede, e allora successero cose che possono dirsi propriamente cose.


CAPITOLO IX

 

SI RACCONTA QUELLO CHE STA SCRITTO NEL PRESENTE CAPITOLO.

 

Il punto della mezzanotte, poco più poco meno, fu quello in cui don Chisciotte e Sancio lasciarono il monte ed entrarono nel Toboso. Regnava un profondo silenzio, perché riposavano gli abitanti tutti a gambe distese come suol dirsi. Non era molto oscura quella notte che Sancio avrebbe desiderata oscurissima, per trovare fra le tenebre la discolpa delle sue stoltezze, e non altro udivasi per tutto il paese, che latrati di cani i quali intronavano gli orecchi di don Chisciotte e mettean turbamento nel cuor dello scudiere. Di tanto in tanto qua ragliava un asino, là disgrugnava un porco, qua miagolavano i gatti; e questi diversi susurri s'ingrandivano pel silenzio notturno, ciò che l'innamorato cavaliere considerava come funesto presagio.

Con tutto questo, egli disse a Sancio: “Sancio figliuolo, guidami al palazzo di Dulcinea, che potrebbe forse essere che la trovassimo desta.

— A che razza di palazzo debbo io guidarla, corpo del sole, rispose Sancio, mentre il luogo in cui io la ho veduta altro non era che una meschina casupola?

— Forse ch'ella, rispose don Chisciotte, trovavasi allora in qualche appartamento del suo castello, per starsi a diporto da sola a sola colle sue donzelle, com'è costumanza delle grandi signore e principesse. — Or bene, disse Sancio, giacché vuole la signoria vostra a mio dispetto che sia castello la casa della sua signora Dulcinea, le par questa un'ora da trovarne aperto l'ingresso? E sarebb'egli conveniente che dessimo grandi scampanellate perché ci sentissero e ci aprissero, mettendo in iscompiglio e in rumore tutta la gente? Andiamo noi forse a bussare alla porta di una donna di mal affare, dove ognuno arriva, picchia ed entra a ogni ora per tardi che sia?

— Troviamo prima il palazzo, replicò don Chisciotte, e ti dirò poi quello che sarà bene di fare: ed avverti, Sancio, o che l'occhio m'inganna o che quella mole e quell'ombra che di qui si scopre dee venire dal palazzo di Dulcinea.

— Vossignoria sia la guida, rispose Sancio, e forse sarà com'ella dice; benché quando anche io lo vedessi cogli occhi e lo toccassi con le mani lo crederei come credo che adesso sia giorno.”

Andò innanzi don Chisciotte, ed avendo camminato ducento passi urtò nella mole che produceva quell'ombra, ed era un gran campanile che tosto riconobbe non essere altrimenti castello, ma appartenere alla chiesa principale del paese. Disse a Sancio:

— Noi abbiamo dato nella croce.

— Lo veggo anch'io, rispose Sancio, e piaccia a Iddio che non diamo nella sepoltura; ché non è buon segno andare a quest'ora per i cimiteri, e tanto più quanto che ho detto a vossignoria, se male non mi sovviene, che la casa di questa signora, è situata in una straduccia che non ha uscita.

— Che tu sia maledetto, scimunitaccio, disse don Chisciotte: e dove trovasti tu che i castelli e i palazzi reali sieno fabbricati in istraducce senza uscita?

— Signore, rispose Sancio, ogni paese ha i suoi usi particolari, e forse che qua nel Toboso si costuma di fabbricare i palazzi e i grandi castelli in viottoli angusti; e pertanto la signoria vostra mi conceda di ricercare per questi sentieri o chiassuoli che incontro; e potrebbe darsi che trovassi in qualche angolo questo palazzo; che possa vederlo mangiato dai cani, tanto si fa stentare e tribolare!

— Parla con rispetto, o Sancio, di ciò che si appartiene alla mia signora, disse don Chisciotte, e facciamo in pace la festa, né gettiamo la corda dietro la secchia per avere il mal anno e la mala Pasqua.

— Io starò quieto e zitto, rispose Sancio, ma come potrò sopportare che pretenda vossignoria ch'io per aver visitato una volta sola la casa della nostra padrona, sia obbligato di tenerla sempre a memoria di trovarla di mezzanotte, quando vossignoria non la trova benché l'abbia veduta milioni di volte?

— Tu vuoi, Sancio, farmi dare alla disperazione, disse don Chisciotte: ma rispondimi, furfante che sei; non t'ho io detto più e più fiate che in tutto il corso della mia vita non ho veduto mai la senza pari Dulcinea, né ho mai in tempo alcuno posto piede sulle soglie del suo palazzo, e che ne sono innamorato per quella gran fama che ha di bella e di giudiziosa?

— Questa è la prima volta che ciò imparo, rispose Sancio, e soggiungo che non avendola veduta la signoria vostra nemmeno io la ho veduta mai.

— Non può essere questa cosa, replicò don Chisciotte, ché per lo meno mi hai detto di averla veduta che stava vagliando il grano quando mi recasti la risposta della lettera che le mandai col tuo mezzo.

— Non badi a questo, o signore, rispose Sancio, perché voglio che ella sappia che la mia visita e la risposta che le ho portata furono così per udita; ma in verità ne so tanto della signora Dulcinea quanto di astrologia.

— Sancio, Sancio, replicò don Chisciotte, tempo è di burlare, e tempo è in cui le burle cadono male a proposito. Per avere io detto che non vidi né parlai alla signora dell'anima mia tu non devi dedurne di non averla tu stesso veduta e di non averle parlato, mentre la cosa è al rovescio, e tu bene lo sai.”

Stavano ambidue in questi discorsi quando si accorsero che passava, per dove si trovavano, un uomo con due mule, e lo giudicarono un contadino a causa del rumore che faceva l'aratro che le mule strascinavano. Alzato costui prima del giorno andava pei suoi lavori, cantando allegramente la nota canzone:

 

“Mal rispose un dì, o Francese,

Roncisvalle alle tue imprese.”

 

— Ch'io sia ammazzato, o Sancio, disse don Chisciotte, se buona ventura non incontriamo in questa notte! Non odi tu quello che va cantando questo villano?

— Io sento benissimo, rispose Sancio: ma che ha che fare con noi Roncisvalle? Sarebbe tutt'uno anche se cantasse la canzone di Calaino.”

In questo li raggiunse il contadino, cui disse don Chisciotte:

— Mi sapreste insegnare, o amico, che Dio vi dia ogni bene, dove sieno situati i palagi della senza pari principessa donna Dulcinea del Toboso?

— Signore, rispose il garzone, io sono forestiere e da pochi giorni soltanto venuto ad abitare in questo paese al servizio di un ricco forese per i lavori della campagna. Nella casa qua dirimpetto stanno di abitazione il curato ed il sagrestano, e tutti e due forse, od almeno qualcuno di loro, saprà dar conto alle signorie vostre di questa principessa, perché tengono la lista di tutti quanti gli abitanti del Toboso: per altro scommetterei che in tutto il paese non abita una sola principessa; ma bensì parecchie dame di alto grado, ciascuna delle quali può dirsi principessa in casa sua.

— Appunto una di queste, disse don Chisciotte, debb'essere, o amico, quella di cui ricerco.

— Che così sia, replicò il contadino, ma io vi saluto ché l'alba è già vicina.” Diede degli sproni alle sue mule, e non volle sentire altre dimande. Vedendo Sancio il suo padrone starsene sospeso e assai mal contento, gli disse:

— Signore, si avanza il giorno a gran passi; e non sarà ben fatto che il sole ci colga qui per le strade; sarebbe meglio uscire di questa città, e che vossignoria s'internasse in qualche bosco vicino, che intanto ritornerò io qua di bel giorno, e fiuterò allora per ogni angolo sino a tanto che mi venga fatto di trovare la casa o torre o palazzo della mia padrona. Sarei ben disgraziato se non mi riuscisse di trovarla, ma trovandola parlerò con sua signoria, e le farò sapere per minuto che la signoria vostra se ne sta aspettando i comandi per vederla senza pregiudizio del suo onore e della sua riputazione.

— Hai proferite, o Sancio, disse don Chisciotte, mille sentenze nel giro di poche parole: lodo il consiglio che ora mi hai dato, e lo abbraccio. Seguimi, figliuol mio, e andiamo a cercare dove inselvarci, che tu poi ritornerai come dici a investigare della mia signora, ed a parlare con lei dalla cui gentilezza e discrezione mi riprometto più che miracolosi favori.”

Era Sancio in sulle brage per l'impazienza di trascinare il padrone fuori del paese, e in questo modo non comparire menzognero nella risposta che da parte di Dulcinea recata gli aveva a Sierra Morena. Partirono dunque immediatamente, e s'internarono due miglia lontani in una foresta o bosco, dove s'inselvò don Chisciotte intanto che Sancio tornava alla città per parlare con Dulcinea.

In questa ambasceria accaddero cose che domandano nuova attenzione e credenza.


CAPITOLO X

 

DELL'ARTE USATA DA SANCIO PER INCANTARE LA SIGNORA DULCINEA CON ALTRI AVVENIMENTI ALTRETTANTO GIOCOSI CHE VERI.

 

Entrando l'autore di questa grande istoria a raccontare ciò che si legge nel presente capitolo, dichiara che vorrebbe passarlo sotto silenzio, pensando ch'altri forse non vorrà dargli fede; mentre le pazzie di don Chisciotte giunsero non solo all'eccesso, ma sormontarono ogni immaginazione. Finalmente, benché con molta ripugnanza e timore, le scrisse veracemente, senza togliere od aggiungere all'istoria un atomo di verità, e senza essere infrenato per verun modo dalle accuse che gli si potessero fare di falso e di menzognero.

E saggiamente si avvisò egli; perché la verità si assottiglia ma non si rompe, e sta sopra alla bugia come l'olio sull'acqua.

Proseguendo dunque la sua istoria dice che non si ebbe don Chisciotte cacciato appena nella foresta o querceto o selva presso il gran Toboso, che ordinò a Sancio di tornare alla città e di non comparirgli più d'innanzi senz'avere prima parlato alla sua signora da parte di lui, chiedendole che le piacesse di concedere al suo prigioniero cavaliere di vederla, e che si degnasse d'impartirgli la sua benedizione, mercé la quale potesse riportare felicissimi successi in tutti gli assalti e nelle più ardue imprese. S'incaricò Sancio di questi comandi, e di portare una risposta più favorevole ancora della prima volta.

— Vanne, figliuolo, replicò don Chisciotte, e non ismarrirti quando ti vedrai dinanzi alla luce del sole di quella bellezza alla quale t'invio. Oh te felice sovra ogni altro scudiere del mondo! Tieni ogni più minuta cosa a memoria; non trascurare di por mente al modo con cui ti riceve, se muta colore nel sentir l'imbasciata; se si altera o si turba nell'udire il mio nome: se si rimuove inquieta qualora ti accolga seduta su morbidi origlieri in tutta la sua autorità; se stando ritta, ora sopra l'uno ora sopra l'altro piede si appoggi; se ti ripete la sua risposta due o tre volte; se la cangia di aspra in dolce, di severa in amabile; se porta le nivee mani ai capegli per rassettarli comunque non iscomposti e disordinati; e finalmente guarda bene, o figliuolo, tutti i suoi movimenti ed azioni, ché dalla esattezza e precisione delle tue risposte io indovinerò bene il più intimo del suo cuore rispetto alla mia amorosa servitù. Hai da sapere, o Sancio, se tu lo ignori, che fra gli amanti, le azioni e i movimenti esterni, quando trattasi della loro fiamma, sono indubitati forieri che recano le nuove di ciò che sente l'anima nel suo interno. Partiti, amico: auspice ti sia una avventura più fortunata di quella che a me tocca e ti secondino migliori eventi di quelli che tra il timore e la speranza mi tratterranno intanto in questa misera solitudine in cui ora mi lasci.

— Andrò e tornerò presto, disse Sancio, e frattanto tenga vossignoria allegro quel suo povero cuoricino, che adesso debb'essere piccolo piccolo come una noccioletta, e consideri che si suol dire che un animo forte scaccia la mala ventura: e che dove non vi è carne secca non vi sono neppure stanghe per appenderla; e che per ordinario la lepre salta dove meno si pensa. Dico queste cose perché se nella notte scorsa non abbiamo trovati i palazzi e i castelli della mia signora, adesso ch'è giorno, spero che li troverò o da una banda o dall'altra, e trovati che io li abbia lasci pur far a me.

— È indubitato, o Sancio, disse don Chisciotte, che calzano tanto a proposito i proverbi tuoi quanto Dio mi concede migliore ventura nelle mie brame.

Detto questo, Sancio batté il suo asino, voltò le spalle, e don Chisciotte rimase sul suo ronzino, abbandonato a se stesso, tenendo il piè nelle staffe ed appoggiata alla lancia la sua persona ingombra di tristezza e di confuse idee; nelle quali lo lasceremo per tener dietro al suo scudiere.

Pensieroso ed incerto egli si allontanò dunque dal confuso padrone e appena uscito dal bosco, voltando la faccia e non vedendo più don Chisciotte, smontò dal leardo, e seduto appiè di un albero cominciò a ragionar tra sé a questo modo:

“Sappiamo ora, fratello Sancio, per dove va vossignoria? Va forse in cerca dell'asino smarrito? No certamente; e che va dunque a cercare? Vado cercando, come se fosse cosa da nulla, una principessa, e in lei il sole della beltà, anzi tutto il cielo unito in lei sola. E dove pensi trovar questo che tu dici o Sancio? Dove? nella gran città del Toboso. Va bene; ma da parte di chi vai tu a fare questa ricerca? Da parte del famoso cavaliere don Chisciotte della Mancia che disfà torti, dà da mangiare a chi ha sete e dà da bere a chi ha fame: tutto questo va a maraviglia. E sai tu, Sancio, dove sia la casa di costei? Il mio padrone dice che dee soggiornare in reali palazzi o in superbi castelli. Ma l'hai tu vista una qualche volta? Oibò: né io né il mio padrone l'abbiamo veduta mai. E ti sembra prudente e ben consigliata questa tua impresa? Se quei del Toboso venissero a sapere che tu sei qua con intenzione di andare a mettere sossopra le loro principesse e ad inquietare le loro dame non potrebbero anche romperti le costole a furia di bastonate e non lasciarti osso sano? In verità che ne avrebbero tutta la ragione quando non riflettessero che io sono mandato, e che ambasciatore non porta pena. Non ti fidare no, Sancio, di questo, perché la gente mancega è buona e onorata, ma molto collerica, non soffre torti da chi che sia, e si sa levare le mosche dal naso; viva Dio, che se arriva ad accorgersi di qualche cosa, guai a te, Sancio! guarda la gamba: oh insomma io non voglio andar a cercar tre piedi al montone per secondare i capricci degli altri; e poi sarà tanto difficile trovare la Dulcinea al Toboso quanto un baccelliere a Salamanca: ah è stato il diavolo che mi ha posto in questi intrighi, è stato il diavolo sicuramente!” A questo modo, andava Sancio fantasticando fra sé, ma poi ne cavò una conclusione, e tornò a dirsi: “A tutto si rimedia fuorché all'osso del collo scavezzato, e la morte non la si scappa quando l'ora è arrivata. Per mille contrassegni che ho notati, questo mio padrone è già fin d'ora un pazzo da corda ed io sono forse più pazzo di lui perché lo servo e lo seguito. Se è vero il proverbio: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei; e l'altro: non come nasci, ma come ti pasci; e s'egli è pazzo, come è veramente, perché piglia una cosa per un'altra, giudica il bianco per nero, e il nero per bianco, come si è veduto quando disse che i mulini da vento erano giganti, che le mule dei frati erano dromedari, che i branchi di montoni erano eserciti di nemici e tante altre mellonaggini, non sarà poi adesso molto difficile il fargli credere che una contadina, la prima che troverò per istrada, sia la principessa Dulcinea: se non lo crederà io lo giurerò; se egli giurerà il contrario, ed io tornerò a giurare affermando; e se perfidierà io perfidierò più di lui, e gli starò sempre al di sopra comunque vada la faccenda: chi sa che a questo modo non lo riduca a non incaricarmi mai più di questa sorta di ambascerie; e forse che sentendo le mie disgustose risposte, penserà che qualche malvagio incantatore, di quelli che tiene per suoi nemici, abbia barattata la figura per fargli del male e portargli gran nocumento.”

Immaginato da Sancio questo spediente, mise in tranquillità il suo spirito, e tenne per ben finito il suo servigio: per la qual cosa rimase ozioso sino alla sera, perché don Chisciotte doveva credere indispensabile un tanto ritardo per andare e ritornare dal Toboso.

Tutto gli successe sì bene, che mentre si alzava per ritornare a cavalcare il suo giumento vide venire dal Toboso alla volta sua tre contadine sopra tre asini o asine (l'autore non lo dichiara, benché sia più probabile il creder che fossero asine, come cavalcatura usata dalle contadine, ma siccome ciò poco importa, così è superfluo perdere il tempo in questa disputa).

Come Sancio vide le tre contadine andò di gran trotto a ritrovare il suo signor don Chisciotte che stavasene sospiroso facendo mille amorosi lamenti.

Quando don Chisciotte vide Sancio, gli disse:

— Che rechi, amico Sancio? Segnerò io questo giorno con bianca o nera pietra?

— Sarà meglio, disse Sancio, se vossignoria sprona adesso il suo Ronzinante, ed esce in campagna, andrà incontro alla sua signora Dulcinea del Toboso, la quale viene per farle visita in compagnia di due sue donzelle.

— Santo Dio! sclamò don Chisciotte, che dici tu mai, o Sancio amico? Guarda bene di non ingannarmi, né voler cangiare le mie vere tristezze in false consolazioni.

— Che profitto ne ricaverei io dall'ingannare vossignoria, disse Sancio, massimamente quando siamo così vicini per iscoprire la verità? Sproni pur Ronzinante, e venga meco, e vedrà avanzarsi la principessa nostra padrona vestita in gala come va una pari sua. Ella e le sue donzelle sono tutte oro, portando grandi mazzi di perle, tutte diamanti, tutte rubini, tutte tele di broccato delle più sopraffine, ha i capelli sciolti giù per le spalle come altrettanti raggi del sole che vanno scherzando col vento; e vengono tutte e tre a cavallo sopra tre cananee pezzate che non si può vedere la più bella cosa.

Chinee tu vuoi dire, o Sancio. — Poca differenza ci corre, rispose, da cananea a chinee, ma vengano sopra quello che si vuole, hanno tutto lo sfarzo delle più galanti signore che mai si possa desiderare, e specialmente la principessa Dulcinea mia signora che rende tutti attoniti per lo stupore.

— Andiamocene, Sancio figliuolo, riprese don Chisciotte, e in guiderdone di tali quanto inattese altrettanto felici novelle, ti prometto il maggiore spoglio che io farò nella mia prima ventura: e se questo non ti bastasse, ti dono la razza che faranno in quest'anno quelle tre cavalle che tu sai bene essere vicine a dar prole nel prato della comunità del nostro paese.

— Accetto il dono della razza, rispose Sancio, mentre non è cosa molto sicura se lo spoglio della prima ventura riescirà buono o no.

In questo uscirono dalla selva, e scoprirono poco discosto le tre contadine. Don Chisciotte spalancò gli occhi per quanto lunga e larga la via del Toboso, e non vedendo se non le tre contadine si turbò tutto, e domandò a Sancio se le aveva lasciate fuori della città.

— Come fuori della città? rispose; ha ella forse gli occhi nella calottola che non vede che sono queste che si avanzano verso di noi, tutti risplendenti come il sole di bel mezzodì?

— Io non iscorgo, disse don Chisciotte, se non tre povere contadine a cavallo di tre asini.

— Oh ora sì che il diavolo vuole la burla, replicò Sancio: è egli possibile che tre chinee, o come si chiamano, bianche come un fiocco di neve sembrino asini a vossignoria? Viva Dio che sarei uomo da strapparmi questa barba a pelo a pelo se questa cosa fosse vera.

— Ed io ti replico, soggiunse don Chisciotte, che tanto è vero che asine o asini sono quelle, come è vero ch'io sono don Chisciotte e tu Sancio Pancia: o per lo meno a me sembrano tali.

— Signor mio, disse allora Sancio, non si lasci scappare queste parole, si freghi bene gli occhi, venga a far riverenza alla dominatrice di tutti i suoi sentimenti ch'è ormai vicina; e appena detto questo, smontato dal leardo, arrivò presso al giumento di una di quelle tre contadine, e presolo per la cavezza e buttatosi ginocchioni a terra disse:

— Regina e principessa e duchessa della bellezza, vostra altierezza e bellezza si compiaccia di ricevere nella vostra grazia e bontà il vostro prigioniero cavaliere che è qua diventato un marmo, tutto attonito e senza polsi per trovarsi dinanzi alla magnifica vostra presenza: io sono Sancio Pancia suo scudiere, ed egli è l'afflitto cavaliere don Chisciotte della Mancia chiamato con altro nome il cavaliere dalla Trista Figura.”

Anche don Chisciotte si era intanto posto ginocchione accanto a Sancio e con occhi spalancati e con turbato viso stava guardando colei che da Sancio si appellava regina e signora; ma siccome non ravvisava in essa altro che una rozza villana, ed anche non bella, perché il viso era tondo e schiacciato, stavasene sospeso e confuso senz'osare di aprire bocca.

Le contadine erano sbalordite vedendo quei due uomini tanto fra di loro differenti, inginocchiati per modo da impedire all'una e all'altra di poter continuare la loro strada.

Rompendo per tanto il silenzio quella che era la trattenuta, con mala maniera e con molta stizza si fece a dire:

— Si tolgano via di qua in malora, e mi lascino passar oltre, che noi tutte abbiamo fretta.” Cui Sancio rispose:

— Oh principessa! oh signora universale del Toboso! e che? il vostro magnanimo cuore non s'intenerisce vedendo prosteso dinanzi alla sublime vostra presenza la colonna e il puntello della errante cavalleria?”

Sentendo questo una delle altre due, disse: Arri in là, asina del mio suocero: oh guardate un poco questi signorotti che non hanno altro di meglio che di togliersi a scherno le contadine: credono forse che noi poverette non siamo da tanto da strapazzarli? Vadano pei fatti loro, e lascino andar noi per la nostra strada che si troveranno più contenti.

— Levati, Sancio, disse allora don Chisciotte, ché ben mi avviso che implacabile è meco la sorte, ed ha chiusa ogni strada al conforto per questa afflitta anima che ho nelle carni; e tu, o apice del merito il più singolare, confine dell'umana gentilezza, unico rimedio di questo angustiato cuore che ti adora, credi pure che un malefico incantatore mi perseguita, ed ha velati con nubi e cateratte gli occhi miei, trasformando per queste sole luci infelici la tua senza pari bellezza e sembianza in quella di una rozza contadina, e fors'anche ha cambiato il mio viso in quello di qualche fantasima per renderlo detestabile agli occhi tuoi: ma, deh, non mi negare un tenero amoroso sguardo, compiacendoti di vedere nella sommessione e nell'inginocchiamento che da me si fa dinanzi alla tua contraffatta bellezza, l'umiltà con cui quest'anima mia ti adora.

— Oh che sì, rispose la contadina, che vossignoria s'è proprio imbattuta in donna a cui piaccia sentire le parole amorose! si levino di qua, e ci lascino andare pei fatti nostri, che sarà meglio.”

Sancio si fece in disparte, e lasciò la strada libera, allegrissimo di vedersi così ben riuscito da tanto intrico.

Non si vide appena in libertà la villana a cui era toccato di rappresentare senza sua voglia Dulcinea, che pungendo la sua cananea con il pungolo che stava a capo di un suo bastone, cominciò a correre alla volta del prato a più potere: ma l'asina non volendo tollerare la punta del bastone che la molestava più del solito, cominciò a far corvette in maniera che stramazzò la signora Dulcinea quanto era lunga.

Don Chisciotte, veduto questo accorse a rizzarla, e Sancio a rassettare ed a cinghiare la bardella ch'era andata sotto alla pancia dell'asina. Accomodata la bardella, e volendo don Chisciotte portare colle braccia la sua incantata signora sulla giumenta, la signora balzata in piedi, lo sollevò da quest'incarico, giacché tirandosi un poco indietro, pigliò una corsa, e poste ambe le mani sulla groppa dell'asina vi saltò su col suo colpo leggero più che falcone, e come se fosse stata uomo, rimase a cavalcioni. Sancio disse in quell'istante:

— Viva Dio, che la signora nostra padrona è più snella di un gatto, e può essere maestra di ginetta al più pratico cordovese o messicano; ha trapassato di un salto sopra l'arcione della sella, e fa correre la chinea senza sproni come se fosse una capra salvatica; e non sono di manco le sue donzelle che tutte corrono come il vento.”

E dicea il vero, perché subito che Dulcinea fu sull'asino, le sue compagne la seguitarono, e si misero a correre senza mai voltare la testa indietro per oltre una mezza lega. Don Chisciotte la seguitò coll'occhio, e quando più non la vide, voltosi a Sancio gli disse:

— Sancio mio, e che ti sembra dell'odio che mi portano gl'incantatori? Guarda sin dove arriva la malizia e l'astio che mi hanno giurato, privandomi della soddisfazione che avrebbe potuto darmi il vedere la mia signora nel suo vero essere. Insomma io nacqui per diventare il modello degli sfortunati e per essere il bersaglio e la mira a cui stanno rivolte le freccie dell'avversa fortuna. Hai da notare, o Sancio, che non si contentarono già questi traditori di trasfigurar Dulcinea per modo ch'io non la potessi più ravvisare, ma vollero anche mutarla e trasfigurarla in forma sì vile e sì brutta come era quella contadina, e le tolsero sin anche il distintivo proprio delle grandi signore, che è la gratissima fragranza di ambra e di fiori di cui sempre olezzano. E questo ti dico, perché quando io volli aiutare Dulcinea a risalire sulla chinea (come tu dici, benché a me parve asina) mi fece sentire un'esalazione di agli crudi che mi appestò e attossicò tutto.

— Ah canaglie! sclamò Sancio a tal punto, ah incantatori di mal augurio! ah maligni! che potessi vedervi infilzati per la gola come tante sardelle: voi la sapete lunga, voi potete tutto quello che volete, e operate oltre ogni immaginazione, non dovea bastarvi, o ribaldi, di avere cambiate le perle degli occhi della mia signora in stangulioni di sughero, e i suoi capelli d'oro purissimo nelle setole della coda di un bue rosso, e finalmente tutte le sue bellissime fattezze in brutte e schifose senza impacciarvi anche nell'odorato? per toglierci così di fermarci a scoprire le vere bellezze sotto la deforme apparenza. Ma a dire il vero, io non ho scoperta in Dulcinea bruttezza alcuna: all'opposto una beltà che riceveva maggiori gradi e carati di perfezione da un neo grazioso vicino al labbro diritto in forma di un mustacchino, con sette o otto peli biondi come fila di oro, e lunghi più di un palmo.

— Ma un neo con peli sì lunghi, replicò don Chisciotte mi pare una deformità.

— Posso assicurare, vossignoria, rispose Sancio, che in lei parevano proprio nati tutti per mettere il colmo alla bellezza.

— Lo credo, amico mio, soggiunse don Chisciotte, perché nulla fu posto dalla natura in Dulcinea che non sia perfetto e ben collocato. Ma dimmi un poco, o Sancio: quella che a me parve bardella, e che tu rassettasti al suo luogo, era sella delle ordinarie o sella da donna?

— Era sella alla ginetta, rispose Sancio, con una coperta da campagna, e sì ricca e sì bella che valea mezzo un regno.

— E ch'io non vedessi, o Sancio, tutto questo? disse don Chisciotte. Ora sì che ripeto e torno a dire, e dirò mille volte ch'io sono il più sfortunato uomo che partorisse mai donna al mondo.”

Durava fatica il volpone di Sancio a contenere le risa sentendo le scioccherie del padrone sì sonoramente da lui corbellato.

Finalmente dopo molti altri ragionamenti, rimontarono sulle loro cavalcature avviandosi a Saragozza, dove pensavano di arrivare a tempo da intervenire ad una solennità che in quella città illustre suol farsi ogni anno. Ma prima che vi giugnessero accaddero cose che meritano di essere scritte e lette, attesa la molto loro singolarità e novità, come vedrassi più avanti.


CAPITOLO XI

 

DELLA STRANA VENTURA CHE SUCCESSE AL VALOROSO DON CHISCIOTTE COLLA CARRETTA DELLA MORTE.

 

Don Chisciotte proseguiva tutto pensoso il suo viaggio, considerando la trista burla che gli avevano fatta gl'incantatori trasformando la sua signora Dulcinea nella brutta figura di una contadina; né sapea immaginarsi il modo che dovesse tenere per restituirla alla primitiva sua forma. Questi pensieri lo traevano tanto fuori di sé, che senza avvedersene lasciò andar la briglia a Ronzinante: il quale approfittando della libertà che gli era concessa, fermavasi ad ogni passo a pascere la verde erbetta di cui abbondavano quelle campagne.

All'ultimo poi Sancio lo trasse da quel suo concentramento, dicendogli:

— Signore, la malinconia non è fatta né per le bestie né per gli uomini: ma se questi vi si abbandonano disperatamente, diventano bestie. Torni in sé vossignoria, ripigli la briglia di Ronzinante, si faccia coraggio, si desti e spieghi quella gagliardìa che è tutta propria dei cavalieri erranti. Che diamine è questo? Che avvilimento è quello di vossignoria? Siamo noi qua, o in Francia? Il diavolo si porti quante Dulcinee si trovano al mondo, ché la salute di un solo cavaliere errante deve andare innanzi agl'incanti ed alle trasformazioni tutte del mondo.

— Taci, Sancio, rispose don Chisciotte con voce fiacca: taci, ripeto, né proferire bestemmie contro quella incantata signora, mentre io solo sono cagione della sua disavventura: la trista sua sorte è opera dell'invidia che mi portano i malevoli.

— Così diceva anch'io, rispose Sancio: chi la vide una volta e la vede adesso, con qual cuore potrà tralasciare di piangere?

— Tu puoi ben parlare in tal guisa, soggiunse don Chisciotte, poiché la vedesti nel più perfetto ed intero stato di sua bellezza; né l'incanto si estese ad ottenebrare la tua vista, né a celarti la sua leggiadrìa; contro me solo e contro i miei propri occhi rivolse la sua forza il veleno dell'incantagione. Per altro io conobbi, o Sancio, che non mi dipingesti fedelmente le sue prerogative, perché, se male non mi ricordo, dicesti che gli occhi suoi sembravano perle ma erano piuttosto da cheppia che da signora. Quelli di Dulcinea, per quanto mi sovviene, debbono essere di verde smeraldo e grandi, e servono loro di ciglia due archi celestiali; levale dunque queste perle dagli occhi e passale ai denti, perché t'ingannasti fuori d'ogni dubbio prendendo gli occhi pei denti.

— Tutto può darsi, rispose Sancio, mentre io rimasi tanto confuso al mirare la sua bellezza, quanto vossignoria all'aspetto della sua bruttezza; ma rimettiamo ogni cosa nella mano di Dio che solo conosce tutte le azioni che hanno a succedere in questa valle di lagrime da noi abitata, dove non saprei dire se si muova foglia la quale non sia avvelenata da malvagità, da imbrogli e da ribalderie. Di una cosa poi mi duole piucché d'ogni altra, signor mio, ed è il pensare al partito da prendersi allorché la signoria vostra resterà vincitore di qualche gigante o di altro cavaliere, e gli comanderà che vadi a presentarsi davanti alla bellezza della signora Dulcinea. Dove la troverà mai questo povero gigante, o questo povero e vinto cavaliere? A me pare di vederli girare come tanti storditi qua e là pel Toboso cercando la nostra signora Dulcinea; e poi se anche la incontreranno in mezzo alla strada sarà come se avessero le traveggole.

— Potrebbe anche darsi, o Sancio, rispose don Chisciotte, che non si estendesse l'incantesimo a togliere la conoscenza di Dulcinea ai vinti giganti e cavalieri che io costringerò di presentarsi a lei. Faremo una prova se la veggano o no con uno o due dei primi ch'io vincerò, ordinando loro di tornare a darmi conto di ciò che sarà precisamente accaduto.

— Mi persuade, disse Sancio, la risoluzione che prende la vossignoria, e con sì bell'artifizio noi potremo conoscere quanto desideriamo: e se così è che Dulcinea si trasformi unicamente dinanzi a vossignoria, la disgrazia sarà più di lei che nostra. Intanto purché la signora Dulcinea goda buona salute e viva in buona letizia, noi altri ce la passeremo alla meglio, cercando le nostre venture e lasciando al tempo che faccia le sue; ch'esso è il medico più valente a sanare queste e più gravi infermità.”

Si accingea don Chisciotte a rispondere un'altra volta a Sancio, quando ne lo sturbò una carretta che attraversava il cammino, carica dei più strani personaggi e figure che possano mai immaginarsi. Colui che guidava le mule, e faceva l'ufficio di carrettiere, avea ciera di brutto demonio: ed era la carretta scoperta tutta senza cielo, né graticcia alcuna al di sopra.

La prima figura che apparve agli occhi di don Chisciotte fu quella della Morte sotto umane sembianze; accanto ad essa era un angelo con due grandi ale dipinte; stava da un lato un imperadore portando in testa una corona che pareva d'oro; appiè della Morte era situato quel nume che si chiama Cupido, senza benda agli occhi, ma con arco, frecce e turcasso.

Eravi pure un cavaliere armato di tutto punto, eccetto che non portava morione o celata, ma un cappello adorno di piume di vari colori; e con questi vi erano altri personaggi, di vestiti e sembianti tra loro diversi.

Si sbigottì alquanto don Chisciotte a questa repentina comparsa, e tremò il cuore a Sancio, ma il primo presto presto si rallegrò credendo che gli si presentasse qualche nuova e inaudita ventura; e su questa supposizione, e con animo deliberato di cimentarsi a qualsivoglia pericolo, postosi dinanzi alla carretta con alta e minacciosa voce si fece a dire:

— Carrettiere, cocchiere, o demonio qual tu ti sia, rispondimi; chi sei? dove vai? che gente è quella che guidi in questa che pare piuttosto la barca di Caronte che una carretta?”

Tranquillamente rispose il Diavolo fermandosi:

— Signore, noi siamo commedianti della compagnia dell'Angelo il Cattivo, e nel paese posto dietro quella collina abbiamo fatta stamane, in cui cade la ottava del Corpus Domini, la rappresentazione della Dieta della Morte, e dobbiamo rifarla questa sera al tardi nel paese ch'è qua vicino. Per la prossimità e per risparmiare la fatica di spogliarci e di rivestirci, andiamo cogli abiti stessi che usiamo nel recitare, e questo giovane rappresenta la Morte, quello un Angelo; quella donna, ch'è la moglie dell'autore, è la Regina; quegli che vedete là fa da Soldato; questi da Imperadore, ed io da Demonio; e sono io una delle principali figure della rappresentazione, perché in questa compagnia sostengo le prime parti: se altro desidera da noi sapere la signoria vostra ce lo domandi, che io le risponderò con tutta esattezza, perché essendo io il Demonio so e m'intendo di tutto.

— In fede di errante cavaliere, rispose don Chisciotte, che alla comparsa di questo carro mi figurai subito che offerta mi si sarebbe qualche grande occasione, ma dico adesso che conviene toccare con mano le apparenze per illuminarsi bene nelle venture. Andate in pace, buone genti, fate la vostra festa, e se valgo a servirvi lo farò di buon cuore e di buona voglia, perché fino da ragazzo io fui affezionato alle maschere, e nella mia gioventù solevo intervenire alle commedie con gran piacere.”

Tra questi discorsi volle la sorte che arrivasse uno della compagnia vestito da Mattaccino con molti sonagli; e portava sulla punta di un bastone, tre vesciche di vacca rigonfie. Accostatasi questa maschera a don Chisciotte cominciò a schermire col bastone e a dar in terra dei gran colpi colle vesciche, facendo ad un tempo gran salti e gran rumore con quei sonagli; di che si spaventò Ronzinante per modo che don Chisciotte non lo poté più reggere a patto alcuno, e non sentendo più il freno, si mise a correre per la campagna con tale velocità da non potersi mai supporre in una bestia ch'era un sacco di ossa. Sancio, che conobbe il pericolo in cui trovavasi il suo padrone, saltò giù dal leardo e corse ad assisterlo; ma quando il raggiunse egli era già in terra, e accanto a lui il cavallo che stramazzato era insieme col suo padrone: solito fine delle bizzarrie e delle prodezze di Ronzinante.

Intanto che Sancio lasciata aveva la sua cavalcatura per aiutare don Chisciotte, quel demonio di ballerino dalle vesciche, saltato sopra il leardo cominciò a percuoterlo quanto poteva con quel suo singolare strumento. Lo spavento ed il fracasso, piucché il dolore dei colpi, lo fecero volare per la campagna fin là dove seguire doveva la festa.

Guardava Sancio la gran carriera del suo leardo e la caduta del suo padrone, e stava irresoluto a quale dei due dovesse prima porgere aiuto: ma come leale scudiere e buon servidore sentì con maggior efficacia il debito verso il padrone che l'affetto pel suo asino, quantunque ogni volta che vedeva alzarsi nell'aria le vesciche e poi cadere sulle groppe dell'animale, fossero per lui le angosce della morte: avrebbe voluto che piombassero quei colpi sulle pupille degli occhi suoi piuttostoché sul più corto pelo della coda del suo giumento. In questa perplessa tribolazione egli raggiunse don Chisciotte, il quale trovavasi pesto più di quello che avesse voluto, e Sancio aiutandolo a montare su Ronzinante, gli disse:

— Signore, il Demonio ha portato via l'asino.

— Che demonio? domandò don Chisciotte.

— Quello dalle vesciche, rispose Sancio.

— Lo raggiungerò ben io, replicò don Chisciotte, quand'anche si rinserrasse nelle più profonde ed oscure grotte dell'inferno: seguimi, Sancio, ché la carretta va adagio, e con le mule di essa ti compenserò della perdita della tua bestia.

— Non si pigli questa briga, rispose Sancio, e rattemperi vossignoria la sua collera; la rattemperi, le ripeto; ché, a quanto mi sembra, il Diavolo ha lasciato ora il leardo, e già torna verso di noi.”

Così era infatti, perché essendo il Diavolo caduto insieme coll'asino, per non essere da meno di don Chisciotte e di Ronzinante, il Diavolo s'era messo ad andare coi suoi piedi, e tornò l'asino spontaneamente al suo padrone.

— Con tutto questo, disse don Chisciotte, sarà ben fatto castigare la temerità di quel Diavolo in alcun altro di quelli della carretta, foss'anche lo stesso Imperadore.

— Si tolga di capo questa idea, replicò Sancio, ed accolga il mio consiglio: non se la pigli mai contro i recitanti, poiché questa è gente che trova sempre molto favore; ed io ho veduto uno di costoro portarsela fuori netta, quantunque avesse commessi due omicidî. Sappia vossignoria, che siccome sono brigate allegre e di passatempo, ognuno le favorisce, le difende, le protegge, e massimamente quelle della Compagnia del re e titolate, che tutti nel loro abito e attillatura paiono tanti principi.

— Sia com'essere si voglia, disse don Chisciotte, non permetterò che il commediante Demonio vada vantando la sua soperchieria, quand'anche sia protetto da tutto il genere umano.”

Nel dire questo, si volse alla carretta che stava già presso al villaggio, e con sonora voce esclamò:

— Fermatevi, aspettate, turba buffona impertinente, che voglio insegnarvi come si hanno a trattare le bestie che servono di cavalcatura agli scudieri dei cavalieri erranti.”

Sì grande era lo schiamazzo di don Chisciotte che fu presto inteso da quelli della carretta; i quali arguendo dalle parole l'intenzione di chi le proferiva, cacciarono tosto fuori dalla carretta la Morte, e dietro a lei l'Imperadore, il Demonio carrettiere e l'Angelo, senza che restasse indietro la Regina e il dio Cupido, e caricatisi tutti di pietre si posero in ischiere aspettando di fare a don Chisciotte un magnifico ricevimento coi loro sassi. Don Chisciotte che li vide posti in sì formidabile squadrone, colle braccia inalberate e in atto di fargli piovere addosso un monte di pietre, tirò le redini a Ronzinante, e stette perplesso sul modo di eseguire la nuova prodezza col minore pericolo della sua propria persona.

Sopravvenne Sancio sul fatto, e vedendo don Chisciotte così apparecchiato all'assalto, gli disse:

— Sarebbe grande pazzia, o signore, il mettersi a questa impresa; consideri vossignoria, signor mio, che contro piena di torrente e furia di frombola non vi ha difesa al mondo, e meglio sarebbe cacciarsi e rinchiudersi in una campana di bronzo; e poi consideri ch'è più temerità che valore che un uomo solo assalga tutto un esercito dove combatte la morte, sono in arme gl'imperadori e dànno aiuto gli angeli buoni e cattivi. Se queste considerazioni non persuadono vossignoria a far alto, la persuada senz'altro il sapere di certo che fra tutti quelli che stanno quivi, tuttoché rassembrino principi, re e imperadori, non v'è un solo cavaliere errante.

— Sancio, tu hai dato nel punto, disse don Chisciotte, e non occorre di più per rimovermi dalla mia opinione. Io non posso né debbo metter mano alla spada, come tante altre volte dissi, contro chi non sia armato cavaliere; tocca a te se vuoi pigliarti vendetta del torto che al tuo leardo si è fatto; ed intanto ti presterò opportuno soccorso colle parole e col consiglio.

— Qua non c'è da pigliar vendetta di sorta, o signore, rispose Sancio, mentre non è da buon cristiano il volere rifarsi delle offese ricevute: e tanto più che impetrerò il mio asino che anch'egli rimetta le sue ragioni nella mia volontà, ch'è quella di terminare tranquillamente i giorni che il cielo mi concede di vita.

— Poiché, replicò don Chisciotte, così hai risolto, o Sancio buono, o Sancio discreto, o Sancio cristiano, o Sancio sincero, abbandoniamo siffatte fantasime, volgiamci a cercare migliori e più importanti avventure, ché veggo già apparecchiarsene in questi luoghi e in quantità e più ammirabili.

Detto questo, voltò la briglia e Sancio andò a ripigliare il suo asino. La Morte e tutto lo squadrone volante tornò alla carretta, e questo fu il termine fortunato che ebbe il formidabile caso della Carretta della Morte, grazie al salutare consiglio dato da Sancio al suo padrone, cui nel dì seguente accadde poi un'altra avventura con un innamorato errante cavaliere di non minore importanza della già riferita.


CAPITOLO XII

 

DELLA STRANA AVVENTURA ACCADUTA A DON CHISCIOTTE COL VALOROSO CAVALIERE DAGLI SPECCHI.

 

La notte che successe al giorno in cui avevano incontrato la Carretta della Morte don Chisciotte e il suo scudiere la passarono sotto alcuni alti e ombrosi alberi, dove per consiglio di Sancio don Chisciotte mangiò della provvigione che trovavasi nella credenza portata dall'asino. Durante la cena disse Sancio al suo padrone:

— Sarei pure stato balordo se avessi scelto per mancia lo spoglio della prima ventura che fosse stata effettuata da vossignoria, piuttostoché la razza delle tre cavalle! oh è meglio uccelletto in mano che aquila al volo.

— Contuttociò, disse don Chisciotte, se tu, o Sancio, mi avessi lasciato combattere come era mia volontà, ti sarebbe toccato in ispoglio almeno almeno la corona d'oro dell'imperadore, e le dipinte ali di Cupido, ch'io gliele avrei strappate di forza, e te le avrei date.

— Le corone, disse Sancio, degl'imperadori di teatro non furono mai di oro fino, ma di orpello o di stagno.

— Ciò è vero, replicò don Chisciotte, perché sarebbe cosa malfatta che gli ornamenti teatrali fossero fini, ed anzi va bene che sieno finti e apparenti come la stessa commedia. Io poi bramo, o Sancio, che tu sia amico della commedia tenendola in grazia tua, e così pure quelli che la rappresentano, perché servono tutti di giovamento alla repubblica. Costoro ci pongono ad ogni tratto dinanzi agli occhi uno specchio in cui veggonsi al vivo le azioni dell'umana vita, e non avvi paragone più atto a rappresentare quello che siamo, o che dovremmo essere, quanto la commedia e i commedianti. Né ti opporre, o amico Sancio, ma dimmi: non hai tu veduto rappresentar qualche commedia in cui s'introducono re, imperadori, pontefici, cavalieri, ed altri differenti personaggi, uno dei quali fa lo smargiasso, un altro l'imbrogliatore, questi il mercadante, quegli il soldato, un altro il semplice contegnoso, quell'altro l'innamorato morto; e poi terminata la commedia e spogliati gli abiti, tutti i recitanti restano eguali?

— Sì, signore, ne ho veduti molto bene, disse Sancio.

— Ora sappi, disse don Chisciotte, che lo stesso avviene nella commedia e nel traffico di questo mondo; in cui taluno fa da imperadore, tal altro da papa e da mille altre comparse che possono essere nella commedia introdotte; ma giungendo al fine, ch'è quando termina la vita, la morte toglie a ciascuno l'abito che lo rendeva diverso dagli altri, e tutti restano eguali nella sepoltura.

— Bel paragone! sclamò Sancio; ma egli non è poi tanto nuovo ch'io non l'abbia sentito mille e mille volte, come quello del giuoco degli scacchi, che mentre dura la partita ogni pezzo ha il suo offizio, ma terminata che sia, tutti si mescolano, si uniscono, si mutano e si cacciano in una borsa; ch'è lo stesso come la comparazione della vita che termina nella sepoltura.

— Tu vai ogni giorno, o Sancio, disse don Chisciotte, diventando meno semplice e più giudizioso.

— Batti e ribatti, rispose Sancio, ha da restarmi inchiodata bene in testa un poco della sapienza di vossignoria, poiché anche i terreni che sono sterili e senza umore nutritivo, a forza di mettervi buon letame, e di coltivarli, vengono a produrre buone frutta; e voglio inferire da questo che il conversare colla signoria vostra è stato il letame che ingrassò lo sterile terreno dell'infecondo mio ingegno; e la sollevazione del mio spirito la ripeto dal tempo in cui sono al suo servigio e converso con lei; e per tutte queste cose spero che un giorno darò frutta degne di benedizione, e tali che punto non isconvengano né sdrucciolino fuori dalla strada delle buone creanze che vossignoria ha ora aperta al mio intelletto.”

Si mise a ridere don Chisciotte delle studiate espressioni di Sancio, e gli sembrava anche vero ciò che dicea de' suoi progressi, perché parlava di tanto in tanto a modo che lo faceva restare maravigliato, quantunque non si possa dissimulare che il più delle volte coi suoi discorsi di opposizione o alla cortigianesca precipitasse dal colmo della sua semplicità, nel profondo della sua ignoranza. Quello in che si mostrava più elegante e memorativo era una profusione di proverbi, cadessero o no in acconcio al soggetto di cui trattavasi, come si andrà osservando nel corso di questa istoria.

In tali e altri ragionamenti passarono gran parte della notte. Finalmente s'invogliò Sancio di lasciarsi cadere le cateratte sugli occhi (come soleva dir egli quando volea dormire), e però, levata all'asino la bardella, lo lasciò in pienissima libertà di andarsene al pascolo per lo prato. Non tolse la sella a Ronzinante per essere espresso comando del suo padrone che nel tempo in cui battessero la campagna, o dormissero allo scoperto, non lo sfornisse mai: vecchia costumanza stabilita e osservata dai cavalieri erranti. Levare la briglia e attaccarla all'arcione della sella, pazienza! ma togliere la sella al cavallo? guai! Così fece Sancio, e la libertà dell'asino poté essere comune a Ronzinante la cui amicizia per l'asino fu sì unica e sì stretta che la fama ne corre per tradizione da padre a figliuolo; e l'autore di questa veridica istoria ne fece capitoli a parte, che non ha inseriti soltanto per voler essere geloso custode della decenza e decoro dovuto a narrazioni sì eroiche. Ben è il vero che alcuna volta si dimentica di tale suo proposito e scrive che subito che le due bestie potevano avvicinarsi andavano grattandosi l'una coll'altra, e che quando eran molto stracche, Ronzinante cacciava il suo collo a posare su quello del leardo per modo che ne riusciva un mezzo braccio dall'altra parte, e fissando ambedue gli occhi a terra stavansene a quel modo per tre giorni, o almeno fino a tanto che la fame non li spingeva a cercarsi altrove alimento.

Soggiungo una cosa ancora e non più, ed è che l'autore ha lasciato scritto che nell'amicizia erano queste bestie da compararsi a Niso ed Eurialo, a Pilade ed Oreste: e se ciò è vero, resta luogo ad osservare con istupore, quanto stabile dovette essere la colleganza dei due pacifici animali, a confusione degli uomini che tanto male si conducono gli uni con gli altri. Non v'è amico per l'amico, e le canne si cambiano in lance.

Né sembri a taluno che l'autore abbia deviato dal diritto sentiero paragonando l'amicizia di quelle due bestie con l'amicizia degli uomini; perché gli uomini hanno appreso dalle bestie molti e molto importanti insegnamenti; come sarebbe a dire dalle cicogne il cristere, dai cani la gratitudine, dalle grue la vigilanza, dalle formiche la provvidenza, dagli elefanti l'onestà, e la lealtà dal cavallo.

Finalmente Sancio si addormentò sotto un sughero, e don Chisciotte se ne stette sonniferando disotto d'un'altissima quercia. Breve intervallo di tempo era scorso quando don Chisciotte fu desto da un rumore che udì dietro a sé, e levandosi impaurito e postosi ad ascoltare ed a vedere di dove procedesse, scoprì che erano due uomini a cavallo, uno dei quali abbandonando la sella, diceva all'altro:

— Smonta, amico, e leva il freno ai cavalli, che a parer mio, qui trovasi abbondevolmente dell'erba pel loro pascolo, e qui sono la solitudine ed il silenzio che abbisognano agli amorosi miei pensamenti.”

Il proferir queste parole ed il distendersi sulla terra fu tutto uno; ma nell'atto che si coricava, le armi che aveva indosso fecero rumore: dal che don Chisciotte argomentò che dovesse essere un qualche cavaliere errante.

Accostatosi a Sancio che dormiva, lo riscosse, e con poca fatica lo svegliò, poi a bassa voce gli disse:

— Fratello Sancio, abbiamo qui una ventura.

— Dio ce la mandi buona! rispose Sancio. E dove sta, signor mio, la signoria di questa signora ventura?

— Dove? mi domandi, replicò don Chisciotte. Volgiti, guarda e vedrai quivi prosteso un cavaliere errante, ch'io penso non debba essere soverchiamente allegro, poiché lasciatosi cadere giù da cavallo, si distese per terra con non dubbi segni di animo irato; e nel cadere rumoreggiarono le sue armi.

— E in che trova vossignoria, disse Sancio, che questa sia un'avventura?

— Non voglio dire, don Chisciotte rispose, che sia del tutto una ventura, ma principio di essa, ché così le avventure hanno principio. Ma stattene attento: a quanto pare, egli va accordando un liuto o una viola, ed al tossire e allo spurgarsi che fa, indovino ch'egli si apparecchia a cantare un poco.

— In fede mia ch'è vero, rispose Sancio: oh sarà per certo un cavaliere innamorato.

— Non avvi alcuno degli erranti che non lo sia, soggiunse don Chisciotte, e stiamolo a sentire, ché da questo filo scopriremo il gomitolo dei suoi pensieri: la lingua parla per l'abbondanza del cuore.”

Voleva Sancio replicare al padrone, quando la voce del cavaliere del Bosco, che non era né molto cattiva né molto buona, glielo impedì, e standosene tutti e due in attenzione udirono che il suo canto diceva presso a poco così:

 

“Datemi, o mia signora, una via da seguire sempre il vostro volere; ed io conformerò a quello il voler mio per modo, che mai non me ne allontanerò pur d'un punto.

“Se v'è a grado che tacendo de' miei martirî io muoia, e voi abbiatemi già fin d'ora per morto; o se volete ch'io ne parli di un modo inusato, farò che Amore stesso pigli a parlarne per me.

“Io, a prova de' contrari, son fatto di molle cera e di duro diamante, e accomodo l'animo mio alle leggi d'Amore.

“Molle qual è o forte, io vi offro il mio cuore: voi tagliate od imprimetevi quello che più vi piace, ché io giuro di custodirlo eternamente.”

 

Con un ahi tratto, per quanto sembrava, dall'intimo del cuore, diè fine al suo canto il cavaliere dal Bosco, e di lì a poco con dogliosa e compassionevole voce proruppe:

— Oh la più bella e la più ingrata donna dell'orbe! come sarà egli possibile, serenissima Casildea di Vandalia, che ti piaccia di vedere consunto e sfinito in continue peregrinazioni ed in aspri e crudeli travagli questo tuo schiavo cavaliere? Non basta a te ch'egli abbia costretto a dichiararti per la più bella donna del mondo i cavalieri tutti della Navarra, tutti quei di Leone, tutti i Tartesii, i Castigliani tutti, e finalmente tutti i cavalieri della Mancia?

— Oh questo poi no, disse don Chisciotte a tal punto: io sono cavaliere della Mancia, e non mai feci tal confessione, né posso né devo farla a pregiudizio della bellezza della mia dama. Tu vedi, o Sancio, che quel cavaliere delira: ma ascoltiamo, che forse si spiegherà un poco più.

— Sentiamolo pure, rispose Sancio, ma egli ha ciera da querelarsi per un mese a di lungo.”

Così non passò la cosa, perché avvedutosi il cavaliere dal Bosco che qualcuno stava favellando vicino a lui, senza più continuar nel suo lamento, si alzò e con sonora e cortese voce, disse:

— Chi è là? Che gente siete? siete fra i contenti o fra i miseri?

— Fra gl'infelici, rispose don Chisciotte.

— Dunque venite a me, soggiunse quello dal Bosco, e in me troverete l'affanno e la tribolazione stessa in persona.”

Udendosi don Chisciotte rispondere sì teneramente e con sì alta cortesia, si avvicinò a lui, e Sancio ancora. Il dolente cavaliere prese don Chisciotte per un braccio dicendogli:

— Sedete qua, signor cavaliere, che per conoscervi tale e per accorgermi che professate la errante cavalleria bastami avervi ritrovato in questo luogo dove la solitudine e la serenità sono e compagni e piume naturali e veri soggiorni dei cavalieri erranti.

Cui don Chisciotte:

— Cavaliere son io, e della professione che dite, e tuttoché abbiano sede lor propria nell'anima mia le afflizioni, le sciagure e gli affanni! non per questo mi rifiuto di sentire compassione per le sventure altrui. Dal tenore del vostro canto, che ho inteso, sono convinto che le vostre sono afflizioni innamorate: voglio dire che nascono dall'amore che vi accende per la bella ingrata che ricordate nei vostri sospiri.”

Stando in questo colloquio trovavansi già seduti sul nudo terreno in santa pace e in amichevole compagnia, come se allo spuntare dell'alba non avessero a maltrattarsi a vicenda.

— Signor cavaliere, domandò a don Chisciotte quello dal Bosco, sareste voi per avventura innamorato?

— Lo sono per fatalità mia, rispose don Chisciotte, benché i danni che ci derivano dai ben collocati affetti nostri debbano più propriamente chiamarsi favori che danni.

— Questo è pur troppo vero, replicò quello dal Bosco, quando però non ci ottenebrassero alcuna volta la ragione o l'intelletto quegli sdegni che col moltiplicarsi vestono le sembianze della vendetta.

— Giammai, rispose don Chisciotte, fui io sdegnato contro la mia signora.

— Oh no certamente, soggiunse Sancio che gli era accanto, perché la mia padrona è simile ad una piacevole asinella, e più morbida di un pane di burro.

— È costui il vostro scudiere? domandò quello dal Bosco.

— Per lo appunto, rispose don Chisciotte.

— Non mi è mai più accaduto, replicò quello dal Bosco, di udire che lo scudiero abbia ardito di frammettersi nei ragionamenti del suo signore; ed il mio che pur è qui grande e grosso, non osa mai di aprire bocca quando io favello.

— Oh bella! disse Sancio; oh gran novità! ho parlato, posso parlare e non parlare davanti ad un altro tanto quanto... tanto più la puzza quanto più...”

Lo scudiere del cavaliere dal Bosco prese allora Sancio per un braccio e gli disse:

— Andiamo, amico, noi altri due soli in un appartato luogo dove potremo discorrercela insieme scudierilmente, e lasciamo questi nostri padroni che si discervellino colle istorie dei loro amori, le quali scommetterei che non finiranno sino a dimani.

— Andiamo alla buon'ora, disse Sancio, e racconterò a vossignoria chi sono io, e voi deciderete se io sono uomo da essere così posto in un fascio con gli scudieri ciarloni.”

Si ritirarono amendue, e passò tra loro un ragionamento che riuscì tanto saporito quanto serio fu stato quello dei loro padroni.


CAPITOLO XIII

 

SEGUITA L'AVVENTURA DEL CAVALIERE DAL BOSCO, E SI DESCRIVE IL GIUDIZIOSO, NUOVO E SOAVE COLLOQUIO SEGUITO FRA I DUE SCUDIERI.

 

Stavansi appartati cavalieri e scudieri, questi raccontandosi i fatti loro, e quelli le loro amorose vicende. L'istoria ci dà prima il ragionamento seguito fra i servitori, e passa indi a quello dei padroni; e narra che, scostatisi alquanto, lo scudiere del cavaliere dal Bosco così disse a Sancio:

— È pure una travagliata vita, signor mio, quella che noi passiamo vantando il bel titolo di scudieri dei cavalieri erranti! Ben si può dire con verità che noi mangiamo veramente il pane col sudore del nostro volto, ch'è una delle maledizioni fulminate da Dio contro i nostri primi padri.

— Si può anche dire, soggiunse Sancio, che lo mangiamo col gelo dei nostri corpi; perché chi è che patisce più caldo e più freddo dei miserabili scudieri della errante cavalleria? E manco male se almeno mangiassimo, perché più tollerabili sono le disgrazie a corpo bene pasciuto; ma il peggio si è che passiamo talvolta uno o due giorni senza romper il digiuno, e dobbiamo contentarsi di qualche boccone dell'aria che soffia.

— Pazienza ancora per ciò, rispose quello dal Bosco, poiché possiamo sperare di esser compensati; mentre se non è sfortunato all'ultimo segno il cavaliere errante, al cui servizio lo scudiere si trova, avrà questi in guiderdone per lo meno il fortunato governo di qualche isola o di una contea di molta importanza.

— Io, replicò Sancio, ho protestato al mio padrone che mi contento del governo di un'isola; ed egli è tanto nobile e tanto prodigo che molte e molte volte me l'ha promessa.

— Io, disse quello dal Bosco, mi chiamerei pago della mia servitù ottenendo un canonicato, e mel promise già il mio padrone.

— Se il vostro padrone, soggiunse Sancio, è cavaliere alla ecclesiastica, egli potrà dar luogo a questa sorta di mercedi coi suoi buoni scudieri, ma il mio è unicamente laico, sebbene mi ricordo che certe savie persone consigliavano (a parer mio pessimamente) che cercasse di diventar arcivescovo; ma egli non ismontò dalla pretensione di essere imperadore: io tremai ch'egli non si volgesse agli affari di chiesa, non trovandomi al caso di assumere benefizi per questo mezzo, perché voglio confessare a vossignoria che quantunque io sembri uomo da proposito, pure sarei una vera bestia per le cose ecclesiastiche.

— In verità, disse quello dal Bosco che vossignoria è in errore, mentre i governi isolani non sono tutti di buona data; alcuni se ne trovano rivoltosi, altri poveri, taluni malinconici, e finalmente anche il meglio istituito e ben conformato si trae dietro il pesante carico di pensieri e di disturbi che si mette sulle spalle quel meschino cui un tal governo tocchi in sorte. Molto meglio sarebbe che noi, che professiamo questa maledetta servitù, ci ritirassimo a casa nostra, ed ivi ci occupassimo in più grati esercizi, come sarebbe la caccia e la pesca; mentre, e quale fia mai sì povero scudiere al mondo che non abbia nella sua stalla un ronzino, un paio di levrieri ed una canna da pescare? e queste cose già sono sufficienti per occuparsi bene nel suo paese.

— Veramente io ho tutte queste cose, eccettuato il ronzino, rispose Sancio, ma in sua vece ho un asino al mio comando che vale il doppio del cavallo del mio padrone: mala pasqua Dio mi dia se volessi barattarlo con lui se bene mi dessero in aggiunta quattro staia di frumento; e non creda vossignoria che io esageri, perch'è di pelame leardo; e quanto ai levrieri, non ho paura che mi manchino, giacché ve n'ha più del bisogno nel mio paese, e riesce più gustosa la caccia quando si fa a spese degli altri.

— Egli è infallibile, rispose quello dal Bosco, signor scudiere, ch'io ho proposto e determinato meco medesimo di abbandonare le scioccherie di questi nostri cavalieri, e di ritirarmi al mio paese per attendere alla educazione de' miei figliuoletti, che ne tengo tre che sono tre perle orientali.

— Ed io ne ho due, disse Sancio, che possono presentarsi al papa in persona, e specialmente una ragazza che, se piace a Dio, farò contessa a dispetto di sua madre.

— E che età ha ella, disse quello dal Bosco, questa signorina che si alleva per contessa?

— Quindici anni, due più due meno, rispose Sancio; ma è di statura alta come una lancia, di freschezza tale da non invidiare una mattina di aprile, ed ha una forza da facchino.

— Queste sono qualità, replicò l'altro, che non solo possono farle meritare di essere contessa, ma anche di diventare ninfa del bosco verde.

— Prego Dio, disse Sancio, che per tornare a vedere la mia figliuola mi cavi di peccato mortale, ch'è tutt'uno come cavarmi da questo pericoloso offizio di scudiere nel quale sono incappato per la seconda volta; allettato e vinto da una borsa di cento scudi che ho trovata un giorno nel bel mezzo di Sierra Morena. Anche adesso il diavolo mi mette dinanzi gli occhi un'altra borsa piena di dobloni, ché mi pare ad ogni poco di poter trovarla, abbracciarla, e portarla a casa mia: e allora darò denari a censo, avrò rendite, e vivrò come un principe. Per quel poco di tempo che io vo sperando in questi pensieri mi diventano facili e sopportabili i travagli che patisco con questo mentecatto del mio padrone che ha più del pazzo che del cavaliere.

— Per questo, rispose quello dal Bosco, si suol dire che il soverchio rompe il coperchio; e giacché si tratta di cavalieri pazzi credo che non vi sia alcuno più pazzo del mio; perché è di quelli che dicono: le brighe e i fastidi degli altri ammazzano l'asino. Oh prima che un cavaliere che ha perduto il giudizio lo ricuperi vi vuol ben altro!

— È forse innamorato? dimandò Sancio.

— Sì, disse quello dal Bosco, di una certa Calsidea di Vandalia, la più crudele, ma la più compita signora che possa darsi nel mondo; ma non zoppica solo dal piede della crudeltà, che ci cova qualche altro imbroglio... Basta, se ne vedranno gli effetti.

— Non v'è strada sì piana che non abbia i suoi intoppi, rispose Sancio: io credeva di esser solo a servire un pazzo, or veggo che la pazzia ha più clientele che la discrezione; ma se è vero il detto che ai miseri è un sollievo l'avere dei compagni nelle miserie, io posso consolarmi con vossignoria che serve un padrone tanto balordo quanto è il mio.

— Balordo, ma valoroso, rispose quello dal Bosco, e più poco di buono che sciocco e imprudente.

— Oh il mio non è così, rispose Sancio; e posso assicurarvi che non ha mente da cattivo; è un bestione di buona pasta, non fa male ad alcuno, fa del bene a tutti, non ha alcuna malizia, e un fanciullo gli darà ad intendere che sia notte a mezzogiorno; e per questa sua semplicità voglio a lui tanto bene quanto al mio caro leardo, né ho coraggio di abbandonarlo, comunque vada facendo ogni giorno spropositi da non perdonarsi.

— Contuttociò, o fratello e signor mio, disse quel dal Bosco, se un cieco guida un altro cieco vanno a pericolo tutti e due di cadere nella fossa. Più savio partito mi pare quello di ritirarci a tempo e di tornarcene agli oggetti veri del nostro amore; ché quelli che vanno in traccia di avventure non sempre le trovano buone.”

Sancio sputava spesso, per quanto parea, un certo genere di saliva attaccaticcia e alquanto secca; e che sentito e notato dal caritatevole boschericcio scudiere gli disse:

— Sembrami, che per i tanti discorsi da noi tenuti fin qui ci si incollino le lingue al palato; ma io vi rimedierò con qualche cosa che porto all'arcione del mio cavallo: questi distaccano la saliva, e sono molto opportuni.”

Dette queste parole, si alzò, e lasciato Sancio solo per un momento, tornò poi subito recando seco una borraccia di vino ed un pasticcio lungo un mezzo braccio; né questa è esagerazione perch'era di un coniglio tanto grande che Sancio al vederlo credette che fosse qualche capretto o becco. Quando Sancio si vide dinanzi questa provigione, disse:

— E queste cose porta con sé vossignoria?

— E che? si credeva, rispose l'altro, ch'io fossi qualche scudiere fallito? Io porto sulle groppe del mio cavallo una provvigione più grande di quella che trae seco un generale quando va alla guerra.”

Mangiò Sancio senza farsi pregare, e mandò giù bocconi al buio grossi come nodi di pastoie. Disse poi:

— Oh vossignoria sì, ch'è scudiere fedele e regale, andante e restante, magnifico e grande come lo fa vedere il presente banchetto, che se non è comparso qua per l'arte d'incanto, almeno lo pare; e non è come son io, poveretto disgraziato, che non porto nelle mie bisacce se non un po' di formaggio tanto duro, che si potrebbe con un tocco accoppare un gigante; e gli fanno compagnia quattro dozzine di carrube ed altrettante di nocciuole, e tutto questo in forza della povertà del mio padrone, e dell'essersi egli cacciato in testa che l'ordine a cui appartiene (quello cioè dell'errante cavalleria) non abbia da mantenersi e sostentarsi se non con frutta secche e con erbe della campagna.

— Per fede mia, fratello, replicò l'altro, ch'io non ho lo stomaco fatto per bagattelle, o pere salvatiche, o per le radicchie dei monti. Restino colle loro opinioni e colle loro leggi cavalleresche i nostri padroni, e mangino come loro piace, che io porto con me della carne fredda, e questa borraccia attaccata all'arcione della sella per tutto quello che potesse occorrere, e sono a lei sì devoto e amoroso che pochi intervalli trascorrono senza ch'io le dia mille abbracci.”

E nel dir questo pose la borraccia in mano a Sancio, il quale, alzandola bene all'aria, la portò alla bocca, e se ne stette guardando per un quarto d'ora le stelle. Terminato che ebbe di tracannare, lasciò cadere la testa da un lato, e mandando un gran sospiro disse:

— O signore, mi dice per quanto ha di più caro, questo vino è egli di città reale?

— Oh il bevitore sapiente! sclamò quello dal Bosco: in verità ch'è appunto tale, ed ha molti anni di anzianità.

— Quale maraviglia è la vostra? disse Sancio: non saprò dunque io conoscere che vino sia? E non vi pare, signor scudiere, che io sia uomo da sapere distinguere i vini anche col solo annasarli? Ve ne saprei dire la patria, la stirpe, il sapore, la durata, e la volta che hanno da dare con tutte le circostanze annesse e connesse: né c'è punto da stupirsi mentre io vanto dal lato di mio padre i due più solenni bevitori che da molti anni in qua contasse la Mancia; ed in prova di questo, sentite un curioso caso che è loro accaduto. Fu dato da assaggiare ad ambedue del vino di una botte per avere il loro parere sulla qualità e bontà, o difetti di gusto e di odore. Uno lo pregustò appena colla punta della lingua, e l'altro l'annasò soltanto. Decise il primo che il vino sapeva di ferro: il secondo che sapeva di cordovano. Sosteneva il padrone che la botte era nuova e nettissima, e che quel tal vino non avea alcun acconcime da cui avesse potuto venirgli sapore o di ferro o di cordovano. Con tutto ciò i due gran beoni stettero forti nel loro proposito. Passò qualche tempo, si vendette il vino, e quando nettarono la botte trovarono nel fondo di essa una piccola chiave attaccata ad una correggia di cordovano. Ora vegga vossignoria se chi procede da cotal razza può essere giudice competente in questa materia.

— Ed è appunto per questo che io ripeto, soggiunse quello dal Bosco, che noi tralasciamo di andare cercando venture, e poiché abbiamo focacce non andiamo in cerca di stiacciate, e torniamcene alle nostre capanne. A buon conto io resterò al servigio del mio padrone fino a tanto che arrivi a Saragozza, e poi ognuno saprà quello che avrà a fare.”

Tanto in fine andarono ciarlando e bevendo i due buoni scudieri, che per necessità giunse il sonno a legare le loro lingue e a temperare la loro sete; che lo smorzarla affatto sarebbe stato impossibile. Attaccatisi entrambi alla quasi vôta borraccia, con i bocconi mezzo masticati in bocca si addormentarono; e noi lasceremo per ora che riposino in pace per raccontare ciò che seguì tra il cavaliere dal Bosco e quello dalla Trista Figura.


CAPITOLO XIV

 

SEGUITA L'AVVENTURA DEL CAVALIERE DAL BOSCO.

 

Prosegue l'istoria narrando che dopo molti altri ragionamenti, il cavaliere dal Bosco disse a don Chisciotte:

— Finalmente, signor cavaliere, bramo che voi sappiate che il mio destino, o a meglio dir la mia elezione, mi trasse ad innamorarmi della senza pari Casildea di Vandalia; senza pari la chiamo perché non ha chi la ragguagli sì nella perfetta grazia come nella bellezza. Questa Casildea di cui vi ragiono compensò i miei retti pensieri e le oneste mie brame obbligandomi, come fece la matrigna di Ercole, in molti e diversi cimenti; promettendomi sempre, al superarne di uno, che al fine dell'altro avrei ottenuto quello a cui tendevano le mie mire. Per tal modo si sono andate succedendo le mie imprese a segno di diventare innumerabili, né io so ancora quale sarà l'ultima che darà principio al compimento delle mie brame. Mi comandò una volta che andassi a sfidare a tenzone quella famosa gigantessa di Siviglia, chiamata la Giralda, il cui valore e fortezza la fa credere di bronzo, e che senza cambiar mai di luogo può contarsi per la più mobile e volubile donna di questo mondo.

Andai, la vidi, la vinsi, e la ridussi a starsene ferma e a segno; perché pel corso di più che una settimana altri venti non soffiarono fuor quello di tramontana. Altra volta mi fece comando che andassi a pigliare di peso le pietre portate dai bravi tori di Guisando, impresa più da facchino che da cavaliere. Comandò altra volta che mi precipitassi e sprofondassi nella fogna di capra (pericolo inaudito e spaventosissimo!), e che le dessi conto preciso di ciò che rinserrasi in quella oscura profondità: fermai la Giralda, portai le pietre dei tori di Guisando, mi precipitai nella fogna, trassi alla luce quello che rinchiudevasi nell'abisso; ma rimasero più morte di prima le mie speranze, ed i suoi comandi e i suoi sdegni più vivi che mai. In fine mi comandò che scorressi le province tutte di Spagna, e obbligassi tutti i cavalieri erranti che vanno per quelle vagando, a confessare che in bellezza ella è la sola e la prima sopra quante altre vivono oggidì, e che io sono il più valoroso ed il meglio innamorato cavaliere dell'orbe. Per adempiere a questo nuovo comando ho già percorsa la maggior parte della Spagna, e ho trionfato di molti e molti cavalieri che hanno avuto ardire di contraddirmi. Quello poi di cui mi pregio e vanto, e che rende immortali le mie palme si è l'aver avuto vittoria in singolare tenzone di quel sì famoso cavaliere don Chisciotte della Mancia, e costrettolo a confessare che la mia Casildea è più bella della sua Dulcinea; e con questa sola vittoria fo conto di aver vinto tutti i cavalieri del mondo, poiché quel don Chisciotte di cui ragiono, aveva superati gli altri ed essendo da me debellato, la sua gloria, la sua fama, il suo onore si sono trasferiti nella persona mia. Tanto è maggiore il trionfo di vincitore quanto più il vinto è tenuto in celebrità, ond'è che vanno ormai per mio conto, e sono mie tutte le sue innumerabili imprese.”

Rimase stupefatto don Chisciotte udendo le parole del cavaliere dal Bosco, e stava per dargli una mentita, e già la teneva sulla punta della lingua, ma si astenne il meglio che poté per fargli confessare di propria bocca le sue bugie: in fine così gli disse e con molta gravità.

— Niente oppongo alle vittorie testé vantate da vossignoria, signor cavaliere, sopra la maggior parte dei cavalieri erranti di Spagna ed anche del mondo intero: ma dubito assai che abbiate vinto don Chisciotte della Mancia; ma forse così avrete creduto ingannandovi una gran somiglianza, benché pochi sieno che si rassembrino a lui.

— Come no? replicò quello dal Bosco: per lo cielo che ci sta sopra che io ho combattuto con don Chisciotte, e l'ho vinto e sconfitto. È un uomo alto di corporatura, secco di viso, snello, di membra robuste, canuticcio, di naso aquilino e alquanto piegato, con basette nere, grandi e cadenti; campeggia sotto il nome di cavaliere dalla Trista Figura, conduce per suo scudiere un contadino chiamato Sancio Pancia, opprime i lombi e regge il freno di un famoso cavallo chiamato Ronzinante, ed in fine ha per signora della sua volontà una tale Dulcinea del Toboso, chiamata un tempo Aldonsa Lorenzo, come la mia, che per chiamarsi Casilda ed essere nativa di Andalusia, la nomino adesso Casildea di Vandalia. Se tutti questi contrassegni non bastano per avvalorare la verità, ho qui al mio fianco una spada che saprà dare piena fede alla incredulità stessa.

— Tranquillizzatevi, signor cavaliere, disse don Chisciotte, e ascoltate quello che voglio dirvi. Dovete sapere che quel don Chisciotte, di cui ragionate, è il miglior amico che io abbia al mondo, e tale che asserire potrei francamente essere egli un altro me stesso. Per tutti i segnali che mi avete dati sì esatti e veridici resto convinto che altri non sia se non se lui medesimo colui che voi asserite di aver superato: veggo per altra parte cogli occhi miei proprî, e tocco con mano non esser ciò possibile, quando non fosse che avendo egli molti incantatori nemici, ed uno specialmente che d'ordinario il perseguita, non avesse costui pigliata a prestito la sua figura per lasciarsi vincere, e così defraudarlo della fama da lui guadagnatasi mercé quelle illustri cavallerie che l'hanno reso conosciutissimo per tutta la terra scoperta. In conferma di questo voglio che sappiate ancora, che questi tali incantatori nemici suoi trasformarono, non ha guari, la figura e persona della bella Dulcinea del Toboso in una rozza e vile contadina, e al modo stesso avranno operato anche la trasformazione di lui. Se tutto ciò non bastasse per farvi capace della verità che vi ho detta, eccovi presente lo stesso don Chisciotte in persona che lo sosterrà coll'arme alla mano, a piedi o a cavallo o in qualunque altro modo che più vi piacesse.”

In ciò dire si rizzò in piedi, e impugnò la spada aspettando che risoluzione prendesse il cavaliere dal Bosco; il quale con tono egualmente grave rispose a questo modo:

— A buon pagatore non dolgono i pegni: colui che una volta, o signor don Chisciotte, ebbe possanza per vincervi trasformato, può molto ben confidare di vincervi nella vostra propria figura: ma perché sta male che i cavalieri vengano a tenzone all'oscuro come fanno gli assassini e gli sgherri, attendasi il giorno, e sia testimonio il sole delle nostre azioni: sia intanto condizione della battaglia, che il vinto debba rimanere soggetto alla volontà del vincitore, sicché possa questi disporre di lui a sua voglia, sempre però entro i confini che si convengono ai cavalieri d'onore.

— Sono più che contento di questo patto, ed accetto,” rispose don Chisciotte.

Dette queste parole andarono dove stavano i loro scudieri, e li trovarono russanti e sdraiati in quella stessa postura in cui il sonno li aveva sorpresi. Li svegliarono, comandarono loro che tenessero in punto i cavalli, perché al nascere del sole doveano venire tutti e due a sanguinoso, singolare e terribile combattimento. Sancio rimase attonito e spasimato a questa intimazione, temendo per la vita del suo padrone, attese le prodezze che aveva udite narrare dell'altro. Senza  fare altre ciarle se ne andarono i due scudieri a trovar le loro bestie, che già tutti e tre i cavalli e il leardo eransi fiutati, e stavano insieme.

Nel cammino quello dal Bosco disse a Sancio.

— Avete a sapere, o fratello, che i combattenti dell'Andalusia quando sono padrini di qualche battaglia non rimangono mai oziosi con le mani a cintola intanto che i loro appadrinati combattono; e dico questo per avvertirvi che mentre saranno alle prese i nostri, noi per egual modo abbiamo ad azzuffarci insieme e a darci in testa se ci riesce.

— Questo costume, signor scudiere, rispose Sancio, potrà correre nei vostri paesi, ed aver luogo con gli smargiassi e gli sgherri, ma non è applicabile neppure per ombra agli scudieri dei cavalieri erranti: almanco io non ho mai sentito dal mio padrone a far parola di tali usanze, eppure egli sa a mente e di punto in punto tutte le regole della errante cavalleria. E poi sia pure verità e legge espressa che abbiano a menare le mani fra loro gli scudieri intanto che i padroni combattono, io non mi ci adatterò sicuramente, e piuttosto pagherò la pena inflitta agli scudieri pacifici, la quale non dovrebbe oltrepassare le due libre di cera, ed anche la pagherò volentieri, perché importerà assai meno delle fila che potrei consumare in medicarmi la testa, che già mi pare di vedere partita in due; e c'è anche una ragione di più che mi rende impossibile il combattere, ed è quella che io non porto spada, né l'ho portata in vita mia.

— A questo si rimedia facilmente, disse quello dal Bosco: io tengo con me due sacchetti di grossa tela della stessa misura: voi piglierete l'uno ed io l'altro, e combatteremo a sacchettate con arme eguali.

— Oh s'ella è a questo modo, sia in buon'ora, rispose Sancio, perché invece di ferire serviranno a sbatterci la polvere di dosso.

— Non deve essere a tal modo, replicò l'altro, poiché dentro ai sacchetti, per impedire che vadano sventolando, si deve mettere mezza dozzina di pietre lisce e pelate, che tanto pesi l'una quanto l'altra, e in questa maniera ci potremo sacchettare senza farci gran male.

— Corpo di mio padre! sclamò allora Sancio, e volete voi riempirli di quelle lisce cipolle, di quei bioccoli di bambagia scardassata che possono fracassarci la testa e macinarci tutte quante le ossa? Sappiate, amico e compagno mio, che quand'anche fossero i sacchetti pieni di bozzoli di seta io non intendo né voglio menar le mani; combattano pure i nostri padroni, e male si abbiano, ma noi badiamo a bere ed a vivere allegramente, e lasciamo al tempo la briga di farci terminare la vita quando sarà matura senza cercare di abbreviarla con questi loro falsi gusti e appetiti.

— Non posso essere del vostro avviso, replicò quello dal Bosco, e bisogna combattere almeno per una mezz'ora.

— E io dico di no, rispose Sancio, che non voglio esser ingrato e discortese a chi mi ha dato da mangiare e da bere senza che vi sia stato fra noi il più piccolo segno di collera e di amarezza. Chi diamine ha da essere colui che venga così in secco a menar le mani?

— A questo, rispose quello di dal Bosco, rimedierò io facilmente, ed eccovi il modo: prima di cominciar il combattimento io mi accosterò pian pianino a vossignoria, e vi darò tre o quattro schiaffi tali da farvi cadere ai miei piedi; voi vi sveglierete alla collera se anche foste addormentato come un ghiro.

— Ed io, rispose Sancio, a questo rimedio avrò un controrimedio che non sarà da manco del vostro. Prenderò un buon bastone, e prima che vi riesca di farmi andare in collera, vi addormenterò a colpi di bastonate, in modo che non vi sveglierete se non al mondo di là, dov'è noto abbastanza ch'io non mi lascio pestare il muso da chicchessia. Eh badi ognuno a quello che fa, ed io consiglierei che lasciassimo dall'una e dall'altra parte dormire le nostre collere, ché uno non sa l'animo di un altro, e qualche volta accade che chi va per lana torna invece tosato, e Dio benedice la pace, e ha in odio la contesa; e se un gatto imbestialito è chiuso, diventa un leone; ed io che sono un uomo, Dio sa in che cosa potrei cambiarmi: in fine protesto a vossignoria, signor scudiere, che starà a vostro carico tutto il male e tutto il danno che fosse per risultare da tal contrasto.

— Ho inteso, replicò quello di dal Bosco, e vedremo dimani come andrà a finire questa faccenda.”

In questo mentre già cominciavano a garrire sugli albori mille sorta di vaghi augelletti, e nei lieti e vari loro canti pareva si congratulassero e salutassero la fresca aurora che per le porte e pei balconi dell'oriente veniva scoprendo la vaghezza del suo sembiante, e scuotendo dai capelli una pioggia di perle, nel cui soave liquore l'erbe inumidite sembrava che germogliassero, e facessero nascere manna; rideano le fonti, mormoravano i ruscelli, si rallegravano le selve, e per la sua venuta si smaltavano i prati.

Ma appena il chiarore della mattina permise di potere vedere e distinguere le cose, il primo soggetto che si presentò agli occhi di Sancio Pancia fu il naso dello scudiere di dal Bosco, il quale era sì grande che facea ombra a quasi tutta la persona. Dicon che veramente fosse di strabocchevole misura, curvo nel mezzo, pieno tutto di porri, di colore pavonazzo come quello dei marignani, e che arrivava due dita sotto la bocca. La grandezza, il colore, i porri, l'incurvamento gli rendeano sì deforme il viso, che Sancio veggendolo incominciò a battere le mani e a dimenare i piedi come fanciullo che farnetica, proponendo in cuor suo di lasciarsi dare dugento schiaffi piuttosto che incollerirsi e venire alle prese con quella fantasima.

Anche don Chisciotte guardò il suo competitore, e vide ch'erasi posto già la celata, e avea mandata giù la visiera, per modo che non poteva riconoscerlo in volto, e notò unicamente ch'era uomo membruto e di statura non molto alta. Portava di sopra all'arme una sopravveste o casacca di una tela che sembrava di oro finissimo, su cui erano sparse molte lune di risplendenti specchi che la rendevano eccessivamente bella e vistosa. Sulla celata sventolavano in gran quantità piume verdi, gialle e bianche; e la lancia che stava appoggiata ad un arbore, era grandissima e molto grossa e di un ferro acciaiato per oltre un palmo.

Vide e notò ogni cosa, e dalle minute sue osservazioni arguì che quel campione doveva esser uomo di grandi forze, ma non per questo gli entrò in cuore lo spavento come a Sancio, che anzi con garbato modo si fece a dire all'incognito cavaliere dagli Specchi:

— Se l'ardente desìo di combattere non vi impedisce, signor cavaliere, di essere cortese, vi prego che alziate un poco la visiera, affinché io possa vedere se le forme del vostro sembiante a quelle corrispondano della vostra persona.

— Vinto o vincitore che usciate di questa impresa, signor cavaliere, rispose quello dagli Specchi, vi resterà largo spazio di tempo per vedermi; ma se adesso mi rifiuto di soddisfarvi, egli è unicamente perché sembrami di far torto notabile alla bella Casildea di Vandalia gettando via il tempo che occorre per alzare la visiera prima di astringervi a confessare quanto voi sapete che da me si pretende.

— Intanto che montiamo a cavallo, soggiunse don Chisciotte, potreste almeno dirmi se io sono quel don Chisciotte che pretendete di aver vinto.

— A questo vi rispondiamo, disse quello dagli Specchi, che rassomigliate come uovo ad altr'uovo al cavaliere che io vinsi; ma avendomi voi assicurato ch'egli è perseguitato da incantatori, non oserei affermare che siate quello o nol siate.

— Non m'occorre di più, replicò don Chisciotte, a persuadermi del vostro inganno; ma per cavarvene di tutto punto avanzino ora i nostri cavalli, che in meno tempo che impieghereste in alzarvi la visiera, se mi assistano Dio, la mia signora e 'l mio braccio, io vedrò il vostro volto, e voi conoscerete in effetto se io non sono quel vinto don Chisciotte che supponete.”

E senz'altre parole montarono a cavallo, e don Chisciotte voltò le redini a Ronzinante per prendere il largo che conveniva nel campo, e volgersi ad incontrare il suo avversario: e così fece quello dagli Specchi. Era appena scostato don Chisciotte venti passi, che si udì chiamare da quello dagli Specchi, ed incontrandosi ambedue, gli disse:

— Rammentatevi, signor cavaliere, che il patto della nostra tenzone si è, come già vi ho detto, che il vinto debba stare a discrezione del vincitore.

— Me ne rammento, rispose don Chisciotte; ben inteso per altro che ciò che verrà imposto e comandato al vinto abbia ad essere limitato al dovere e al decoro della cavalleria.

— Questo s'intende,” rispose l'altro.

Si offerse in quel mentre alla vista di don Chisciotte lo straordinario naso dello scudiere, e non n'ebbe minor maraviglia di Sancio, tanto che lo tenne per qualche mostro o per uomo nuovo e di quelli che più non si usano al mondo. Sancio che vide muoversi il padrone per pigliare la carriera, non volle restarsene da solo a solo col nasuto, temendo che un solo colpo di quel gran naso avesse a terminare la quistione fra loro e gittarlo in terra morto o per la forza della percossa o per l'effetto dello spavento. Se ne andò pertanto dietro al suo padrone, preso avendo lo staffile che serviva per Ronzinante; e quando gli parve che fosse tempo di voltarsi disse a Don Chisciotte:

— Supplico vossignoria, signor mio, che prima che torni ad incontrare il nemico ella mi aiuti a montare sopra quell'albero, di dove potrò vedere con tutto il mio comodo, meglio che standomi in terra, il gagliardo incontro di vossignoria con questo cavaliere.

— Io credo piuttosto, o Sancio, disse don Chisciotte, che tu brami salire sul palco per vedere la festa dei tori senza pericolo.

— Se debbo confessare la verità, replicò Sancio, il formidabile naso di quello scudiere mi riempie di stupore e di paura, né mi arrisico di stargli accanto.

— Per verità quel naso è tanto smisurato, soggiunse don Chisciotte, che se non fossi quello che sono mi metterei io pure in apprensione, e però vieni pur qua che ti assisterò a montare sull'albero.”

Nel tempo che si trattenne don Chisciotte, perché Sancio montasse sopra un sughero, quello dagli Specchi prese il campo che gli sembrò più a proposito, e credendo che don Chisciotte avesse fatto lo stesso, senza aspettar suono di trombe od altro segnale, tirò la briglia al suo cavallo (che non era né più leggiero né di migliore portata di Ronzinante), e di mezzano trotto venne ad azzuffarsi col suo nemico.

Avvicinatosi alquanto poté accorgersi che don Chisciotte stava aiutando Sancio a montare, sicché ritenne la briglia, e si fermò a mezzo il corso, della qual cosa il cavallo fu gratissimo, perché non potea andare innanzi.

Don Chisciotte, cui parve che il suo nemico gli venisse incontro volando, spronò sì fortemente i malconci fianchi di Ronzinante, e siffattamente lo fece correre, che la istoria racconta quella essere stata l'unica volta in cui fu veduto andar di galoppo, atteso che in tutte le altre non furono mai altri che trotti belli e buoni. Con questa non più veduta furia raggiunse quello dagli Specchi, il quale benché piantasse nel corpo del suo cavallo gli sproni sino al bottone non gli riuscì di poterlo far muovere né manco un solo dito dal luogo dove aveva posta la meta al suo corso.

Colto l'avversario in sì difficile circostanza, imbarazzato molto dal suo stesso cavallo, ed occupato dalla lancia che non poté o non seppe a tempo mettere in resta, don Chisciotte non si curò punto di questi inconvenienti, ma a man salva e senza pericolo di sorta assalì quello dagli Specchi con sì gran furia, che a suo marcio dispetto lo fece stramazzare a terra per le groppe del suo cavallo. Tale si fu la caduta, che non movendo né piè né mani diede manifesti segni di essere rimasto morto.

Appena Sancio lo vide a terra, sdrucciolò giù dal sughero, e con grande velocità raggiunse il suo padrone, il quale smontando da Ronzinante fu sopra a quello dagli Specchi, e levandogli i cappii dell'elmo per vedere se fosse morto, o per fargli prendere una boccata d'aria se a caso vivesse ancora, vide... chi potrà dire ciò che vide, senza ingenerare maraviglia e terrore in chi ascolta? Vide, dice l'istoria, lo stesso volto, la medesima figura, l'aspetto istesso, la stessa fisonomia, la medesima effigie, l'identica prospettiva del baccelliere Sansone Carrasco. Lo riconobbe appena che sclamò ad alta voce:

— Corri qua, Sancio, e guarda quello che si può guardare e non credere! fa presto, figliuol Sancio, e considera di quanto è capace la magia, e quanto possano gli stregoni e gli incantatori.”

Arrivò Sancio, e non sì tosto conobbe il volto del baccelliere, che prese a farsi mille segni di croce ed a chiamare tutti i santi. L'atterrato cavaliere non dava segni di vita, e Sancio disse a don Chisciotte:

— Sono di parere, signor mio, che vossignoria ficchi e cacci per la bocca la spada in corpo a costui che pare Sanson Carrasco, perché forse le riuscirà in questo modo di ammazzar qualcuno dei suoi nemici incantatori.

— Non dici male, soggiunse don Chisciotte, perché di nemici io non manco: e sfoderava già la spada per mandare ad effetto l'avvertimento e il consiglio di Sancio, quando arrivò ansante lo scudiere del vinto, spoglio di quel gran naso per il quale era paruto sì brutto, e esclamò:

— Guardi bene quello che fa, signor don Chisciotte, ché questo che tiene a' suoi piedi è il baccelliere Sansone Carrasco suo amico ed io sono il suo scudiere.”

Vedendolo Sancio senza la deformità di prima, gli disse:

— E dov'è il naso?

Cui rispose:

— L'ho qua in tasca; e mettendo la mano alla diritta cavò fuori un naso di pasta e verniciato per maschera. Lo guardò Sancio una e più volte, e tutto trasecolato disse:

— Santa Maria, aiutami! costui non è egli Tommaso Zeziale mio vicino e compare!

— E come lo sono, rispose lo snasato scudiere: io sono Tommaso Zeziale vostro compare ed amico, Sancio Pancia mio caro, e vi dirò poi gli imbrogli, gl'intrighi, i pretesti che mi hanno qua strascinato; ma intanto supplicate il vostro padrone che non tocchi, maltratti, ferisca, o uccida il cavaliere dagli Specchi che sta disteso ai suoi piedi, perché è infallibilmente l'ardito e malconsigliato baccelliere Sansone Carrasco nostro paesano.”

Durante questi discorsi tornò in sé quello dagli Specchi, ed accortosene don Chisciotte, gli appuntò tosto la spada ignuda agli occhi, e gli disse:

— Cavaliere, siete morto se non confessate che la senza pari Dulcinea del Toboso porta il vanto della bellezza sulla vostra Casildea di Vandalia, e se non giurate (purché vita vi resti dopo questa battaglia e caduta), di recarvi alla città del Toboso e presentarvi dinanzi a lei da mia parte perché faccia di voi il suo volere. Se vi lascierà arbitro della vostra volontà dovrete tornare in traccia di me, seguitando l'orma delle mie prodezze, per darmi conto di quanto avrete con lei convenuto: patto ch'è conforme al nostro accordo prima della tenzone, e che non eccede i limiti della cavalleria.

— Confesso, disse il vinto cavaliere, che più vale una scarpa sdrucita e sudicia della signora Dulcinea del Toboso, che i capegli malpettinati, benché puliti, di Casildea; e prometto di andare e di ritornare dalla sua presenza alla vostra, e di darvi esatto e particolare ragguaglio di quanto m'imponete.

— Dovete eziandio confessare, soggiunse don Chisciotte, che il cavaliere da voi altra volta vinto non fu, né poté essere don Chisciotte della Mancia, ma un altro che lo somigliava, come io confesso e credo che voi, sebbene sembriate il baccelliere Sansone Carrasco, nol siate già ma un altro che a lui somigli, e che i miei nemici vi facciano apparire tale perché io trattenga e temperi l'impeto del mio sdegno, ed usi in modo assai mite la gloria del mio trionfo.

— Confesso e credo, rispose il rinato cavaliere, ogni cosa, e credo e giudico e sento al modo stesso che da voi si crede, si giudica e si sente, ma intanto concedetemi, vi prego, ch'io possa alzarmi, se però potrò farlo dopo questa orribile stramazzata.”

Lo aiutarono a levarsi don Chisciotte e Tommaso Zeziale scudiere, dal quale Sancio Pancia non distoglieva mai gli occhi, e gli faceva mille dimande, e riceveva brevi risposte, ma pur tali da assicurarlo che veramente fosse quel Tommaso Zeziale che diceva di essere.

Dopo tutto questo, l'apprensione di Sancio per le parole dette dal suo padrone, che gli incantatori avessero trasformata la figura del cavaliere dagli Specchi in quella del baccelliere Carrasco, dubbia gli rendeva quella reale verità che co' suoi propri occhi stava guardando. In fine restarono nel loro inganno padrone e servo; e quello dagli Specchi e il suo scudiere in valigia e colla testa rotta, se ne andarono con intenzione di cercarsi ricovero in qualche luogo per apprestare rimedio alle costole fracassate.

Tornaron don Chisciotte e Sancio sulla strada di Saragozza, dove li lascia l'istoria per dare più minuto ragguaglio del cavaliere dagli Specchi e del suo nasuto scudiere.


CAPITOLO XV

 

DOVE SI NARRA CHI FOSSE IL CAVALIERE DAGLI SPECCHI E IL SUO SCUDIERE.

 

Don Chisciotte andava lieto e superbo della vittoria riportata contro un cavaliere sì gagliardo come figuravasi che fosse quello dagli Specchi, e mercé le sue cavalleresche promesse aspettavasi di saper se tuttavia durasse l'incantamento della sua signora; poiché il cavaliere, vinto com'era, sotto pena di decadere dalla cavalleria dovea dargli conto di ciò che seguìto fosse con essa; ma don Chisciotte pensava ad una cosa, e ad un'altra quello dagli Specchi: se pure questi di altro veramente occupavasi allora che di applicar empiastri al malmenato suo corpo.

Racconta dunque l'istoria che quando il baccelliere Sansone Carrasco consigliò don Chisciotte a restituirsi all'esercizio delle sue cavallerie, ciò fu per essere da prima entrato in consulto col curato e col barbiere sui mezzi opportuni per ridurlo a starsene in casa sua quieto e tranquillo senza che si sconvolgesse più oltre il cervello colle sue malcercate avventure. Da questo consiglio era risultato un voto unanime ed un parere particolare di Carrasco che si lasciasse a don Chisciotte eseguire la nuova uscita, poiché il ritenerlo pareva impossibile, e che intanto Sansone lo sorprendesse per istrada sotto figura di cavaliere errante, e venisse a battaglia con lui. Immaginavano che sarebbe agevole il vincerlo ed il fermare tra loro il patto e l'accordo che il vinto rimanesse a discrezione del vincitore.

A questo modo don Chisciotte debellato avrebbe dovuto ricevere dal baccelliere-cavaliere la legge di tornarsene a casa sua, coll'obbligo di non iscostarsene più nel corso di due anni; o sino a tanto che non gli fosse comandato altramente: ciò che egli in tal caso avrebbe fatto per non contravvenire alle leggi della cavalleria. Speravano poi che durante la sua reclusione avrebbe a poco a poco dimenticate le sue follie e ricuperato eziandio il buon giudizio.

Carrasco accettò l'impegno, e si offrì a lui per iscudiere Tommaso Zeziale, compare e vicino di Sancio Pancia, uomo faceto e spensierato. Si armò Sansone, come si è veduto, e Tommaso Zeziale soprappose il naso da maschera al naturale suo naso per non esser conosciuto dal suo compare quando si vedessero, e con questo proposito tennero ambedue lo stesso cammino di don Chisciotte, e giunsero quasi a trovarsi nell'occasione dell'avventura della Carretta della Morte. Finalmente s'incontrarono nel bosco dove successe quanto il discreto lettore con sua maraviglia ha letto. Se non fossero state le stravaganti fantasie di don Chisciotte, il quale si persuase non essere baccelliere il baccelliere, il signor baccelliere si sarebbe posto nella impossibilità di diventar mai più licenziato, mentre mancò il nido dov'egli credeva di trovare gli uccelli.

Tommaso Zeziale, che vide riuscir così male l'impresa, disse al baccelliere:

— Per certo signor Sansone Carrasco, che siamo stati pagati di buona moneta: costa poco lo immaginare e l'accingersi ad un cimento, ma il più delle volte accade che sul più bello tutto sfumi via. Don Chisciotte è pazzo, noi siamo savi; ma don Chisciotte è ora sano ed allegro, e vossignoria è tutto macinato e malconcio: vediamo adesso chi sia più pazzo, se quegli che non può non esserlo, o quello che si fa tale per elezione?

Sansone rispose:

— La differenza che corre fra queste due sorta di pazzi si è, che colui ch'è pazzo contro sua voglia lo sarà sempre mai, e colui che lo diventa per bizzarria lascierà di esserlo quando gli aggradirà.

— Se così è, disse Tommaso Zeziale, io fui pazzo per elezione quando volli farmi scudiere di vossignoria; e perciò voglio adesso cessare di esserlo e tornarmene a casa mia.

— Ciò a te sta bene, rispose Sansone, ma sarebbe lo stesso che a voler asciugare il mare immaginandosi che io pensassi di tornarmene a casa senza prima aver macinato don Chisciotte a furia di bastonate. Non mi curerò più di andare in traccia di lui per fargli riacquistare il suo buon giudizio, ma per secondare la mia impazienza di vendicarmi; né in questo momento il gran dolore delle mie costole mi lascia fare più placidi ragionamenti.”

Andavano tutti e due così discorrendo insieme finché giunsero ad un paese dove fu ventura trovare un chirurgo che si accinse a medicare il disgraziato Sansone. Tommaso Zeziale andò pei fatti suoi, e lasciò il baccelliere solo e tutto occupato a trovar modo di fare le sue vendette.

L'istoria tornerà a parlare di lui a suo tempo, non potendo ora lasciare di prendere parte nelle allegrezze del valoroso don Chisciotte.


CAPITOLO XVI

 

CIÒ CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE CON UN GIUDIZIOSO CAVALIERE DELLA MANCIA.

 

Don Chisciotte con l'allegria già descritta, e tutto pieno d'ardire proseguiva la sua giornata, immaginando per la passata vittoria, di essere il cavaliere errante più valoroso che in quella età potesse vantare il mondo. Dava egli già per compite e condotte a fortunato fine quante altre avventure fosse quindi innanzi per incontrare. Valutava poco gl'incanti e poco gl'incantatori; erasi dimenticato affatto delle innumerevoli bastonate che nel corso delle sue cavallerie aveva ricevute, e di quella sassata che fracassati gli aveva i denti, e dell'ingrato animo dei galeotti e della audacia dei Janguesi. Andava ripetendo tra sé medesimo che se avesse conosciuto arte, via o maniera per trarre d'incanto la sua signora Dulcinea non avrebbe avuto invidia alla maggior ventura, o superata, o che fosse per superare il più avventuroso cavaliere errante degli scorsi secoli. Stava assorto intieramente in sé e giubilante, quando Sancio gli disse:

— Non è egli da stupirsi che io abbia sempre davanti agli occhi lo smisurato e sproporzionato naso di mio compare?

— E tu, Sancio, disse don Chisciotte, avresti mai creduto che il cavaliere dagli Specchi fosse stato il baccelliere Carrasco, e il suo scudiere Tommaso Zeziale tuo compare?

— Su questo punto non so che mi dire rispose Sancio: so unicamente che i contrassegni che mi ha dati di casa mia, di mia moglie e de' miei figliuoli non mi potevano venire da altri che da lui stesso in persona, il viso poi, levato il naso, era propriamente quello di Tommaso Zeziale, come l'ho veduto più volte nel mio paese e da vicino a casa mia, ed il tono della voce era il suo.

— Vien qua, caro Sancio mio, e ragioniamo un poco, disse don Chisciotte. Quale motivo mai avrebbe potuto indurre il baccelliere Carrasco a venire a tenzone con un cavaliere errante mio pari, armato di arme offensive e difensive? Sono stato io forse mai un suo nemico? gli ho dato io mai occasione di odiarmi? sono io suo rivale, o fa egli la professione delle armi per invidiare la celebrità che mi fregia, ora che le tratto con tanta fortuna?

— Ma come spiegheremo noi mai, replicò Sancio la perfetta somiglianza di quel cavaliere, sia chi diavolo esser si voglia, col baccelliere Carrasco, e quella del suo scudiere con Tommaso Zeziale, mio compare? E se ciò è per incantesimo, come ha detto vossignoria, non v'erano due altri a cui poter somigliare?

— È tutto artifizio e disegno, rispose don Chisciotte, dei maghi malefici dai quali sono perseguitato; e costoro, prevedendo che io restare doveva vincitore nella zuffa, si accordarono a fare che il vinto cavaliere vestisse le sembianze del mio amico il baccelliere Carrasco, acciocché l'amicizia che a lui mi stringe, si mettesse tra il filo della mia spada ed il rigore del mio braccio, raddolcisse il giusto risentimento del mio cuore, e a questo modo rimanesse la vita a colui che con cabale e falsità procurava di toglierla a me. E in prova di questo, tu sai pure, o Sancio, per quella sperienza che ti lascerà né mentire né ingannare, quanto riesca facile agl'incantatori cambiar uno in altro sembiante, facendo di un brutto un bello, di un bello un brutto; mentre non sono ancora due giorni che cogli occhi tuoi propri osservasti la bellezza e la gagliardia della senza pari Dulcinea in tutta la pienezza delle naturali sue forme, ed a me toccò di vederla nella bruttezza e bassezza di una zotica contadina colle cateratte agli occhi, ed esalante un pessimo fiato dalla bocca. Appunto perché il perverso incantatore osò di fare sì rea trasformazione, nulla vi è da stupire che abbia operato quella di Sansone Carrasco e l'altra del tuo compare, a fine di tormi la gloria di un bel trionfo: contuttociò mi consolo, perché finalmente qualunque sia stata la figura che mi si presentò innanzi, è incontrastabile che io rimasi vincitore del mio nemico.

— Dio, rispose Sancio, sa la verità di ogni cosa.”

La coscienza gli diceva che la trasformazione di Dulcinea altro non era fuorché un intrigo e artifizio suo; quindi non potevano persuaderlo le chimere del suo padrone; ma d'altra parte non doveva tirare in lungo il colloquio per non lasciarsi sfuggir parola che chiarisse il padrone stesso di quell'imbroglio ch'egli aveva ordito.

Stavano in questi ragionamenti quando furono raggiunti da un viaggiatore che venia dietro a loro per la medesima strada sopra una cavalla bellissima, coperto di un gabbano verde di panno fino, con gherone di velluto lionato e con montiera dello stesso velluto. I fornimenti della cavalla erano da campagna e alla ginetta con colore pavonazzo e verde; portava una scimitarra moresca pendente da una larga cintura trapunta d'oro, ed i borzacchini erano dello stesso lavoro: gli sproni non erano dorati ma coperti da una vernice verde, sì tersi e bruniti che facendo rilievo al lavoro del vestito apparivano più belli ancora che se fossero stati d'oro purissimo. Questo signore salutò cortesemente don Chisciotte e Sancio, e spronando poi la cavalla se ne passava a dilungo, ma don Chisciotte così gli rivolse la parola:

— Gentil signore, se vossignoria batte questa medesima strada e non ha gran fretta, sarebbe per noi un favore distinto se gradisse la compagnia nostra.

— Siate certo, o signore, rispose subito quel passeggero, che non mi sarei scostato da voi se non avessi temuto che il vostro destriere non si fosse commosso alla presenza della mia cavalla.

— Può sicuramente, signor mio, disse allora Sancio, può tirare la briglia alla sua cavalla perché il nostro è un modello di onestà e di continenza incomparabile, e non si conta una scappata da lui commessa; e sappia che una mera volta ch'ebbe a incapparvi, il mio signore ed io abbiamo fatta per lui la penitenza: non si dia dunque fastidio per questo.”

Tirò allora il passeggero a sé la briglia, maravigliandosi dell'arnese e del sembiante di don Chisciotte, il quale andava senza celata perché Sancio la portava, come se fosse valigiotto, all'arcione dinanzi la bardella del leardo. Ma se grande attenzione metteva quello dal verde gabbano in guatare don Chisciotte, molto maggiore ne metteva questi nel considerar l'altro, che sembravagli di un aspetto da forte e da valoroso. Mostrava una età di circa cinquant'anni, era alquanto canuto e col viso aquilino, e la guardatura era un misto di gravità e di allegria; in fine l'abito e l'attillatura lo faceano credere uomo d'importanza. Il giudizio all'incontro che il passeggero fece di don Chisciotte si fu ch'egli non si fosse mai imbattuto in uomo di tale portatura e stranezza.

Osservava la lunghezza del suo cavallo, la grandezza del suo corpo, il suo volto smunto e giallastro, le armi, la statura, la figura: un ritratto insomma non mai veduto in quelle terre da lungo tempo. Notava don Chisciotte l'attenzione con cui era guardato, e dalla sospensione in cui stava il passeggero indovinò il suo desiderio; e siccome era molto inchinevole a far piacere a tutti, senza aspettare di essere dimandato di alcuna cosa, fu il primo a dirgli:

— Non mi meraviglio punto che la mia figura riesca un po' strana a vossignoria, per esser nuova e fuori del costume, e che muova perciò la vostra attenzione; ma cesserà la maraviglia quando io vi dica, come vi dico, ch'io sono un cavaliere di quelli che si dice dal mondo che vanno cercando avventure. Mi allontanai dalla patria, impegnai la mia roba, rinunziai ad ogni benefizio, e mi posi in braccio della fortuna perché facesse di me il suo piacere: volli far rivivere la morta errante cavalleria; e corre non poco tempo da che con vicendevoli, buoni e tristi successi, qua inciampando, là cadendo, qua precipitandomi, là rizzandomi, ho compito in gran parte i miei desideri soccorrendo vedove, difendendo donzelle, favorendo maritate, orfani e pupilli, proprio e naturale offizio dei cavalieri erranti, e così per le mie molte e valorose e cristiane prodezze meritato mi sono di andar nominato in quasi tutte o nella maggior parte delle nazioni del mondo. Stanno impressi trentamila volumi della mia istoria, e se le cose procedono di questo passo se ne stamperanno trentamila migliaia, quando il Cielo non vi rimedii: per tutto dire in poche, anzi in una parola sola, le notifico che io sono don Chisciotte della Mancia, chiamato per nome il cavaliere dalla Trista Figura, e tuttoché sconvenga la lode nella propria bocca, mi è forza pronunziare talvolta la mia, sottintendendosi già che non siavi presente alcuno ad ascoltarla. Dopo tutto ciò, o signore, né questo cavallo, né questa lancia, né questo scudo, né lo scudiere, né questo fascio d'arme, né il gialliccio del mio volto, né la mia stenuata magrezza vi potranno quindi innanzi recar maraviglia avendo ora saputo chi sono e la professione che io esercito.”

Tacque dopo avere detto ciò don Chisciotte, e quello dal verde gabbano, tardando molto a rispondere, pareva che non trovasse la via di farlo: ma dopo un corto silenzio gli disse:

— Colpiste nel segno, o signor cavaliere, coll'indovinare dalla mia sospensione il mio desiderio, ma non vi è riuscito di togliere affatto la maraviglia in me cagionata dall'avervi veduto. Voi supponete, per quanto dite, che l'avermi fatto sapere chi siete debba avermela tolta, ma diversamente passa la cosa, e vi dirò anzi che adesso più che mai resto stupito e sbalordito. Com'è possibile che si dieno oggidì cavalieri erranti nel mondo, e che corrano impresse le istorie di vere cavallerie? Non mi posso persuadere che siavi più sulla terra a questi nostri tempi chi dia favore a vedove, difenda donzelle, onori maritate, soccorra orfanelli: né l'avrei mai creduto se con questi occhi veduto non lo avessi in vossignoria. Benedetto sia il Cielo, mentre con la istoria che voi mi assicurate essere in luce delle vostre luminose e veraci cavallerie, saranno poste in profonda oblivione quelle innumerevoli dei sognati erranti cavalieri, delle quali è pieno il mondo con discapito dei buoni costumi e con iscredito e pregiudizio delle istorie vere e lodevoli.

— Vi ha molto di che discorrere rispose don Chisciotte; in quanto all'essere finte o no le istorie dei cavalieri erranti.

— Avvi forse chi dubiti, soggiunse l'altro, che false non sieno tutte quante?

— Io sono che ne dubito, rispose don Chisciotte; ma lasciamo per ora la discussione di questo argomento: ché se resteremo in compagnia, confido in Dio di convincere la signoria vostra che ha fatto male ad andare dietro la corrente di quelli che le suppongono favolose.”

Queste ultime parole di don Chisciotte fecero sospettare a quello dal gabbano verde che dovesse essere un qualche mentecatto, e ne attendeva la conferma da qualche suo nuovo discorso. Prima che passassero ad altro, don Chisciotte lo richiese dell'esser suo giacché aveva anch'egli dato conto della propria condizione e della sua vita. Quello dal gabbano verde rispose:

— Io, signor cavaliere dalla Trista Figura, sono un cittadino nato in un paese dove, a Dio piacendo, oggi faremo il nostro pranzo. Io sono più che mezzanamente ricco, mi chiamo don Diego di Miranda, e passo la vita in compagnia di mia moglie, dei miei figliuoli e degli amici miei. Mi divertono la caccia e la pesca, ma non mantengo né falcone, né levrieri, e mi contento di qualche starnotto piacevole e di qualche donnoletta ardita. Possedo circa sei dozzine di libri quali in volgare, quali in latino, alcuni di storia, altri di divozione. Quelli di cavalleria non hanno ancora oltrepassata la soglia della porta di casa mia; mi dilettano più i profani che i divoti, sempreché sieno di onesto trattenimento e scritti con eleganza, e che la loro invenzione desti nell'animo ammirazione: benché di tal genere pochi ne conti la Spagna. Una qualche volta mi piace di banchettare in casa degli amici, ma più mi diletta di convitarli in casa mia, specialmente quella gente ch'è educata, di buon garbo e non misera. Odio la mormorazione, né la soffro mai in mia presenza; non mi piace d'investigare i fatti altrui, né di osservarli con occhio di lince; ascolto ogni giorno la messa: fo parte coi poveri degli averi miei senza far vana mostra delle buone opere per non macchiare il mio cuore di ipocrisia e di vanagloria (nemici che con piacevole insidia dominano spesso le anime men avvertite); e non lascio niun mezzo d'insinuare la pace dove regnasse la discordia. Ho Nostra Donna in particolar divozione, e confido sempre nella misericordia infinita di Dio Signore.”

Attentissimo stava Sancio alla narrazione di quel viaggiatore, sembrandogli buono e santo il suo sistema di vita, e che chi lo avesse adottato, avrebbe potuto arrivare a far miracoli. E perciò, smontato dal suo leardo, si affrettò a porsegli dalla parte diritta, e con devoto cuore, e quasi con lagrime gli baciò i piedi reiteratamente. Il viaggiatore gli dimandò allora:

— Fratello, che state voi facendo? che significan questi baci?

— Mi lasci fare, Sancio rispose, perché vossignoria mi pare il primo santo della ginetta che io abbia veduto mai in tutto il corso della mia vita.

— Non sono altrimenti un santo, rispose, ma dite piuttosto un peccatore indegno: tu sì, fratello, che devi essere buono per quella tua semplicità che dimostri.”

Continuò Sancio nelle sue balordaggini per modo da promuovere le risa nel suo padrone, e da trarlo da una profonda melanconia non senza cagionar maraviglia nel viaggiatore don Diego. Gli chiese don Chisciotte quanti figli avesse, e gli disse che una delle cose nelle quali riponeano il sommo bene gli antichi filosofi mancanti del conoscimento del vero supremo Essere, era non già l'aver beni della natura e della fortuna, ma il possedere molti amici, e l'avere molti e buoni figliuoli.

— Io, signor don Chisciotte, rispose don  Diego, ho un figliuolo solo, e mi riputerei compiutamente felice se non ne avessi alcuno, e ciò vi dico non perch'egli sia un tristo, ma perché non è fornito di quella intera bontà che io vorrei. Conterà intorno a diciott'anni: sei ne impiegò in Salamanca imparando le lingue greca e latina; e quando volli che passasse a studiare altre scienze, lo trovai così incapricciato nello studio della poesia (se pure essa merita il nome di scienza) che non m'è possibile condurlo ad applicarsi alle leggi a seconda del mio desiderio, e neppure a quello della regina delle scienze, la teologia. Era unico mio voto ch'egli coronasse con altri meriti l'onore del suo lignaggio, poiché viviamo in un secolo in cui s'impartisce dai nostri re largo premio alle virtuose e buone lettere, ma queste se alla virtù non si accompagnino, diventano perle tra le sozzure. Egli consuma le intiere giornate a esaminare se bene o male in un tal verso dell'Iliade siasi spiegato Omero, se il tale epigramma di Marziale sia esente o no da disonestà; se abbiansi ad intendere in un modo piuttostoché in un altro i tali versi di Virgilio; in conclusione tutte le sue occupazioni si confinano nei riferiti poeti, e in altri ancora, come in Orazio, Persio, Giovenale e Tibullo, non facendo molto conto dei poeti moderni: ed a fronte del mal genio che mostra di avere per la romanzesca poesia volgare, si lambicca il cervello in fare una glosa in quattro versi che inviatigli vennero da Salamanca e che credo sieno fatti per una giostra letteraria.

A tutto questo don Chisciotte rispose:

— Signore, i figli sono parte delle viscere dei loro genitori, e si hanno perciò ad amare, buoni o tristi che sieno, nella maniera stessa che si porta affetto a chi diede la vita. Debbono i padri sin dall'infanzia condurli sul sentiero della virtù, della civiltà e dei buoni e cristiani costumi, affinché fatti grandi, sieno il bastone della vecchiaia dei genitori e la gloria della posterità. Quanto al costringerli ad applicarsi allo studio di una piuttosto che di un'altra scienza, io non giudico che questa sia cosa ben fatta, sebbene il consiglio non sarà mai dannoso; ma quando non si ha da studiare pro pane lucrando, quando sia fortunato lo studente per modo di aver genitori che a ciò non lo astringano, sarei di avviso che si lasciasse libero il corso a quella tra le scienze cui spiegasse maggiore inclinazione; ed abbenché più dilettevole che utile sia lo studio della poesia, non è però tra quelli che rechino disonore a chi vi si esercita. La poesia, signor mio, è a mio parere come una tenera donzella di poca età e di bel costume, che si vuole arricchita, resa tersa, ed adorna da molte altre donzelle, le quali sono appunto le altre scienze tutte di cui deve valersi il poeta e con cui presidiarsi; non ha poi da essere tramenata questa giovanetta né prostituita per le strade, per le piazze, né pei cantoni dei gran palagi: essa è fatta di un'alchimia di tal virtù che chi saprà maneggiarla a dovere la convertirà in oro purissimo di inestimabile valore. Ora quell'uno che la possede ha da tenerla a freno, né lasciarla mai trascorrere in turpi satire o in indegni componimenti, non ha da essere mai venale, se già non fosse destinata a poemi eroici, a dolenti tragedie o a commedie allegre od artifiziose; e non si dee lasciar maneggiare da' buffoni o dal volgo ignorante incapace di conoscere e di apprezzare i tesori che in essa si ascondono. Né crediate, signor mio, che io per volgo m'intenda unicamente parlare della gente plebea ed abbietta; ma sia pure un signore od un principe, quando è ignorante sarà sempre una parte del volgo. Colui pertanto che coi requisiti che ho esposto tratterà e scriverà poeticamente, avrà il guiderdone di vedere il suo nome adorno di celebrità e di stima presso le colte nazioni tutte. Quanto poi concerne la poesia romanzesca e volgare di cui mi dite che non si diletta punto il vostro figliuolo, a me pare ch'egli in ciò prenda errore, ed eccone la ragione. Il grande Omero non iscrisse latinamente essendo greco, né scrisse in greco Virgilio essendo latino. Tutti gli antichi poeti composero nella lingua succhiata da loro col latte né andarono accattando le straniere per ispiegare l'altezza dei loro concetti. Ciò posto, ne viene di conseguenza, che comune alle nazioni tutte debbe essere sì lodevole costumanza, e che non abbia a tenersi in minore stima un poeta alemanno perché scrive nel proprio idioma, di un castigliano o biscaino perché compone nel suo linguaggio nativo. Il vostro figliuolo, per quanto sembrami d'indovinare, non dee essere nemico della volgare poesia ma dei poeti che sono meramente volgari e digiuni di altre lingue e scienze che li adornino e sveglino e dieno impulso al loro genio. Ma anche in ciò potrebbe egli andare errato, perché opinione si è fondatissima che il poeta nasce; vale a dire che il poeta esce tale di sua natura dal grembo della madre; e con quell'attitudine che Dio gli ha concessa senza studio od artifizio compone cose che rendono veritiero quel detto: est Deus in nobis, ecc. Aggiungo ancora che il poeta nato, il quale chiami l'arte a soccorimento, migliorerà di assai, e si renderà superiore a quel poeta, che tale pretende di essere perché è conoscitore dell'arte; e la ragione è questa: l'arte prevalere non può alla natura, ma sì bene accrescerle perfezione, di maniera che frammischiata la natura all'arte e l'arte alla natura, si avrà un poeta per ogni conto perfetto. Sia conclusione del mio ragionamento che lasci vossignoria battere al suo figliuolo quella via cui la sua stella lo chiama, ed essendo egli oggidì un valoroso studente, ed avendo fatti con grande felicità i primi passi nella carriera delle scienze e in quella delle lingue, sarà per mezzo di esse in grado di salire da per se stesso all'apice delle lettere umane. Oh esse stanno pur bene in un uomo di cappa e spada! gli recano tanto lustro ed onore quanto le mitre ai vescovi, e quanto le guarnacche ed i lucchi ai periti giureconsulti! Riprendete vostro figliuolo se spende il tempo in satire pregiudizievoli all'onore altrui, inceneritele, castigatelo; ma se scrive sermoni alla foggia di quelli di Orazio per correggere i vizî in generale, in questo caso dategli pure ogni lode. Lice al poeta scrivere contro l'invidia e percuotere gl'invidiosi, e lo stesso faccia degli altri vizî, purché non accenni persone in particolare, e non prenda mai esempio da coloro i quali, purché possano dire una malignità, corrono volentieri il pericolo di essere esiliati nel Ponto. Sarà nei suoi versi casto il poeta se lo sarà nei costumi; la penna è la lingua dell'anima; quali saranno i concetti che andranno in lui germogliando, tali riusciranno gli scritti; e quando i re ed i principi veggano collocata in prudenti, virtuosi e gravi uomini la scienza maravigliosa della poesia, li avranno in somma estimazione; li renderanno opulenti, e saranno coronati colle foglie dell'arbore che non è mai colpito dal fulmine, in segno che non hanno a ricevere offesa da chicchessia coloro che portano cinta la fronte di corone tanto onorate.”

Rimase attonito don Diego dal gabbano verde sentendo il ragionamento di don Chisciotte, e quasi andava perdendo l'opinione già concepita di essersi accompagnato ad un pazzo.

Verso la metà del discorso, Sancio che non trovava il dialogo quadrare al suo gusto, si era appartato per andar a dimandar un po' di latte ad alcuni pastori, che stavan là presso mungendo le loro pecore. Voleva don Diego che si continuassero i ragionamenti, soddisfatto estremamente del giudizio e del sano intendimento di don Chisciotte; ma questi, alzando la testa, vide che per la strada veniva un carro carico di bandiere reali. Credendo che questa fosse una nuova ventura chiamò Sancio con sonora voce perché venisse a recargli la celata. Sancio lasciò i pastori, con gran fretta batté il suo asino e raggiunse il padrone, cui accadde un'altra ventura stupenda e veramente stravagantissima.


CAPITOLO XVII

 

DIMOSTRASI L'ULTIMO PUNTO ED ESTREMO A CUI GIUNSE E POTÉ GIUGNERE L'INAUDITO ANIMO DI DON CHISCIOTTE, CON L'AVVENTURA DEI LEONI CONDOTTA A FORTUNATO FINE.

 

La storia racconta che quando don Chisciotte chiamò Sancio perché gli recasse l'elmo, Sancio stava comprando una ricotta dai pastori, e che sollecitato dalla soverchia fretta del suo padrone, non sapendo che farne o dove riporla perché non andasse a male, avendola già pagata, pensò di nasconderla dentro la celata del padrone stesso.

Con questa buona compera recossi dunque a ricevere i comandi, ed arrivato appena, gli disse don Chisciotte:

— Dammi, amico, quella celata perché o poco io m'intendo di venture, o ciò che adesso discopro è cosa che dee obbligarmi a mettere tosto mano all'arme.” Quando quello dal gabbano verde lo udì, distese tosto gli occhi per tutte le bande, ed altro non iscoperse fuorché un carro che si avanzava alla volta loro con due o tre piccole bandiere, indizio che traeva con sé danaro di ragione del re: e lo disse subito a don Chisciotte. Questi non gli diede punto credenza, standogli fitto in testa che quanto andava accadendo non potea essere che venture e più che venture, e quindi rispose:

— Uomo avvisato mezzo salvato; io non perdo nulla ad apparecchiarmi, sapendo per esperienza che ho nemici visibili ed invisibili; né so quando, né dove, né in qual tempo, né sotto quali forme vengano ad assalirmi.”

Voltosi a Sancio gli strappò di mano la celata, e questi gliela porse tal quale, non avendo in sul momento saputo dove riporre la ricotta che vi era dentro. Don Chisciotte la pigliò, e senza badare ad altro se la mise prestamente in testa; ma quando la ricotta restò così stretta e spremuta, cominciò il siero a grondare per tutto il viso e lungo tutta la barba di don Chisciotte, il quale ne ebbe sì gran paura, che disse a Sancio.

— Che vuol dir questo, o Sancio, che mi par che la testa mi si intenerisca, e mi si liquefacciano le cervella? Io sudo tutto da piedi alla testa; ma se è sudore, questo non è figlio già di paura, e convien credere che sia molto terribile la ventura che sta per accadermi: dammi qua di che asciugarmi ché il copioso sudore m'innonda.”

Sancio tacque, gli diede il fazzoletto, e ringraziò il Cielo che il padrone non si fosse accorto del fatto. Si nettò don Chisciotte, e poi si cavò la celata per vedere meglio da che procedesse l'infreddamento della sua testa. Scorgendovi dentro quella paniccia bianca, la fiutò e disse:

— Al corpo della mia signora Dulcinea del Toboso che questa è ricotta che tu ci hai posto, scudiero traditore, indegno, balordo.” Con molta flemma e simulazione rispose Sancio:

— Se è ricotta, vossignoria me la favorisca che io me la mangierò: ma no, se la mangi pure il demonio, che sarà stato quello che costà l'avrà posta. E come mai avrei io potuto avere tanto ardire d'insudiciare l'elmo di vossignoria? Quando mai mi ha ella conosciuto di una tempera tanto perfida? Oh in fede mia che da quanto vo vedendo, decido che debbo aver anch'io degli incantatori che mi perseguitano come creatura e membro della signoria vostra; e costoro avranno qua nascosto queste immondezze per cimentare la sua tolleranza e per farmi ammaccare le costole secondo il solito; ma in verità che questa volta hanno fatto il salto in fallo, poiché basta a mia difesa il buon discernimento del mio padrone, il quale avrà bene considerato che io non tengo né latte, né ricotte, né altra equivalente cosa, e che se ne avessi le caccerei nello stomaco piuttosto che nella celata.

— Tutto può darsi,” disse allora don Chisciotte.

Don Diego dal gabbano verde poneva mente ad ogni cosa, e stavasene attonito; e allora specialmente che don Chisciotte, dopo essersi asciugata la testa, il viso, la barba, si ficcò di nuovo in capo la celata, e strettosi bene sulle staffe, prendendo la spada, e schermendo colla lancia, disse:

— Venga ora quello che sa venire, ché io stommi a piè fermo con cuore da cimentarmi contro Satanasso in persona.”

A questo punto giunse il carro colle bandiere, accompagnato unicamente da un carrettiere a cavallo di una mula, e da un uomo seduto dinanzi al carro.

Fattosi don Chisciotte innanzi, disse:

— Dove andate, fratelli? che carro è questo? che v'è rinchiuso? che bandiere sono queste?”

Cui rispose il carrettiere:

— Questo carro è mio, e vi stanno dentro due terribili leoni ingabbiati che il generale di Orano manda alla corte perché sieno presentati a sua Maestà: le bandiere sono del re nostro signore in segno che tutto quello che qui si trova è suo.

— Sono grandi i leoni? domandò don Chisciotte.

— Grandi per modo, rispose l'uomo che stava alla porta del carro, che non vi ha memoria che dall'Africa alla Spagna ne sieno passati mai di maggiori: io ne sono il custode, ne ho avuti tanti altri, ma come questi nessuno: sono maschio e femmina; il maschio è in questa prima gabbia, e la femmina in quella di dietro, ed ambedue stanno adesso affamati non avendo mangiato ancora nella giornata; però si scosti vossignoria, che debbo affrettarmi di arrivare al sito da farli mangiare.

Disse don Chisciotte sogghignando:

— Leoncini a me? A me leoncini? e a quest'ora? oh la vedremo bella! si accorgeranno i signori che qua li mandano se io sia uomo cui possano fare spavento i leoni. Smontate pure, buon uomo, e poiché voi siete il lioniere, aprite queste gabbie, fate uscire queste bestie, ed io in mezzo a questa campagna darò a divedere chi sia don Chisciotte della Mancia a vergogna e a dispetto degl'incantatori che me li fanno comparir dinanzi.

— Ah ci siamo, ci siamo! disse allora fra sé quello dal gabbano verde; si è adesso fatto conoscere il nostro buon cavaliere. Oh la ricotta gli ha senz'altro fatta la testa tenera e stemperato il cervello!”

Sancio in questo se gli accostò e gli disse:

— Signore, la prego in nome di Dio di fare in modo che il mio signor don Chisciotte non si azzuffi con questi leoni, ché se ciò succede noi restiamo tutti sbranati.

— Folle è dunque a tal segno il vostro padrone, rispose don Diego, che voi dobbiate credere che se la voglia pigliare con sì feroci animali?

— Non è mica che sia matto, rispose Sancio, ma arrisicato.

— Io farò che nol sia, replicò l'altro; ed accostandosi a don Chisciotte, il quale stava stimolando il custode perché aprisse le gabbie, così gli disse:

— Signor cavaliere, i cavalieri erranti si hanno a cimentar ad imprese che promettano buon successo, e non già a quelle che sono affatto disperate; e la ragione si è perché quella bravura che entra nella giurisdizione della temerità sente più di pazzia che di fortezza. Questi leoni non vengono contro la signoria vostra, che nemmen se lo sognano, ma vanno pel loro viaggio per essere presentati a sua Maestà, e sarebbe pur malfatto il trattenerli e l'impedire la loro strada.

— Vada vossignoria, rispose don Chisciotte, a custodire il suo starnotto piacevole e la sua donnoletta ardita, e lasci compiere ad ognuno l'officio suo: questo è il mio, ed a me si aspetta il conoscere se questi leoni vengano contro di me.”

Voltosi poscia al custode, gli disse:

— Al corpo di... don mascalzone, che se tu indugi ancora un momento ad aprire la gabbia io t'inchiodo sul carro con questa lancia.”

Il carrettiere che vide la determinazione di quell'armata fantasima, disse impaurito:

— Signor mio, mi permetta per atto di carità che io stacchi queste mule dal carro, e che mi metta con esse in salvo, prima che si cavino fuora i leoni, perché se me le sbranano io resto precipitato per tutta la vita mia, come colui che non ha altri capitali che questo carro e queste mule.

— Ah uomo senza fede, rispose don Chisciotte, smonta, stacca, fa quello che tu vuoi; ben presto conoscerai che inutilmente resisteresti, e che avresti potuto risparmiare gl'inganni.”

Smontò il carrettiere, staccò le mule in fretta, e il custode disse ad alta voce.

— Mi sieno testimoni quanti sono qua presenti che contro mia volontà, e costretto dalla forza, io apro le gabbie e metto in libertà i leoni: protesto adesso che qualunque male e danno sarà fatto da queste bestie, andrà e correrà per conto di chi n'è causa, con la giunta del mio salario e di quanto fosse di ragione: signori, si pongano in salvo prima che io apra, ché quanto a me io sono certo di non patire alcuna offesa.”

Don Diego tornò allora a persuadere don Chisciotte che non facesse tanta pazzia, e che era un voler tentare Dio il commettere sì enorme bestialità; al che rispose ch'egli sapeva quello che si faceva. Replicava il primo, che guardasse bene che commetteva un fallo enorme.

— Ora, signore, disse don Chisciotte, se vossignoria non vuole essere presente a questa che a suo parere sembra tragedia, sproni la sua cavalla, e si metta in salvo.”

Anche Sancio tornò alle preghiere, e lo supplicò colle lagrime agli occhi che desistesse da un'impresa a paragone della quale erano bazzecole ed un zucchero quello dei mulini a vento, quella spaventosa delle gualchiere, e finalmente tutte le prodezze fatte nel corso della sua vita.

— Osservi bene, mio signore, diceva Sancio, che qua non sono incanti, né cosa che gli somigli, e che io ho veduti con questi occhi tra i legni e le fessure della gabbia un'ugna di leone vero e da quella sola congetturo che quel leone ch'è padrone di quell'ugna, dovrà essere più grande di una montagna.

— La paura te lo farà, rispose don Chisciotte, parer maggiore per lo meno di un mezzo mondo. Ritirati, Sancio, lasciami; e se qua morrò tu sai già quale sia la nostra antica convenzione: te n'andrai a Dulcinea, né dico altro.”

Aggiunse a queste poche altre parole, ma bastanti a togliere ogni speranza di poterlo rimovere dalla sua pazza risoluzione. Avrebbe voluto opporsi don Diego dal verde gabbano; ma considerate la ineguaglianza dell'arme, non gli pareva savio partito di prendersela con un mentecatto, quale lo aveva conosciuto allora di tutto punto.

Tornando don Chisciotte ad affrettare il lionero e reiterando le minacce, indusse don Diego a dare di sprone alla cavalla, e Sancio al leardo, e il carrettiere alle mule, e procurarono tutti di scostarsi dal carro prima che i leoni uscissero fuori.

Piangeva Sancio la morte del povero padrone, tenendo per indubitato che questa dovesse sull'istante seguire fra le zanne del leone; malediceva la sua sorte, e chiamava disgraziata quell'ora in cui gli cadde in pensiero di tornare a servirlo; ma non per piangere e mettere querele intralasciava di battere l'asino affinché si allontanasse dal carro.

Ora vedendo il custode che già i fuggitivi erano fuori di pericolo, tornò a protestare e ad intimare a don Chisciotte le cose tutte che dianzi avea dette. Gli rispose questi che ogni cosa era da lui ben intesa, né si curasse punto di altre intimazioni e proteste; mentre tutto sarebbe inutile, ma che non frammettesse alcun ritardo.

Mentre il lionero apriva la prima gabbia stette considerando don Chisciotte se fosse miglior consiglio imprendere la pugna a piedi od a cavallo, ma stabilì di accingervisi a piedi temendo che Ronzinante spaventar si potesse alla vista dei leoni. Balzò pertanto a terra, buttò via la lancia, imbracciò lo scudo, e sguainando la spada con maraviglioso coraggio e con forte cuore si pose dinanzi al carro, non senza raccomandarsi con tutta l'anima a Dio e a Dulcinea del Toboso sua signora.

È da sapersi che giunto l'autore della presente verissima istoria a questo passo, così esclama:

“Oh forte, oh sopra ogni encomio animoso don Chisciotte della Mancia, specchio in cui possono mirarsi i valorosi tutti dell'orbe! Oh secondo e novello Manuel di Leone che fu onore e vanto dei cavalieri di Spagna, quali parole troverò io per narrare sì terribile prodezza? Come potrò io renderla credibile ai secoli futuri? E quale sarà la lode di cui tu non sii degno per quanto sia un'iperbole sopra tutte le iperboli? Tu a piedi, tu solo, tu intrepido, tu magnanimo, con una spada sola, e non di quelle taglienti del Perriglio, con uno scudo né troppo risplendente né di acciaio il più terso, tu stai intrepido attendendo i due più furiosi leoni che abbiano mai prodotto le selve dell'Africa? Sieno le tue prodezze medesime quelle che ti dieno lode, o valoroso mancego, ché io qui le lascio mancandovi le parole atte a magnificarle.”

Qui faceva punto la riferita apostrofe dell'autore, e passava poi innanzi ripigliando il filo dell'istoria e dicendo che il lionero veduto don Chisciotte già in positura, e che gli era pur forza lasciar libera l'uscita al leone maschio, se non voleva cadere nella indegnazione del pazzo ed ardimentoso cavaliere, spalancò a dirittura la prima gabbia dove stava rinchiuso.

Il leone comparve di straordinaria grandezza e di spaventevole aspetto. La prima cosa ch'e' fece, fu rivoltolarsi per la gabbia dove giacea, distendere le zanne e stirarsi tutto; spalancò poscia la bocca e sbadigliò lungamente buttando fuora quasi due palmi di lingua; si fregò gli occhi, si lavò il muso e fatto questo, pose la testa fuori della gabbia e guardò d'ogni intorno con un paio d'occhi che sembravano brace di fuoco: guardatura e gesti da spaventare la stessa temerità. Ma don Chisciotte non si ritrasse, bramando che ormai saltasse giù dal carro, e venisse seco alle mani colle quali facea disegno di sbranarlo in mille pezzi. A sì alto eccesso giunse quella sua non mai vista pazzia! Ma il generoso leone, più prudente che arrogante, nulla curandosi di puerilità e di bravate, dopo avere guardato in qua, in là, come si è detto, voltò le spalle e presentò a don Chisciotte la parte deretana, e con grande quiete e tranquillità si rimise in gabbia.

Vedutosi questo da don Chisciotte comandò al lionero che gli desse delle bastonate, e lo irritasse per cavarnelo fuori di nuovo.

— Oh questo non farò io, rispose il custode, ché stuzzicandolo sarei il primo sbranato; si contenti vossignoria, signor cavaliere, di ciò che ha fatto, che è stato un andare sopra ogni genere di bravura, e non voglia tentare un'altra fortuna: aperta è la porta al leone, e dipende da lui l'uscire o lo starsene, ma poiché non uscì finora, non uscirà più in tutto il giorno. Rifletta vossignoria che la grandezza del suo coraggio si è a quest'ora sperimentata abbastanza, e che niun valoroso combattente, a quanto io so, fu obbligato mai a fare più che sfidare il nemico ed attenderlo in campo aperto: se il nemico non viene è sua la infamia, e chi lo aspetta ha per sé la palma della vittoria.

— Hai detto la verità, rispose don Chisciotte; chiudi, amico, la gabbia, e fammi testimonianza nelle forme migliori che per te si possano di quanto mi hai veduto operare; cioè, come tu apristi la gabbia al leone, ed io lo stetti aspettando, ma che non è uscito fuori; come tornai ad aspettarlo, ma che tornò in gabbia volontario, e che la finì col porsi a dormire: tu hai detto bene che io non posso fare di più, e male abbiano gl'incantesimi, e Dio protegga la ragione, la verità e la vera cavalleria: chiudi, come ti ho detto, ché intanto fo segno ai fuggitivi e agli assenti perché tornino ed odano dalla tua bocca la mia prodezza.”

Il custode fece quanto gli domandò don Chisciotte: il quale ponendo allora sulla punta della lancia il fazzoletto con cui erasi nettato il viso per la pioggia della ricotta, cominciò a chiamare quelli che tuttavia attendevano a fuggire, rivoltando di quando in quando la testa e seguitando le tracce di don Diego dal gabbano verde.

Quando Sancio vide il segno del fazzoletto, disse:

— Possa io essere impiccato se il mio padrone non ha vinto le belve feroci: ed ecco ch'egli ci chiama.”

Si fermarono tutti, e conobbero che quegli che dava il segno era don Chisciotte; e scemata alquanto la paura, a poco a poco ritornarono e si accostarono tanto da poter udire chiaramente la sua voce.

Si ravvicinarono finalmente al carro, e giunti che vi furono, disse don Chisciotte al carrettiere:

— Torna, fratello, a riattaccare le tue mule e continua il tuo viaggio; e tu Sancio, dàgli due scudi d'oro, uno per lui, uno pel custode dei leoni, in premio di essersi qua trattenuti per conto mio.

— Li darò volentieri, Sancio rispose: ma che n'è seguìto dei leoni? sono morti o vivi?”

Allora il lionero raccontò per minuto e colle sue pause il fine della contesa, esagerando il meglio che seppe e poté il valore di don Chisciotte, della cui presenza intimorito il leone né volle né osò uscire della gabbia, ad onta di averne lasciata per buona pezza aperta la porta.

Aggiunse che dopo di aver detto al cavaliere che sarebbe un tentar Dio l'irritare di nuovo il leone perché uscisse per forza, egli volea che pur venisse irritato, e che mal suo grado e in onta alla risoluta sua volontà, permesso avea che si tornasse a chiudere la gabbia.

— Che te ne pare mio caro Sancio? disse don Chisciotte: vi sono eglino incanti, che possano stare a petto della vera bravura? Potranno bene gl'incantatori togliermi la ventura, ma l'anima ed il valore? sarà impossibile.”

Sancio sborsò gli scudi; il carrettiere attaccò le mule; il lionero baciò le mani a don Chisciotte per la ricevuta mercede, e gli promise di raccontare la seguita memorabile prodezza allo stesso re quando giugnesse a rivederlo alla Corte.

— Se a caso, disse don Chisciotte, la Maestà sua dimandasse chi l'ha compita, gli direte che fu il cavaliere dei Leoni, mentre quind'innanzi intendo che in questo nome si cangi, converta e muti il soprannome che sin qui ho portato di cavaliere dalla Trista Figura: in ciò mi uniformo alla costumanza antica dei cavalieri erranti che si cangiavano i nomi quando voleano e quando loro tornava più il conto.”

Il carro proseguì il suo cammino, e don Chisciotte, Sancio e quegli dal verde gabbano seguitarono il loro, né quest'ultimo per lungo spazio di tempo aprì bocca.

Stavasene tutto intento ad osservare e notare i fatti e le parole di don Chisciotte, sembrandogli che foss'egli o un accorto pazzo o un pazzo che tirasse al savio. Non era ancora a sua cognizione la Prima Parte di questa istoria; ché se letta l'avesse, cessata tosto sarebbe la maraviglia che gli cagionavano i fatti e le parole, ed avrebbe saputo di qual genere di pazzia si trattava.

Ora la sua ignoranza dei fatti precedenti tenevalo incerto nei suoi giudizi, e poneva mente ai discorsi uditi, ora giudiziosi, eleganti e bene espressi, ora spropositati, temerari e balordi.

Egli dicea fra sé: “Che pazzia più grande può darsi del mettersi in testa la celata piena di ricotta, e dell'immaginarsi che gli incantatori gli avessero intenerita la testa? Quale maggiore temerità e irragionevolezza del voler combattere per forza contro ai leoni?” Lo trasse don Chisciotte dal suo soliloquio dicendogli:

— Chi mai vi sarebbe che non pensasse, o signore, che vossignoria non mi abbia per uomo inconseguente o folle? e non sarebbe da stupirsi, perché le mie azioni non possono in apparenza produrre diversa opinione, tuttavia desidero che vossignoria sappia non essere io sì scemo com'ella crede. Fa bella mostra di sé gagliardo cavaliero agli occhi del principe dando nel mezzo di uno steccato una buona lanciata con esito felice a toro infuriato: fa bella mostra cavaliere rivestito di risplendenti armi nel passare la lizza in lieta giostra dinanzi a dame: fanno bella mostra i cavalieri tutti che in militari esercizi (o che tali rassembrino) trattengano e rallegrino, e, se lice dirlo, onorino le Corti dei loro re; ma sorvola sopra tutti l'errante cavaliere che pei deserti, per le solitudini, pei crocicchi, per le selve e per i monti vada cercando perigliose venture con determinato animo di condurle a felice e fortunato termine solo per acquistarsi fama gloriosa e immortale. Più stimabile certamente l'errante cavaliere che soccorre una vedova in qualche inabitato luogo, del cavaliere cortigiano che amoreggia una donzella nella città. Ogni cavaliere adempia ciò che gl'impone l'esercizio suo proprio; serva il cortigiano le dame, e renda collo sfarzo la Corte del suo re più pomposa; dia sostenimento a gentiluomo meschino convitandolo alla sua mensa, concerti giostre, mantenga tornei, mostrisi grande, liberale, magnifico e buon cristiano soprattutto, e compirà in questo modo le impostesi obbligazioni. L'errante cavaliere scorra le più remote parti del mondo; penetri nei più intricati laberinti, cimenti l'impossibile ad ogni passo, resista negli spopolati deserti ai raggi cocenti del sole nel cuor della state, e nel verno alla dura inclemenza dei venti e dei ghiacci: non lo spaventino leoni, non lo atterriscano fantasime, non faccia conto d'incantatori; che il cercare questi, l'assalir quelle e il vincere tutti sono suoi precipui e veri esercizi. Io dunque, come quello cui toccò in sorte d'esser nel novero della errante cavalleria, tralasciare non posso di affrontare quanto sembrami della giurisdizione del mio officio; e perciò m'affrontai ai leoni, tuttoché conoscessi esser questa eccessiva temerità; mentre so benissimo che cosa è valore, il quale è una virtù posta fra i due viziosi estremi, la codardia e la temerità. Fia però minor male che il valoroso si innalzi ad essere temerario che abbassarsi alla codardia; e siccome è molto più facile che il prodigo diventi uomo prode di quello che il valente codardo. Mi creda, vossignoria, che è da tenersi più in conto chi pecca nel troppo che nel poco, e suona meglio all'orecchio di chi ascolta il tale cavaliere è temerario e ardito, che il tal cavaliere è timido e codardo.”

— Io dico, signor don Chisciotte, rispose allora don Diego, che quanto ha esposto e fatto vossignoria va scrupolosamente del paro colla ragione; e penso che se le ordinanze e le leggi della errante cavalleria si perdessero, registrate si troverebbero nel petto della signoria vostra come in proprio loro deposito e archivio: ma affrettiamoci ché la sera è vicina, e passiamo al mio contado e alla mia casa dove riposerete alquanto dalle fatiche, che se non abbatterono il corpo hanno certamente di soverchio occupato lo spirito, il che talvolta ridonda in istanchezza del primo.

— Tengo per distinto favore l'offerta vostra, o signor cavaliere,” rispose don Chisciotte; e dando degli sproni con più gagliardìa del solito a Ronzinante giunse la comitiva intorno alle due della sera al contado ed alla casa di don Diego Miranda, chiamato da don Chisciotte il cavaliere dal gabbano verde.


CAPITOLO XVIII

 

DI QUELLO CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE NEL CASTELLO O CASA DEL CAVALIERE DAL VERDE GABBANO CON ALTRI STRAORDINARI SUCCESSI.

 

Don Chisciotte trovò la casa di don Diego di Miranda larga quanto le principali del contado. Un'arme di rozza pietra stava sopra la porta della strada; la canova riusciva nel cortile, e la cantina sotto il portico con varie botti all'intorno, che per essere fatte al Toboso gli rinfrescarono la memoria della sua incantata e trasformata Dulcinea. Sospirando, e senza por mente a ciò che si dicesse, o avere riguardo a chi era presente, proruppe:

 

Oh! dolci agli occhi miei, mentre al Ciel piacque,

Voi, tobosesche botti. Oh! come, oh! quanto,

Lei che sì bella per mio mal ci nacque

Per voi rammento, e le mie gioie e il pianto!

 

Intese questi versi lo studente poeta figliuolo di don Diego, che uscito era ad incontrarlo unitamente a sua madre; e l'una e l'altro restarono attoniti nel vedere la strana figura di don Chisciotte, il quale smontato da Ronzinante andò con molta cortesia a baciare le mani alla signora, cui don Diego disse:

— Ricevete, signora, con la usata vostra gentilezza il signor don Chisciotte della Mancia, ché quello si è il quale innanzi ora vi vedete, errante cavaliere il più valoroso e il più saggio che sia sulla terra”

La signora, che chiamavasi donna Cristina, lo accolse con segni di singolare predilezione e con bel garbo, e don Chisciotte corrispose alla cortesia con molto gentili ed officiose espressioni. Quasi gli stessi modi tenne collo studente, il quale udendo don Chisciotte parlare, lo tenne per grande ragionatore ed acuto.

A questo passo l'autore dell'istoria dipinge minutamente le particolarità tutte della casa di don Diego, facendo la descrizione dell'abitazione d'un cavaliere dovizioso del contado. Al traduttore parve di poter passar queste ed altre minuzie sotto silenzio, non recando ciò grande aiuto all'istoria principale, la cui forza sta nella verità e non nelle digressioni fredde o inutili.

Entrò don Chisciotte in una sala dove Sancio lo assisté a disarmarsi, e rimase in calzoncini e col suo giubbone di camozza tutto nericcio pel sudiciume dell'arme. Aveva il collare a foggia di studente, senz'amido e senza trine; i borzacchini erano di quelli lavorati alla moresca, e tenea le scarpe incerate. Si cinse di nuovo la sua spada, pendente da una striscia di pelle di lupo marino, poiché è opinione ch'egli avesse sofferto per qualche anno l'infermità degli arnioni. Si pose un ferraiuolo di panno bigio; ma prima di tutto con cinque o sei secchie di acqua (che nel numero delle secchie vi ha qualche diversità) si lavò la testa e la faccia, ma ad ogni modo restò l'acqua del colore del siero, mercé della ghiottornia di Sancio e della sfortunata ricotta che tanto avea imbiancato il suo padrone.

Così rassettato con ingenuo garbo e bizzarria passò don Chisciotte in un'altra sala, dove dallo studente era atteso per trattenersi con lui finattantoché si allestisse la mensa. L'arrivo di tanto ospite impegnato aveva la padrona della casa a far conoscere che sapeva bene e distintamente accogliere i forestieri. Nel tempo che don Chisciotte stava disarmandosi, ebbe agio don Lorenzo (questo è il nome del figliuolo di don Diego) di dire a suo padre:

— Che penseremo noi, o signore, di questo cavaliere che vossignoria ci ha condotto? Il nome, la figura, il chiamarsi cavaliere errante hanno molto sorpreso e mia madre e me ancora.

— Non so che dirti, figliuolo, rispose don Diego; ti posso bene assicurar che l'ho veduto fare cose degne del più gran pazzo del mondo, e l'ho udito ordire discorsi sì giudiziosi che sono precisamente l'opposto delle sue azioni spropositate. Mettiti a ragionare con lui, e toccagli il polso, poi come discreto giudicherai bene del suo discernimento o della sua balordaggine; benché, a dire ciò che ne sento, io lo tengo più per pazzo che per dottore.”

Dopo queste informazioni passò don Lorenzo a trattenersi con don Chisciotte in piacevoli colloqui, e fra i molti discorsi avuti insieme, disse don Chisciotte:

— Il signor don Diego, padre di vossignoria, mi ha parlato della rara vostra abilità e del distinto vostro ingegno, e soprattutto mi ha detto che siete valoroso poeta.

— Poeta può darsi, rispose don Lorenzo, ma valoroso no certamente: è bensì vero che io sono affezionato alquanto alla poesia ed alla lettura degli ottimi autori, ma non in modo da meritare il nome di valoroso che mio padre mi attribuisce.

— Mi piace questa vostra umiltà, rispose don Chisciotte, mentre invece i poeti sogliono esser arroganti, e facilmente credonsi grandi e sublimi.

— Non vi è regola senza eccezione, rispose don Lorenzo, e vi sarà anche taluno eccellente che non crederà di esser tale.

— Pochi, rispose tosto don Chisciotte; ma dicami vossignoria: che poesie avete ora fra mano? Il vostro signor padre mi ha detto che queste vi tengono molto pensieroso ed inquieto. Se si tratta di glosa, ho anch'io qualche tintura di glose; se di giostra letteraria, procuri vossignoria di avere il secondo premio, ché il primo è dato sempre alle protezioni ed alle qualità della persona; il secondo viene colto dalla mera giustizia; il terzo viene ad essere il secondo, ed il primo, con questo conto, sarà il terzo, secondo il metodo delle licenze che si dànno nelle università; nondimeno il nome di primo premio è sempre gran cosa.

— Finora, disse tra sé don Lorenzo, non posso io giudicarlo pazzo; tiriamo innanzi, e gli disse:

— Parmi che abbia vossignoria studiato alle scuole; ora di quali scienze vi siete occupato particolarmente?

— Di quella della errante cavalleria, rispose don Chisciotte, che è pregevole tanto quanto quella della poesia, e n'è anzi superiore di assai.

— Questa scienza io non la conosco, replicò don Lorenzo, e adesso mi arriva nuova.

— È una scienza, disse don Chisciotte, che in sé racchiude tutte o la più gran parte delle scienze del mondo; perché quegli che voglia professarla ha da essere iuris-perito e dee conoscere le leggi della giustizia distributiva e commutativa per dare a tutti il suo. Il cavaliere errante poi debb'essere teologo per sapere dar conto chiaro e distinto della legge cristiana che professa quando ne sia domandato: debb'essere medico e specialmente semplicista, per conoscere in mezzo alle campagne disabitate e nei deserti l'erbe che hanno virtù di sanare ferite, perché né può né deve andare il cavaliere errante in ogni bottega a cercare chi gliele curi: deve possedere l'astrologia per conoscere dalle stelle quante ore sieno scorse della notte, ed in qual parte e in quale clima del mondo si trovi: dee sapere di matematica perché gli sarà necessario ad ogni momento il valersene; e lasciando da parte che dee conoscere tutte le virtù teologali e cardinali, discendendo ad altre minuzie, aggiungerò che dee sapere nuotare, come narrano che nuotasse Niccolò o Niccolao, e saper ferrare un cavallo e rassettare la sella e la briglia. Tornando a quanto dicevamo, dee serbare gelosamente la fede a Dio e alla sua Dama: debb'essere casto nei suoi pensieri, onesto nelle parole, liberale nelle opere, valoroso nelle imprese, tollerante nei travagli, caritativo coi bisognosi, e finalmente mantenitore della verità, anche a prezzo della vita.

Di tutte queste grandi e minime parti si compone un perfetto cavaliere errante, e quindi consideri vossignoria, signor don Lorenzo, se è scienza da giuoco quella che impara il cavaliere errante e che professa, e se possa agguagliarsi alle più illustri che nei ginnasi e nelle cattedre s'insegnano.

— Se così è, replicò don Lorenzo, io dico che supera qualsivoglia altra scienza.

— E come, e quanto! rispose don Chisciotte.

— Ma io temo molto, soggiunse don Lorenzo, che possano esservi stati, e che vi sieno oggidì cavalieri adorni di tante virtù.

— Dissi più volte, e lo ripeto anche adesso, rispose don Chisciotte, che la maggior parte degli uomini porta opinione che non sieno vissuti al mondo cavalieri erranti, ma io conchiudo che se il Cielo per uno de' suoi prodigi non fa conoscere esser vero che vivessero e che vivono costaggiù, sarà inutile affatto mettere a campo ogni argomento per provarlo, siccome più volte me ne ammaestrò l'esperienza. Né vorrò io adesso dar opera a persuadere vossignoria dell'errore in cui versate con tanti e tanti altri; bensì prego il Cielo che vi disinganni, e vi faccia conoscere quanto profittevoli furono, e quanto necessari negli scorsi secoli, e di quale utilità ai dì nostri sarebbero se tornassero in uso. Per comune nostro danno trionfano adesso la gola, il sonno e le oziose piume.

— Eccoci al punto, disse allora tra sé don Lorenzo; bisogna per altro convenire ch'egli è un pazzo bizzarro, e sarei ben da poco se tale non lo giudicassi.”

E qui ebbe fine il dialogo, e furono invitati alla mensa. Domandò don Diego a suo figlio quello che avesse cavato dell'ingegno dell'ospite.

Egli allora rispose:

— Nol tratterrebbero dal vortice di sue pazzie quanti medici e buoni scrittori vi sono al mondo; è un pazzo che ha del savio, ed è pieno di lucidi intervalli.”

Si assisero a tavola, e il pranzo fu come don Diego aveva detto nel viaggio che soleva apprestarlo agli amici: semplice, abbondante e saporito. Piacque soprattutto a don Chisciotte il mirabile silenzio che regnava in quell'abitazione, la quale rassomigliarsi poteva ad un convento di Certosini.

Sparecchiata la tavola, rese a Dio grazie, e data l'acqua alle mani, don Chisciotte pregò con viva istanza don Lorenzo che gli recitasse i versi della giostra letteraria. Cui rispos'egli:

— Per parere di quei poeti che negano di far sentire i loro versi a chi li prega, poi quando non sono pregati ce li vengono a far sentire per forza, dirò la mia glosa, composta non con pretensione di lode, ma soltanto per esercizio d'ingegno.

— Un mio amico ed assennato uomo portava opinione, rispose don Chisciotte, che nessuno dovesse sudare in far glose ai versi, per la ragione, diceva egli, che la glosa non poteva mai valere il testo, e il più delle volte si scostava dall'intenzione e dal proposito di quello su cui essa cadeva. Diceva ancora che le leggi della glosa erano troppo limitate, perché non ammettevano interrogazioni, né disse dirò, né far nomi dei verbi, né cangiare senso, con altre legature e strettezze cui trovansi i glosatori obbligati, come vossignoria dee sapere molto bene.

— Veramente, signor don Chisciotte, rispose don Lorenzo, io vorrei cogliervi in un mal latino, ma non ci riesco poiché mi guizzate di mano come un'anguilla.

— Non comprendo, rispose don Chisciotte, quello che vuol dire vossignoria, né che cosa s'intenda con questo guizzare.

— Mi spiegherò a suo tempo, rispose don Lorenzo, e per ora presti attenzione la signoria vostra ai versi glosati ed alla glosa.

E don Lorenzo diè principio alla recitazione dei seguenti versi

 

VERSI.

 

Se 'l mio fu tornasse all'è

  Senz'attendere il sarà

  O venisse il tempo già

  Di quel ch'essere pur dè!

 

 

GLOSA.

 

Come tutto fugge via

  Fuggì ancor quel ben che un giorno

  Mi donò sorte non ria;

  Né più a me fece ritorno

  Molto o poco il ben di pria.

 

O Fortuna, tu mi vedi

  Già da secoli a' tuoi piedi;

  Deh mi rendi al primo stato!

  Oh! quant'io sarei beato

  Se 'l mio fu tornasse all'è.

 

Altra gioia ed altra gloria

  I' non vo'; né coglier tento

  Altra palma, altra vittoria,

  Fuor che riedere al contento

  Di cui m'ange la memoria.

 

Se, Fortuna, m'addurrai

  A quel ben ch'io già provai

  Temperando il tuo rigore,

  Godrò allor del tuo favore

  Senz'attendere il sarà.

 

 

GLOSA.

 

Ah! pur troppo già m'avvedo;

  L'impossibile ti chiedo!

 

Corre il tempo, e vola e va,

  Né mai più ritornerà.

  E follìa sarebbe il voto

  Che restasse il tempo immoto

  O venisse il tempo già.

 

Viver sempre in dubbia sorte

  Fra speranza e fra timore

  Ognun sa ch'è un'altra morte;

  Ben fa dunque chi sen muore

  E al dolor chiude le porte

 

Util fora assai per me

  Il finir... ma no, non è,

  Se ragione il ver m'addita,

  Mentre il cor dubbioso sta,

  Il timor mi tiene in vita;

  Di quel ch'essere potrà.

 

Terminata da don Lorenzo la glosa, si alzò don Chisciotte e con voce tanto sonora che pareva un urlo, presolo per la destra mano, gli disse:

— Vivano i cieli contornati di stelle, garzon generoso, che voi siete il miglior poeta dell'orbe, e meritate la laurea non già in Cipri o in Gaeta, come disse un poeta, cui Dio perdoni, ma nelle accademie di Atene, se oggigiorno vi fossero, o in quelle che sussistono in Parigi, in Bologna e in Salamanca. Voglia Dio che i giudici che vi defraudano del primo premio, vengano colpiti dalle saette di Febo, e che le Muse fuggano per sempre dalle soglie del loro ricetto. Recitatemi, se v'è in grado, o signore, qualche poesia più grave, ché voglio conoscere sin dove si estenda l'ingegno vostro mirabile.”

Chi 'l crederebbe che don Lorenzo montò in galloria nell'udire le lodi di don Chisciotte, quantunque lo tenesse per pazzo? Oh forza dell'adulazione, a quanto ti estendi mai! oh come sono ampî i confini della tua allettatrice giurisdizione!

Novella prova di questa verità ne diede don Lorenzo, poiché aderendo alle brame di don Chisciotte, disse intorno alla favola o istoria di Piramo e Tisbe un sonetto di questo tenore:

 

“L'avvenente fanciullo rompe il muro che aperse il gagliardo petto di Piramo; Amore si parte da Cipro, e va diritto a cercare quell'angusta e prodigiosa apertura.

“Ivi parla il silenzio: ché umana voce non osa mettersi per sì strano pertugio; l'animo sì, perché Amore suol rendere agevoli le più difficili cose.

“Ma imprudente è il desiderio; e la bella vergine si affretta di correre alla morte: miserando fato!

“Tutti e due in un medesimo punto (oh strano caso!), uccide, copre e risuscita, una spada, una tomba, una memoria.”

 

— Sia benedetto il Signore, disse don Chisciotte quand'ebbe inteso il sonetto di don Lorenzo, che fra i poeti di oggidì ne ho conosciuto in vossignoria uno perfetto, il che comprendo dall'artifizio del vostro componimento.”

Stette quattro giorni don Chisciotte trattato con ogni gentilezza in casa di don Diego, a capo dei quali chiese licenza di andarsene, protestando che molto era grato ai tanti favori ottenuti, ma che non convenendo l'ozio e gli agi soverchi agli erranti cavalieri, tornavasene all'officio suo, ch'era quello di andare cercando avventure, delle quali sapeva abbondare assai il paese dove aveva divisato di stare aspettando il dì della giostra di Saragozza cui era indiritto.

Volea frattanto viaggiare e penetrar dentro la grotta di Montesino, di cui si raccontavano in quei contorni tante e sì mirabili cose; e voleva conoscere il nascimento e le vere vene delle sette lacune, chiamate comunemente di Ruidera. Don Diego ed il suo figlio lodarono altamente questa sua onorevole risoluzione, ed esibirongli di buon cuore quanto potesse essere in casa loro opportuno a fargli conseguire il propostosi fine, mentre si credevano a questo obbligati per lo valore della sua persona e per la onorificenza di sua professione.

Giunse finalmente il giorno di sua partenza tanto giulivo per don Chisciotte quanto malinconico per Sancio Pancia, il quale trovava tutto il suo conto nell'abbondanza che regnava in casa di don Diego. Gli doleva di tornare alla fame che si patisce nelle foreste e nei deserti, ed alla scarsità delle sue mal provvedute bisacce, le quali a buon conto fornì a dovizia di tutto quello che gli parve più necessario.

Nel licenziarsi disse don Chisciotte a don Lorenzo:

— Non so se altra volta io abbia detto alla signoria vostra, e, se lo dissi, or lo ripeto, che quando vogliate risparmiare la fatica del cammino e dei travagli per giugnere alla inaccessibile vetta del tempio della Fama, altro non vi è mestieri se non se lasciar da parte il sentiere della poesia ch'è un po' stretto, per battere quello strettissimo della errante cavalleria, la quale può in tratto farvi diventare imperadore.”

Con questo avvertimento terminò don Chisciotte di chiudere il processo della sua pazzia ed ancora più col seguente:

— Dio sa quanto vivo sia in me il desiderio di volere a compagno mio don Lorenzo per insegnargli la gran dottrina di perdonare ai suggetti e calpestare i superbi, virtù innate nella mia professione; ma non permettendolo questa sua verde età, né gli altri suoi lodevoli esercizi, mi limiterò ad avvertirlo, ch'essendo poeta e volendo pervenire a celebrità, dee valutare più l'altrui che il proprio parere: non vi ha padre, non vi ha madre cui paiano brutti i propri figliuoli, e tanto più si trova il poeta in quest'inganno quanto più l'ingegno è mediocre.”

Fecero nuove maraviglie padre e figliuolo della ineguaglianza dei ragionamenti di don Chisciotte, ora saggi ora spropositati; e della pertinace sua risoluzione di andare in cerca di sventurate venture, che formavano l'unico fine e la sola mira dei suoi pensamenti. Si reiterarono le offerte reciproche, e con buona licenza della padrona del castello, don Chisciotte sopra Ronzinante e Sancio sopra il leardo se ne partirono.


CAPITOLO XIX

 

AVVENTURA DEL PASTORE INNAMORATO, CON ALTRI VERI E GRAZIOSI SUCCESSI.

 

Di poco si era don Chisciotte scostato dal paese di don Diego quando si avvenne in due persone vestite a foggia di chierici o di studenti accompagnate da due contadini, tutti portati da cavalcature dalle orecchie lunghe. Uno dei giovani studenti aveva con sé un portamantello di panno con tela bottana verde, il quale, per quanto si seppe poi, non altro conteneva che qualche abito e due paia di calze rigate. L'altro recava seco due spade non punto affilate, e ad uso di scherma, coi loro bottoni. Avevano i contadini altre cose indicanti che venivano da qualche grande città dove le avevano comperate per portarle al contado.

Sì gli studenti che i contadini rimasero attoniti, come solevano fare tutti coloro che vedevano don Chisciotte per la prima volta; e morivano di voglia di sapere chi fosse un uomo sì fuori dell'uso degli altri. Don Chisciotte li salutò, e dopo avere inteso dove erano diretti, e che marciavano appunto per la strada a cui egli stesso s'incamminava, si offerse loro compagno, pregandoli di rallentare un po' il passo giacché le loro asine camminavano più del suo cavallo. Per obbligarli con poche parole li mise al fatto dell'essere suo e della sua professione ed officio, ch'era di cavaliere errante in cerca di venture per le quattro parti del mondo. Disse loro che chiamavasi don Chisciotte della Mancia per nome proprio, e per soprannome il cavaliere dai Leoni.

Tutto questo era pei contadini linguaggio greco o in gergo, ma non già per gli studenti, che da ciò argomentarono come stesse il cervello di don Chisciotte. Guardavanlo con tutto ciò con istupore e con rispetto, ed uno di loro gli disse:

— Se vossignoria, signor cavaliere, non ha strada determinata come suol essere di chi va cercando venture, si accompagni a noi, e vedrà una delle più belle e ricche nozze che sino al dì d'oggi si sieno festeggiate qui nella Mancia o in altri luoghi di questi contorni.”

Dimandò don Chisciotte se fossero di un qualche principe che le rendesse tanto famose.

— No, signore, ma di un contadino e di una contadina, rispose lo studente; egli però è il più ricco di questo paese, ed è la giovane la più bella che siasi mai veduta: nuovo e straordinario è il loro apparato, dovendo celebrarsi in un prato vicino al paese della sposa, la quale è per eccellenza chiamata Chilteria la bella, e lo sposo Camaccio il ricco. Conta la giovane l'età d'intorno a diciott'anni e lo sposo ventidue; sono di eguale condizione, tuttoché certi investigatori che vogliono conoscere le prosapie di tutto il mondo sostengano che più distinta è la nascita della bella Chilteria di quella del Camaccio; ma non è da farsi molto caso di ciò mentre le ricchezze servono a rimediare a molte rotture. In effetto questo Camaccio è uomo assai liberale, e gli è venuto il capriccio di coprire tutto il prato con rami e con frondi di modo che il sole ha da durar fatica per visitare co' suoi raggi le verdi erbe dalle quali resta coperto il suolo. Apprestò egli danze moresche sì di spade che di piccoli sonagli, essendovi nel suo paese chi mirabilmente si esercita in questi allegri giuochi; e non dico niente dei nostri sgambettanti che dimenano e si percuotono le gambe con insolita maraviglia, e faranno crescere la esultanza. Nessuna poi delle riferite cose, né altre molte delle quali voglio intralasciare di farvi parola, ha da render tanto memorabili queste nozze quanto quello che attendesi di veder farsi dal disperato Basilio. È questo Basilio un pastore che soggiorna nello stesso paese di Chilteria, di dove prese occasione Amore di rinnovare al mondo l'istoria di Piramo e Tisbe, poiché Basilio si innamorò di Chilteria fino dai suoi teneri anni, ed ella gli corrispose con mille onesti favori, tanto che erano un gradito intrattenimento degli abitanti gli amori dei due fanciulli Basilio e Chilteria. Andò crescendo l'età, e il padre di Chilteria stabilì di vietare a Basilio il consueto accesso che aveva in casa, e per non lasciargli né dubbi né speranze, determinò di accasare la figliuola col ricco Camaccio, non piacendogli il partito di Basilio, perché non possedeva tanti doni di fortuna quanti di cuore. Senza che la verità sia adombrata da invidia bisogna però confessare ch'egli è il più svelto giovane da noi conosciuto: gran lanciatore del palo, lottatore eccellente, bravo giuocatore di palla; corre come un daino, salta più di una capra, e truccia i rulli che è un incanto: canta come una calandra, tocca la chitarra in modo da farla parlare, e soprattutto maneggia la spada quanto ogni altro schermitore famoso.

— Per questo titolo solo, disse don Chisciotte, meriterebbe un tal giovane di maritarsi non pure colla bella Chilteria, ma colla stessa regina Ginevra, se oggi vivesse, a dispetto di Lancilotto e di quanti ne lo volessero scompigliare.

— Sì, sì; e bisognerebbe dirlo a mia moglie, disse Sancio ch'era stato sempre tacendo e ascoltando, la quale non vuole che si facciano matrimoni disuguali, perché si attiene al proverbio che dice: tal guaina tal coltello! Sarebbe stato opportuno che questo Basilio dabbene, cui mi vo già affezionando, si maritasse con questa signora Chilteria; che abbiano mille malanni coloro che si oppongono ai matrimoni tra le persone che si vogliono bene.

— Se tutti quelli che si vogliono bene, disse don Chisciotte, si avessero a maritare, sarebbe tolta la elezione e il diritto ai genitori; e se alle giovani si lasciasse libera la scelta degli sposi una si mariterebbe col servitore di casa, ed altra con quello che vedesse passare per la strada, e che avesse l'aria di albagioso e galante, fosse pur anche null'altro che uno sguaiato spadaccino. L'amore accieca facilmente gli occhi dell'intelletto, i più necessari per eleggere lo stato, ed è facile l'inciampare in quello del matrimonio che più degli altri ha bisogno di fino discernimento e di particolar favore del cielo perché riesca in bene. Uno che imprenda lungo cammino, quando sia fornito di prudenza, cerca prima un sicuro e geniale compagno con cui accontarsi: e perché non deesi regolare in tal modo chi ha da percorrere lo spazio dell'intera sua vita? e tanto più che la sua compagna ha da essergli indivisibile in letto, alla mensa, da per tutto, com'è dovere della moglie rispetto al marito. Una moglie non è altrimenti mercatanzia che comperata una volta si restituisca, si ritorni o si cambi, ma dura sino alla morte: è un cappio che messo al collo una volta si tramuta nel nodo gordiano, il quale non si scioglie senza tagliarlo, ed inutile è ogni sforzo per isciorlo. Molte e maggiori cose potrei dire su questo argomento se non fosse il desiderio in cui sono di sapere se altro rimanga a dirci dal signor dottore intorno alla istoria di Basilio.”

Lo studente o baccelliere o dottore, come lo chiamò don Chisciotte, rispose che altro non gli restava da soggiungere se non che Basilio dal momento in cui seppe che al ricco Camaccio si faceva sposa Chilteria, più non fu visto a ridere né udito dir cosa a proposito: sempre mesto e pensieroso parla fra sé, e dà certi chiari indizi di essere uscito di senno: poco mangia e poco dorme; le frutta sono il suo cibo, e la nuda terra, come se fosse un bruto, è il luogo dove dorme se però dorme: alza gli occhi al cielo di tanto in tanto e talvolta li fissa in terra così stupito e assorto che giudicherebbesi statua se il vento non facesse svolazzare i panni del suo vestito: in fine dà tali segni di aver trafitto il cuore, che tutti noi temiamo purtroppo che il sì che domani pronunzierà la bella Chilteria sarà la sentenza della sua morte.

— Non vi saranno tanti malanni, disse Sancio, ché Dio manda il male e la medicina, nessuno sa quello che ha da essere; da qui a dimani passano molte ore: in un momento casca una casa; nello stesso dì piove e apparisce il sole; un tale va la sera a letto sano e di buona voglia, e 'l giorno dopo si può appena muovere. Favoriscano dirmi: vi è qui alcuno che vanti di avere posto un chiodo alla ruota della fortuna? no certamente, e fra il e 'l no di una donna non mi arrischierei di mettere una punta di ago perché non ci capirebbe. S'egli è vero che Chilteria ama Basilio, io do a lui un sacco di buona ventura; ché l'amore, per quanto ho sempre inteso dire, guarda con certi occhiali che fanno parere oro il rame, ricchezza la povertà, perle la cispa.

— Dove, disse don Chisciotte, dove vai tu a parare, Sancio mio, che sei pur l'importuno quando cominci a sciorinare proverbi e ad infilzare sermoni? Dimmi per l'anima di Giuda, animalaccio vero e reale, e che sai tu di chiodi e di ruote della cieca Fortuna?

— Oh se poi non m'intendono, rispose Sancio, non è meraviglia che le mie sentenze sieno tenute per spropositi; ma non importa: m'intendo io, e so che non ho mica dette balordaggini in quello che ho proferito, e la signoria vostra, signor mio, non è altro che un eterno friscale delle mie parole e delle mie azioni

Fiscale hai a dire, soggiunse don Chisciotte, e non friscale, guastatore del buon linguaggio che Dio ti confonda.

— Non se la pigli con me, rispose Sancio, poiché ella sa bene che io non sono allevato alla Corte né ho fatto i miei studi in Salamanca per sapere se io aggiunga o levi via qualche lettera ai miei vocaboli: non è poi conveniente che ella obblighi il Saiaguese a parlare come il Toledano, e potrebbe darsi che vi fossero dei Toledani mal parlatori.

— La cosa passa così per lo appunto, disse il dottore, perché non parlano a uno stesso modo quelli che si allevano tra i cuoiai e stanno in Toledo sulla piazza di Zoccodover, e quelli che passeggiano tuttogiorno pel chiostro del duomo; eppure sono tutti toledani. Il linguaggio puro, proprio elegante e chiaro sta in bocca dei giudiziosi cortigiani, sebbene fossero nati in qualche contado: e dissi giudiziosi, perché vi hanno molti che tali non sono. Il fino discernimento è la vera grammatica del buon linguaggio che si accompagna coll'uso: io, o signori, per mia ventura ne ho studiato i canoni in Salamanca, e mi do qualche vanto di spiegare il mio concetto con parole chiare, piane ed espressive.

— Se vi deste vanto, disse allora l'altro baccelliere, di saper così bene maneggiare la spada di scherma che portate con voi come il linguaggio, potreste, signor prosuntuoso, essere non so se più dottore o maestro.

— Riflettete, signor Corcuelo, rispose il dottore, che siete nella più erronea e falsa opinione intorno alla destrezza della spada, se voi lo credete un esercizio da non farne alcun conto.

— Per me non è erronea opinione, ma verità dimostrata, replicò l'altro; e se volete che io ve lo provi col fatto, avete delle spade, ed io ho opportunità di farlo; e vi aggiungo che non mi mancano né polso né forza non disgiunti dal coraggio per astringervi a confessare ch'io non vado errato altramente; smontate e servitevi del compasso dei vostri piedi, dei vostri circoli, dei vostri angoli e della vostra scienza, ch'io ho speranza di farvi vedere le stelle di bel mezzogiorno; e mercé la mia lestezza moderna e la mia scuola, confido che non sia ancora nato un uomo che mi astringa a voltare le spalle, anzi che non sia da me costretto a fuggire.

— Io non so di voltare o no le spalle, replicò l'addottrinato, tuttoché addivenire potrebbe che dove per la prima volta conficcaste il piede vi attendesse la sepoltura, e voglio dire che voi restaste morto senza bisogno di tante lestezze e di tante scuole moderne.

— Ora si vedrà, rispose Corcuelo: e smontato dal suo giumento cavò fuora con furia una di quelle spade che il maestro portava sul suo.

— La cosa non deve andare di questo modo, disse don Chisciotte a tal punto; ché io voglio esser il maestro di questa scherma e il giudice di questa molte volte agitata e non mai decisa questione.”

Smontato da Ronzinante, e presa la lancia, si pose in mezzo alla strada quando già il dottore con bella positura di corpo e con passo composto se ne andava ad incontrare Corcuelo, il quale veniva alla volta sua gettando, come suol dirsi, fuoco dagli occhi. Gli altri due contadini della compagnia, senza smontare dalle asine, servirono di spettatori alla mortale tragedia. Le coltellate, le stoccate, i soprammani, i rovesci e le imbroccate che tirava Corcuelo erano senza numero: più spesse che nebbia, più minute che gragnuola. Assaliva come un attizzato leone, ma gli usciva all'incontro una stoccata col bottone della spada del maestro che lo tratteneva nel bel mezzo della sua furia, e gli faceva baciare la spada come se fosse stata una reliquia, benché con non eguale divozione.

Finalmente il maestro gli contò colle stoccate tutti i bottoni di una mezza sottana che aveva indosso, facendo mille strisce della sua falda; gli fece cadere a terra due volte il cappello, e lo straccò di maniera che per la rabbia, il dispetto e la furia, prese la spada per l'impugnatura, e la gettò in aria con tanta forza che uno dei contadini assistenti il quale era scrivano, e che andò per essa, fece poi testimonianza che trovossi di là discosta quasi tre quarti di lega: testimonio che servì e serve a provare senza contrasto che la forza è superata dall'arte.

Stanco, si mise a sedere Corcuelo, ed essendoglisi avvicinato Sancio, gli disse:

— In verità, signor baccelliere, che se la signoria vostra prende il mio consiglio, da qua in avanti non isfiderà più alcuno alla scherma, ma piuttosto alla lotta od a lanciare il palo: bisogna lasciare il mestiere a chi lo sa fare, né è da intrigarsi con ischermitori tanto lesti e tanto pronti che t'infilzano colla punta della spada la cruna di un ago.

— Mi contento, disse Corcuelo, di essere uscito d'inganno, e che l'esperienza mi abbia fatto conoscere una verità che era da me troppo rimota.”

Alzatosi allora abbracciò il dottore, e rimasero più amici di prima, né vollero attendere lo scrivano il quale era andato in cerca della spada, sembrando loro che tardato avrebbe soverchiamente. Stabilirono intanto di seguitar il cammino per non arrivare di notte al paese di Chilteria, patria di tutta quella gente. Durante il resto del viaggio provò il dottore l'eccellenza della spada con ragioni di sì grande evidenza e con tante figure e dimostrazioni matematiche, che tutti ne rimasero convinti, e Corcuelo si pentì della sua ostinazione.

Sopraggiunta era la notte, e nell'avvicinarsi sembrò a tutti che di sopra alla loro testa stesse un cielo seminato d'innumerevoli e risplendenti stelle. Udirono similmente confusi e soavi suoni di vari strumenti, come di flauti, tamburi, salterî, timpani, cimbali e sonagliuzzi. Giunti più da vicino videro che gli alberi di un frascato piantato a mano all'ingresso del paese, erano tutti ricchi di lumi, i quali erano mossi ma non già spenti da un lieve soffio di vento. I musici erano i rallegratori delle nozze, che in diversi carri se ne andavano per quel luogo piacevole, altri danzando, altri cantando, ed altri toccando i diversi già accennati strumenti.

In effetto scorgeasi assai chiaramente che la letizia e la gioia regnavano insieme in quel prato. Si occupavano molti nell'erigere palchi dai quali nel dì susseguente potessero con agio godersi le rappresentazioni e le danze, che seguir doveano in quel luogo dedicato a solennizzare le belle nozze del ricco Camaccio, e le meste esequie di Basilio.

Non volle don Chisciotte entrare nel paese, benché caldamente ne lo pregassero il contadino ed il baccelliere; ma per iscusarsene al parer suo sufficientemente, mise in campo la costumanza dei cavalieri erranti di dormire per le campagne e per le foreste piuttostoché nei luoghi popolosi, quand'anche fosse loro offerto l'asilo sotto tetti dorati.


CAPITOLO XX

 

NOZZE DI CAMACCIO IL RICCO, ED AVVENIMENTO DI BASILIO IL POVERO.

 

Appena la bianca aurora aveva ceduto il luogo al rilucente Febo, affinché coll'ardore de' suoi lucenti e caldi raggi asciugasse le liquide perle dei suoi capelli d'oro, don Chisciotte, scuotendo la pigrezza delle sue membra, rizzossi in piè, e chiamò il suo scudiere Sancio, il quale tuttavia stava ronfando. Vedutolo dormire a quel modo, prima di svegliarlo sclamò:

“Oh tu bene avventurato sopra quanti vivono sulla faccia della terra, perché senza invidiare né essere invidiato, riposando stai con tranquillo sonno, né incantatori ti perseguitano, né ti agitano incantamenti! Dormi, tel dico, te lo ripeto, ed altre cento volte te lo andrò ripetendo, dormi senzaché ti tengano in perpetua veglia le gelosie per la tua dama, o ti destino pensieri affannosi di debiti, o la cura d'alimentare te e la tua piccola ed angustiata famiglia! Ora né l'ambizione t'inquieta, né ti molestano le vane pompe del mondo, poiché i tuoi desiderî non si estendono oltre il pensiero del tuo asino, mentre quello della tua persona l'hai posto tutto sulle mie spalle: gravezza e carico che la natura e il costume appoggiarono ai grandi. Dorme il servo e sta vegliando il padrone, e pensa al modo di sostenerlo, di migliorarne lo stato e di concedergli qualche favore. L'angustia di vedere che il cielo si fa di bronzo, e nega alla terra la necessaria rugiada, non affligge il servo, ma sì bene il padrone, che dee in mezzo alla sterilità e alla fame aver cura di colui della cui opera si è servito nel tempo della fertilità e dell'abbondanza.”

Niente rispondeva Sancio a tutte queste esclamazioni perché dormiva; né sarebbesi svegliato sì tosto se don Chisciotte con il piè della lancia non lo avesse scosso, e non gli avesse fatto spalancare gli occhi. Svegliossi allora il sonnolente e infingardo, e girandoli di qua, di là, all'intorno, disse:

— Dalla banda di questo frascato, se non m'inganno, esce un odore o buon fiato che sa più di presciutto fritto che di giunchi o di sermollino; oh le nozze che incominciano con questi odori, devono, per l'anima mia, essere molto abbondanti e generose!

— Finiscila, ghiottone, disse don Chisciotte, alzati, e andiamo a vedere questi sponsali, e osserveremo sin dove giunga lo sdegno dello sprezzato Basilio.

— Vossignoria faccia pur ciò che le pare e le piace, rispose Sancio, che quanto a me poca briga mi prendo. Dovea esser ricco quel signor Basilio, e si sarebbe sposato colla signora Chilteria; e bisogna aver quattrini chi brama far nozze nobili e distinte: e in verità che io resto nella mia opinione, signor mio, che il povero dee contentarsi di quello che ha, né dimandare pane buffetto in mezzo al golfo: scommetterei una mano che Camaccio può subissare Basilio nelle ricchezze; e se così è, come debb'essere, sarebbe pur balorda la signora Chilteria a rinunciare alle gioie e ai vestiti che può donarle o già le avrà donate Camaccio, per preferire lo slancio del palo o il maneggio di una spada di marra che potria unicamente darle Basilio, e che non valgono un quartuccio di vino all'osteria. Abilità e grazie che non sono vendibili tengasele il conte Dirlo; ma se queste tali grazie cadono sopra chi ha denari, canchero! come le paiono buone! Sopra un buon fondamento si può alzare un buon edifizio, e la base migliore e la maggiore forza del mondo consiste nel denaro.

— Per amore di Dio, Sancio, disse don Chisciotte, finiscila una volta, che io sono di avviso che lasciandoti seguitare, torneresti sempre da capo, e non ti resterebbe tempo né da mangiare né da dormire, perché lo spenderesti tutto in chiacchiere.

— Se vossignoria avesse buona memoria, replicò Sancio, si dovrebbe ricordare dei patti, che abbiamo fatto prima che ci allontanassimo dalla patria in questo ultimo viaggio; uno dei quali fu che vossignoria dovesse lasciarmi parlare a mia fantasia, a condizione però che non ne restasse offeso il prossimo o lesa la sua autorità; e mi pare di non avere contravvenuto finora a questo accordo.

— Me ne risovviene benissimo, rispose don Chisciotte; ma ad ogni modo, per ora almeno stattene cheto; e seguitami, che già gli strumenti da noi uditi la scorsa notte, tornano a rallegrare le valli, e si celebreranno senz'altro gli sponsali col fresco della mattina, né si vorrà aspettare il caldo del mezzogiorno.” Obbedì Sancio, e messa la sella a Ronzinante e la bardella al leardo, si avviarono ambedue passo passo, ed entrarono nel frascato. La prima cosa che si offerse alla vista di Sancio fu un vitello intero in uno schidione di olmo. Nel luogo in cui si doveva arrostire, ardeva una buona catasta di legna, e stavano sei grandi pignatte d'intorno al fuoco. Non erano queste della solita forma, ma piuttosto sei mezzi orci, capaci ognuno di contenere una beccheria di carni; e basti il dire che ingoiavano castrati interi, i quali o non si conosceva che vi fossero od era come se vi fossero tanti piccioncini. Le lepri senza pelle, le galline senza penne che attaccate stavan agli alberi per esser poi sepolte nelle pignatte erano innumerabili; gli uccelletti, le selvaggine, le cacciagioni che giacevano apprestate, movevano a meraviglia.

Contò Sancio più di sessanta otri, ognuno dei quali capiva in sé più di due barili, e tutti (per quanto poi si vide) erano pieni di vini generosi.

Il pane bianchissimo era a cataste, come suole nelle aie esser a monti il grano; i caci formavano in apparenza altrettante muraglie di ben commessi mattoni; e due caldaie di olio, più vaste di quelle che si usano nelle tintorie, servivano a frigger pastumi, che con due grandissime pale si cavavano cotti, e si tuffavano poi in altra caldaia di miele che stava accanto.

Erano oltre a cinquanta i cuochi, e tutti netti come candidi armellini, tutti diligenti e festosi tutti.

Nel dilatato ventre di un vitello stavano riposti dodici piccioli porchetti che servivano a dargli sapore e tenerezza. Le spezierie di varie sorti non parevano comperate a libbre, ma a botti, e stavano tutte riposte in ampi cassoni. Finalmente l'apparato era bensì rustico, ma così abbondante che avrebbe potuto bastare per un esercito.

Sancio Pancia adocchiava ogni cosa, e a tutto si affezionava. Sulle prime restò imprigionato e vinto dalle pignatte, dalle quali avrebbe di buona voglia staccato un pignattino; la volontà passeggiava poi su que' otri, né era ritenuto rispetto alle paste nelle padelle, se però poteansi chiamar padelle quell'enormi caldaie.

Non potendo più resistere, né stando in lui di fare altrimenti, si accostò ad uno di quei tanti affaccendati cuochi, e con cortesi ed affamate espressioni pregollo che gli concedesse di poter intingere un tozzo di pane in una di quelle pignatte.

Al che il cuoco rispose:

— Fratello, in questo giorno la fame non passeggia da queste bande, grazie al ricco Camaccio; accostatevi pure allegramente, e guardate là che troverete qualche mestola, e schiumatevi pure una gallina o due, che buon pro vi faccia.

— Non ne vedo nemmeno una, rispose Sancio.

— Aspettate, disse il cuoco: oh poveraccio me! che schizzinoso e dappoco uomo che dovete essere!”

E ciò detto, prese una caldaia, e postala in uno di quei mezzi orci, ne cavò due paperi e tre galline, e disse a Sancio:

— Mangiate, amico, e rompete il digiuno con questa schiuma intanto che si fa ora di desinare.

— Non so dove mettere tutta questa roba, soggiunse Sancio.

— E voi portate via, rispose il cuoco, la mestola ed ogni cosa; ché la ricchezza e il contento di Camaccio suppliscono a tutto.”

Nel tempo che Sancio aveva queste occupazioni, stava don Chisciotte guardando da una parte del frascato, dov'egli scoprì intorno a dodici contadini sopra dodici bellissime cavalle con ricchi e sfarzosi fornimenti da campagna e con molti sonagli nei pettorali, tutti vestiti da giorno di festa: e questa truppa si mise a fare non una, ma più carriere su per lo prato, con allegre voci e grida dicendo: “Vivano Camaccio e Chilteria; egli è tanto ricco quanto ella è bella e la più bella del mondo.”

Don Chisciotte ciò udito, disse tra sé:

— Conviene dire che non abbiano costoro veduto mai la mia Dulcinea del Toboso, ché se ciò fosse andrebbono più a rilento nel lodare questa loro Chilteria.

Di lì a poco cominciarono ad entrare per diversi parti del frascato molte bande di danzatori, fra le quali una eravi di schermitori di spade alla moresca, formata da ventiquattro belli e graziosi pastori e vestiti di sottile e candida tela, con asciugatoi lavorati di vari colori di fina seta. Uno di quelli che guidava le cavalle dimandò a certo snello garzone, se fosse rimasto ferito alcuno dei danzatori.

— Nessuno sin ora, quegli rispose, e siamo ancora tutti sani” e subito incominciò ad intrecciarsi con gli altri compagni, con tanti giri e con tanta destrezza che quantunque don Chisciotte fosse avvezzo a veder simili danze, nessuna come quella eragli tanto piaciuta.

Trovò modo sollazzevole un'altra danza fatta tra bellissime donzelle sì giovani da doverle giudicare tra i quattordici e i diciotto anni, vestite tutte di verdi palme, coi capelli parte intrecciati, parte sciolti, ma tutti sì biondi che gareggiar poteano con quelli del sole, e tutti inghirlandati di gelsomini, di rose, di amaranti e di madreselve. Erano guidate da un venerabile vecchio e da attempata matrona, e l'una e l'altro molto più svelti e leggieri di quello che promettesse la loro età. Si servivano per lo suono di una piva zamorana; portando elleno negli occhi l'onestà, e la leggerezza nei piedi, si mostravano danzatrici senza pari.

Venne dopo questa un'altra danza di quelle che soglionsi chiamare danze parlanti. Era formata di otto ninfe in due schiere, una delle quali era diretta dal dio Cupido, e da Interesse l'altra, quegli adorno di ali ed arco e faretra e frecce: questi vestito di varî e ricchi colori d'oro e di seta. Le ninfe che seguitavano Amore, portavano dietro le spalle su bianche pergamene scritto i loro nomi: Poesia era il titolo della prima, Discrezione quello della seconda, quello della terza Buon Lignaggio, quello della quarta Bravura. Nella stessa guisa andavano contrassegnate quelle che seguitavano l'Interesse: dicea Liberalità il titolo della prima, Dono quello della seconda, Tesoro quello della terza, e quello della quarta Pacifico Possesso. Erano preceduti tutti da un castello di legno tirato da quattro Satiri, tutti ricoperti di ellera e di canapa tinta di verde, sì al naturale che per poco non ispaventarono Sancio. In fronte e ai quattro lati del castello stava scritto: Castello di buona guardia; e vi stavano d'intorno quattro valenti suonatori di tamburino e di flauto. Cupido cominciava la danza, e fatte due mutanze, alzava gli occhi e drizzava l'arco contro una donzella che ponevasi tra i merli del castello, ed alla quale egli diceva:

 

“Son io il Nume onnipossente nell'aria, sulla terra, nel profondo del mare, e su tutto quello che l'abisso racchiude in orribili bolge.

“Cosa ignota m'è la paura; e posso tutto quello che io voglio, quand'anche mi venisse talento dell'impossibile. In tutto ciò poi che possibile è, io aggiungo o levo, comando o proibisco.”

 

Terminata la canzoncina egli scoccò una freccia all'alto del castello, e si ritirò al suo posto. Uscì poi Interesse e fece altre due mutanze: tacquero i tamburini, ed egli disse:

 

“Io son colui che posso più dell'Amore; pur è l'amor che mi guida. Io appartengo alla migliore schiatta che il Cielo mantenga sulla terra, alla più nota e più illustre.

“Io son l'Interesse: per me pochi tra gli uomini operano virtuosamente; ed operar senza me sarebbe un gran miracolo: ma qual ch'io sono mi consacro a te, per sempre.”

 

Si ritirò Interesse e si avanzò Poesia, la quale dopo avere danzato a foggia degli altri, posti gli occhi sulla donzella del castello, disse:

 

“In dolcissime parole e in eletti pensieri gravi e spiritosi, la Poesia ti manda, o mia Donna, la sua anima ravvolta in mille sonetti.

“Se la mia servitù non ti spiace, la tua sorte invidiata da molte altre donne sarà portata da me al disopra della luna.”

 

Si appartò Poesia, e dal lato d'Interesse uscì Liberalità, che fatte le sue mutanze, così si espresse:

 

“Chiamasi Liberalità il donare che tiensi usualmente lontano e dalla prodigalità e dall'estremo contrario, ch'è indizio di bassa affezione all'avere.

“Ma d'ora innanzi, per farti grande, voglio essere prodigo anzi che no: è questo un vizio per certo, ma un vizio nobile e proprio di un cuore amoroso che si manifesta coi doni.”

 

Uscirono coll'ordine descritto e ritiraronsi tutte le figure delle due squadre, e ciascheduna fece sue mutanze, e recitò suoi versi, quali eleganti, quali ridicoli, ma don Chisciotte ritenne soltanto nella sua benché grande memoria i già riferiti. Unironsi di poi tutti facendo intrecci fra loro con gentil garbo e lestezza; e passando Amore davanti al castello scoccava all'alto le sue freccie, e Interesse vi lanciava le sue palle dorate. Finalmente dopo lunga danza Interesse cavò di tasca un borsone, fatto della pelle di un gatto d'Angora, e che parea pieno di danari e gettandolo contro al castello coll'urto ne sconnesse le tavole, le quali caddero perciò, e restò la donzella scoperta del tutto e senza difesa. Le si accostò Interesse colle figure della sua fazione, e mettendole al collo una gran catena d'oro, fecero vista di prenderla, di assoggettarla e d'incatenarla: il che veduto da Amore e dai suoi confederati si mossero come per volere levargliela. Ogni azione seguiva al suono di tamburini, ballando e facendo danze regolari. Mossero in fine i Satiri rappacificati, e con somma velocità ricomposero le tavole del castello, la donzella vi si rinserrò di nuovo, e con questo ebbe fine la danza con grande universale contento.

Dimandò don Chisciotte ad una delle ninfe chi fosse stato di quella danza il compositore. Ella gli rispose che fu un benefiziato del suo paese, il quale aveva singolar talento per siffatte invenzioni.

— Sarei per iscommettere, soggiunse don Chisciotte, che questo tal baccelliere o beneficiato porta maggiore affezione a Camaccio che a Basilio, e che dee avere più del satirico che del comico. Egli vi ha innestato con bell'artifizio le virtù di Basilio e le ricchezze di Camaccio.”

Sancio Pancia, che stava ad ascoltare ogni cosa, disse:

— Prendo le parti della ricchezza, e sto con Camaccio.

— In sostanza, disse don Chisciotte, tu fai conoscere, Sancio, che sei un villano, e di quelli che dicono: viva chi vince.

— Sarò quello che si vuole, rispose Sancio, ma intanto io so che dalle pignatte di Basilio non caverò mai spuma tanto saporita come quella che ho cavata da quelle di Camaccio:” e indicando una caldaia piena di paperi e di galline, e togliendone fuori una, cominciò a mandarla giù nello stomaco con bella disinvoltura assaporandola, e borbottando così:

— Alla barba della virtù di Basilio, ché tanto vali quanto tieni, e tanto tieni quanto vali: due schiatte sole vi sono al mondo, diceva mia nonna, e sono l'avere e il non avere; ed ella si atteneva all'avere: ed al dì d'oggi, signor don Chisciotte mio, prima si tocca il polso alla fortuna e poi alla sapienza: un asino d'oro pare meglio di un cavallo con bardatura: sì, torno a dirlo, io sto con Camaccio che ha pignatte piene di schiume di paperi, di galline, di lepri e di conigli, mentre m'immagino che quelle di Basilio non conterranno altro che brodo magro.

— Hai tu finito, Sancio, la tua cicalata? disse don Chisciotte.

— La ho finita pur troppo, rispose Sancio, poiché vedo che la signoria vostra se ne prende fastidio: ché se ciò non fosse, avrei materia di parlare per tre giorni interi.

— Faccia Dio, replicò don Chisciotte, che tu diventi muto prima che la morte mi colga.

— Col tenore di vita che conduciamo, rispose Sancio, prima che vossignoria muoia io sarò ridotto a masticare la sabbia, e così non potrò più parlare sino alla fine del mondo, o sino al dì del giudizio.

— Quand'anche fosse così, replicò don Chisciotte, il tuo silenzio non potrà mai uguagliare le chiacchiere che hai sinora fatte, e fai e farai, e tanto più che per ordine naturale dee terminar prima la mia che la tua vita: ma intanto io sono di opinione di non poterti vedere muto nemmeno quando ti stai bevendo e dormendo, ch'è quanto posso mai dire.

— In verità, rispose Sancio, che non è da fidarsi della Scarnata, voglio dire della Morte, la quale mangia tanto un agnello quanto un castrato; ed ho inteso dire dal nostro curato che con piede eguale essa batte alle torri dei re, come alle umili capanne dei poveretti: questa signora è più possente che schizzinosa, non ha niente a nausea, si pasce di tutto, con tutto si confà ed empie le bisacce di ogni razza di gente, età e preminenze: non è di que' segatori che dormono al meriggio, anzi ad ogni ora sega e taglia tanto la secca come l'erba verde, e non pare già che mastichi, ma sì bene che inghiottisca ciò che le si para davanti, avendo una fame canina di cui mai non si sazia: e quantunque sia priva di ventre pare sempre idropica e sitibonda delle vite di quanti vivono, come se beesse un boccale di acqua fresca.

— Basta, basta, o Sancio, disse don Chisciotte a questo passo: tienti in riputazione, e non ti lasciar cadere, ché certo quello che hai detto intorno alla Morte coi tuoi rustici termini, è quanto di meglio potrebbe dirne un predicatore: ti assicuro, Sancio mio, che se tu avessi tanta discrezione quanto hai talento potresti aspirare ad un pergamo e andartene per lo mondo predicando con riuscita.

— Predica bene chi vive bene rispose Sancio, ed io non so di altre teologie.

— Né d'altra ne hai di bisogno, disse don Chisciotte: io però non posso intendere o concepire come essendo il timor di Dio il principio di ogni sapienza, tu abbia più paura di una lucertola che di Domeneddio.

— Giudichi la signoria vostra, disse Sancio, delle sue cavallerie, né si metta a dare sentenza sui timori o sulle bravure altrui, ché io sono tanto timorato di Dio quanto ogni altro, e mi lasci vossignoria pappare questa schiuma, che del resto sono tutte parole oziose delle quali dovremo dare conto nell'altra vita.”

E detto questo, tornò all'assalto della caldaia con appetito sì grande che svegliò anche quello di don Chisciotte, il quale gli avrebbe fuori di dubbio tenuto buona compagnia se non fosse stato impedito da quello che sarò costretto di far sapere qui appresso.


CAPITOLO XXI

 

PROSEGUONO LE NOZZE DI CAMACCIO CON ALTRI GUSTOSI SUCCESSI.

 

Avevano don Chisciotte e Sancio appena terminato i discorsi riferiti nell'antecedente capitolo quando udirono grandi voci e strepitoso rumore prodotti da quelli delle cavalle, che di carriera e mettendo alte grida, andavano incontro agli sposi; i quali attorniati da mille maniere di strumenti e di festevoli invenzioni venivano accompagnati dal pievano, dal parentado e da tutta la gente più ragguardevole dei paesi circonvicini: e tutti erano vestiti a pompa. Come Sancio vide la bella sposa disse:

— Corpo di bacco, che non è mica vestita da contadina, ma da palazziera raffazzonata! In fé di Dio, che a quanto io discerno, in vece di frange ha dei bei coralli, ed in luogo di palmette verdi di Cuenca, porta velluto di trenta peli: e quella guarnizione è forse di strisce di tela bianca? oibò ch'è propriamente di raso! E dove lasciamo le mani? altro che essere fornite di anella di ghiavazza! vorrei morire se non sono anella d'oro, e molto bene d'oro e intrecciate di perle bianche come giuncata, che ognuna di loro dee valere un occhio della testa. Oh cospetto! che capelli! se non sono posticci posso giurare di non averne veduto mai né di più lunghi, né di più belli, né di più biondi. Che diremo della sua bella vita e del suo portamento? mi pare proprio una palma che si muove carica di ciocche di datteri; e tali sono gli ornamenti che le pendono dai capelli e dalla gola: in somma giuro sull'anima mia ch'è una giovanotta di tanto merito che potrebbe andar per i banchi di Fiandra.”

Queste rustiche lodi di Sancio mossero a riso don Chisciotte, cui dalla sua signora Dulcinea del Toboso in fuori, parve che quella ragazza fosse sopra ogni altra bellissima.

Era Chilteria pallidetta, e ciò sarà stato per causa della faticosa notte che sogliono spendere le spose in riabbellirsi per lo vegnente dì nuziale. Andava ella accostandosi ad un teatro posto da un canto del prato, tutto adorno di tappeti e di frondi, dove seguire doveva lo sposalizio, e di dove gli astanti avrebbero potuto goder delle danze e feste apprestate. Stavano tuttavia in cammino quando dietro di sé udirono alte grida, ed uno che esclamava:

“Alto là, o sconsiderati e precipitosi!”

Questa voce fece sì che ognuno si rivolgesse per udire donde partisse, e videro che proveniva da un uomo vestito, per quanto sembrava, di casacca nera di chermisino con belli gheroni e fiamme. Aveva in testa, come poi si vide, una corona di funebre cipresso, ed in mano un grosso bastone. Avvicinatosi di più fu riconosciuto da ognuno pel vago pastore Basilio, e tutti rimasero allora dolenti e avidi di saper il fine delle sue grida, temendo malaugurata la sua venuta in quella congiuntura.

Arrivò in fine stanco e trangosciato, e postosi dinanzi agli sposi, ficcando il suo bastone, che aveva alla estremità una lunga punta di acciaio, sulla terra, tutto smorto, e affissati gli occhi in Chilteria, con rauca e tremante voce così proruppe:

— Ben ti è palese, sconoscente Chilteria, che conforme alla santa legge da noi professata, vivendo io, tu non puoi farti consorte ad altrui; e tu non ignori che stando io in aspettazione che il tempo e le mie sollecite cure migliorassero la mia sorte, fui sempre il più geloso custode del decoro che ti è dovuto; tu, posto in non cale ciò che devi all'onorato mio desiderio, vuoi fare altri signore di quello che è mio, altri che niun merito ci ha fuorché larghi averi e favori della fortuna. Ora vengo io stesso a metterlo al colmo di tanta sorte non perché ne sia degno, ma perché così vogliono i cieli e colle mie mani distruggerò ciò che solo può turbargliela, dando io stesso termine a questa mia vita infelicissima. Viva dunque il ricco Camaccio lunghi e felici anni coll'ingrata Chilteria, e muoia il misero Basilio cui la povertà ha tarpate le ali di sua ventura e lo ha fatto piombare nel sepolcro.”

Detto questo pigliò il bastone che conficcato era nel terreno, e che parea fatto per nascondere uno stile, e toltane la guaina con gran lentezza e con determinato proposito vi si precipitò sopra, ed in un attimo fece apparire da tergo la punta di una lancia insanguinata, e si vide l'infelice amante bagnato nel suo sangue, e disteso al suolo, trafitto dalle sue proprie armi.

Volarono per soccorrerlo gli amici suoi, mossi a pietà di tanta tragedia, e don Chisciotte ancora vi accorse lasciando Ronzinante. Lo prese fra le braccia, e trovò che non era ancora spirato: voleva trargli allora la lancia, ma il pievano, che pure eravi presente, fu di avviso che ciò non si facesse prima di averlo confessato, perché il cavargliela e lo spirare sarebbe stato tutt'una cosa. Tornando un cotal poco Basilio in sé, con dolente e fievole voce disse:

— Se ti piacesse, crudele Chilteria, darmi in quest'estremo irreparabile frangente la mano di sposa, spererei ancora che la mia temerità avesse discolpa, mentre col solo mezzo di essa avrei ottenuto il bene di essere tuo.”

Il pievano, ciò udito, lo consigliò a pensare alla salute eterna più presto che ai mondani diletti del cuore, e che chiedesse con vero e vivo pentimento perdono a Dio del suo fallo e della sua disperata determinazione.

Replicò Basilio che non si confesserebbe se prima Chilteria non diventasse sua moglie, essendoché quel contento gli disporrebbe la volontà, e gl'infonderebbe vigore.

Subito che don Chisciotte udì la dimanda del ferito disse ad alta voce che Basilio chiedeva cosa molto ragionevole e giusta, e da potersi agevolmente adempiere; e che Camaccio resterebbe tanto onorato ricevendo Chilteria vedova del valente Basilio, quanto se gli venisse dalle mani dello stesso suo padre.

— E basta un sì, soggiunse, che altro non costa che pronunciarlo; poiché il talamo di queste nozze sarà una tomba.”

Aveva udito, ed era stato presente a tutto Camaccio; il quale sbalordito e confuso non sapeva né che dirsi né che fare; ma tante furono le voci degli amici di Basilio che chiedevano il suo consenso perché Chilteria desse a lui la mano di sposa, affinché non andasse a male l'anima sua uscendo egli disperato da questa vita, che lo persuasero e lo sforzarono ancora a dichiarare che se acconsentisse Chilteria ne sarebbe pur egli contento, mentre ciò non era che protrarre di pochi istanti il compimento delle sue brame.

Allora si volsero tutti a Chilteria, e chi con prieghi e chi con lagrime e chi con efficaci ragioni la persuadevano che sposasse Basilio. Essa, più dura di marmo e più immobile di statua, mostrava di non sapere, né potere, né voler risponder parola: né l'avrebbe risposta se il pievano non avesse detto che non v'era luogo ad indugio, che Basilio era agli estremi, e che non dovevasi restar nella irresoluzione.

La bella Chilteria allora senza replicare parola, tutta turbata in viso, triste e dolente accostossi a Basilio; che cogli occhi a lei rivolti e col respiro stentato e affannoso, e borbottando il nome di Chilteria, dava indizio di voler morire come gentile e non come cristiano. Se gli avvicinò finalmente la donzella, e inginocchiatasi gli prese la mano senza pronunziare alcun motto.

Spalancò gli occhi Basilio, ed attentamente guardandola disse:

— Ah Chilteria, tu vieni ad essermi pietosa in un momento che la tua compassione serve di coltello per finire di togliermi la vita; mi mancano le forze per sostenere la gioia che tu mi apporti scegliendomi per tuo sposo, e per raffrenare il dolore che va coprendomi gli occhi colle ombre spaventevoli della morte. Quello di che ti supplico, o funesta mia stella, si è che la mano che mi dimandi, e che ti piace darmi, non sia apparente per compassione o per nuovamente ingannarmi, ma che tu confessi altamente che senza sforzare la tua volontà me la porgi, e la rendi a me come a legittimo sposo; che non è dovere che tu adesso m'inganni o metta in campo finzioni con questo infelice, il quale con lealtà è sempre con te proceduto.”

Nel proferir queste parole si sveniva in modo che gli astanti pensavano che ogni suo movimento fosse per torgli quel piccolo resto di vita. Chilteria tutta onesta e tutta vergognosa, presa colla sua destra quella di Basilio, gli disse:

— Non potrebbe forza del mondo fare violenza alla mia volontà, e così con quella più libera che io ho, ti porgo la mano di sposa, e la tua ricevo se a me la dài di tuo libero arbitrio, e senza che te ne turbi o te ne distolga l'angustia in cui ti ritrovi.

— Sì, te la do, rispose Basilio, non turbato o confuso, ma con quella chiarezza di intelletto che ancora piace al Cielo impartirmi, e qua io mi obbligo per tuo sposo.

— Ed io per tua sposa, replicò Chilteria, o che tu viva per lunghi anni o che ti strappino dalle mie braccia per darti al sepolcro.

— Fa un gran ciarlare quel moribondo, disse allora Sancio Pancia: sarebbe meglio che lasciasse andar l'amore, e che pensasse all'anima sua, mentre, secondo il mio poco giudizio, la tiene piuttosto colla lingua che coi denti.”

Impalmati dunque com'erano Basilio e Chilteria, il pievano intenerito e commosso li benedisse, e impetrò pace dal Cielo all'anima del novello sposo.

Ricevuta ch'egli ebbe appena la benedizione, con presta leggerezza saltò in piedi, e con disinvoltura non prima vista si trasse la lancia alla quale servia di guaina il suo corpo.

Restarono attoniti i circostanti tutti, e alcuni di essi più semplici che curiosi, gridarono: “Miracolo, Miracolo!

Ma Basilio soggiunse: — No miracolo, miracolo, ma industria, industria.

Il pievano fuor di sé, e trasecolato accorse a tastare la ferita con ambe le mani, e trovò che il coltello non avea già perforate la carne e le costole di Basilio, ma che tutto era opera di una canna che riempita di sangue avea molto bene accomodata, preparando il sangue (ciò che da poi si seppe) in modo che non si congelasse.

Allora sì che il pievano, Camaccio e gli astanti si tennero per beffati e derisi. La sposa non mostrò che le dispiacesse la burla; ed avendo udito dire che non era punto valido alcun matrimonio fatto con fraude, disse che di nuovo lo confermava, ciò che fece credere che l'avvenimento fosse seguito di consenso e d'intelligenza di ambedue.

Camaccio e i suoi aderenti ad altro non pensarono che alla vendetta, e sguainando le loro spade si fecero ad assaltare Basilio, in cui favore altrettante se ne trassero fuori. Don Chisciotte allora montò a cavallo, si mise dinanzi a tutti, e si fece far largo con la sua lancia sul braccio e ben coperto del proprio scudo. Sancio, cui giammai andarono a sangue tali bravate, si ritirò accanto alle pignatte, dalle quali tolta avea la gratissima schiuma, pensando che dovesse, quasi sacro, essere rispettato quel luogo.

Ora don Chisciotte sclamò:

— Fermatevi, signori, fermatevi: non è giusto che prendiate vendetta dei torti che ci fa amore; considerate che l'amore e la guerra sono una cosa stessa, e che come è lecito di usar inganni e strattagemmi per vincere il nemico, al modo stesso sono permessi nelle contese e competenze amorose gli intrighi e gli affascinamenti per conseguire il bramato fine, quando però non tornino a disprezzo e a disonore dell'oggetto che si ama. Chilteria era di Basilio e Basilio di Chilteria mercé una giusta e favorevole disposizione del Cielo: Camaccio è ricco, e potrà a suo talento avere quei che gli piaccia come e quando egli voglia: Basilio non ha che quest'agnelletta, e nessuno gliel'ha a togliere per poderoso che sia; ché ciò che Dio congiunge l'uomo non separa; e chi si accingesse a tentarlo avrebbe da passare prima la punta di questa spada.”

Nel proferir questi detti la brandì con sì grande forza e destrezza che terrore infuse in tutti quelli che nol conoscevano: e oltre di che sì intensamente l'artifizio di Chilteria restò fitto nel cuore di Camaccio che la cancellò sul momento dalla sua memoria.

Le persuasive del pievano, ch'era uomo destro e prudente, furono eziandio efficaci cotanto ch'egli e quelli della sua fazione rimasero pacifici e quieti; in prova di che furono rimesse le spade nei foderi, accusandosi più la facilità di Chilteria che l'industria di Basilio. Si persuase Camaccio che se Chilteria donzella portava amore a Basilio, dovea serbaglielo anche divenuta sposa; e ch'egli perciò dovea ringraziare Dio più per avergliela tolta che per avergliela concessa. Racconsolati pertanto e pacificati Camaccio e la sua comitiva, fecero lo stesso quelli dalla parte di Basilio; e il ricco Camaccio per mostrare che non gli pungeva la burla, ed anzi che non se ne curava punto, volle che si proseguisse la festa come s'egli realmente si fosse sposato. Non vi assistettero per altro né Basilio, né la sposa, né i loro seguaci, i quali se ne andarono invece al contado di Basilio: ché anche i poveri virtuosi e discreti hanno chi li segue, onora e difende, come i ricchi hanno chi adula e seconda. Vollero condurre seco per compagno don Chisciotte valutandolo uomo valoroso e di buon pelo nel petto.

Al solo Sancio si rattristò il cuore per trovarsi nella impossibilità di attendere lo splendido desinare e le feste di Camaccio, le quali durarono infino a notte; e perciò mesto e sconsolato seguitò il suo padrone che già marciava colla quadriglia di Basilio. Sancio lasciò le pignatte d'Egitto, sebbene se le portasse scolpite nell'anima; e la già quasi consunta e finita schiuma della caldaia gli teneva presente la felicità del bene che perdeva, ond'è che afflitto e pensieroso, sebbene sfamato, senza smontar dal leardo si tenne sulle pedate di Ronzinante.


CAPITOLO XXII

 

GRANDE AVVENTURA DELLA GROTTA DI MONTÉSINO SITUATA NEL CUORE DELLA MANCIA ALLA QUALE DIEDE IL VALOROSO DON CHISCIOTTE COMPIMENTO FELICE.

 

La gratitudine degli sposi verso don Chisciotte, per essersi mostrato disposto alla difesa della loro causa, fu grande. Mettevano a pari del suo valore il suo ingegno, e riputavanlo un Cid nelle armi ed un Cicerone nella eloquenza. Si rifocillò il galantuomo di Sancio per tre giorni a spese degli sposi, dai quali venne a sapere che non erasi già concertato con la bella Chilteria che Basilio avesse a fintamente ferirsi, ma che fu tutta industria di lui sperando da questa sola il successo che si è veduto: vero è bensì che ebbe a confessare di avere messo a parte del proposto divisamento alcuni amici suoi, perché dessero opportunamente favore alla sua intenzione accreditando l'inganno.

— Non si possono né si debbono chiamare inganni, disse don Chisciotte, quelli che si propongono un virtuoso fine e quello di maritarsi fra persone che si amano è il fine per eccellenza. Deesi per altro considerare, soggiungeva egli, che il nemico più dichiarato di amore si è la fame e la continua necessità: perché l'amore è tutto allegria, gioia e contento e molto più allora che trovasi l'amante in pieno possedimento della cosa amata; contro cui sono giurati avversarî il bisogno e la povertà.” Tuttociò diceva egli con intenzione di persuadere Basilio di darsi ad altri nuovi esercizî, mentre i soliti, benché gli procurassero riputazione, non gli davano danari; e suggerivagli che si studiasse di rendere migliore la sua condizione con mezzi leciti e ingegnosi, dei quali non mancano mai gli uomini di talento ed amanti della fatica. Il povero onorato (se però chi è povero può conseguir onore) possiede una gioia avendo bella consorte; e se tolta gli viene, viene ad un tempo stesso spogliato dell'onore e della vita; la moglie adorna di bellezza e di onore, congiunta ad uomo povero, merita una corona di allori e di palme di vittoria: la beltà sa rendersi schiava la volontà di quanti la vagheggiano, ed è come piacevole zimbello cui si gettano addosso e le aquile reali e gli uccelli di alto volo; ma se alla beltà si aggiugne il bisogno, o se riesce indisciplinabile, la investono allora i corvi, i nibbî e gli altri uccelli rapaci; quella che non cede ai cimenti più pericolosi, si merita a buon diritto di essere chiamata la corona del proprio sposo. Sappiate, o giudizioso Basilio, soggiunse don Chisciotte, che fu parere di non so quale Savio, esservi in tutto il mondo una sola buona moglie, e consigliava ognuno a tenere che quella sola buona fosse la sua propria, poiché così vivrebbe contento: io non sono ammogliato, né finora mi cadde in pensiero di accasarmi, nullostante mi terrei da tanto di saper suggerire ottime regole a chi vuol eleggersi lo stato del matrimonio. Prima di ogni altra cosa lo esorterei ad invaghirsi più della riputazione che della roba, perché la buona moglie non acquista la buona fama col solo carattere della bontà, ma col provare di possederla questa bontà mediante una palese regolare condotta: molto più nuocono all'onore delle donzelle e delle donne le pubbliche irriverenze che le segrete vigliaccherie; se meni a casa tua una buona moglie ti sarà facile il conservarla e il migliorarne anche la bontà; ma se trista te la conduci, troppo ti costerebbe l'emendarla, che non è picciola impresa passare da un estremo all'altro; e non dirò che ciò sia impossibile, ma grandemente difficoltoso.”

Sancio sentiva tutto questo, e diceva tra sé:

— Questo mio padrone, quando io parlo di cose di midollo e di sostanza, suol dirmi che potrei prendere un pulpito in mano e andar predicando bei sermoni per lo mondo; ma io dico di lui che quando comincia a infilzare sentenze e a dare consigli, non solo può prendere un pulpito in mano, ma due per ogni dito, e andarsene per le piazze predicando quello che gli viene alla bocca: venga il malanno a questo cavaliere errante che sa tante cose: io credeva, per l'anima mia, che non fosse valente se non che negli affari della cavalleria, ma non c'è cosa che non la pizzichi, ed in cui non sappia dire la sua.

Andava Sancio tai parole tra sé borbottando, e intanto il suo padrone che se n'era accorto, gli disse:

— Che brontoli tu, Sancio?

— Io non dico niente né brontolo, rispose Sancio, ma andava unicamente dicendo tra me che avrei voluto sentire quello che disse poco fa vossignoria prima che avessi preso moglie, perché direi forse adesso: il bue sciolto bene si leva.

— Tanto malvagia, o Sancio, disse don Chisciotte, è la tua Teresa?

— Non è molto cattiva, rispose Sancio, ma neppure è troppo buona, o almanco non lo è come io vorrei.

— Non fai bene, soggiunse don Chisciotte, a dir male di tua moglie, che in sostanza è la madre dei tuoi figliuoli.

— Noi siamo pagati, rispose Sancio, perché ella ancora dice male di me quando va in collera, e specialmente quando la gelosia le dà martello; ché allora neanche Satanasso la può sopportare.”

Erano già passati tre giorni da che don Chisciotte e lo scudiere dimoravano cogli sposi, dai quali furono serviti e trattati come principi. Chiese don Chisciotte al bravo dottore che gli desse una guida che lo conducesse alla Grotta di Montésino, avendo vivo desiderio di penetrarvi e di vedere cogli occhi propri se vere fossero le meraviglie che di essa erano disseminate per tutti quei contorni. Gli rispose il dottore che gli darebbe a compagno un giovane suo cugino studente e molto affezionato alla lettura dei libri di cavalleria, il quale di assai buona voglia lo condurrebbe alla imboccatura della Grotta istessa, e gl'indicherebbe le lagune di Ruidera famose per tutta la Mancia, o piuttosto per tutta la Spagna. Gli soggiunse che si sarebbe trovato in gustosa conversazione, giacché era un giovane che sapea comporre libri degni di esser dati alle stampe e dedicati ai principi.

Venne finalmente il giovane sopra un'asina pregna, la cui bardella era coperta di dipinta sargia od invoglia.

Sancio sellò Ronzinante, assettò il leardo e fece buona provvista per le bisacce, nel che fu imitato dal giovine che provide riccamente le sue; e raccomandandosi a Dio ed accommiatandosi con buon garbo da tutti, si posero in viaggio prendendo la via verso la famosa Grotta di Montésino. Strada facendo, dimandò don Chisciotte al giovane di che genere e qualità fossero i suoi esercizi, la sua professione, i suoi studî.

Cui rispos'egli essere umanista di professione, e che attendeva a compor libri per darli alle stampe come assai profittevoli e di grato trattenimento alla repubblica; che uno s'intitolava: Quello delle livree, dove, diceva: “Ho dipinte settecento e tre livree coi colori, motti e cifre, donde trarre si possono quelle che occorrono in occasione di feste e di allegrezze dei cavalieri di corte, senza andarle mendicando da chicchessia, né lambiccarsi il cervello per ritrovarle conformi ai rispettivi desiderî, e intenzioni, mentre io do al geloso, allo sdegnato, allo smemorato ed al lontano quelle che loro convengono e le troveranno a dovere. Ho pure un altro libro che voglio intitolare: Metamorfosi, ovvero Ovidio spagnuolo, di nuova e rara invenzione; perché in esso, imitando Ovidio nel giocoso, dipingo chi fu la Giralda di Siviglia e l'Angelo della Maddalena; che cosa si è la Doccia di Vezinguerra di Cordova, quali i Tori di Ghisando, quale la Sierra Morena, le fonti di Leganitte, di Lavopiez in Madrid, senza dimenticarmi di quella del Pidocchio, di quella del Cane dorato e della Priora; e tutto questo con le sue allegorie, metafore e traslazioni che rallegrano, tengono in curiosità ed insegnano a un punto stesso. Un altro libro io tengo, che intitolo: Supplemento a Polidoro Vergilio, che tratta della invenzione delle cose, e che è fornito di vastissima erudizione e studio, mentre io verifico e dichiaro con istile elegante i fatti ommessi da Polidoro. Si dimenticò Polidoro di narrarci chi sia stato il primo colto dal catarro in questo mondo; il primo che abbia trovate le unzioni opportune a guarire dal morbo gallico, ed io ne proferisco la spiegazione pretta e fedele, e la avvaloro con più di venticinque autori. Da tutte le cose dette comprenda la signoria vostra se lodevole si renda il mio lavoro; e se questo tal libro abbia ad arrecar al mondo utilità straordinaria.”

Sancio ch'era stato attento alla narrazione del giovane, gli disse:

— Di grazia, o signore, e così Dio le dia buona mano diritta nella impressione dei suoi libri! mi saprebbe ella dire, che già lo saprà, perché tutti lo sanno, chi sia stato il primo che si abbia grattata la testa? quanto a me, tengo che sia stato il padre Adamo.

— Debb'essere stato lui senz'altro, rispose il giovane, perché non può revocarsi in dubbio, che Adamo non abbia avuta testa e capelli, e passando così la cosa, ed essendo egli il primo uomo vissuto al mondo, sarà avvenuto ch'egli qualche volta si grattasse la testa.

— Così credo ancor io, rispose Sancio; ma dicami ora; chi fu il primo saltatore al mondo?

— In verità, fratello, rispose l'altro, che non so determinarmi a dirvelo se prima non mi apparecchio ad accurate indagini: le farò per altro voltando e rivoltando quei mille volumi che tengo, e vi darò soddisfazione un'altra volta che ci rivedremo, poiché questa non ha da essere l'ultima.

— Oh, signor mio, disse Sancio, non si pigli tanta briga per questo, ché ora mi viene in mente la risposta a dovere alla mia stessa dimanda. Sappia che il primo saltatore del mondo è stato Lucifero quando lo scacciarono o precipitarono dal cielo, poiché allora fece un salto sino agli abissi.

— Hai ragione, amico,” disse il giovane, e don Chisciotte soggiunse:

— Di altri e non tue sono queste proposte e risposte.

— Stia cheto, Sancio rispose, che se io incomincio a dimandare e a rispondere, per fede mia che non la finisco sino a domani; e poi sì per domandare delle sciocchezze che per rispondere degli spropositi non occorrerebbe che mi allontanassi dai miei vicini.

— Hai detto, o Sancio, più di quello che sai, replicò don Chisciotte, mentre tanti si tormentano e si affannano per sapere ed avverare cose, le quali sapute e avverate che le abbiano, non servono poi per niente all'intelletto ed alla memoria.”

Fra questi ed altri giocondi ragionamenti passarono tutta la giornata, e pernottarono in un piccolo villaggio, dove il giovane disse a don Chisciotte, che di là alla Grotta di Montésino non vi erano più di due leghe, e che se si determinava ad entrarvi, era necessario provvedersi di funi per legarsi e calarsi sino alla profondità.

Rispose don Chisciotte che avea stabilito di farlo, dovesse pur anche sprofondarsi fin nell'abisso.

Comperarono allora intorno a cento braccia di corda, e il giorno dopo, alle due della sera, pervennero alla Grotta. La sua imboccatura era spaziosa, ma ingombra di spine, di caprifichi, di pruni e di macchie sì spesse e intralciate che la cuoprivano affatto agli occhi dei passeggeri. Veduta appena, smontarono di cavallo Sancio, il giovane e don Chisciotte, il quale venne dai due altri tosto legato fortemente colle funi. Intanto che lo fasciavano, Sancio, alquanto impaurito gli disse:

— Badi vossignoria a quello che fa, non voglia andarsi a seppellir vivo, né si metta in luogo da essere rinfrescato come i fiaschi di vino che si calano in pozzo; non tocca vossignoria di essere il curioso e di andare ad investigare questa che sarà peggio di spelonca.  — Cingi e taci, rispose don Chisciotte, che a me unicamente è riservata un'impresa tanto strepitosa come la presente.”

Soggiunse allora la guida:

— Prego vossignoria, signor don Chisciotte, di esaminare e speculare con cent'occhi quello che là dentro si rinserra, poiché se saranno cose importanti io potrò metterle nel libro delle mie trasmutazioni.

— Eh il cembalo sta in mano di chi lo sa suonare,” replicò Sancio Pancia.

Ciò detto, e terminata la legatura di don Chisciotte (che non fu sopra la rotella, ma sopra il giubbone e l'armatura), diss'egli:

— Siamo stati ben poco accorti nel non provvederci di un campanello da legarsi vicino a me con questa fune medesima: dal suo suono si sarebbe saputo se io tuttavia andassi calando, e se tuttavia fossi vivo; ma poiché adesso non v'è più tempo, Dio sia quello che mi accompagni e mi guidi.”

E qui postosi ginocchione fece con voce bassa un priego al Cielo, chiedendo aiuto e fortunato successo in quella, che avea aspetto di pericolosa e nuova avventura. Disse poi ad alta voce:

— O signora delle mie azioni e dei miei movimenti, o chiarissima e senza pari Dulcinea del Toboso, se possibile fia che ti giungano all'orecchio gli scongiuri e i voti di questo tuo venturoso amante, ti prego per tua inaudita bellezza di udirli, poiché ad altro non mirano fuorché a supplicarti che tu non mi nieghi il tuo favore ed il tuo aiuto ora che ne ho grande bisogno. Vado a precipitarmi, ad impozzarmi, a piombare, a sprofondarmi nell'abisso che mi si para dinanzi, solo perché si conosca dal mondo che se tu mi dai assistenza, non mi sarà più ripugnante l'accingermi a qualsiasi impresa, né impossibile il felicemente compirla.”

E detto questo, appressatosi alla imboccatura, conobbe non essere possibile il calarvisi, né farsi luogo all'ingresso, se non usando molta fatica di braccia e infiniti colpi di spada. Trasse tosto la sua e cominciò a tagliare e sgombrare di quei cespugli che alla bocca della Grotta erano d'inciampo; e in forza dello strepito e del fracasso uscì una quantità prodigiosa di corvi e di gracci, e con tanta furia che lo fecero stramazzare.

S'egli fosse stato uomo tanto osservatore degli augurî come lo era della fede cattolica, avrebbe ciò tenuto per tristo presagio, e non avrebbe più pensato a cacciarsi in quell'antro; ma rizzatosi e vedendo che più non uscivano corvi, né altri uccelli notturni, come sono pipistrelli e nottole ed altri simili, il giovane e Sancio cominciarono a dargli fune, e lo calarono al fondo della spaventosa caverna.

All'entrarvi, Sancio gli diede la sua benedizione e gli fece sopra mille croci, dicendogli:

— Dio ti faccia la strada, e la Rocca di Francia e la Trinità di Gaeta, o fiore di latte, o schiuma degli erranti cavalieri! vattene pur là, bravazzo del mondo, cuore d'acciaio, braccio di bronzo: Dio ti faccia strada e ti riconduca libero, sano e salvo, e senza macchia alla luce di questa vita che ora abbandoni per seppellirti volontario in tanta oscurità!”

Fece il giovane quasi le stesse preghiere e voti. Don Chisciotte andava gridando che gli dessero fune e fune ancora, ed eglino gliela davano a poco a poco; e quando più non si udirono le voci che uscivano volteggianti per la Grotta, già avevano essi calate le cento braccia di fune. Non avendone di più giudicarono di tirare in su don Chisciotte. Rimasero là perplessi per mezz'ora, dopo di che cominciarono a ritrarre sì facilmente e senz'alcun peso la fune, che immaginaronsi che don Chisciotte non vi fosse più attaccato.

Sancio Pancia, pensando in effetto che così avvenuto fosse, piangeva dirottamente, e aiutava a tirare in su la fune con affannosa premura per disingannarsi; ma giunti presso alle ottanta braccia sentirono allora soltanto un peso che loro diede improvvisa consolazione. Finalmente scoprirono distintamente don Chisciotte, cui Sancio die' voce, dicendogli:

— Sia vossignoria il ben tornato, o signor mio; oh noi credevamo ch'ella volesse restare là dentro per semente.”

Don Chisciotte non rispondea parola, e quando lo ebbero tratto fuori, videro che tenea gli occhi chiusi quasiché se ne stesse dormendo. Lo distesero in terra, lo slegarono, ma non dava tuttavia segno di svegliarsi: tanto però lo voltarono e rivoltarono, scossero e dimenarono, che dopo qualche spazio di tempo tornò in sé; fregandosi gli occhi stirandosi tutto, come chi da grave e profondo sonno si desta: e portando gli sguardi dall'una parte e dall'altra, qual uomo spaventato, proruppe:

— Dio ve lo perdoni, amici, che tolto mi avete dalla più deliziosa e gradevole apparizione che uomo di questo mondo abbia veduto mai. Ora sì che finisco di persuadermi che le allegrezze tutte di questa vita si dileguano come ombra e come sogno, e appassiscono come fiore nel prato. O sventurato Montésino o mal ferito Durandarte! o miseranda Belerma! o piangente Guadiana! o voi tutte sfortunate figlie di Ruidera che mostrate nelle vostre acque le copiose lagrime che piovvero dai vostri begli occhi!”

Stavano Sancio ed il giovane ascoltando attentissimi le parole di don Chisciotte, il quale le proferiva con tanta forza come se uscite fossero dalle sue viscere dopo il più tormentoso e inesplicabile affanno. Lo pregarono che spiegasse i suoi detti, e che desse conto di ciò che in quell'inferno avea veduto.

— Inferno lo chiamate? disse don Chisciotte: voi gli date tal nome perché non lo avete veduto.

Dimandò poi qualche cosa da mangiare, giacché avea grandissima fame, e gli distesero la invoglia del compagno sopra la fresca erbetta; trassero quanto occorreva dalle bisacce, e seduti tutti e tre in santa pace e compagnia merendarono e cenarono ad un tempo. Sparecchiata la invoglia, disse don Chisciotte della Mancia:

— Nessuno si alzi, ed ascoltatemi, figliuoli miei, tutti attenti.”


CAPITOLO XXIII

 

MARAVIGLIOSE COSE VEDUTE DAL CELEBRATISSIMO DON CHISCIOTTE NELLA PROFONDA GROTTA DI MONTESINO E DA LUI RACCONTATE, LA CUI GRANDEZZA E IMPOSSIBILITÀ VA A STABILIRE PER APOCRIFA LA PRESENTE VENTURA.

 

Il sole verso le quattro della sera velato da nubi, con iscarsa luce e con temperati raggi diè agio a don Chisciotte che senza caldo e molestia potesse accingersi a raccontare ai due suoi illustri uditori ciò che veduto aveva nella Grotta di Montésino; e cominciò nella seguente maniera:

“Dodici a quattordici stadi all'incirca, sotto la profondità di questa spelonca, evvi a mano diritta una cavità ed uno spazio atto a contener un gran carro colle sue mule, dove entra piccola luce da certe fessure e pertugi che da lungi vi corrispondono, e che hanno origine dalla superficie della terra. Questa cavità o spazio vid'io quando trovandomi stanco e disgustato dello stare pendente ed attaccato a quella fune camminai per quella oscura regione senza avere direzione alcuna sicura e determinata; e mi persuasi allora di fermarmi e di riposare un poco. Gridai e dissi che non si calasse più fune senz'altro mio avviso; ma credo che voi non mi abbiate udito. Attesi allora a raccorre la fune che stavate calando, facendo di essa una ciambella, e mi vi sedetti sopra pensoso e in dubbio del come appigliarmi per calare sino al fondo, non avendo chi mi sostenesse. D'improvviso e a mio malgrado fui colto da profondissimo sonno, e senza che io ne sappia né l'istante né il come, mi risvegliai trovandomi nel mezzo del più bello, ameno e dilettevole prato che mai formasse natura ovvero creasse la più fervida umana immaginazione. Apersi, ravvivai, stropicciai gli occhi, e mi accorsi che io non dormiva altrimenti; ma ch'ero svegliatissimo: con tutto ciò volli tastarmi e il petto e la testa per accertarmi ch'io era veramente io, e non qualche vana e contraffatta fantasima. Il tatto, il sentimento, il concorde discorso che facea tra me e me tutto m'assicurò ch'ero in effetto io medesimo, e quel medesimo che ora qui vedete. Allora mi si offerse alla vista sontuoso e reale palagio, o castello, le cui pareti sembravano fabbricate di trasparente e lucido cristallo: apertesi due grandi porte dello stesso, vidi che uscia, ed avviavasi alla mia volta un venerabile vecchio, vestito con cappuccio di rovescio pavonazzo che strascinava a terra, con manto da collegiale togato, e tutto di raso verde che gli cingeva gli omeri e il petto, colla testa coperta da berettino alla milanese nero, e con barba bianchissima che gli arrivava fin sotto alla cintura. Nessun'arme portava, ma teneva un rosario in mano coll'avemmarie più grosse che noci ordinarie, e le poste del rosario erano come mezzane ova di struzzo. Il contegno, il passo, la gravità, la maestosissima presenza sua ed ogni altra cosa che in lui ebbi campo di considerare mi tennero maravigliato e fuori di me. Mi si avvicinò, ed il primo suo movimento fu di strettamente abbracciarmi, e poi dirmi:

— È molto tempo, o valoroso cavaliere don Chisciotte della Mancia, che noi, i quali tra queste solitudini stiamo incantati, attendiamo di vederti, affinché avesse notizia il mondo per mezzo tuo di ciò che rinserra e copre la profonda grotta per dove entrasti, chiamata la grotta di Montésino; grotta visitata per la prima volta dal tuo invincibile cuore e dal maraviglioso tuo braccio. Seguimi adesso, signore preclarissimo, che voglio mostrarti le stupende cose che si celano in questo trasparente castello, di cui io sono il custode e la perpetua guardia maggiore, essendo io quel Montésino medesimo da cui prende il nome questo luogo.”

Appena mi ebbe detto ch'egli era Montésino stesso, ch'io gli chiesi se fosse verità ciò che nel mondo di qua raccontavasi, cioè di aver egli cavato dal mezzo del petto con picciola daga il cuore del suo amico Durandarte, e poi inviatolo alla signora Belerma, come quegli comandò e volle al punto del suo morire. Risposemi che tutto era verità, ad eccezione della daga, la quale non fu daga veramente né picciola né grande, ma sì bene pugnale scannellato, più acuto di una lesina.

— Sarà stato, soggiunse allora Sancio, un pugnale di Ramon di Ozes il sivigliano.

— Non lo so, continuò a dire don Chisciotte; ma non può essere di questo venditore di pugnali, perché quello di Ramon di Ozes è moderno, e l'altro di Roncisvalle, ove accadde questo infortunio, conta infinito numero di anni: ma già la verità e il testo di questa istoria non può essere gran fatto alterato dalla verificazione di cotal circostanza.

— Così è per lo appunto, soggiunse il giovane; e prosegua la signoria vostra, signor don Chisciotte, che io sto ad ascoltarla con grandissima soddisfazione.

— Né con minore io farò il mio racconto rispose don Chisciotte; e perciò dico che il venerabile Montésino m'introdusse nel cristallino palazzo, dove in una sala terrena, freschissima soprammodo e tutta di alabastro giaceva un marmoreo sepolcro con somma maestria fabbricato; sopra il quale vidi un cavaliero disteso quanto era lungo, e non già di bronzo o di marmo, né formato di diaspro alla foggia di quelli che scorgonsi nei sepolcri di costassù, ma di vera carne e di vere ossa. Teneva la destra mano, che mi parve un po' pelosa (segno di sua gran forza) posta sul lato del cuore, e prima che io facessi a Montésino richiesta alcuna, vedendomi egli attonito a guardar quello del sepolcro, mi disse:

— Questo è l'amico mio Durandarte, fiore e specchio dei cavalieri innamorati e valorosi del tempo suo; il quale (come lo sono io e molti altri) resta qua incantato per opera di Merlino, di quel francese maliardo che dicono essere stato il figliuolo del demonio, ma che per mio avviso non fu già figliuolo del demonio, ma più del demonio saputo di un punto, come suol dirsi. Ognuno ignora la ragione del nostro incantesimo, ma si saprà bene col volger degli anni, che non dovrebbero essere ancora molti per quanto vo immaginando. Quello poi di cui stupirete si è, ch'io sono così certo come adesso che voi siete qui, che Durandarte pose fine ai suoi giorni fra le mie braccia, e che dopo la sua morte io gli cavai colle proprie mani il cuore; il quale, senza esagerare, pesar doveva due libbre: e voi avrete già inteso dai naturalisti che chi ha il cuore di mole grande è dotato di maggiore bravura di chi lo ha piccino.

— Passando la cosa dunque in tal modo, ed essendo vero che realmente morì questo cavaliere, come fa egli, io replicai, a dolersi ed a sospirare di tanto in tanto come se fosse ancor vivo?

Proferite appena tali parole il misero Durandarte sclamò: “O mio cugino Montésino, l'ultima mia preghiera fu che dopo la mia morte tu portassi il mio cuore a Belerma traendolo dal mio petto con un pugnale o con una daga.” Udito, questo, il venerabile Montésino si mise tosto ginocchioni dinanzi al dolente cavaliere, e così proruppe, spartendo un mare di lagrime:

— Già, signor Durandarte, carissimo cugino mio, già eseguito ho il comando che mi avete dato nel malaugurato giorno della vostra perdita. Io vi trassi il cuore nel miglior modo che per me si è potuto, senza che ve ne restasse la più picciola parte nel petto; l'ho ripulito io stesso con molta diligenza adoperando un fazzoletto fornito di merli di punto, e me ne andai con esso di carriera verso la Francia, avendovi prima posto in seno alla terra e sepolto con tante lagrime che bastarono a lavarmi le mani ed a mondarmi del sangue che le bruttava per avere maneggiato le vostre viscere. Per più indubitati contrassegni, o cugino dell'anima mia, sappiate che nel primo luogo in cui mi avvenni uscendo di Roncisvalle, posi un po' di sale su questo vostro cuore, affinché non putisse, e si conservasse se non fresco, almeno non stantìo alla presenza della signora Belerma. Questa vostra diva e voi e me e Guadiana vostro scudiere e la matrona Ruidera e le sue sette figlie e nipoti e molti altri vostri conoscenti siamo qui, come sapete, tutti da tanti anni incantati dal mago Merlino: e benché ne siano già passati da cinquecento, pure non è tuttavia morto alcuno di noi, e mancano soltanto Ruidera e le sue figlie e i nipoti. Ora saprete che queste piangendo, per compassione ch'ebbe Merlino di loro, sono adesso convertite in altrettante lagune, che al mondo dei viventi e nelle provincie della Mancia si chiamano tuttavia le Lagune di Ruidera: le sette sono dei re di Spagna, e le due nipoti dei cavalieri di un ordine santissimo, detto l'Ordine di san Giovanni: anche Guadiana vostro scudiero, piangendo egli ancora la fatalità vostra fu tramutato in un fiume che porta il suo medesimo nome; e questo quando giunse alla superficie della terra e vide il sole dell'altro cielo ebbe tanto affanno in lasciarvi che si sommerse nelle viscere della terra: ma siccome non lascerebbe giammai di seguitare la naturale sua corrente, di tanto in tanto esce e sormonta per essere veduto dal sole e dalle genti. Gli somministrano le loro acque le riferite lagune, in grazia delle quali e di altre molte che se gli aggiungono, entra in Portogallo pomposo e grande: ma ad onta di tutto questo, ovunque egli percorre mostra la tristezza e la malinconia che lo ingombra, né si pregia di alimentare nelle sue onde pesci squisiti e singolari, ma lucci sciocchi ed insipidi e diversi totalmente da quelli del Tago dorato. Quello che ora vi dico, cugino mio, molte volte vel ripetei, ma non avendo da voi mai avuta risposta mi vo figurando che non mi prestiate fede o non mi udiate; di che se io porti viva amarezza nell'animo sallo Iddio! Ora vi aggiungerò altre novelle che se non potranno alleggerire il vostro dolore, non lo accresceranno almeno. Sappiate che sta qui presente al cospetto vostro (aprite gli occhi e 'l vedrete) quel gran cavaliere di cui tante cose ha profetizzato il mago Merlino, quel don Chisciotte della Mancia, il quale io so che di nuovo e con molto maggior eccellenza che nei passati secoli ha risuscitato al presente la già obbliata errante cavalleria. Potrebbe avvenire che per suo mezzo e per il suo favore noi fossimo tratti d'incantesimo, da che le grandi imprese ai grandi uomini soltanto son riserbate

E quando ciò non segua, rispose l'incantanto Durandarte con bassa e fioca voce, quando altrimenti succeda, o cugino mio, bisognerà aver sofferenza e batter le carte.

Voltosi allora ad un altro lato tornò all'usato silenzio, né proferì più sillaba alcuna. Grandi ululati e compianti, accompagnati da profondi gemiti e da angosciosi singhiozzi eccheggiarono in quel punto per tutta la Grotta, ed io voltai la testa, e vidi attraverso le cristalline pareti, come per altra sala passava maestosa processione di due fila di bellissime donzelle, tutte vestite a lutto e con turbanti bianchi in testa alla foggia turchesca. A capo di quelle due schiere veniva illustre donna; ché tale rassembrava al portamento vestita pur essa di bruno, con veli bianchi sì distesi e lunghi che si trascinavano sul suolo. Il turbante che ella portava era due volte maggiore del più grande di tutti gli altri; aveva le ciglia incrocicchiate, il naso un po' infranto, grande la bocca, ma rosse le labbra, e i denti che talvolta scopriva mostravano di essere radi e non bene commessi, tuttoché bianchi come lisce mandorle. Teneva in mano un sottil fazzoletto, entro cui, per quanto si poté scorgere, stava un cuore di carne mummificato; tanto era secco e annerito! Montésino mi disse che tutta la gente che componeva quella processione erano serventi di Durandarte e di Belerma, le quali ivi coi due loro padroni stavano incantate come tutti gli altri; e che l'ultima, la portatrice del cuore nel fazzoletto, era la signora Belerma, che per quattro giorni di ogni settimana colle sue donzelle faceva quella processione, cantando o per meglio dire, piangendo versi di mestizia sulla spoglia e sul compassionevole cuore del suo cugino. Mi avvertì ancora che se a me fosse apparsa un po' brutta, o non così bella come ne correva il grido, se ne doveano incolpare le triste notti e i dì peggiori ch'ella passava in quell'incantamento, come lo dimostravano le sue grandi occhiaie e il suo colore gialliccio. Se l'affanno del suo cuore, mi disse, che sempre le ricorda la fatal perdita del suo amante nel fiore degli anni, non la amareggiasse, l'agguaglierebbe appena in bellezza, in grazia e in bel garbo la grande Dulcinea del Toboso, sì celebrata per tutti questi contorni ed anche per tutto il mondo.

— Adagio un poco, allora diss'io, signor don Montésino: proceda vossignoria nel racconto della sua istoria com'è di dovere, ché odioso è sempre qualunque paragone, e non si dee mettere a confronto questa con quella. La senza pari Dulcinea del Toboso è quello che è, e la signora Belerma è chi è e chi è stata; e basti così. Al che mi rispos'egli: Signor don Chisciotte, perdonimi, vossignoria, ché confesso di essere caduto in errore, e ho detto male nell'asserire che la signora Dulcinea sarebbesi appena pareggiata alla signora Belerma, perché avendo scoperto in voi il suo cavaliere avrei dovuto mordermi la lingua prima di porla a confronto con altri che col cielo. La soddisfazione ch'io ebbi dal gran Montésino mise tranquillità nel mio cuore ch'era molto turbato per quell'odiato confronto della mia signora colla signora Belerma.”

— E ancor io mi meraviglio, disse allora Sancio, che vossignoria non siasi scagliato contro il vecchiaccio, e non gli abbia fracassate le ossa e strappati tutti i peli della barba senza lasciargliene pur uno.

— No, amico Sancio, rispose don Chisciotte, non mi conveniva far questo, correndo obbligo a tutti di rispettare i vecchi quantunque non sieno cavalieri, e quelli segnatamente che sono incantati: e posso assicurarti che nulla vi fu di che dire nei successivi ragionamenti occorsi fra noi.”

Disse a questo passo il giovane: — Non so capire, signor don Chisciotte, come vossignoria nel breve spazio di tempo che stette laggiù, abbia tante cose vedute, né come possono essere corse tante proposte e risposte.

— Quanto è che io vi calai? domandò don Chisciotte.

— Poco più di un'ora, rispose Sancio.

— Ciò non può essere, replicò don Chisciotte, perché in quel soggiorno mi colse la notte, tornò la mattina, fece notte un'altra volta, e tre altre volte mattina, di guisa che, secondo il mio conto, per tre giorni sono rimasto in quelle remote parti, e me ne stetti nascosto alla vista del mondo.

— Il mio padrone deve dire la verità, soggiunse Sancio; ché siccome le cose accadute sono tutte per incantesimo, chi sa che quello che a noi pare un'ora, non debba parere agli altri tre giorni colle loro notti.

— Sarà così, rispose don Chisciotte.

— E vossignoria, signor mio, soggiunse il giovane, non ha mangiato mai in questo corso di tempo?

— Non ho rotto il digiuno nemmeno con un solo boccone, rispose don Chisciotte, né manco ho avuto fame e neppure animo a questo.

— E gli incantati mangiano essi? dimandò il giovane.

— Né mangiano, rispose don Chisciotte, né servono ad altre necessità, tuttoché siavi opinione che crescano loro le ugne, la barba e i capelli.

— E dormono almanco gl'incantati? dimandò Sancio.

— Guardi Dio, rispose don Chisciotte: e certamente che nei tre giorni che siamo insieme vissuti laggiù nessuno chiuse mai occhio.

— Oh adesso quadra bene il proverbio, soggiunse Sancio: dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. Se vossignoria va colla gente incantata che non mangia e non dorme, è egli poi gran miracolo se sta digiuno e vigilante quando convive con loro? Oh mi perdoni la signoria vostra, signore e padron mio, ma io protesto, che Dio mi porti (e poco è mancato che non dicessi il diavolo) di non creder niente affatto di tutte le imposture che vossignoria ha raccontate sino a questo momento.

— Come no? disse il giovane. Mentirebbe egli il signor don Chisciotte? anche volendolo, non avrebbe avuto campo di comporre ed immaginare questo milione di menzogne.

— Io non intendo mica di voler dire che il mio padrone s'inventi menzogne, rispose Sancio.

— Ma che credi tu dunque? lo interruppe don Chisciotte.

— Credo, replicò Sancio, che quel Merlino e quegl'incantatori che incantarono tutta quella ciurmaglia che dice vostra signoria di aver veduto laggiù, e con cui asserisce di aver confabulato, abbiano messo nella stravolta sua fantasia tutta questa macchina a noi raccontata, e quella che resta ancora da udire.

— Questa è cosa che potrebb'essere; ma pur non è, o Sancio, replicò don Chisciotte, avendo io veduto con questi occhi e toccato con queste mani quanto ho qui raccontato. Ma che sarai tu per soggiugnere, quando io ti assicurerò che fra le altre infinite e stupende cose mostratemi da Montésino (che già fra qualche tempo ed opportunamente durante il nostro viaggio ti andrò raccontando) mi fec'egli vedere tre contadine che per quelle amenissime campagne andavano saltando e dimenando le gambe come capre, e che non l'ebbi scoperte appena che conobbi essere una di esse la senza pari Dulcinea del Toboso, e le altre due quelle contadine medesime che a lei si accompagnavano e che noi trovammo all'uscire dal Toboso? Domandai a Montésino se le conosceva, e mi rispos'egli che no, ma figuravasi che fossero signore incantate, di molta nascita e distinzione, e diceva che da poco tempo soltanto erano comparse in quei prati. Aggiunse che non mi maravigliassi di questo, mentre quivi trovavansi molte altre matrone principalissime dei passati e presenti secoli, incantate in differenti e strane figure, fra le quali egli conosceva la regina Ginevra e la matrona Chintagnona, colei che mesceva il vino a Lancilotto, come dice il romanzo, allora che tornò di Brettagna.”

Quando sentì Sancio dirsi questo dal suo padrone, fu per perdere il senno o per iscoppiare dalle risa, come quegli che ben sapeva il supposto incanto di Dulcinea, della quale era stato egli stesso l'incantatore e l'autore della falsità. Allora terminò di convincersi che il suo padrone perduto il giudizio, era diventato pazzo dichiarato, e quindi gli disse:

— In mala congiuntura, in pessima occasione e in giorno di mal augurio calò vossignoria, mio caro padrone, all'altro mondo, e s'incontrò in mal punto col signor Montésino che l'ha concio in questa maniera. Ella stava in questo mondo fra noi col suo buon giudizio, tal quale glielo concesse Domeneddio, sputando sentenze e dando ad ogni poco consigli, ma adesso ci va infilzando spropositi che non sono credibili né immaginabili.

— Siccome io ti conosco, o Sancio, rispose don Chisciotte, così non fo alcun conto delle tue parole.

— Né io tampoco di quelle di vossignoria, replicò Sancio; e mi ferisca pure o mi ammazzi per quelle che ho dette, o per quelle che penso di dire, ma è certo che ella ha bisogno di convertirsi e di ravvedersi. E poi dicami vossignoria, ora che siamo in pace: come e con quali contrassegni conobbe ella la signora Dulcinea nostra padrona? E se le ha parlato, che disse e che le rispose?

— Io l'ho conosciuta dal vestito, rispose don Chisciotte, ch'era quello medesimo che portava quando tu me l'hai fatta vedere; le ho parlato, ma non mi rispose sillaba, anzi mi voltò le spalle, e si mise a fuggire con tanta velocità che non l'avrebbe raggiunta una freccia. Volli seguitarla, e fatto lo avrei se Montésino non me ne avesse sconsigliato, sì perché vano sarebbe riuscito ogni mio sforzo ad arrivarla, sì perché si avvicinava il momento ch'io dovea uscire della grotta. Mi disse pure che coll'andare del tempo mi avrebbe reso avvertito del modo con cui dovessero essere disincantati egli, Belerma, Durandarte e gli altri tutti che quivi stavano. Ciò per altro che mi diede maggior fastidio tra le tante cose da me vedute e notate, si fu che facendo questo discorso con Montésino, si avvicinò a me da un lato, e senza ch'io mi accorgessi della sua venuta, una delle due compagne della sventurata Dulcinea, e cogli occhi pieni di lagrime, tutta conturbata, e con bassa voce così si espresse: La mia signora Dulcinea del Toboso bacia le mani a vossignoria, e la supplica istantemente di darle avviso come vossignoria sta; e per ritrovarsi in gran bisogno la supplica ancora di volerle prestare sopra questo gammurino di bambagina nuova, che ho qui, una mezza dozzina di reali, o quello che vossignoria si trovasse avere, ch'ella le dà parola di renderglieli al più presto che potrà. Questa ambasciata mi fece restare sospeso ed attonito e voltomi al signor Montésino gli dissi: È egli possibile signor Montésino, che gli incantati di alto grado soffrano de' bisogni? E mi rispos'egli: Credami la signoria vostra, signor don Chisciotte della Mancia, che quello ch'è chiamato bisogno si trova in ogni parte e da per tutto si estende, e arriva a tutti, né la perdona agli incantati medesimi. Poiché dunque la signora Dulcinea del Toboso manda a chiederle questi sei reali, e il pegno (per quanto pare) è buono, non vi è che darglieli senza pensar ad altro; ché senza dubbio dee ella trovarsi in molto grandi strettezze. Non mi toglierò io già 'l pegno, gli risposi, né le darò ciò che chiede, non avendo meco che soli quattro reali (e furono quelli che tu Sancio, mi hai dato l'altro giorno per fare limosina a' poverelli che si trovavano per le strade), e allora dissi: Amica mia, fate sapere alla vostra che mi dolgono sino al cuore le sue angustie, dalle quali se fossi uomo ricco vorrei liberarla; ditele inoltre che non saprei né potrei godere della salute se restassi privo della deliziosa sua vista e della sua savia conversazione, e che la supplico quanto posso vivamente, che piaccia a sua signoria di lasciarsi vedere e trattenere da questo suo prigioniero servidore e angustiato cavaliere; le direte pur anche che quando meno se lo penserà, sentirà dire ch'io feci giuramento e voto, allo stesso modo di quello che fu fatto dal marchese di Mantova, il quale per vendicar suo nipote Baldovino quando lo trovò spirante in mezzo a quella montagna, non volle mangiare a tavola apparecchiata, con le altre circostanze occorrenti fino alla vendetta. Così farò anch'io e protesto di non posar mai e di scorrere le sette parti del mondo con esattezza maggiore della usata dall'infante don Pietro di Portogallo, e ciò fino al punto in cui mi sarà riuscito di trarla d'incanto. Tutto questo e più ancora è vossignoria in obbligo di fare per la mia padrona, mi disse la donzella; e presisi i quattro reali, in luogo di lasciarmi con una riverenza fece una capriola con cui balzò in aria per due braccia e volò via.

— Buon Dio! buon Dio! sclamò Sancio, è egli dunque possibile che sienvi tali cose al mondo di là, e che abbiano tanta forza gl'incantatori e gl'incantesimi da condurre il mio padrone a perdere affatto il giudizio e a dare in sì spropositate pazzie? Ah signore, signore, io la prego e la scongiuro di stare meglio sopra se stesso, e di tornare in sé per lo suo proprio decoro, e di non credere a tante balordaggini che le hanno affatto guasto e scemo il cervello.

— Tu parli, o Sancio, a tal modo, disse don Chisciotte, perché mi ami, e perché non hai sperienza degli affari del mondo: tutte le cose che si presentano a te come difficili, ti sembrano impossibili, ma tempo verrà, come ti ho già detto, che t'informerò delle maraviglie da me viste laggiù, ed esse ti condurranno a prestar fede a quelle che ti ho raccontato, la cui verità non può ammettere replica od opposizione.”


CAPITOLO XXIV

 

SI RACCONTANO MILLE CHIAPPOLERIE TANTO APPARTENENTI QUANTO NECESSARIE A BEN INTENDERE QUESTA GRANDE ISTORIA.

 

Colui che tradusse questa grande istoria dall'originale in cui fu scritta dal primo suo autore Cide Hamet Ben-Engeli, dichiara che pervenuto al capitolo della ventura della grotta di Montésino, trovò scritte al margine, di mano dello stesso Cide Hamete, le seguenti parole:

“Non mi so dare a credere, né posso persuadermi che sia avvenuto al valoroso don Chisciotte quanto parola per parola sta scritto nell'antecedente capitolo. E dico questo perché le avventure prima di adesso riportate hanno del verisimile, e possono essergli accadute; ma questa della grotta, senza verun carattere di verità, esce da ogni confine del ragionevole. Pure non può supporsi che abbia mentito un cittadino sì veritiero e un cavaliere il più eroico de' tempi suoi come fu don Chisciotte, che non avrebbe detto una bugia se lo avessero saettato. Considero ancora che ne fece il racconto egli stesso, e che lo espose colle più minute già riferite circostanze, né poté certamente in uno spazio di tempo sì breve fabbricare così grande macchina di spropositi. In ogni modo se sembrasse apocrifa quest'avventura, non è mia colpa, e quindi o vera o falsa che sia, io la scrivo, e tu, o lettore, giudica colla prudenza tua quello che te ne pare, che altro non mi resta da soggiungere.”

Si vuole avvertire che al punto della sua morte, alcuno creda che siasi la storico ritrattato, e detto abbia che fu da esso lui inventata sembrandogli analoga e nicchiata bene tra le avventure che aveva lette nelle sue istorie.

Intanto egli proseguì dicendo:

Fu meravigliato il giovane sì della tememerità di Sancio come della sofferenza del suo padrone, e giudicò che la gioia di avere veduta la signora Dulcinea del Toboso, tuttoché incantata, renduto lo avesse sì tollerante come mostrava di essere. Se ciò non fosse stato, le parole e le ingiurie che dette gli aveva Sancio, gli avrebbero meritato un centinaio di bastonate; perché realmente ecceduto aveva nella sua audacia. Continuò a dire il giovane:

— Io signor don Chisciotte della Mancia, ho per bene impiegata la giornata passata con lei, avendo guadagnato quattro cose. La prima di avere conosciuto meglio vossignoria: il che ascrivo a mia grande felicità. La seconda di aver saputo che cosa si rinchiuda nella grotta di Montésino con le metamorfosi di Guadiana e delle Lagune di Ruidera, che mi saranno utili per l'Ovidio spagnuolo che sto componendo. La terza d'intendere l'antichità delle carte, le quali dovettero usarsi al tempo dell'imperatore Carlomagno per lo meno, per quanto si può raccogliere dalle parole che fa credere vossignoria di avere udite da Durandarte, quando dopo quello spazio di tempo in che s'intervenne con Montésino, egli si svegliò e disse: Pazienza e battiamo le carte: modo di esprimersi che non poté certamente apprenderlo quando era incantato, ma quando stava in Francia, vivente il riferito imperadore Carlomagno. Vedrassi patente questa mia spiegazione nell'altro libro che darò alla luce: Supplemento di Polidoro Vergilio della invenzione delle cose, il quale per quanto penso si è dimenticato di parlare di tali carte; ma lo farò ben io, e riuscirà la erudizione di molto peso, potendo allegare un autore sì grave e sì veritiero come è stato il signor Durandarte. La quarta cosa è di avere avuta indubitata contezza della origine del fiume Guadiana, ignota finora a tutte le genti.

— Ha ragione vossignoria, disse don Chisciotte; ma io bramerei sapere (e così Dio le conceda di ottenere la licenza per la stampa dei suoi libri, del che dubito alquanto) a chi vorrà ella poi dedicarli?

— In Ispagna, rispose il giovane, vi sono dei signori e dei grandi ai quali li potrei indirizzare.

— Non molti, rispose don Chisciotte: e non già perché non meritino, ma perché non li vogliono accettar per non obbligarsi a quella ricompensa che pare dovuta al lavoro ed alla valentìa degli autori. Io per altro conosco un principe che può supplire alle mancanze degli altri con tanto vantaggio che se lo nominassi desterei l'invidia in più di quattro generosi cuori: ma lasciamo questo a tempo più opportuno, e pensiamo intanto al luogo dove potremo ricovrarci nella notte ventura.

— Non lungi di qua, disse il giovane, evvi il casolare dove soggiorna un eremita, che dicono essere stato già ascritto alla milizia, e che gode riputazione di buon cristiano e di uomo molto discreto e caritativo: ed egli tiene accanto al suo romitorio una picciola casa fabbricata a sue spese; la quale tuttoché ristretta, è atta ad albergare forestieri.

— Questo romito mantiene galline? domandò Sancio.

— Pochi romiti sono che non ne mantengano, rispose don Chisciotte, non essendo quelli di oggidì come gli antichi abitatori dei deserti di Egitto, che si vestivano di foglie di palme, e si pascevano di sole radici. E qui nol credasi che per lodare quelli io voglia recare pregiudizio alla riputazione di questi; non intendendo io se non dire che se il rigore e le ristrettezze dei nostri romiti non agguagliano l'austerità di vita degli antichi, che per altro i nostri, se pure non fossero tutti buoni, come si dice, poiché ora va tutto alla peggio, faranno sempre minor male coll'ipocrisia, la quale finge l'uomo dabbene, di coloro che sono pubblicamente malvagi.”

In questo videro venire alla loro volta un uomo a piedi che camminava con molta celerità e battendo una mula carica di lance e di alabarde. Raggiunti che li ebbe fece loro un saluto e passò innanzi. Don Chisciotte gli disse:

— Fermatevi galantuomo, ché mi sembra vedervi andare con più fretta di quello che lo comporti la mula.

— Non posso fermarmi, signore, rispose quell'uomo, perché le armi che qui vedete, debbono mettersi dimani in opera, e non voglio punto indugiare, addio. Se bramate sapere perché le porto, venite (se tenete questa strada voi pure) all'osteria che sta presso al romitorio, dove io passerò la notte, e dove, se vorrete, vi racconterò maraviglie: addio per la seconda volta.”

Detto questo, batté la mula in modo che non fu possibile a don Chisciotte fargli dire di quali meraviglie pensasse informarlo: e siccome era curioso anzi che no, e lo stimolava un continuo desiderio di saper cose nuove, così si dispose di subito alla partenza con intenzione di pernottare nell'osteria senza raggiungere il romitorio, dove il giovane avrebbe voluto che si trattenessero. Così si fece: salirono a cavallo, e seguitarono tutti la strada che conduceva all'osteria, dove giunsero sulla sera. Il giovane disse a don Chisciotte che si potrebbe andare al romitorio per bere un po' di vino. Non appena Sancio Pancia udì questo che volse il leardo a quella parte, e gli tennero dietro il giovane e don Chisciotte: ma parve che la cattiva sorte di Sancio ordinasse che l'eremita fosse fuori di casa, il che seppero da un suo assistente. Chiesero a costui del vino più prelibato, al che egli rispose che il padrone n'era senza, e che se avessero voluto bere dell'acqua l'avrebbe loro apprestata di buona volontà.

— Se volessi bere dell'acqua, disse Sancio, vi sono dei pozzi per la strada, da dove avrei potuto cavarla: ah, nozze di Camaccio! ah, abbondanza della casa di don Diego, quante e quante volte vi avrò a ricordare!”

Lasciarono allora il romitorio, spronarono le cavalcature verso l'osteria, e fatti pochi passi, trovarono un garzonotto che li precedeva a passo lento sì che lo raggiunsero. Portava la sua spada in ispalla, e appesovi un involto dei suoi vestiti, forse i calzoni, il ferraiuolo, il bambagine, e qualche camicia, non avendo indosso altro che una casacca di velluto con mostre di raso, e portando calzette di raso, e scarpe spuntate all'uso di Corte. Mostrava intorno a diciotto o diciannove anni, era di allegra fisonomia, molto agile, per quanto parea, della persona, e andava cantando graziose canzoni per alleggerirsi la noia del cammino. Gli furono davvicino quando terminava una canzone che il giovane tenne a mente, e così diceva:

 

Alla guerra oggi mi mena

   La crudel necessità;

Se la borsa avessi piena

   Non v'andrei per verità.

 

Il primo che si mise a favellare con lui fu don Chisciotte, il quale gli disse:

— Molto alla leggera se ne va camminando vossignoria, signor galante: ov'è ella diretto? Sappiamlo, se non le dispiace.”

Rispose il giovane:

— Del viaggiare alla leggera ne sono causa il caldo e la povertà; la mia direzione è alla guerra.

— Come la povertà? replicò don Chisciotte: per lo caldo va bene.

— Signore, soggiunse il paggio, io porto in quest'invoglia un paio di calzoni di velluto che accompagnano questa casacca, e se li guastassi nel cammino non potrei farmi onore alla città; che non ho già da comprarne un altro paio. Per questa ragione e per passare la noia io viaggio come vedete, finché avrò raggiunta la compagnia d'infanteria lontana di qui dodici leghe, dove m'ingaggerò, e non mi mancheranno poi cavalcature sino all'imbarco che dicono esser a Cartagena. Io bramo piuttosto di avere il re per mio padrone e signore e di servirlo alla guerra, di quello che essere uno spilorcio in Corte.

— E ne ebbe vossignoria, disse il giovane, qualche distinzione particolare?

— Se avessi servito qualche grande di Spagna o qualche notabile personaggio, rispose il paggio, l'avrei per certo, ché il servire signori di alto grado vi fa uscire di camera o alfieri o capitani o con utile provvedimento; ma io disgraziatamente ho servito soltanto o vagabondi o forestieri di condizione sì trista, e che danno sì misero e stentato salario, che la metà si consuma nell'inamidare il collare, cosicché potria dirsi miracolo che un paggio venturiero trovasse, non dico già grande, ma anche mediocre fortuna.

— Ditemi, amico, di grazia, dimandò don Chisciotte, è egli possibile che non siavi riuscito negli anni di vostra servitù di mettere da parte almeno una livrea?

— Due me ne furono date, rispose il paggio; ma come si toglie l'abito e si restituiscono i primi vestiti a colui ch'esce di qualche religione senza professare, così è accaduto a me coi padroni; i quali, dato fine ai loro negozi alla Corte, ritornavano alle loro case, e ridomandavano le livree che aveano somministrate per pura e mera ostentazione.

— Notabile spilorceria! come dice l'Italiano, soggiunse don Chisciotte: contuttociò ascrivete, amico mio, a felice ventura l'esservi tolto dalla Corte con tanto lodevole intenzione quant'è la vostra; poiché in terra non c'è cosa più onorata e di più giovamento che il servire a Dio primieramente e poi al suo re nell'esercizio delle armi. Con questo si acquista, se non dovizie, almeno più onore che colle lettere, il che io ho detto molte altre volte; e tuttoché sieno al presente in credito le lettere più delle armi, ciò non ostante i guerrieri si rendono superiori ai letterati con non so che di splendore che li fa prevalere. Quello che adesso vi dico, o buon giovane, scolpitevelo bene in mente che vi riuscirà di molto profitto e consolazione nelle fatiche: allontanate sempre il pensiero dai contrari successi che vi potrebbero colpire, il peggiore dei quali è la morte; ma ricordatevi che quando questa arrechi gloria, è la migliore ventura. Sappiate che fu chiesto a Giulio Cesare, quel valoroso imperatore romano, quale fosse la miglior morte: La impensata, la repentina, rispos'egli: e benché la sua risposta sia stata da gentile, con tutto ciò disse bene, per rispetto all'evitare le angoscie che prova l'uomo nel morire. Presupposto il caso che vi ammazzino nella prima scaramuccia o con un tiro di artiglieria o con una mina, che importa? tutto è un morire; ed è finita la commedia; anzi al dire di Terenzio, fa di sé miglior mostra il soldato estinto sul campo, che vivo e sano nella fuga. Tanto maggiore è la fama dell'ottimo soldato quanto è maggiore la obbedienza al suo capitano ed a quelli che hanno diritto di comandargli: ed avvertite, o figliuolo, che meglio si conviene al soldato l'olezzare di polvere che di zibetto. Se la vecchiaia vi coglie in esercizio tanto onorevole, tuttoché siate coperto di ferite e storpio e zoppo, almeno non vi coglierà senza onore, e onore tale che la povertà non ve lo potrà diminuire. Ciò è tanto più vero adesso, che si provvede al sostenimento de' soldati vecchi e storpiati, né si fa come coloro che procacciano libertà ai loro schiavi, perché sono vecchi ed inabili al servire, e chiamandoli liberi li fanno poi schiavi della fame da cui non isperano di sottrarsi se non se colla morte. Non voglio altro dirvi, buon giovane mio, e se vi piace v'invito a salire sulle groppe di questo mio cavallo fino all'osteria, dove cenerete con me, poi domattina proseguirete il vostro viaggio, che Dio ve lo dia buono come lo merita la vostra volontà.”

Non accettò il paggio di salire sulle groppe, ma sì bene quello della cena all'osteria, ed in tale circostanza si racconta Sancio abbia detto tra sé:

— Dio mi aiuti! come mai può egli darsi che un uomo che sa dire tante e sì buone cose come quelle che ha ora dette il mio padrone, vada poi raccontando di aver veduti quegl'impossibili spropositi della grotta di Montésino? Orsù stiamo a vedere quello che accaderà poi.”

In questo pervennero all'osteria che già imbruniva la sera: e Sancio si consolò vedendo che il suo padrone la tenne per vera osteria e non per castello come soleva. Non erano entrati appena, quando don Chisciotte dimandò conto all'oste di colui che portava le lancie e le alabarde, ed ebbe in risposta che stava nella stalla a governare la mula. Fecero lo stesso il giovine e Sancio dei loro giumenti, collocando Ronzinante alla miglior mangiatoia e nel sito migliore di quella stalla.

 

CAPITOLO XXV

 

AVVENTURA DEL RAGLIO DELL'ASINO, E GRAZIOSO SUCCESSO DEL BAGATTELLIERE COLLE MEMORABILI DIVINAZIONI DELLO SCIMMIOTTO INDOVINO.

 

Don Chisciotte spasimava di sentire le maraviglie che il portatore delle armi aveva promesso di raccontargli. Andò a cercarlo dove l'oste gli disse che si trovava; e tosto gli espose che era assai voglioso di sapere quello che avesse a narrargli intorno alle vicende accennate durante il cammino. Quell'uomo gli rispose:

— Con comodo e non su due piedi si ha ad udire un racconto ch'è molto singolare; lasci, cortese signor mio, che io termini di governare la mia bestia, e le dirò poi cose che la faranno stupire.

— Non si metta indugio per questo, disse don Chisciotte, che io vi aiuterò a compiere le vostre faccende: e lo fece in effetto vagliandogli la biada e nettandogli la mangiatoia: umiltà che impegnò quell'uomo a soddisfare di tutto buon cuore la sua curiosità. Sedutosi pertanto su di un muricciuolo, e don Chisciotte, accanto a lui, avendo per uditore il giovane, il paggio, Sancio Pancia e l'oste, cominciò in tal guisa a parlare.

— Hanno a sapere, vossignorie, che al giudice di un paese quattro leghe e mezza di qua discosto, per accortezza ed inganno di una ragazza sua fante (e questa sarebbe cosa lunga da dire) mancò un asino, né più fu potuto trovarlo per quante diligenze avesse usate. Dovevano essere passati quindici giorni da che l'asino mancava, quando standosene sulla piazza detto giudice, un altro giudice dello stesso paese, gli disse:

— Datemi la mancia, compare, ché il vostro asino si è ritrovato.

— Ve la darò, e buona, compare, l'altro rispose; ma a buon conto vorrei prima sapere ove fu ritrovato.

— Io lo vidi, soggiunse l'altro, in questa mattina sul monte che aggiravasi per la selva senza bardella o altro arnese, e così assottigliato che moveva pietà a guardarlo: gli passai dinanzi per fermarlo e ricondurvelo, ma si è fatto tanto selvatico ed intrattabile, che quando gli giunsi addosso si diede a fuggire, e si nascose nel più folto del bosco: ora se vi piace che ci rechiamo tutti e due a cercarlo, lasciate prima che rimeni a casa questa mia asinella, e io vi sarò compagno nel viaggio. — Ne avrò gran piacere, disse quello dell'asino, e mi studierò di compensarvi di eguale mercede. Con tutte queste circostanze, e uguale in tutto a questo mio racconto, è quanto depongono tutti coloro che sono informati della verità del fatto. In sostanza i due giudici, marciando a piedi a poco a poco giunsero alla montagna, ed arrivati al sito dove credevano di trovar l'asino, nol rinvennero punto, né per diligenza che si facesse si poté mai vedere in tutti quei contorni. Poiché dunque non si trovava, quel giudice che avealo veduto disse all'altro: — Badate a me, compare, che mi è venuto in testa un modo d'imbatterci infallantemente in questo animale, quand'anche si fosse cacciato nelle viscere della terra non che in quelle della selva; ed il modo è questo: io so ragliare a perfezione, e se voi ancora ne sapete un poco vi do la cosa per bella e fatta. — Se ne so un poco? disse l'altro; per vita mia, compare caro, che non la cedo a nessuno, e neppure agli asini stessi. — Dunque alla prova, rispose l'altro: io ho fatto pensiero che voi ve n'andiate per una parte della montagna ed io per l'altra, in maniera che l'attornieremo e gireremo tutta; e di tratto in tratto raglierete voi e raglierò io, e sarà impossibile che l'asino, se sta sulla montagna, non ci senta e non ci risponda.”

Disse il padrone dell'asino: — Sono persuaso, o compare, che ottimo sia il modo da voi trovato, e degno della vostra gran mente.” Si separarono ambedue giusta l'accordo fatto, ed avvenne che ragliarono entrambi quasi ad un tempo stesso, ed ingannato ciascuno dal raglio dell'altro corsero a cercarsi, pensando che già l'asino si fosse trovato: e nel rivedersi disse quegli che lo aveva perduto: — Com'è possibile, compare, che il raglio che ho inteso non sia stato quello del mio asino? — Non lo fu, e sono stato io, rispose il secondo giudice. — Vi dico bene in verità, soggiunse il primo, che da voi ad un asino, compare, non passa alcuna differenza, perché non udii in tutta la vita mia un ragliare più al naturale. — Queste lodi ed esagerazioni, rispose quello della invenzione, quadrano meglio e più convengono a voi, compare, che a me; e per quel Dio che mi ha creato, che voi potete dare due ragli di vantaggio al più esperto ragliatore del mondo, poiché il suono acuto che vi esce di gola, la voce sostenuta a battuta, le cadenze molte e preste, e in somma tutto è tale ch'io mi do per vinto, e vi lascio la bandiera in questa sorta di abilità. — Or bene, disse il padrone dell'asino, d'ora innanzi mi terrò uomo da qualche cosa, poiché ho in me sì felice disposizione e sì buon garbo: io già sapevo di ragliare bene, ma non avrei mai creduto di essere giunto a quell'apice che voi dite.

— Oh sappiate, rispose il secondo, che nel mondo si trovano dei begl'ingegni che non sono stimati, e talvolta si vedono mal collocate le grazie in chi non ne sa profittare.

— Le nostre, rispose il padrone dell'asino, non ci possono esser di giovamento se non in occasioni simili a questa, e Dio voglia che anche in questo caso ci sieno proficue.” Detto ciò, tornarono a dividersi e tornarono ai ragli, e ad ogni tratto s'ingannavano, e tornavano a riunirsi, fino a tanto che si diedero per contrassegno che per intendere ch'erano essi e non l'asino, avrebbero ragliato due volte di seguito. Fatto questo accordo, raddoppiando ad ogni passo i ragli, girarono tutta la selva senzaché il giumento rispondesse in modo alcuno. Ma come potea rispondere il meschino e malcapitato, se poi lo trovarono nel più folto di un bosco quasi divorato dai lupi? Nol vide appena il suo padrone che disse: — Mi meravigliava io bene che non rispondesse; che se non fosse stato morto avrebbe senza dubbio ragliato se ci avesse sentiti, o non sarebbe stato asino: basta, compare, poiché ho sentito voi a ragliare con tanta grazia, fo mio conto di aver bene spesa la fatica sostenuta cercandolo, quantunque adesso lo trovi morto e mangiato.

— Così dico anche io, compare, l'altro rispose; che se il prete canta bene non si porta male né anche il chierico.”

Sconsolati e rauchi ritornarono ambidue al loro paese, e raccontarono agli amici, vicini e conoscenti ciò ch'era accaduto cercando dell'asino, esagerandosi dall'uno la grazia dell'altro in ragliare, il che si riseppe e andò per le bocche di tutti nei luoghi circonvicini. Il diavolo poi che non dorme, come desideroso di seminare e spargere rancori e discordie ove può, e di mettere chimere e triste voglie nei cervelli fece che le genti degli altri paesi al vedere qualcuno del nostro paese ragliassero, quasi volendo rinfacciare il raglio dei nostri giudici. Se ne accorsero anche i ragazzi, e la fu una disperazione, perché sempre più il raglio si diffuse di uno in altro paese, di maniera che sono adesso distinti i naturali del nostro paese dal raglio come sono differenziati i mori dai bianchi: e tanto innanzi andarono le pessime conseguenze di questa beffa, che più volte coll'arme alla mano e in ben ordinato squadrone i burlati sono venuti in zuffa coi burlatori senza che abbiano potuto apporvi rimedio né re, né rocco, né timore, né vergogna. Credo che dimani o l'altro abbiano ad uscire in campagna i miei paesani, che sono quelli del raglio, contro quelli di un paese discosto due leghe dal nostro, e ch'è appunto il paese che più ci perseguita; ora per armare bene i combattenti io porto queste lancie e queste alabarde. Ed ecco, o signore, le meraviglie che ho promesso di raccontarvi; che se non vi paiono tali io non ne so di altra sorta.”

Il galantuomo terminò con queste parole il suo racconto, e a questo punto entrò per la porta dell'osteria un uomo con calzette, calzoni e giubbone, tutti di camozza, e con alta voce si fece a dire:

— Signor oste, avete una stanza? io vengo e porto con me lo scimiotto indovino e il quadro della libertà di Melisendra.

— Oh affè, sclamò l'oste, ch'è qua il nostro maestro don Pietro! oh ci si apparecchia una buona notte!”

Erami dimenticato di dire che questo maestro don Pietro aveva coperto l'occhio destro e pressoché mezza una guancia con un piastrello di taffetà verde, indizio che tutta quella parte fosse malata. Proseguì l'oste dicendo:

— Sia ben venuto la signoria vostra, signor maestro don Pietro: ma dove sono lo scimiotto e il casotto de' fantocci che non li vedo?

— Eh, sono poco lontani, rispose il tutto camozza, ed io sono venuto avanti per vedere se vi è stanza dove poter albergare.

— Ne farei star senza sino il gran duca di Alba, disse l'oste, per cederla al mio maestro don Pietro: vengan pure e lo scimiotto ed il casotto, che vi è gente nell'osteria questa notte che pagherà per vederli e per divertirsi colle bravure che sanno fare.

— Sia in buon'ora, rispose quello del piastrello, ed io metterò il divertimento a buon prezzo contentandomi di cavarne puramente le spese: intanto vado a sollecitare l'arrivo dell'equipaggio;” e, detto questo, uscì dell'albergo.

Dimandò subito don Chisciotte che maestro Pietro fosse colui, e che casotto e scimiotto portasse seco. L'oste rispose:

— Questi è quel famoso burattinaio che da molti giorni in qua va attorno per le contrade d'Aragona, mostrando l'istoria di Melisendra liberata dal famoso don Gaifero, ch'è uno degli spettacoli più al naturale e meglio rappresentati che da molti anni siensi veduti in questo nostro regno. Porta anche uno scimiotto di abilità rarissima, anzi vero portento; perché se altri gli fa qualche dimanda, sta attento, salta subito sulle spalle del suo padrone, e parlandogli all'orecchio dà la risposta di quello che si vuole sapere; e subito maestro Pietro la dichiara. Dice molto più delle cose passate che di quelle avvenire; e sebbene non sempre colga nel segno, per lo più per altro indovina, e pare propriamente che abbia il diavolo in corpo. Vuole due reali per ogni dimanda se lo scimiotto risponde, s'intende se il padrone dà la risposta per lui dopo di avergli parlato all'orecchio: e si tiene per certo che sia diventato molto ricco questo maestro Pietro, che è, come dicono gl'Italiani, galantuomo e buon compagnone. Egli conduce la più bella vita del mondo; parla più che sei persone, beve più che dodici, e tutto alle spese della sua lingua, del suo scimiotto e del suo casotto.”

Tornò frattanto maestro Pietro con una carretta su cui stavano gli arnesi e lo scimiotto, grande, senza coda, colle parti deretane ben coperte di pelo e di bell'aspetto. Lo vide appena don Chisciotte, che gli dimandò:

— Mi dica, la signoria vostra, signor indovino: che pesce pigliamo noi? ci dia la nostra ventura, ed eccole qua i due reali.”

Per mezzo di Sancio li passò a maestro Pietro, il quale rispose per lo scimiotto, e disse:

— Signore, questo animale non risponde, né dà notizie delle cose avvenire; delle trascorse sa qualche poco, e un tantino delle presenti.

— Perdinci, disse Sancio, che io non ispenderei neppure un quattrino per sapere quello che mi è successo, mentre chi lo può sapere meglio di me? non la sarebbe una balordaggine se andassi cercando di voler sapere quello che so? ma poiché costui sa le cose presenti, proviamolo un poco: Eccovi qua i due reali, e ditemi, caro signor scimiottissimo: che cosa fa adesso mia moglie Teresa Pancia e di che si occupa?”

Non volle maestro Pietro prendere il denaro; e disse:

— Non ricevo mai premio alcuno se prima non lo ho meritato;” e dando con la destra mano due botte sulla spalla sinistra dello scimiotto, questo in un salto gli montò addosso, e accostata la bocca all'orecchio, sbatté i denti in fretta per lo spazio di un credo, poi diè un altro salto e calò in terra. Maestro Pietro si buttò subito ginocchione davanti a don Chisciotte, e abbracciandogli le gambe gli disse:

— Io abbraccio queste gambe come se abbracciassi le due colonne di Ercole; oh risuscitatore insigne della già dimenticata errante cavalleria, oh non mai come si deve lodato abbastanza cavaliere don Chisciotte della Mancia, sostegno dei cadenti, braccio dei caduti, appoggio degli sfortunati, bacolo dei desolati.”

Rimasero don Chisciotte stupito, Sancio fuori di sé, sospeso il cugino, attonito il paggio, trasecolato quello del raglio, l'oste confuso, finalmente tutti ammutoliti, quando il burattinaio continuò così a dire:

— E tu, o buon Sancio Pancia, il migliore scudiero del più perfetto cavaliere del mondo, consolati pure che la tua buona moglie Teresa sta benissimo, e in questo preciso momento sta pettinando una libbra di lino, e per più contrassegni, ti soggiungo che tiene al suo lato manco un boccale sboccato che può contenere un grosso fiasco di vino di cui si serve per alleggerimento nelle fatiche.

— Oh questo debb'essere vero, rispose Sancio, perché Teresa beve molto; e se non patisse di gelosia non la cambierei colla gigantesca Andandona, che secondo il mio padrone fu molto valente e di garbo: la mia Teresa è propriamente una di quelle che ha tanti numeri che sono innumerabili.

— Oh come bene mi persuado, soggiunse don Chisciotte, che chi legge assai e viaggia assai vede molto e fa molto! Chi sarebbe mai stato da tanto di persuadermi che si dieno al mondo scimiotti indovini, come li hanno veduti adesso questi miei occhi, mentre io sono appunto quel don Chisciotte della Mancia nominato da questo mirabile animale? Egli si è diffuso un po' troppo nelle mie lodi, ma comunque sia, ringrazio il Cielo che mi abbia dotato di un animo dolce e compassionevole, proclive sempre a far bene a tutti e a non far male ad alcuno.

— Se avessi dei denari, disse allora il paggio, dimanderei al signor scimiotto quello che mi ha ad accadere nella mia presente peregrinazione.”

Soggiunse subito maestro Pietro che si era alzato dai piedi di don Chisciotte:

— Io già l'ho detto che questa bestiuola non risponde sulle cose future: ché se possedesse questa qualità non occorrerebbero denari per farle rendere anche un tale omaggio al signor don Chisciotte qui presente, per cui porrei in non cale qualunque siasi interesse del mondo. Anzi per compiere il dover mio e per intertenerlo piacevolmente, metterò adesso in ordine il mio casotto, e spero che darò spasso a quanti sono nell'osteria senz'alcun pagamento.”

L'oste tutto allegro per questa spontanea disposizione di animo, gl'indicò allora il sito dove poteva collocarlo, e in un subito fu bello e accomodato.

Non era molto persuaso don Chisciotte delle indovinazioni dello scimiotto, parendogli impossibile che potesse conoscere e il passato e il presente: e però mentre maestro Pietro andava allestendo il casotto, si ritirò con Sancio in un canto della stalla, dove senza essere inteso da alcuno gli disse:

— Ascoltami, o Sancio: io ho posto mente alla straordinaria abilità di questo scimiotto e tengo, quanto a me, per indubitato e sicuro che qui vi sia qualche pasticcio di maestro Pietro che se la intenda col demonio.

— Se il pasticcio viene dal demonio, disse Sancio, ha da essere molto sporco: ma che interesse può avere maestro Pietro in questa sorta di pasticcio?

— Tu non m'intendi bene, o Sancio: altro io non voglio dire se non che debb'essersi convenuto col demonio perché infonda questa abilità allo scimiotto per guadagnarsi il pane: e quando sarà fatto ricco gli darà l'anima sua, che è ciò che pretende questo nostro universale nemico. Io tengo questa opinione perché lo scimiotto non fa mai risposta se non che alle cose passate o presenti, e la sapienza del diavolo non suole estendersi più oltre, mentre l'avvenire non lo può conoscere se non per semplici conghietture, né sempre, che a Dio solo è riserbata la intelligenza dei tempi e dei momenti, né per lui vi è passato o futuro, ma tutto è presente. Quanto più io rifletto sopra questa verità tanto più mi persuado che questo scimiotto parli per suggerimento del diavolo, e mi reca alto stupore che nessuno l'abbia finora accusato al sant'Officio e posto ad esame per trargli di bocca in virtù di chi egli indovini; chiaro essendo che uno scimiotto non è un astrologo, come non lo è il suo padrone: né l'uno né l'altro fan bene alzare le figure che chiamansi giudiziarie, le quali ora sono talmente in voga per la Spagna, che non v'ha donnicciuola, né paggio, né ciabattino che non presuma di alzare la sua figura (come se fosse un fante di carte) da terra, rovinando la mirabile verità della scienza colle menzogne e colla ignoranza. Io conosco una signora la quale domandò ad uno di questi cabalisti, quali e quanti e di qual pelo sarebbero stati i cagnolini che avrebbe partorito una sua cagnuola. Il cabalista, dopo avere alzata la figura, rispose che darebbe alla luce tre cagnolini, verde l'uno, l'altro incarnato e l'altro mischio. Quello che successe fu, che dopo due giorni la cagnuola morì per lo troppo mangiare, e il signor cabalista dalle figure restò in terra; però addio riputazione di gran giudiziario, e finì come tutti o la più gran parte di questi ciarlatani.

— Per altro, disse Sancio, vorrei che vossignoria dimandasse a questo maestro don Pietro alcun che degli affari della grotta di Montésino; perché quanto a me (sia con sopportazione di vossignoria), mi ostino a credere che tutto sia stato intigro o bugia o cose per lo manco da lei sognate.

— Tutto potrebbe essere, rispose don Chisciotte; ed io farò quello che tu mi consigli, quantunque mi resti nel proporre queste tali dimande un tantino di scrupolo.”

Stando in questi discorsi venne maestro Pietro a dimandare di don Chisciotte, e a dirgli che già il casotto era apparecchiato, e che sua signoria andasse a vederlo, che vi era pregio dell'opera. Don Chisciotte gli comunicò i suoi pensamenti, e lo pregò che interpellasse subito il suo scimiotto per sapere se certe cose avvenutegli nella grotta di Montésino fossero state vere o sognate, mentre a lui pareva che pizzicassero dell'uno o dell'altro. Maestro Pietro, senza rispondere sillaba andò per lo scimiotto, e condottolo davanti a don Chisciotte ed a Sancio, disse:

— Attento, signore scimiotto, che questo cavaliere brama sapere se certe cose che gli accaddero nella grotta, detta di Montésino, sieno state false o vere: e fattogli il consueto segno, lo scimiotto gli balzò sulla spalla sinistra, e parlandogli, come pareva all'orecchio, disse subito maestro Pietro:

— Lo scimiotto dice che parte delle cose vedute e successe nella grotta sono state false e parte verisimili; e che questo è quello che sa, e niente più risponde intorno a questa dimanda. Dice ancora che se vossignoria vuol sapere di più, nel venerdì venturo risponderà ad ogni dimanda, ma per adesso gli manca la virtù, e non gli può tornare sino a venerdì per quanto ha detto.

— Io aveva bene ragione, soggiunse allora Sancio, di non mandare giù le grosse bugie che vossignoria raccontava dell'accadutole nella grotta, e di non crederle vere nemmeno per la metà.

— Agli effetti ci rivedremo, Sancio mio, rispose don Chisciotte, che il tempo è lo scopritore di tutte le cose, né alcuna resta che presto o tardi non esca fuori alla luce del sole, per quanto stiasi rinchiusa nelle viscere della terra: ma ciò basti per ora, e andiamo a veder il casotto del buon maestro Pietro, che io penso che debba avere qualche cosa di nuovo.

— Come qualche cosa? rispose maestro Pietro: sessantamila ne comprende questo mio casotto ed assicuro la signoria vostra, mio signor don Chisciotte, ch'è uno dei più curiosi soggetti che abbia il mondo. Ma operibus credite et non verbis; e mano all'opera, che si fa tardi, e abbiamo da fare e da dire e da mostrare assai.”

Condiscesero don Chisciotte e Sancio, e si recarono là dove il casotto era collocato, già coperto e illuminato d'ogni intorno con candelette di cera che lo rendeano vistoso e riplendente. Allora maestro Pietro vi si pose entro, perch'egli era quello che doveva maneggiare le artifiziali figure, ed un ragazzo, suo servidore, se ne stette al di fuori per servire d'interprete e dichiaratore di tutte le meraviglie; e tenea in mano una bacchetta con cui indicava le figure che uscivano di tanto in tanto. Accomodatisi dunque quelli che trovavansi nell'osteria, e rimasti alcuni in piedi, e situati nel posto migliore don Chisciotte, Sancio, il paggio e il cugino, cominciò il ciarlatano a dire quello che udirà o leggerà, chi udirà o leggerà il seguente capitolo.


CAPITOLO XXVI

 

CONTINUA LA GRAZIOSA AVVENTURA DEL BURATTINAIO, CON ALTRE COSE IN VERITÀ MOLTO GUSTOSE.

 

Tacquero tutti e Tirii e Troiani, voglio dire che quelli che tenevano gli occhi immobili verso il casotto stavano pendenti dalla bocca del dimostratore delle sue maraviglie, quando si udirono suonare dietro al casotto molti tamburi e trombette, ed a sparare molta artiglieria; ma quello cessò poi prestamente. Tantosto alzò la voce il ragazzo, e disse: — Questa vera istoria, che qua alle signorie vostre si rappresenta, è tratta fedelmente dalle cronache francesi e dai romanzi spagnuoli che corrono per le bocche di tutti, e che si cantano per le strade dai ragazzi. Tratta della libertà che diede il signor don Gaifero alla sua sposa Melisendra, la quale stava prigioniera in Ispagna in potere dei Mori nella città di Sansuegna; che così chiamavasi allora quella che oggi dicesi Saragozza. Osservino le signorie come don Gaifero sta quivi giuocando agli scacchi giusta la canzone:

 

Giuocando sta agli scacchi don Gaiféro

Che Melisendra già pose in oblìo.

 

Quel personaggio che vedono là, signori, con la corona in testa e collo scettro in mano è l'imperatore Carlomagno, padre putativo della famosa Melisendra, il quale sdegnato di vedere il genero immerso nell'ozio e nella infingardaggine viene a rimproverarlo; e considerino la veemenza e la bile con cui lo rimprovera, che pare propriamente che gli voglia affibbiare con lo scettro mezza dozzina di scapezzoni: e vi sono autori che dicono che glieli abbia dati e anche molto sodi, dopo avergli detto così: Molto vi dissi, e fatene gran conto. Veggano adesso le signorie loro come lo imperadore volta le spalle, e lascia don Gaifero pieno di dispetto, e osservino come egli butta per impeto di collera lungi da sé il tavoliere e scacchi e domanda l'arme sul momento, e chiede a don Roldano suo cugino la spada durlindana; e come don Roldano gliela nega, offrendogli in vece la sua compagnia nell'ardita impresa alla quale si accinge. Vedano il valoroso inviperito che non la vuole accettare, protestando ch'egli solo basta a liberare la sposa, quand'anche fosse nel centro più profondo della terra; e con questo corre ad armarsi per mettersi subito in viaggio. Portino gli occhi le signorie loro su quella torre che di là sorge, e che si crede una di quelle del palazzo reale di Saragozza, chiamata adesso l'Alciaferia. Quella dama che comparisce al balcone vestita alla moresca, è la senza pari Melisendra, che di frequente veniva a guardare la strada di Francia e che portando sempre il pensiero a Parigi e al suo sposo, si consolava della propria prigionia. Osservino pure un nuovo caso che presentemente succede, e che non avranno forse mai veduto: non vedono lor signori quel Moro, che zitto zitto e passo passo, postosi il dito alla bocca viene alle spalle di Melisendra? Or bene osservino come le dà un bacio nel bel mezzo della bocca, e come presto ella lo sputa e lo netta via colla bianca manica della camicia; poi come se ne querela e si strappa i suoi be' capegli, quasi fossero stati colpevoli dell'oltraggio. Osservino pure quell'altro Moro che con molta gravità sta su quelle ringhiere: quello è il re Marsilio Sansuegna, il quale per avere vista l'insolenza del Moro, tuttoché fosse suo stretto parente e a lui molto caro, lo manda sul fatto a pigliare, e ordina che gli sieno date dugento frustate, e che sia menato per le pubbliche strade della città con banditori innanzi e con molti sgherri dietro: ed ecco qua che escono ad eseguire la sentenza (benché la colpa non fosse stata interamente consumata), perché fra i Mori non si danno termini alle parti, né si fa luogo a prove, né a scritture come si usa tra noi.

— Ragazzo, ragazzo, disse don Chisciotte a questo punto con sonora voce, seguita senza più la tua istoria per linea diritta, né volerti mettere nelle curve o trasversali, ché indispensabili sono le prove e le riprove per conoscere limpidamente la verità.”

Maestro Pietro dal di dentro allora si fece a soggiungere:

— Ragazzo, non uscire di proposito, ma eseguisci i comandi di questo signore, che ciò sarà per il tuo meglio: seguita il canto fermo e non voler impicciarti nel contrappunto, ché chi troppo l'assottiglia la spezza.

— Così farò, rispose il ragazzo, e proseguì dicendo:

— Questa figura che comparisce quivi a cavallo, coperta da una cappa guascona, è quella di don Gaifero medesimo, la cui sposa, già vendicata dell'audacia dello innamorato Moro, con migliore e più tranquillo sembiante si è posta alla finestra della torre, e gli parla credendolo qualche passeggero, e adesso segue tutto quel discorso e colloquio della canzone che dice:

 

Cavalier, se in Francia andate,

Di Gaifero domandate, ecc.

 

Non canterò, signori, la canzone, perché la prolissità genera noia: basta vedere come don Gaifero si scopre. Ora dai gesti allegri che fa Melisendra si comprende che lo ha conosciuto; e adesso maggiormente, che la vediamo calare dal balcone per salire in groppa al cavallo del caro suo sposo. Ma, ahi sventurata! che le si è attaccato un brandello del gammurrino a un ferro del balcone, e resta pendente in aria, e non può più calare al basso. Ma osservino come il pietoso Cielo soccorra nei più urgenti bisogni! Ecco là don Gaifero, che senza por mente se il ricco gammurrino possa stracciarsi o no, la piglia e per forza la fa calare a terra, e poscia di un salto la mette in groppa del suo cavallo a cavalcione come se fosse un uomo: le dice che si tenga forte, e gli passi le braccia attraverso alla vita cingendolo bene nel petto per non cadere; e ciò perché la signora Melisendra non era avvezza a cavalcare a quella maniera. Notino adesso come i nitriti del cavallo fanno prova ch'è assai contento di portare nel padrone e nella padrona il carico più leggiadro e il più geniale. Ecco come voltano le spalle ed escono dalla città tutti giubilanti e prendono la via di Parigi. Andate in pace, o senza pari veraci amanti, e vi rivegga la vostra patria giunti al porto di desiderata salvezza senza che dalla fortuna sia frapposto inciampo al vostro felice viaggio; e così gli occhi dei vostri amici possano godere di vedervi passare in tranquilla pace il resto dei vostri giorni, che sieno pur quelli di Nestore!”

A questo punto alzò un'altra volta la voce maestro Pietro, e disse al ragazzo:

— Non t'innalzare troppo, o ragazzo, che ogni affettazione ritorna a nausea.”

L'interprete non rispose, e continuò dicendo:

— Non mancarono alcuni oziosi (ché se ne trovano da per tutto) di notare la discesa dal balcone e la fuga di Melisendra, e ne informarono il re Marsilio: il quale fece subito suonare a martello, e con tanta furia che la città fu tutta quanta sossopra per lo rimbombo delle campane che dalle torri delle meschite assordivano l'aria.

— Oh questo poi no, interruppe don Chisciotte: è una improprietà questa delle campane, che tra i Mori non si usano, ma sì bene quei tamburi e zufoli che assomigliano ai nostri pifferi; e questo del suonare le campane in Sanguegna è un madornale sproposito di maestro Pietro.”

Maestro Pietro cessò allora dal contraffar il rombo delle campane e disse:

— Non si perda vossignoria in frivolezze, signor don Chisciotte, né esamini tanto sottilmente queste nelle quali basta la probabilità. Forsecché non si rappresentano quasi ogni giorno nei nostri teatri commedie zeppe d'improprietà e d'inverisimiglianza? ciò non ostante passano felicemente; e non pure ottengono plauso ma ben anche ammirazione e stupore. Tira pure innanzi ragazzo, e lascia dire chi vuole, mentre purché si guadagni un po' di danaro noi siamo soliti a vedere che importa poco il metter sulle scene più improprietà che non ha raggi il sole d'intorno a sé.

— Oh questo è vero” replicò don Chisciotte, e il ragazzo proseguì:

— Osservino di grazia le signorie loro quanta e quanto bella cavalleria esce della città e va ad inseguire i due cattolici amanti: quante trombette che strepitano, quanti zufoli che suonano, quanti tamburi moreschi e cristiani che rimbombano! Io ho gran paura che li raggiungano, e non li facciano tornare in Corte strascinati a coda di cavallo, il che sarebbe orrendo spettacolo.”

Parve qui a don Chisciotte di vedere già i Mori, e di udire il grande romore e lo strepitoso calpestìo, e gli venne in mente di prestare il suo aiuto a quelli che fuggivano: quindi rizzatosi cominciò a dire ad alta voce:

— Non consentirò mai che ai miei giorni e in presenza mia si facciano superchierie ad un cavaliere di così grande celebrità, ad un amante sì intraprendente com'è don Gaifero: fermatevi, date indietro, malnata canaglia, non lo inseguite; né sieno i poveri amanti perseguitati, o ch'io vi disfido meco alla battaglia.”

Detto e fatto egli sguainò la sua spada, di un salto si fece accosto al casotto, e con presta e mai più vista furia cominciò a menar fendenti e manrovesci sopra due fantaccini moreschi, rovinando questo, lasciando senza testa quello, storpiandone uno, mettendone in pezzi un altro, e tra tanti colpi tirò tale soprammano che se maestro Pietro non se ne fosse schermito, raggricchiato e accoccolato, gli avrebbe portata via netta la testa come se fosse stata di pasta di marzapane. Gridava maestro Pietro:

— Si fermi la signoria vostra, signor don Chisciotte, e consideri che quelli che ella qua rovina e calpesta non sono già Mori davvero, ma figurini di pasta: guardi bene, poveraccio di me! che manomette e manda in precipizio tutta la mia bottega.” Non per questo ristava don Chisciotte dal diluvio delle coltellate, imbroccate, soprammani e manrovesci. Finalmente in meno di due credo fece voltare sossopra il casotto, e andarono con esso in mille pezzi tutte le bagatelle e le figure e il re Marsilio malferito e l'imperatore Carlomagno colla corona spezzata e colla testa spaccata in due parti. Tutto l'uditorio allora si ammutinò, fuggì lo scimiotto pel tetto dell'osteria, tremò il giovane, si avvilì il paggio, e fino lo stesso Sancio ebbe molto spavento: perché, come poi giurò quando la burrasca era passata, non avea mai più veduto il suo padrone montato in cotanta furia e così pazza e bestiale. Fatta dunque la intera distruzione del casotto, don Chisciotte si calmò alquanto e poi disse: — Vorrei avere qua al mio cospetto tutti coloro che danno fede né vogliono credere di quale profitto siano i cavalieri erranti nel mondo, e certo dovrebbero confessare che se non mi fossi trovato io presente, Dio sa che cosa sarebbe divenuto del bravo don Gaifero e della leggiadra sua Melisendra! Ah adesso appunto quei cani l'avrebbero raggiunta, e n'avrebbero fatto mal governo: eh sì, sì, viva, viva la errante cavalleria sopra quante cose vivono in terra.

— Viva pure, si udì a ripetere con fiacchissima voce maestro Pietro, e muoia io, io disgraziato tanto da dover cantare con don Rodrigo:

 

Jer la Spagna ebbi in balia;

Non teng'oggi una bicocca

Cui dir possa: tu se' mia.

 

Non è mezz'ora, né anco mezzo minuto che io era padrone di re e di imperatori, stavansi piene le mie stalle e i miei forzieri e i miei sacchi d'infiniti cavalli e d'innumerevoli arnesi, ed ora mi trovo desolato, abbattuto, povero, mendico, e sopratutto senza il mio scimiotto, ché prima di ricuperarlo mi avranno a sudare i denti; e tutto questo per la furia inconsiderata di questo signor cavaliere, il quale dicono che aiuta pupilli e drizza torti, e fa altre opere caritatevoli. Fatalità vuole che io sia quel solo per cui venne a mancare la sua intenzione generosa: ma sieno pure benedetti e lodati i cieli con tutte le stelle fisse ed erranti, se era scritto che il cavaliere dalla Trista Figura fosse quello che avesse a sfigurare le mie!”

Queste lamentazioni di maestro Pietro commossero Sancio Pancia, e perciò gli disse:

— Non piangere, caro maestro don Pietro, non querelarti ché mi dai tante stoccate al cuore; perché voglio che tu sappia che il mio signor don Chisciotte è tanto cattolico e scrupoloso che s'egli si accorge di averti pregiudicato ti saprà o vorrà compensare, e darti anche più di quello che hai perduto per lui.

— A me basterebbe, disse maestro Pietro, che il signor don Chisciotte mi pagasse almeno in parte i danni che mi ha cagionati, e sua signoria metterebbe allora la tranquillità nella sua coscienza; perché non può salvarsi chi tiene l'altrui contro la volontà del legittimo padrone, e non lo restituisce.

— Così è per lo appunto, disse don Chisciotte; ma insino ad ora io non so di avere nulla del vostro, o maestro Pietro.

— Come no? e chi altri fu eccetto che la forza invincibile del vostro possente braccio che infranse, annichilò e sparse su questo nudo e sterile terreno queste reliquie? e di chi erano que' corpi se non miei? e con che mi procacciava io il vivere, se non con essi?

— Conviene pure ch'io mi persuada, disse don Chisciotte a questo passo, di quello che molte altre volte ho pensato, ed è che gli incantatori che mi perseguitano, altro non fanno che mettermi dinanzi agli occhi le figure come sono realmente, e poi me le cambiano in un attimo trasformandole in altre di loro capriccio. Signori che mi udite, con tutta verità e realtà vi protesto che quanto è qua successo mi parve che fosse realmente così, che Melisendra fosse Melisendra, don Gaifero Gaifero, Marsilio Marsilio e Carlomagno Carlomagno; e per questo si suscitò in me la collera che vedeste: e per eseguire il dovere di cavalier errante volli soccorrere i fuggitivi. Con questo solo lodevole divisamento mi sono condotto a fare quello che foste testimoni: che se la cosa è riuscita al rovescio non è mia la colpa, ma sibbene dei maligni dai quali sono perseguitato. Dopo tutto ciò di un errore mio, quantunque non prodotto da malizia, voglio portarne io stesso la pena; e dica maestro Pietro ciò che egli vuole delle figure fracassate, mentre io mi offro a pagargliele tosto in buona e corrente moneta castigliana.” S'inchinò allora maestro Pietro, dicendogli: — Meno non mi attendeva dalla inaudita bontà del valoroso don Chisciotte della Mancia, vero soccorritore e protettore di tutti i miserabili e bisognosi vagabondi, ed il signor oste con il gran Sancio qua presenti saranno i mezzani e quelli che fra la signoria vostra e me decreteranno la somma che possono importare le mie sconquassate figure.”

Condiscesero e Sancio e l'oste, e subito maestro Pietro raccolse da terra il re Marsilio di Saragozza colla testa tutta infranta e disse:

— Scorgesi bene quanto sia impossibile di far restituire questo re al suo pristino stato, e mi pare (salvo più retto giudizio) che mi si debbano per la sua morte, distruzione e sepoltura quattro reali e mezzo.

— Tirate innanzi, disse don Chisciotte.

— Per le aperture di sopra e di sotto, continuò maestro Pietro pigliando in mano lo spaccato imperadore Carlomagno, non mi sembra troppo il domandare cinque reali e un quarto.

— Non è poco disse Sancio.

— Né molto, soggiunse l'oste, e si restringa la partita a cinque reali.

— Diamogli pure tutti cinque i reali e un quarto, disse don Chisciotte, che non è da badarsi al poco più o poco meno, attesa sì notabile disavventura: ma sbrighiamocene presto, o maestro Pietro, che si fa ora di cena, ed io mi sento gli stimoli della fame.

— Per questa figura ch'è qua senza naso, disse maestro Pietro, e senza un occhio, ed è quella della vezzosa Melisendra, domando, e mi metto al giusto, due reali e dodici maravedis.

— Oh ci vorrebbe anche questa, disse don Chisciotte, che non si trovasse a questo momento Melisendra collo sposo don Gaifero per lo meno ai confini di Francia, e tanto più che il cavallo su cui cavalcavano non correva già ma volava: qui si tenta di vendermi gatto per lepre, presentandomi Melisendra senza naso quand'ella se ne sta già in Francia sollazzandosi col suo consorte. Dio conceda a tutti il suo, signor maestro Pietro, e camminiamo tutti per la via diritta e con retta intenzione, e tirate innanzi.”

Accorgendosi maestro Pietro che don Chisciotte cominciava di bel nuovo ad uscire dal seminato, e non volendo che desse in qualche altra scappata, disse:

— Questa non sarà forse Melisendra ma sì bene una delle donzelle del suo servigio, e perciò con sessanta maravedis mi terrò per contento e bene pagato.” In questo modo andò il pazzo attribuendo a molte altre figure un prezzo moderato, che i due giudici arbitri con soddisfazione delle parti fecero poi montare a quaranta reali e tre quarti; ed oltre a questa somma pagata sull'istante da Sancio, domandò maestro Pietro due reali per la fatica di ricuperare lo scimiotto.

— Daglili, o Sancio, disse don Chisciotte, per la ricupera dello scimiotto e della scimia ancora se vuole, ché io già ne sborserei dugento per sapere con certezza immancabile che la signora Melisendra e il signor don Gaifero si trovino in questo punto in Francia presso i loro parenti.

— Non potrebbero dirlo alcuno meglio del mio scimiotto, soggiunse maestro Pietro, ma nemmeno il diavolo lo piglia adesso, quando non fosse che l'amore il quale mi porta e l'appetito lo sforzassero questa sera a cercarmi; e se così sarà dimani ci parleremo.”

In tal modo ebbe fine la burrasca del casotto, e cenarono tutti di buona compagnia e a spese di don Chisciotte che era diventato liberale all'estremo. Prima del giorno partì l'uomo dalle lance e dalle alabarde, ed in ora più tarda vennero a pigliare licenza da don Chisciotte il giovane ed il paggio: l'uno per restituirsi al suo paese, l'altro per proseguire il suo viaggio, a render il quale più agiato, don Chisciotte gli regalò una dozzina di reali. Maestro Pietro non volle più avere di che contrastare con don Chisciotte né per diritto né per istorto, poiché lo conosceva molto bene: e così alzatosi prima del comparire del sole, raccolti gli avanzi del suo casotto, e ricuperato lo scimiotto, andò a cercar sue venture.

L'oste, che non conosceva punto don Chisciotte, restò maravigliato delle sue pazzie e delle sue largizioni, fu ben pagato da Sancio per comando del suo padrone. Preso commiato verso le otto del giorno, lasciarono tutti l'osteria, e si misero in viaggio, dove li lasceremo andare, ché ciò si conviene per passare a dar conto di altre cose utili alla sempre migliore dichiarazione di questa famosa istoria.


CAPITOLO XXVII

 

SI FA SAPERE CHI FOSSE MAESTRO PIETRO E LO SCIMIOTTO, ED IL MAL SUCCESSO DI DON CHISCIOTTE NELLA VENTURA DEL RAGLIO DELL'ASINOCHE NON LA FINÌ COM'EGLI AVREBBE VOLUTO, E COM'ERASI IMMAGINATO.

 

Comincia il cronista della presente alta istoria, Cide Hamete, questo capitolo colle seguenti espressioni: Giuro da cattolico cristiano... Il suo traduttore osserva che il giuramento da cattolico cristiano, fatto da Cide Hamete, essendo egli moro (di che non v'ha dubbio), altro non può significare se non che, siccome quando giura il cattolico cristiano, giura o dee giurare il vero, così egli prometteva che continuando l'istoria di don Chisciotte, avrebbe detto la verità, sì puramente come quella giurata da un cattolico cristiano; e l'avrebbe fatto adesso specialmente che trattavasi di rendere palese chi fosse maestro Pietro e lo scimiotto, il quale attiravasi la universale maraviglia di quelle genti colle sue indovinazioni.

Dice dunque che molto bene si sovverrà chi lesse la prima parte di questa istoria, di quel Gines di Passamonte, cui, fra gli altri galeotti, diede libertà don Chisciotte in Sierra Morena: benefizio mal ricevuto, e ingratamente corrisposto da tutta quella maligna e infame gentaglia.

Questo Gines di Passamonte, che con altro nome era chiamato da don Chisciotte Ginesuccio di Parapiglia, fu quel desso che rubò a Sancio Pancia il leardo, di che non leggendosi (per colpa degli stampatori) il come e il quando nella prima parte della istoria, si fecero molte persone ad accusar l'autore di inesattezza, quando pure doveva ciò ascriversi unicamente a difetto di stampa. Gines infatti rubò a Sancio il leardo, mentre egli vi stava sopra dormendo, e si è valso di quell'astuzia stessa che adoperò Brunello, quando, trovandosi Sacripante al conquisto di Alabracca, gli tolse il cavallo di sotto alle gambe, e fu quindi ricuperato.

La ventura di maestro Pietro fu come segue:

Gines di Passamonte, temendo di esser colto dalla giustizia, che lo cercava per punirlo delle infinite sue furfanterie, delle quali egli stesso compose un gran volume per darne conto, determinò di passare nel regno di Aragona, e di fingersi cieco dall'occhio sinistro. In quel tempo si dedicò alla professione di burattinaio ciarlatano, poiché in questa, e nel giuocare di mano, egli era eccellente. Ora accadde che da un cristiano venuto di Barberia e uscito di cattività, comperò quello scimiotto, e lo addestrò con certi segni a saltargli sulle spalle, ed a fingere di mormorargli qualche cosa all'orecchio; e con questa industria, prima di entrare in qualche paese, dove divisato avea di portarsi col suo casotto e collo scimiotto, informavasi dalle genti del più vicino paese, o da chi più gli cadeva in acconcio, quali cose più singolari fossero nel tale paese avvenute ed a quali persone; e ritenendole bene a mente, cominciava dall'esporre al pubblico il casotto in cui variava, rappresentando ora una storia ora un'altra, sempre però gioconda e festevole ed a tutti nota. Finita che avea quella mostra, metteva in campo le abilità del suo scimiotto, facendo supporre al popolo che egli indovinava il presente, ma che nel futuro non ci aveva grazia. Chiedeva due reali per ogni risposta a qualunque dimanda, ma qualcuna la dava anche a più buon mercato, secondo che conosceva l'umore di quelli che interrogavano.

Portandosi qualche volta alle case di gente di cui sapeva qualche successo, sebbene non gli facessero interrogazioni per non pagarlo tuttavia invitava con gli usati cenni lo scimiotto, poi dicea che gli avea rivelata la tale o tal cosa, la quale calzava a pennello con ciò che era avvenuto realmente. Con questi mezzi s'era acquistato gran credito, e veniva desiderato per ogni dove.

Altre volte, come colui ch'era di molta astuzia, rispondeva in maniera che le risposte quadravano colle proposte; e siccome non era mai eccitato a ventilarle, né costretto a far conoscere con quale industria divinasse quel suo scimiotto, così ingannava tutti e vuotava a tutti la borsa.

Appena entrato nell'osteria, egli aveva conosciuto don Chisciotte e Sancio, e ciò gli rese facile la strada a far maravigliare il padrone e lo scudiere, e tutti quelli che si trovavano presenti: ma gli sarebbe costata ben cara la sua arte se don Chisciotte avesse abbassato un po' più la mano, quando recise la testa al re Marsilio e distrusse tutta la cavalleria, siccome si è detto nel precedente capitolo. — Questo è tutto quello che può raccontarsi intorno a maestro Pietro e al suo scimiotto.

Tornando ora a don Chisciotte della Mancia, soggiungo che dopo essere uscito dall'osteria, stabilì di vedere le belle sponde dell'Ebro e tutti quei contorni, avanti di entrare nella città di Saragozza, avendo opportunità ed agio a farlo per essere tuttavia lontano il tempo in cui doveano seguire le giostre.

Con tale divisamento proseguì il suo viaggio, nel quale occupò due giorni, senza che gli accadesse cosa degna di essere memorata; e nel terzo, allo scoprire di una spiaggia, udì gran rumore di tamburi, di trombe e di spari d'archibugi. Diessi a credere sul principio che derivasse questo rumore da qualche passaggio di compagnie militari per quella parte, e perciò, spronando Ronzinante, salì all'alto di quella spiaggia.

Quando pervenne sulla eminenza scorse ai piedi, per quanto almeno gliene parve, più di dugento uomini armati con differenti maniere d'armi, come a dire lancioni, balestre, partigiane, alabarde, picche, alquanti archibugi e molte rotelle. Calò ed accostossi allo squadrone in modo che vide distintamente le bandiere, poté giudicare dei colori e notare le imprese che portavano. In una, singolarmente di raso bianco, la quale sventolava sopra uno stendardo o gherone, stava dipinto un asino piccolo come quelli di Sardegna, col capo un po' alzato, colla bocca aperta e colla lingua al di fuori, in atto e positura come se stesse ragliando, ed all'intorno era scritto a caratteri maiuscoli il seguente motto: Non ragliarono invano i nostri due Alcadi.

Da questa insegna conobbe don Chisciotte che quella gente doveva essere del paese del raglio, e tosto ne fece motto a Sancio, dichiarandogli ciò che stava scritto su quello stendardo. Gli disse pure che chi aveva loro narrato l'avvenimento del raglio, aveva sbagliato nell'asserire che due giudici fossero quelli che ragliarono, perché dal motto dello stendardo erano due alcadi. — Allora Sancio Pancia soggiunse:

— Signore, non è da farne caso, mentre potrebb'essere che i giudici che ragliarono allora, fossero poi stati eletti alcadi di questo stesso paese, e perciò stava loro bene l'uno e l'altro titolo. E tanto meno è questa cosa da considerarsi, quanto che nulla monta per la verità della istoria che i due ragliatori sieno alcadi o giudici, perché corre tanto a risico di ragliare un alcade quanto un giudice.”

Riconobbero in fine e seppero come il popolo che aveva avuto le beffe, andava ad azzuffarsi con l'altro, il quale si era fatto lecito di schernirlo più che non convenisse al giusto ed alla buona vicinanza.

Don Chisciotte si appressò loro, ma con molto dispiacere di Sancio, cui non andò mai a sangue il trovarsi presente in simiglianti giornate. Quelli dello squadrone lo misero nel mezzo, supponendolo uno del loro partito, e don Chisciotte, alzando la visiera con gentilezza e con bel contegno, pervenne fino allo stendardo dell'asino. Ivi se gli accostarono tutti i principali dell'esercito per vederlo, vinti dalla maraviglia in cui erano tutti coloro che l'osservavano per la prima volta.

Quando egli si accorse di essere sì attentamente osservato, senzaché veruno gli facesse alcuna domanda, divisò di mettere a profitto l'altrui silenzio, e rompendo il suo, alzò tosto la voce, e così si fece a parlare:

— Quanto per me si possa io sono a pregarvi, miei buoni signori, che non isturbiate la concione che voglio ora farvi, sinché essa non vi dispiaccia o non vi annoi: che se ciò avvenisse, al più piccolo motto che voi farete, porrò alla mia bocca il sigillo e s'infrenerà la mia lingua.”

Lo eccitarono tutti a dire ciò che gli tornasse più in grado, assicurandolo che ben volentieri starebbero ad ascoltarlo. Ottenuta quest'approvazione, continuo così:

— Io, miei signori, sono cavaliere errante, il cui esercizio si è il trattare le armi; e la mia professione si manifesta nel dare favore a quelli cui rendesi indispensabile, e nel soccorrere chi trovasi in necessità. Seppi, or sono vari giorni, la disgrazia vostra e la cagione che adesso vi muove alla zuffa per vendicarvi dei vostri nemici. Ho più e più volte fatto meco stesso ragionamento intorno alle vostre discordie, e trovo, secondo che trattano le leggi del duello, che voi andate errati nel tenervi offesi, mentre un intiero popolo non può dirsi affrontato da un solo individuo, quando un tale popolo tutto unito non venga accusato di fellonia, per potere sapere a quale individuo in ispecialità si possa applicare l'accusa. Ne abbiamo un esempio in Diego Ordognez di Lara, il quale accusò tutta la gente zamorana, perché ignorava che il solo Veglido Dolfo si fosse fatto reo di tradimento nella uccisione del suo re; quindi estese su tutti l'accusa, e ad ognuno restava diritto alla vendetta e alla rappresaglia. Egli è ben vero che si lasciò trasportare soverchiamente don Diego, e che ha ecceduto i limiti di un'accusa, perché non facea mestieri ch'egli incolpasse i morti e le acque e le biade e i nascituri ed altre minuzie che si trovano registrate. Ma concedasi ch'egli abbia dirittamente proceduto (per la ragione che quando la collera sormonta non ha freno e governo la lingua), essendoché se un solo non può affrontare un regno, una provincia, una città, una repubblica, un popolo intero, resta chiaro che non vi è ragione di accorrere a vendicare l'accusa di un affronto, perché in questo caso non ha ad essere tenuta per tale. Staremmo freschi, signori miei, se si ammazzassero per un nonnulla quelli che popolano il paese dai ragli con quelli che li deridono per questo nome. I tegamai, i caciaiuoli, i saponai o quelli di altra razza o casato, che vanno tuttodì per le bocche dei fanciulli e della gente vile, sarebbero istigati da collera, non cercherebbero che vendette, ed altro non farebbero che sguainare e riporre le spade per ogni meschina briga. No, no, né a Dio piaccia, né il voglia. Gli uomini prudenti nelle ben ordinate repubbliche, debbono per sole quattro cose dar di piglio all'arme, tirare la spada dal fodero e mettere a repentaglio le persone, le vite e le sostanze. La prima per la difesa della fede cattolica; la seconda per quella della vita, ch'è, secondo ogni legge naturale e divina; la terza per il proprio onore, per la propria famiglia e per i propri averi; la quarta per servire il re in guerra giusta: e volendo aggiungere la quinta, che collocare potrebbesi per seconda, per difesa della propria patria. A queste cause altre aggregarsi possono che sieno giuste e ragionevoli, e che ci obblighino a prendere le armi: ma il pigliarle per cose frivole e più da riso  e da sollazzo che di disonore e di affronto, egli è un mancare di buono discernimento. Il fare una vendetta ingiusta (che non si dà giusta vendetta), è direttamente contrario alla santa legge che professiamo; legge che ci comanda di far bene ai nostri nemici, di portar amore a chi ci odia; legge che quantunque ci sembri un po' dura da osservarsi, tale non è però se non per coloro che Dio pospongono al mondo e lo spirito alla carne, e ricordatevi che il nostro Salvatore, vero Iddio e vero uomo, ed esempio di verità immancabile, essendo nostro legislatore, disse che leggiero è il suo peso e soave il suo giogo, né ci comandò cosa che fosse impossibile eseguire. Ora, signori miei, vi sarà facile il conoscere che per le divine ed umane leggi siete obbligati di mettervi in tranquillità.

— Il diavolo mi porti, disse tra sé Sancio a tal punto, se questo mio padrone non è un missionario; o se non lo è, lo assomiglia come uovo ad altro uovo.”

Prese un po' di fiato don Chisciotte, e vedendo che tuttavia si manteneva il silenzio, già accignevasi a tirare innanzi il suo ragionamento, e lo avrebbe fatto, se non vi si fosse interposta l'acutezza di Sancio, il quale profittando di una breve pausa, prese il padrone per mano, e così disse:

— Il mio signor don Chisciotte della Mancia, che si chiamò un tempo il cavaliere dalla Trista Figura, e che chiamasi adesso il cavaliere dai Leoni, è un cittadino di gran giudizio, che sa di latino e di volgare quanto un baccelliere, e in ogni cosa che tratta e consiglia procede come soldato bravissimo, e tiene sulla cima delle dita tutte le leggi e le ordinanze di ciò che si chiama duello. Non si ha dunque a far altro se non quel tanto che predica; e tolgo sopra di me ogni male che potesse nascere. E poi, perché non si dovrà ascoltarlo se ha dimostrato ch'è una vera balordaggine l'entrare in valigia per causa del raglio d'un asino? Io mi ricordo bene che quando ero giovane, io ragliavo ogni volta che me ne veniva fantasia, e non vi era chi mi togliesse la mano; e lo facevo con sì bella grazia e proprietà, che appena finito il mio raglio, ragliavano tutti gli asini del paese; ma per questo non cessavo d'essere figlio dei miei genitori, ch'erano onoratissimi; e quantunque la mia virtù promuovesse l'invidia di alquanti dottoroni del mio paese, io non me ne davo per inteso. Perché si vegga che io dico la verità, aspettino e ascoltino; che questa scienza è come quella del nuotatore, imparata una volta non si scorda mai più.” E portata sul momento la mano al naso, cominciò a ragliare così sonoramente che tutte le circonvicine valli ne rimbombarono.

Uno di quelli che gli stavano accanto, pensò che volesse beffarsi della sua fazione, e subito alzata una grossa e lunga pertica che teneva in mano, gli diè un colpo sì terribile, che il povero Sancio, senza potersene in modo alcuno schermire stramazzò.

Don Chisciotte che lo vide così mal concio, andò con la lancia sopra mano ad investire l'assalitore, ma tanti furono quelli che si frapposero che non poté vendicarlo, ed accorgendosi che gli diluviava già addosso un nugolo di pietre, e ch'era minacciato da mille freccie e da non minore quantità di archibugi, voltò la briglia a Ronzinante, e a quanto galoppo poté scappò dalle mani dei nemici, raccomandandosi a Dio di cuore, perché lo facesse uscire libero da tanto pericolo.

Temeva ad ogni passo che qualche palla non gli entrasse dalla schiena e gli uscisse pel petto, e a ogni poco raccoglieva il fiato, per timore che non gli mancasse; ma intanto quelli dello squadrone ristettero dal tirargli sopra, contenti di vederlo fuggire.

Appena poi che Sancio tornò in sé lo caricarono sopra il suo asino e lo lasciarono seguitare il suo padrone, non perché foss'egli in caso di guidare da sé la bestia, ma perché essa si mise spontanea sulle orme di Ronzinante, con cui era solita convivere.

Essendosi don Chisciotte allontanato per un buon tratto di strada, voltò la testa e vide che Sancio lo seguitava, e lo stette aspettando, poiché si accorse che non era più inseguito. Stettero fermi nel campo quelli dello squadrone, perché li colse la notte, e perché non erano usciti in battaglia i loro avversari, e nella mattina seguente, festosi e lieti se ne tornarono al loro paese.

Se avessero saputo le costumanze dei Greci antichi avrebbero in quel luogo e in quel sito innalzato un sontuoso trofeo.


CAPITOLO XXVIII

 

COSE DETTE DA BEN-ENGELI CHE CHI LE LEGGERÀ LE SAPRÀ SE LE LEGGERÀ CON ATTENZIONE.

 

Quando il valoroso fugge, egli è che l'agguato è scoperto, ed è consiglio da uomo prudente il riserbarsi in questo caso ad altra migliore occasione. Si confermò questa verità in don Chisciotte il quale cedendo alla furia del popolo ed ai malintenzionati di quello sciagurato squadrone, si sottrasse, e senza risovvenirsi di Sancio né del pericolo in cui lo lasciava, tanto si accostò quanto gli parve che potesse bastare per mettersi in luogo di sicurezza. Sancio seguitavalo a ridosso del suo giumento, come si è detto. Lo raggiunse al fine già tornato in cervello, e tosto arrivato si lasciò cadere dal leardo ai piedi di Ronzinante, tutto afflitto e pesto e bastonato. Smontò don Chisciotte per vedere che ferite avesse; ma trovandolo tutto sano, si fece a dirgli con viva collera:

— Corpo di... e perché hai tu voluto ragliare in sì cattivo momento? E dove hai tu imparato a parlare di corda in casa dell'appiccato? A musica di raglio che contrappunto si avea egli a fare se non di bastoni? Ringrazia Dio, Sancio, che in luogo di averti segnato con il bastone non ti abbiano fatto il per sognum crucis colla scimitarra.

— Non posso rispondere, disse Sancio, perché mi pare che mi parlino alle spalle: montiamo a cavallo, e togliamoci di qua che io non raglierò mai più, ma non lascierò di dire che i cavalieri erranti scappano via e abbandonano i loro fedeli scudieri in balia dei nemici, triti come polvere di tarlo e macinati come frumento al mulino.

— Non fugge chi si ritira, rispose don Chisciotte; perché hai da sapere, o Sancio, che la bravura quando non si fonda sulla base della prudenza, si chiama temerità, e le prodezze del temerario più si attribuiscono alla buona fortuna che al suo coraggio. Io confesso che mi sono ritirato, ma non sono fuggito, imitando in ciò molti valorosi che si riserbarono a tempi migliori: e di questo son piene le istorie, le quali non potendo esserti di alcun giovamento, né dare a me gusto, giudico bene di non riferirle.

In questo stavasi Sancio già montato a cavallo, mercé l'assistenza di don Chisciotte, il quale salì del pari su Ronzinante, e passo passo andarono ad internarsi in un albereto che vedeasi di là discosto circa un quarto di lega. Mandava Sancio ad ora ad ora non pochi profondi ahimè accompagnati da dolorosi gemiti, ed avendogli chiesto don Chisciotte la cagione di sì amari lamenti, rispose che dalla punta del filo della schiena sin alla nuca del cervello gli doleva in maniera da impazzire.

— Questi tuoi dolori, disse don Chisciotte, debbono fuori di dubbio provenire per essere il bastone col quale ti bastonarono molto lungo e tanto disteso che ti acchiappava tutte le spalle dove stanno quelle parti che ora ti dolgono; e se più ti avessero colto più dolore ne avresti.

— Per l'anima mia, rispose Sancio, che vossignoria mi ha cavato da un gran dubbio e me lo ha dichiarato a maraviglia. Cospetto! era tanto misteriosa la causa del mio dolore che fosse bisognato dirmi che mi dolgono tutte quelle parti dove arrivò il bastone? Se mi dolessero i nodi del piede potrebbe anche permettersi d'indovinare perché mi dolessero ma ci voleva assai a profetare che in vece si confina il dolore alle parti che furono ammaccate? In fede mia, signor padrone mio buono, che il male degli altri ci dà poco fastidio, e vo scoprendo terreno ogni dì intorno al poco che posso sperare dalla compagnia ch'io faccio alla signoria vostra, perché se questa volta mi ha lasciato bastonare, un'altra e cento altre torneremo allo sbalzamento della coperta che si sa, con tante altre ragazzate: ché se adesso la visita è venuta sino alle spalle, verrà un giorno anche sino agli occhi. Oh quanto meglio farei io, sciagurato che sono! oh quanto meglio farei a tornarmene a casa mia a rivedere la mia moglie ed i miei figliuoli, sostenendo questa ed educando quelli col poco che Domeneddio mi ha dato, e non seguitare altro vossignoria per istrade senza strada e per sentieri e carriere senza riuscita, bevendo male e mangiando peggio; ché del dormire non ne parliamo! Conta pure, fratello scudiere, sei palmi di terra; e se più ne vuoi, pigliane altrettanti, ché sta in tua mano; e distenditi quanto ti piace. Ah ch'io possa vedere bruciato e fatto in polvere quello che ha dato il primo impulso alla errante cavalleria, o almeno quel primo che ha voluto farsi scudiere di questi balordi; ché tali dovettero essere tutti gli erranti cavalieri dei tempi scorsi e non parlo dei presenti che li rispetto, perché la signoria vostra è uno di loro, e perché capisco che vossignoria sa dove il diavolo tiene la coda quando parla e quando pensa.

— Io farei con te buona scommessa, o Sancio, risposegli don Chisciotte; che tu vai chiacchierando così senza modo né fine perché non ti duole più niente in tutto il tuo corpo. Or bene, parla pure, figliuol mio, di tutto ciò che ti viene in testa e in bocca: mentre, purché tu non patisca, terrò per piacere la noia che mi danno tante tue impertinenze: e se poi tanto desideri di tornartene a casa tua, alla moglie e ai figliuoli, a Dio non piaccia che io te lo contrasti. Tu hai danari di mia ragione; fa il conto tu quando egli è che uscimmo questa terza volta dal nostro paese, e valuta quello che puoi e devi guadagnare per ogni mese, e pagati colle tue mani medesime.

— Quando io serviva, rispose Sancio, don Tommaso Carrasco, il padre del baccelliere Sansone Carrasco molto ben conosciuto da vossignoria, io guadagnava due ducati al mese, oltre agli alimenti; ma con la signoria vostra non dico quello che io posso guadagnare, benché sappia bene che maggior fatica è quella dello scudiere di un cavaliere errante che quella di chi serve un contadino. Ed infatti noi quando serviamo ai contadini, per quanto lavoriamo nel giorno, e per mal che ci vada, abbiamo (a farla magra) alla sera una buona pignatta che bolle, e dormiamo nel nostro letto: cosa che non ho potuto fare da poi che servo vossignoria. Io non ho avuto bene che in quel poco di tempo che siamo dimorati in casa di don Diego de Miranda: e il mio gaudeamus è stato colla schiuma che ho cavata dalle pignatte di Camaccio, e il mangiare, bere e dormire in casa di Basilio; ma in ogni altro tempo ho dormito sopra la nuda terra, a cielo scoperto, soggetto a quelle che chiamano incremenze del cielo, sostentandomi con qualche scheggia di formaggio e con qualche tozzo di pane, e bevendo acqua ora di ruscello ora di fontana, quale s'incontra per queste catapecchie dove noi ci cacciamo.

— Non so negare, o Sancio, disse don Chisciotte, ch'egli è verissimo tutto quello che tu dici. E quanto pare a te ch'io debba darti più di quello che ti pagava Tommaso Carrasco?

— Io mi contenterei, disse Sancio, di due reali di più che vossignoria aggiungesse per ogni mese, e questo in quanto al salario delle mie fatiche; ma in quanto al soddisfarmi della parola e promessa fattami dalla signoria vostra di darmi il governo d'un'isola, sarebbe atto di giustizia che si aumentassero sei altri reali, che in tutto sarebbero trenta.

— Va benissimo, replicò don Chisciotte, e confermo il salario che tu ti sei attribuito. Corrono venticinque giorni da che siamo partiti dal nostro paese, fa il conto pro rata, e pagati, come già ti ho detto, colle tue stesse mani.

— Oh corpo di me! disse Sancio, vossignoria va errato di grosso nel fare questo conto, perché quello della promessa dell'isola si ha da cominciar dal giorno in cui mi fu assicurata, sino a questo in che ora siamo per finir le nostre ragioni.

— Or bene, quant'è, disse don Chisciotte, che ti ho fatto la mia promessa?

— Se male non mi ricordo, rispose Sancio, saranno più di venti anni, tre giorni più o manco.

Don Chisciotte si diede una grande palmata sulla fronte, cominciò a ridere sgangheratamente e disse:

— Nell'avere percorsa Sierra Morena ed ogni altra peregrinazione, dopo la mia prima uscita, non s'impiegarono che appena due mesi: e tu dici, Sancio, che corrono vent'anni da che ti ho promessa l'isola? Oh m'accorgo io bene che ti sei proposto di volermi consumare nel tuo salario tutto il danaro che tieni di mia ragione. Se questo è, e così ti piace, sia per tutto tuo, che te ne fo un dono e buon pro ti faccia, mentre per allontanare dal mio fianco così cattivo scudiere non mi dispiacerà di restar povero e senza un maravedis. Ma dimmi un poco, o prevaricatore degli ordini scudierili della errante cavalleria, dove hai tu veduto o letto mai che scudiere alcuno di cavaliere errante siasi accinto a contrastare col padrone per crediti di salario, e dire: tanto voglio, tanto mi avete da dare al mese per la mia servitù? Metti, metti, malandrino e furfante e fantasma, ché ben ti sta ognun di questi nomi, metti, ripeto, nel mare magnum delle nostre istorie il tuo dito, e se avviene che tu ti trovi per entro, che scudiere di questo mondo abbia detto o pensato quello che tu dicesti, mi contento che me lo conficchi nella fronte, e per giunta che tu mi faccia quattro castagne sigillate sul viso. Tornati alla briglia od al capestro del tuo leardo, e vattene alla malora a casa tua, che da ora in avanti non hai da restare con me un momento solo. Oh pane malconosciuto! oh mal collocate promesse! oh uomo che ha più della bestia che della persona! Ora, quando che io divisava di metterti al mondo e di farti un signore tale che a dispetto di tua moglie avessero a darti della signoria, tu ti togli licenza? Ora te ne vai, quando col più fermo ed efficace proposito io volea farti padrone della migliore isola della terra? Sì, sì, è vero quello che tu stesso hai detto altre volte, che il miele non è fatto per la bocca dell'asino: tu sei asino, sarai asino e hai da finire asino quando finisca il corso della tua vita; ché quanto a me tengo che prima di arrivare all'ultimo termine avrai ad accorgerti ed a persuaderti bene che sei stato un animale.”

Sancio stava guardando fisso fisso il suo padrone, intanto che ascoltava questi vituperi, ed in un attimo si compunse in modo che gli vennero le lacrime sugli occhi, e con voce dolente ed inferma gli disse:

— Confesso, signor mio, che per essere asino dal capo ai piedi, altro non mi manca fuorché la coda. Se la signoria vostra me la vuole appiccare, io la terrò per bene aggiunta e starò come giumento a servirla per tutto il resto della mia vita. Mi perdoni vossignoria, e compatisca la mia inesperienza: consideri che io sono ignorante, e che se parlo molto, ciò viene piuttosto da infermità che da malizia: ma chi falla e si emenda, a Dio si raccomanda.

— Avrei dovuto maravigliarmi, o Sancio, disse don Chisciotte, che nel tuo discorso tu non avessi immischiato qualche proverbio: ebbene, io ti perdono, a patto però che ti emendi, e che quindi innanzi ti mostri bensì curante dell'interesse, ma che cerchi di rinfrancare il cuore e di animarti ad attendere il compimento delle mie promesse; ché sebbene s'indugia, non si fa impossibile.”

Rispose Sancio che così farebbe, se pure avesse dovuto cavar sangue dalle rape.

Entrarono con questo nell'albereto: e don Chisciotte si accomodò al piè di un olmo, e Sancio a quello di un faggio. Sancio passò la notte con molto disagio, perché il coricarsi al sereno gli faceva sentire l'effetto delle ricevute bastonate. La passò don Chisciotte immerso nelle sue continue rimembranze, ma contuttociò chiusero ambedue gli occhi, ed ebbero quieto sonno. Allo spuntar dell'alba proseguirono il loro cammino verso le sponde del famoso Ebro, dove loro successe quello che si racconterà nel seguente capitolo.


CAPITOLO XXIX

 

LA FAMOSA VENTURA DELLA BARCA INCANTATA.

 

E così adagio adagio, due giorni dopo l'uscita dall'albereto, don Chisciotte e Sancio giunsero al fiume Ebro.

Fu di grande soddisfazione a don Chisciotte il vedere e il contemplare le amenità delle sue sponde: la limpidezza delle sue acque, il placido corso e l'abbondanza loro; ed una vista sì ridente e lieta gli chiamò alla memoria mille pensieri, e si ricordò specialmente di tutto quello che avea veduto nella Grotta di Montésino. Quantunque lo scimiotto di maestro Pietro gli avesse detto che parte di quelle cose erano vere e parte false, attenevasi piuttosto a quelle che a queste, a differenza di Sancio, che le giudicava tutte, senz'altro, per solenni bugie. Andando eglino a questo modo, scopersero una piccola barca senza remi e senza sarte presso alla sponda legata ad un tronco di albero. Portò don Chisciotte gli occhi per ogni dove, e non vedendo persona viva, smontò dal suo Ronzinante, ed ordinò a Sancio che smontasse egli pure dal suo leardo, e che legasse ambedue le bestie unite insieme al tronco di un albero o salice vicino.

Gli dimandò Sancio la cagione di quel subito smontare e legar le bestie, e risposegli don Chisciotte:

— Hai da sapere, o Sancio, che questa barca, a diritto pensare e senza che altro se ne possa dire in contrario, mi chiama e invita ad entrarvi per accorrere a dar soccorso a qualche cavaliere od altra bisognosa e signorile persona che dee trovarsi in rischio prossimo e tremendo. Ti dirò adesso qual è lo stile delle cavalleresche istorie e degl'incantatori che vi s'immischiano. Quando un cavaliere trovasi in gran travaglio, da cui non possa essere tolto senza l'aiuto di un altro cavaliere, fossero eglino pure discosti l'uno dall'altro due o tremila leghe, ed anche più, si veggono rapiti in una nuvola, o comparisce loro dinanzi una barca dove possono entrare, e in manco del battere di un occhio, si portano o per l'aria o pel mare, come loro più aggrada, dove sia più opportuno il loro aiuto. Per quest'effetto, Sancio mio, è stata qui posta questa barca, e questo è tanto vero come ora è giorno: sicché per non lasciar fuggire il momento, lega tu pure uniti il leardo e Ronzinante, e la mano di Dio ci conduca, ché io non lascerei d'imbarcarmi, quand'anche mel vietassero i padri Inquisitori.

— Se così è, rispose Sancio, e vossignoria vuol dare ad ogni tratto in questi, non so se si chiamano spropositi, altro non occorre che fare a suo modo ed abbassare la testa, attenendosi al proverbio che dice: fa quello che ti comanda il padrone, e mettiti a sedere a tavola con esso lui. Per altro, a scarico di mia coscienza, voglio avvertire la signoria vostra che a me pare che questa barca qui non sia di quelle incantate, ma piuttosto di qualche pescatore di questo fiume, dove si pigliano le lacce migliori e più squisite.”

Pronunciava Sancio queste parole nell'atto che stava legando le bestie, le quali abbandonava alla protezione ed alla difesa degl'incantatori, con suo grandissimo dolore e dispetto. Don Chisciotte gli disse che non si pigliasse fastidio dell'abbandono delle bestie, mentre colui che le guidò per tanto rimoti e longinqui paesi, avrebbe pensiere di sostenerle.

— Non intendo questa parole longinqui disse Sancio, né la ho più udita da che uscii dal corpo di mia madre.

Longinqui, rispose don Chisciotte, vuol dire lontani; né mi maraviglio che tu non intenda, per non esser tu obbligato a saper di latino, né ad essere letterato, né essendo tu di quelli che presumendo di sapere, sono affatto ignoranti.

— Le bestie sono legate, replicò Sancio, ed ora che abbiamo a fare?

— Che? rispose don Chisciotte, segnarci e andarcene; voglio dire imbarcarci, e tagliar la fune a cui questa barca è raccomandata.”

In ciò dire vi saltò dentro; Sancio, che lo seguitò, tagliò il funicello, e la barca andava lentamente scostandosi dalla riva.

Quando Sancio si vide in mezzo al fiume ed alquanto distante dalle sponde, cominciò a tremare per lo spavento di andar a perdizione; ma nessuna cosa gli diè tanto affanno quanto l'udir il raglio del suo leardo, e il vedere che Ronzinante faceva ogni sforzo per isciogliersi. Tosto disse al padrone:

— Sento l'asino che raglia per il dolore che gli reca la nostra lontananza e Ronzinante procura di mettersi in libertà per venirci dietro. Ah no, carissimi amici, restatevi in pace, e la pazzia, che da voi ci divide, convertita in disinganno, torni poi a ricondurci alla vostra presenza.”

Nel fare questa esclamazione, cominciò Sancio a piangere sì dirottamente che don Chisciotte, annoiato e incollerito, si fece a dirgli:

— Di che paventi codarda creatura? di che piangi, cuore di ricotta? Chi ti perseguita o chi ti caccia, animo da sorcio casalingo? E che ti manca, uomo bisognoso in mezzo alle viscere dell'abbondanza? Vai tu forse camminando a piedi scalzi per le montagne rifee? Tu stai pure a panciolle sopra una tavola come un arciduca attraversando il corso di questo piacevolissimo fiume, dal quale passeremo fra poco nel grande oceano. Noi dobbiamo già aver viaggiato per lo meno 7 od 800 leghe; e se io avessi qui un astrolabio da misurare l'altezza del polo, ti direi, sebbene poco io me n'intenda, quanto cammino siasi fatto, e se abbiamo passato o se passeremo presto la linea equinoziale che taglia e separa i due contrapposti poli in eguale distanza.

— E quando pure saremo arrivati a questa linea che dice vossignoria, dimandò Sancio, quanta strada avremo fatta?

— Molta e lunga, replicò don Chisciotte, perché di trecentosessanta gradi che contiene il globo dell'acqua e della terra, giusta i calcoli di Tolomeo, che fu il maggiore cosmografo che si conosca, ne avremo camminata la metà arrivando alla linea che ho detto. Devi poi anche sapere, o Sancio, che gli Spagnuoli, e quelli che s'imbarcano in Cadice per recarsi alle Indie orientali, hanno per segno indubitato di avere passata la linea equinoziale che ti ho detto, la morte improvvisa di certi tardi e sudici animaletti, che un cavaliere errante ha ribrezzo di nominare, e che per avventura stanno in testa o dispersi per la vita. Giunti alla linea non se ne troverebbe uno solo nel vascello, se si volesse pagarlo a peso d'oro. Cercati adunque in dosso, e se trovi cosa viva, ciò vorrà dire che siamo ancora indietro, e se non la trovi, avremo passata la linea.

— Io non credo niente di tutto questo, rispose Sancio; tuttavia farò quanto vossignoria mi comanda, abbenché non trovi necessarie queste tali esperienze, vedendo coi miei propri occhi che noi non ci siamo scostati dalla riva più di cinque braccia, né più di dieci siamo lontani dalle nostre bestie, perché ecco là Ronzinante e il leardo nel sito medesimo dove li abbiamo lasciati; e a pigliare la mira, come adesso io la piglio, giuro da quel che sono che noi non ci moviamo, o al più tiriamo innanzi a passo di formica.

— Sancio, fa la prova di quello che ti ho esposto, soggiunse don Chisciotte, e lasciane andare ogni altra, ché già tu non potrai mai capire che cosa sieno coluri, linee, paralleli, zodiachi, eclittiche, poli, solstizi, equinozi, pianeti, segni, punti e misure delle quali si compone la sfera celeste e terrestre. Se tu sapessi tutte o parte di siffatte cose, vedresti chiaramente quanti paralleli abbiamo tagliati, quanti segni veduti, e quante cose lasciate indietro, ovvero andiamo ora lasciando; e torno a dire che tu ti tasti e ti cerchi addosso, quantunque io voglio credere che sarai più pulito e più mondo di un foglio di carta liscia e bianca.”

Sancio si palpò, e portando pian piano la mano verso il polpaccio della gamba sinistra, alzò il capo, guardò il suo padrone e disse:

— O la sperienza è falsa o noi non siamo arrivati dove dice vossignoria.

— Ebbene, tornò a dimandare don Chisciotte, hai tu pigliato qualche niente?

— Qualche piccola cosa che si move ho trovato, rispose Sancio.”

E scuotendosi le dita, si lavò tutta la mano nel fiume per il quale sdrucciolava placidamente la barca nel mezzo della corsia, non mossa da veruna segreta intelligenza o da qualche celato incantatore, ma dal corso stesso dell'acqua piacevole allora e tranquilla. Scoprirono in questo due gran mulini in mezzo al fiume, e don Chisciotte appena li ebbe veduti, che ad alta voce disse a Sancio:

— Guarda di là, amico Sancio, che scopresi la città, castello o fortezza dove sarà senza dubbio rinchiuso qualche oppresso cavaliere, o qualche regina, o infanta, o principessa infelice, al cui soccorso io sono stato in questa parte condotto.

— Che diavolo di città, fortezza o castello va dicendo vossignoria? disse Sancio. Non conosce che quelli sono mulini posti in mezzo al fiume per macinare il grano?

— Taci, Sancio, replicò don Chisciotte, che sebbene paiano mulini non lo sono altrimenti, e ti ho già narrato le tante volte che tutto si muta e si trasforma per opera d'incantamento, abbandonando il suo essere naturale: non già che si mutino veramente di uno in altro essere, ma in modo che pare così come lo mostrò la sperienza nella trasformazione di Dulcinea, unica mia speranza e rifugio.”

Tra questi discorsi la barca, entrata in mezzo alla corrente del fiume, cominciò ad accelerare di più il suo corso. I mugnai che videro venir giù quella barca, e che andava a cacciarsi tra le ruote del mulino, uscirono fuora in molti con lunghe stanghe a respingerla; e siccome erano tutti infarinati, coi vestiti e colle facce ricoperte della polvere di farina, e così facevano brutto vedere. Sclamavano fortemente:

— O uomini indiavolati, dove n'andate voi? Siete disperati? E che? volete affogarvi ed essere fatti a pezzi da queste ruote?

— Non ti diss'io, o Sancio, soggiunse don Chisciotte allora, che siamo al punto dove si ha da vedere a qual segno giunga il valore del mio braccio? Osserva quanti malandrini e incantatori mi escono all'incontro; guarda quante fantasime mi si oppongono: mira che brutti mostacci tentano di spaventarci; ma ora ve ne accorgerete, o furfanti!”

E rizzatosi in piè nella barca cominciò a minacciare ad alta voce i mugnai, dicendo loro:

— Malvagia canaglia e sconsigliata, lasciate in libertà e in pieno suo arbitrio quella persona che in questa vostra fortezza o piuttosto prigione, tenete oppressa, alta o bassa, o di qualsivoglia altra condizione che siasi, mentr'io sono don Chisciotte della Mancia, chiamato con altro nome il cavaliere dai Leoni, cui è riserbato per comando degli alti cieli di dare felice fine a quest'avventura.”

Detto questo pose mano alla spada, e cominciò a schermirla per l'aria contro i mugnai, i quali, non udendo né intendendo quelle pazzie, si accinsero colle loro stanghe a tenere indietro la barca che ormai inoltravasi tanto da andare a rompersi tra le ruote. Sancio Pancia si pose in ginocchione, pregando a mani giunte il cielo affinché lo facesse uscir libero da sì evidente e sì terribile precipizio: e ciò seguì per l'industria e prestezza dei mulinari che opponendo i loro bastoni alla barca riuscirono a fermarla. Non fu per altro possibile d'impedire che la barca non traboccasse, sicché don Chisciotte e Sancio andarono capovolti nell'acqua: ma nessun male avvenne a don Chisciotte, perché sapeva nuotare come un'oca, ad onta che il peso dell'arme due volte lo avesse portato al fondo. Contuttociò se non fosse stato per l'opera dei mugnai, che gettaronsi nel fiume e li trassero fuori di peso tutti e due, ben si sarebbe potuto dire: Qui fu Troia. Posto che ebbero piè a terra, più molli che morti di sete, Sancio, ginocchiatosi di bel nuovo e colle mani giunte e cogli occhi fitti al cielo, pregò Dio con lunga e devota orazione che quindi innanzi lo liberasse dagli arditi desideri e dalle temerarie imprese del suo padrone. Giunsero in questo i pescatori, padroni della barca già fracassata dalle ruote dei mulini, e vedendola tutta in pezzi, andarono alla volta di Sancio per ispogliarlo e ad esigere da don Chisciotte che gliela pagasse. Questi con gran sussiego e come se nulla gli fosse avvenuto, disse ai mugnai e pescatori che pagherebbe la barca di buonissima voglia, a condizione che dessero la libertà, e senza guarentigia, alla persona o alle persone che in quel castello stavano oppresse.

— Di quali persone o di qual castello parli tu, uomo senza giudizio? disse uno di quei mugnai. Vuoi tu forse condurti via le donne che vengono a macinare il grano a questi mulini?

— Basta, disse fra sé don Chisciotte; qua è lo stesso che predicare al deserto, che non è da pensare che questa canaglia, per priego che le si faccia, s'induca al partito della virtù. Oh, debbono in questa ventura essersi incontrati due valenti incantatori, uno dei quali distrugge quello che dall'altro si tenta! l'uno mi mise innanzi la barca, e l'altro mi ha fatto naufragare: Dio sia quello che ci metta rimedio, ché altro non occorrono a questo mondo se non se macchine e intrighi, i quali l'uno coll'altro contrastano. Qua non posso più far nulla di bene; e alzando la voce, continuò dicendo e tenendo l'occhio ai mulini:

— Amici, chiunque voi siate che in questa prigione rinserrati vivete, perdonatemi, se per mia e per vostra disgrazia, non posso cavarvi dalla miseria, ché debb'essere ad altro cavaliere riserbata tanta ventura.” E in così dire, si accordò coi pescatori, e sborsò per la barca cinquanta reali, che Sancio pagò di assai malavoglia, dicendo:

— Con altre due barcate simili a questa, noi andremmo al fondo con tutto il capitale.”

Stavano attoniti i pescatori e i mugnai, guardando le due brutte figure sì diverse dalla comune degli altri uomini, né giugneano a comprendere a che fine don Chisciotte dicesse quelle parole e facesse quelle dimande. Avendoli però in conto di due pazzi, li lasciarono andare alla buon'ora, e tornarono i mulinari ai mulini e i pescatori al loro posto. Tornarono alle loro bestie, e continuarono ad essere bestie don Chisciotte e Sancio; e questo fu il fine della ventura della barca incantata.


CAPITOLO XXX

 

DI QUELLO CHE INTERVENNE A DON CHISCIOTTE CON UNA BELLA CACCIATRICE.

 

Lo scudiere e il cavaliere, assai malinconici, raggiunsero le loro bestie; ma Sancio specialmente, cui stringeva il cuore nel mettere mano al denaro, parendogli che tutto quello che se ne consumava fosse tolto alle pupille degli occhi suoi. Finalmente, senza dir motto si posero a cavallo, e scostaronsi dal famoso fiume, restando don Chisciotte assorto nei pensamenti dei suoi amori, e Sancio in quelli della sua futura grandezza, dalla quale sembravagli essere tuttavia ben lontano: poiché quantunque goffo, comprendeva bene che tutte, o la più parte, delle azioni del suo padrone erano bestialità. Egli andava studiando qualche spediente per poterlo piantare come un cavolo, senza fare altri conti e senz'altri disgusti, e così tornarsene a casa sua: ma la fortuna ordì le cose molto diversamente da quello ch'ei supponeva.

Avvenne dunque che il giorno seguente, al tramontare del sole, uscendo dalla selva, distese don Chisciotte gli occhi per un verde prato, a capo del quale vide gente, che poi conobbe essere cacciatori. Avvicinatosi di più, scoprì ch'era fra loro una bellissima donna sopra un palafreno o chinea bianchissima, ornata di guarnizione verde e con sella messa ad argento. Anche la donna era vestita di verde, con sì grande bizzarria e ricchezza, che la stessa leggiadria pareva che si fosse in lei trasformata. Portava colla sinistra mano un falcone, d'onde argomentò don Chisciotte dover ella essere signora di alto grado e la padrona di tutti quei cacciatori, com'era veramente: e perciò disse a Sancio:

— Corri, figliuolo, e di' alla signora del palafreno e del falcone, che io, il cavaliere dai Leoni, mi dichiaro servitore alla sua esimia bellezza, e che se dalla grandezza sua si permette, io andrò a baciarle le mani; e a rendermi suo schiavo in quanto le forze mie si estenderanno, e quanto sarà per comandarmi l'altezza sua. Bada o Sancio, di non mescolare spropositi nella tua ambasciata, ed astienti affatto da ogni tuo proverbio.

— Vossignoria ha trovato l'uomo veramente che fa di ogni erba un fascio! rispose Sancio: a me questo, a me? Non è già adesso la prima volta che ho portate ambasciate ad alte e grandi signore di questo mondo.

— Se non intendi di quella che tu facesti alla signora Dulcinea, replicò don Chisciotte, non so di qual altra tu voglia dire, nel tempo almeno che sei al mio servigio.

— Signor mio, rispose Sancio, al buon pagatore non dolgo i pegni, e in casa piena presto si allestisce la cena: e voglio con ciò intender che con me non servono tanti avvertimenti, mentre io sono buono ad ogni cosa e di tutto m'intendo un poco.

— Te lo credo, Sancio, disse don Chisciotte, va pur in buon'ora e Dio ti conduca.

Partì Sancio di carriera, facendo trottar forte il leardo, e giunto alla bella cacciatrice, smontò e postesele ginocchioni dinanzi, le disse:

— Bella signora, quel cavaliere che si vede di là, chiamato il cavaliere dai Leoni, è il mio padrone, e io sono un suo scudiere, e al mio paese mi chiamano Sancio Pancia; ora questo tale cavaliere dai Leoni, che non è molto si chiamava quello dalla Trista Figura, mi manda a dire che piaccia alla vostra grandezza concedergli che con sua permissione e beneplacito e consentimento venga a mettere in esecuzione il suo desiderio; che ad altro non si estende, per quanto egli dice ed io penso, fuorché alla premura di servire alla vostra incimata altezzeria ed alla vostra stradiladdirara bellezza; se vostra signoria gli dà questa permissione, ne avrà gusto e riporterà segnalatissima mercede e contento.

— Per certo, o scudiere galante, rispose la signora, che compita avete di tutto punto la vostra ambasceria; alzatevi pure di terra che scudiere di sì alto cavaliere, come si è quello dalla Trista Figura, di cui abbiamo quivi gran novelle, non è dovere che stia ginocchioni: alzatevi, amico, e dite al vostro padrone che venga pure in buon'ora a favorire me ed il duca mio marito nella casa di campagna che abbiamo qui presso.”

Si levò Sancio, stupito sì della bellezza della buona signora, come della sua molta gentilezza e del molto buon garbo, e dall'avergli ella detto che l'era ben noto il suo padrone, il cavaliere dalla Trista Figura: e immaginò che se non lo chiamava col titolo di cavaliere dai Leoni, ciò doveva essere perché era un titolo di data ancor troppo fresca.

Gli replicò la duchessa (di cui s'ignora il nome tuttavia):

— Ditemi, di grazia, fratello scudiere, è egli questo vostro padrone un tale di cui va stampata una istoria, che si chiama: Dell'ingegnoso idalgo don Chisciotte della Mancia, e che tiene per sovrana del suo cuore una tale Dulcinea del Toboso?

— Oh, egli è quello appunto, signora, rispose Sancio; e quello scudiere che va o deve andare in questa tale istoria, sono io, che mi chiamo Sancio Pancia, se non mi hanno cambiato il nome in culla, o a meglio dire se non lo hanno cambiato nella stampa.

— Molto mi compiaccio di tutto questo, disse la duchessa; andate, fratello Pancia, e dite al vostro padrone che egli sarà il benvenuto in queste mie terre, e che niuna cosa poteva succedermi che mi desse più piacere di questa.”

Sancio, per questa tanto gradita risposta, ritornò con grandissimo contento al padrone, cui replicò tutte le medesime espressioni di quella grande signora, innalzando coi suoi rozzi termini sino alle stelle la sua bellezza e grazia e cortesia.

Don Chisciotte si strinse in sella, pose fermo piè nelle staffe, si accomodò la visiera, spronò Ronzinante, e con molta galanteria volò a baciare le mani alla duchessa; la quale, fatto chiamare il duca suo marito, lo aveva informato, prima che don Chisciotte giungesse, della vicenda dell'ambasceria; e avendo letto ambidue la prima parte dell'istoria, ed essendo quindi al fatto del pazzo umore di don Chisciotte, lo attesero con indicibile piacere e con vivo desiderio di conoscerlo. Proposero seco stessi di secondarne le stravaganze, e di concedergli quanto chiedesse, trattandolo alla foggia de' cavalieri erranti in tutto il tempo che stesse con loro, e senza ommettere alcuna delle cerimonie descritte nei libri di cavalleria che avevano letti, ed ai quali portavano anche qualche affezione.

Arrivò intanto don Chisciotte con la visiera alzata, e facendo mostra di smontare, corse Sancio a tenergli la staffa, ma fu sì male avventurato, che nello andare giù dal leardo, gli rimase un piede attaccato alla fune della bardella, per modo che non poté sbarazzarsene, e restò penzolone con la bocca a terra e col petto. Don Chisciotte, non uso a discendere se non tenevano la staffa, credendo che già Sancio fosse giunto a fare il suo officio, abbandossi da un lato per ismontare; ma le cinghie allentaronsi sotto il peso e la sella e il cavaliere caddero a terra, non senza vergogna di lui e non senza scagliare molte maledizioni al disgraziato Sancio, il quale stava tuttavia col piede nella staffa inceppato. Ordinò il duca a suoi cacciatori che accorressero a trarre d'impaccio il cavaliere e lo scudiere: ed eglino rizzarono don Chisciotte, sciancato per lo stramazzone, il quale però alla meglio, si trascinò e si pose ginocchioni dinanzi a quei due signori. Il duca non voleva permettere in alcun modo tanta umiliazione, anzi, sceso prestamente di cavallo, abbracciò don Chisciotte e gli disse:

— Duolmi, signor cavaliere dalla Trista Figura, che abbia sì disgraziato successo il primo suo ingresso in queste mie terre; ma non è da maravigliarsene, ché i disattenti scudieri possono essere causa di peggiori successi.

— La fortuna che ho nel vedervi, principe valoroso, rispose don Chisciotte, non mi farebbe sentire alcun male, se pure la mia caduta mi avesse cacciato nel profondo degli abissi, dai quali tratto mi avrebbe la sola gloria di trovarmi al vostro cospetto. Il mio scudiere, che sia sempre maledetto, riesce assai meglio nello sciogliere la lingua per dire malizie, che nel legare e cingere bene una sella: in qualunque stato però che io mi trovi, caduto od alzato, a piedi o a cavallo, sarò sempre al servigio vostro e della signora duchessa, vostra degna consorte e meritissima signora della bellezza, e principessa universale della cortesia.

— Piano, piano, mio signor don Chisciotte della Mancia, padron mio, disse il duca, che dove trovasi di mezzo una signora Dulcinea del Toboso, non è dovere che abbiano encomi le altre bellezze.”

Durante questo primo colloquio, Sancio Pancia già liberato dal laccio che gl'involgeva il piede, e trovandosi avvicinato agli altri, prima che don Chisciotte facesse risposta, disse:

— Non si può negare, anzi si dee affermare ch'è molto bellissima la mia signora Dulcinea del Toboso: ma la lepre si leva di dove manco si pensa. Ho sentito dire che quella che si chiama natura è come un artigiano fabbricatore di vasi di terra, e quello che fa uno di bello, può fabbricarne due o trecento di eguali; e dico questo perché la mia signora duchessa non è per niente inferiore alla mia padrona signora Dulcinea del Toboso.”

Si voltò don Chisciotte alla duchessa e le disse:

— Sia noto alla grandezza vostra che niun cavaliere errante ebbe al mondo scudiere né più cicalone, né più grazioso del mio, e la celsitudine sua ne dovrà con me convenire, se si degnerà di servirsi per qualche giorno della mia opera.”

Rispose la duchessa:

— Fo grandissimo conto che il buon Sancio sia grazioso, ciò essendo prova che sarà anche discreto; mentre le grazie ed il brio, come ben sa vossignoria signor don Chisciotte, non hanno il loro seggio nei rozzi ingegni: e se questo buon Sancio è grazioso e galante, mi confermo che egli sarà pur pieno di moderazione.

— E di ciarle, aggiunse don Chisciotte.

— Tanto meglio, replicò il duca, mentre graziose cose non si possono dire con poche parole; ma perché non consumiamo adesso soverchiamente il tempo, venga con noi il gran cavaliere dalla Trista Figura...

— Dai Leoni, ha da dire vostra altezza, disse Sancio, ché non c'è più Trista Figura.

Soggiunse il duca:

— Venga dunque, e ben venga il signor cavaliere dai Leoni, a un mio castello ch'è qui appresso, dove sì alta persona riceverà ogni accoglimento che le è dovuto per giustizia, e quali soglionsi praticare a tutti gli erranti cavalieri che ci visitano.”

Aveva già Sancio poco prima cinta e assettata a dovere la sella a Ronzinante, montandovi don Chisciotte, e salito il duca sopra uno snello destriere, misero la duchessa in mezzo, ed al castello si avviarono. Ordinò la duchessa a Sancio che le andasse accanto, piacendole sommamente di sentire le sue curiose sentenze. Sancio non si fece pregare, e postosi fra loro entrò per quarto nella conversazione, con grande diletto della duchessa e del duca, che riputarono a somma ventura di ricettare nel loro castello un tale errante cavaliere ed un tale errato scudiere.


CAPITOLO XXXI

 

TRATTASI DI MOLTE E MOLTO IMPORTANTI COSE.

 

Sancio era allegrissimo vedendosi, a parere suo, dalla duchessa cotanto favorito, e immaginandosi di trovar in quel castello ciò di che aveva goduto in casa di don Diego e in quella pur di Basilio; e proclive com'era a darsi buon tempo, coglieva, come suol dirsi, tutte le occasioni pel ciuffo. Ci fa sapere la istoria che prima che giugnessero alla casa di campagna ossia castello, li precedette il duca, e ordinò a' suoi dipendenti il genere di accoglienza da farsi a don Chisciotte. Arrivato questi colla duchessa al palagio gli vennero tosto incontro due staffieri o palafrenieri con zimarra indosso da capo a piedi, fatta di stoffa che chiamasi di levante, e ch'è un finissimo raso chermisi: e preso don Chisciotte a braccia, lasciandogli appena tempo di udire e di vedere gli dissero:

— Accorra la grandezza vostra ad assistere la duchessa che smonta.”

Così fece don Chisciotte, e passarono allora tra l'uno e l'altra grandi cerimonie, ma la vinse la insistenza della duchessa, la quale non volle scender dal palafreno se non in braccio del duca, dicendo che degna non era di dare sì inutile carico a tanto cospicuo cavaliere. Uscì il duca ad aiutarla a smontare, ed all'entrare in un ampio cortile comparvero due vaghe donzelle che misero sulle spalle di don Chisciotte un gran manto di scarlatto finissimo, dopo di che i corridoi del cortile si riempirono in un baleno di servi e di serve che andavano sclamando: Sia ben venuto il fiore purissimo dei cavalieri erranti! Tutti o quasi tutti spruzzavano di acque odorose le vesti di don Chisciotte e quelle dei duchi, delle quali cerimonie rimaneva don Chisciotte stupefatto; e fu quello il giorno in cui veramente terminò di persuadersi di essere cavaliere errante in tutta la pienezza della parola, vedendosi trattare alla foggia stessa che aveva letto usarsi cogli erranti cavalieri degli andati secoli. Sancio abbandonato l'asino, si accostò alla duchessa, ed entrò nel castello: ma rimordendogli la coscienza di avere lasciata sola la bestia, accostossi ad un'attempata e reverenda matrona che unitamente alle altre era uscita incontro alla duchessa, e sotto voce le disse:

— Signora mia reverenda, come si chiama la grazia della vostra signoria?

— Io mi chiamo donna Rodrighez di Criscialva, rispose la matrona; e che bramate, o fratello?”

Cui Sancio:

— Vorrei un piacere da vossignoria, ed è che andasse alla porta del castello dove troverà l'asino leardo mio, e ordinasse che fosse tosto messo in istalla, perché la povera bestia è piuttosto paurosa, e male si adatta a star sola.

— Se il padrone è sì discreto come il servitore, disse tra sé la matrona, noi siamo conciate pel dì delle feste! Fratello, andate alla malora voi e chi qua vi ha condotto, e tenete voi in guardia il vostro giumento, che le matrone di questa casa non sono accostumate a queste faccende.

— Signora, rispose Sancio, il mio padrone, che ha sulle dita tutte le istorie, mi ha detto le tante volte che anche Lancerotte quando tornò in Brettagna, ebbe le dame che si presero cura di lui, e le damigelle del suo ronzino; e inquanto al mio asino io non lo cambierei col ronzino del signor Lancerotte.

— Se tu sei burlone, fratello, serba le tue burle e i tuoi garbi, replicò la matrona, per altri luoghi dove sieno più conosciuti e premiati, ché da me non puoi attenderti che un bel diavolo che ti porti.

— Or bene, rispose Sancio, se questo è il corriere ci porterà ambedue, e meglio vossignoria ch'è molto più matura di me, e non perderà la primiera dei suoi anni per un punto manco.

— Ah, razza di bastardi! esclamò la matrona tutta accesa e stizzita; se io son vecchia ho da render conto a Dio e non ad un furfante come tu sei, che puzzi di aglio.”

Queste parole furono dette sì sonoramente che la duchessa le udì, e voltossi; e vedendo la matrona tutta invelenita e sconvolta, e con occhi che schizzavano fuori la bile, le chiese che cosa mai avesse.

— Mi lagno, rispose la matrona, di cotestui, che mi ha domandato con insistenza che andassi a metter in istalla il suo asino che sta alla porta del castello, citandomi per esempio che altre dame ebbero cura per certo Lancerotte, e altre damigelle per lo ronzino: e ciò non basta, che costui giunse sino a permettersi di prendersi giuoco della mia età rispettabile.

— Questo, disse la duchessa, io lo terrei per affronto sopra tutti gli altri che mi potessero esser fatti: e rivoltasi a Sancio, gli disse: Avvertite, amico Sancio, che donna Rodrighez è piuttosto giovane, e che porta quei veli più pel suo grado e per usanza che per causa degli anni.

— Ch'io non abbia più bene durante la mia vita, rispose Sancio, se ho parlato con animo di farle offesa: e siccome io porto sviscerato amore al mio caro leardo, così non feci altro che raccomandarlo, parendomi che qua non fosse persona più caritativa di questa signora donna Rodrighez.”

Don Chisciotte che intese quant'era seguito, gli soggiunse: — Ti sembrano, Sancio, discorsi questi per un tal luogo?

— Signore, rispose Sancio, ognuno ha diritto di parlare del suo bisogno in qualsivoglia parte si trovi: qua mi sono ricordato del leardo, e qua ne ho fatto parola, e se me ne fossi ricordato nella stalla, ivi ne avrei parlato.”

Disse allora il duca:

— Non va errato il nostro Sancio, né occorre incolparlo di cos'alcuna: avrà buon governo il leardo, né vi pigliate fastidio, o amico, che sarà trattato come la vostra persona medesima.”

Tra questi ragionamenti, che furono piacevoli a tutti, salirono al nobile appartamento, ed assegnarono a don Chisciotte una sala ricchissima, tutta parata di drappi d'oro e di broccato, sei donzelle lo disarmarono, servendogli da paggi, tutte avvertite e ammaestrate dal duca e dalla duchessa di ciò che dovessero fare, e del modo con cui dovevano assistere don Chisciotte, affinché vedesse che lo trattavano da cavaliere errante. Deposta l'armatura, restò mezzo spoglio coi suoi calzoncini stretti e col suo giubbone di camozza, secco, alto, lungo, con le ganasce che per di dentro si baciavano l'una con l'altra: figura che avrebbe fatto scoppiar dalle rise le donzelle che lo corteggiavano, se non avessero dovuto astenersene per preciso comando dei loro padroni. Rimasto poi solo con Sancio, così prese a parlargli:

— Dimmi, bufalo moderno e pezzo di asino antico, ti par egli ben fatto il disonorare e il fare affronto a matrona venerabile degna di ogni riguardo com'era quella? ti parve quello il tempo opportuno da risovvenirti del tuo leardo? ti paiono questi signori da dimenticar le bestie quando accolgono tanto allegramente i padroni? Ti prego Sancio, per quanto so e posso, che tu voglia serbare più decoroso contegno, e non lasciare scoprire le fila in maniera che qua si accorgano che sei tessuto di tela rustica e grossolana. Pensa, povero ignorante, che in tanto maggior conto è tenuto il padrone quanto più onorevoli e ben nati sono i servi che ha al suo comando, e che uno dei più speziosi vantaggi che hanno i principi sopra gli altri uomini si è quello che si valgono di servitori quasi tanto bene educati quanto essi medesimi. Non consideri, o te meschino e me malavventurato! che se veggono che tu se' un villano zotico od uno scimunito grazioso, penseranno tosto che io sia qualche giramondo o qualche cavaliere scroccone? Per carità, amico Sancio, fuggi, fuggi questi inconvenienti, ché chi inciampa nell'essere ciarlone e sputa sentenze, presto pericola e va a riuscire sguaiato buffone: raffrena la tua lingua, considera e rumina bene le parole prima che ti escano di bocca, e pensa che siamo giunti in luogo di dove col favore del Cielo e mercé della gagliardia del mio braccio dobbiamo uscire con miglioramento notabilissimo di fama e di sostanze.”

Sancio promise e giurò che si sarebbe cucita la bocca e morsicata la lingua prima di proferire parola mal a proposito o non pensata a dovere, siccome gli comandava, e che se ne stesse per questo conto sicurissimo che mai per colpa sua non si scoprirebbe il netto dell'esser loro. Don Chisciotte si vestì, si pose il suo armacollo, cinse la spada, si mise addosso un largo manto di scarlatto, ed una montiera di raso verde datagli dalle donzelle, e con la nuova attilatura si recò nella gran sala dove trovò le donzelle messe in ala tanto da una parte quanto dall'altra, e tutte apparecchiate a dargli l'acqua alle mani: ciò che fecero dopo molte riverenze e cerimonie. Sopraggiunsero poi dodici paggi collo scalco per condurlo alla mensa, dov'era dai padroni aspettato. Lo attorniarono dunque pomposamente e con maestà lo condussero in altra sala dove stava apparecchiata ricchissima tavola con soli quattro serviti. La duchessa ed il duca furono alla porta della sala a riceverlo; ed era con essi un grave ecclesiastico di quelli che governano le case dei principi; di quelli, che, non essendo nati grandi, mal possono consigliare i veri signori, e spesso, in vece di parchi, li fanno apparir miserabili.

Seguirono allora molto cortesi e gentili offizi, e circondato don Chisciotte con riverenza, passarono a sedere alla mensa. Il duca gli offerì il capo di tavola, e tuttoché egli vi si rifiutasse, tanto furono le solleciti e gentili insistenze che gli fu forza accettarlo. L'ecclesiastico si pose dirimpetto, ed il duca e la duchessa ai due lati.

Presente a tutto questo era Sancio attonito e colla bocca aperta in vedere di quale alto onore andava il suo padrone fregiato per cortesia di quei principi; ed osservando i molti complimenti e prieghi che passarono fra il duca e don Chisciotte per farlo stare a capo di tavola si fece a dire:

— Se mi permettono le signorie loro io racconterò una cosa accaduta nel mio paese in proposito delle preferenze di posto.”

Non avea egli dette appena queste parole che tremò don Chisciotte, immaginandosi che avrebbe dato in alcuna delle sue scappate. Sancio lo guardò, lo intese, e soggiunse:

— La signoria vostra non dubiti ch'io sia per trasgredire ai suoi comandi, oppure ch'io non dica cosa che non venga a pelo, ché non mi son mica dimenticato dei consigli che poco fa vossignoria mi ha dati intorno al parlare molto o poco, bene o male.

— Sancio caro io non mi ricordo di nulla, rispose don Chisciotte; narra ciò che vuoi purché te ne sbrighi.

— Quello che voglio dire, soggiunse Sancio, è tanto vero che non mi darà una mentita il mio signor don Chisciotte ch'è qua presente.

— Quanto a me, replicò questi, non ismentirò quel che tu dica, ma guarda bene a quello che tu dici.

— Ho tanto guardato e riguardato, rispose Sancio, che sono sicuro di non proferire cosa che possa esser contradetta, e l'effetto lo farà vedere.

— Sarebbe migliore avviso, disse allora don Chisciotte rivolto al duca e alla duchessa, che le grandezze vostre facessero scostar di qua questo balordo, il quale potrebbe prorompere in mille scimunitaggini.

— Per la vita del duca, disse la duchessa, che Sancio non deve scostarsi da me di un punto solo, egli mi è assai caro, perché so ch'è molto discreto.

— Discreti giorni, soggiunse Sancio, viva la santità vostra per lo buono concetto che tiene di me, quantunque io sappia di non meritarlo: ma intanto vengo alla istoria che io voglio raccontare.

“Un cittadino del mio paese, dei principali e dei più ricchi perché proveniva dagli Alami di Medina del Campo, che si maritò con donna Mencia di Chignones, che fu figlia di don Alfonso di Malagnone, cavaliere di san Jacopo, che si annegò nella Herradura, per cui nacque, or sono molti anni, nella nostra terra quella quistione alla quale, per quanto intesi, si trovò presente il mio signor don Chisciotte, e nella quale rimase ferito Tommasiglio lo Scapigliato, figliuolo di Balaustro il Fabbro... Non è egli vero tutto questo, signor mio padrone? Lo affermi per vita sua, perché questi signori non mi tengano per qualche ciarlone bugiardo. Questo cittadino dunque convinto...

— Sin qui, proruppe allora l'ecclesiastico, Sancio si dimostra bugiardo, no, ma ciarlone; vedremo poi in che conto si avrà a tenere.

— Tu metti a campo tante testimonianze e tanti contrassegni, o Sancio, disse don Chisciotte, che non posso dispensarmi dall'asserire che ti esca di bocca la verità; ora tira innanzi; ma accorcia il racconto perché tu hai ciera di non la finire in tre giorni.

— Non lo accorciate, no, soggiunse la duchessa, per fare piacere a me, mentre io anzi mi diletto assai in sapere la storia come la narrate, e se la finirete in sei giorni tanto più ne avrò gradimento.

— Dunque io dico, signori miei, seguitò Sancio, che questo tal cittadino che io conosco come le mie mani, perché dalla mia casa alla sua non vi è un tiro di balestra, convitò un contadino povero ma onorato.

— Avanti fratello, disse l'ecclesiastico, che vi siete posto in un viaggio da non uscirne sino al dì del giudizio.

— Piacendo a Dio, lo terminerò la metà prima, rispose Sancio. Dico dunque che giunto il tal contadino a casa del detto cittadino convitatore, che il Signore dia riposo all'anima sua mentre è già morto, e per più contrassegni assicurano che fece una morte da angelo, alla quale io non era presente, trovandomi in quel tempo a segare a Temblecche...

— Per vita vostra, figliuolo, replicò l'ecclesiastico, accelerate il vostro ritorno da Temblecche e senza dare sepoltura al cittadino (se non ne avete altri da sotterrare) mettete fine al vostro racconto.

— La conclusione dunque è questa, continuò Sancio, che stando ambedue per mettersi a tavola, ché mi pare in questo momento di vederceli più che mai...”

Non è da dirsi quanto si divertissero i duchi del fastidio in cui mostrava di esser l'ecclesiastico per tante dilazioni e pause che andava Sancio facendo, e della bile e della rabbia in cui vedeasi che don Chisciotte si consumava.

— Dico dunque, riprese Sancio, che stando quei due, come ho già detto, per mettersi a tavola, il contadino perfidiava col cittadino perché si mettesse in capo della tavola, ed il cittadino dal canto suo perfidiava perché l'altro si sedesse egli in quel posto, adducendo che era padrone di comandare le feste in casa sua. Il contadino, che si presumeva di essere cortese e bene creato, non voleva consentirvi, sicché stizzito il cittadino, e postegli ambe le mani sopra le spalle, lo fece sedere per forza, dicendogli: Siedi, ignorantone, che in qualunque posto io mi metta, io sarò sempre il solo capo di tavola. Questo è il racconto che spero certo di non aver fatto fuori di proposito.”

Don Chisciotte diventò di mille colori, e sino anche sopra la bruna sua tinta naturale tralucevano e campeggiavano. I commensali dissimularono le risa perché egli non montasse in collera, compresa avendo la malizia di Sancio. A fine pertanto di cambiar discorso e impedire a Sancio di tirare innanzi coi suoi spropositi, domandò la duchessa a don Chisciotte che nuove egli recasse della signora Dulcinea, e se in quei giorni le avesse mandato qualche presente di giganti o di malandrini, dei quali egli aveva vinto e soggiogato così gran numero. Cui don Chisciotte rispose:

— Signora mia, le sventure cominciarono pur troppo a percuotermi, e vi ha apparenza che non avranno mai fine. E giganti domati e maliardi e malandrini ho inviati a lei; ma dove l'avevano mai a trovare se stassi incantata e trasformata nella più schifosa contadina che possa mai pensarsi?

— Non lo direi io, soggiunse Sancio, e quanto a me mi pare la più bella creatura del mondo, almeno nella lestezza e nel saltare particolarmente che non la cederebbe al più lesto saltatore della Spagna; e mi creda, signora duchessa, in fede mia che salta dalla terra sopra la sua asina come se fosse un gatto.

— L'avete voi veduta incantata, o Sancio? domandò il duca.

— E come che la ho veduta, rispose: e chi altri fuori di me si è accorto per la prima volta del suo vero incantamento? È incantata come mio padre.”

L'ecclesiastico che sentì parlare di giganti, di gaglioffi, di malandrini, d'incantamenti, immaginò che si trattasse di don Chisciotte della Mancia, la cui istoria era stata letta dal duca, ed avealo egli stesso le molte volte ripreso, dicendogli ch'era uno sproposito perdere il tempo nel legger tali frascherie. Assicuratosi poscia che non s'ingannava, contegnoso e con isdegno disse al duca medesimo:

— Vostra eccellenza, signor mio, renderà conto al Signore delle azioni fatte da quest'uomo dabbene. Questo don Chisciotte o don balordo, o come si chiami, io credo che non sia tanto mentecatto quanto vostra eccellenza suppone; e non approvo che se gli mettano occasioni per confermarsi e procedere nelle sue follie e balordaggini.

Volto poscia il discorso a don Chisciotte, gli disse:

— E a voi, cervello stravolto, chi vi ha fitto in testa che siate cavaliere errante; che vinciate giganti, soggioghiate malandrini? Andate in buon'ora, che tal sia per voi; andate a casa vostra, educate i vostri figliuoli, se ne avete, prendete cura della vostra roba, e finitela di andare vagando per lo mondo poppando vento e dando di che ridere a quanti vi conoscono e non conoscono. Dove avete voi trovato che fossero mai nel mondo o che vi siano adesso cavalieri erranti? Dove sono eglino i giganti di Spagna, i malandrini della Mancia, le Dulcinee incantate e tutta la caterva delle semplicità e sciempiaggini che escono dal vostro pazzo cervello?”

Stette don Chisciotte attentissimo a tutte le parole del venerabile uomo, e accortosi che stava per finire, senza portare rispetto ai duchi, con sembiante sdegnato e con perturbamento di tutta la persona, rizzatosi in piedi disse... ma quello che disse merita un capitolo a parte.


CAPITOLO XXXII

 

RISPOSTA DI DON CHISCIOTTE AL SUO RIPRENSORE, CON ALTRI IMPORTANTI SUCCESSI.

 

Sendosi don Chisciotte levato in piedi, tutto tremante, come un uomo che lavora nelle miniere di argento vivo, con balbuziente e commossa lingua imprese a dire:

— Il luogo dove mi trovo, e le riverenze in che ebbi sempre e tengo tuttora lo stato che vossignoria professa, infrenano a forza il giusto mio sdegno. Perciò, e per essere coerente a quanto dissi altre volte, e sapendo io, come sa tutto il mondo, che gli uomini di toga non conoscono altre armi che quelle delle donne, vale a dire la lingua, non entrerò in una ineguale tenzone con vossignoria, da cui m'aspettavo piuttosto buoni consigli che infami vituperazioni. Le sante e buone e ad utile fine indirette correzioni, altre circostanze dimandano, ed esigono altri argomenti; e certamente egli è un oltrepassare i confini della discreta riprensione, il farla in pubblico e sì aspramente. I buoni consigli si fondano sulla piacevolezza e non sul rigore insopportabile; né certo è ben fatto che si accusi di pazzo e di balordo quel tale che si crede in difetto, se non si conosca bene di che difetto si tratta. E che ciò sia vero, dicami vossignoria, quali sono le follie che in me ha veduto per segnare la mia condanna e per vituperarmi, col trarre la conseguenza e il comando che io torni al buon governo di casa mia, di mia moglie e dei figliuoli, senza sapere neppure se io abbia e casa e moglie e figli? Diremo noi che sia un retto procedere lo entrare all'impazzata nelle case altrui a governare i padroni, e poi per aver data quella misera educazione che può darsi ad un pupillo, colle viste di un basso e vile interesse, e senza aver veduto di tutto il modo più che venti o trenta leghe, alzar cattedra arrogantemente per dar leggi alla cavalleria e per giudicare dei cavalieri erranti? Sarebbe per ventura inutile assunto o tempo male impiegato quello che si consuma in vagare per il mondo, non già cercando le delizie che dare potrebbe, ma sì bene le asprezze, per mezzo delle quali si alzano i buoni al seggio dell'immortalità? Se mi tenessero per insensato, i cavalieri, i potenti, i generosi, quelli di alti natali, io lo avrei per irreparabile affronto; ma nulla io valuto l'essere tale considerato dai saccenti che mai non calcarono i sentieri della cavalleria. Cavaliere son io, e cavaliere morrò, se piaccia all'Altissimo. Vanno taluni per gli spaziosi campi della superba ambizione, altri per quelli dell'adulazione bassa e servile, altri per quelli della ingannevole ipocrisia, e pochi per quelli della vera carità: ed io, guidato dalla mia stella, batto l'angusto calle della errante cavalleria, pel cui esercizio ho in ispregio le ricchezze e tengo nel massimo conto l'onore. Ho vendicato ingiurie, ho drizzato torti, punito temerità, vinto giganti, abbattute fantasime; sono innamorato, ma non altro se non perch'è giuocoforza di esserlo ai cavalieri erranti, ed essendolo, non entro nel novero degl'innamorati viziosi, ma dei platonici continenti: sono poi diretti sempre a buon fine i miei divisamenti, che l'altrui bene hanno in veduta, né pregiudicano alcuno. Se colui che pensa in tal modo, se colui che così opera, se colui che in questo si esercita può chiamarsi balordo, lo dicano le grandezze vostre, duca e duchesse eccellenti.”

— Parla ottimamente, disse Sancio, e non dica altro la signoria vostra, signore e padrone mio, che già non vi è altro da dire per più accreditarsi, né altro da pensare; e tanto più quantoché negando questo signore, come ha negato, che vissuti siano al mondo o che vivano tuttora cavalieri erranti, che maraviglia è poi ch'egli non sappia quello che si dice?

— Sareste voi, forse, disse l'ecclesiastico, quel Sancio Pancia, cui dicono che il suo padrone abbia promesso un'isola da governare?

— Appunto, io sono quello, rispose Sancio, e sono quello che la merito come ogni altro; e sono quello che dico: Accostati ai buoni e ne sarai uno; e non con chi nasci ma con chi pasci; e chi a buon albero s'appoggia, buon'ombra il ricopre. Io mi sono appoggiato ad un buon padrone, e corrono molti mesi che vo girando il mondo in sua compagnia, e diventerò un altro lui, a Dio piacendo; e viva egli e viva io, che né a lui mancheranno imperi da comandare, né a me isole da governare.

— No certamente, disse il duca a questo passo, ed io, in nome del signor don Chisciotte, vi prometto il governo di una che posseggo io stesso, ed è molto considerevole.

— Inginocchiati, o Sancio, disse don Chisciotte, e bacia i piedi a sua eccellenza per lo favore che t'impartisce.” Vista questa commedia, l'ecclesiastico si alzò da tavola tutto irato, dicendo:

— Per l'abito che io porto, che sto per asserire che vostra eccellenza darà in pazzia come questi barbagianni. E come non hanno da essere eglino pazzi, se i saggi avvalorano le loro follie? Resti l'eccellenza vostra con loro, e finattantoché avranno qui albergo, io vivrò in casa mia e mi dispenserò dal riprendere quello cui non sono atto a porgere rimedio.”

Senz'altro soggiungere né altro mangiare se ne andò; né furono bastanti a distorlo le preghiere dei duchi, benché non gli dicesse il duca gran cose, impeditone dalle risa che la impertinente sua collera gli avea cagionato.

Finì poi di ridere e disse a don Chisciotte:

— Vossignoria, signor cavaliere dai Leoni, ha per quello che la risguarda, sì altamente risposto, che null'altro occorre per difendere questo, che se ben paia torto, non lo è però in modo alcuno: e siccome le donne non ingiuriano mai, e manco ingiuriano gli ecclesiastici, come vossignoria sa meglio di me.

— Così è, rispose don Chisciotte, e ciò viene perché colui che non può essere ingiuriato, non può ingiuriare alcuno. Le donne, gli ecclesiastici, quando non riescono a difendersi, tuttoché offesi, non possono, per la stessa ragione, chiamarsi affrontati: perché fra il torto e l'affronto passa, com'è noto a vostra eccellenza, questa differenza, che l'affronto viene da chi è in grado di farlo, e lo fa, e lo sostiene; e il torto può provenire da qualsivoglia parte, senza che produca affronto; e per esempio: uno va per la strada spensierato, e dieci lo assalgono armata mano e il percuotono; egli mette mano alla spada ed eseguisce il dovere, ma sopraffatto dal numero gli è tolto di vendicarsi: questo resta ingiuriato ed offeso, ma non affrontato. Un altro esempio avvalorerà la stessa cosa: gli è uno che sta volto con le spalle; lo raggiunge un altro e gli dà qualche bastonata, e subito data fugge via e non aspetta, l'altro lo insegue, ma non lo arriva; quegli che fu bastonato ha ricevuto un torto, non un affronto, perché l'affronto ha da essere sostenuto: se quello che diede le bastonate, benché a tradimento, avesse posto mano alla spada, e non si fosse mosso, mostrando la faccia al nemico, il bastonato sarebbe rimasto ingiuriato ed affrontato insieme: ingiuriato, per le bastonature a tradimento, affrontato, perché quello che lo bastonò, sostenuto avrebbe il fatto suo senza volgere le spalle. Quindi, giusta le leggi del maledetto duello, io potrei essere ingiuriato ma non affrontato, perché né i fanciulli, né le donne non sentono un oltraggio; né possono fuggire, né v'ha cagione per la quale debbano attender a piè fermo: e lo stesso si può dire di coloro che sono costituiti ecclesiastici, mancando tutti e tre questi generi di persone delle armi offensive e difensive, e quindi, benché sieno obbligati naturalmente a schermirsi, non hanno però alcun debito di fare offesa ad alcuno. Ma sebbene io abbia detto poco fa che potea ricevere ingiuria, potrei anche sostenere l'opposto, perché penso che colui che non può ricevere affronto, meno lo possa fare; per le quali ragioni io non debbo sentire, né sento, quello che mi ha detto questo miserabile ecclesiastico, e null'altro avrei voluto se non ch'egli aspettasse un poco, per fargli conoscere l'errore in cui vive, pensando e dicendo che non vi furono giammai, né vi sono al mondo erranti cavalieri. Oh se lo avessero udito un Amadigi o alcuno degl'infiniti suoi discendenti, io so bene che sua signoria l'avrebbe passata male!

— Scommetterei, disse Sancio, che gli avrebbero date coltellate tali da spaccarlo per mezzo come un melo granato o come un popone molto maturo. Immaginatevi se avrebbero tollerato questa sorta di burle! Per questo segno di croce io giuro che se Rinaldo di Montalbano avesse sentito a cinguettare questo uomiciattolo, gli avrebbe pestato il grugno in modo da farlo stare zitto per tre anni; e se poi fosse venuto ad azzuffarsi con loro, avrebbe veduto se scappava più dalle loro mani.”

La duchessa scoppiava dal ridere, udendo Sancio così parlare, e lo giudicava, per suo avviso, più grazioso e più pazzo del suo padrone; né furono pochi quelli ch'ebbero la stessa opinione. Si acchetò don Chisciotte al fine, e terminò il pranzo.

Allo sparecchiarsi della tavola, giunsero quattro donzelle, l'una con bacino, l'altra con mesciroba di argento, l'altra con due bianchissimi e finissimi asciugatoi, e la quarta, sbracciata sino al gomito, che tenea nelle sue mani bianchissime tonda palla di sapone napolitano. Si avanzò quella del bacino, e con gentil garbo e disinvoltura, lo sottopose alla barba di don Chisciotte, il quale senza proferire parole, restò maravigliato di questa cerimonia, credendo che fosse costumanza di quel paese di lavare la barba invece delle mani. Allungò il collo perché il suo mento sporgesse in fuori, e al punto stesso cominciò la mesciroba a far piovere, e la donzella del sapone gli tramenò la barba con gran fretta, facendo fiocchi di neve con quella saponata, e distendendoli non solo per la barba, ma ben anche per tutto il viso e per gli occhi dell'obbediente cavaliere, tantoché dovette chiuderli per forza. Il duca e la duchessa che di ciò non erano consapevoli stavano aspettando il successo di sì straordinario lavacro.

La donzella barbiera, quando gli ebbe fatto addosso un palmo di saponata, finse che le fosse mancata l'acqua e ordinò a quella della mesciroba che ne portasse dell'altra, che già il signor cavaliere aspetterebbe. Così fece, e restò don Chisciotte nella più strana e ridicola figura che mai immaginare si possa.

Stavano guardando tutti quelli ch'erano presenti, che non erano pochi, ed osservavano quel mezzo braccio di collo più che mezzanamente nerastro, e quegli occhi serrati, e quella barba carica di sapone, e fu gran meraviglia e gran discrezione il poter contenere le risa. Le donzelle della burla se ne stavano cogli occhi bassi, non osando alzarli per guardare i loro padroni, i quali, fra la collera e il riso, non sapevano come regolarsi, se dare castigo all'ardire delle ragazze, o premiarle pel divertimento che gustavano nel vedere don Chisciotte a quel modo.

Tornò finalmente la donzella del mesciroba, e si terminò di lavare don Chisciotte: indi quella dagli sciugatoi lo ripulì e lo nettò molto posatamente; e fattogli da tutte e quattro in un punto istesso un profondo inchino, fecero per andarsene.

Il duca allora, affinché don Chisciotte non si accorgesse della burla, chiamò la donzella del bacino, dicendole:

— Venite e insaponate me pure, ma badate bene che non sia per mancarvi l'acqua.”

La ragazza acuta e diligente gli si avvicinò, e pose il bacino sotto al mento del duca, prestamente lo lavò e insaponò bene, e lasciatolo asciutto e pulito, e fattogli riverenza, tutte le donzelle partirono. Si venne poi a sapere che il duca era determinato che se non lo avessero lavato come don Chisciotte, avrebbe loro fatta costar cara una licenza, che abbastanza emendarono coll'avere insaponato anche lui.

Stette attento Sancio alla cerimonia di tutto il lavacro, e disse fra sé:

— Perdinci che bella cosa se in questo paese si usasse di lavare la barba anche agli scudieri, come si fa ai cavalieri! E che bisogno che io ne avrei! e tanto più mi darebbero gusto se me la radessero col rasoio!

— Che andate, o Sancio, fra voi mormorando? domandò la duchessa.

— Dico, signora, egli rispose, che nelle corti degli altri principi ho sempre sentito che nel levar le tovaglie dànno bensì l'acqua alle mani, ma non il ranno, e che perciò bisogna vivere assai per vedere assai; come anche si dice che colui che lunga vita vive ha da passare per la trafila dei guai, ma il passare per uno di questi lavacri sarebbe più presto un gusto che un guaio.

— Non vi date fastidio, amico Sancio, disse la duchessa, ch'io farò bene che le mie donzelle vi lavino e vi mettano anche in bucato, se occorra.

— Per ora mi contento della barba, disse Sancio, che all'avvenire pensano gli astrologi.

— Ehi, scalco, disse allora la duchessa, sentite quello che dimanda il buon Sancio, ed eseguite a puntino i suoi ordini.

Rispose lo scalco che il signor Sancio sarebbe servito in tutto, e con questo se ne andò a desinare, e menollo seco, restando tuttavia a tavola i duchi e don Chisciotte, discorrendo fra loro di molte cose, tutte analoghe all'esercizio delle armi e della errante cavalleria.

La duchessa pregò don Chisciotte che delineasse e descrivesse (sembrandogli ch'egli avesse una felice memoria), la beltà e le fattezze della sua signora Dulcinea del Toboso, la quale, giusta quanto ne dicea la fama, doveva essere la più bella creatura della terra, ed anche di tutta la Mancia.

Alla dimanda della duchessa, don Chisciotte sospirò e disse:

— Se potessi cavarmi dal petto il cuore e metterlo davanti agli sguardi dell'altezza vostra in un piatto sopra questa tavola, egli dispenserebbe la mia lingua dall'esporre quello che si può appena pensare, perché l'eccellenza vostra vi vedrebbe il suo ritratto al vivo. Ma come posso accingermi adesso a disegnare e descrivere punto per punto e parte per parte la bellezza della senza pari Dulcinea? Questo è impegno superiore troppo alle forze mie; questa è impresa in cui debbono occuparsi i pennelli di Parrasio, di Timante, di Apelle, e gli scarpelli di Lisippo, per pingerla e scolpirla in tavole, in marmi e in bronzi. La rettorica ciceroniana e demostenica non basterebbero a degnamente encomiarla.

— Che vuol dire demostenica, signor don Chisciotte? domandò la duchessa: non ho più inteso questo vocabolo in vita mia.

— Rettorica demostenica, rispose don Chisciotte, è lo stesso che dire rettorica di Demostene come ciceroniana di Cicerone che furono i due più sublimi rettorici del mondo.

— Così è, disse il duca, e poco importava che si facesse tale dimanda; con tutto questo ci darebbe gran piacere il signor don Chisciotte, se ci dipingesse tanta bellezza; e se non potesse farlo che in ischizzo, pure riuscirebbe tale da far invidia alle più belle.

— La dipingerei con animo volonteroso e pronto, rispose don Chisciotte, se cancellata non me l'avesse dalla mente la sventura che poco fa le avvenne: sventura tale che io mi sento più disposto a piangerla che a descriverla. Hanno a sapere le vostre grandezze che recandomi nei passati giorni a baciarle le mani, ed a ricevere la sua benedizione, il suo beneplacito e la licenza per questa mia terza uscita in campagna, la trovai tutt'altro da quello che io cercava. Era incantata, e di principessa convertita in una contadina, di bella in brutta, di angelo in demone, di olezzante in pestilenziale, di cerimoniosa in rustica, di tranquilla in saltatrice, di luce in tenebre e finalmente di Dulcinea del Toboso in villana di Saiago.

— Che odo io mai! sclamò allora il duca; e chi ha fatto sì gran danno al mondo? Chi ha tolta a lei la bellezza che vi rallegrava? la grazia che vi sosteneva? l'onestà che tenevate in sì alto credito?

— Chi? rispose don Chisciotte, chi può essere mai stato se non se qualche maligno incantatore, tra i molti invidiosi che mi perseguitano; quella maledetta razza, che è nata al mondo per oscurare ed annichilire le prodezze dei buoni, per dar luce e sublimar le azioni dei malvagi? Mi hanno perseguitato incantatori, incantatori mi perseguitano, e incantatori mi perseguiteranno, finché riesca loro di sprofondare me e le mie sublimi cavallerie in un abisso di oblio. Mi condannano essi e mi feriscono là dove ben sanno che più dee dolermi; perché togliere la sua dama a un cavaliere errante è lo stesso che privarlo degli occhi coi quali mira, del sole che lo illumina, e di quello insomma che lo mantiene in vita. Molte altre volte lo dissi, e 'l ripeto adesso, che l'errante cavaliere senza dama è arbore senza le foglie, edifizio senza fondamenti, ombra senza corpo.

— A questo non v'ha che ridire, soggiunse la duchessa: tuttavia, se dobbiamo prestar fede alla istoria del signor don Chisciotte, che uscì alla luce del mondo con generale applauso da pochi dì in qua, da essa raccogliesi, se male non mi sovviene, che vossignoria non ha visto mai la signora Dulcinea, e che questa tale signora non vive al mondo, ma è una dama fantastica, generata e partorita da vossignoria nel suo intelletto, il quale la dipinse con le grazie e perfezioni tutte che più le tornarono in grado.

— In ciò è molto da dire, rispose don Chisciotte: sa Dio se nel mondo viva o no Dulcinea, se sia fantastica o no; queste non sono cose la cui verificazione si abbia a fare a rigore. Non sono io che l'abbia generata o partorita, ed a me basta contemplarla come conviensi a dama che in sé raccolga le parti tutte che possano renderla celebratissima nel mondo, cioè bella senza taccia, decorosa senza superbia, amorosa con onestà, ben creata per cortesia, gentile per eletta educazione, ed infine elevata per nobile sangue; essendoché più splende e campeggia la bellezza in chi procede da alto lignaggio, che in ogni altro che da basso stato deriva.

— Così è, disse il duca: ma dee permettermi il signor don Chisciotte, ch'io gli rammenti quanto mi obbliga a dire la storia che delle sue prodezze ho letto, da cui s'inferisce che concedendosi pure che siavi questa famosa Dulcinea del Toboso, e che vanti quella somma bellezza dalla signoria vostra dipinta, in quanto però al suo lignaggio, non può competere colle Oriane, colle Alastrajiaree, colle Madassime e con altre di questo genere, delle quali vanno zeppe le istorie, a vossignoria pienamente note.

— A ciò posso rispondere, disse don Chisciotte, che Dulcinea è nobile per le sue azioni; che le virtù emendano i difetti del sangue, e che più assai è da tenersi conto dell'umile virtuoso, che del vizioso portato ad elevazione. Dulcinea è così ricca di doti da uguagliare regina con trono e con scettro, e il merito di bella virtuosa donna si estende a farci vedere prodigi anche maggiori, poiché se non formalmente, virtualmente tiene in sé raccolte le maggiori venture.

— Io dico, signor don Chisciotte, ripigliò la duchessa, che la signoria vostra cammina con piè di piombo e con lo scandaglio in mano in tutte le sue decisioni; e d'ora innanzi io crederò e farò credere a tutti di casa mia, non meno che al duca mio signore, se occorra, che v'è Dulcinea del Toboso, che vive oggidì, ch'è bella e nobilmente nata, e che merita che un tal cavaliere, quale si è il signor don Chisciotte, la serva: il che è dire tutto in una sola parola. Non posso, per altro trarmi di testa uno scrupolo, né lasciar di covare un non so che di sdegno contro Sancio Pancia, e lo scrupolo è questo. Dice la riferita istoria che Sancio trovò la signora Dulcinea (quando da parte della signoria vostra le recò una lettera), che stava vagliando un sacco di grano, e per più contrassegno soggiunse ch'era grano di segala; la qual cosa mi fa dubitare assai dell'altezza del suo lignaggio.”

Cui don Chisciotte rispose:

— Signora mia, saprà la vostra grandezza, che tutte o la più parte delle cose che mi accadono, escono dai termini ordinari di quelle che agli altri cavalieri erranti intravengono; o che così siano già incamminate dall'inalterabile volere dei fati, o che tali le produca la malizia di alcun incantatore invidioso. Vedesi tutto giorno che fra i cavalieri erranti pervenuti a celebrità, vi ha chi fortunatamente è esente da incanti, e chi è tanto impenetrabile della persona da non poter rimanere giammai ferito. Di questi ultimi fu il famoso Rolando, uno dei dodici Pari di Francia, del quale raccontasi che non poteva essere offeso se non nella pianta del piè sinistro, e colla punta di grosso spilletto, né mai con altre armi: e quindi allorquando Bernardo dal Carpio lo uccise in Roncisvalle, vedendo di non potere ferirlo colla spada, lo alzò da terra e lo soffocò fra le sue braccia, sovvenendosi di quella morte che diede Ercole ad Anteo, a quel feroce gigante che dicevasi figlio della Terra. Voglio inferire, da quanto ho detto, che io potei forse ottenere alcuna di tali grazie, non però andar esente da ferite, poiché mi ha più volte fatto conoscere la sperienza che io sono di carni delicate e morbide, e non punto impenetrabili. Non posso salvarmi nemmeno dall'essere incantato, e già mi sono visto rinchiuso in una gabbia, in cui l'intero mondo non avrebbe avuto possa di rinserrarmi, senza la forza degli incantamenti; ma giacché ne sono uscito libero, mi giova credere che altri non sia per arrecarmi nocumento. Sanno gl'incantori che colla mia persona non possono mettere a campo le loro astuzie, quindi si tolgono di me vendetta nelle cose che più mi son care, e attentano alla mia vita maltrattando quella Dulcinea, per cui vivo. Ora io credo che quando le venne fatta, per mia parte, dal mio scudiere l'imbascieria, l'abbiano trasformata in una contadina occupata in così vile esercizio, come è quello di vagliar grano; ma mi creda, signora duchessa che non era altramente grano, né dell'ordinario, ma grani di perle orientali. In prova di tale verità, voglio dire alle Magnitudini Vostre come recandomi io poco fa nel Toboso, non mi venne mai fatto di ritrovare i palagi di Dulcinea, e che mentre Sancio la vide l'altro dì nella sua stessa figura (ch'è la più bella dell'orbe), a me parve una villana zotica, brutta e di nessuno garbo, quando pure debb'essere la leggiadria stessa in persona. Ora che non sono punto incantato, per regola di buon ragionare inferisco ch'ella è la incantata, la cambiata e ricambiata, la trasformata, e che in lei hanno voluto vendicarsi di me i miei nemici; e io vivrò per lei il più sconsolato uomo, finché restituita non sia alle primitive sue forme. Tutto questo ho detto, perché nessuno faccia conto delle parole di Sancio, rispetto allo stacciare e vagliare di Dulcinea, mentre non è punto a maravigliarsi che, siccome per me, l'abbiano egualmente per esso lui trasformata. Dulcinea, ripeto è di condizione bennata, deriva da nobili prosapie, delle quali abbonda il Toboso; ed è indubitata cosa che brillerà come il sole questa senza pari Dulcinea, e che sarà celebrato il suo paese e memorato nei secoli avvenire, come lo furono Troia per Elena e Spagna per la Cava, e forse con minori diritti alla fama. Sappiano per altro le signorie loro che Sancio Pancia è uno dei più graziosi scudieri che abbiano servito giammai a cavalier errante. Egli scappa fuori talvolta con sì acute semplicità, che dà diletto, o voglia esser goffo od acuto. Ha certe malizie che lo dimostrano per furbo, e certe trascuratezze che lo confermano per balordo; di tutto dubita e ad ogni cosa dà fede; e quando pare che vada a precipitarsi nelle scimunitaggini, eccolo in campo con ragionamenti sì giusti che lo sollevano al cielo; insomma io non lo cambierei con altro scudiere, se pure, per giunta del cambio, mi fosse data una città in dono; e sono ancora in dubbio se io debba inviarlo o no al governo, del quale la grandezza vostra gli ha fatto grazia; quantunque già scorga in lui certa attitudine al governare, che attizzandogli un cotal poco l'intendimento, potrebbe prendere le redini di uno stato con tutta la facilità quanta ne ha il re nell'amministrazione delle sue dogane. Già è noto, per molte sperienze, che somma abilità non richiedesi a governare, né molto sapere per essere governatore, mentre se ne trovano a centinaia che sanno appena leggere, e governano come girifalchi: quello che importa si è l'avere buone intenzioni, l'amministrare con rettitudine, e quanto al resto non mancherà chi lo consigli e guidi, e potrà imitare i governatori cavalieri e non iurisperiti, che nelle sentenze si fanno assistere dall'assessore. Lo consiglierò io per altro a sostenere dignitosamente il suo posto, a non cedere ad altri il suo diritto, ed altre cose che serbo in petto, e che usciranno fuora a suo tempo, per vantaggio di Sancio, e per maggiore utilità dell'isola che gli sarà affidata.”

Giunti erano a tal passo del colloquio il duca, la duchessa e don Chisciotte, quando molte volte voci e grande rumore di genti si udì nel palagio; e all'improvviso entrò Sancio nella sala tutto spaventato con un ceneracciolo per bavaglio, e dietro lui molti garzoni, o, per meglio dire, guatteri di cucina ed altra gente minuta, uno dei quali portava certa larga scodella di legno piena di acqua, che al colore ed all'immondezza, pareva che rigovernate avesse le stoviglie.

Costui inseguiva Sancio, e voleva pure ficcargli il vaso sotto la barba, nell'atto che un altro guattero mostrava di apprestarsi a vogliergliela lavare.

— Che cosa è questo? che c'è egli? che pretendete, disse la duchessa, da questo galantuomo? Non sapete voi che egli è eletto governatore?”

Cui rispose il guattero barbiere:

— Questo signorino si rifiuta di lasciarsi lavare com'è l'usanza, e come si lava il duca nostro padrone e il suo signor don Chisciotte.

— Non è che io non voglia, rispose Sancio tutto stizzito, lasciarmi lavare, purché si faccia con asciugatoi più puliti, con ranno più chiaro, con mani non così sucide; giacché non corre tra me e il mio padrone tanta differenza, che debba egli essere lavato con acqua d'angeli ed io con la liscivia del diavolo. Le usanze dei paesi e dei palagi dei principi in tanto sono buone in quanto che non riescono moleste; ma il costume dei lavacri, che qua si usa, è peggiore di quello dei fratelli disciplinanti. La mia barba è quanto basta decente, io non ho bisogno di questi refrigerî, e chi si cimenterà a toccarmi un pelo, parlando col dovuto rispetto, avrà un pugno così sodo che gli resterà incastrato nel capo; ché tali cerimonie e insaponamenti hanno più ciera di burle che di accoglienze ospitali.”

Era la duchessa per iscoppiare dalle risa, vedendo la stizza e sentendo le parole di Sancio, ma non piacea gran fatto a don Chisciotte di vederlo sì maltrattato con uno sciugatoio tanto sudicio e con tanti provvisionati di cucina all'intorno.

Egli fece profondo inchino ai duchi, quasicché domandasse loro licenza di parlare, e poi con tono di gravità disse a quella marmaglia:

— Olà, signori gentiluomini, si scostino le signorie loro da questo giovinotto, e tornino per dove sono venuti o per altra parte, se così loro piace, ché il mio scudiere è pulito quanto ogni altro, e queste loro scodelle non sono cose da lui. Colgano il consiglio mio, lo lascino andare, che né egli né io siamo indolenti delle burle.”

Sancio gli cavò allora la parola di bocca e continuò a dire:

— Venite, se vi dà il cuore, a tentar l'orso, e vedrete di che io son capace: portate qua un pettine o altra cosa, e visitate la mia barba, e se non sarà netta e pulita, io mi contento di essere tosato sino alla radice.”

Senza lasciar di ridere, soggiunse la duchessa:

— Sancio Pancia ha ragione in tutto quello che dice, e l'avrà in tutto quello che sarà per dire. Egli è bello e netto, e come asserisce, non ha bisogno di altri lavamenti; e se non gli gradisce la costumanza nostra, pensici egli e tanto più che voi, ministri di pulitezza, avete operato con lentore e con trascuraggine, per non dir con ardire, recando a siffatto personaggio e a siffatta barba, in luogo di bacino e mescirobe di oro puro e sciugatoi alla damaschina, tanti trogoli di legno e stracci da credenza: siete voi tristi e malnati, né potete fare a meno come malandrini, di covare odio contro gli scudieri di cavalieri erranti.”

Gli allegri e beffatori servi, lo scalco ancora, che era con loro, credettero che la duchessa parlasse da vero, e perciò levarono lo straccio di dosso a Sancio, e tutti confusi e quasi svergognati se ne partirono.

Vedutosi Sancio libero da quello, a parer suo, sommo pericolo, si pose ginocchioni davanti alla duchessa e le disse:

— Da cospicue dame cospicue grazie si aspettano; questa che oggi mi impartì la grandezza vostra non può essere da me pagata con manco che con desiderare di vedermi armato da cavaliere errante per occuparmi in tutto il corso della mia vita al servigio di sì alta signora. Sancio Pancia mi chiamo, sono contadino, ho figliuoli, e servo in qualità di scudiere; se con qualcuna di queste cose posso servire la grandezza vostra, io starò molto meno ad obbedire che voi a comandare.

— Sembra in verità, o Sancio, rispose la duchessa, che imparato abbiate ad essere cortese nella scuola della stessa cortesia, e voglio dire che si vede chiaramente che voi siete stato nutrito col latte del signor don Chisciotte, ch'è lo specchio di ogni gentil costume ed il fiore delle cerimonie o cenimonie, come voi direste. Abbiano ogni buona ventura tal padrone e tal servo, l'uno quale tramontana della errante cavalleria, l'altro quale stella della scudierile fedeltà. Alzatevi amico Sancio, che io darò compenso alle vostre gentilezze, facendo che il duca mio signore adempia più presto che può la promessa mercede del governo da voi bramato.” Con questo finì il suo discorso, e don Chisciotte se ne andò a riposare: ma la duchessa disse a Sancio che s'egli non avesse molta voglia di dormire, si recasse la sera a far conversazione a lei ed alle sue donzelle in una sala assai fresca. Rispose Sancio che, quantunque usasse dormire quattro o cinque ore dopo pranzo di estate, tuttavolta, per servire alla sua bontà, procurerebbe con tutte le sue forze di non dormire un istante solo in quel giorno, e sarebbe pronto agli ordini suoi; e detto questo andò via. Diede il duca nuovi ordini intorno al modo con cui dovesse trattarsi don Chisciotte come cavaliere errante, senza trasgredire di un attimo lo stile con cui erano serviti, a quanto raccontasi, i cavalieri antichi.

 


CAPITOLO XXXIII

 

SAPORITO RAGIONAMENTO CHE LA DUCHESSA E LE SUE DONZELLE TENNERO CON SANCIO PANCIA DEGNO DI ESSERE LETTO E PONDERATO.

 

La storia racconta che Sancio non dormì secondo il suo solito dopo il desinare, ma che per mantenere la data parola recossi dalla duchessa, la quale lo fece sedere vicino a sé su di una sedia bassa, tutto che Sancio, come servo di grande creanza, non vi acconsentisse. La duchessa però gli disse che poteva sedere, ben meritandosi per quel duplice titolo la sedia medesima del Marte Rui Diaz campeggiatore. Sancio si strinse le spalle, obbedì, si assise, e le donzelle tutte e le matrone della duchessa gli fecero cerchio, stando attente ed in sommo silenzio per divertirsi co' suoi discorsi. La duchessa fu la prima a parlare, e così cominciò:

— Ora che siamo soli, e che non v'ha chi ci ascolti, bramerei che il signor governatore mi sciogliesse certi miei dubbi intorno alla storia del grande don Chisciotte che trovasi già alle stampe. Uno di questi dubbi si è, che non avendo il buon Sancio visto mai Dulcinea, anzi la signora Dulcinea del Toboso, né recatale la lettera del signor don Chisciotte, perché restò unita al libro di memorie in Sierra Morena, come mai osò egli di fingere la risposta e di asserire che la trovò vagliando grano quando tutto era una burla e finzione, e tutto tornava a grave discapito della buona opinione della senza pari Dulcinea? Queste sono cose che non si accordano colle condizioni e colla fedeltà dei buoni scudieri.”

Sancio senza rispondere sillaba a quanto aveva inteso si alzò dalla sedia, e pian piano, aggobbato alquanto col corpo, e con un dito sulle labbra girò per la sala, alzandone qua e là gli addobbi, il che fatto tornò a sedere e poi disse:

— Ora, signora mia, che mi sono assicurato di non essere inteso da alcuno che possa essersi cacciato qua di soppiatto, risponderò senza timore né angoscia a quanto la signoria vostra mi ha dimandato o fosse per dimandarmi. Comincio dal dire che tengo il mio signor don Chisciotte per un pazzo assoluto e spacciato, sebbene dica alle volte certe cose che al parer mio e di quelli che lo ascoltano sono tanto giudiziose e tanto bene ordinate, che il diavolo non le potrebbe dir meglio. Ma ad onta di tutto questo con verità e senza scrupolo io insisto a credere ch'egli sia uno scimunito; e persuaso di questo, all'uopo mi basta l'animo di dargli ad intendere cose che non hanno né piede né capo, come fu la risposta della lettera, e quello che accadde sei od otto giorni sono (e che non è noto ancora) vale a dire l'incantamento della mia signora Dulcinea la quale egli sulla mia asserzione crede che sia incantata, il che è vero come la montagna di Ubeda.”

Lo pregò la duchessa che le narrasse l'istoria di quell'incantesimo o burla, e Sancio le fece il racconto esatto de l'avvenuto, di che non ebbero picciolo diletto le ascoltatrici. Proseguendo nel suo discorso, disse la duchessa:

— Le cose che mi ha raccontate il buon Sancio, mi mettono uno scrupolo in cuore ed un certo bisbiglio agli orecchi che mi dice: Se pazzo da legare è don Chisciotte della Mancia, scioccone e mentecatto è anche Sancio Pancia suo scudiere che lo conosce, e nulla di meno lo serve e lo seguita; anzi siccome dà retta alle vane promesse del suo padrone, così dee essere senz'alcun dubbio più balordo e più folle di lui: e stando la cosa in questi termini, io dico a me stessa: Tu farai grande sproposito, signora duchessa, se a questo tale Sancio Pancia affiderai il governo d'un'isola, che chi non sa governare se stesso, come saprà poi governare gli altri?

— Sa ella, vossignoria, disse Sancio, che questo scrupolo tocca proprio nel segno? Continui pure a parlare chiaro la vostra grandezza e come le piace, mentre io conosco che dice la verità: e se avessi giudizio, egli è un pezzo che avrei dovuto lasciare il mio padrone, ma così ha voluto la mia fatalità e la mia mala ventura; non posso fare diversamente, bisogna che io lo seguiti; siamo nati in uno stesso paese, ho mangiato il suo pane, gli voglio bene, è persona gradita, mi donò i suoi poledri; e poi sopra ogni cosa io sono fedele, e così è impossibile che ci possa separare altro successo se non fosse quello di una palla nello stomaco o di una spada nella gola: ora se alla vostra altezzeria non piace che mi sia dato il promesso governo, non me ne importa granfatto, poiché potrebbe ben essere che il non darmelo tornasse in pro della mia coscienza, giacché quantunque balordo io conosco quel proverbio che dice: per suo male nacquero le ali alla formica: e potrebbe anche darsi che andasse meglio al cielo la fama di Sancio scudiere che di Sancio governatore. Tanto si mangia buon pane qui come in Francia: in tempo di notte tutti i gatti sono bigi: è disgraziato chi alle due della sera non ha guasto il digiuno: non si trova stomaco che sia un palmo maggiore dell'altro: ogni ventre può riempirsi di paglia o di fieno: gli uccelletti della campagna hanno Iddio che dà loro alimento: più riscaldano quattro braccia di panno di Cuenca che quattro braccia di peluzzo di Segovia; al lasciare questo mondo per andare sotterra la via è angusta sì al principe che al mercenario: non occupa un piede di terra di più il corpo del papa che quel del sagrestano, tuttoché uno sia più alto dell'altro, che all'entrare nella fossa tutti ci aggiustiamo e ci raggomitoliamo a nostro dispetto, e buona notte e torno a dire che se non piace a vostra signoria di darmi l'isola perché sono un balordo, io, come discreto, saprò non pigliarne fastidio: dietro la croce sta il diavolo: non è oro tutto quello che riluce: e tra buoi, aratri, e gioghi condussero il contadino di Wamba per farlo re di Spagna: e fra i broccati, i solazzi e le dovizie cavarono Rodrigo perché fosse mangiato dalle serpi, quando però non mentano le canzoni antiche.

— Come! dite se non mentono? soggiunse a tal punto donna Rodrighez, la matrona che era una delle ascoltatrici, quando avvi una canzone la quale dice che posero il re Rodrigo vivo in un'arca piena di rospi, serpi e lucertole, e che dopo due giorni il re mandò dall'interno dell'arca questa voce bassa e dolente.

 

Già mi mangiano, mi mangiano

Dove fu maggior la colpa.

 

E però ha gran ragione questo signore nel dire che vuol essere piuttosto contadino che re, per non diventare pasto di animali immondi.”

Non poté la duchessa ritenere le risa udendo la semplicità della sua matrona, né lasciò di essere maravigliata delle ragioni e dei proverbi di Sancio, cui disse:

— È già noto al buon Sancio che quando un cavaliere promette, procura, a costo anche della vita, di mandare ad effetto la sua parola. Il duca mio signore e consorte non è degli erranti, ma non lascia per questo di essere cavaliere, e così manterrà la fede dell'isola a dispetto della invidia e della malignità del mondo: stia Sancio di buon animo che quando meno lo penserà si vedrà posto nel seggio della sua isola e del suo stato, e prenderà le redini del suo governo con grande soddisfazione, salvo a cambiarlo con altra occupazione a suo grado qualora così gli talentasse. Quello che io gli raccomando, si è che badi bene come governerà i vassalli suoi, avvertendolo che sono tutti leali e bennati.

— In quanto a questo di governarli bene, rispose Sancio, non occorre raccomandarmelo, ché io sono per natura caritativo ed ho compassione dei poveretti, ché a chi cuoce ed impasta non manca il pane; e prometto per quello che sono che non vi sarà chi mi dia ad intendere una cosa per un'altra: io sono volpe vecchia, conosco gl'inganni, e so cacciarmi le mosche a suo tempo, né soffro brutti musi davanti ai miei occhi, perché so dove mi stringe la scarpa; e dico questo perché i buoni ci guadagneranno meco, ed i tristi non ci metteranno né piedi né mani. In quanto al governare, tutto consiste nel cominciar bene; e potrebbe darsi che quindici giorni dopo che sarò stato governatore, mi andasse a sangue il mestiere, e tanto da non poterlo lasciare, e che m'intendessi più di questo che delle cose di campagna nelle quali fui allevato.

— Avete mille ragioni, o Sancio, disse la duchessa, perché nessuno nasce maestro, e degli uomini si fanno vescovi, non già delle pietre; ma tornando un poco all'intralasciato proposito risguardante l'incanto della signora Dulcinea, tengo per cosa certa e più che provata che quella vostra invenzione per burlare il padrone e fargli credere che la contadina era Dulcinea, e che solo da incantagione procedeva il non esser conosciuta da lui, sia stata tutta opera di alcuno degl'incantatori che perseguitano il signor don Chisciotte. Io so realmente e veracemente e da buona parte, che la villana che saltò sull'asina era ed è Dulcinea del Toboso, e che voi, o buon Sancio, credendovi ingannatore foste ingannato; e non è più da revocare in dubbio questa verità, mentre in riguardo alle cose da noi non vedute possiamo unicamente essere indotti in errore. Sappia il signor Sancio Pancia che abbiamo qua degl'incantatori che ci vogliono bene, ci favoriscono e ci raccontano con ogni semplicità e senza imbrogli e macchinazioni tutto quello che passa nel mondo: e Sancio mi creda che la villana saltatrice era ed è Dulcinea del Toboso, la quale è tanto incantata come la madre che la fece, e quando meno ce l'aspettiamo la rivedremo nella sua propria figura, e Sancio uscirà allora dall'inganno in cui vive.

— Tutto questo può essere, disse Sancio Pancia, ed ora crederò pure ciò che raccontò il padrone delle cose da lui vedute nella grotta di Montésino, dove disse che vide la signora Dulcinea del Toboso nei medesimi arnesi e vestiti che raccontasi di averla veduta io quando la incontrai per solo mio piacere, sicché ogni cosa dev'essere a rovescio, come dice la vostra altezzeria. E per dir il vero come mai potevasi presumere che il mio poco ingegno fabbricasse in un momento tutto quell'imbroglio? E poi il mio padrone non è tanto pazzo che con la debole e scarsa opinione che ha di me, avesse a credere cose che sono tanto fuori di buon termine; ma non per questo ha la dabbenaggine di vostra signoria da tenermi per uomo malevole; perché non è obbligato uno scempiato meschinello come io sono, a trapanare le idee e le malizie dei furbi incantatori. Io ho ordita quella cabala perché mi premeva sottrarmi dalle bravate del mio signor don Chisciotte, né il feci già con intenzione di offenderlo: che se la cosa è andata a rovescio, Dio è in cielo, ed egli giudica i nostri cuori.

— Questo è vero, soggiunse la duchessa: ma dicami ora Sancio: che cosa è questo avvenimento della grotta di Montésino? avrei gran piacere di essere informata.”

Sancio Pancia le narrò allora per disteso ciò che si è già detto intorno a tal avventura: lo che udito, la duchessa soggiunse:

— Da questo successo si può cavare la conseguenza, che essendo la contadina veduta dal gran don Chisciotte quella medesima che vide Sancio nell'uscire dal Toboso, fosse Dulcinea, senza dubbio, e che gl'incantatori girino per queste contrade con indicibile lestezza, e procurino di sapere tutte quelle cose che vanno succedendo.

— Anch'io sono dello stesso parere disse Sancio Pancia; ma se la mia signora Dulcinea del Toboso sta incantata sia con suo danno, ché io non vo' pigliarmela coi nemici del mio padrone, che debbono essere molti e tristi. È per altro verissimo che quella da me veduta fu una contadina, per contadina la tenni, e per contadina la ho giudicata: e s'era poi Dulcinea, questo non ha da venire a mio carico, né si hanno per questo a muovere controversie se non vogliono che ci rompiamo ben bene il capo, che io sono poi ammorbato e sazio di sentire sempre a ripetere Sancio l'ha detto, Sancio l'ha fatto, come se Sancio fosse qualche buffone e non fosse quello stesso Sancio Pancia, che va attorno pel mondo sui libri, per quanto mi ha detto Sansone Carrasco ch'è persona addottorata in Salamanca; e questa è gente che non può mentire se non nel caso che ne abbia voglia, e che le torni conto. Dunque non serve che alcuno si metta a contrastare con me, giacché godo di un buon concetto: e secondo quello che ho inteso dire dal mio padrone, vale più il buon nome che le ricchezze: e m'incassino una volta nel governo, e vedranno certamente grandi maraviglie, che chi è stato buono scudiere sarà anche buon governatore.

— Le cose fin qui dette, ripigliò la duchessa, sono sentenze catoniane o tratte per lo meno dalle viscere stesse del vero e reale Michele Verino florentibus occidit annis, ed è vero il proverbio: sotto una cattiva coppa suol trovarsi buon bevitore.

— Mi creda, o signora, replicò Sancio, che in vita mia non ho mai bevuto con malizia, ma soltanto con sete, e io non conosco la ipocrisia, e bevo quando me ne vien la voglia, e quando me ne danno, per non parere malcreato e schizzinoso, fo un brindisi all'amico; che non ho cuore di marmo da rifiutarmivi; ma mi vesto e non m'imbratto, come suol dirsi: e tanto più che gli scudieri dei cavalieri erranti bevono di ordinario acqua perché vanno sempre per foreste, selve, prati, montagne, rupi, senza trovare una misericordia di vino, se lo pagassero un occhio.

— Lo credo, lo credo, rispose la duchessa; ma per ora se ne vada Sancio al riposo che parleremo poi a lungo mettendo ordine perché passi ad incassarsi, come egli dice, sollecitamente nel suo governo.”

Ribaciò Sancio le mani alla duchessa, e calorosamente la supplicò che favorisse di far tener conto del suo leardo, ch'era la luce degli occhi suoi.

— Di che leardo parlate? domandò la duchessa.

— Del mio asino, rispose Sancio, che per non dargli questo nome, sono solito chiamarlo leardo. Ho pregato questa vostra signora matrona al mio ingresso nel castello che ne prendesse cura, ma si spaventò come se le avessi detto che era brutta o vecchia, quando pure sarebbe più naturale e più conveniente alle matrone il governar i giumenti che il far mostra di sé per le sale. Oh! un signore del mio paese non le poteva proprio sopportare queste matrone!

— Sarà stata qualche bestia villana, disse la matrona donna Rodrighez, ché se fosse stato cittadino e bennato le avrebbe esaltate sopra i corni della luna.

— Basta così, soggiunse la duchessa, non più; donna Rodrighez stia cheta, mettasi in quiete il signor Pancia, e resti sopra di me il governo del leardo, che per essere una delle più care delizie di Sancio lo terrò sopra le pupille degli occhi miei.

— Basta che stia in istalla, replicò Sancio, e non sopra le pupille degli occhi della vostra grandezza; né esso né io siamo degni di starvi un momento solo, e piuttosto che acconsentire a questo mi darei mille pugnalate, quantunque dica il mio padrone che si dee più presto mancare nel troppo che nel poco, e quando si tratta di cortesie giumentili e asinine si ha da condursi col compasso alla mano e con termini misurati.

— Sancio, disse la duchessa, potrà menare il suo asino al nuovo governo, ed ivi potrà regolarlo come gli piace, ed anche giubilarlo perché stia sempre in riposo.

— Non pensi, signora duchessa, rispose Sancio di avere detto ora gran cosa, mentre io ho veduto andar più di uno o due asini a governare, né saria cosa nuova se io ci conducessi anche il mio.”

I detti di Sancio fecero rinnovare le risa e il contento nella duchessa, che mandatolo a riposare andò a ridire al duca ciò ch'era passato fra loro. Concertarono allora di fare una burla a don Chisciotte che avesse a riuscir strepitosa, e che si uniformasse collo stile cavalleresco, seguendo il quale ne inventarono alcune sì proprie e sì singolari che possono noverarsi fra le migliori avventure che in questa grande istoria sieno contenute.


CAPITOLO XXXIV

 

PROGETTO PER TRARRE D'INCANTO DULCINEA DEL TOBOSO CHE FORMA UNA DELLE PIÙ CELEBRI AVVENTURE DI QUESTO LIBRO.

 

La conversazione con don Chisciotte e con Sancio Pancia riusciva di gran diletto al duca e alla duchessa; e confermandosi nel proposito di fare loro alcune burle che verisimiglianza e apparenza avessero di avventure, trassero argomento da quella avvenuta a don Chisciotte nella grotta di Montésino per farne una che riuscisse famosa.

Quello intanto di cui più che di ogni altra cosa stupivasi la duchessa, era che la semplicità di Sancio giugnesse al segno di credere indubitatamente che Dulcinea del Toboso fosse incantata, quando egli stesso era stato di tutta quella faccenda l'incantatore o l'imbrogliatore colle sue malizie. Istruiti pertanto i servi di quello che dovevasi fare, condussero sei giorni dopo don Chisciotte e Sancio alla caccia di animali selvatici con tanto apprestamento di cacciatori che avrebbe potuto intervenirvi un re coronato.

Diedero a don Chisciotte un vestito da cacciatore, ed a Sancio un altro verde di panno finissimo; ma don Chisciotte rifiutò il suo col dire che dovendo riprendere quando che fosse il duro esercizio dell'armi non poteva recar seco guardarobe ed arnesi a quello non confacenti. Sancio però si prese il suo proponendosi di venderlo alla prima occasione.

Venuto dunque l'atteso giorno, don Chisciotte comparve armato con Sancio nuovamente vestito sul suo leardo (che non lo avrebbe lasciato quand'anche avesse avuto un cavallo in iscambio), e si mise nella truppa dei cacciatori.

Uscì la duchessa sfoggiatamente adorna, e don Chisciotte, come costumato e gentile, prese la briglia del suo palafreno, tuttoché il duca non volesse consentirvi, e così pervennero ad un bosco situato fra due altissime montagne.

Occupati ivi con ordine i posti e le posate ed i sentieri che si erano fra loro assegnati, cominciò la caccia con grande fracasso e con grida e rumori di voci in maniera che l'uno non poteva udir l'altro sì pei latrati dei cani come pel frastono delle cornette.

Smontò la duchessa, e con acuto spiedo in mano si appostò dove sapeva che solevano passare i cinghiali.

Smontarono pure il duca e don Chisciotte, e si misero al fianco di lei, e collocossi Sancio dietro a tutti senza discendere dal leardo, giacché non osava abbandonarlo per timore che non gli succedesse qualche malanno.

Avevano appena fermato il piede, e si erano messi in ala con molti servi ed ecco cacciato dai cani ed inseguito dai cacciatori, videro venir alla volta loro uno smisurato cinghiale che digrignava i denti, stendeva le zanne, e gettava schiuma dalla bocca.

Vista la fiera belva don Chisciotte andò tosto ad incontrarla collo scudo imbracciato e colla mano sulla spada: lo stesso fece il duca colla sua lancia, e prima di tutti sarebbe ita innanzi la duchessa se non fosse stata dal duca ritenuta.

Il solo Sancio allo scorgere il disperato animale abbandonò il leardo, e si diede a correre quanto poté mai, tentando di arrampicarsi sopra alta quercia; il che non essendogli riuscito, e stando attaccato ad un ramo, senza poter salire più in alto, fu sì malamente trattato dall'avversa fortuna che il ramo si ruppe, e nel precipitar giù egli rimase per aria appiccato ad un tronco.

Trovatosi a così tristo partito, vedendo che il suo bell'abito verde già si stracciava, e parendogli che se sopraggiugnesse la belva lo potrebbe d'un salto arrivare, cominciò a mandar sì alte grida, e a chiedere sì pietosamente misericordia, che tutti quelli che lo udivano e non lo vedevano, giudicavano che stesse già per esser divorato.

Lo zannuto cinghiale finalmente fu trapassato dalle molte lance che lo incontrarono, ed allora voltando don Chisciotte la testa alle grida di Sancio, che già per esse lo aveva riconosciuto, lo vide pendente dalla quercia col capo in giù e coll'asino a canto: che la bestia non lo aveva abbandonato in tanta sua disgrazia.

Dice a questo proposito Cide Hamete che ben rare volte egli vide Sancio Pancia senza il leardo e il leardo senza Sancio Pancia, tanto era stretto il vincolo di amicizia e di buona fede che passava fra loro.

Volò don Chisciotte, e spiccò Sancio, il quale trovandosi libero ed a piè fermo, portò gli occhi sulle sdruciture del suo vestito, e ne fu afflittissimo, poiché credeva di possedere in quell'abito un vero e positivo maggiorasco.

Posero frattanto attraverso di una mula il poderoso cinghiale, e coprendolo con piante di ramerino e con rami di mirto, lo portarono qual segno di vittoriosa preda, sotto una tenda di campagna posta in mezzo al bosco ove trovarono preparata la mensa: ed erano i cibi apprestati con sì grande profusione e sontuosità che ben faceano conoscere il lusso e la magnificenza del duca.

Sancio mostrando alla duchessa le piaghe del suo squarciato vestito, le disse:

— Se questa fosse stata caccia di lepri o di augelletti, il mio povero abito non sarebbe ridotto a questi termini; e non so che gusto vi sia nello stare aspettando il passaggio di un animale che se vi pianta addosso una zanna, tutto è finito per sempre. Mi ricordo la vecchia canzonetta che incominciava:

 

Fin all'ossa fu mangiato

Come Favila il Famoso, ecc.

 

— Fu, disse allora don Chisciotte, questo Favila un re goto, che venne divorato da un orso cacciando le fiere nei boschi.

— Questo è appunto quello che dico anch'io, replicò Sancio, e non vorrei che i re e i principi si mettessero a tanto rischio per un gusto che non è poi gusto, poiché si tratta di ammazzare una bestia la quale non ha commesso alcun delitto.

— Andate errato, o Sancio, rispose il duca, perché l'esercizio di cacciare le fiere è più adatto e necessario ai principi che a qualsiasi altro. La caccia è un'immagine della guerra, e vi s'imparano stratagemmi, astuzie, insidie per vincere a mano salva e senza proprio danno il nemico; si avvezza con essa a soffrire freddi acutissimi e caldi intollerabili: l'ozio si sbandisce e consuma, e il sonno con esso; si corroborano le forze, e si rendono più agili le membra di chi la esercita; in sostanza è un esercizio che occupa piacevolmente senza pregiudizio di alcuno, e con soddisfazione di molti; ed in oltre la caccia particolare delle belve (che non è da tutti come sarebbero tante altre caccie, tranne quella degli uccelli grifagni) è solamente riservata ai grandi personaggi. Sancio mio, voi dovete mutar opinione, e quando sarete governatore vi occuperete nella caccia, e vedrete come un pane vi vale per cento.

— Oh questo no, rispose Sancio: un savio e buon governatore ha da fare conto di avere le gambe rotte, e ha da stare a casa sua. Sarebbe forse ben fatto che egli si recasse a sollazzo per monti e per selve, e che intanto i poveri negozianti dovessero andare a cercarlo colla rovina dei loro affari? In questo modo i governi vanno alla malora, ed io sono persuaso, o signor duca, che le caccie e i passatempi sieno fatti più per gli scioperati che per i governatori. Quanto a me io fo conto che volendo distrarmi io giuocherò nei dì solenni al trionfo d'invito, e nelle domeniche e nelle altre feste ai rulli o ai piccoli, e la mia coscienza escluderà ogni altro divertimento.

— Piaccia a Dio che tu ti conduca a questo modo, o Sancio, disse il duca; ma dal detto al fatto corre un gran tratto.

— Corra, quanto si vuole, replicò Sancio, che la pecora non resterà mangiata dal lupo; ed è meglio l'aiuto di Dio che le molte faccende, e le budella non portano i piedi, ma i piedi le budella: e voglio dire che se Iddio mi aiuta, ed io fo l'obbligo mio con buona intenzione, governerò meglio di un girifalco: e che mi mettano un dito alla bocca, e vedranno se lo stringo.

— Che tu possa essere maledetto, da tutti i Santi, Sancio maledetto, disse don Chisciotte; e quando sarà mai che, come mille altre volte ti ho detto, tu faccia qualche discorso di buon proposito corrente e concertato senza la peste di tante frottole e di tanti proverbi? Le vostre grandezze caccino al diavolo questo balordo, che non già sotto due ma sotto duemila proverbi schiaccerà loro la mente, e sì mal collocati, che così Dio conceda a lui o a me salute come non li vorrei mai sentire.

— Le frottole ed i proverbi di Sancio Pancia, soggiunse la duchessa, tuttoché fossero più di quelli del commendatore Greco, non per questo sono meno da reputarsi per la brevità dei concetti; e per mio conto vi assicuro che mi dànno gusto più degli altri per quanto fossero meglio citati a proposito ed allegati con sensatezza.”

Fra questi ed altri ragionamenti uscirono dalla tenda al bosco, e nell'andar cercando nuove posate e nuovi sentieri terminò la giornata, e sopravvenne la notte, non però sì chiara e serena come potea esser per la stagione allora corrente, ch'era nel cuor della state. Era il cielo mezzo fosco, e ciò serviva moltissimo alle intenzioni dei duchi.

All'imbrunirsi dunque della sera, e poco innanzi al crepuscolo parve ad un tratto che avvampasse il bosco da tutti quattro i lati, e quindi e quinci si udirono risuonare infiniti corni ed altri strumenti guerreschi, come se fossero molti altri distaccamenti di cavalleria che per lo bosco passasse. Il chiarore del fuoco ed il frastuono degli strumenti accecarono quasi gli occhi e intronarono gli orecchi non pure dei circostanti, ma sì bene di tutti quelli che nel bosco si trovavano.

Si udirono poscia moltissime trombe di quelle che usano i Mori quando attaccano nelle battaglie, e si udirono trombe e clarinetti, e rimbombavano i tamburi e risonavano i pifferi quasi tutti a un punto ora interrottamente, ora in fretta, di maniera che avrebbero posta la confusione anche nel cervello il meglio ordinato.

Il duca rimase attonito, la duchessa non meno di lui, don Chisciotte faceva le maraviglie, Sancio Pancia era tutto tremante, e finalmente ne trasecolavano perfino coloro che erano ben consapevoli di che si trattasse.

Sottentrò il silenzio al timore, quando passò loro dinanzi un postiglione in abito di demonio suonando invece di cornetta, un vôto e smisurato corno, da cui usciva un rombazzo rauco e spaventevole.

— Olà, fratel corriere, disse il duca, chi siete voi? dove andate? che gente bellicosa è questa che vuole attraversare questo bosco?”

Rispose il corriere con orribile ed ardita voce:

— Io sono il demonio che vengo in traccia di don Chisciotte della Mancia: la gente di cui mi chiedete conto, sono sei truppe d'incantatori che sopra un carro trionfale portano la senza pari Dulcinea del Toboso; ella viene incantata in compagnia del galante Montésino, che insegnerà a don Chisciotte come possa egli disincantare questa signora.

— Se foste il demonio come vi annunziate, soggiunse il duca, e come indica la vostra figura, avreste già conosciuto questo tale cavaliere don Chisciotte della Mancia poiché lo avete davanti.

— Giuro a Dio e in coscienza mia, rispose il demonio, che non ci poneva mente, perché ho i pensieri distratti in tante cose ch'erami sviato dalla principale per cui son venuto.

— Questo demonio, disse Sancio, debb'essere senza dubbio uomo dabbene e buon cristiano, mentre se nol fosse non giurerebbe a Dio e nella sua coscienza, e bisogna dire che anche all'inferno vi sia della buona gente.”

Il demonio senza smontare voltossi a don Chisciotte, e gli disse:

— A te, cavaliere dai Leoni (che possa io vederti tra i loro artigli), m'invia lo sventurato ma valoroso cavaliere Montésino comandandomi che io ti dica da parte sua che tu debba attenderlo nel luogo dove sarai da lui ritrovato, perché seco si trae quella che viene chiamata Dulcinea del Toboso. Io tengo ordine di somministrarti ciò che fia d'uopo per trarla d'incanto; e per non avere altro oggetto la venuta mia, né più lunga potendo essere qui la mia dimora, restino intanto teco i demoni miei compagni e gli angeli buoni con le altre persone qua presenti.”

Detto questo suonò lo smisurato corno, voltò le spalle e sparì senz'attender risposta da chicchessia.

Non è da dire se si fosse rinnovata in tutti la maraviglia, e in don Chisciotte e Sancio particolarmente: in Sancio vedendo che a dispetto della verità voleasi pure che Dulcinea fosse incantata: in don Chisciotte non sapendo accertarsi se fosse o no vero ciò ch'eragli avvenuto nella grotta di Montésino.

Stando egli assorto in questi pensieri gli disse il duca:

— Si decide la signoria vostra, signor don Chisciotte, di aspettare?

— E perché no? rispos'egli: starei qua intrepido e forte quand'anche venisse ad investirmi tutto l'inferno.

— Ed io se veggo un altro demonio, e sento un altro corno come il passato, tanto aspetterò qua come in Fiandra,” disse Sancio.

In questa andò la notte inoltrandosi, e cominciarono a scorrere molti lumi pel bosco, al modo stesso come vanno scorrendo pel cielo le aride esalazioni della terra che ai nostri occhi paiono stelle che corrano.

Si udì similmente altro spaventoso rumore come di pesanti ruote di carri tirati da buoi al cui aspro e continuato cigolare dicesi che fuggano i lupi e gli orsi se le odono per dove passano.

A questa tempesta di orrori altra si aggiunse, e fu che pareva realmente che ai quattro lati del bosco in un tempo stesso ardesse la zuffa di quattro battaglie; poiché da un lato si udiva lo spaventevole fracasso dell'artiglieria, dall'altro lo scoppio di arcobugi infiniti, molto d'appresso si ascoltavano le voci dei combattenti, e più da lungi non ristavano mai le trombe moresche. Infine i cornetti, i corni, i torti-corni, i clarinetti, le trombette, i tamburi, l'artiglieria, gli arcobugi, e soprattutto il formidabile strepito dei carri formavano tutt'insieme sì orribile e confuso rombazzo che don Chisciotte ebbe d'uopo di tutto il suo cuore per sopportarlo.

Il povero Sancio dovette svenire, e nello stramazzare si lasciò cadere sopra un lembo del vestito della duchessa, la quale lo raccolse, e prestamente gli fece spruzzare dell'acqua nel viso. Fatto questo ritornò in sé nel punto che già il carro dalle stridenti ruote arrivava. Era tirato da quattro tardi buoi, tutti coperti di nere paramenta, e in ogni cantone portava legata ed accesa grande torcia di cera.

Venerabile vecchio con barba che vinceva in candore la neve, e che gli scendeva fino al di sotto della cintura, stava su di un'alta sedia collocata nel mezzo, e portava larghissima zimarra di bottana nera, la quale ben poteasi distinguer per gl'infiniti lumi che il carro rendeano fiammeggiante. Due brutti demoni vestiti anch'essi di bottana e con facce assai rivoltanti erano i guidatori; e avendoli Sancio veduti una sol volta chiuse gli occhi per non rivederli mai più.

Arrivato dunque il carro dove erano i circostanti, si alzò dalla sedia il venerabile vecchio e posatamente disse con voce sonora:

“Io sono il Savio Lirgardeo;” e passò innanzi il carro senza che più si udisse parola.

Dopo questo passò un altro carro alla foggia stessa con un altro vecchio seduto in eminente posto, il quale facendo arrestare il carro, con voce meno grave dell'altro, disse:

“Io sono il Savio Alchiffo, il grande amico di Urganda la sconoscente;” e tirò avanti.

Nella stessa maniera giunse il terzo carro; ma quello che in trono sedeva non era vecchio siccome gli altri, ma sì bene uomaccione robusto e di brutta fisonomia, il quale levatosi in piè come gli altri, disse con voce più rauca e indemoniata:

“Io sono Arcalausse l'incantatore, il mortale nimico di Amadigi di Gaula e di tutto il suo parentado;” e passò oltre.

Non molto di là discosto fecero alto questi carri, e cessò quindi il molesto stridere delle ruote, né altro si sentì allora fuorché soave suono di concertata musica colla quale Sancio si rallegrò, essendo di buon presagio; ond'è che disse alla duchessa da cui non iscostavasi un passo:

— Mia signora, al suono della musica non dovrebbero nascere disgrazie.

— E né tampoco dove sono i lumi e splendori, rispose la duchessa.

Cui replicò Sancio:

— Questa luce viene dal fuoco e questo splendore dall'incendio, e potrebbe anche darsi che ci abbruciassimo, ma la musica è sempre indizio di feste e di allegria.

— Questo è quello che si vedrà poi, disse don Chisciotte; e disse bene come si dimostrerà nel capitolo seguente.


CAPITOLO XXXV

 

SI SEGUITA A PARLARE DEL MODO INDICATO A DON CHISCIOTTE PER TRARRE D'INCANTO DULCINEA, CON ALTRI MARAVIGLIOSI SUCCESSI.

 

Intanto a cadenza di soavissima musica videro che avanzavasi un carro di que' che si chiamano trionfali, tirato da sei mule bigie coperte di bianca tela; e sopra di ognuna stavasene un disciplinante, vestito pure di bianco e con in mano grande torcia di cera accesa che lo rendea risplendente.

Era il carro due o tre volte volte maggiore dei già descritti, e tutt'all'intorno v'eran seduti altri dodici disciplinanti, bianchi come la neve e tutti con torce accese: apparato che recava abbagliamento e stupore insieme. Sopra elevato trono era collocata una ninfa ammantata tutta di vesta di tocca argentina assai brillante e con in testa infinite foglie d'oro falso, che la rendevano, se non ricca, almeno di superbo aspetto, e teneva il viso velato da mezzo zendale così trasparente che lasciava scorger al di sotto bellissima faccia di donzella, la cui vaghezza ed età tra i diciassette e i venti anni, chiaramente apparivano mercé lo splendore dei tanti lumi. Stavale accanto altra figura vestita di zimarra, di quelle lunghe e strascinanti fino ai piedi, e coperta il capo di nero velo.

All'istante in cui arrivò il carro dirimpetto ai duchi e a don Chisciotte, cessò la musica dei pifferi e subito dopo quella delle arpe e dei flauti; ed alzatasi la figura dalla zimarra lasciatala sciolta dai due lati, ed indi toltosi il velo dalla faccia, scoprì patentemente ch'era la figura della morte scarnata e brutta: figura che dispiacque assai a don Chisciotte, che infuse spavento in Sancio, e che lasciò fingere anche nei duchi un senso di vero timore. Rizzatasi questa Morte viva, con voce come sonnolenta, e con lingua non molto sciolta, in questa guisa si espresse:

 

“I' son Merlin ch'ebbe a padre il diavolo,

(Se non menton l'istorie: e se pur mentono,

Degli anni il corso accreditò la favola)

Sommo della magia monarca e principe,

Archivista del senno zoroastrico,

Rival del tempo e degl'ingordi secoli,

Che l'alte geste d'oscurar procacciano

De' cavalieri erranti, razza intrepida.

Per la qual proprio mi disfaccio in zucchero.

 

E benché ne' stregoni e ne' malefici

E ne' seguaci lor perversa l'indole

Appaia sempre e il cuor crudele e perfido,

Io però dolce son, soave, affabile,

E a tutti cerco riuscir benefico.

 

Mentre là negli oscuri spechi d'Erebo

Stommi con l'alma assorta, e tutto m'applico

In formar certi rombi e arcane cifere,

Ratto mi giunse della bella ed unica

Dulcinea del Toboso il mesto gemito.

Seppi la sua sventura e l'incantesimo,

Che di dama gentil cambiolla in zotica

Paffuta villanzona. Dolor presemi

E tosto dell'orribil metamorfosi

Mi diedi ad indagar l'occulta origine;

E poiché stetti centomila a svolgere

Tomi ripieni del saver diabolico,

Ecco che a sì reo duolo, a mal sì critico

Or acconcio rimedio a porre accingomi.

O tu, gloria e splendor di quanti vestono

Lucido acciaro e adamantine tuniche,

Lume, fanal, sentiero, polo e mentore

Di quanti abborron di poltrir nell'ozio

E il grave uffizio degli Erranti imprendono;

 

A te annunzio, o baron, non mai qual meriti

Lodato assai, a te del par magnanimo

Che saggio don Chisciotte, onor di Mancia,

Di Spagna stella, che se brami rendere

Al primiero esser suo la bella ed unica

Dulcinea del Toboso, è necessario

Che Sancio tuo scudier tremila diasi

Trecento scudisciate in sulle solide

Chiappe scoperte all'aria, e con tale impeto

Che si ammacchin, si rompano, si scuoino.

 

Sol con questo avverrà che in fumo vadano

Quanti del mal di lei fùro gli artefici.

È questo, miei signor', verace annunzio.”

 

— Per la vita mia, soggiunse subito Sancio, non tremila frustate, ma tanto io me ne darei tre sole come tre pugnalate. Ché il canchero roda l'inventore di questo bel modo di trarre d'incanto: e viva Dio che non hanno niente a che fare gl'incantesimi colle mie natiche innocenti; e se questo signor don Merlino non ha altre strade per disincantare la signora Dulcinea del Toboso, io per me non mi oppongo ch'ella vada incantata anche in sepoltura.

— Oh la finirà, disse allora don Chisciotte a Sancio Pancia, che io ti piglierò, pezzo di villano distruttore di agli, e ti legherò ad un albero, nudo come sei nato; e se non bastano tremila e trecento, ben seimila e seicento frustate ti regalerò, e sì sode che varranno per tre mila e trecento strappate; né mi stare a replicare sillaba, se non vuoi che io ti cavi il cuore.”

Merlino allora soggiunse:

— No, non ha ad essere così, perché le frustate debbono essere ricevute dal buon Sancio volontariamente e giammai per forza, e nel tempo che più gli tornerà a grado, che non gli si prescrive termine fisso: gli resti anzi concesso che volendo ridurre alla metà il travaglio di questa flagellazione, possa lasciarsela affibbiare per mano altrui, purché la mano sia pesante.

— Né per mano altrui, né per propria, né pesante, né da pesare, replicò Sancio, e nessuno mi toccherà. Sono forse stato io che ho partorito la signora Dulcinea, perché il male che hanno fatto i suoi occhi abbia ad essere pagato dal mio corpo? Questo è debito del mio padrone, questa è parte sua, a lui tocca, a lui, che ad ogni passo la chiama vita mia, anima mia, mio sostegno, mia sicurezza. Egli si faccia frustare per lei, e faccia quanto è necessario affinché si disincanti; ma che io frusti me? abernunzio.

Non avea appena terminato Sancio di dire queste parole, che rizzatasi in piè l'argentata ninfa che stava accanto allo spirito di Merlino, e toltosi il sottil velo dal viso, si lasciò a tutti vedere, tale che parve più che mezzanamente bella e di grazia piuttosto virile. Con voce non molto donnesca, rivolgendo il discorso direttamente a Sancio, gli disse:

— O malavventurato scudiere! animalaccio, cuore di sughero, viscere di macigno, di acciaio! Se ti fosse comandato, o ladrone, o prepotente, di gittarti dall'alto al basso di una torre; se si esigesse da te, nemico dell'uman genere! che avessi ad ingoiarti una dozzina di rospi, due ramarri e tre serpenti; se ti avessero persuaso di ammazzare tua moglie e i tuoi figli con truculenta ed acuta scimitarra, non sarìa maraviglia che ti mostrassi schifo e restìo; ma reca bene sorpresa e sdegno e terrore al pietoso animo di chi ti ascolta e di quanti vivranno dopo di noi, l'udire che tu muovi difficoltà, e ti dai gran pensiero di tremila e trecento frustate, mentre non vi ha bambino di dottrina, per furfantello che sia, che in ogni mese non ne pigli altrettante! Volgi, o miserabile e indurito animale, volgi, ripeto, quei tuoi occhi di muletto ombroso, nelle pupille di questi miei, che sono tante roteanti stelle, e li vedrai a filo a filo, a matassa a matassa, sgorgare lagrime, facendo solchi, carriere e sentieri pei campi delle mie gote. Muovati, volpone e mostro malintenzionato, questa fiorente età mia, che sta nella decina e nella unità, non avendo ancora venti anni, e vedila come si consuma e appassisce sotto la scorza di razza villana. Ella è sola mercede segnalatissima del signor Merlino, che qua è presente, ch'io tale non sembri per solo fine d'intenerirti colla mia vaghezza, mentre le lagrime di beltà desolata convertono in bambagia le rupi e le tigri in agnelli. Ah batti, batti quelle tue carnacce, bestione indomito: spoltra quella tua anima, che pare nata per mangiare e per divorare; inclinati una volta a dare libertà a queste liscie mie carni, alla soavità del mio spirito, alle attrattive del mio sembiante, e se io non valgo ad addolcirti ed a condurti a termini ragionevoli, fallo almeno per quel misero cavaliere che ti sta accanto: fallo per quel tuo padrone, che tiene l'anima attraversata alla gola e non lontana dieci dita dai labbri, e che non aspetta altro fuorché barbara o dolce risposta per uscirgli dalla bocca o ritornargli dentro allo stomaco.” Dopo questi rimproveri, don Chisciotte si tastò la gola, e volgendosi al duca, disse:

— Giuro, o signore, che Dulcinea ha detto la verità, mentre io tengo appunto l'anima attraversata alla gola, come una noce di balestra.

— Ebbene, soggiunse la duchessa a Sancio, che rispondete voi adesso?

— Io rispondo, egli disse, quello che ho già detto, che alle frustate abernunzio.

Abrenuncio, dovete dire, Sancio mio, replicò il duca.

— Per carità, la grandezza e celsitudine vostra mi lasci stare, rispose, che ho altro adesso per la testa che badare a sottigliezze, o se le lettere vadano a puntino al proprio luogo. Costoro mi fanno stare tutto sconvolto, e queste frustate che vogliono affibbiarmi o che debbo regalarmi da me medesimo, sono faccenda tale, che io non so più né quello che mi dica né quello che mi faccia. Ma vorrei sapere dalla mia signora Dulcinea del Toboso, chi è stato colui che le insegnò questi modi di pregare? Vuole che io mi diserti le carni a frustate, e in aggiunta mi favorisce dei titoli di animalaccio, di bestione indomito, con una sequenza di perfidi nomi che non li tollererebbe il demonio? Crede ella ch'io abbia le carni di bronzo? che importa a me ch'ella s'incanti o si disincanti? e poi che compenso mi dà? dov'è almeno una cesta di biancheria o di cuffie o di calzette (quantunque io non ne porti) che possa mitigarmi, senza passare da uno in altro vituperio? Si sa bene il proverbio che un asino carico d'oro monta leggermente sopra una montagna: che i donativi spezzano i sassi; che aiutati che io ti aiuterò; che più vale un prendi che un ti do: e il mio signor padrone, che dovrebbe lisciarmi la coda e incoraggirmi perché mi facessi di lana o di bambagia scardassata, aggiunge ancora egli che se mi piglia, mi lega nudo ad un albero e mi raddoppia la pietanza delle frustate! Dovrebbero considerare, questi sconsolati signori, che non solamente ora dimandano che si frusti uno scudiere, ma un governatore, e che questo non è mica bere un bicchiere di vino di visciole. Imparino, imparino, in loro malora, a saper pregare, a saper domandare e ad avere creanza: che i momenti non sono uguali, né gli uomini si trovano sempre di buon umore. Io sono qua coll'anima tutta amareggiata per vedere in brani il mio vestito verde, e vengono a dimandarmi che mi frusti di quella piena volontà che non ho e non avrò mai!

— In verità, amico Sancio, disse il duca, che se non v'intenerirete più che fico maturo, non arriverete mai a mettere le mani sulle redini d'un governo. Sarebbe egli giusto che io mandassi ai miei isolani un governatore di animo crudele, di viscere pietrine, che non si commuove al pianto delle sconsolate donzelle, né ai prieghi dei discreti, imperiosi ed antichi incantatori e savi? In sostanza, mio Sancio, o dovete frustarvi o dovete lasciarvi frustare; senza di ciò non diventerete mai governatore.

— Signor mio, ripigliò Sancio, non mi si potrebbe dare due giorni di termine per pensar al mio meglio?

— No, in verun modo disse Merlino: questo è affare che va deciso subito, in questo istante e in questo luogo medesimo: o Dulcinea tornerà alla grotta di Montésino, ed al suo pristino stato di villana, oppure sarà portata, nella forma nella quale ora sta, ai Campi Elisi, ed ivi starà attendendo che compiasi l'intera flagellazione.

— Or via, Sancio buono, disse la duchessa, buon animo e buona corrispondenza al pane che vi ha dato a mangiare il vostro signor don Chisciotte, cui noi tutti dobbiamo servire e piacere per le sue eccellenti qualità e per le sue esimie cavallerie: pronunziate il sì, figliuol mio, di questa frustatura; si sperda il diavolo e muoia la viltà, ché forte cuore, come voi ben sapete, scaccia la mala ventura.”

Dopo queste insinuazioni, Sancio si rivolse a Merlino, e così lo interrogò:

— Mi dica la signoria vostra, signor don Merlino, quando è venuto qua il diavolo corriere, e fece al mio padrone l'ambasciata del signor Montésino, ordinandogli da parte sua che lo attendesse in questo sito, disse che sarebbe venuto egli stesso a ordinar quanto occorreva per disincantare la signora Dulcinea del Toboso, ma sino ad ora non si è veduto né Montésino, né niente che lo somigli.

Merlino gli rispose:

— Il diavolo, amico Sancio, è un ignorantone ed un grandissimo furbo. L'ho mandato io stesso in traccia del vostro padrone non con l'imbasciata di Montésino, ma a nome mio, perché Montésino sta sempre nella sua grotta, credendo vicino, o a meglio dire, aspettando il suo disincanto, né altro gli resta tuttavia che la coda da scorticare. Se qualche cosa vi dee consegnare, o voi avete di che trattare con lui, io nel trarrò fuori, e lo farò arrivare dove più vi piaccia, ma per adesso finite di dare il di questa disciplina, e credetemi che ridonderà a grande vostro giovamento, tanto per l'anima, atteso l'atto caritatevole che siete per eseguire, quando pel corpo, perché io so che siete di complessione sanguigna e non potrà recarvi nocumento il levarvi un poco di sangue.

— Gl'incantatori sono forse anche medici? replicò Sancio. Orsù, giacché tutti vanno ribattendo il chiodo sebbene non vi concorra la mia volontà, dirò che sarò contento di darmi le tremila e trecento frustate, a condizione per altro che me le darò come e quando mi verrà voglia, senza che mi sia segnalato limite nei giorni e nel tempo. Io procurerò d'uscir del debito il più presto che per me si potrà, affinché goda il mondo della bellezza e vaghezza della grande signora donna Dulcinea del Toboso, che per quello che s'è veduto, tuttoché io ne pensassi diversamente, ella è bellissima. Io voglio poi un altro patto, ed è che io non posso essere obbligato a disciplinarmi a sangue, e che se mi darò qualche frustata per cacciare via le mosche, mi si dovrà porre a conto: item che se sbagliassi nel numero il signor Merlino, che sa tutte le cose, ha da aver cura di contare le frustate e di dirmi o quante ne manchino o quante ne avanzino.

— Dell'avanzo non occorrerà avvisare, disse Merlino, mentre compito il prescritto numero, seguirà d'improvviso il disincanto della signora Dulcinea, la quale, mossa da gratitudine, si recherà in traccia del buon Sancio a ringraziarlo ed anche a premiarlo per la eccellente opera che avrà compita. E perciò non occorrono scrupoli sull'avanzo, ma stare attenti al mancamento, che non ingannerò mai alcuno al mondo, se bene si trattasse d'un pelo della testa.

— Ebbene alle mani disse Sancio: io consento al mio malanno, e voglio dire che accetto la penitenza colle condizioni sopraccennate.”

Non aveva appena Sancio terminato di proferire queste ultime parole, che tornossi a sentire suoni di pifferi e di tamburi e a sparar infiniti archibugi, e don Chisciotte abbandonatosi al collo del suo scudiere, lo baciò mille volte in fronte e nelle guancie. La duchessa, il duca ed i circostanti tutti diedero segno di avere provato sommo contento: il carro riprese il cammino, e la vezzosa Dulcinea, passando, inchinò la testa dinanzi ai duchi e fece a Sancio una profonda riverenza.

Già venia per le poste l'alba lieta e ridente; i fiorellini nei campi spuntavano e germogliavano, e i liquidi cristalli dei fonti, collo scorrere mormorando tra bianca e bigia ghiaia, andavano a dare tributi ai fiumi che li attendevano. La terra allegra, il cielo placido, l'aere puro, la luce serena, ognuno di per sé e tutti congiuntamente mostravano ad evidenza che un giorno preceduto da sì vaga aurora, bello e risplendente dovesse riuscire.

Soddisfatti i duchi della caccia e della felice e avveduta riuscita del loro divisamento, tornarono al castello, proponendo seco medesimi di procedere nelle burle, in paragone delle quali non poteva esservi cosa fondata sul vero, da cui ritrarre potessero maggior diletto.


CAPITOLO XXXVI

 

RACCONTASI LA STRANA E NON PRIMA IMMAGINATA VENTURA DELLA MATRONA DOLORIDA, DETTA ALTRIMENTI LA CONTESSA TRIFALDI; E SI LEGGERÀ UNA LETTERA

SCRITTA DA SANCIO PANCIA A SUA MOGLIE TERESA PANCIA.

 

L'uomo di più scherzoso e gioviale ingegno nella corte del duca era il maggiordomo. Costui aveva rappresentato Merlino, disposto l'intero apparato della già seguita ventura, composti i versi, ed ammaestrato un paggio ad eseguire le parti di Dulcinea. Ora, col consenso dei duchi, altra burla egli ordì del più grazioso e strano artifizio che possa mai immaginarsi. In altro giorno la duchessa dimandò a Sancio se avesse cominciato il compito della penitenza da fare pel disincanto di Dulcinea. Rispos'egli di sì, e che già si avea dato nella scorsa notte cinque frustate. Chiese la duchessa di che si era valso a far questo.

— Delle mani, diss'egli.

— Quest'è, soggiunse la duchessa, piuttosto un darsi palmate che frustate, ed io sono di avviso che il savio Merlino non si contenterà di tanta piacevolezza, e sarà mestieri che il buon Sancio usi di qualche disciplina fatta di stelle di ferro, o di altro genere che squarci un poco le carni; poiché nel comando ci entra il sangue, né si deve mettere a vile prezzo la libertà di una tanto alta signora quanto è Dulcinea del Toboso.”

Al che Sancio rispose:

— La vostra grandezza mi appresterà qualche disciplina o verga conveniente, ed io mi batterò con esse, a condizione però che non ne abbia a sentire troppo dolore; perché sappia che quantunque io sia nato in villa, ho le carni morbide come la bambagia, né sono fatte di giunco marino; e poi non sarà conveniente che io faccia male a me per far bene ad altri.

— Alla buon'ora, rispose la duchessa, vi darò dimani una disciplina che metterà la cosa ai termini di giustizia, e si adatterà alla tenerezza delle vostre carni, come se fossero proprie sorelle.”

Soggiunse Sancio:

— Sappia vostra altezza, signora mia cara, che io ho scritto una lettera a mia moglie Teresa Pancia, con la quale la rendo consapevole di tutto quello che mi è successo da quando io la ho lasciata; e l'ho qua in seno, che altro non vi manca che di farle la soprascritta: ora bramerei che la vostra discrezione la leggesse, perché mi pare che sia alla governatoresca, e voglio dire come debbono scrivere i governatori.

— E chi ne fece la dettatura? dimandò la duchessa.

— E chi deve averla dettata altri che io, povero peccatore? rispose Sancio.

— La scriveste di vostro pugno? disse la duchessa.

— Come diamine può vostra altezza supporlo? rispose Sancio; sa bene che io non so né leggere né scrivere, e non so altro che sottoscrivere e mettere la firma.

— Vediamo, soggiunse la duchessa, questa lettera, perché scommetterei che voi spiegherete nella medesima la qualità e sufficienza del vostro ingegno.”

Sancio cavò fuori dal seno una lettera non sigillata, e leggendola la duchessa, trovò ch'era concepita nei seguenti termini:

 

LETTERA DI SANCIO PANCIA

A TERESA PANCIA SUA MOGLIE.

 

“Se buone frustate mi davano, io me ne stava bravamente a cavallo: se buon governo io tengo, buone frustate mi costa. Questa cosa tu non la capirai bene, Teresa mia, per adesso, ma la intenderai a puntino in altra occasione.

Devi sapere, Teresa, che ho stabilito che tu vada in cocchio: che è quello che importa: perché ogni altra maniera di andare è come andare carpone. Sei moglie d'un governatore.

Oh guarda un poco se vi sarà più chi ti taglierà i panni addosso! Ti mando, colla presente lettera, un casaccone verde da cacciatore, che mi fu regalato dalla mia signora duchessa: assettalo in maniera che possa servire di zimarra e di busto alla nostra figliuola.

Don Chisciotte mio padrone, per quanto ho inteso dire in questo paese, è un pazzo savio, e un balordone grazioso, né io sono da manco di lui.

Siamo stati nella grotta di Montésino, ed il savio Merlino s'è valso di me per disincantare Dulcinea del Toboso, che in codeste nostre bande si chiama Aldonza Lorenzo. Con tremila e trecento frustate da darmi, meno cinque che già mi ho date, resterà Dulcinea disincantata come la madre che l'ha partorita. Bada bene di non dir niente di questo a persona viva, perché se metti la cosa nell'altrui giudizio, altri diranno ch'è bianca, altri ch'è nera. Fra pochi giorni partirò pel mio governo, dove mi porto con grandissimo desiderio di far denari, perché mi viene detto che tutti i governatori nuovi vi vanno con questo proposito. Io tasterò il polso ai miei amministrati, e ti darò avviso se tu debba o no venire a startene meco. L'asino sta bene, ed a te si raccomanda caldamente, ed io fo il mio conto di non scostarmi da lui, quando anche mi facessero diventare il Gran Turco. La duchessa mia signora ti bacia mille volte le mani, e tu rendi ad essa il contraccambio con duemila; che non vi è cosa più a buon mercato, dice il mio padrone, e che meno costi, del procedere con creanza con tutti.

Non è piaciuto a Dio di farmi inciampare in qualche altro valigiotto con altri cento scudi, come fu la volta passata, ma non te ne pigliare fastidio, Teresa mia, che non l'andrà male: non la perde chi batte e ribatte, e tutto uscirà in bene col colatoio del governo.

Mi dà molto imbarazzo quello che ho inteso dire, che se una volta mi ci metto dentro, me ne mangerò per gran diletto le dita: se la faccenda andasse così, non lo avrei a troppo buon mercato, ma già anche gli storpiati ed i monchi hanno il loro canonicato nella limosina che vanno accattando; perciò in un modo o nell'altro tu hai ad essere ricca e di buona ventura. Dio te la conceda in ogni retto modo, e custodisca me per servirti.

Da questo castello, ai 20 di luglio 1614.

Tuo marito il governatore

                   SANCIO PANCIA.”

 

La duchessa, com'ebbe terminato di leggere la lettera, disse a Sancio:

— In due cose esce dal seminato il nostro buon governatore: consiste l'una nell'asserire o nel dare ad intendere che gli sia conferito questo governo per le frustate che si deve dare, mentre sa bene, né può negarlo, che quando che gli è stato promesso dal duca mio signore, egli neppure sognavasi che ci fossero frustate al mondo; l'altra si è che spiega un carattere di grande avarizia, ed io non vorrei che nascesse qualche disordine, perché il soverchio rompe il coperchio, ed il governatore avaro fa che la giustizia resti svergognata.

— Le mie parole non mirano a questo fine, rispose Sancio: e se a vossignoria pare che la mia lettera non vada a dovere, costa poca fatica lo stracciarla, e lo scriverne una nuova, la quale, per altro, sarebbe facile che riuscisse peggiore, se si lasciasse fare al mio cervellaccio.

— No, no, replicò la duchessa, sta bene così, e voglio che il duca la vegga.

Si recarono allora in un giardino dove aveano deliberato di pranzare in quel giorno, e la duchessa mostrò la lettera di Sancio al duca, il quale si mostrò molto persuaso del suo contenuto. Desinarono, e dopo levate le tovaglie e dopo essersi trattenuti per buono spazio di tempo colla saporita conversazione di Sancio, si udì inaspettatamente il mestissimo suono di un piffero e di uno scordato tamburo. Tutti fecero mostra di agitazione, attesa quella confusa, guerriera e malinconica armonia, e don Chisciotte singolarmente, il quale vedeasi che non poteva più star saldo nella sua sedia, pel grande rimescolamento della persona.

Non occorre di parlare di Sancio, ché la paura lo trasse al suo consueto rifugio, ch'era il mettersi accanto o sulle falde del vestito della duchessa; e in realtà era quanto si può dire tetro e lugubre il suono che udivasi. Stando tutti così sospesi, videro avanzarsi pel giardino due uomini in abito bruno, sì lungo e disteso, che andavano strascicandolo per terra, e procedevano suonando due grandissimi tamburi, coperti egualmente di nero, tenendo a lato il suonatore di piffero, bruno e nero, anch'egli.

Erano questi tre seguitati da un personaggio di gigantesca statura, rivestito e coperto tutto di nerissima zimarra, la cui falda era pure di smisurata grandezza. La zimarra era cinta, nella parte superiore, da un largo armacollo, nero pur esso, e da cui pendeva smisurata scimitarra con fornimenti e con fodero nero, anche il viso era nascosto da nero velo trasparente, che lasciava scoprire lunghissima barba, bianca come la neve; e con molta gravità e posatamente moveva il passo al suono dei tamburi: infine la sua grandezza, l'attitudine, la nerezza ed il suo accompagnamento potevano incutere terrore a tutti quelli che senza conoscerlo lo guardavano.

Giunse dunque con quelle forme e con quella prosopopea a mettersi ginocchioni dinanzi al duca; il quale ritto attendevalo cogli altri circostanti, e non volle a patto alcuno che movesse parola, se prima non si levasse.

Così fece quel prodigioso spauracchio; e quando fu in piedi alzò il velo, e diè a divedere la più bianca e la più folta barba che occhio umano fino allora avesse ravvisato: poscia trasse fuori dal dilatato suo petto grossa e sonora voce, e posti gli occhi sul duca, si fece a dire:

— Altissimo e potente signore, io sono denominato Trifaldino dalla barba bianca. Io sono lo scudiere della contessa Trifaldi, chiamata con altro nome la matrona Dolorida, da parte di cui porto un'imbasciata alla grandezza vostra, ed è che piaccia alla vostra magnificenza di darle facoltà e licenza che possa presentarsi a narrare la sua grande sventura, ch'è una delle più straordinarie e maravigliose che possa mai entrare in pensiero. E prima di altro vuol ella sapere se trovasi in questo vostro castello il valoroso e non mai vinto cavaliere don Chisciotte della Mancia; in traccia di cui viene a piedi, avendo digiunato dal regno di Candaia sino a questo vostro stato: cosa che ascrivere si può a miracolo od a forza d'incantamento. Ora ella è rimasta alla porta di questa fortezza o villa, né altro attende, per entrarvi, fuorché la vostra permissione.”

Disse, tossì, portò le mani alla barba, dimenandosela, e con sussiego stava aspettando la risposta del duca, che fu questa:

— Corrono già, mio buono scudiere Trifaldino dalla bianca barba, molti giorni da che mi è nota la disgrazia della contessa Trifaldi, signora mia, dall'incantatori chiamata la matrona Dolorida. Potete dirle, o maraviglioso scudiere, ch'entri, e che sta qui appunto il gagliardo cavaliere don Chisciotte della Mancia, dal cui generoso animo può promettersi con certezza ogni difesa ed aiuto, e potete dirle ancora da parte mia che se avrà bisogno del mio avere, questo non le mancherà, ché mi tiene obbligato l'essere cavaliere, a cui è debito assoluto di proteggere ogni sorta di donne, ed in special modo le matrone vedove, povere e afflitte, come debbe esserlo la contessa.” Ciò udendo Trifaldino piegò il ginocchio sino terra, e poscia dando segno al piffero ed al tamburino che suonassero, allo stesso suono e allo stesso passo con cui egli era entrato, uscì dal giardino, lasciando tutti trasecolati del suo trasfiguramento.

Voltossi il duca a don Chisciotte, e gli disse:

— Non può rivocarsi in dubbio, o celebratissimo cavaliere, che lo splendore della virtù non può essere oscurato dalle tenebre della malizia e della ignoranza. Così mi esprimo, perché non conta appena la bontà vostra la dimora di soli sei giorni in questo mio castello, che già viene gente in traccia di voi da lontani e rimoti paesi: né si valgono di carrozze o di dromedari, ma viaggiano a piedi e digiuni i dogliosi e gli afflitti, confidati di trovare nel vostro fortissimo braccio rimedio alle loro sciagure ed ai loro travagli: e tutto questo la mercé delle sublimi imprese vostre, le quali riempiono e sbalordiscono tutta la terra scoperta.

— Io vorrei, signor duca, rispose don Chisciotte, che qui presente si trovasse ora quel buon religioso che l'altro giorno alla vostra tavola spiegò sì mal talento e sì mal animo contro i cavalieri erranti: e vedrebbe egli adesso cogli occhi suoi proprï se il mondo abbia necessità o non l'abbia di noi cavalieri; toccherebbe con mano che gli oppressi da straordinarie traversie ed afflizioni, nei casi importanti e nelle grandi disdette, non vanno già a mendicare sovvenimento alle abitazioni dei letterati, né agli alberghi dei sagrestani dei contadi, né al cavaliere che non trovò mai la via di uscire dai confini del suo paese, né al cortigiano infingardo, avido di novelle per divulgarle, anzi che di accingersi a fatti ed a prodezze meritevoli di essere da altri raccontate e descritte. Il porgere rimedio alle sventure, soccorso alle indigenze, protezioni alle donzelle, consolazioni alle vedove, in verun ordine di persone, non trovansi meglio che nei cavalieri erranti. Non finirò mai di rendere grazie al cielo che mi diede di potermi vantare di questo nome, ed avrei per venturosi e ben sofferti i travagli e le disgrazie che in avvenire potesse mai cagionarmi sì onorato esercizio. Vengane pur avanti questa matrona, e mi significhi ciò che brama, mentre io le farò trovare ogni salvezza nel valore del mio braccio e nella intrepida risoluzione dell'animoso mio spirito.


CAPITOLO XXXVII

 

CONTINUA LA FAMOSA VENTURA DELLA MATRONA DOLORIDA.

 

Lietissimi furono il duca e la duchessa vedendo con quanta facilità veniva secondata la loro intenzione da don Chisciotte; e Sancio loro disse così: — Non vorrei veramente che questa signora matrona venisse a far zoppicare la faccenda del mio governo, avendo io inteso dire da uno speziale di Toledo che parlava come un canarino, che dov'entrano matrone, nulla può succedere mai di bene: e sì, per la vita mia, che in mano di lui erano conce per lo dì delle feste! Io cavo tal conseguenza da questo, che se tutte le matrone sono fastidiose e impertinenti, qualunque ne sia la loro condizione e natura, che avranno mai da essere quelle che sono Doloride, come hanno detto esser questa contessa da tre falde o tre code? che falde e code, code e falde nella mia terra suonano una cosa istessa.

— Taci, amico Sancio, disse don Chisciotte, poiché venendo questa signora matrona da sì lontani paesi a cercarmi non debb'essere posta nel numero di quelle accennate dallo speziale: tanto più che ella ha titolo di contessa, e quando le contesse fanno ufficio di matrone, è mestieri credere che stieno al servigio di regine e d'imperatrici, le quali nelle case loro sono signorissime, e si fanno sempre servir da così fatte matrone.”

Rispose a questo donna Rodrighez che stava nella conversazione:

— Tiene la duchessa, signora mia, al suo servigio matrone che potrebbero essere contesse quando fossero favorite dalla fortuna; ma le cose seguono il loro destino, e non osi alcuno mormorare delle matrone, e molto meno se sono vecchie e donzelle, che quantunque io non mi trovi in tal caso, pure so ed ho presente la prevalenza delle matrone donzelle sopra le matrone vedove; e, come suol dirsi, chi ci ha tosate, rimase al fine del conto colle forbici in mano.

— Contuttociò, replicò Sancio, vi è da tosare tanto nelle matrone (per quanto diceva il mio barbiere) che sarebbe meglio non rimescolare altro questa faccenda perché la pute.

— Sempre gli scudieri, soggiunse donna Rodrighez, sono stati dichiarati nemici nostri, che come quelli che sono i folletti delle anticamere, e ci hanno di continuo sott'occhio, negl'intervalli nei quali non dicono la corona (che sono lunghi), si trattengono a mormorare di noi disotterrandoci le ossa e sotterrandoci la riputazione. Sappiano però codesti legni movibili, che a loro marcio dispetto noi abbiamo a vivere nel mondo e ad essere accolte nelle signorili famiglie anche se vi moriamo di fame, e se copriamo di nera tonaca le nostre delicate e non delicate carni.

— Come, disse Sancio, nei giorni di processione si coprono con tappeto i monti delle spazzature.

— Oh, continuava a dire la matrona, se mi lasciassero fare, e il tempo lo permettesse, io m'impegnerei di provar ad evidenza non pure a chi adesso mi ascolta, ma sì bene al mondo tutto, come non vi è su questa terra virtù che non alligni in cuore di matrona.

— Per me, disse la duchessa, credo che la mia buona donna Rodrighez dica il vero, ed abbia pienissima ragione, ma mi pare che le convenga di rimettersi a circostanza più opportuna per parlare di sé e delle sue altre matrone, e così ribattere la mala opinione di quel tristo speziale e sradicare quella che sta in petto al gran Sancio Pancia.”

A questo punto Sancio disse:

— Dopo che ho cominciato ad aver certi fumi da governatore mi ho allontanati i giramenti di capo da scudiere, e non darei un fico secco per quante matrone si trovano sulla terra abitata.”

Questo discorso matronile sarebbesi tirato in lungo se non si fosse udito nuovamente il suono dei pifferi e dei tamburi che annunziava l'arrivo della matrona Dolorida. Dimandò la duchessa al duca, se occorresse accoglierla alle scale, perché era contessa e persona di grado distinto.

— Quanto all'essere contessa, disse Sancio, prima che rispondesse il duca, io sono di parere che le vostre grandezze si decidano di andarle incontro, ma quanto poi all'essere matrona io sarei persuaso che non avessero a movere passo.

— E come, o Sancio, entri tu in questo proposito? disse don Chisciotte.

— Oh, signore, rispos'egli, ci entro perché ci posso entrare, e perché sono autorizzato come scudiero che ha imparato le regole e i termini della creanza alla scuola di vossignoria, che è il cavaliere più creato che vanti tutta la cortigianeria, e in queste cose ella ha detto che tanto si perde dando nel troppo come nel troppo poco; e a buon intenditor poche parole.

— La cosa passa per lo appunto al modo che dice Sancio, soggiunse il duca, e noi vedremo le disposizioni della contessa, e da queste prenderemo regola per le misure delle nostre accoglienze.”

In questa entrarono il piffero e i tamburini coll'ordine istesso della prima volta.

E qui diede fine l'autore a questo breve capitolo, e cominciò il seguente cominciando l'avventura medesima, che è una delle più notabili della nostra istoria.


CAPITOLO XXXVIII

 

NARRASI CIÒ CHE FECE LA MATRONA DOLORIDA INTORNO ALLA SUA DISAVVENTURA.

 

Dopo la mesta musica cominciarono a calare dal giardino divise in due file, dodici matrone, tutte vestite con tonache larghe, che sembravano essere di anascotto purgato, e con veli candidi di sottile brabantino e lunghi sino agli orli della tonaca. Erano seguite dalla contessa Trifaldi, tenuta per mano dallo scudiere Trifaldino dalla bianca barba, vestita di finissimo e nero rovescio non cimato; ché se fosse stato cimato, avrebbe ogni pelo formato un ricciolino della grandezza di un cece di quei grossi di Martos. La coda o falda o come vogliamo chiamarla, era a tre punte, ognuna delle quali veniva sostenuta da un paggio vestito pure a bruno, e che faceva vistosa e matematica figura con quei tre angoli acuti formati da quelle tre punte: dal che tutti coloro che quella triplice falda guardavano, inferirono che questa appunto avesse dato il nome alla contessa Trifaldi come se noi dicessimo la contessa dalle tre falde.

Asserisce Ben-Engeli che non è ciò da revocarsi in dubbio, e che il suo primitivo cognome era la contessa Lupina, adottato per trovarsi gran quantità di lupi nelle sue terre; e se in luogo di lupi vi fossero state volpi sarebbesi chiamata la contessa Volpina, essendo costumanza appresso quei popoli che tutti i potenti prendano la denominazione dei loro casati dalla cosa o dalle cose che si trovano in maggior copia negli stati loro: ma questa contessa poi a fine di rendere celebre la novità della sua falda, lasciò il cognome Lupina, e assunse quello di Trifaldi.

Si avanzavano le dodici matrone e la loro signora a passo di processione, portando coperta la faccia con neri veli, non però trasparenti come quello di Trifaldino, anzi tanto serrati che niente traluceva. Subito che comparve il matronesco Squadrone, il duca, la duchessa e don Chisciotte levaronsi in piedi, e così tutti quelli che stavano mirando la flemmatica processione.

Le dodici matrone lasciarono libera la strada a Dolorida, la quale si avanzò sempre condotta a mano da Trifaldino.

Il duca, la duchessa e don Chisciotte vedendo questo, andarono ad incontrarla una dozzina di passi perché fosse eseguito l'accoglimento colle debite forme, e allora Dolorida, poste le ginocchia a terra, con grossa e rauca, piuttosto che sottile e delicata voce, disse:

— Non discendano le signorie vostre a tanta cortesia verso questo loro servidore, voglio dire verso questa loro serva, mentre io sono tanto trambasciata che non potrei mai corrispondere debitamente a tanta degnazione. Ah questa mia strana e non mai veduta disgrazia mi ha trasportato non so dove l'intendimento; e debb'essere ito assai lontano, poiché quanto più lo vo cercando tanto meno lo trovo.

— Potrebbe, rispose il duca, chiamarsi piuttosto senza cervello affatto colui che al solo considerare la persona vostra non conoscesse il merito che vi adorna, il quale senz'altri esami è capace di ogni finezza ed eccellenza di cortesia e di ogni fiore di bene creata cerimonia.”

Aiutandola allora ad alzarsi la fece sedere a canto alla duchessa, da cui pure ricevette ogni tratto gentile. Taceva don Chisciotte, e Sancio moriva di voglia di vedere il viso della Trifaldi e di qualcuna delle sue molte matrone; ma non poté appagare questo suo desiderio sino a tanto che non risolsero da per loro stesse a discoprirsi. Acchetata e taciturna tutta la compagnia stava aspettando chi fosse il primo a parlare e fu la matrona Dolorida con questi detti.

— Ho la più certa fidanza, potentissimo signore, signora bellissima, discretissimi circostanti, che la mia disgrazia abbia a trovare nei vostri petti valorosissimo ricapito, placido non pure ma generoso e doglioso, poiché è tanto strabocchevole la mia sorte che basta ad intenerire marmi, sminuzzare diamanti, a impietosire il più ferreo, feroce cuore. Prima però che pervenga alla piazza dei vostri uditi, per non dire orecchi, bramerei essere informatissima se trovasi in questo grembo e circolo e comitanza il raffinatissimo cavaliere della Mancissima e il suo scuderilissimo Sancio Pancia.”

Sancio, prima che altri facesse parola, disse:

— Sancio Pancia è qua in persona, e don Chisciotte ancora, e potrete, dogliosissima matronissima, dire ciò che foste bramosissima di far sapere, ché siamo tutti prontissimi e dispostissimi ad esser vostri servitorissimi.”

In questo si rizzò don Chisciotte, e rivolgendo la parola alla Dolorida matrona, disse:

— Se per opera di qualche atto valoroso, o per gagliardia di un cavaliere errante possono, o angustiata signora, promettersi le sciagure vostre qualche speranza di alleggiamento, eccovi il valore e le forze mie, le quali tuttoché deboli e poche, saranno impiegate tutte a servigio vostro. Io sono don Chisciotte della Mancia, il cui animo è di accorrere in favore di ogni maniera di bisognosi; e ciò essendo, come lo è, d'uopo non avrete, o signora, di accattare protezioni, né di mettere in campo preamboli; ma pianamente e senza giri viziosi di parole esponete il tenore dei mali vostri, ché orecchi vi hanno in questo luogo i quali sapranno, se non sanarli compassionarli per lo manco.”

Ciò udendo la Dolorida matrona fece segno di gittarsi ai piedi di don Chisciotte, e anche vi si gittò, e facendo ogni sforzo per abbracciarli, dicea:

— Davanti a questi piedi ed a queste gambe io mi butto, o cavaliere invitto, tenendoli come basi e colonne della errante cavalleria: sì, voglio baciar questi piedi dai passi dei quali dipende ogni mia ventura. Ah valoroso errante le cui veridiche prodezze fanno dimenticare ed annuvolare le favolose degli Amadigi, degli Splandiani e dei Balianigi!”

E lasciando don Chisciotte, si volse a Sancio Pancia, e pigliatolo per le mani, gli disse:

— O tu, il più leale scudiere che abbia avuto in alcun tempo a servigio suo cavaliere errante nei presenti e nei preteriti secoli, più lungo in bontà della barba di Trifaldino, mio accompagnatore qui presente, tu puoi bene darti vanto che nel servir il gran don Chisciotte servi in compendio alla caterva tutta dei cavalieri che trattarono arme sull'orbe. Io ti scongiuro per quello che devi alla tua bontà fedelissima, che tu sia valevole intercessore presso il tuo padrone, perché favorisca questa umilissima e disgraziatissima contessa.”

Cui Sancio rispose:

— In quanto all'essere, o signora, la mia bontà tanto lunga e tanto grande quanto la barba del vostro scudiere, questo a niente monta, anche se alla barba aggiungeste le basette e le ciocchette, ché qua si bada a vivere e non a tener conto delle barbe; ma senza tale adulazione io pregherò il mio padrone (il quale so che mi porta amore e molto più adesso che per un certo negozio ha bisogno di me) che dia favore e soccorso alla signoria vostra in quanto sa e può: ora sventri pure vossignoria le sue disgrazie, e le racconti, e lasci fare, che fra noi d'accordo ce la intenderemo.”

Scoppiavano i duchi dalle risa per questo dialogo, siccome quelli che ordita avevano la ventura, e davano lode fra loro all'acutezza e dissimulazione della Trifaldi, la quale sedutasi di nuovo, disse:

— Del famoso regno di Candaia, che giace fra la gran Trapobana e il mare del sud, due leghe oltre il Capo Comorino, fu signora la regina donna Magunzia: vedova del re Arciperone suo signore e consorte, dal cui matrimonio si procreò la infanta Antonomasia erede del regno, la quale infanta Antonomasia fu allevata e crebbe sotto la mia tutela e dottrina per essere io l'anziana e la principale matrona della sua genitrice. Avvenne dunque che col progresso del tempo la fanciulletta Antonomasia arrivò alla età di quattordici anni, bella, di sì gran perfezione, che di più non poteva la natura innalzarla; e se si trattasse della discrezione, potremmo noi dire che fosse commisurata alla età sua? Era ella così discreta, come vezzosa e la più bella del mondo, e lo è tuttavia quando però gl'invidiosi destini e le parche inesorabili reciso non abbiano lo stame della sua vita. Ma non lo avranno tagliato no, ché non hanno a permettere i cieli che tanto danno abbia la terra: egli sarebbe uno strappare in agresto il grappolo della più bella vite del campo. Di sì esimia bellezza e sì debolmente lodata dalla infeconda mia lingua, s'innamorò un numero infinito di principi sì naturali come snaturali, fra i quali osò alzare i pensieri al cielo di tanta formosità un cavaliere privato che viveva nella corte, confidato nella sua gioventù, nel suo brio, e nelle molte abilità e grazie, accoppiate a facilità e felicità d'ingegno. Io voglio che sappiano le vostre grandezze, se non do loro fastidio, ch'egli suonava la chitarra sì bene che la faceva parlare, e di più, che era poeta e gran ballerino, e sapeva fare gabbie da uccelli tanto perfette, che con sì fatti lavori avrebbe potuto guadagnare da vivere se fosse diventato un pitocco. Queste grazie e queste buone parti sono bastanti ad abbattere una montagna, non che a fare inciampare una delicata donzella; tutta questa sua gentilezza, questo raro brio, queste virtù, unite a tutte le attrattive e ai meriti che lo adornavano, a nulla sarebbero valse per far piegare la fanciulletta, se il vituperevole ladrone non avesse usato il rimedio di sedurre prima la mia persona. Volle il malandrino vagabondo senz'anima entrare a buon conto nella mia grazia, e subornarmi nel mio debole; accioché io, quale disleale castellano, gli dessi le chiavi della fortezza da me custodita. In sostanza egli mi ottenebrò lo intendimento, e sottomise la mia volontà con non so quali gioie ed orecchini che mi donò, ma quello che finì di farmi prostrare e cadere per terra furono certi versi che ho udito cantare una notte in una inferriata, la quale rispondeva in un chiassetto dov'egli stava, e che, se male non mi sovviene, erano così:

 

Dalla dolce mia nemica

  Nasce un mal che punge il cuore:

  E per mio maggior dolore:

  Vuol ch'io 'l senta e non lo dica.

 

La composizione mi è sembrata una perla e la voce una mandorla dolcissima, e d'allora in poi, scorgendo in quale errore io caddi a causa di questi e di altri consimili versi, ho considerato meco stessa che dovrebbero, seguendo il consiglio di Platone, bandirsi tutti i poeti dalle buone e ben regolate repubbliche, o almanco i più scorretti nella lingua, perché scrivono canzoni non già come quelle del marchese di Mantova, che incantano o fanno piangere i fanciulli e le donne, ma sì bene certe acutezze che a foggia di blande spine trapassano l'anima, e la feriscono come saette, lasciando intatto il vestito, e un'altra volta cantò:

 

Morte vieni sì celata

  Ch'io non senta il tuo venir,

  Onde il gusto del morir

  Non mi torni a vita odiata.

 

Ed altri versi e strambotti di questa tempera, che cantati incantano, e scritti avvelenano. E che dirò poi quando si applicava a comporre un genere di versi che in Candaia si usava a quei tempi, e che dai poeti erano chiamati Seghidiglie? Oh come balzavano i cuori di gioia, le risa abbondavano, nasceva uno sconvolgimento nei corpi come se fossero stati posti nell'argento vivo! E perciò dico, o signori miei, che tali compositori dovrebbero con giusto titolo essere rilegati nelle isole di Ramarri. Ma la colpa non è no dei poeti, ma di questi semplici uomini che li celebrano, e delle sciocche donne che loro credono: se io fossi stata quella buona matrona che doveva essere, sarebbero riusciti inefficaci per me tanto elucubrati concetti, né avrei creduti veri quei detti: vivo morendo, ardo nel gelo, tremo nel fuoco, spero senza speranza, vado e resto, con altri impossibili di questa natura, dei quali i loro scritti sono pieni zeppi.

Che diremo poi quando promettono la fenice di Arabia, la corona del Sole, le perle del Sud, l'oro del Pattolo, il balsamo di Pancaia? Qua è dove distendono più la penna, poco loro costando promettere ciò ch'è parto unicamente della fantasia, né si può adempire in alcun tempo! Ma dove trapasso io mai! Oh me disgraziata! quale follia o quale frenesia mi porta a raccontare i mancamenti altrui, avendo tanto di che dire dei miei! Lo ripeterò, ahi sfortunatissima di me, ahi sventurata? ché non fui già sedotta dai versi, ma dalla mia inesperienza e semplicità. Non m'intenerirono le serenate, ma sì bene la mia leggerezza e la mia crassa ignoranza apersero la via, e sbarattarono il sentiero a don Claviscio, ché il nome è quello del perfido cavaliere. Si riseppe che coll'opera mia una e più volte passò nella stanza della mia signora, la quale tanto fu presa di lui, che non ostante la disuguaglianza del grado, promise di averlo a marito; e senza informare i parenti se ne fece la scritta, e si conchiuse la cosa per modo che più non potea disfarsi, e nemmeno tenersi occulta. Il vicario che per buone ragioni credette di benedire quelle nozze, volendo sottrar Antonomasia al primo impeto di quello sdegno che dovean sentire i parenti quando avessero notizia dell'avvenuto, la fece rifugiare nella casa del servidore di un birro, persona molto onorata.”

A questo passo disse Sancio:

— Anche in Candaia vi sono birri, con servidori e poeti e seghidiglie? Sempre più mi persuado che tutto il mondo è un paese; ma vossignoria, signora Trifaldi, la finisca, ch'è tardi, e non veggo l'ora di sapere come si è determinata questa scandalosa istoria.

— Sarò a compiacervi,” rispose la contessa.


CAPITOLO XXXIX

 

LA TRIFALDI CONTINUA IL RACCONTO DELLA SUA STUPENDA E MEMORABILE ISTORIA.

 

Da ogni parola di Sancio provava la duchessa tanto piacere quanta era la disperazione di don Chisciotte, il quale gli comandò di tacere. Dolorida allora proseguì in questo modo:

— Finalmente dopo molte dimande e risposte, siccome si mostrava immutabile la infanta nel proposto suo senza alterare d'un punto solo la sua prima dichiarazione, così il vicario sentenziò in favore di don Claviscio, al quale consegnò la legittima sposa: di che ebbe sì eccessiva amarezza la regina donna Magunzia, madre di Antonomasia, che dentro lo spazio di tre giorni fu seppellita.

— Dunque è morta? disse Sancio.

— E chi ne dubita? rispose Trifaldino: in Candaia non si seppelliscono le persone vive, ma le morte.

— Non fate le maraviglie, replicò Sancio, che noi abbiamo veduto nei nostri paesi seppellire come morto un povero svenuto; e pare a me che la regina Magunzia dovesse svenir piuttosto che morire, giacché colla vita si rimedia a molte cose, e non fu poi tanto grande lo sproposito della infanta da ridursi all'estremo passo. Sarebbe stato senza rimedio quando pure questa signora si fosse maritata con qualche suo paggio o con altro servitore di casa sua, come hanno fatto molte altre, per quanto intesi dire; ma l'essere diventata sposa di un cavaliere di garbo, come ce lo avete dipinto, oh davvero che sarà stata, se volete, una balordaggine, ma non tanto grande come voi credete. Secondo le regole del mio padrone, che è qua presente, e che non mi lascerà accusar di menzogna, per quella stessa ragione che i vescovi si eleggono tra i letterati, possono crearsi di cavalieri (e se sono erranti singolarmente) re e imperadori.

— Hai ragione, Sancio, disse don Chisciotte: perché un cavaliere errante, solo che abbia due dita di venture, è in potenza propinqua di diventare il più gran signore del mondo: ma passi avanti la signora Dolorida, che, a quanto io penso, le resta di farci sapere l'amaro di questa fino a qui dolce istoria.

— Pur troppo mi resta l'amaro! rispose la contessa; e amaro tanto che a confronto suo sono dolci gli assenzi e saporiti gli oleandri. Ora dunque morta la regina e non isvenuta, la mettemmo in sepoltura, e non l'avemmo coperta appena della terra, e datole l'ultimo vale allorché quis talia fando temperet a lacrymis? sopra un cavallo di legno comparve sulla misera tomba il gigante Malambruno, fratello cugino di Magunzia, il quale oltre all'essere crudele, era eziandio incantatore. Costui colle sue arti, per vendetta della morte di sua sorella e per castigo dell'ardimento di don Claviscio, non meno che per lo dispetto prodotto in lui dalla scappata di Antonomasia, gittò ogni sorta d'incantesimo sopra la sepoltura, e lasciò i due sposi trasformati, l'uno in scimia di bronzo, l'altro in ispaventoso coccodrillo d'ignoto metallo; e in mezzo ad essi fece apparire una lista di bronzo, in cui stavano scritte in lingua siriaca certe lettere che recate già da quella nella candaiesca ed ora nella castiliana, contengono questa sentenza: “Non ripiglieranno questi due audaci amanti le primiere loro forme, finché il prode Mancego meco non venga a singolare tenzone; ché a lui solo pel suo gran valore riserbano i destini questa non più vista ventura.” Fatto questo, trasse dal fodero larga e smisurata scimitarra, e presami per i capelli, fece vista di segarmi la gola e tagliarmi di netto la testa. Restai turbata, la parola mi si soffocò nelle fauci, ed oltre misura mi confusi; ma contuttociò raccolti possibilmente gli spiriti con tremante e dogliosa voce mi feci a dirgli tante e tali cose, che lo indussero a sospendere l'esecuzione di così inumano gastigo. Finalmente si fecero venire innanzi le matrone tutte di palazzo (che furono quelle stesse che sono qui presenti), e dopo avere esagerata la nostra colpa e vituperata la condizione delle matrone e le loro male tresche e peggiori divisamenti, caricando su d'ognuna la colpa ch'era veramente tutta mia, soggiunse che non voleva estendere la nostra punizione a pena capitale, ma assoggettarci ad altro genere di supplizî pei quali dovessimo sostenere una civile ma continua morte. Fu al momento che così pronunziò che noi sentimmo tutte che ci si aprivano i pori della faccia, e che avevano un punzecchiamento generale, come se fossimo punte da aghi che ci martoriassero. Portammo le mani al viso, e ci trovammo quali ora voi ci vedrete;”

Ed in ciò dire la Dolorida e le altre matrone alzarono i veli, e scoprirono i loro visi tutti coperti di barbe, quali rosse, quali bianche, e quali castagnicce; alla cui vista il duca e la duchessa mostrarono grande maraviglia, s'inorridì don Chisciotte, Sancio e tutti gli astanti rimasero sbalorditi. La Trifaldi continuò:

— Ecco come ci punì quel codardo e male intenzionato di Malambruno, coprendo la morbidezza e il dilicato dei nostri sembianti con l'asperità di queste setole! Fosse almeno piaciuto al Cielo che con la smisurata sua scimitarra ci avesse tronca la testa, che oscurato non avrebbe lo splendore dei nostri volti con questa borra che or ci ricuopre! Consideriamo la cosa seriamente, signori miei (e quello che dirò adesso vorrei esprimerlo sgorgando due fiumi di lagrime se i nostri occhi restati non fossero senza umore, e secchi come lische), e ditemi in fede vostra: dove potrà mai andare una matrona colla barba? quale sarà mai quel padre e quella madre che sosterrà tanta doglia? chi sarà che le presti assistenza? Se colla carnagione liscia, colla faccia martorizzata da mille sorte di mesture e di pomate trova appena un cane che l'ami, che sarà mai quando scopra un viso ch'è diventato un bosco? Ah matrone e compagne mie! in che disgraziato punto siamo noi mai venute al mondo? In che ora nefanda ci procrearono mai i nostri genitori!”

Dette queste parole, finse di cadere svenuta.


CAPITOLO XL

 

SI DICONO COSE APPARTENENTI A QUESTA AVVENTURA ED A SÌ MEMORABILE ISTORIA.

 

Veramente coloro che assaporano la nostra istoria debbono esser grati assai a Cide Hamete Ben-Engeli, per la singolar esattezza sua nel tener conto delle più minute circostanze, non omettendo mai nulla. Dipinge i pensieri, scuopre le idee, risponde alle questioni taciute, dichiara i dubbi, risolve gli argomenti, manifesta infine e dilucida gli atomi del più curioso desiderio. — O celeberrimo autore! O don Chisciotte fortunato! O famosa Dulcinea! O Sancio Pancia grazioso! Tutti congiuntamente, ed ognuno in ispecialità durerete famosi infiniti secoli per piacere e per passatempo di ogni uomo che viva.

Prosegue dunque la istoria dicendo che Sancio veduto lo svenimento della Dolorida, sclamò:

— Giuro da galantuomo e per le ombre di tutti i Pancia miei parenti dei secoli passati che una istoria come questa non si è mai più udita né vista, né mai l'avrebbe immaginata neppure il mio padrone. Mille diavoli ti portino, maledetto gigante incantatore Malambruno! Non sapevi tu fantasticare qualche altro gastigo per queste disgraziate da quello in fuori di far loro venire la barba? E che? non sarebbe stato meglio tagliare loro il naso tutto per lungo quando anche avessero dovuto poi sempre uscire le parole da quella parte, piuttosto che appiccar loro la barba? E tanto più che sono sì meschine ch'io giuocherei che non hanno tanto da pagare chi le rada.

— Pur troppo è vero, rispose una delle dodici, che noi non abbiamo capitale che basti da farci pelare, e taluna di noi cominciò a fare uso per rimedio economico di certi piastrelli e cerotti attaccaticci, i quali applicati al viso e tirati via subito, ci fanno restare rase e lisce come il fondo di un mortaio di pietra. Per altro in Candaia vi sono donne le quali si recano di casa in casa a levare i peli, a ripulire ciglia e a fare altre misture da donne; ma noi altre matrone della nostra signora non le abbiamo voluto ammettere, essendoché la maggior parte di esse è gente di non so qual brutta professione da non dirsi: e se nel valore del signor don Chisciotte non troveremo rimedio, ci porteranno con la barba alla sepoltura.”

— Io vorrei pelata la mia, disse don Chisciotte, in terra di Mori, se non rimediassi alla vostra.”

La Trifaldi, ch'era intanto tornata in sé dal suo svenimento, disse:

— Il tintillo di questa promessa, cavaliere valoroso, mi perviene all'udito anche in mezzo al mio perdimento di sensi, ed è bastante per farmi riavere e ricuperare la intelligenza, e però di nuovo vi supplico, errante inclito signore indomabile, che la promessa vostra ponghiate ad effetto.

— Nulla ometterò, rispose don Chisciotte, per riuscirvi; ma ditemi, signora, ciò che io debba fare, poiché ho l'animo apparecchiatissimo per servirvi.

— Fatto sta, rispose la Dolorida, che di qua sino al regno di Candaia, viaggiando per terra, vi è la distanza di cinquemila leghe, due più due meno, ma se si va per l'aria o per la linea retta, ve ne sono tre mila e dugentoventisette. E dovete anche sapere che Malambruno mi ha detto che quando la sorte mi facesse abbattere nel cavaliere nostro liberatore, egli invierebbe a lui una cavalcatura molto migliore e meno maliziosa delle consuete, cioè il medesimo cavallo di legno sul quale il valoroso Pierro se ne portò rubata la bella Magalona: cavallo ch'è retto da un bischero che porta in fronte, e che gli serve di freno; e vola per l'aria con tanta leggerezza che sembra portato per opera di demoni. Questo cavallo, secondo quello che si trova anticamente scritto, fu opera del savio Merlino, che lo prestò a Pierro suo amico, e con quello fece grandi viaggi, e rubò, come si è detto, la bella Magalona, menandola in groppa per aria, e lasciando trasecolati quanti fino da costaggiù lo miravano; né lo prestava se non a chi gli tornava a genio o gliene pagava gran prezzo. Dal valoroso Pierro in poi si sa finora che alcun altro siavi salito sopra, ma è noto che lo ha cavato fuori Malambruno con le arti sue, ed hallo in suo potere, e di lui si vale nei viaggi che fa per varie parti del mondo, trovandosi con tal mezzo oggi qua, dimani in Francia, e un altro giorno nel Potosi. Quello poi che fa accrescere lo stupore si è che questo tal cavallo né mangia, né dorme, né consuma ferri, ma senz'aver ali porta per aria chi vi sta sopra, di modo che il cavaliere può tenere in mano un bicchiere pieno di acqua senza timore di versarne goccia, tanto è il suo cammino pari e riposato! e lo sa bene la bella Magalona che provava sì gran diletto nel cavalcarlo.

A questo discorso soggiunse Sancio:

— Se parliamo di camminare pari e riposato non v'è chi superi il mio leardo, tuttoché non vadi per aria; e in quanto all'andare per terra posso metterlo al paragone con quanti portanti si trovano al mondo.”

Risero tutti; e la Dolorida proseguì:

— Questo siffatto cavallo (se così è che Malambruno voglia dar fine alla nostra sventura) ci si presenterà dinanzi mezz'ora dopoché sarà venuta la notte, perché il Savio mi significò che il segno ch'io avrei da lui per farmi conoscer di aver trovato il cavaliere che cerca, sarebbe inviarmi il cavallo su cui potessi a mia voglia andarmene con prestezza.

— E quante persone, disse Sancio, possono stare su questo cavallo?

— Due, rispose la Dolorida, una in sella, l'altra in groppa, e queste tali persone sono di ordinario cavaliere e scudiere, quando non vi si aggiunga qualche rubata donzella.

— Vorrei sapere, signora Dolorida, disse Sancio, il nome di questo cavallo.

— Il nome, rispose Dolorida, non è quello del cavallo di Bellorofonte, che si chiamava Pegaso, né quello del grande Alessandro, detto Bucefalo, né quello del furioso Orlando, nomato Brigliadoro, né meno Baiardo, che fu di Rinaldo di Montalbano, né Frontino, che era quello di Ruggero, né Boote, né Pirotoo, come affermano che si chiamino quelli del Sole, né tampoco Orelia, come il cavallo con cui lo sventurato Rodrigo, ultimo re de' Goti, entrò in quella battaglia in cui perdé il regno e la vita.

— Io scommetterei, disse Sancio, che non essendo stato dato alcuno di quei famosi nomi che avete detti, meriterebbe quello di Ronzinante, cavallo del mio padrone che in quanto alla sua figura supera tutti i cavalli del mondo.

— Così è, rispose la barbuta contessa; ma però gli calzerebbe molto a proposito, Clavilegno l'aligero, per esser di legno quell'ordigno che porta in fronte, come per la leggerezza con cui cammina, e in conclusione anche quanto al nome potrebbe gareggiare col famoso Ronzinante.

— Il nome per verità non mi dispiace, replicò Sancio, ma con che freno o con che cavezza si regge?

— Dissi già, replicò la Trifaldi, che si regge col mezzo del bischero, perché il cavaliere girandolo dall'una o dall'altra parte lo fa camminare a sua voglia, o per aria o radendo e quasi spazzando la terra, o per quel mezzo a cui ognuno si attiene in tutte le cose ben ordinate.

— Vorrei vederlo, rispose Sancio; ma l'immaginarsi ch'io abbia a starvi sopra o in sella o in groppa, egli sarebbe proprio cercar pere nell'olmo: io che posso appena reggermi sul mio leardo e sopra una bardella morbida come la seta, come mai potrei tenermi saldo su di una groppa di legno senza cuscinetto o guanciale? In somma sarebbe migliore spediente di non istare a impazzarsi a levare la barba a nessuno; e ognuno se la rada come più gli mette conto, che io fo pensiero di non accompagnare punto né poco il mio padrone in questo sì lungo viaggio; e tanto più che io non credo di dover essere necessario allo sterminio di queste barbe come lo sono per disincantare la mia signora Dulcinea.

— Sì, che lo siete, amico mio, rispose la Trifaldi, e a segno tale da persuadermi che nulla si possa fare senza la vostra presenza.

— Oh qui ne voglio un ruotolo, disse Sancio: e che hanno di comune gli scudieri con le venture dei loro padroni? e peggio; ché la fama delle imprese condotte a termine fortunato torna sempre a loro profitto, e il travaglio sempre a carico nostro. Pazienza se almeno gli scrittori dicessero: “Il tale cavaliere compì la tale e tale ventura, ma con l'assistenza del tale suo scudiere, senza il quale sarebbe stato impossibile condurla a fine.” Ma scrivono secco secco: Don Paralipomenone dalle tre Stelle ha dato fine alla ventura delle sei fantasime, senzaché mai lo scudiere, il quale si trovò a tutto presente, sia menzionato come se non fosse stato al mondo! Torno a dirvi, signori miei cari, che il mio padrone può andarsene solo e buon pro gli faccia; ma io me ne resterò qua in compagnia della mia signora duchessa e potrebbe darsi ch'egli trovasse al suo ritorno migliorata la causa della signora Dulcinea, in terzo e quinto perché fo conto, nel tempo in cui sarò ozioso e disoccupato, di darmi tal carica di frustate che pelo non si salvi.

— Oh no, Sancio buono, disse il duca, non potreste dispensarvi dall'accompagnare il vostro signore, giacché sarete pregato a farlo da tutte le buone persone, e un vostro inutile timore non ha da produrre l'effetto che restino sì folti di pelo i visi di queste dame, che certo saria una cattiva cosa.

— Oh qui ne voglio un altro ruotolo, replicò Sancio; come se questa carità si facesse per qualche donzella ritirata o per qualche fanciulletta della dottrina! In questi casi l'uomo potrebbe avventurarsi ad ogni fatica, ma che io la sopporti per levare la barba a matrone? mi colga il malanno se ci penso un'acca, se pure avessero la barba tutte quante dalla più grande sino alla più piccola, dalla più schizzinosa alla più raffazzonata.

— Non vi vanno a sangue le matrone, amico Sancio, disse la duchessa, ed io vi veggo troppo attaccato alla opinione dello speziale di Toledo: ma in verità che avete torto, poiché in casa mia vi sono matrone che possono servire di modello; e donna Rodrighez, ch'è qua con noi, non mi lascerà dire altrimenti.

— Dica pure vostra eccellenza, soggiunse Rodrighez, che Dio sa la verità di ogni cosa: ma o buone o triste, o barbate o senza barbe che siamo, noi altre matrone siamo escite dal ventre materno come ogni altra donna; e se il Signore ci lasciò in vita, egli sa bene il perché, ed alla sua misericordia io mi attengo e non alla barba di chicchesia.

— Orsù, signora Rodrighez, disse don Chisciotte, e voi, signora Trifaldi e Compagnia, io spero che il Cielo mirerà con occhio di clemenza le vostre sventure; che Sancio eseguirà quanto io gli comanderò qualora venga Clavilegno, ed io mi affronterò con Malambruno: e so che non si troverebbe rasoio che con sì grande facilità radesse le signorie vostre, come la mia spada raderebbe dalle spalle la testa di quel gigante; che Dio soffre i malvagi, non però sempre.

— Ah, sclamò allora Dolorida, le stelle tutte delle celesti regioni guardino con occhio benigno la grandezza vostra, valoroso cavaliere, ed infondano nel vostro animo ogni prosperità e gagliardia per essere scudo e difesa del vituperato e afflitto genere matronesco, oggetto di abbominazione agli speziali, di mormorazione agli scudieri e di adulazione ai paggi; che male si abbia la trista, la quale nel fiore dell'età sua non si è fatta prima monaca che matrona. Ah sfortunate noi povere matrone, le quali ancorché venissimo per linea retta di maschio in maschio dallo stesso Ettore Troiano, non pertanto ci sarebbe dato del voi dalle nostre signore, come s'elle credessero che questo voi le facesse diventar regine! Oh gigante Malambruno, che quantunque incantatore sei veracissimo nelle tue promesse, mandaci ormai il senza pari Clavilegno, acciocché abbia fine la nostra sventura; che se viene il caldo, e sussistono tuttavia le nostre barbe, noi siamo perdute per sempre.”

Con sì gagliardo impeto proferì la Trifaldi queste parole che trasse le lagrime dagli occhi ai circostanti, ed intenerì Sancio pure, il quale propose in suo cuore di accompagnare il suo padrone fino alle ultime parti dell'orbe, se questo si rendesse indispensabile per levare via la lana da quei sembianti sì venerabili.

 


CAPITOLO XLI

 

VENUTA DI CLAVILEGNO E FINE DELLA PRESENTE PROLUNGATA VENTURA.

 

La notte arrivò, e con la notte il punto determinato per la venuta del famoso cavallo Clavilegno, la cui tardanza cominciava ad inquietare don Chisciotte, sembrandogli che indugiando Malambruno a mandarlo, o non foss'egli il cavaliere cui riserbata era quella ventura, o non osasse l'incantatore di venire seco lui a conflitto. Ma ecco ch'entrarono d'improvviso in giardino quattro Satiri vestiti tutti di verd'ellera, recando sugli omeri il gran cavallo di legno. Lo posero a terra, e disse uno di questi Satiri:

— Chi non si lascia atterrire dai cimenti monti su questa macchina.

— Io non vi monto, disse Sancio, perché ho paura, e perché non sono cavaliere.

Continuò il Satiro:

— Se il cavaliere errante ha uno scudiere al suo servigio, monti costui e si fidi del valoroso Malambruno, che se non resterà ferito dalla sua propria spada, non avrà offesa da verun altro acciaro o da verun'altra mal'arte. Egli non ha a fare che torcere il bischero che sta qua sopra il collo, e volerà per l'aria fino dove Malabruno lo sta attendendo; ma perché l'altezza e la sublimità del cammino non gli producano vertigini, bisognerà tener bendati gli occhi, finché annitrirà il destriere, il che sarà segno di aver raggiunto la meta del viaggio.”

Detto ciò e lasciato ivi Clavilegno, con bella grazia tornarono i Satiri per dove erano venuti.

Giunto appena il cavallo, la Trifaldi, quasi con le lagrime agli occhi, disse a don Chisciotte:

— Valoroso cavaliere, le promesse di Malambruno si sono avverate; ecco qui il cavallo; crescono le nostre barbe, ad ognuna di noi, e per ogni pelo di esse, siamo a supplicarti che tu ce le rada e cimi, null'altro restando a tal fine se non che tu salga col tuo scudiere, e dia felice cominciamento al nuovo viaggio.

— Lo farò di buonissimo grado, disse don Chisciotte, e della migliore intenzione, o donna Trifaldi, senza andarmene a cercare guanciale, e senza mettermi sproni per non frapporre ritardi: tanto è il desiderio mio di vedere voi o signora e tutte le vostre matrone rase pulite.

— Ma non lo farò io, disse Sancio, né di buona né di cattiva voglia in modo alcuno e se così è che questa rasura non si possa fare senza che monti in groppa lo scudiere, il mio padrone ne cerchi un altro che lo accompagni, ovvero trovino queste signore altra maniera di nettarsi il muso: ché io non sono già uno stregone da pigliarmi il gusto di andare per aria. E che direbbero gl'isolani miei sudditi quando sapessero che il loro governatore se ne va passeggiando per i venti? E ci è di più, che essendovi di qua a Candaia tremila leghe, se il cavallo si stanca, ovvero se il gigante si adira, noi tarderemo a tornare una mezza dozzina di anni, e non ci saranno più isole o isoli al mondo che mi conoscano. E poiché si suol dire che il pericolo sta nella tardanza: e quando ti dieno la vacchetta provvediti di una funicella, mi perdonino le barbe di queste signore, che bene sta san Pietro in Roma, e voglio dire che io sto bene in questa casa dove mi fanno mille carezze, e dove aspetto la provvidenza promessami dal padrone di diventar finalmente governatore.”

Disse allora il duca:

— Amico Sancio, l'isola che vi ho promessa, non è mobile, né fuggitiva, ed anzi ha radici sì profonde che giungono negli abissi della terra, né potrebbero essere sbarbate né sradicate per piccole strappatelle; e poiché vi è noto che io so non potere darsi officio di maggiore importanza di questo, e che non deve concedersi senza avervi un qualche guadagno, così per la mia ricompensa io mi contento di conferirvi il governo a patto solo che andiate col vostro signor don Chisciotte, a dar fine e compimento a questa memoranda ventura, e che ritorniate su Clavilegno con la celerità che può promettersi dalla sua leggerezza. Se per avversa fortuna doveste anche tornare a piedi, come pellegrino di albergo in albergo, e di osteria in osteria, troverete sempre al ritorno vostro l'isola dove la lasciate, e tutti i vostri isolani collo stesso desiderio che sempre hanno avuto di ricevervi per loro governatore. Sarà immutabile il voler mio, né mettete in dubbio, signor Sancio, questa verità, ché ciò sarebbe fare un torto evidente al desiderio che nutro di farvi piacere.

— Basta, basta, disse Sancio: io sono un povero scudiere, né posso sostentare il peso di tante cortesie: monti pur su il mio padrone, mi bendino gli occhi, mi raccomandino a Dio, e mi dicano solo se quando andremo per quelle altitudini, mi sarà permesso d'invocare nostro Signore e gli angeli benedetti affinché mi aiutino.”

Rispose la Trifaldi:

— Ben potrete, o Sancio, raccomandarvi a Dio, o chi più vi piaccia, mentre Malambruno, tuttoché incantatore, è cristiano, e con molta sagacità e avvedutezza eseguisce i suoi incantesimi, né cozza con chicchessia.

— Orsù dunque, soggiunse Sancio, mi aiuti Iddio e la Madonna di Gaeta.

— Dalla memoranda ventura del gualchiere, in qua, disse don Chisciotte non ho più veduto Sancio compreso da sì grande spavento come lo è adesso; e se io badassi, come altri, ai mali augurii, la pusillanimità sua mi produrrebbe qualche apprensione: ma accostati a me, o Sancio, che con permissione di questi signori voglio dirti due parole a quattr'occhi.”

Tirato Sancio da parte tra certi alberi del giardino, e pigliategli ambe le mani, gli disse:

— Tu vedi, fratello Sancio, a qual lungo viaggio stiamo per accingerci, e Dio solo sa quando torneremo dall'averlo compito, e quali cure e incontri possiamo avere nelle nostre imprese, e però io vorrei che tu ti ritirassi nella tua stanza, come in aria d'andartene ad apprestare qualche cosa necessaria pel viaggio, e in un batter di occhio ti dessi a conto delle tremila e trecento frustate alle quali obbligato ti sei, cinquecento sole, che quando sono date non vi si pensa più, e il cominciare le cose è un averle quasi mezzo finite.

— Vossignoria è diventato matto? rispose Sancio: questo è come quelli che dicono: vedi che ho fretta, e mi comandi adagio? Ora che devo andarmi a sedere sopra un pezzo di tavola rasa pretenderebbe vossignoria che mi flagellassi? In verità ch'ella esce del seminato: andiamo a radere queste matrone, e da quello che sono prometto che al mio ritorno mi darò tutta la premura di soddisfare al mio obbligo in modo che vossignoria resterà pienamente contento; e non parliamo altro.”

Rispose don Chisciotte:

— Or via sopra questa tua promessa, Sancio mio galante, io parto consolato ma tengo fermo che la manterrai; perché alla fin fine, benché tu sia sciocco, ti conobbi sempre veridico.

— Io non sono verde ma bruno, disse Sancio; ma quand'anche fossi mischio, manterrei la mia parola.”

Con questo tornarono, e si misero in punto di salire su Clavilegno. Stando per montarvi, disse don Chisciotte:

— Sancio bendati e monta su, che chi da sì longinqui paesi ci manda a chiamare, non può volerci trarre a nessun mal passo per la poca gloria che potrebbe ridondare nell'ingannare chi vive in fede; ed ancorché tutto avvenisse al rovescio di quello che io mi figuro, non potrà venire oscurata da malizia di sorta alcuna la gloria di aver tentata quest'alta e nuova impresa.

— Andiamo, signore, disse Sancio, che le barbe e le lagrime di queste donne le tengo conficcate nel cuore, né mangerò boccone che mi faccia pro se io non le veda ritornate ad esser nette e lisce. Monti prima vossignoria, e si bendi, perché è ben naturale che se io ho da mettermi in groppa, monti prima chi si ha da metter davanti.

— È vero, è vero, disse don Chisciotte, e tratto un fazzoletto di tasca, disse alla Trifaldi che gli bendasse gli occhi a dovere; e dopo ch'ella ebbe ciò fatto, egli li scoperse di nuovo, e disse:

— Se male non mi ricordo, io lessi in Virgilio che quello del Palladio di Troia, che fu un cavallo di legno offerto dai Greci alla diva Pallade, era pregno di cavalieri erranti, che poi furono la totale distruzione di Troia, ond'è che sarebbe ben fatto vedere prima quello che Clavilegno ha nel suo ventre.

— Non occorre, disse la Trifaldi; sono io che fo guarentigia, sono inutili le diligenze, mentr'io so bene che Malambruno nulla cova di malizioso, e la signoria vostra, signor don Chisciotte, monti pure francamene e senza timore, e a conto mio vada il male che può nascere.”

Parve a don Chisciotte che qualunque cosa aggiungesse intorno alla sicurezza sua personale pregiudicherebbe alla sua bravura, e perciò senz'altro salì sopra Clavilegno, e provò a muovere il bischero, che si girava con facilità; e perché mancavano le staffe e teneva ciondolone le gambe, sembrava una figura di tappeto fiammingo dipinta o tessuta in qualche trionfo romano.

Di mal animo e adagio adagio montò Sancio, raggruzzolandosi il meglio che poté sulle groppe, che trovò dure alquanto, sicché rivoltandosi al duca, il supplicò che se fosse possibile lo accomodassero di qualche cuscino o guanciale, se bene fosse tolto dallo strato della signora duchessa o dal letto di qualche paggio, mentre la groppa di quel cavallo pareva piuttosto di marmo che di legno. La Trifaldi allora alzò la voce, e disse che nessuna sorta di bardamento o di morbidezza potea Clavilegno soffrire sul dorso, e che questo solo poteva essergli conceduto, di mettersi a sedere come le donne, che a questo modo non sentirebbe tanto incomodo per la durezza.

Sancio così fece e dicendo addio si lasciò bendare gli occhi; ma dopo bendati li tornò anch'egli a scoprire, e dando tenere e piangenti occhiate a tutti quelli che stavano nel giardino, disse che lo aiutassero in quel pericolo con un Pater ed un'Ave perché Iddio desse poi anche loro il ricambio quando si trovassero in simili disastrosi pericoli. Allora disse don Chisciotte:

— E come? sei tu forse, ladrone, sul patibolo o in agonia, che tu abbia ad usare di simiglianti preghiere? Non vedi, creatura codarda e pusillanime, che stai nello stesso sito già occupato dalla bella Magalona, da cui ella scese non per entrare in sepoltura, ma per sedere regina sul trono di Francia, se non mentono le istorie? Ed io, che sto al tuo lato, non posso eguagliarmi al valoroso Pierro, che calcò questo stesso luogo che ora io calco? Cuopriti, cuopriti, animale senza cuore, né far sentire la paura che hai, e per lo meno non manifestarla in presenza mia.

— Dunque, mi bendino gli occhi, rispose Sancio; e poiché non si vuole neppure che mi raccomandi a Dio, né che sia raccomandato da altri, perché non dovrò io temere di essere trascinato in qualche regione di diavoli che ci menino a Peralviglio.”

Si bendarono finalmente ambedue, e sentendosi don Chisciotte che stava come dovea giacere, tastò l'ordigno, e l'ebbe toccato appena, che le matrone e quante erano presenti, alzarono la voce, dicendo:

— Dio ti guidi, valoroso cavaliere: Dio ti accompagni, scudiere intrepido: eccovi per aria, voi la trapassate come saette, già cominciate a sospendere, noi tutti siamo stupefatti; tienti forte, valoroso Sancio, ché tu barelli; guarda di non cascare, che la caduta sarebbe peggiore di quella dell'ardito garzone che volle guidare il carro del sole suo padre.”

Sancio sentì queste parole, e stringendosi bene al suo padrone, e cingendolo colle braccia gli disse:

— Signore, possono asserir costoro che noi montiamo tant'alto, quando sentiamo le parole che ci dicono, e pare che stieno parlando qui accanto a noi?

— Non por mente a questo, disse don Chisciotte, che siccome siffatte cose e questi volamenti vanno fuori del corso naturale, tu vedrai e udirai ciò che brami, anche lontano mille leghe: ma non istringermi tanto, che mi fai cadere, e non so comprendere di che ti turbi e ti spaventi, quand'io potrei giurare che in tutto il tempo di vita mia non ho adoperato cavalcatura di passo più posato, e pare proprio che non ci muoviamo: ora sbandisci la paura, che la cosa va infatti come l'ha da andare, e abbiamo il vento in poppa.

— È verissimo, rispose Sancio, perché da questa parte mi fischia un vento sì gagliardo, che pare che mille mantici mi soffino addosso.”

Ed era così per lo appunto, poiché un paio di grossi mantici andava facendo vento; e sì bene ordita era questa ventura dal duca, dalla duchessa e dal suo maggiordomo, che non mancò nulla a renderla perfetta. Sentendosi dunque don Chisciotte venteggiare addosso, soggiunse:

— Senza dubbio, o Sancio, che noi ci dobbiamo trovare nella seconda regione dell'aria, dove si genera la grandine e la neve; nella terza regione si generano i tuoni, i lampi e le saette, e seguitando di questo passo arriveremo presto presto alla regione del fuoco, né so come regolare questo ordigno, perché non abbiamo a salire in luogo dove potremmo restare abbruciati.”

Intanto con certe stoppe facili ad accendersi ed a smorzarsi, e che stavano attaccate ad una canna, i circostanti andavano loro riscaldando la faccia.

Sancio, che sentì il calore, disse:

— Possa essere ammazzato se non siamo già arrivati nel luogo del fuoco, o molto a quello vicino, perché gran parte della mia barba mi si è abbrustolita, or ora io sto per cavar via questa benda e voglio vedere in che parte ci ritroviamo.

— Non fare questo, rispose don Chisciotte, e tienti a mente il vero successo del dottor Torralva, che fu portato a volo dai diavoli per aria a cavallo d'una canna, e cogli occhi chiusi andò in dodici ore a Roma, smontò a Torre di Nona, ch'è una strada della città, e vide tutto il fracasso, l'assalto e la morte del Borbone, e poi la mattina istessa era di ritorno a Madrid, dove diè conto di quanto aveva veduto, ed egli disse che mentre viaggiava per aria gli comandò il demonio che aprisse gli occhi, che gli aperse, e si vide tanto vicino, a parer suo, al corpo della luna, che poteva pigliarla colle mani, né ebbe mai ardire di guardare in giù perché non gli girasse il capo. Dunque, o Sancio, non occorre che adesso ci scopriamo, mentre darà conto di noi chi ci tiene a suo carico. Noi andiamo già guadagnando, e salendo in alto ci lasceremo cadere poi sul regno di Candaia, come fa l'uccello pellegrino sopra la gazza, che si eleva moltissimo, per indi calarsi e predarla: e poi sebbene ci paia appena mezz'ora che ci partimmo dal giardino, credimi ch'io tengo per fermo che noi abbiamo già fatto uno sterminato viaggio.

— Non so quello ch'e' sia, rispose Sancio; so bene dire che se la signora Magagliana o Magalona si contentò di questa groppa, ella non debb'avere avuto le carni molto tenere.”

Tutti questi discorsi dei due valorosi erano uditi dal duca e dalla duchessa e da quei che in giardino si stavano, e se ne pigliavano straordinario piacere. Volendo poscia dar termine alla strana e bene ordita ventura, attaccarono fuoco colla stoppa alla coda di Clavilegno, e al punto stesso, per essere ripieno il cavallo di schioppetti e saltarelli, saltò all'aria con uno strano fracasso, e diede in terra con don Chisciotte e Sancio mezzo abbrustoliti. In questo frattempo era già sparito dal giardino tutto il barbato squadrone delle matrone colla Trifaldi, e si videro gittate a terra le altre persone, come se fossero svenute. Don Chisciotte e Sancio rivoltaronsi malconci assai, e portando gli occhi in qua e in là, rimasero attoniti nel vedersi nel giardino medesimo da cui erano partiti, e nel trovare ivi stramazzata sì grande quantità di gente. La meraviglia si accrebbe poi molto più quando videro in un lato del giardino, fitta in terra, una lunga lancia: e pendente da essa una liscia e bianca pergamena attaccata a due cordoni di seta verde, in cui, a grandi lettere d'oro, leggevansi le seguenti parole:

“L'inclito cavaliere don Chisciotte della Mancia pose fine compiutamente, col solo tentarla, alla ventura della contessa Trifaldi, chiamata con altro nome la matrona Dolorida. Malambruno si dà per contento e soddisfatto nella pienezza dei suoi desiderî: le barbe delle matrone restano rase, lisce e monde; i re don Claviscio e Antonomasia nel pristino loro stato; ed allorché abbia compimento il vapulo scuderile, vedrassi la bianca colomba libera dai pestiferi girifalchi che la perseguitano, e poserà tra le braccia del suo diletto addormentatore. Comanda il savio Merlino, proto-incantatore degl'incantatori.”

Lette ch'ebbe don Chisciotte le parole della pergamena, chiaramente comprese che parlavano del disincanto di Dulcinea, e rendendo allora mille grazie al cielo, che concesso gli avesse di dar compimento con sì poco periglio ad impresa di tanta importanza, col rendere al primiero colore e carnagione le facce delle venerande matrone, ch'erano di già sparite, recossi dove stavansene simulatamente svenuti il duca e la duchessa, e presa la mano del duca, gli disse:

— Allegramente, signor mio, coraggio, coraggio, mio buon amico; che tutto è niente; compita è già la ventura, senza pregiudizio d'alcuno, come chiaramente si conosce dallo scritto ch'è in questo cartello.”

Il duca a poco per volta, e come chi da profondo sonno si desta, cominciò a tornare in sé, e lo stesso fu della duchessa e di quanti altri stavano in quel giardino sdraiati, e con tali apparenze di maraviglia e di spavento, che poteva quasi credersi che fosse loro avvenuto davvero, ciò che seppero colorire con sì destra finzione.

Lesse il duca il cartello cogli occhi socchiusi, e poi a braccia aperte strinse don Chisciotte, professando essere egli il più degno cavaliere che visto si fosse nei passati secoli. Andava Sancio ricercando cogli occhi la Dolorida, per vedere quale fosse il suo viso senza la barba, e se fosse sì bella senz'essa, come promettevano il suo vago portamento e la disposizione della persona, ma gli fu detto che quando Clavilegno cadde ardendo per l'aria, e diede in terra, tutto lo squadrone delle matrone era sparito con la Trifaldi, già tutte rase affatto e senza peli.

Dimandò la duchessa a Sancio come l'avesse passata in sì lungo viaggio. Al che rispose egli:

— Io, signora, ho sentito che si andava, a quanto mi ha detto il padrone, e che si volava per la regione del fuoco; io avrei voluto scuoprirmi un poco gli occhi, ma il padrone, a cui ne chiesi licenza, non volle: ma io che mi sento in dosso un non so qual pizzicore di curiosità e la frega di saper quello appunto che mi è proibito, pian piano e senza ch'egli se ne accorgesse, sviai un poco dalla parte del naso la benda che mi copriva, e guardai verso terra. In verità che mi parve tutta insieme poco più piccola di un granello di senapa, e gli uomini che vi camminavano poco più grandi delle nocciuole; dal che si può capire quanto stavamo allora innalzandoci.”

Rispose la duchessa:

— Badate, amico Sancio, a quello che dite, mentre per quanto si suppone, voi non doveste già aver veduta la terra, ma gli uomini che vi stavano sopra; ed è ben evidente che se la terra vi sembrò un granello di senapa, e ogni uomo una nocciuola, un uomo solo doveva, in questo caso, coprire tutta la terra.

— È vero, rispose Sancio; ma ad onta di ciò, la scopersi da un cantoncino, e la vidi tutta intera.

— Considerate, Sancio, replicò la duchessa; che da un cantoncino non si scopre tutto quello che si ha a vedere.”

— Oh io poi non m'intendo, tornò a dir Sancio, di tutte queste guardature; so questo però che sarebbe bene che vossignoria intendesse che se noi volavamo per incantesimo, anche per incantesimo io potei vedere tutta la terra e gli uomini tutti per ogni banda, ch'io o noi li avessimo guardati. Se la signoria vostra non mi crede questo, molto manco crederà poi che, scuoprendomi accanto alle ciglia, io mi trovassi così vicino al cielo, che non correva da me a lui la distanza di un palmo e mezzo, e posso adesso giurare, o signora, che il cielo è grande fuori di misura. L'azzardo volle che noi viaggiassimo dalla parte delle sette capre.

— Delle Pleiadi, disse la duchessa.

— In fede mia, non m'interrompa, replicò Sancio; sappia che al mio paese si chiamano le sette capre, e sino da bambino io era guardiano di esse. Osservando dunque da quella banda, mi venne gran voglia di trattenermi con loro un poco, ma non le vidi: oh se non me la fossi cavata, mi sarebbe parso di scoppiare. Che pensa ella ch'io facessi allora? Senza dire niente ad alcuno, e nemmeno al padrone, pian piano e senza essere sentito, smonto dal Clavilegno e fo la mia conversazione colle capre per quasi tre quarti d'ora, e intanto Clavilegno non si mosse dal suo posto neppure un momento.”

Durante questo discorso di Sancio intorno alle capre, dimandò il duca a don Chisciotte che cosa stesse pensando. Cui questi rispose:

— Siccome tutte queste cose e tutti questi successi escono dall'ordine naturale, non è stupore che Sancio dica quello che dice: quanto a me non mi trovai né in alto né a basso, né ho veduto cielo, né terra, né mare, né arene. Vero è bensì che m'accorsi di passar per la regione dell'aria e di toccare eziandio quella del fuoco tra il cielo della luna e l'ultima regione dell'aria, non potevamo arrivare al cielo dove stanno le sette capre, delle quali Sancio parla, senza restarne bruciati: e poiché non avvampammo, o Sancio mente, oppure Sancio sogna.

— Né mento, né sogno, rispose Sancio: e se non mi si crede, dimandino i contrassegni della tale o tal altra capra, che per tal modo conosceranno se io dico il vero o non lo dico.

— Orsù, Sancio, diteli, replicò la duchessa.

— Sono, rispose Sancio, due verdi, due incarnate, due azzurre ed una cangiante.

— Questa è una razza di capre del tutto nuova, disse il duca: e per la nostra regione della terra non si usano tali coloriti, voglio capre di tali colori.

— La ragione è ben chiara, rispose Sancio, che ci passa gran differenza dalle capre del cielo a quelle della terra.

— Ditemi, o Sancio, soggiunse il duca, vedeste fra quelle capre qualche caprone?

— Signor no, rispos'egli, ma intesi dire che niuno lassù supera i corni della luna.

Bastarono queste domande intorno al viaggio di Sancio, poiché correasi pericolo, altrimenti facendo, ch'egli avesse intenzione di passeggiare per tutti i cieli e di dar conto di quanto lassù si faceva, senza essersi mosso mai dal giardino. In sostanza questo fu il fine della ventura della matrona Dolorida, che somministrò materia di ridere ai duchi, non solo in quel tempo, ma in tutto il corso della loro vita. Sancio poi avrebbe avuto di che raccontare per secoli, se fosse vissuto.

Avvicinatosi don Chisciotte all'orecchio di Sancio, gli disse:

— Sancio, se ti piace che io creda che tu vedesti nel cielo le cose da te narrate, io pretendo che tu debba credere a me tutto quello che ti raccontai di aver veduto nella grotta di Montésino; e non dico altro.”


CAPITOLO XLII

 

DEI CONSIGLI DATI DA DON CHISCIOTTE A SANCIO PANCIA PRIMA CHE ANDASSE AL GOVERNO DELL'ISOLA CON ALTRE MEMORABILI COSE.

 

La graziosa e felice riuscita della ventura della Dolorida riempì gli animi dei duchi di sì grande soddisfazione, che stabilirono di andare innanzi colle burle, vedendosi alle mani uomini nati fatti per crederle tutte vere. Avendo a tal fine dati gli ordini e le tracce che doveano tenere i servi e vassalli loro verso Sancio nel governo della promessagli isola, un altro dì, che fu il susseguente al volo di Clavilegno, disse il duca a Sancio che si apparecchiasse e raffazzonasse per andare ad essere governatore, ché gli isolani suoi già stavanlo attendendo come l'acqua di maggio.

S'inchinò Sancio e rispose:

— Dal momento in cui io sono calato giù dal cielo, e sino da quando io guardavo da quelle immense cime la terra, e la vedevo sì piccola, si smorzò moltissimo in me quella voglia che avevo di essere governatore; perché qual grandezza è mai il comando ad un granello di senapa? che dignità e che imperio può esser egli il soprastare ad una dozzina di uomini grandi come una nocciuola, che per quanto ho veduto non ve n'erano di più grandi in tutta la terra? Se piacesse alla signoria vostra di darmi un tantino di cielo, se pure non si estendesse che a sola mezza lega, lo piglierei più volentieri della più grand'isola del mondo.”

— Considerate, amico Sancio, rispose il duca, ch'io non potrei dare ad alcuno parte del cielo, nemmanco quanto è grande un'ugna: che solo a Dio sono riserbate queste grazie e mercedi. Quello ch'è in poter mio di darvi, e che vi do, egli è un'isola grande e grossa, e tonda e bene proporzionata e molto fertile ed abbondante, dove se terrete giudiziosa condotta, sarete al caso d'acquistare con le ricchezze della terra, anche quelle del cielo.

— Venga dunque in nome del Signore quest'isola, rispose Sancio, ché io mi affaticherò per diventar siffatto governatore, che a dispetto dei tristi mi guadagnerò anche il cielo: e accetterò questo incarico, non mica per la smania di trarmi fuori da questi stracci, né per montare in superbia, ma perché mi piacerà di provare che sapore abbia l'essere governatore.

— Una volta che lo proviate, disse il duca, ve ne leccherete le dita, perché è cosa dolcissima il comandare e l'essere obbedito. Scommetterei ogni gran cosa che quando giungerà il vostro padrone ad essere imperadore (che ci arriverà senza dubbio, proseguendo di questo tenore le cose sue), non gli sbarberanno più di mano quel seggio, e che gli dorrà e rincrescerà sino in mezzo al cuore del tempo perduto e di non esserlo stato prima.

— Signore, replicò Sancio, vado anch'io figurandomi ch'è buona cosa il comandare, quand'anche non fosse che a un branco di porci.

— Oh m'accorgo bene che voi sì la intendete, o Sancio, rispose il duca, e mi persuado che sarete tale governatore quale ciascuno si può ripromettere dal vostro discernimento, e più non dico. Avvertite che dimani è il giorno stabilito in cui voi andrete al governo dell'isola, e vi accomoderanno in questa sera dell'abito che conviene che portiate e delle altre cose necessarie alla vostra partenza.

— Che mi mettano indosso quel vestito che vogliono, disse Sancio, ché già io sarò sempre Sancio Pancia.

— Oh questo è vero, soggiunse il duca, ma gli abiti debbono accomodarsi all'ufficio o dignità che si professa, ché non si addirebbe al giureconsulto vestire l'abito di un soldato, né al soldato quello di un sacerdote. Voi o Sancio, andrete vestito in parte da dottore in legge e in parte da capitano, perché nel governo dell'isola che vi affido, tanto si rendono necessarie le armi come le lettere, e le lettere come le armi.

— Veramente, disse Sancio, ho poche lettere al mio comando, e non conosco l'abbicì, ma in quanto a ciò mi contento di sapere a memoria il Santa Croce per essere governatore: in quanto poi all'armi, io maneggerò quelle che mi saranno date finché mi serviranno le forze; e a Dio mi raccomando.

— Con sì buoni capitali, disse il duca, non potrete cader giammai in errore.

Fra questi discorsi sopravvenne don Chisciotte, il quale, informato di ciò che trattavasi, e della celerità con cui dovea Sancio recarsi al promesso governo, avuta licenza dal duca, lo prese per la mano e lo condusse seco nelle sue stanze, con intenzione di consigliarlo in che modo dovesse regolarsi nella nuova dignità. Entrati dunque, si serrarono dietro la porta; e don Chisciotte fece quasi per forza che Sancio si mettesse a sedere accanto a lui; dopo di che con grave e riposato tuono di voce disse queste memorabili cose:

 

— Rendo al cielo infinite grazie, o amico Sancio, che a te sia venuta incontro la buona fortuna, primaché a me sia riuscito di abbattermi in qualche propizia ventura; mentre io che ti avevo assegnato la mercede dei tuoi servigi, non ho appena principiato a fare acquisti di qualche entità, tu innanzi tempo, e quasi contro le leggi di un giusto raziocinio, ti vedi ora portato al colmo dei tuoi voti: ma il mondo è così fatto, poiché altri subornano, importunano, sollecitano, sbalzano dal letto prima del dì, insistono, perfidiano, né ottengono mai quanto vogliono; e viene uno, ed eccoti che, senza sapere come, né da qual parte, si trova di avere conseguito quel posto cui inutilmente aspirarono persone più meritevoli. E qui cade proprio in acconcio il dire che nelle concorrenze molto influisce la buona o la cattiva fortuna: tu che al confronto mio sei sì baggeo, tu che dormi come un tasso, tu che non usi mai le arti fine e la destrezza, coll'alito solo della errante cavalleria, e senza punto fantasticare ti vedi fatto governatore di un'isola, come se fosse una bagatella. Dico tutto questo, Sancio mio, perché tu non attribuisca ai tuoi meriti la ricevuta mercede, ma ringrazii Iddio che sì bene ha disposto le cose, e sii sempre obbligato alla grandezza della errante cavalleria. Disposto dunque che io ti abbia ora il cuore a prestar fede a quanto ti ho detto, sta attento, o figliuolo, ad un Catone mio pari, che vuole consigliarti ed esserti guida e stella per incamminarti e condurti al sicuro porto dell'oceano procelloso in cui ora ti metti; mentre gli offizi e le grandi cariche altro non sono che un golfo profondo di confusioni.

Primieramente, o figliuolo, hai da temere Iddio; perché nel temerlo consiste la vera sapienza; e se tu sarai sapiente non commetterai errore in cosa alcuna.

In secondo luogo hai da considerare chi sei e cercare di conoscere te stesso; arte più difficile di quello che uno pensa. Se ti conoscerai bene, non ti gonfierai come quel ranocchio che voleva agguagliarsi al bue; e considerandoti sempre come uomo che fu guardiano di porci nel suo paese, vedrai che poggia su brutti piedi la ruota della tua fortuna. — È vero, rispose Sancio, ma io guardava i porci quando era tenerello, e cresciuto poi fui guardiano di paperi e non di porci; e poi questo poco importa, perché tutti quelli che governano non vengono da razza di re. — Non lo nego, rispose don Chisciotte, ma appunto chi non procede da nobile prosapia, dee accompagnare la gravità della carriera con tal piacevole dolcezza che, guidata dalla prudenza, lo sottragga alle maliziose mormorazioni, dalle quali non v'è chi possa andare esente.

Ascrivi, o Sancio, a tuo vanto l'umiltà dei tuoi natali, né avere a schifo di dire che discendi da contadini; perché se poi questo fosse scoperto dagli altri non te ne venga disonore, e non v'abbia ad essere chi ti motteggi: tienti più da umile virtuoso che da peccatore superbo. Sono innumerabili quelli che nati di bassa stirpe salirono sino alle dignità pontificie e imperatorie, e potrei indicarti tanti esempi antichi e moderni da venirti a noia.

Considera, o Sancio, che se della virtù ti farai un modello e ti pregierai delle azioni eccellenti, non avrai invidia dei principi e dei signori: perché il sangue si eredita e la virtù si acquista: e questa basta da per sé sola, ciò che non può dirsi della nobiltà.

Essendo tutto ciò vero, com'è verissimo, se per caso venisse a visitarti, mentre sarai nella tua isola, alcuno dei tuoi parenti, nol discacciare, né fargli torto immaginabile; lo dèi anzi accogliere amorevolmente, fargli buon viso e carezze, ché così ti renderai grato al cielo, cui piace che non siavi chi rechi a disonore ciò che un tempo egli è stato, e corrisponderai all'obbligo tuo e all'ordine della natura.

Se condurrai teco la moglie (perché sta male che quelli che governano le tengano per buon tempo lontane), guidala, dirozzala, ammaestrala, e ricordati che una moglie zotica e balorda manda a male tutto quello che un governatore può guadagnare colla sua saggezza.

Se per caso restassi vedovo, il che può succedere, e poi eleggessi altra moglie più agiata, atteso il tuo posto; non la pigliare tale che ti serva di amo e di canna da pescare, e che sottometta a sé la tua volontà; perché ti so dire che di tutto quello che riceve la moglie del giudice, ne rende poi conto il marito nel sindacato generale; ed egli paga alla sua morte il quadruplo delle partite delle quali non si è alleggerito durante la vita.

Non lasciarti guidare dalla legge del capriccio che suole predominare negl'ignoranti, i quali presumono di essere avveduti.

Trovino facilmente in te compassione le lagrime del povero, ma sia imparziale la tua giustizia tra queste e le ragioni del ricco.

Procura di scoprire la verità tanto per entro alle promesse e ai doni del dovizioso, quanto tra i singulti e le importunità dell'indigente.

Quando può e dee aver luogo l'equità, non fare che piombi sul reo tutto il rigore della legge; ché non è mai migliore la fama del giudice rigoroso di quella del compassionevole.

Se accade che la bacchetta della giustizia si curvi, ciò non avvenga mai per lo peso dei donativi, ma per quello della misericordia.

Quando ti occorra di dover giudicare i piati o le liti di qualche tuo nemico, allontana la memoria delle ingiurie, e mettila unicamente nella verità del fatto.

Non ti accechi la propria passione nella causa altrui; ché gli errori nei quali tu cadrai, saranno il più delle volte senza rimedio: e se pure lo avessero, ciò tornerebbe a spese della tua riputazione ed anche delle tue sostanze.

Se qualche bella donna ti viene a chiedere giustizia, allontana gli occhi dalle sue lagrime, e chiudi gli orecchi ai suoi gemiti: considera posatamente le sue dimande, se non vuoi che la tua ragione vada naufraga nel suo pianto, e la tua bontà nei suoi sospiri.

Non maltrattare con parole chi dee ricevere da te castigo con opere, mentre basta allo sventurato la pena del supplizio, senza la giunta delle vituperevoli ingiurie.

Nel colpevole ch'è soggetto alla tua giurisdizione, considera l'uom miserabile subordinato alle condizioni della depravata nostra natura; e per quanto si può, senza offendere la parte contraria, ti mostra a lui pietoso e clemente, perché quantunque tutti gli attributi di Dio sieno eguali, più campeggia e risplende ai nostri occhi quello della misericordia che quello della giustizia.

Se seguirai, o Sancio, queste regole e questi precetti, saranno durevoli i tuoi giorni, la tua fama eterna, i tuoi premi al colmo, intera la tua felicità; mariterai i tuoi figli con tua soddisfazione, e cresceranno in titoli essi e i loro nipoti, vivrai in pace e ben veduto da tutti, e dopo gli ultimi passi della tua vita, ti arriverà quello della morte in decrepitezza soave e matura, e ti chiuderanno gli occhi le tenerelle e delicate mani de' tuoi piccioli pronipoti. Quanto ho detto serva d'insegnamento ad adornare la tua anima; ascolta adesso tutto quello che può occorrere per ornamento del corpo.”


CAPITOLO XLIII

 

DEI SECONDI CONSIGLI DATI A SANCIO PANCIA DA DON CHISCIOTTE.

 

Qual sarebbe mai l'uomo che avendo ascoltato il ragionamento di don Chisciotte giudicato non lo avesse persona di molta saggezza e delle più rette intenzioni? Più volte si è veduto nel corso di questa istoria che egli usciva dal seminato subito che si toccavano i discorsi di cavalleria, ma in ogni altro proposito mostrava chiaro e acuto discernimento; di maniera che ad ogni passo le opere discreditavano il giudizio, ed il giudizio faceva contralto alle opere. In questi secondi insegnamenti che diede a Sancio, mostrò di avere molto buon garbo, e fece giugnere all'apice nel tempo istesso la sua discrezione e la sua pazzia.

Stavalo Sancio attentamente ascoltando, e procurava di tenere a mente i consigli, come colui che era deciso di eseguirli fedelmente, e la loro mercé di condurre a buon termine questa faccenda del suo governo. Proseguì pertanto don Chisciotte nella seguente maniera:

 

— Passando a trattare di ciò che si appartiene al governo della tua persona e della tua casa, quello che ti raccomando, o Sancio, prima di tutto si è che tu ti serbi mondo e pulito, e ti tagli le ugne, non lasciandole crescere, come fanno alcuni così ignoranti da credere che le ugne lunghe abbelliscano le mani; quasi che quell'escremento e quell'aggionta che lasciano di tagliare fosse ugna, quando invece è branca di chieppa o artiglio di lucertola. Guardati dunque da questa sozza usanza.

Non andare, o Sancio, scinto o scammanato; ché colui ch'è male in assetto della persona, dà indizio di animo basso, quando bene la compostezza non degeneri in buffoneria, come si giudicò di quella di Giulio Cesare.

Esamina accuratamente quanto può rendere il tuo offizio: e se esso comporta che tu dia livrea ai tuoi servidori, eleggila modesta ed utile piuttosto che vistosa e bizzarra; o meglio scompartiscila tra i servi e i poveri, vale a dire che se hai da vestire sei paggi, vestine tre soli, e tre poveri: così allestirai paggi per la terra e pel cielo: dai vanagloriosi non è mai bene inteso questo vero modo di dare livree.

Non mangiar agli o cipolle affinché non si scopra dall'odore la tua contadinanza, cammina adagio e parla riposatamente, non però in modo che sembri che tu accarezzi le tue parole: ogni affettazione è pessima.

Sia il tuo desinare parco, e più parca ancora la tua cena: la sanità di tutto il corpo si compone nell'officina dello stomaco. Sii temperato anche nel bere, considerando che l'uso eccedente del vino fa violare i segreti e mancare di fede.

Avvertisci, o Sancio, di non divorare a quattro ganasce, né di ruttare dinanzi ad alcuno.

— Questo ruttare io non lo intendo, disse Sancio, e don Chisciotte soggiunse:

Ruttare, o Sancio, significa mandar fuori per la bocca il vento ch'è nello stomaco e chiamasi regoldare nel nostro linguaggio castigliano: è vocabolo dei più brutti benché significativo; però i più gentili sono ricorsi al latino e lo hanno cambiato in ruttare, e si è anche formata la parola ruttazione. Se questi termini non sono oggidì bene divulgati fra noi ciò poco importa, ché il tempo ne introdurrà poi l'uso e s'intenderanno, e la lingua si arricchirà avendo su di essa dominio e potere il volgo e la frequenza dell'uso.

— Davvero, o signore, disse Sancio, che uno dei consigli e avvertimenti che penso di tener a memoria ha da esser quello di non regoldare, perché io soleva farlo spessissimo.

Ruttare, o Sancio, e non regoldare, disse don Chisciotte.

Ruttare dirò d'ora in avanti, rispose Sancio, e non abbiate paura che me ne dimentichi.

— Tu non devi, mio caro e buon Sancio, introdurre ne' tuoi discorsi la moltitudine dei proverbi che hai in uso, che sebbene sieno brevi sentenze, pure sciorinandole fuori di tempo come tu fai, hanno più ciera di spropositi che di sentenze.

— Altri che Iddio non vi può rimediare, rispose Sancio, perch'io so più proverbi che non ne sa un libro; e se ne affollano tanti in una volta alla mia memoria quando parlo, che contrastano l'uno con l'altro per uscirsene, la lingua poi butta fuori i primi che incontra, tuttoché non vengano a pelo; ma starò attento per l'avvenire di non lasciare che mi escano di bocca se non quelli che convengono alla gravità della mia carica: in casa piena presto si fa da cena; e patti chiari, amici cari; e chi suona la campana da un lato, è sicuro che il battaglio non gli cascherà addosso: e per dare ed avere, cervello è di mestiere.

— E via di questo passo, disse don Chisciotte, seguita pure a scodellare, infilzare ed infilare proverbî, poiché nessuno te lo impedisce; ma per la madre che mi ha fatto, ch'io sono pazzo a sfiatarmi per inculcarti che tu li sfugga, quando all'opposto e nel momento stesso ne hai rigurgitato una letania; e tutti fanno a proposito come se si dicesse che gli asini volano. Persuaditi una volta, o Sancio, che non paiono male i proverbî detti opportunatamente, ma lo sciorinarne alla impazzata egli è un rendere il discorso debole e basso.

Quando tu monti a cavallo non andare gittando il corpo sull'arcione di dietro, né tenere le gambe intirizzite o stirate o lontane dal corpo del cavallo, non andare sì trascurato che paia che tu vada sopra il leardo: a cavallo alcuni paion gentili uomini altri gentili asini.

Non abbandonarti troppo al sonno; che chi non si alza al levare del sole non gode interamente del giorno; e ricordati, o Sancio, che la diligenza è madre della buona ventura, e la infingardaggine sua contraria non giugne mai a conseguire gli effetti di buon desiderio.

L'ultimo consiglio che ora ti voglio dare ancoraché non serva per abbellimento della persona, bramo che ti resti bene fitto in mente, poiché credo che non possa esserti di profitto minore degli altri che ti ho qui insinuati: ed egli è che non ti accinga mai a disputare di prosapie, almeno facendo comparazioni fra loro, poiché dal confronto risulta che chi è posto nella bilancia e non ha il vantaggio, odia chi lo abbassa, e da chi egli innalza non ottiene alcun premio.

Il tuo vestito sarà calza intera, casacca lunga, ferraiuolo alquanto largo, ma i calzoni neppure ti cadano in mente, ché sconvengono e ai cavalieri e ai governatori.

Ti ho detto, o Sancio, quanto mi è occorso alla memoria per consigliarti e andando innanzi, ed a seconda delle occasioni, avrai da me altri insegnamenti purché tu abbia cura di tenermi informato dell'esser tuo.

— Vedo molto chiaramente, disse Sancio, che le cose dettemi da vossignoria sono buone, sante e di gran profitto; ma come potrò servirmene se a quest'ora mi sono scappate via tutte dalla memoria? Ma no, non è vero, che mi restano quelle due, l'una di non lasciare crescere le ugne, l'altra di maritarmi un'altra volta se occorresse: fuori di questi gli altri imbrogli, intrighi e inviluppi tanto me li ricordo come i nugoli dell'anno scorso; e sarebbe necessario che li avessi in iscritto, ché quantunque io non sappia né leggere né scrivere, pure potrei consegnarli al mio confessore perché all'occasione me li mettesse in testa, e me ne facesse la spiegazione.

— Meschino di me! disse don Chisciotte, ah quanto mai sta male che i governatori non sappiano né leggere né scrivere! Tu hai da imparare, o Sancio mio, che di quell'uomo che non sa leggere od è mancino si arguisce una di queste due cose, o che sia figlio di genitori umili e abbietti, o che nella giovinezza fosse sì traviato e cattivo da non lasciare che in lui avessero accesso le buone costumanze e le buone dottrine. Questo è un gran mancamento che tu hai, e vorrei che almanco tu per ora imparassi a firmare, cioè a sottoscriverti.

— Il mio nome lo so fare di avvanzo, disse Sancio, poiché quando era priore nel mio paese ho imparato a far certe strisce come quelle delle balle delle mercanzie, che significavano il mio nome; adesso fingerò di aver storpiata la mano diritta, che ad ogni cosa si rimedia fuorché alla morte; ed avendo io il braccio e il comando farò a mia voglia: e tanto più che a chi ha il padre giudice (e io che sono governatore sono più che giudice) non si fanno i conti addosso: a chi mi stuzzica e mi calunnia interverrà come ai pifferi di montagna, verrà per lana e tornerà tosato: a cui Dio vuol bene va a trovarlo in casa; le scioccherie del ricco corrono per sentenze nel mondo, ed essendo io ricco e governatore e liberale ancora, come ho divisato di voler essere, non mi sarà trovato nell'esame difetto alcuno: e non bisogna farsi in questo mondo pecora che il lupo se la mangia: tanto vali quanto tieni, soleva dire mia nonna; e dell'uomo arrabbiato non ti vedrai vendicato.

— Oh che tu sia maledetto, Sancio, soggiunse don Chisciotte, sessantamila demonî portino via te e i tuoi proverbi, ch'egli è una gross'ora che li stai infilzando facendomi mandare giù mille bocconi di disgusto per ognuno di essi. Ti do parola che questi strambotti ti condurranno alla fine su di un paio di forche, e ti sarà strappato dalle mani il governo, perché prevedo in oltre che userai mille parzialità. Dimmi: dove li trovi o ignorante? O come li applichi, o scimunito, quando per dirne io uno solo e applicarlo a dovere travaglio e sudo come se zappassi la terra?

— Ma viva Dio, signor padrone, la signoria vostra sempre si lamenta delle più piccole cose: che fastidio do io a lei se fo uso di quel poco che posseggo, mentre non ho niente altro al mio comando che un capitale di proverbi e sempre proverbi. Ora me ne vengono quattro sulla punta della lingua che starebbero come dipinti, o come pere in un paniere; non li dirò perché dire Sancio, o un buon tacere, è dire una cosa istessa.

— Eh non sei tu quel Sancio, disse don Chisciotte, perché non solo non sei un buon tacere, ma un mal parlare e un mal perfidiare: dimmi nulla ostante questi tuoi quattro proverbi che asserisci essere tanto a proposito, e che ti sono in memoria, mentre per quanto io vado sollecitando la mia, che è pur eccellente, non me ne sovviene alcuno.

— Può esservi niente di meglio adattato, disse Sancio, che: tra due denti mascellari non mettere mai il dito? E quest'altro: uscitevene di casa mia ché avete a fare colla moglie mia, non c'è che rispondere. E poi se la brocca dà nella pietra o la pietra nella brocca, mal per la brocca; sono tutti proverbî che vengono proprio a pelo, perché gli è come dire: Che nessuno venga a cozzare col suo governatore, né con chi ha le redini del comando, mentre ne uscirà malconcio, come chi mette il suo dito tra due mascellari; e se non sono mascellari non importa, purché siano denti. A quello poi che dice il governatore, non c'è che rispondere, come al proverbio: uscitevene di casa mia, ché avete a fare colla moglie mia; ed a quella della pietra colla brocca sono tanto chiare le applicazioni che le vedrebbe un orbo; di maniera che bisognerebbe conchiuder che chi vede la teccola all'occhio altrui non vegga la trave nel proprio: e non si dirà per lui: la morta si maravigliò della scannata: e a vossignoria è ben noto che sa più uno sciocco in casa sua che un savio in quella degli altri.

— Oh questo no, o Sancio, rispose don Chisciotte, che nulla sa né in casa propria né in casa altrui lo scimunito, poiché sul fondamento della scimunitaggine non si alza mai alcun ben ordinato edifizio: ma non andiamo altro innanzi. Se tu, o Sancio, governerai male, tua sarà la colpa e mia la vergogna; ma mi consolo che ho adempito al dover mio nel consigliarti con ogni efficacia e avvedutezza; e così ho liberata la mia fede. Dio ti guidi e ti governi nel tuo governo, e si allontani da me lo scrupolo in cui resto che tu e la tua isola non abbiate ad andare colle gambe all'aria: cosa che starebbe in me l'evitare se io scoprissi al duca chi sei, e gli dicessi che tutta questa tua epa e questa personcina che hai, altro non sono che un sacco pieno di srambotti e di malizie.

— Signore, replicò Sancio, se pare alla signoria vostra che io non sia capace di pigliare le redini di questo governo, io lo lascio andare subito alla malora, perché voglio più bene ad un nero dell'ugna dell'anima mia che a tutto il mio corpo, e Sancio sarà tanto contento di passarsela con pane asciutto e con cipolle quanto un governatore con pernici e capponi; massimamente che quando si dorme tutti siamo eguali, e grandi e piccioli e poveri e ricchi. Se la signoria vostra considera bene la cosa, vedrà che questo pizzicore da governare non mi è venuto se non per conto suo; ché io tanto ne so di governo d'Isole come un avoltoio: e se vossignoria si mette in testa che mi abbia da aiutare il diavolo, sappia che Sancio vuole piuttosto andare villano in cielo che governatore all'inferno.

— In fede mia, replicò don Chisciotte, che per queste sole ultime tue parole io giudico che ti calzerebbe bene anche il governo di mille isole: tu mostri buon giudizio, senza il quale non vi ha scienza che valga; raccomandati dunque a Dio, e cerca di non andare errato nella prima intenzione; m'intendo dire che tu mantenga fermo proposito di battere il sentiero della bontà e della rettitudine in ogni negozio che dovrai trattare: il Cielo aiuta sempre un buon desiderio. Andiamo a pranzo, ch'io credo che questi signori ci stiano aspettando.”


CAPITOLO XLIV

 

SANCIO PANCIA È CONDOTTO AL GOVERNO. —

STRANA AVVENTURA ACCADUTA A DON CHISCIOTTE.

 

Cid Hamete, per quanto si dice nel genuino originale di questa opera, dovendo scrivere il presente capitolo, lo cominciò con un esordio che l'interprete non tradusse con scrupolosa fedeltà. Perocché lo scrittore Moro duolsi in quell'esordio di avere posto mano ad un'istoria arida e limitata come si è questa di don Chisciotte, in cui continuamente si parla di lui e di Sancio, senza osar di estendersi ad altre digressioni od episodi più gravi e più dilettevoli. Diceva egli che occupare mai sempre l'intelletto, la mano e la penna a scrivere di un solo soggetto, e a parlare colla bocca di poche persone, era un'intollerabile fatica, il cui frutto non ridondava in vantaggio dell'autore. Diceva in oltre che per sottrarsi da questo inconveniente si era valso nella prima Parte dell'artifizio d'inserire alcune Novelle, come furono quelle del Curioso impertinente e del Capitano schiavo, che sono in certo modo separate dalla istoria, essendoché le altre che vi si raccontano, son casi successi al medesimo don Chisciotte, sicché non si potea tralasciare di notarli. Ma d'altra parte pensò, come asserisce egli stesso, che trasportati molti dall'attenzione che esigono le prodezze di don Chisciotte, non sarebbero stati in grado di prestarla alle novellette, ma che le avrebbero scorse o all'infretta o con noia senza por mente alla vaghezza ed all'artifizio che in sé contengono, il quale scopertamente si mostrerebbe quando fossero escite alla luce staccate del tutto dalle pazzie di don Chisciotte e dalle balordaggini di Sancio Pancia. Per questi motivi il citato autore in questa seconda Parte non volle innestare Novelle sciolte né legate, ma introdusse qualche episodio nato dai successi medesimi, il che è più verisimile, e questo pure limitatamente e colle sole parole che bastano a dichiararlo. Si contenne e rinserrò negli stretti limiti della narrazione, benché possedesse abilità, sufficienza e intendimento per trattare dell'universo intero; ed è quindi dovere che non si abbia a vile la sua fatica, anzi gli si dieno lodi, non tanto per quello che scrive, quanto per quello che ha tralasciato di scrivere. Dopo questo preambolo, continua la leggenda nel modo seguente:

Don Chisciotte dopo terminato il pranzo nel giorno in cui diede i consigli a Sancio, glieli fece tenere nella stessa sera al tardi in iscritto affinché da qualcuno se li facesse leggere; non glieli avea però appena consegnati che caddero, e pervennero in mano del duca, il quale li comunicò alla duchessa, e tutti e due nuovamente stupirono della pazzia e dell'ingegno del cavaliere errante. Tirando eglino innanzi colle burle mandarono quella sera Sancio con grande accompagnamento al paese che per lui dovea essere isola.

Colui pertanto che lo guidava colla sua responsabilità, era quello stesso maggiordomo del duca molto discreto e grazioso (che non si dà grazia dove non è discrezione), il quale avea rappresentato il personaggio della contessa Trifaldi col buon garbo che abbiamo detto. Quest'uomo bene istrutto e avvertito da' suoi padroni del modo che dovea tener con Sancio, riuscì a maraviglia nella esecuzione del suo impegno. Ora dunque avvenne che quando Sancio vide tal maggiordomo, raffigurò nel suo viso quello stesso della Trifaldi, e dirizzandosi al suo padrone gli disse:

— O mi ha da portare il diavolo via di qua dove io sono bello ed intero, o mi ha a confessare la signoria vostra che il volto di questo maggiordomo del duca, che sta qui, è quello stesso della Trifaldi.”

Don Chisciotte guardò e riguardò attentamente il maggiordomo, e poi disse a Sancio:

— Non occorre che il diavolo ti porti, o Sancio, né bello né intero, perché il viso della Trifaldi è proprio quello del maggiordomo: ma non è per questo che il maggiordomo sia la Trifaldi; ché se ciò fosse implicherebbe grandissima contraddizione: ma non è tempo questo di avverare tali circostanze, mentre sarebbe un voler entrare in labirinto molto intricato. Credimi, amico, che fa mestieri pregare nostro Signore con molto affetto, perché ci liberi dai cattivi stregoni e dai tristi incantatori.

— Ma questa non è burla, replicò Sancio, perché ho chiaramente intesa la sua voce, e non altro mi è suonato all'orecchio che la voce della Trifaldi. Basta per ora; non si parli altro, ma non tralascerò in avvenire di star cogli occhi aperti per vedere se qualche altro segnale confermi o distrugga i miei sospetti.

— Così dèi fare, Sancio, disse don Chisciotte, e mi porrai al chiaro di ogni tua scoperta in tale proposito, e di qualunque cosa che nel governo sarà per succederti.

Sancio in fine partì accompagnato da gran comitiva vestito da legale, con sopra l'abito un gabbano molto splendido e largo di ciambellotto a once, e con berretto pure di ciambellotto. Cavalcava un mulo alla ginetta, e dietro a lui per comando del duca andava il leardo con fornimenti e guarnizioni giumentili di seta fiammeggianti. Sancio voltava il capo di quando in quando per guardare il suo asino, in compagnia del quale andava tanto contento che non l'avrebbe ceduto ad un imperatore. Nel prendere licenza dai duchi baciò loro la mano, e si prese la benedizione del suo signore, che gliela diede colle lagrime agli occhi, e la ricevette Sancio colle gote gonfie, come fanciullo che stia per piangere.

Lascia, o lettor garbato, andare in pace e in buon'ora l'ottimo nostro Sancio, e attenditi due staia di risa che ti ha a produrre il sapere come si portò nel suo governo; frattanto ascolta quello che avvenne in quella notte al suo padrone: che se con questo racconto non riderai, comporrai per lo meno, come suol dirsi, le labbra a ghigno di scimmia; perché gli avvenimenti che riguardan don Chisciotte, od hannosi a celebrare con ammirazione o con festività. Raccontasi dunque che appena partito Sancio sentì don Chisciotte il peso della sua solitudine; e se gli fosse stato possibile rivocare la commissione e torgli il governo, lo avrebbe fatto. Fu conosciuta dalla duchessa la sua malinconia, e lo domandò perché stesse di sì malavoglia: che se ciò fosse per la partenza di Sancio, egli avrebbe potuto avere nella sua corte in vece di lui, a suo libero comando altri scudieri, e matrone e donzelle.

— È vero, signora, rispose don Chisciotte, che mi pesa la lontananza di Sancio, ma non è questo il principale motivo che mi fa parere malinconico: quanto poi alle molte offerte che mi va facendo la bontà vostra, io non le accetto; solo sono contento della egregia intenzione con cui si fanno, e di nient'altro supplico vostra eccellenza fuorché di consentire e permettere che io nella mia stanza e da per me solo mi serva.

— In verità, signor don Chisciotte, disse la duchessa, che così non ha da essere, perché intendo che restino ai suoi comandi quattro delle mie donzelle, belle e fresche come tante rose.

— Non sarebbero rose per me, disse don Chisciotte, ma tante spine che mi pungerebbero l'anima; e tanto è possibile ch'io le lasci entrare nella mia camera com'è possibile ch'elleno volino. Se è vero che piaccia alla vostra grandezza di continuare a spargere su di me i suoi favori con prodiga mano, tuttoché io non li meriti, mi usi quello di lasciarmi in piena balìa. Io prescelgo di essere il servitore di me medesimo nella mia solitudine, dove alzerò una muraglia fra i miei desiderî e la mia onestà, mentre perdere non voglio questo mio costume a cagione della liberalità che l'altezza vostra si compiace impartirmi: in conclusione io torrei di dormir vestito anzi che essere spogliato da chicchesia.

— Non più, non più, signor don Chisciotte, replicò la duchessa, che in quanto a me si appartiene, ordino risolutamente che neppure una mosca entri nella sua stanza, non ché una donzella; né io sono una persona la quale voglia mai che per causa mia abbia a venir meno la decenza del signor don Chisciotte; e tanto più che, per quanto ho potuto osservare, nella signoria vostra, campeggia l'onestà tra le tante sue maschie virtù. Vossignoria si spogli e si vesta da sé solo, a suo modo, e come e quando le piace, che non vi sarà chi glielo impedisca, e nella sua stanza troverà quanto mai può bisognare a chi dorme con la porta chiusa affinché nessuna naturale occorrenza la sforzi ad aprirla: viva mille secoli la gran Dulcinea del Toboso, e si estenda il suo nome per tutta la rotondità della terra, poiché ha meritato l'amore di un cavaliere sì valoroso ed onesto; i benigni cieli infondano poi nel cuore di Sancio Pancia, nostro governatore, il desiderio di compiere presto la sua disciplina, affinché il mondo torni a godere della bellezza di sì eccelsa signora.”

Cui don Chisciotte rispose:

— L'altezza vostra ha parlato da sua pari, mentre nessuna cosa disdicevole ha mai da uscire di bocca dalle dame ben educate; e più venturosa e più conosciuta sarà al mondo Dulcinea per esser stata onorata dalle lodi della vostra grandezza, che nol sarebbe per quelle tutte che le avessero date i più grandi eloquenti della terra.

— Or via, signor don Chisciotte, replicò la duchessa, l'ora della cena è giunta, ed il duca certamente ci sta aspettando; venga la signoria vostra, ceniamo e poi andrà a letto; perché il viaggio che fece ieri a Candaia non fu sì corto che non debba averle prodotto qualche stracchezza.

— Non ne sento alcuna, o signora, rispose don Chisciotte, perché potrei giurare che in vita mia non ho cavalcato bestia più tranquilla né di miglior passo di Clavilegno; né so concepire quale causa abbia indotto Malambruno a privarsi di sì leggera e buona cavalcatura abbruciandola così male a proposito.

— Si può immaginare, replicò la duchessa, che a ciò siasi risolto siccome pentito del male fatto alla Trifaldi, alla compagnia e ad altre persone, e delle malvagità che come stregone e incantatore debbe avere commesse; e quindi abbia voluto levarsi dinanzi tutti gl'istrumenti del suo mestiere. Piacquegli d'incenerire il mezzo principale che gli dava maggior rimorso, e col quale inquietava più il mondo vagando di terra in terra; ed era Clavilegno, con le cui abbruciate ceneri e col trofeo del castello si è reso eterno il valore del gran don Chisciotte della Mancia.”

Nuovi ringraziamenti fece don Chisciotte alla duchessa, e terminato ch'ebbe di cenare, si ritirò solo nella camera senza permettere ad alcuno di entrare a servirlo: sì grande era il suo timore d'inciampare in occasioni che lo movessero e forzassero a perdere l'onesto decoro che serbava alla sua signora Dulcinea, tenendo sempre d'innanzi alla immaginazione la bontà di Amadigi, fiore e specchio degli erranti cavalieri. Si tirò dietro la porta, e spogliossi al lume di due candele di cera; ma allo scalzarsi (oh disgrazia indegna di sì grande soggetto!) scoppiarono, non già cose che screditassero la limpidezza della sua pulizia, ma intorno a due dozzine di maglie di una calzetta che rimase come un crivello.

Si afflisse molto il buon signore, ed avrebbe pagato, per avere quivi un dramma di seta verde, un'oncia di argento; dico di seta verde, perch'erano verdi le calzette.

— O povertà! povertà! sclama Ben Engeli a questo passo, io non so per qual ragione il poeta cordovese si mosse a chiamarti santo dono ingratamente ricevuto! io, tuttoché Moro, so benissimo per la corrispondenza tenuta coi cristiani che la santità consiste nella carità, umiltà, fede, ubbidienza e povertà, contuttociò sostengo che ha da avere del divino colui che si contenta di essere povero, quando non fosse di quel genere di povertà di cui parlando dice uno dei maggiori suoi Santi: tenete le cose tutte come se non le aveste, e questa la chiamano povertà di spirito, ma tu, o secondo genere di povertà (ed è quella che io intendo di ricordare) perché vai tu a percuotere gl'idalghi e le persone bennate, piucché altra gente? perché li obblighi tu a rattoppare le scarpe ed a mettere i bottoni delle loro casacche alcuna volta di setole, altra di seta, ed altra di vetro? perché i collari che portano hanno ad essere sparpagliati per la maggior parte e non a lattughe aperte? (e da ciò verrassi a conoscere quanto sia inveterato l'uso dell'amido e dei collari a lattughe); e poi seguitò a questo modo:

“Povero è bene colui che uscito da buoni natali va deturpando l'onor suo, mangiando male a porte serrate, portando lo stuzzicadenti fuori di casa per apparenza e per dar altrui ad intendere di avere mangiata cosa per cui si rende necessario pulirli! Povero è bene colui, ripeto, che dall'onore è fatto pauroso, e teme che pur una lega da lungi se gli scuoprano e osservino i tacconi delle scarpe, il sudore del cappello, il tessuto del ferraiuolo, e la fame che lo tormenta!”

Tutte queste considerazioni si offrirono alla memoria di don Chisciotte quando si sciolsero le maglie della calzetta, ma si racconsolò poi vedendo che Sancio gli aveva lasciato certi stivali da viaggio, che egli divisò di calzare nel dì seguente. Andò finalmente a letto pieno di pensieri e di amarezze, sì per l'assenza di Sancio come per la irreparabile disgrazia delle calzette, le cui maglie avrebbe eziandio rassettate se avesse potuto con seta di altro colore; ch'è uno dei maggiori indizi di miseria che un idalgo ed una persona bennata possa dare nel corso della costante sua povertà. Spense la candela, ma pel gran caldo non poteva dormire. Alzossi dal letto, aperse un cotal poco una finestra che riusciva sopra delizioso giardino, e nell'aprirla conobbe ed udì che vi era gente la quale ragionava. Si mise ad ascoltare con attenzione, e quelli che stavano abbasso alzarono la voce tanto che egli poté udire il seguente discorso:

— Non insistere, Emerenzia, perché io canti, mentre ti è noto che dal primo istante in cui il forestiere entrò in questo castello, e lo mirarono gli occhi miei, io non so più cantare ma solamente piangere: e tanto più che il sonno della mia padrona è leggiero anzi che no, né vorrei che ci sorprendesse qua per tutto l'oro del mondo. Oltre di che s'ella in preda al sonno non si destasse, a vuoto riescirebbe il mio canto se dorme, e non si desta a sentirlo il novello Enea ch'è arrivato alle mie regioni per lasciarmi schernita.

— Non credere no questo, o amica Altisidora (altra voce diceva), perché la duchessa e quanti soggiornano in questa casa dormono tutti, fuorché il dominatore del tuo cuore, e lo svegliarino della tua anima; ché avendolo io sentito or ora aprire la finestra della sua stanza deve senz'altro essere desto. Canta pure o dogliosa mia, in tono basso e soave al suono della tua arpa; e se pure la duchessa ci sente, noi incolperemo il caldo che ci molesta.

— Non istà nel caldo la difficoltà, o Emerenzia, rispose Altisidora: egli è che non vorrei che il mio canto tradisse i segreti del mio cuore, e si facessero giudici miei quelli che non conoscendo quanto sia possente la forza d'amore, mi giudicherebbero forse donzella capricciosa e leggera: ma seguane che vuole, egli è meglio arrossire in viso che rimanere vittima del cordoglio:” ed in così dire cominciò a suonar un'arpa molto soavemente.

Restò don Chisciotte, ciò udendo, trasecolato, perché in quell'istante se gli presentarono alla memoria le infinite venture simili a quella, di finestre, cioè, inferriate, giardini, musiche, concerti amorosi e svenimenti da esso letti nei suoi spropositati libri di cavalleria. S'immaginò subito che qualche donzella della duchessa fosse innamorata di lui, e che l'onestà la sforzasse a tener celate le sue fiamme. Temeva di non esporsi a troppo pericolo, e propose fermamente seco medesimo di non lasciarsi vincere. Raccomandandosi dunque col più vivo del cuore e con ogni buona volontà alla sua signora Dulcinea del Toboso, stabilì di ascoltare la musica: e per far sapere ch'egli era colà, finse di stranutire; di che non poco si rallegrarono le donzelle, le quali altra cosa non desideravano che di essere udite da don Chisciotte.

Posta pertanto in ordine ed accordata l'arpa Altisodora cantò la seguente canzone:

“O tu che stai nel tuo letto fra lenzuola di tela olandese, sdraiato dalla sera al mattino.

“Valorosissimo de' cavalieri che mai producesse la Mancia, più casto e più puro del fino oro d'Arabia;

“Ascolta una giovane innamorata mal corrisposta, che arde al raggio de' tuoi due soli.

“Tu vai cercando venture, e intanto sei causa delle sventure altrui; tu ferisci e ricusi di rimediar alle piaghe che vai facendo.

“Dimmi o giovine valoroso (così Dio ti liberi da ogni affanno), sei tu nato nei deserti della Libia o sulle montagne del Jacca?

“Ti allattarono forse i serpenti? o fosti per avventura allevato fra l'orrore delle foreste e l'asprezza delle montagne?

“Dulcinea! giovine, fresca e di fiorente salute, può darsi vanto di avere ammansato una tigre, una belva feroce.

“Per questa vittoria essa andrà famosa dall'Henares al Jarame, dal Tago al Manzanare, dalla Pisverga all'Arlanza.

“Quanto volentieri vorrei esser lei; e ne darei anche per sopra mercato il più bello dei miei abiti, quello ornato con frangie d'oro.

“Oh quale felicità! vedersi nelle tue braccia, od almeno presso il tuo letto grattandoti la testa.

“So ch'io domando troppo gran cosa, e della quale non sono degna: vorrei soltanto lavarti i piedi; questo è pur sufficiente ad una umile amante.

“Quante cuffie e scarpettine e calze stupende e mantelli d'Olanda io ti darei!

“Quante fine perle ti donerei e sì grosse che per essere senza pari sarebbero chiamate le uniche.

“Non contentarti di mirare dall'alto della rupe tarpea l'incendio che mi consuma, o valoroso Mancego, Nerone del mondo, né rinforzar questo incendio col tuo rigore.

“Io sono giovine e tenera verginella, la mia età non è maggiore di quindici anni, perché sull'anima mia e sulla mia coscienza ne ho soltanto quattordici e tre mesi.

“Io non sono né gobba né zoppa, non sono rattratta delle mani: ed ho capegli simiglianti a gigli che si strascinano sul suolo a' miei piedi.

“Comunque sia aquilina la mia bocca, e il naso un cotal po' rincagnato, ciò non pertanto, perché i miei denti sono topazi, la mia bellezza ne riceve anzi splendore.

“In quanto alla mia voce se tu ora mi ascolti potrai persuaderti ch'essa non teme il paragone delle più dolci: la mia persona è piccioletta anzi che no.

“E tutte queste grazie e tutto quanto posseggo è spoglia riserbata per te. Io sono in questa casa damigella di compagnia; il mio nome Altisodora.”

Qui ebbe fine il canto della malferita giovane, e cominciamento lo stupore da cui fu colto l'amato don Chisciotte; il quale mettendo grande sospiro, disse seco medesimo:

— E che? sarò io dunque cavaliere errante sì sventurato che non possa esistere donzella la quale mi guardi e di me non s'innamori? e dovrà essere sì poco avventurosa la senza pari Dulcinea del Toboso che le sia tolto di godere della incomparabile fermezza mia? O regine, che pretendete da lei? a che la perseguitate o imperatrici? perché la invidiate, o donzelle di quattordici anni? Lasciate, deh lasciate che la meschina trionfi; che goda, vinca ed esulti con la sorte che si piacque donarle Amore quando le rese schiavo il mio cuore e la fede dominatrice dell'anima mia: avvertite bene, o innamorate donzelle, che per lei sola io sono pieghevole come cera, ma sono proprio di marmo per le altre tutte: miele sono io per lei, aloe per voi: per me la sola Dulcinea è adorna di bellezza, discreta, onesta, galante, bennata, e le altre donne mi appaiono brutte, scipite, leggere e del più basso lignaggio: nacqui al mondo per esser suo unicamente e non di verun'altra: pianga o canti Altisodora, si disperi anche quella dama per cui amore mi bastonarono nel castello del Moro incantato, ma io debbo esser di Dulcinea a lesso, a rosto, e pulito, ben creato, onesto a dispetto di tutte le fattucchiere podestà della terra.”

E con questo chiuse impetuosamente la finestra, e sdegnato e pensoso, come se accaduta gli fosse qualche disgrazia, si rimise nel letto, dove lo lasceremo per adesso, perché ci chiama il gran Sancio Pancia che vuol dare principio al suo famoso governo.


CAPITOLO XLV

 

COME IL GRAN SANCIO PANCIA PRESE IL POSSESSO DELLA SUA ISOLA E IN QUALE MANIERA COMINCIÒ A GOVERNARLA.

 

O tu, perpetuo scuopritore degli antipodi, luce del mondo, occhio del cielo, vaso più riscaldante delle argentee cantimplore, Timbrio qua, Febo là, quivi arciero, colà medico, padre della poesia, inventore della musica, te invoco, ch'esci sempre e mai (che così pare) mai non ti nascondi, te dico, o Sole, coll'aiuto di cui l'uomo genera l'uomo: tu mi dona favore ed illumina la oscurità del mio ingegno, affinché io possa esattamente seguire punto per punto la narrazione del governo tenuto dal gran Sancio Pancia. Mancandomi il tuo soccorso io mi sentirei freddo, sbigottito, confuso.

Dico dunque che con tutto il suo accompagnamento pervenne Sancio a un paese di mille fuochi incirca, ch'era uno dei migliori possedimenti del duca. Gli diedero ad intendere che chiamavasi l'isola Barattaria, o perché il luogo dicevasi Barattario, o forse pel baratto che allora si faceva, del suo governo. Alle porte del paese, ch'era cinto di mura, concorse ad accoglierlo tutta la comunità; si suonarono le campane, e gli abitatori tutti diedero segni di generale allegrezza. Con solenne pompa lo accompagnarono al duomo a rendere grazie a Dio: indi con ridicole cerimonie gli consegnarono le chiavi del paese, e lo accettarono per governatore perpetuo dell'isola Barattaria. L'abito, la barba, la grossezza e la piccola statura del nuovo governatore tenevano stupefatta la gente tutta cui era ignoto l'enigma del negozio; e stupivano anche i consapevoli di ogni cosa che non erano pochi.

Uscito che ei fu di chiesa, lo condussero alla sala del consiglio, e fattovelo sedere, il maggiordomo del duca gli disse:

— È inveterato costume in quest'isola, signor governatore, che quegli che viene a prenderne possesso, sia obbligato di rispondere ad un quesito che gli viene fatto alquanto intralciato e difficile, dalla cui risposta il popolo piglia e tocca il polso dell'ingegno del nuovo suo governatore; e così o si rallegra o si rattrista della sua venuta.”

Finché il maggiordomo stava parlando a Sancio andava questi guardando certe grandi lettere ch'erano scritte nella parete dirimpetto alla sua sedia; e siccom'egli non sapea leggere così dimandò che cosa significassero quegli sgorbii, i quali si vedevano sulla muraglia. Gli fu risposto:

— O Signore, sta ivi scritto e notato il giorno in cui vossignoria prende il possesso di questa isola e dice l'epitaffio: Quest'oggi, ai tanti del tal mese e del tal anno, prese possesso di questa isola il signor don Sancio Pancia, che molti anni la goda.

— E chi è questo che chiamasi don Sancio Pancia? dimandò Sancio.

— La signoria vostra, rispose il maggiordomo, che non entrò in questa isola altro Pancia di quello in fuori che sta ora seduto su questa sedia.

— Or bene avvertite, fratello, disse Sancio, che io non ho il don, né l'ebbe mai alcuno del mio casato. Mi chiamano Sancio Pancia secco secco: Sancio si chiamò mio padre, Sancio mio avolo, e tutti furono Pancia senza giunta di doni done; ed io m'immagino abbiano a trovarsi in questa isola più doni che pietre; ma basta così, Dio m'intende; e potrà essere che se duro per quattro giorni al governo, io scarti questi doni, che per lo gran numero debbono riuscire molesti come le zanzare. Ora esponga il suo quesito il signor maggiordomo che risponderò il meglio ch'io sappia, sia che abbia o no a contristarsene il popolo.”

Entrarono in questo istante in consiglio due uomini, vestito l'uno da contadino, l'altro da sarto con in mano un paio di cesoie; e quest'ultimo si fece a dire:

— Signor governatore, io e questo uomo ci presentiamo a vossignoria per causa che questo galantuomo venne ieri alla mia bottega (ché con perdono di chi mi ascolta, sono sarto matricolato) (sia benedetto il Signore), e consegnandomi un pezzo di panno mi fece questa domanda: “Signore, sarebbevi tanto in questo panno da farmi un berretto? — Io, preso tosto in esame il panno, gli risposi che : ed egli figurandosi (a ciò che immagino, né certo m'inganno) che gli volessi rubare qualche ritaglio del panno, fondando il dubbio sulla sua malizia e sulla cattiva opinione dei sarti, mi replicò che guardassi se ce ne sarebbe tanto da farne due. Indovinai il suo pensiero, e gli soggiunsi che , ed egli stando sempre nella sua riprovevole prima intenzione andò aggiungendo berretti ed io aggiungendo sì; finché giungemmo a cinque berrettini. Egli è qua adesso per essi, ed io glieli do: ma egli ricusa di pagarmi la fattura, e pretende all'opposto che gli paghi o gli renda il suo panno.

— Va così la faccenda, fratello? dimandò Sancio.

— Così per lo appunto, rispose l'uomo, ma faccia vostra signoria ch'egli mostri i cinque berretti che ha fatti.

— Molto volentieri, rispose il sarto: e, tratta immantinente la mano che teneva sotto il ferraiuolo, fece vedere cinque berretti posti nei cinque capi delle dita della mano, e disse:

— Ecco qua i cinque berrettini che mi vengono da questo buon uomo dimandati, e posso giurare in coscienza mia che nulla mi è rimasto del panno, e sono pronto a far esaminar il lavoro dai consoli del mestiere.

Risero gli astanti tutti della moltitudine dei berretti e della novità della questione. Sancio si pose un cotal poco a pensare tra sé e poi disse:

— Sembrami che non vi sieno grandi difficoltà a diffinire tal questione senza che si abbia a rimettere al parere di altro intelligente e probo soggetto; e così io do per sentenziato che il sarto perda la fattura e il contadino il panno, e si portino i berretti al servigio dei carcerati né se ne parli mai più.”

Se la precedente sentenza della borsa del pastore destò maraviglia nei circostanti, questa li provocò al riso; si eseguì però l'ordine del governatore, dinanzi al quale si presentarono due uomini vecchi, uno dei quali portava un bastone di girasole, e quegli che stava colle mani vuote si fece a dire:

— Signore, giorni sono prestai a questo buon uomo dieci scudi d'oro per fargli piacere e servigio a un tempo medesimo, a condizione però che dovesse ad ogni mia richiesta farmene la restituzione. Scorsero molti giorni ch'io non gliene feci la domanda, per non metterlo in angustie peggiori di quelle nelle quali trovavasi quando mi chiese il prestito; ma sembrandomi ch'egli vada dimenticando il suo debito glieli chiesi una e più volte, ed egli non pure non me li rende, ma me li nega, adducendo che non ebbe mai da me a prestito questo denaro, e che se pure ciò fosse me lo ha già prima d'ora restituito. Io non ho testimoni né del prestito né della restituzione, che non mi ha fatta: vorrei pertanto che la signoria vostra togliesse da lui il giuramento: e s'egli giurerà di avermeli restituiti io glieli rimetto, e qui e dinanzi a Dio.

— Che ne dite voi, buon vecchio del bastone?” disse Sancio.

Cui quel vecchio rispose:

— Io confesso o signore, che me ne fece prestito, ed incurvi la signoria vostra questa sua bacchetta di comando ché volendo egli il giuramento io giurerò di averglili restituiti e pagati in moneta sonante.”

Il governatore abbassò la bacchetta, e frattanto il vecchio consegnò il bastone di girasole all'altro vecchio perché lo custodisse finch'egli giurava, come se quel bastone lo imbarazzasse molto; e posta tantosto la mano sulla bacchetta del governatore disse che confessava bensì di avere avuto a prestito i dieci scudi, ma che li aveva anche restituiti di sua propria mano; ma perché l'altro se n'era dimenticato ad ogni poco tornava a ridomandarglieli.”

Ciò udito il governatore disse al creditore che rispondesse alla eccezione del suo avversario, e il creditore disse che doveva senza dubbio essere veritiero il detto del suo debitore, tenendolo per uomo dabbene e buon cristiano: e che convenia credere che si foss'egli dimenticato del tempo e del modo della fattagli restituzione e che quindinnanzi altro non gli avrebbe dimandato.

Il debitore ritolse il suo bastone, ed a capo chino se ne uscì dal consiglio. Sancio nel vedere questo e che senza altre cerimonie se ne andava, e riflettendo in oltre sulla rassegnazione del creditore, chinò la testa sul petto, e portando il dito indice della mano destra lungo le narici e le ciglia se ne stette un cotal poco pensoso, e poscia, alzata la testa ordinò che si chiamasse il vecchio del bastone, il quale era già partito.

Glielo condussero davanti, e Sancio nel vederlo gli disse:

— Datemi, buon uomo, cotesto bastone che io ne ho bisogno.

— Molto volentieri, rispose il vecchio, eccolo, o signore; e glielo mise in mano. Sancio lo prese, e porgendolo all'altro, gli disse:

— Andate con Dio, che già siete pagato.

— Io, signore? soggiunse quegli, e come? questo bastone può egli valere dieci scudi d'oro?

— Appunto, disse il governatore, e se non li vale voglio essere il più gran balordo di questo mondo: ed ora si vedrà se ho cervello per governare un regno intero.”

Detto questo, ordinò che in presenza di tutti si rompesse il bastone. Così fu fatto, e nel vôto interno di esso ritrovaronsi i dieci scudi in oro. Rimasero tutti a bocca aperta, e tennero il loro governatore per un nuovo Salomone.

Gli chiesero su qual fondamento avess'egli congetturato che in quel bastone si rinchiudessero i dieci scudi: rispose che l'avere osservato il modo con cui dal vecchio che giurava venne dato al suo avversario quel bastone finché faceva giuramento, e la protesta sua di averglieli dati realmente e veridicamente, e l'averlo veduto riprendere il bastone subito dopo il suo giuramento, gli fece nascere il sospetto che dentro di quello vi fosse il danaro che gli si dimandava: dal che soggiunse, si può raccorre che quei che governano, tuttoché siano balordacci, vengono tal volta da Dio guidati nei loro giudizî.

— E ciò, aggiunse Sancio tanto più riescì facile a me in quantoché intesi raccontare dal curato del mio paese un avvenimento simile a questo, e son provveduto di memoria sì felice che se non fosse che spesso me ne dimentico appunto nel meglio, non si troverebbe in tutta l'isola chi sapesse più cose a mente di me.” In fine l'uno dei vecchi deriso e l'altro pagato se ne andarono, ed i circostanti rimasero edificati.

Quegli che registrava le parole, i fatti e i movimenti di Sancio non sapeva determinarsi se avesse a tenerlo per isciocco o per giudizioso. Ora terminato questo piato, entrò nel consiglio una donna che tenea afferrato strettamente un uomo vestito da ricco pastore e veniva sclamando e dicendo:

— Giustizia, signor governatore, giustizia, e se non la trovo in terra andrò a cercarla nel cielo. O signor governatore dilettissimo, mi ha quest'uomo acchiappata in mezzo alla campagna, ed ha strappazzato il mio corpo come se fosse un cencio mal lavato, mettendo le sue sudicie mani sopra di me, che sempre m'ero per ben ventitré anni difesa dagl'insulti de' mori e de' cristiani, dei nazionali e degli stranieri.

— Non trattasi di conoscere adesso se le mani sieno sudice o no, disse Sancio;” e voltosi all'uomo gli dimandò che cosa opporre potesse alle querimonie di quella donna. Rispose egli tutto turbato:

— Signore, io sono un povero guardiano di bestiami da setole, e questa mattina me ne tornava dall'avere venduto in questo paese (sia detto con permissione) quattro porci, avendo pagato di gabella poco meno di quanto essi valevano. Ora ritornandomene al mio villaggio, m'incontrai per istrada in questa buona matrona, la quale so dire che mente di quanto asserisce.”

Il governatore gli chiese allora se portasse seco qualche moneta di argento; e rispose che avea in seno venti ducati in una borsa di cuoio. Ordinò che la cavasse fuori e la desse tal quale alla querelante. Lo fece egli tremando, e se la prese la donna facendo mille inchini a tutti e pregando Iddio per la salute e per la vita del signor governatore, il quale difendeva sì bravamente le orfane bisognose e le matrone, e con questo se ne uscì del consiglio recando seco la borsa stretta fra ambedue le mani e visitandola subito per conoscere se avesse dentro argento od oro.

Era appena uscita fuori che Sancio disse a quel guardiano di bestiame che disfacevasi in lagrime, e accompagnava la borsa cogli occhi e col cuore: “Buon uomo, tenete dietro a quella donna, e toglietele a forza la borsa, e tornate qui con essa;” e non lo disse ad un goffo o ad un sordo, perch'egli corse come una saetta sulle pedate della donna, ed eseguì quanto gli fu comandato.

Stavano sospesi i circostanti attendendo il fine di quella quistione, e d'indi a poco tornarono la donna e l'uomo, tenendosi più attaccati e afferrati che la prima volta; ella con la zimarra rimboccata e con la borsa in grembo, e l'uomo contrastando per levargliela, ma senza poterlo fare perché la donna si opponeva con forza gridando:

— Giustizia di Dio e del mondo! consideri la signoria vostra, signor governatore, la poca vergogna e il poco timore di questo malvagio che in cuor della terra e in mezzo alla strada vorrebbe togliermi la borsa che gli ordinò vossignoria di darmi.

— Ve l'ha egli tolta? Dimandò il governatore.

— A me toglierla? rispose la donna; prima mi lascerei ammazzare piuttosto che cederla; oh vi assicuro che ha trovato pane per i suoi denti! altri gatti vogliono essere quelli che mi vengano al viso, ben diversi da questo miserabile e vigliacco: tanaglie, martelli, mazze e scarpelli non varranno a cavarmela dalle ugne e neppure artigli di leoni; ché mi lascerò prima trarre l'anima dal corpo.

— Ella ha ragione, soggiunse l'uomo, ed io mi do per vinto e privo di forze, e confesso che non basto a toglierle questa benedetta borsa, e mi converrà piegare il collo.”

Allora disse il governatore a costei:

— Mostrate qua donna onorata e valorosa, cotesta borsa.”

Gliela diede ella sul fatto, ed il governatore la consegnò all'uomo, e disse alla sforzata e non isforzata:

— Sorella mia, se la costanza e il valore che avete mostrato per difendere questa borsa li aveste messi a campo, od anche la metà sola per difendere il vostro corpo, non lo avrebbero potuto oltraggiare le forze di Ercole. Andatene dunque con Dio e in mal punto, né osate più comparire in quest'isola, né manco per sei leghe all'intorno, sotto pena di dugento scudisciate: toglietevi di qua sul momento, ripeto, sfacciata, sgualdrina, imbrogliatora.”

S'impaurì la femmina, e se ne andò via col capo chino e mal contenta; ed il governatore disse a colui:

— Buon uomo, andate con Dio al vostro paese coi vostri danari, e d'ora innanzi se non li volete perdere fatevi passare la voglia di ruzzar con chicchesia.”

Lo ringraziò quell'uomo goffamente a suo modo, e se n'andò, ed i circostanti rimasero di nuovo maravigliati dei giudizi e delle sentenze del loro nuovo governatore.

Tutte queste cose furono notate dallo scrittore della cronaca, e trasmesse al duca che con gran desiderio le stava aspettando. Resti ora quivi il buon Sancio che grande è la fretta che ci dà il suo padrone già fuori di sé per la musica di Altisidora.


CAPITOLO XLVI

 

FORMIDABILE TERRORE CHE DIEDERO I CAMPANACCI ED I GATTI A DON CHISCIOTTE NEL PROGRESSO DEGLI AMORI COLLA INVAGHITA ALTISIDORA.

 

Noi lasciammo il gran don Chisciotte ravvolto nei pensieri che gli aveva risvegliati la musica della innamorata donzella Altisidora. Tornò a letto con questi; e, come importune pulci, non lo lasciavano dormire né riposar un momento: e vi si aggiungevano anche gli altri delle sue calzette; ma siccome vola il tempo, e non vi ha cosa che lo trattenga, perciò passarono le ore della notte come lampo, e presto giunsero quelle della mattina. Al suo apparire lasciò don Chisciotte le morbide piume; e per nulla infingardo, si pose indosso il suo camozzato vestito, e si calzò gli stivali da campagna per ricoprire la disgrazia delle calzette. Si mise indosso il suo magnifico manto di scarlatto, e in testa una montiera di velluto verde, guernita con passamani di argento; attaccossi l'armacollo da cui stava ciondolante la sua famosa e tagliente spada; si tolse un gran rosario che sempre portava seco, e così fatto con grande prosopopea ed albagia recossi nell'antisala, dove il duca e la duchessa, di già vestiti, pareva che lo stessero aspettando.

Nel passare per una galleria trovavansi a bella posta pronte e ferme Altisidora ed un'altra donzella sua amica; ed Altisidora nol vide appena che finse di svenire, e fu raccolta e sostenuta dalla sua amica, la quale subitamente si mise a slacciarle il vestito sopra il petto. Don Chisciotte, che le vide, si accostò loro e disse:

— Io so molto bene d'onde procedono questi svenimenti.

— Così lo sapessi anch'io, rispose l'amica, mentre Altisidora è la donzella più sana di tutta questa casa, né da che la conosco l'ho intesa mai dire un ahi. Che maledetti siano quanti cavalieri erranti vi sono al mondo, se tutti covano in seno l'ingratitudine: vada, vada vossignoria, signor don Chisciotte, che già non potrà mai riaversi questa povera bambina, finattantoché vossignoria non si parte di qui.”

Cui don Chisciotte rispose:

— Fatemi, o signora, trovare per questa sera un liuto nella mia camera, che io consolerò alla meglio quest'addolorata donzella, poiché il presto disinganno suol essere efficace rimedio negli amorosi principî:” e in ciò dire se n'andò via per non essere notato da chi lo vedesse in quel luogo.

Non s'era peranco scostato, che tornando in sé la svenuta Altisidora disse alla sua compagna:

— Bisognerà mettergli in camera questo liuto, ché senza dubbio don Chisciotte ci vuol dare una musica che buona o cattiva ci procaccerà gran diletto.”

Dopo ciò corsero ad informare la duchessa dell'avvenuto e del liuto che don Chisciotte chiedea; ed ella allegrissima concertò col duca e colle sue donzelle di fargli una burla che fosse più ridicola che spiacevole.

Attesero dunque la notte con molto contento, e sopravvenne sì presto come presto era comparso il giorno, il quale fu speso dai duchi in gustosi discorsi con don Chisciotte.

La duchessa immaginò, e veramente e realmente spedì durante il giorno quel suo paggio che rappresentata aveva nel bosco la figura incantata di Dulcinea, a Teresa Pancia con la lettera di Sancio suo marito, e col fagotto dei panni che aveva lasciato da recarle: e incaricò il messaggere di essere attento nel riportare la relazione di ciò che fosse accaduto con essa.

Intanto era passata la giornata non solo, ma erano sopraggiunte le undici della notte, quando don Chisciotte trovò il liuto in camera sua. Egli lo accordò: aprì la finestra, sentì gente a camminare in giardino, e fatta una ricercata per i tasti dello strumento, e ridottolo in tono il meglio che seppe, spurgossi, sputò, e poscia con voce piuttosto rauca ma intonata, cantò la seguente canzone, ch'egli stesso aveva durante il giorno composta:

 

“La gran forza d'amore è usa trar dai cardini le anime, valendosi dell'ozio a modo di leva.

“Il cucire, il ricamare e l'attendere di continuo a qualche lavoro, sono il miglior rimedio alla passione amorosa.

“Alle fanciulle dabbene e desiderose di ben collocarsi, l'onestà e le lodi meritate sono in luogo di buona dote.

“I cavalieri erranti e quelli che vivono alle corti amoreggiano le men riservate, ma sposano poi solamente le oneste.

“V'hanno certi amori che nascono col sole e muoiono con quello; tali sono quelli d'ospite ad ospite.

“L'amore che oggi nasce e domani se ne va, non lascia nell'anima profonda traccia di sé.

“Non può vedersi un dipinto sopra un altro dipinto: dove già sia una prima bellezza, la nuova arrivata non vince la prova.

“Sulla tavola rasa della mia anima io porto dipinta Dulcinea del Toboso, di tal maniera che non sarà mai possibile cancellarla.

“Negli amanti la più notabile qualità è la costanza; e per l'amore opera prodigi, e gl'innamorati conseguono la felicità.”

 

A questo passo terminò don Chisciotte il suo canto, ch'era ascoltato dal duca, dalla duchessa, da Altisidora e da pressoché tutta la gente del castello, quando d'improvviso dalla cima del corridoio, che rispondeva a piombo sulla inferriata di don Chisciotte, fu calata una funicella cui erano legati più di cento campanacci, e nel momento stesso si aperse un gran sacco di gatti, che portavano altri campanacci più piccoli legati alle loro code. Fu sì grande il fracasso dei campanacci e il miagolare dei gatti che, quantunque la burla fosse fatta per invenzione dei duchi, non pertanto ne furono eglino stessi impauriti, e ne restò spaventato affatto il povero don Chisciotte. Volle la sorte che due o tre gatti penetrassero dalla ferriata nella sua camera, e di qua e di là balzando, pareva che entrata vi fosse una legione di diavoli. Rovesciarono spente le candele che stavano nella camera, e andavano cercando per dove scappare; e intanto il tirarsi su e giù della funicella cui stavano attaccati i campanacci non cessava mai; e la più parte della gente del castello che non sapeva la verità della cosa, stava tutta in confusione.

Rizzossi allora don Chisciotte, che impugnata la spada, cominciò a tirare stoccate contro la inferriata, e cominciò a esclamare:

— Fuori, maligni incantatori, fuori, canaglia stregonesca, che io sono don Chisciotte della Mancia, contro cui né valgono né hanno forza le vostre malnate invenzioni:” e voltosi ai gatti che balzavano per la camera tirava loro molte stoccate.

Essi presero la via dell'inferriata e per quella parte fuggirono, ma uno, troppo incalzato dalle percosse di don Chisciotte, gli si slanciò al viso e gli strinse le gote e il naso colle ugne e coi denti, in modo che, straziato e addolorato, diede le più forti strida che potesse mai. Ciò udito dai duchi, e considerando quello che poteva essere, volarono subito alla sua camera, ed aprendola con chiave maestra, trovarono il cavaliere alle prese, che a tutta forza tentava di staccarsi il gatto dal volto.

Portarono lumi, e veduta meglio la disuguale scaramuccia, andò il duca a spartirla, ma don Chisciotte gridava:

— Non sia chi lo allontani: lasciatemi combattere a testa a testa con questo demonio, con questo stregone, con questo incantatore, che io gli farò conoscere chi è don Chisciotte.”

Ma il gatto non curante di queste grida, digrignava e stringeva. Finalmente il duca lo staccò e gittollo fuori della finestra. Rimase don Chisciotte col viso punzecchiato, con le narici crivellate, pur tutto stizzito perché non gli avevano lasciato dar fine alla zuffa già tanto avanzata con lo incantatore malvagio. Fecero portare dell'olio di lucerna, e la stessa Altisidora colle sue mani bianchissime, gli pose una benda che coprì le ferite, e nell'adattarla, sotto voce gli disse:

— Tutte queste sciagure ti succedono, o crudele cavaliere, per lo peccato della tua durezza e pertinacia: e voglia Dio che Sancio Pancia tuo scudiere, si dimentichi di frustarsi, perché non segua mai più il disincantamento della tua Dulcinea, né tu possa mai gioire con lei, né guidarla al talamo, almeno finattantoché io continuerò ad adorarti.”

Altra parola non rispose don Chisciotte se non che trasse dal cuore un profondo sospiro, e poi si distese nel suo letto, ringraziando i duchi della loro assistenza; non perch'egli avesse timore di quella canaglia gattesca, incantatora e campanacciaia, ma perché aveva conosciuto la buona intenzione con cui erano venuti a dargli soccorsi. I duchi lo lasciarono riposare, e rimasero afflitti del mal successo di questa burla, che non avrebbero pensato mai che fosse per riuscire sì dolorosa al povero don Chisciotte.

Gli ebbe a costare la clausura nella sua camera e in letto per cinque interi giorni: nel corso dei quali altra più disgustosa avventura gli accadde, che il suo storico non vuol per adesso narrare, affine di andare a Sancio Pancia, il quale procedeva nel governo dell'isola Barattaria, molto sollecitamente e graziosamente.


CAPITOLO XLVII

 

SEGUITA IL RACCONTO DEL MODO CON CUI CONDUCEVASI SANCIO PANCIA NEL SUO GOVERNO.

 

L'istoria racconta che dal consiglio passò Sancio ad un superbo palazzo, dove trovavasi in magnifica sala allestito regio e sontuoso banchetto.

Appena Sancio vi mise il piede, che suonarono i pifferi, ed uscirono quattro paggi a dargli l'acqua alle mani, ricevuta da lui con molta gravità. Cessò la musica, si assise Sancio a capo di tavola, perché non eravi che una sedia sola ed un solo servito. Restò ritto accosto a lui un personaggio, che disse poi di essere il medico, tenendo una bacchetta di balena in mano.

Alzarono una ricchissima e bianca tovaglia, con cui stavano coperte le frutta e molte diversità di cibi e di manicaretti. Uno, che pareva studente, diede la benedizione, ed altro paggio mise un bavaglio trinato a Sancio; altro uomo che faceva lo scalco, gli mise davanti un piatto di ghiottonerie; ma non ne ebbe egli appena mangiato un boccone, che colui dalla bacchetta toccò il piatto con essa, e questo gli fu tolto via immantinente. Lo scalco gliene accostò un altro con altre vivande, e Sancio distese tosto la mano per assaggiarlo, ma prima che avesse potuto avvicinarlo alla bocca, già la bacchetta l'aveva tocco, e subito un paggio l'aveva portato via così presto come gli altri manicaretti. Sancio stette alcun poco sospeso, e poi guardando ognuno in viso, dimandò se quelle vivande si avevano a mangiare così, come se si trattasse di un giuoco di mano. Rispose quello della bacchetta:

— Non si ha a mangiare, o signor governatore, se non se osservando religiosamente il costume che tiensi nelle altre isole dove sono i governatori; io, o signore, sono medico e sono salariato in quest'isola per assistere in tal qualità i suoi governatori, ed avendo più cara la loro che la salute mia, studio notte e giorno, e vo scandagliando la complessione del governatore, per non isbagliarne la cura in caso di malattia. La principale cosa in che mi occupo, si è di assistere ai suoi pranzi e alle sue cene, e di non permettergli di non cibarsi se non di quelle cose che mi paiono convenirgli, vietando e levandogli dinnanzi tutto quanto io penso che possa essere nocivo al suo stomaco. Ed ecco la ragione per cui ho comandato che si levi via un piatto di frutta per essere soverchiamente umide, e così l'altra vivanda per essere soverchiamente calida e condita con molti ingredienti, che accrescono la sete; giacché l'uomo che beve assai pregiudica e consuma l'umido radicale in cui consiste la vita.

— E perché? disse Sancio.

— Perché, rispose il medico, il nostro maestro Ippocrate, tramontana e luce dell'arte medica, dice in un suo aforismo: Omnis saturatio mala, perdricis autem pessima; e  vuole inferire che pericolosa è ogni indigestione, ma pessima è quella delle pernici.

— Se così è, disse Sancio, considerate signor dottore, quale delle tante vivande che sono su questa mensa mi sia più confacevole e meno nociva, e lasciatemene mangiare tanto che io mi satolli, perché per la vita del signor governatore, che Dio me la preservi, io mi muoio di fame; ed il proibirmi che io mangi, perché ciò non va a sangue al signor dottore, ed il venire a rompermi la testa, egli non è pensare alla mia esistenza, ma alla mia morte.

— Vossignoria ha ragione, signor governatore, rispose il medico, ed ora ella potrebbe forse mangiare di quei conigli in guazzetto, ma non dee farlo perché è un mangiare peloso; potrebbe assaggiare di quella vitella, se non fosse arrosto e stuffata; e benché per un tantino non vi sarebbe gran male, è meglio astenersene affatto.”

E Sancio disse:

— Quel piattellone ch'è colà innanzi, e che manda fumo, mi pare che sia olla podrida, e tra la diversità delle cose con cui è composta, non può far di manco di non esservene alcuna che mi sia di gusto e di giovamento.

Absit, disse il medico; lungi, lungi da noi sì pessimo divisamento: non vi è piatto al mondo di peggiore nutrizione della olla podrida. Queste olle sono bocconi da canonici, da rettori di collegio o da nozze di contadini, ma stieno lontane dalle mense dei governatori, dove non dee trovarsi che pulizia e squisitezza: e la ragione si è che sempre e in qualunque luogo sono tenute in più gran conto e pregio le medicine semplici che le composte, perché nelle semplici non si può fallare, ma nelle composte si altera facilmente la quantità degl'ingredienti dei quali sono formate. Quello poi che io so che può mangiare adesso il signor governatore per conservare e corroborare la sue sanità, egli è una dozzina di cialdoncini e alcune fettuccine sottili di cotognata, che gli acconceranno lo stomaco e gli aiuteranno la digestione.”

Sancio, sentendo questo, si poggiò sulla spalliera della sedia, e si pose a guardare fisso fisso il medico, poi con voce grave gli domandò che nome avesse e dove avesse studiato.

— Io, rispose, o signor governatore, mi chiamo il dottor Pietro Rezio di Aguero, naturale di Tiratinfuora, paese che giace a mano diritta tra Carachel e Almadovar del Campo, ed ho grado di dottore nella università di Ossuna.”

Cui Sancio imbestialito disse:

— Orsù, signor dottore Pietro Rezio di male augurio, naturale di Tiratinfuora, che resta a mano diritta fra Charachel e Almadovar del Campo, graduato in Ossuna, toglietevi via di qua, se no giuro a Dio che do mano ad un bastone, e cominciando da voi caccerò via a bastonate tutti i medici di questa mia isola, o almeno tutti quelli che io sappia che sono ignoranti; poiché i medici savi, prudenti e discreti me li metterò sopra la testa, e farò loro onore come persone che esercitano un'arte soprannaturale. Torno a dire che vada di qua Pietro Rezio, altrimenti piglio questa sedia e gli spacco il cervello, e se poi sarò accusato al tribunale, saprò far conoscere che ho reso servigio a Dio coll'ammazzare un pessimo medico carnefice della repubblica; e se non la capiranno, si ripiglieranno questo governo, che non dà da mangiare al suo padrone, e che non vale due fichi secchi.”

Il dottore, sentendo la collera del governatore, impaurì e si turbò, e divisava di fare il Tiratinfuora dalla sala, se non che in quell'istante sonò sulla strada una cornetta da posta, ed affacciatosi lo scalco alla finestra, si alzò dicendo:

— Arriva un corriere del duca mio signore, che recherà per certo qualche dispaccio d'importanza. Entrò il corriere sudato e trangosciato, e tratto un piego dal seno, lo pose in mano al governatore, e Sancio lo passò in quelle del maggiordomo, cui comandò che leggesse la soprascritta, la quale diceva così: A don Sancio Pancia, governatore dell'isola Barattaria, in proprie sue mani o in quelle del suo segretario.

Sancio, udendo questo disse:

— E chi è questo mio segretario?”

Uno dei circostanti rispose:

— Sono io, o signore, perché so leggere e scrivere, e sono biscaino.

— Con questa aggiunta di biscaino, disse Sancio, potreste anche essere segretario dell'imperatore: aprite questo plico e ditemi il suo contenuto.”

Il segretario nato allora come un fungo, lesse e poi disse ch'era negozio da trattarsi con grande segretezza da solo a solo. Comandò Sancio che tutti sgombrassero dalla sala, eccetto il maggiordomo e lo scalco; sicché partirono tutti, ed anche il medico. Subito il segretario lesse la lettera che diceva così:

 

“Pervenne a mia cognizione, signor don Sancio Pancia, che alcuni nemici e miei e di codesta isola hanno a darvi un formidabile assalto, non so in che notte. Rendesi dunque necessario lo stare all'erta perché non vi acchiappino alla impensata. So ancora per mezzo di certe spie ch'entrarono in codesto paese quattro persone travestite per ammazzarvi, perché hanno paura del vostro molto cervello. Spalancate gli occhi e ponete mente sopra chi si sia che venga a parlarvi, e non mangiate un briciolo di tutto quello che vi è presentato. Io procurerò di soccorrervi se il pericolo si facesse sempre più brutto, ma intanto conducetevi nel modo ch'io mi riprometto dalla vostra buona testa.

Di questo luogo, ai 16 agosto a ore 6 di notte.

 

Vostro amico, Il Duca

 

Restò Sancio attonito davvero, mentre anche gli altri facevano le viste di essere in gran pensieri, e voltosi al maggiordomo disse:

— Quello che si deve fare subito, e farlo in questo punto, si è di cacciare in una sotterranea prigione il dottor Rezio, perché se vi è uno che voglia privarmi di vita, e darmi una pessima morte com'è la fame, è senza dubbio questo dottore.

— Sembrami per la stessa ragione disse lo scalco, che vossignoria nulla abbia a mangiar di tutto ciò che trovasi su questa mensa, perché le hanno presentate cose mascherate: e, come suol dirsi, dietro la croce si asconde il diavolo.

— Non nego, rispose Sancio, datemi dunque un pezzo di pane e quattro libbre all'incirca di uva, che in questi cibi non vi sarà veleno, perché in fatto io non posso poi durarla senza mangiare; e supposto che abbiamo a tenerci pronti per le battaglie dalle quali siam minacciati, bisognerà avere il ventre ben provvisto; perché le budella piene portano il cuore, e non già il cuore le budella. E voi, o segretario, rispondete al duca, e ditegli che si eseguirà quanto comanda, e presenterete da parte mia un baciamano alla mia signora duchessa, aggiungendo che è da me supplicata di non dimenticarsi di mandare per uno a posta la mia lettera e il mio fagotto a mia moglie Teresa Pancia, che le sarò obbligato: e in altro giorno le scriverò ancora, se avrò tempo: e di passaggio potete innestare nella risposta un baciamano al mio signor don Chisciotte della Mancia, perché conosca che io sono pane gradito; e voi, come buon segretario e buon biscaino, potete aggiugnere tutto quello che vi pare e che viene a proposito. Intanto sparecchino questa tavola, e mi dieno da mangiare, che poi me la saprò bene intendere io con quante spie, sicari e incantatori vogliano disturbare la quiete della mia isola.”

In questa entrò un paggio e disse:

— Gli è qua un contadino che brama di parlare alla signoria vostra per certo negozio che, a detto suo, è di somma importanza.

— Sono pure importuni, disse Sancio, questi negozianti! Com'è possibile che sieno tanto sciocchi da non conoscere che queste non sono ore da venire a negoziare? Come se noi altri governatori e noi giudici non fossimo uomini di carne, o non ci fosse indispensabile il tempo che richiedono i nostri bisogni! Credono forse che noi siamo fatti di pietra o di marmo? Oh in coscienza mia, che se dura questo governo (che per quanto prevedo non durerà) voglio fare impazzire più di un negoziante. Orsù, dite a cotesto buon uomo ch'entri: ma badate prima bene che non sia qualche spia o uno de' miei sicarî.

— Non può essere, rispose il paggio, perché egli mi pare un cristianaccio da nulla: non me ne intendo, o è buono come il buon pane.

— E poi non c'è di che temere, soggiunse il maggiordomo, ché noi siamo per qualche cosa.

— Dimmi, scalco mio, ripigliò Sancio, adesso che non è più qua il dottore Pietro Rezio, non potrei io mangiare qualche cosa di peso e di sostanza, e se non altro un pezzo di pane con una cipolla?

— Vossignoria si rifarà questa sera a cena del cattivo desinare, e resterà sazio e contento, disse lo scalco.

— Dio lo faccia, rispose Sancio.

Intanto entrò il contadino, ch'era di buon aspetto, e potea, anche lontano mille leghe, credersi uno zoticone alla buona. Le sue prime parole furono queste:

— Chi è qua il signor governatore?

— E chi ha da essere, rispose il segretario, se non se quegli che vedete ivi seduto magistralmente?

— Oh se è desso, disse il contadino, mi inchino alla sua presenza; e mettendosi ginocchioni gli prese la mano per baciargliela. Sancio non lo permise, e gli ordinò d'alzarsi e d'esporre il motivo della sua venuta. Così fece il contadino, e subito disse:

— Io, o signore, sono contadino, nativo di Miguel-Turra, paese lontano due leghe da città reale.

— E' ci mancava un altro Tiratinfuora, disse Sancio: dite pur su fratello, che conosco molto bene a palmo a palmo il paese di Miguel-Turra, ch'è poco lontano dal mio paese.

— Il caso è questo, o signore, continuò il contadino, che io per la misericordia di Dio mi sono ammogliato in pace e in seno della santa chiesa cattolica romana; ho due figli che studiano, il minore batte la strada del baccelliere e il maggiore quella del maestro, ma son vedovo perché mi morì la moglie, o, per dirla più giusta, me la ammazzò un cattivo medico, il quale le diede un purgante in tempo di gravidanza: e se fosse piaciuto a Dio che avesse partorito e mi avesse dato un figliuolo io lo avrei incamminato anch'esso a diventar dottore, e così non avrebbe avuto invidia dei suoi fratelli il baccelliere e il maestro.

— Dimodoché, disse Sancio, se vostra moglie non fosse morta o non l'avessero ammazzata, voi adesso non sareste vedovo.

— Signor no, non lo sarei, rispose il contadino.

— Siamo consolati per le feste, disse fra sé Sancio. Tirate innanzi, fratello, quantunque questa sia ora più da dormire che da trattare affari.

— Ora dico, soggiunse il contadino, che questo mio figliuolo che ha da essere baccelliere, s'innamorò nella terra medesima d'una donzella chiamata Chiara Perlerina, figliuola di Andrea Perlerino, contadino straricco; e questo nome non deriva in loro per discendenza o per altro casato, ma perché tutti quelli di tale stirpe sono perlatici; o negozianti di perle, e per migliorare il nome li chiamano Perlerini; ma se si ha da dire la verità, la donzella può rassomigliarsi ad una perla orientale; e guardata dalla parte destra sembra un fiore del campo, ma dalla parte sinistra non lo pare, perché le manca un occhio che le uscì fuora per il vaiuolo; per altro tuttoché le buche o margini del suo viso siano molte e larghe, non pertanto si dice da quei che le vogliono bene, che quelle non sono già buche, ma sepolture dove restano seppellite le anime dei suoi amanti. Ella è tanto pulita, che per non insudiciarsi il viso porta il naso rimboccato, come suol dirsi, e che pare proprio che vada fuggendo via dalla bocca; e contuttociò pare bella fuori di misura. Ella ha la bocca grande, e se non le mancassero dieci o dodici denti potria stare a petto delle più ben formate; non parlerò delle labbra, che sono delicate e sottili, tanto che se si usasse innasparle potrebbesi fare di esse una matassa; ma perché il loro colore è diverso da quello che nelle labbra si usa comunemente, hanno un non so che di miracoloso, essendo brizzolate di turchino, di verde e di pavonazzo oscuro. Mi perdoni il signor governatore se vo dipingendo minutamente tutte le parti di quella che alla fin fine ha da essere mia figliuola; perché io poi gli voglio bene, ed a me non par brutta.

— Dipingetela pure quanto vi piace, soggiunse Sancio, che io mi vo ricreando della pittura, e questo vostro ritratto mi avrebbe potuto tener luogo di un piatto di frutta saporite se adesso avessi desinato.

— Troppo favore vossignoria mi fa, rispose il contadino, ma verrà tempo che saremo qualche cosa a questo mondo, se ora non siamo considerati per niente. Dico dunque, signor governatore, che se potessi dipingervi la sua gentilezza e la sua alta statura, farei vedere cosa degna di maraviglia, ma non lo fo perché la poveretta è gobba e aggomitolata, ed ha le ginocchia accanto alla bocca; tuttavia si conosce che se potesse levarsi su daria col capo nel tetto; e di già avrebbe dato la mano di sposa al mio baccelliere, ma il male è che non la può distendere, ch'è rattratta, e in ogni modo nelle ugne lunghe e accannellate si scorge la sua bontà e la sua bella disposizione.

— Tutto andrà bene, disse Sancio, ma fate conto di averla già esattamente dipinta dai piedi sino alla testa: che cosa volete voi ora da me? venite alla conclusione senz'altri rigiri, chiassuoli, andirivieni, ritagli e aggiunte.

— Vorrei, o signore, rispose il contadino, che vossignoria mi facesse il favore di darmi una lettera di raccomandazione pel mio suocero; pregando che gli piaccia di fare che segua questo matrimonio: perché non vi è disparità fra noi né rispetto ai beni di fortuna né rispetto alla prosapia: e se ho a dirle il vero, signor governatore, mio figlio è mezzo spiritato, e non passa giorno che tre o quattro volte i maligni spiriti non lo tormentino: e per essere caduto una volta nel fuoco ha il viso tutto grinzo come carta pecora bagnata, e gli occhi un poco cispi e lagrimosi; per altro ha una bontà d'angelo, e se non fosse che qualche volta si percuote e si dà delle pugna di per sé solo, sarebbe un'anima benedetta.

— Volete altro, buon uomo? — replicò Sancio.

— Altra cosa bramerei, ma non mi arrisico a domandarla; pure la dirò, che finalmente non mi si ha da marcire nello stomaco, attacchisi o non si attacchi. Io dico dunque che vorrei che vossignoria mi desse trecento o seicento ducati per aiuto della dote del mio baccelliere; li domando perché possa aprire casa da sua posta, e in questo modo non istare soggetto alle impertinenze dei suoceri.

— Guardate se altro vi occorre, disse Sancio, né restate a dirlo né per rossore né per vergogna.

— Io non ho certamente altro, rispose il contadino.” Non aveva proferite appena queste parole che rizzatosi il governatore die' di piglio alla sedia su cui stava seduto, e disse:

— Giuro a Dio, villano zotico e impertinente, che se non ti levi di qua e non ti ascondi dalla mia presenza, ti spacco la testa con questa sedia che ho in mano. Furfantone, pittore di quanti diavoli sono all'inferno, e ti dà l'animo di venire a quest'ora a dimandarmi seicento ducati? e dove vuoi tu che io li abbia, pezzo di animale? e quand'anche li avessi, per qual titolo ho io a darli a te, o golponaccio? che importa a me di Miguel-Turra e di tutta la razza dei Perlerini? Levati di qua, replicò, o ch'io per la vita del duca mio signore, metto in esecuzione quello che ho detto. Tu non sei certamente nativo di Miguel-Turra, ma sì bene qualche furbo di prima classe mandato qua dall'inferno per tentarmi. Non è appena un giorno e mezzo ch'io sono governatore, e come vuoi, mal cristiano, che io abbia ammassati seicento ducati?”

Lo scalco fe' cenno al contadino che se n'andasse pei fatti suoi, ed egli uscì fuora col capo chino, e, per quanto pareva impaurito che il governatore non isfogasse la sua collera e le sue minacce; e così il vigliaccone seppe fare molto bene il suo ufficio.

Ma lasciamo pure Sancio colle sue smanie; diamoci pace, e torniamo a don Chisciotte, che rimasto era colla faccia bendata e medicato delle gattesche ferite, dalle quali non risanò che in otto giorni. In uno di questi gli accadde quello che Cide Hamete promise di raccontare con la esattezza e verità con cui usa di esporre le cose tutte toccanti la istoria presente, per quanto siano minute.


CAPITOLO XLVIII

 

DI CIÒ CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE CON DONNA RODRIGHEZ, MATRONA DELLA DUCHESSA, CON ALTRE VENTURE DEGNE DI ESSERE SCRITTE E CONSERVATE PERPETUAMENTE.

 

Tristo e malinconico se ne stava tuttora il mal ferito don Chisciotte col viso bendato e segnato non già dalla mano della natura, ma sì ben dalle ugna di un gatto: disgrazie inseparabili dalla errante cavalleria! Sei giorni egli spese in rigoroso ritiro; ma una notte mentre stava pensando alle sue sventure ed alla persecuzione di Altisidora, sentì che aprivasi con chiave la porta della sua camera. Immaginò subito che la innamorata donzella venisse a tentare la sua pudicizia, ed a metterlo in procinto di mancare alla fede dovuta alla sua signora Dulcinea del Toboso.

— No, disse a gran voce, credendo vera la sua supposizione, no, non può la più rara bellezza della terra distogliermi dall'adorare colei che porto incisa e stampata in mezzo al mio cuore e nel più segreto delle mie viscere: sii tu pure, signora mia, o trasformata in cipolluta contadina o in ninfa del dorato Tago, tessendo tele di oro e di seta, o ti tengano Merlino o Montésino dove loro piace, ché dovunque ti troverai sarai mia, e tuo sarò in ogni luogo ove mi porta il destino.

Il terminare queste parole e l'aprirsi della porta, fu un punto solo: si rizzò egli sopra il letto, tutto ravviluppato in una coltre di raso giallo, con cuffia in testa, col viso tutto fasciato per cagione dei graffi e colle basette ancora incartocciate affinché stessero ritte. In tale arnese compariva la più strana fantasima che figurare si possa.

Fissò gli occhi verso la porta, e quando attendevasi di veder entrare la vinta e desolata Altisidora, scorse venire una reverendissima matrona, coperta di veli bianchi dal capo ai piedi. Portava fra le dita della mano sinistra mezza candela accesa, e colla destra faceasi ombra perché gli occhi non avessero disagio, quantunque armati fossero di un bel paio di occhiali.

Ella veniva piano piano sulla punta dei piedi e nel più alto silenzio. La adocchiò don Chisciotte, e quando poté ravvisare la sua acconciatura e notare la sua taciturnità, si fece a credere che qualche fattucchiera o maliarda si recasse ivi a quel modo per comporre alcuna stregheria; perloché cominciò a farsi frequenti segni di croce.

La visione andava a poco a poco accostandosi a lui; e giunta alla metà della stanza alzò gli occhi, e si accorse di quei segni di croce che frettolosamente facevasi don Chisciotte. S'egli impaurì nel vedere tale figura, non minore spavento ebb'ella nel raffigurare quella di lui; e nel ravvisarlo sì lungo e macilento con la coltre e le bende che lo sfiguravano, mandò un grido esclamando: Gesù, che veggo io mai? ed ebbe tal batticuore che le fe' cadere la candela di mano.

Rimasta all'oscuro, voltò le spalle per andarsene, ma la paura la fece inciampare nelle falde del suo vestito, e diede un sonoro stramazzone per terra. Don Chisciotte atterrito si fece a dire:

— Io ti scongiuro, o fantasima, o che altro tu sia, che tu mi dica quello che vuoi da me. Se sei anima in pena, dimmelo, che mi adoprerò per tuo vantaggio con tutte le mie forze, perché sono cattolico cristiano ed amico di operare il bene a pro di tutto il mondo: a cotesto fine ho abbracciato l'ordine dell'errante cavalleria che professo, l'esercizio della quale si estende al segno di fare del bene anche alle anime del purgatorio.

La matrona che sentì scongiurarsi, arguì dalla sua propria la paura di don Chisciotte, e con voce bassa e dolente rispose:

— Signor don Chisciotte, se la signoria vostra è don Chisciotte, io non sono fantasima, né visione, né anima del purgatorio, ma sono donna Rodrighez, la matrona di onore della mia signora duchessa che vengo da vostra signoria per una di quelle necessità alle quali voi solo potete apportare rimedio.

— Ebbene, signora donna Rodrighez, soggiunse don Chisciotte, vien'ella per avventura da me come ignobile mezzana degli altrui amori? se così fosse perderebbe tutto il suo tempo, ché io non mi adopro per chi si sia quando si eccettui la senza pari bellezza della mia signora Dulcinea del Toboso; dunque, signora donna Rodrighez, o in questa vostra visita date bando ad ogni proposizione amorosa o potete tornare ad accendere la vostra candela e trattenervi meco di cose nelle quali io possa obbedirvi, eccettuato sempre ogni discorso e ogni gesto incitativo di amore.

— Son io forse donna, disse la matrona, di venir a fare tali proposizioni? Mi conosce pur male il signor don Chisciotte se non vede ch'io sono giunta ad età tanto avanzata da non volere certamente dar retta a queste complicità; e, lodato Dio, mi sento ancora vigore nelle carni, ed ho tutti i miei denti e i mascellari in bocca, tranne alcuno corroso per causa di quei catarri che regnano in questa terra di Aragona. Ma mi aspetti un poco vossignoria, che vado a riaccendere il lume e tornerò in un baleno a raccontare a lei le mie peripezie, a lei che sa rimediare a tutte quelle che accadono nel mondo.”

Senz'attendere altra risposta uscì dalla camera dove restò don Chisciotte aspettandola tutto quieto e pensieroso. Gli sopravvennero subito mille pensieri analoghi a questa nuova ventura; e sembravagli cosa malfatta e peggio pensata il cimentarsi di rompere la fede promessa alla sua dama, e andava dicendo fra se stesso:

— Chi sa che il diavolo, ch'è sottile ed astuto, non voglia farmi cadere sedotto da una matrona, quando non hanno prima potuto riuscirvi né imperatrici, né regine, né duchesse, né marchesane, né contesse! In questi casi meglio è fuggire che aspettare la battaglia: ma già mi trasecolo con me medesimo come badare io possa a stramberie di questa fatta, quando non fia mai possibile che una matrona bianco velata, lunga e occhialata possa destare e introdurre disonesti pensieri anche nel più effeminato petto del mondo. Evvi egli per avventura matrona che abbia buone carni? Evvi matrona che non sia impertinente, schizzinosa e piena di smancerie? Lungi, lungi da me, matronesca genia; ché tu non puoi apprestare alcun umano conforto; e la pensava pur bene quella signora la quale dicono che tenesse due matrone di cera con i loro occhiali e cuscini da cucire fingendo che stessero lavorando, e tanto le servivano per decoro della sala quelle due statue come le vere matrone!”

E detto questo, balzò dal letto con animo di chiudere la porta e non permettere l'ingresso alla signora Rodrighez; ma in quel punto eccola di ritorno con candela accesa di cera bianca. Quando ella vide più da vicino don Chisciotte rivolto nella coltre, con le bende, la cuffia, e il berretto fu colta di nuova paura, e, dati due passi indietro, disse:

— Sarò io poi sicura, signor cavaliere! L'essere vossignoria balzato dal letto non è molto buon indizio di onesto divisamento.

— Quest'è quello ch'è bene che io dimandi alla signoria vostra, rispose don Chisciotte, e voglio sicurtà di non essere assalito o sforzato.

— Da chi e a chi, disse la matrona, domandate voi, o signor cavaliere questa sicurtà?

— Da voi ed a voi, replicò don Chisciotte ché io non sono di marmo né voi di bronzo, né sono adesso le dieci della mattina, ma la mezzanotte ed è anche passata, e stiamo in una camera più rimota e segreta di quello che potesse essere la grotta dove l'ardito e traditor Enea si trovò colla bella e pietosa Didone. Ma datemi, signora, la vostra mano; ché altra guarentigia non voglio che abbiate maggiore di quella della mia continenza e di quella che posson darmi cotesti vostri reverendissimi veli:” e ciò detto le baciò la mano diritta, e le presentò la sua ch'essa ricevette con le medesime cerimonie.

Qui Cide Hamete fa una parentesi, e giura per Macometto che avrebbe pagato la migliore delle due giubbe ch'egli aveva, per vedere quei due presi per mano ed avviati dalla porta al letto. Andò don Chisciotte a giacere, e restò donna Rodrighez seduta su di una sedia un po' lontanetta senza mai cavarsi gli occhiali né riporre la candela. Don Chisciotte si accoccolò e si coprì tutto, altro non lasciando visibile fuorché la faccia, ed essendo ambedue messi in calma, il primo a rompere il silenzio fu don Chisciotte, che disse:

— Può adesso la signoria vostra, signora donna Rodrighez, sgozzarsi e buttare fuori quanto rinchiudesi nel suo misero cuore e nelle sue viscere sconsolate: ché con castissime orecchie da me sarà ascoltata, poi se fia d'uopo sovvenuta con pietose opere.

— E tanto io mi prometto, rispose la matrona; né altro doveva attendermi che sì cristiana risposta dalla bella presenza di vossignoria. Fatto sta, signor don Chisciotte, che quantunque la signoria vostra mi vegga seduta su questa sedia e in mezzo al regno di Aragona e in abito di matrona annichilata e traviata, nativa io sono delle Asturie di Oviedo e di un lignaggio che sorpassa i migliori di quella provincia. La trista mia sorte e la noncuranza de' miei parenti, che impoverirono innanzi tempo e senza saperne il come, mi trassero alla corte di Madrid, dove per mia maggior quiete e per sottrarmi a più terribili disgrazie i miei genitori stessi mi misero a servire una grande signora in qualità di donzella di lavoro; e voglio che vossignoria sappia che in materia di fare orli a spino ed altre opere di biancheria non vi fu mai chi mi abbia messo piede innanzi in tutto il corso della mia vita. I genitori dunque lasciandomi in quel servigio, tornarono alla loro patria, e dopo qualche anno salirono al cielo, come buoni cristiani ch'essi erano. Rimasi orfana e col solo appoggio di quella scarsa e stentata mercede che suole dai signori assegnarsi alle donzelle della nostra condizione; e in tanto (senza ch'io dessi il minimo motivo) s'invaghì di me uno scudiero di casa, uomo attempato, di gran barba e d'austero aspetto, nobile come il re, perché era montagnese. Non furono i nostri amori condotti con tale riserbatezza che non giungessero a cognizione della padrona; la quale per ovviare ogni contrasto ci maritò in santa pace e in grembo della santa madre Chiesa; e da questo matrimonio nacque una figliuola per mettere a guasto ogni mia ventura seppure io ne avessi alcuna. Non dico questo perché avessi sofferte eccessive doglie nel parto; ché anzi fu prospero e in tempo maturo: ma perché poco tempo dopo morì il mio sposo per certo spavento ch'egli ebbe, e che se avessi tempo di raccontarlo, vossignoria ne resterebbe maravigliato.”

E qui cominciò a piangere amaramente e soggiunse:

— Mi perdoni la signoria vostra, signor don Chisciotte, se non so più frenarmi, né posso trattenere le lagrime, ricordandomi la sventura dell'acerba morte del povero mio marito. Ah se veduto avesse vossignoria con che sussiego egli guidava la mia signora in groppa di una gran mula nera come l'inchiostro, che non si usavano allora né cocchi né lettighe come adesso, ma le signore andavano in groppa dei loro scudieri. Non posso tralasciare di raccontarvi almanco un caso solo perché notiate la bella creanza e la puntualità che adornavano il mio buon marito. All'entrare nella strada di San Jacopo di Madrid, ch'è alquanto stretta, stava per isboccare da essa un Alcade con due sgherri dinanzi, e nol vide appena il mio buon scudiere che voltò le redini alla mula per accompagnarlo. La padrona che andava in groppa, sotto voce gli stava dicendo: Che fate voi disgraziato? non vedete voi che io sono qui ancora? L'Alcade per creanza ritenne la briglia del suo cavallo e disse: Continuate, o signore, la vostra strada, ch'io resto qui per accompagnare la mia signora donna Casilda, ché così chiamavasi la mia padrona. Mio marito stava nulla di meno col cappello in mano, ed insisteva di voler seguitare l'Alcade. La padrona allora tutta sdegnata, e inviperita, cavò fuori dallo astuccio uno spilletto grosso, o puntaruolo che fosse, e lo ficcò nel fianco del mio povero marito con tanta forza ch'egli diè un grido, contorse il corpo e precipitò in terra colla padrona. Corsero due staffieri a rialzarla, e vi si presentarono pure l'Alcade e gli sgherri: ma intanto si sollevò tutta la porta di Guadalasciara, che vale a dire tutti gli oziosi e scioperati di quella contrada, e fu condotta a casa la mia padrona mentre che mio marito pensò a rifuggirsi presso un barbiere, dicendo che gli erano stati perforati gl'intestini. La creanza del mio marito si divulgò da per tutto che sino i ragazzi per le strade gli davano la burla, e sì per questo e sì perché era corto di vista, la mia signora lo licenziò; ciò che senza dubbio è stato causa della sua morte. Io sono rimasta vedova, senz'appoggio con una figlia sopra le spalle che andava crescendo in bellezza come la spuma del mare; finalmente, godendo io fama di singolare abilità nei lavori, piacque alla mia signora duchessa, che erasi di recente fatta sposa al duca mio signore, di condurmi con lei in questo regno di Aragona unitamente alla mia figliuola, dove col tempo crebb'ella coll'ornamento di tutte le grazie. Essa canta come un'allodoletta, danza leggera come il pensiero, legge e scrive come un maestro di scuola, e sa far conti come un avaro. Non dico niente della sua pulitezza perché non è tanto chiara e monda l'acqua corrente; e deve adesso contare, se non m'inganno, sedici anni, cinque mesi e tre giorni, uno più uno meno. Ora sappia, che s'innamorò di questa mia figliuola il ragazzo di un contadino ricchissimo che abita in una villa del duca mio signore non molto di qui lontana; ed io non saprei adesso dire né il come, né il quando, né il dove, ma la mia figliuola fu tradita da lui col pretesto di farla sposa; ed ora poi non si vuole mantenere più questa promessa. Ne ho informato il mio signor duca, e le ho portate le mie lagnanze, non una ma cento volte, e l'ho pregato che obbligasse il contadino a sposare la ragazza; ma egli fa le orecchie del mercadante, né si degna quasi ascoltarrni. Tutto questo nasce perché il padre del traditore è ricchissimo, e gli presta danari, e ad ogni poco entra in sicurtà de' suoi imbrogli; ed egli perciò non vuole disgustarlo né recargli ombra di fastidio. Ora io vorrei, o signore mio, che vossignoria pigliasse sopra di sé il disfare questo torto per prieghi o coll'arme, poiché tutto il mondo dice che vossignoria è nata per disfare, o drizzare i torti, ed ai miserabili dare aiuto, consideri l'orfanella della mia figliuola, la sua gentilezza, la sua gioventù con tutte le buone parti che ho dipinte; e posso giurare sulla mia coscienza che nessuna delle tante donzelle che si trovano al servigio della mia signora, è degna di baciare le suola delle scarpe alla mia: ed una poi di esse, che chiamasi Altisidora, quella appunto che tengono per la più ardita e galante, in paragone di mia figlia non l'arriva a due leghe. E sappia vossignoria che non è tutt'oro quello che luce; perché questa Altisidoruccia è più prosuntuosa che bella, più ardita che onesta, e poi non è molto sana, ed ha l'alito noioso a segno che non si può starle accanto un momento, ed anche la mia signora duchessa... ma non voglio parlare altro perché si suol dire che anche le mura hanno gli orecchi.

— E che mai, per vita mia, disse don Chisciotte, ha ella la mia signora duchessa? ditemelo, donna Rodrighez.

— Alla vostra dimanda, rispose la matrona, mi è forza rispondere con ogni candore. Vede vossignoria, signor don Chisciotte, la beltà della mia signora duchessa? quel luccichio del suo viso che pare proprio una spada imbrunita e tersa? quelle due guancie di latte, e di lacca, in una delle quali sta il sole, nell'altra la luna, e quella vivacità con cui va calpestando, e (sto per dire) disprezzando il terreno, che par veramente che vada spargendo salute per tutto ove passa? Ora sappia la signoria vostra che di tanto ella può in prima ringraziare Dio e poscia due rottorii che ha nelle gambe, per dove si scarica tutto quell'umore malsano di cui asseriscono i medici che è ripiena.

— Santa Maria! disse don Chisciotte, com'è possibile che la mia signora duchessa abbia tali smaltitoi? non lo avrei creduto se pur me ne avesse assicurato un frate scalzo; ma così debb'essere pur troppo, poiché la signora donna Rodrighez lo dice. Questi rottorii per altro posti in siffatti luoghi non debbono distillare umori infetti ma liquid'ambra; e tanto più mi confermo nell'opinione che il far rottorii debba essere cosa importantissima per la salute.”

Terminò appena don Chisciotte di così parlare che fu aperta da forte colpo la porta della camera, e pel tremore della grave percossa cadde la candela di mano a donna Rodrighez, e rimase la stanza buia quanto la bocca di un forno. La povera matrona si sentì sul fatto afferrare con due mani per la gola sì fortemente che le veniva impedito il respiro, e sul fatto stesso altra persona senza proferire parole le alzò i panni e con una pianella cominciò a darle tante e tante picchiate ch'era una compassione. Benché don Chisciotte sentisse tutto, non però si moveva dal suo letto, né sapendo quel che avvenisse stavasene immobile e silenzioso per timore che non assoggettassero lui pure ad un carico e scarico di frustate.

E questo timore non fu mal fondato, perché quei taciturni carnefici dopo aver tutta pesta la matrona, che non osava mandare uno zitto, si appressarono a don Chisciotte, e levandogli dattorno il lenzuolo e la coltre lo pizzicarono sì per minuto e con tale veemenza ch'egli non poté far a meno di far ricambio coi pugni; e tutto questo seguiva con maraviglioso silenzio. Durò la battaglia pressoché mezz'ora; poi se ne andarono le fantasime, e donna Rodrighez si ravviò i panni, e gemendo sulla sua sciagura uscì fuora senza dir altro a don Chisciotte; il quale doglioso, pizzicato, confuso e immerso in alti pensieri rimase solo.

Noi lo lasceremo con la smania di sapere chi fosse il perverso incantatore che a tale lo aveva ridotto; ma ciò si dirà a suo tempo: ché Sancio Pancia ci chiama, e il buon ordine della istoria esige che ci volgiamo a lui.


CAPITOLO XLIX

 

NARRASI CIÒ CHE AVVENNE A SANCIO PANCIA VISITANDO LA SUA ISOLA.

 

Noi abbiamo lasciato il gran governatore molto irritato e malcontento per causa del contadino impostore e imbroglione, il quale era indettato dal maggiordomo e questi dal duca per darsi buon tempo alle spalle del povero Sancio.

Egli però non lasciavasi vincere da alcuno, tuttoché rozzo, zotico e grossolano; e così disse a quelli ch'erano seco e al dottore Pietro Rezio, il quale (come ebbe fine il segreto della lettera del duca) era tornato in sala.

— Ora sì, che sono veramente in istato di poter concludere che i giudici e i governatori sono, o debbono essere di bronzo per non sentire le importunità dei negozianti, che ad ogni ora e in ogni tempo, pensando solo al proprio vantaggio, vogliono essere uditi e sbrigati, nasca quello che sa nascere; che se il povero giudice non li ascolta e disbriga, o perché non può o perché non è opportuno il tempo di dar loro udienza, tosto lo maledicono, mormorano, gli tagliano i panni addosso e vanno dissotterrando e scardassando le sue genealogie. O negoziante sciocco, negoziante scimunito, non ti affrettare tanto, attendi che il tempo e le circostanze ti offrano comodità di fare negozi: non presentarti all'ora del pranzo né a quelle del dormire, che i giudici sono di carne e ossa, e debbono anch'essi concedere alla natura quello che essa esige. Ben è vero che io non do alla mia il suo bisogno per cagione del signor dottore Pietro Rezio Tiratinfuora che mi sta dinanzi, il quale vorrebbe farmi morir di fame ostinandosi a dire che questa morte è vita; e così sia per lui e per tutti quelli della sue razza: e ripeto che intendo dei cattivi medici, che quanto ai buoni si può riserbar loro una palma.”

Restavano ammirati tutti quelli che conoscevano Sancio Pancia udendo sì spiritosamente parlare, né sapevano altro pensare se non che gli uffizi e le cariche di somma importanza raddrizzano o storpiano l'umano intendimento. Finalmente il dottore Pietro Rezio Agurio di Tiratinfuora promise di apprestargli per quella sera la cena, quantunque con ciò trasgredisse le regole ed i precetti degli aforismi tutti d'Ippocrate.

Questa promessa soddisfece il governatore, che molto ansioso attendeva la sera e l'ora del refiziarsi: e tuttoché a parer suo il tempo se ne stesse immobile senza scorrere pur un minuto, contuttociò arrivò finalmente il punto tanto da lui bramato nel quale gli apparecchiarono un piccatiglio o carne battuta di vacca con cipolle e con un paio di zampe di vitella attempata. Egli vi si buttò addosso con maggior gusto che se gli avessero dato francolini di Milano, fagiani di Roma, vitelle di Sorrento, pernici di Morone o paperi di Lavascios.

Mentre stava cenando, voltandosi al dottore, gli disse:

— Avvertite, signor dottore, di non lasciarvi d'ora innanzi cadere in mente di somministrarmi né vivande delicate né squisiti manicaretti; perché sarebbe uno stravolgere il mio stomaco accostumato a nutrirsi di capra, di bue, di prosciutto, di carne salata, di rape e di cipolle. Il volermi costringere a cibi e vivande signorili egli è rendermi schizzinoso e produrmi anche la nausea. Tutto ciò che può fare lo scalco si è di presentarmi di quelle che si chiamano olle podride, che quanto più sono podride tanto meglio per me; ed in esse può frammischiare tutto ciò che vuole, purché sia cosa da mangiare, che io gliene avrò obbligo, e potrà essere che un dì o l'altro io lo ricompensi. E nessuno burli con me perché o siamo o non siamo governatori: viviamo pure tutti e mangiamo in santa pace e in ottima compagnia, che quando Iddio manda il sole lo manda per ognuno. Io governo quest'isola senza perdere quel diritto che mi si compete e senza pigliare più di quello che mi si appartiene: ora ognuno stiasi in cervello, e abbia occhi in testa, perché io gli fo sapere che il diavolo è sottile, e che se sarò provocato farò vedere cose di stupore; che non si ha a fare il miele perché venga mangiato dalle mosche.

— Per certo, signor governatore, disse lo scalco, vossignoria ha tutta la ragione in ciò che dice; ed io guarentisco in nome di tutti gli abitatori di quest'isola che obbediranno a vossignoria con ogni puntualità e amore e benevolenza, perché il soave modo di governare che la signoria vostra ha mostrato in questi primordii, non dà luogo di fare o pensare cosa che ridondi in di lei mal servigio.

— Lo credo bene, rispose Sancio: e sarebbero una mano d'ignoranti se pensassero ed operassero diversamente: ripeto che abbiasi cura del mio sostentamento e di quello del mio leardo, ch'è ciò che più m'importa e fa più al caso mio; e se adesso è l'ora a proposito andiamo a rondare: giacché è mia intenzione di tener monda quest'isola da ogni genere di sozzure e di gente vagabonda, scioperata ed oziosa. Voglio che sappiate, amici miei, che la gente raminga o infingarda è nelle repubbliche come le cattive api negli alveari, che mangiano il miele lavorato dalle pecchie industriose. Io poi nel mio governo voglio aiutare i contadini, mantener intatti ai cittadini i loro privilegi, premiare i virtuosi, rispettare la religione, onorare i suoi ministri. Che vi pare, o amici di questi miei proponimenti? Se sono buoni, credete voi che gitterò la lisciva e il sapone?

— Vossignoria parla con tanto criterio, disse il maggiordomo, che pare impossibile che da un uomo che non sa leggere né scrivere possano scappar fuori sentenze e avvertimenti sì diversi da ciò che si aspettavano quelli che ci hanno mandato qua, e noi altri che ci siamo venuti. Ogni dì si vedono cose nuove nel mondo; le burle si convertono in verità, gl'ingannatori si trovano ingannati.”

Giunse la notte, ed il governatore cenò con licenza del signor dottore Rezio. Allestita poi ogni cosa per la visita dell'isola, uscì egli accompagnato dal maggiordomo, dal segretario, dallo scalco e dall'istorico che aveva la cura di registrare tutte le sue gesta. Lo seguitarono pure gli sgherri, e notai in tanto numero che potea formarsene uno squadrone.

Camminava Sancio nel mezzo colla bacchetta del comando in mano, che era un contento il vederlo; e scorse ch'ebbero poche strade della Terra, udirono un fracasso di gente che quistionava. Volarono subito a quel luogo, e trovarono due uomini a duello, i quali, vedendosi sorpresi dalla giustizia, non si mossero, ma uno di loro si fece a dire:

— Ognuno stia quieto; come si ha a tollerare che in questo paese i ladri rubino di bello mezzogiorno, ed escano ad assassinare in mezzo alla pubblica strada?

— Fermatevi, galantuomo, disse Sancio, e raccontatemi il motivo di questa contesa, ché io sono governatore.”

L'uno dei due disse:

— Signor governatore, gliela conterò io e alle brevi: saprà vossignoria che costui ha vinto, poco fa, nella casa di bisca che sta qui dirimpetto, più di mille reali, e chi sa in che maniera; e trovandomi io presente ho giudicato più di un punto dubbioso in suo favore contro a tutto quello che mi dettava la coscienza. Vedendo egli di aver fatto un buon guadagno si alzò per andarsene quando io mi aspettava qualche premio dovuto alle persone autorevoli come sono io, e che stanno al bene e al male per aiutare i torti ed evitare le liti; ma egli intascò i suoi danari e uscì di casa. Io gli tenni dietro subito, e con buone e cortesi parole gli chiesi che mi desse almeno otto reali sapendo che io sono persona onorata, e che non ho arte né parte; perché i miei non me l'hanno insegnate; ma il birbante, che non è manco ladro di Caco né manco mariuolo di Andadiglia, non voleva darmi più di quattro reali; sicché noti, signor governatore, che razza di coscienza ha costui: ma certo che se non arrivava qua vossignoria io gli avrei fatto vomitare il guadagno, e gli avrei insegnato il modo di procedere coi miei pari.

— E voi che ne dite? domando Sancio all'altro.

E questi rispose ch'era vero quanto il suo avversario diceva, ma che non gli aveva offerto se non quattro reali, perché spesso gliene dava altrettanti, e quelli che stanno sulle vincite debbono essere facili e corrivi, e pigliare con viso allegro quanto viene dato loro senza mettersi in lizza con coloro che giuocano, quando non sappiano con certezza che sono barattieri, e che il guadagno è male acquistato. A prova poi ch'egli era onest'uomo, e non ladro, come diceva colui, gli pareva di non dovergli dar nulla; ché sempre i mariuoli sono tributarii degli speculatori di questa razza.

— E la cosa è per appunto così, disse il maggiordomo, sicché la signoria vostra, signor governatore, decida ciò che si dee fare di questi uomini.

— Ecco quello che si dee fare disse Sancio; voi che avete vinto, siate pure di buona o di cattiva fede, o indifferente, pagate subito a questo vostro avversario cento reali, e di più vi condanno a sborsarne trenta a vantaggio dei poveri che stanno in carcere; e voi che non avete arte né parte, e andate a zonzo per quest'isola, siate bandito e per tutto dimani fate di andarne fuori senza potere più tornare per dieci anni, sotto pena che se rompete il confine abbiate da finirlo all'altra vita; perché io vi farò mettere alla berlina, e poi vi consegnerò al boia io medesimo: e nessuno zittisca, altrimenti saprò punirlo col rigore delle leggi.

L'uno contò il denaro, l'altro lo ricevette; partì questi dall'isola, tornossi quello a casa sua, e il governatore restò quivi dicendo:

— O io non ho facoltà, o se la ho, voglio distrutte queste case di giuoco, le quali, per quanto vado conoscendo, sono assai pregiudichevoli.

— Quella però in cui furono questi galantuomini, disse allora un notaio, non potrà farla dimettere, mentre n'è proprietario un gran signore, ed è senza paragone molto più quello che egli perde in capo all'anno che quello che egli guadagna. Vossignoria potrà mostrare la sua autorità contro i perdigiorno di vile razza plebea, ch'è quella che fa maggior danno ed è più scostumata, ma non contro le persone di grado distinto fra cui i famosi mariuoli non osano di mettere in campo le loro trame. E poiché il giuoco si è convertito in un esercizio comune, è meglio che segua nelle case ragguardevoli piuttostoché in quelle di qualche artigiano dove acchiappano l'incauto da mezzanotte in giù, e lo scorticano.

— Notaio mio, disse Sancio, molto ci sarebbe da dire su questo proposito.”

Arrivò intanto uno sgherro che conduceva legato un giovane, e disse:

— Signor governatore, costui se n'andava per la strada medesima da noi battuta; ma non iscorse appena la giustizia che voltò le spalle, e si diede a fuggir come un daino: segno ch'è qualche delinquente. Io l'ho inseguito, e se non fosse ch'egli inciampò e cadde, non l'avrei raggiunto mai più.

— E perché fuggivi tu, galantuomo? dimandò Sancio.

— Per sottrarmi, questi rispose, alle perquisizioni che suole fare la giustizia.

— Quale è la tua professione?

— Il tessitore.

— E che vai tessendo?

— Ferri di lancia, con buona licenza di vossignoria.

— Oh sei grazioso! e' ti piace di fare il buffone: va bene: e dove andavi adesso?

— A pigliare un po' d'aria fresca, o signore.

— E dove si piglia in quest'isola?

— Dove soffia.

— Bravo, mio giovinotto: tu rispondi molto a proposito, e si vede che sei giudizioso: fa dunque conto adesso che io sia l'aria che ti soffia in poppa, e però t'incammino e mando alla prigione. Pigliatelo olà, e menatelo via, poiché intendo che in questa notte dorma in luogo che non abbia aria fresca.

— Oh corpo di... tanto potrà vossignoria farmi dormire in prigione come farmi re.

— E perché non ti potrò io far dormire in prigione? non è forse in arbitrio mio il prenderti e liberarti come e quando mi piace?

— Per quanto si estenda il suo potere, ella non sarà mai da tanto da farmi dormire in prigione.

— E come no? menatevelo subito, disse Sancio agli sgherri; e vedremo se io dico da vero o no: e se mai il bargello volesse con costui usare di qualche liberalità per suo interesse, e lo lasciasse fare un passo solo fuori della carcere, pagherà duemila ducati di multa.

— Tutto questo è da ridere disse il giovinotto: il fatto sta che non mi faranno dormire in prigione quanti uomini oggidì vivono al mondo.

— Dimmi, demonio, disse Sancio, hai tu forse qualche angelo che te ne cavi e che possa toglierti quelle catene che fo conto di metterti ai piedi?

— Signor governatore, rispose subito il giovane con molto buon garbo, mi ascolti, e veniamo al punto; concediamo che la signoria vostra mi faccia condurre in prigione, e che quivi m'incatenino dalla testa ai piedi, e che mi mettano in un carcere sotterraneo, e che sia minacciato il bargello dei più severi gastighi se mi lascia escire fuora e che egli serve fedelmente al comando: ma, domando io, se non ho volontà di dormire, e se mi piace di stare svegliato tutta la notte senza mai chiudere occhio, potrà vossignoria con tutto il suo gran potere fermi dormire?

— No, certamente, disse il segretario, e quest'uomo ha conseguito il fine che si è proposto.

— Di maniera che, disse Sancio, tu non lascerai di dormire per altro che per tua volontà e non per contravvenire alla mia?

— Signor no, disse il giovane, neppure per sogno.

— Vattene dunque in pace, disse Sancio, va a dormire a casa tua, e il Cielo ti dia buon sonno, che io non voglio frastornarlo; ma ti consiglio di non ischerzare altra volta colla giustizia perché potrai correre rischio che la giustizia ti dia per burla nella testa.”

Partì il giovane, ed il governatore proseguì la sua ronda, ed indi a poco si videro due servi di sgherri che si facevano seguitare da un uomo legato. Costoro dissero così:

— Signor governatore, quello che vedete qua, che pare un uomo, non lo è già, ma sì bene femmina e non brutta, travestita in abito virile.”

Le accostarono al viso due o tre lanterne, al chiaror delle quali scoprirono una faccia di donna che sembrava contare sedici anni o poco più; avea i capelli raccolti in bella rete d'oro e di seta verde, ed era leggiadra come un sole.

La squadrarono dall'alto al basso, e videro che portava un paio di calzette di taffettà bianco, e frangia ricamata di perle minute; i calzoncini erano verdi di tela d'oro, ed aveva ricca e sciolta casacca, sotto alla quale portava il giubbone di finissima tela d'oro e d'argento. Le scarpe erano bianche e da uomo; non aveva cinta spada, ma daga e pugnale bellissimi, e nelle dita molte e nobilissime anella.

La giovane piaceva a tutti, ma non era riconosciuta da niuno fra quanti le posero gli occhi addosso e i naturali del paese dichiararono di non saper immaginare chi fosse. Coloro stessi che erano a parte delle burle che dovevansi fare a Sancio, si maravigliarono più degli altri: perché questa nuova apparizione non era stata da essi predisposta, e perciò se ne stavano dubbiosi aspettando di veder che cosa fosse per accadere.

Sancio restò mezzo fuori di sé per la beltà della giovane, e le chiese chi fosse, dove volesse andare, e quale motivo l'avesse indotta a mentire quegli abiti. Ella fissando gli occhi in terra con onestissimo rossore, rispose;

— Non posso, o signore, far palese pubblicamente ciò ch'esige il più geloso segreto, e voglio soltanto che si tenga per fermo che io non sono un ladro, né persona facinorosa, ma sventurata donzella a cui un eccesso di gelosia fece obbliare il decoro dovuto all'onestà.”

Ciò udendo il maggiordomo; disse a Sancio, — Faccia, signor governatore, che si apparti la gente, affinché questa signora possa parlare senza arrossire, e liberamente.”

Così comandò il governatore, e tutti si ritirarono eccettuati il maggiordomo, lo scalco e il segretario. Ora vedendosi soli, la donzella seguitò dicendo:

— Io, o signore, sono figlia di Pietro Perez Masorca, affittatore delle lane di questo paese, il quale suole molte volte recarsi in casa del padre mio.

— Ciò non ha apparenza di verità, disse il maggiordomo, giacché io pienamente conosco Pietro Perez, e so ch'egli non ha figliuolo alcuno né maschio né femmina: e tanto più che voi dite ch'è vostro padre, e poi aggiungete che suole molte volte recarsi in casa di vostro padre.

— Io già l'avevo notato fra me, disse Sancio.

— Signore, io in questo punto, rispose la donzella, sono turbata a segno che non so quello che mi dica, ma verità è che sono figlia di Diego della Gliana, che dee esser noto a quelli che mi ascoltano.

Questo poi è verosimile, soggiunse il maggiordomo, perché so che ha un figlio e una figlia; e dopo che il padre rimase vedovo, non fu in questo paese chi potesse dire di aver veduto in viso la figliuola, tenendola egli custodita sì rigorosamente, che nemmeno il sole la scorge mai; ma ad onta di ciò è fama che sia bella all'estremo.

— Quanto voi dite è vero, rispose la donzella, e questa figlia sono io; se menzognera o no sia la fama intorno alla mia bellezza, vi sarete accorti, o signori, avendomi ora veduta;” ed in questo cominciò a piangere dirottamente.

Il segretario alquanto commosso, si fece all'orecchio dello scalco, e gli disse:

— Debb'essere infallantemente accaduta a questa povera giovane qualche gran disgrazia, poich'essa è uscita di casa sua e sta, contro il decoro della sua nascita, travestita in quel modo e di quest'ora.

— Certamente, rispose lo scalco; e tanto più questo sospetto è avvalorato dalle sue lagrime,”

La consolò Sancio colle migliori parole ch'ei seppe, e la eccitò che senza verun timore rendesse noto quanto erale avvenuto, assicurandola che procurerebbero tutti i modi di rimediarvi colla maggiore volontà e con tutti i mezzi possibili.

— Il caso è questo, o signori, rispos'ella: mio padre mi tenne rinchiusa per dieci anni continui, che tanti ne corsero da che mancò di vita la mia genitrice. Si celebra la messa in un bell'oratorio di casa mia, dove io intervengo, né altro veggo che il cielo risplendente di giorno, e asperso di stelle nelle tenebre della notte; non conosco né strade, né piazze, né templi, né anco uomini, eccettuato mio padre e mio fratello, e Pietro Perez, l'affittatore, che per vederlo frequentemente in mia casa, mi venne in capriccio di dire ch'era mio padre, e così non ho dichiarato il vero. Quel tenermi rinchiusa e negarmi di escire di casa, sino per andare alla chiesa, corrono molti mesi e giorni che mi fa vivere in somma afflizione. Avrei voluto vedere il mondo, od il paese almeno dove sono nata: parendomi che questa innocente mia voglia non offendesse il buon decoro con cui le donzelle nobili debbono guardare se stesse. Sappiate che quando si facevano caccie da tori, e che s'innalzavano steccati per rappresentar commedie, io domandavo al mio fratello (minore a me nella età di un anno solo), che mi desse conto e di questi e di altri divertimenti a me sconosciuti, ed egli me li dipingeva alla meglio, e tutto serviva ad accendere in me il desiderio di poterne godere. Per abbreviarvi la storia della mia rovina, vi dirò che ho pregato e scongiurato mio fratello (così piacesse a Dio che non lo avessi mai né pregato né scongiurato),” e qui si rinnovò il pianto.

Il maggiordomo le disse:

— Continuate pure, o signora, e finite di dirci quanto vi accadde, che noi siamo nella impazienza che ispirano i vostri detti e le vostre lagrime.

— Poco mi resterà a dire, rispose la donzella, ma molte lagrime mi resteranno a versare; ché i desideri mal collocati, altra mercede che questa non possono attendersi.”

Erasi già insinuata nell'animo dello scalco l'avvenenza della donzella, il quale tornò ad avvicinarle la lanterna per nuovamente mirarla, e ciò facendo si accorse che non già lagrime le uscivano dagli occhi, ma perle o rugiada di prato, e ingrandivasi la fantasia; immaginando che fossero perle orientali, sicché stava ad attendere con ansietà che il caso di questa giovane tale non fosse quale volevano far supporre i suoi sospiri e i suoi pianti. Disperavasi il governatore del tanto ritardo che faceva la donzella a narrare compitamente la storia sua, e le insinuò che finisse di tenerli più oltre sospesi, giacché l'ora era tarda e molto restava da visitare nel paese.

Ella fra interrotti singhiozzi e mal frenati sospiri, disse:

— Termina la mia disgrazia e il mio infortunio colla preghiera che ho fatto a mio fratello che mi vestisse da uomo mediante uno dei suoi abiti, e che seco mi conducesse una notte a vedere tutto il paese quando nostro padre dormisse: ed importunato dalle mie istanze, condiscese al mio desiderio. Mettendomi indosso quest'abito, e vestendosi egli con uno dei miei, che gli sta come dipinto, perché non ha tuttavia pelo di barba, e tiene le sembianze tutte di bellissima donzella, questa notte (sarà adesso un'ora, poco più poco meno) siamo esciti di casa, e guidati dal nostro inesperto e inconsiderato raziocinio, ci siamo aggirati per tutto intorno al paese. Quando volevamo tornarcene a casa, vedemmo avvicinarsi un branco di gente, e il fratello mi disse:

— Sorella, questo debb'essere la ronda, allunga il passo e metti le ali ai piedi e viemmi dietro correndo, affinché non siamo scoperti, che ne avremmo assai biasimo. Detto questo voltò le spalle e cominciò non dico a correre ma a volare. Per la paura non avevo io fatti sei passi che caddi, e in quel punto mi raggiunse il bargello che mi ha condotto al cospetto delle signorie vostre, dove come giovane cattiva e capricciosa, adesso mi trovo con mia estrema vergogna.

— Insomma, disse Sancio, non vi è accaduto, o signora, altra disgrazia che questa, né altra gelosia vi ha cacciata di casa, come pareva dal principio del vostro discorso?

— Niente altro, ella rispose: non la gelosia ma la voglia di vedere il mondo, ed anche questa era confinata a vedere soltanto le strade di questo paese.”

La verità di quanto aveva esposto si raffermò al sopraggiungere del suo fratello, colto egli pure dagli sgherri quando era fuggito unitamente alla sorella.

Non altro aveva indosso fuorché un gamurrino grazioso ed un guarnello di damasco turchino con passamani d'oro, né in capo teneva alcun velo, né lo adornavano altro che i suoi capelli, che parevano anella d'oro, tanto erano biondi e ricciuti. Il governatore, il maggiordomo e lo scalco lo condussero in luogo appartato, e senzaché sua sorella potesse udire, gli chiesero perché mai vestisse a quel modo.

Egli allora con non minore vergogna e imbarazzo, ripeté il racconto già fatto da sua sorella; il che diede non poco piacere e soddisfazione all'invaghitosi scalco; ma il governatore allora disse:

— Non è da negarsi, o signori che non sia stata questa la più solenne ragazzata, e per sapere questa scioccheria non occorre tirare tanto in lungo il discorso, né spargere tante lagrime, né mandare tanti sospiri, ma bastava dire: noi siamo il tale e la tale, esciti a passeggiar fuori della casa paterna così travestiti; per pura curiosità e senza alcun fine cattivo; né affibbiarvi tanti piagnistei e spasimi, e non finirla mai più.

— Così è, disse la vergognosa donzella, ma sappiano le signorie loro che tanto grande fu il mio turbamento, che non mi lasciò conoscere il modo con cui dovessi condurmi.

— Non è nato alcun male, rispose Sancio, ma andiamcene: lasceremo vossignoria in casa di suo padre, il quale forse non si sarà accorto: ma da ora innanzi non vogliate l'uno e l'altra mostrarvi sì fanciulli e vogliosi di vedere il mondo: l'onesta donzella e la gamba rotta stanno in casa; e la donna e la gallina per andar attorno si perdono in una mattina: e quella che è desiderosa di vedere, desidera anche di essere veduta; e non vado avanti.”

Il giovane ringraziò il governatore per la gentilezza che dimostrava di ricondurli a casa, e così si avviarono verso quella, che non era molto lontana. Vi giunsero, e il fratello tirando una pietruzza all'inferriata, subito scese la serva che li stava attendendo, ed aprì loro la porta.

Entrarono eglino, lasciando maravigliato ognuno sì della loro gentilezza e venustà, come della brama che spiegarono di vedere il mondo di notte senza escire dal paese: ma li scusarono ed ogni cosa attribuirono alla loro età troppo ancora giovanile.

Restò per altro lo scalco ferito nel cuore, e propose fra sé di chiedere in altro giorno la ragazza in isposa a suo padre, tenendo per certo che negata non gliel'avrebbe per essere egli dipendente dal duca.

Entrò nel tempo stesso nella fantasia di Sancio di fare sposo il giovane della Gliana a Sancetta sua figliuola, e stabilì di pensarvi a tempo e luogo; dandosi a credere che niun marito negare si potesse alla figliuola di un governatore. Terminò a questo modo la ronda di quella notte, ed il governo non durò che altri due giorni, con che furono tronchi e ridotti a nulla tutti i disegni da Sancio concepiti, come vedrassi più avanti.


CAPITOLO L

 

SI DICHIARA QUALI FURONO GL'INCANTATORI E I CARNEFICI CHE FRUSTARONO LA MATRONA E PIZZICARONO DON CHISCIOTTE, E SI NARRA QUANTO ACCADDE AL PAGGIO CHE PORTÒ LA LETTERA A TERESA, MOGLIE DI SANCIO PANCIA.

 

Cid Hamete, puntualissimo investigatore fin anche degli atomi della nostra veridica istoria dice che al momento in cui donna Rodrighez usciva dalla sua stanza per portarsi in quella di don Chisciotte, un'altra matrona che con lei dormiva l'aveva udita: e siccome le matrone tutte sono vaghe di sapere, d'intendere, di fiutare, così cheta cheta l'aveva seguita in modo che la buona Rodrighez non se n'era accorta. Quando la vide entrare in camera di don Chisciotte, non meno ciarliera e parabolana di tutte le altre matrone di questo mondo, si portò subito subito nella camera della signora duchessa a narrarle che donna Rodrighez era rimasta nella stanza del cavaliere errante. La duchessa ne rese consapevole il duca, e gli domandò la permissione di andar ella stessa con Altisidora a conoscer quello che a don Chisciotte potesse mai ricercare la matrona. Non ebbe il duca alcuna difficoltà da opporre; ed allora ambedue andarono quattone quattone a situarsi a canto alla porta della camera, e sì da vicino che udivano tutto quanto dentro si diceva.

Quando la duchessa sentì che donna Rodrighez aveva scoperte a don Chisciotte le sue magagne, non poté più tenersi nei termini e nemmeno Altisidora; ond'è che fumanti di stizza ed avide di vendicarsi, entrarono a furia nella camera, ed acconciarono don Chisciotte e tartassarono la matrona come si è riferito. Le offese che attaccano direttamente o la beltà o la presunzione delle donne, destano fuori di modo lo sdegno e accendono il desiderio della vendetta.

Narrò la duchessa al duca il successo, ed egli ne rise assai, ed intanto seguitando ella nel suo divisamento di prendersi giuoco di don Chisciotte e di Sancio, spedì il paggio (quello che aveva rappresentato il personaggio di Dulcinea nella scena eseguita pel suo disincanto, di che Sancio occupato nel suo governo, per nulla più ricordavasi) a Teresa Pancia con la lettera del suo marito, e con altra sua accompagnata da una filza di bei coralli che le mandò in dono. Ora ci narra la storia che il paggio era molto avveduto, scaltrito ed assai voglioso di compiacere ai suoi padroni, e che molto volentieri se ne andò al paese di Sancio.

Prima di entrarvi vide che stavano parecchie donne lavando presso ad un fiumicino, e dimandò loro se sapessero indicargli se nel paese stesse una donna chiamata Teresa Pancia, moglie di certo Sancio Pancia, scudiere di un cavaliere chiamato don Chisciotte della Mancia.

A questa domanda si alzò in piedi una giovinetta che stava anch'essa lavando, e disse:

— Questa Teresa Pancia è mia madre, e questo tal Sancio è il mio signor padre, ed il cavaliere che dite è il nostro padrone.

— Venite dunque, o ragazza, disse il paggio, e conducetemi a vostra madre, che io ho da darle una lettera ed un regalo per parte di vostro padre.

— Ben volentieri, signor mio, rispose la ragazza, ch'era di circa quattordici anni: e lasciati i panni che lavava in custodia ad altra sua compagna, senza assettarsi il vestito o mettersi scarpe, a pié scalzi e scapigliata com'era, saltò d'inanzi alla cavalcatura del paggio, e disse:

— Venga vossignoria, che la nostra casa sta all'entrare nel paese, e vi troverà mia madre molto appassionata perché sono molti e molti giorni che non ha nuove del mio signor padre.

— Eh, le porto io e buone, disse il paggio: e tanto buone che ne ringrazierà Dio.”

Saltellando pertanto e correndo, e tutta giuliva, giunse la giovane al paese, e prima di entrare in casa gridò dalla porta:

— Venga giù, mamma Teresa, venga giù, faccia presto, ch'è qua un signore che porta lettere e buone nuove di mio padre.”

A queste grida uscì fuori Teresa Pancia sua madre, che stava filando una matassa di stoppa, ed aveva la zimarra bigia sì corta che lasciava scoperte quasi più che le gambe, con bustarello pure bigio e con iscollatura. Non era vecchia gran fatto, tuttoché mostrasse oltre i quarant'anni, ma forte, soda, nerboruta, fatticcia. Vedendo sua figlia e il paggio a cavallo, disse:

— Che cosa è di nuovo, figliuola mia? che signore è questo?

— È un servitore della mia signora Teresa Pancia, rispose il paggio; e, ciò detto, smontò da cavallo, e venne a mettersi molto umilmente in ginocchio dinanzi alla signora Teresa, dicendole:

— Mi dia la signoria vostra le mani, mia signora donna Teresa, legittima e particolare consorte del signor don Sancio Pancia, governatore in anima e corpo dell'isola Barattaria.

— Eh signor mio, stia cheto, non dica queste cose, rispose Teresa, che io non sono niente palazziera, ma povera contadina, figliuola di un rompilegna, e moglie di uno scudiere errante, e non di governatore.

— Vossignoria, rispose il paggio, è moglie degnissima di un governatore arcidegnissimo; ed in prova di questa verità pigli questa lettera e questo regalo:” e cavò allora di tasca la filza dei coralli con punte d'oro, e gliela mise al collo dicendo:

— Questa lettera è del signor governatore, e quest'altra con i coralli è della mia signora duchessa che la manda a vossignoria.”

Tanto Teresa come sua figliuola erano attonite, e la ragazza disse:

— Possa morire se qua non c'è qualche cosa del nostro padrone don Chisciotte, che deve aver dato al mio signor padre il governo o la contea che tante volte gli aveva promesso.

— Cosi è per lo appunto, rispose il paggio, mentre in contemplazione del signor don Chisciotte è il signor Sancio governatore dell'isola Barattaria, come si leggerà in questa lettera.

— Me la legga vossignoria, signor gentiluomo, disse Teresa, perché io so filare, ma non so leggere una parola.

— E nemmeno io, soggiunse Sancetta; ma favoriscano di aspettare, che io andrò a chiamare o il signor curato o il bacelliere signor Sansone Carrasco, i quali verranno volentieri, la leggeranno e ci daranno le nuove del signor padre.

— Eh non occorre chiamare alcuno, soggiunse il paggio, che io non so filare, ma so leggere e la leggerò.”

Allora la lesse per disteso, né qui si ripete per essere già stata riportata più sopra. Ne trasse poi di saccoccia altra della duchessa, la quale diceva così:

 

“Amica Teresa.

 

“Le buone parti della bontà e dell'ingegno di vostro marito Sancio, mi mossero ed obbligarono ad interessare il duca mio marito, perché gli desse il governo di una delle molte isole che possiede. Ho notizia che egli governa come un girifalco; di che mi trovo molto soddisfatta, e lo è ancora il mio signor duca. Io ringrazio vivamente il cielo di non essermi ingannata nell'averlo trascelto a quel posto, perché voglio che sappiate, mia signora Teresa, che difficilmente si trova un buon governatore nel mondo, e così mi aiuti Iddio come Sancio governa. Vi accompagno, amica mia, con la presente, una filza di coralli con punte d'oro, e vorrei che fossero perle orientali, ma chi ti dà l'osso non ti vorrà vedere morta, e verrà tempo che ci conosceremo e converseremo insieme, e Dio sa quello che sarà. Tenetemi raccomandata a Sancetta vostra figliuola, e ditele da parte mia che si apparecchi, che io la voglio maritare altamente quando meno se lo pensi. Mi viene detto che codesto paese abbonda di ghiande grosse; mandatemene un paio di dozzine, che ne terrò molto conto per venire dalle vostre mani. Scrivetemi a lungo, e datemi nuove della vostra salute e del vostro bene stare. Se qualche cosa vi occorre non avete da far altro che aprire la bocca; che sarete servita per lungo e per largo. Dio vi guardi.

 

“Di questo luogo, la vostra amica che vi vuol bene,

 

                            “LA DUCHESSA.”

 

— Oh! gridò Teresa sentendo la lettera, oh! che buona, che affabile, che umile signora! Ah, con queste sì mi caccino sotto terra, ma non già colle cittadine che usano in questo paese, che si figurano per essere tali che il vento non le abbia da toccare: e vanno alla chiesa con albagia come se fossero regine; e pare proprio che elleno si rechino a disonore di dare un'occhiata ad una contadina! Vedete qua, che questa signora, duchessa com'è, mi chiama amica e mi tratta come se fossi una sua uguale; ma io con tutto il cuore vorrei vederla uguale in altezza al più alto campanile che sia nella Mancia. In quanto poi alle ghiande, signor mio, ne manderò alla sua signora un quartaccio e tanto grosse che le potrà mostrare a tutti per maraviglia. Sancetta resta qua a far accoglienza a questo illustrissimo; conduci poi il suo cavallo dove ha da stare: va per delle uova nella stalla, taglia presciutto all'ingrosso, e diamogli a mangiare come se fosse un principe, perché le buone nuove che ci ha portato e quel buon viso che egli ha, meritano tutto: io corro intanto alle mie vicine per dar loro nuova della nostra allegrezza, e vado dal curato e dal maestro Nicolò barbiere, che sono e sono stati sempre buoni amici di tuo padre.

— Lasciate fare a me che mi porterò bene, madre mia, rispose Sancetta; ma ricordatevi che dovete darmi la metà di questi coralli, perché non credo che la signora duchessa sarà stata tanto balorda da mandarli tutti per voi.

— Tutto è per te, figliuola, rispose Teresa, ma lasciamela portare al collo per alquanti dì, che pare proprio che mi si allarghi il cuore.

— Vossignorie si rallegreranno di più, disse il paggio, allorché vedranno il fagotto che sta in questo portamantello, e che è un vestito di panno sopraffinissimo che il governatore don Sancio portò un giorno solo alla caccia, e questo lo manda tutto intero per uso della signora Sancetta.

— Oh che possa vivere mille anni, soggiunse questa, ed altrettanti chi me lo porta, ed anche duemila se occorre.”

In questo uscì Teresa di casa con le lettere e con la filza al collo, e andava battendo le dita sulle lettere come se suonasse un cimbalo: e trovati a caso il curato e Sansone Carrasco, cominciò a saltellare ed a dire:

— Alla fe' che non vi è più parente povero; oh abbiamo adesso un governuccio! vengano mo adesso a contrastare con me queste presuntuose cittadine, che io darò a divedere chi sono.

— E che vuol dire ciò, Teresa Pancia? che pazzie sono le vostre? che lettere queste? disse il curato.

— La pazzia, ella rispose, non è altro se non che queste sono lettere di duchesse e di governatori, e questi che porto al collo sono coralli fini, e le ave marie e i pater nostri sono di oro a martello, e io sono governatora.

— Noi non v'intendiamo, disse il curato, né sappiamo quello che vogliate dire.

— Adesso capirete tutto, rispose Teresa: e detto fatto mise nelle loro mani le lettere,

Il curato le lesse in maniera che Sansone Carrasco ne intese il contenuto, e l'uno e l'altro si guardarono in faccia come stupefatti di ciò che avevano letto. Il baccelliere dimandò chi avesse recate quelle lettere. Rispose Teresa che la seguitassero fino a casa, e che avrebbero visto il messaggere, che era un giovinotto bello come un angelo, e che le aveva portato altro regalo che valeva quello che sta bene.

Il curato le levò i coralli dal collo, li guardò, li tornò a guardare, ed accertatosi che erano dei fini, tornò a fare le meraviglie, e disse:

— Per l'abito che porto che non so né che mi dire, né che pensare intorno a queste lettere ed a questi doni, da una parte veggo e tocco il molto pregio di questi coralli, e dall'altra osservo che una duchessa manda a dimandare due dozzine di ghiande.

— Chi l'ha mai da capire, disse allora Carrasco; orsù andiamo a vedere il portatore di questi dispacci, ch'egli ci chiarirà le difficoltà che ci si parano innanzi.”

Così fecero, e Teresa se ne tornò a casa in loro compagnia.

Trovarono il paggio che stava vagliando un poco di biada per la sua cavalcatura, e Sancetta occupata a tagliare il presciutto per fare una frittata rognosa da darla a mangiare al paggio, della cui presenza e del cui buon arnese rimasero Sansone Carrasco ed il curato assai soddisfatti. Dopo i saluti scambievoli, lo pregò Sansone che gli desse novelle di don Chisciotte e di Sancio Pancia; che sebbene avesse veduto le lettere di Sancio e della signora duchessa, rimaneva tuttavia confuso, né sapeva indovinare che cosa si fosse quel governo di Sancio, né quella isola, perché tutti o la più parte dei governi e le isole del Mediterraneo sono in dominio di sua maestà.

Rispose il paggio:

— Io non vado a far quistione se sia isola o no quella che il signor governatore governa, ma vi basti sapere che è un paese che conta mille fuochi. Quanto all'affare delle ghiande, la signora duchessa è tanto affabile ed umile che non solo manda a chieder ghiande ad una contadina, ma non si astiene talvolta di pigliare a prestito sino il pettine dalle sue vicine. Voglio che sappiano signorie che le signore di Aragona, tuttoché siano di grande nobiltà, non la guardano punto così pel sottile, né sono gonfie e pettorute come le signore castigliane; ma trattano famigliarmente e alla domestica con tutte quante le persone.”

Stando così discorrendo, saltò fuori Sancetta con la falda piena di uova; e dimandò al paggio:

— Signore, mi dica, di grazia: dopoché il mio signor padre è governatore, porta egli le calzette strette?

— Non ci ho posto mente, rispose il paggio, ma ardirei dirvi che sì.

— Ah mio Dio, replicò Sancetta, che bella cosa ha da essere a vedere il mio signor padre con quelle calze! Sappiate che da quando io sono nata e sin da quando era ancora picciola picciola ho sempre avuto gran voglia di vedere il mio signor padre con questa sorta di calze.

— Oh purché ei viva, rispose il paggio, lo vedrete andare con altro che con queste cose; e credetemi che se dura governatore per due mesi ancora, si vedrà camminare col pappafico.”

Si accorsero molto bene il curato e il baccelliere che il paggio andava parlando ironicamente, ma la finezza dei coralli e l'abito da caccia inviato da Sancio, e che Teresa aveva loro mostrato, li mettevano nuovamente in imbarazzo; né lasciarono di ridere del desiderio di Sancetta, e molto più quando Teresa disse:

— Signor curato, faccia in grazia diligenza per il nostro paese se trova qualcuno che vada a Madrid o a Toledo, che io vorrei che mi comperasse una faldiglia tonda bella e fatta, che sia di moda e delle migliori che si trovino; perché davvero che voglio fare onore al governo di mio marito per quanto mai possa; ed anche se mi salta l'umore sono donna da andare io alla corte e da adoperare un cocchio come le altre; che colei che ha suo marito governatore può molto ben provvederlo e mantenerlo.

— Oh parlate pur bene, madre mia, disse Sancetta; e piacesse a Dio che fosse oggi piuttosto che domani, e poco importa che coloro che mi vedessero seduta nel cocchio colla signora madre dicessero: Guardate là la tale e la quale, la figliuola di colui che sempre mangiava agli, guardate là ch'è seduta e distesa che la pare una papessa; ma noi lasceremo che pestino il fango, e intanto anderemo nel cocchio coi piedi alti da terra, e mal anno e mal mese e mala settimana a quanti mormoratori sono nel mondo, purché noi altre abbiamo del bene; e chi non ne ha suo danno: non parlo io bene?” rispose Teresa:

— Tutte queste venture ed anche maggiori me le ha profetizzate il mio caro Sancio; e tu vedrai, o figlia, che la finirò col diventare contessa, perché tutto consiste che la fortuna cominci: e come ho sentito dire più volte dal tuo buon padre (che si può anche dire il padre dei proverbi) quando ti diano la vacchetta, corri per la funicella e tienla stretta: se ti concedono un governo, e tu piglialo: se ti danno una contea acchiappala: quando ti stuzzicano con qualche donativo, dágli di mano: e non occorre dormire e fare i sordi alle buone venture che battono alle porte delle casa.

— E che importerà a me, disse Sancetta, che quando mi vedranno intonata e fastidiosa, dicano: il cane si è vestito con le brache di lino? con quello che seguita.

Ciò udendo il curato, disse:

— Conviene pure che io confessi che tutti di questa razza dei Pancia nacquero con un sacco di proverbi in corpo, mentre non ho veduto alcuno di costoro che non li diffonda a tutte le ore e in ogni discorso.

— Questo è vero, disse il paggio, perché il signor governatore Sancio ad ogni poco ne vuota un sacco, e quantunque pochi cadano a proposito, contuttociò dànno gusto, e la mia signora duchessa e il mio signor duca ne dicono molto bene, e li celebrano quando li sentono.

— Ma come mai, disse allora il baccelliere, può vossignoria insistere nel farci credere che Sancio sia diventato governatore, e che vi sia una duchessa al mondo che gli mandi doni e che gli scriva? Noi altri tuttoché tocchiamo con mano questi regali ed abbiamo vedute queste lettere, non ci prestiamo però fede, e pensiamo che questa sia una delle solite stravaganze di don Chisciotte nostro compatriota, il quale tiene che tutto segua per incantamento.

— Signori, altro non so di me, rispose il paggio, se non che io sono imbasciatore davvero, e che il signor Sancio Pancia è governatore effettivo, e che i miei signori duca e duchessa possono conferire ed hanno conferito il tale governo, e che intesi dire che il signor Sancio Pancia si porta valentissimamente; se in tutto questo vi sia incantesimo o no, la disputino fra loro signori; che io, per la vita dei miei genitori che sono vivi e che amo assai, non ne so altro.

— Potrà essere ogni cosa, replicò il baccelliere; ma dubitat Augustinus.

— Dubiti chi ne vuole, rispose il paggio; verità è quanto ho esposto, e la verità dee andare sopra la bugia, come l'olio sopra l'acqua; e quando che no, operibus credite et non verbis: e se vuole venire con me qualcuno di lor signori, vedranno coi loro occhi quello che non credono coi loro orecchi.

— Verrò io, verrò io, disse Sancetta, e vossignoria mi porterà in groppa al suo ronzino, e verrò molto volentieri a vedere il mio signor padre.

— Le figliuole dei governatori, disse il paggio, non devono andar sole per le strade, ma accompagnate da carrozze e livree e da gran numero di servitori.

— Ah ci bado io bene! rispose Sancetta; io sono donna, vedete, da andarmene tanto sopra un asinello come seduta in carrozza; sì che l'avete trovata la schizzinosal

— Taci, ragazza, disse Teresa, ché tu non sai quello che ciarli, e questo signore sa bene come parla quando ci fa capire che chi ha buon senno si regola a seconda dei casi; e quando bisogna Sancio e Sancia, e quando governatore e signora... e insomma entrare nello spirito delle cose.

— La signora Teresa dice più che non pensa, disse il paggio, ma mi diano a mangiare e mi spediscano con sollecitudine, perché fo conto di tornarmene stasera.

Disse il curato:

— Vossignoria verrà a fare penitenza con me, perché la signora Teresa ha più buona volontà che masserizie per servire degnamente un ospite tanto gentile.”

Non voleva il paggio accettare, ma poi la finì col gradire l'invito, per istare a suo miglior agio: il baccelliere si offerse a Teresa per iscrivere la risposta, ma ella non volle che s'immischiasse nei fatti suoi, perché lo teneva piuttosto in conto di burlone. Diede una ciambella e una coppia d'uova ad un fratacchione che sapeva scrivere, e questi dettò due lettere, una per suo marito ed un'altra per la duchessa, lettere uscite fuora dal suo cervello: e siccome non sono delle peggiori, così non riescono indegne di essere inserite in questa grande istoria, come si vedrà più avanti.


CAPITOLO LI

 

DEL PROGRESSO NEL GOVERNO DI SANCIO PANCIA, CON ALTRI AVVENIMENTI IMPORTANTI E CURIOSI.

 

La mattina spuntò dopo la notte della ronda fatta dal governatore; notte che lo scalco passò senza chiudere occhio, tenendo occupati i pensieri nel volto, nel brio, nella beltà della travestita donzella; notte che il maggiordomo impiegò quasi tutta nello scrivere ai suoi padroni quello che Sancio Pancia andava facendo e dicendo. Egli informava per disteso della maraviglia che in lui destavano i fatti e i detti del nuovo governatore: fatti e detti ch'erano un miscuglio di saggezza e di scioccaggine. Si alzò Sancio, e per ordine del dottore Pietro Rezio fu ristorato subito con un po' di conserva e con alquanti sorsi d'acqua fresca: cose che Sancio avrebbe volentieri cambiate in un tozzo di pane e in qualche grappolo d'uva; ma vedendo quello che conveniva fare allora lo fece, se non per amore, per forza, non senza discapito del suo stomaco né senza afflizione del suo spirito. Pietro Rezio andava sempre ripetendogli che le vivande scarse e delicate ravvivano l'ingegno, e che questo è quanto importa soprattutto nelle persone costituite al governo ed ai gravi uffici, nei quali non tanto occorrono le forze materiali del corpo quanto quelle dell'intendimento. Con queste sofisticherie Sancio pativa sì gran fame, che dentro di sé non lasciava di maledire e il governo e chi glielo aveva conferito; tuttavia castigando l'appetito e contentandosi della conserva che aveva trangugiata, passò la mattina al tribunale della giustizia.

Il primo ch'ebbe a lui ricorso fu un forestiere che, presenti il maggiordomo e tutti gli altri ministri, gli disse:

— Signore, un rapido fiume divideva due confini di un dominio medesimo (presti attenzione la signoria vostra, ché il caso è di rilevanza e alquanto difficile), e sopra questo fiume eravi un ponte, e al capo del ponte un paio di forche, ed una tal casa di audienza o di giustizia in cui stavano di ordinario quattro giudici, che giudicavano sul fondamento della legge imposta dal padrone del fiume, del ponte e del dominio: e la legge era questa: “Se alcuno vuole passare per questo ponte dall'una all'altra parte, deve prima dire e giurare dove e per quale oggetto egli passa; giurando il vero, sia lasciato passare, mentendo, sia impiccato sulle forche che stanno alzate, e ciò senza alcuna remissione.” Resa pubblica questa legge e la rigorosa condizione, molti passavano, e dal tenore del loro giuramento conoscevasi la verità, ed i giudici li lasciavano liberamente andare. Accadde una volta che ricevendo il giuramento dato da un uomo, egli giurò che passava e andava a morire su quelle forche ch'erano ivi alzate, e nulla più aggiunse. Ponderarono i giudici questa cosa e dissero: se noi lasciamo passare liberamente questo uomo, egli avrà mentito nel suo giuramento, e noi conformemente alla legge dovremmo farlo impiccare: ma se noi lo impicchiamo, egli ha giurato che andava a morire su quelle forche, ed avendo giurato il vero, a senso della medesima legge dee restarsene libero. Ora io domando alla signoria vostra, signor governatore, che debbano fare i giudici di questo uomo, standosene eglino tuttavia dubbiosi e sospesi? È loro noto l'acuto ed elevato intendimento di vossignoria, ed inviarono me a supplicarla da parte loro che dia il parer suo in sì intricato e problematico caso.”

Tosto rispose Sancio:

— Davvero che questi signori giudici vi mandano da me, potevano fare di manco di questa imbasciata, perché io sono uomo che ha più del bestiale che dell'acuto: contuttociò ripetetemi un'altra volta il caso in modo che io possa intenderlo bene, e forse chi sa che io non dia nel segno.”

Tornò il messaggiere a ripetere quello che prima aveva detto, e Sancio soggiunse:

— A giudizio mio questo negozio è deciso in due parole, e dico così: il tal uomo giura che va a morire sulle forche, e se muore su quelle giura il vero, e in tal caso merita, in forza della legge, di andare libero e di passare il ponte; e se non lo impiccano ha giurato il falso, ed in vigore della stessa legge merita di essere impiccato?

— Così e per lo appunto come l'ha intesa il signor governatore, disse il messaggiere; né quanto alla chiara e pienissima intelligenza del caso alcun dubbio si può avere, né altro rimane a desiderarsi.

— Dico dunque adesso, replicò Sancio, che quella parte di tal uomo che ha giurato la verità la lascino passare, e l'altra che ha mentito la faccino tosto impiccare, e in questo modo sarà letteralmente adempita la condizione del passaggio.

— Oh questa è nuova, signor governatore degnissimo! replicò l'interrogante; a questo modo si dovrebbe dividere l'uomo in due parti, in bugiarda ed in vera; ma quando si dividesse egli dovrebbe per forza morire e allora niente conseguirebbe di quello che la legge dimanda e ch'è di necessità che si adempia.

— Sentite qua, signor buon uomo mio, rispose Sancio; questo passeggiere di cui parlate, o io sono un animale o egli tiene la stessa ragione per morire come per vivere e per passare il ponte: ora se la verità lo salva la bugia lo condanna egualmente; ed essendo così la cosa, siccome è infatti, io sono di opinione che andiate a dire ai signori dai quali siete mandato, che trovandosi in eguale bilancia e le ragioni di condannarlo a quelle di assolverlo, lo lascino passare liberamente: perché sempre meglio fare del bene che del male, e questa decisione ve la darei anche corroborata colla mia firma, se sapessi scrivere. Sappiate poi che nel caso che ora mi avete esposto, io non ho parlato di mia testa, ma dietro i suggerimenti ed i precetti datimi dal mio padrone il signor don Chisciotte, la sera avanti che venissi governatore di quest'isola, poiché egli mi disse che quando la giustizia stesse in dubbio, io abbandonassi il rigore e mi appigliassi alla misericordia: ed è piaciuto a Dio che in questo momento me ne ricordassi, essendo nata occasione tale che la massima vi calza dipinta.

— Così è appunto, disse il maggiordomo, e quanto a me sono persuaso che lo stesso Licurgo, legislatore dei Lacedemoni, non avrebbe potuto dar sentenza più retta di quella che ha pronunziato il gran Sancio Pancia; ma abbia fine la udienza di stamattina ed intanto io disporrò le cose perché il signor governatore possa pranzare a gusto e soddisfazione sua.

— Questo è quello che desidero, replicò Sancio; e facciamo a non ingannare; e diluvino pure i casi ed i dubbi, che io saprò risolverli in un batter d'occhio.”

Il maggiordomo mantenne la sua parola, recandosi a carico di coscienza il far morire dalla fame un governatore tanto savio, massimamente che già si avvicinava l'ora di licenziarlo, mandando in quella sera medesima ad effetto l'ultima burla di cui aveva egli ricevuto l'incarico. Ora avvenne che Sancio avendo mangiato in quel giorno contro alle regole ed agli aforismi del dottore Tiratinfuora, entrò allo sparecchiare della tavola un corriere con una lettera di don Chisciotte pel governatore. Ordinò egli al segretario che la leggesse da sé, e che se non contenesse alcuna cosa di segreto, la rileggesse ad alta voce.

Obbedì il segretario, e dopo averla scorsa, disse:

— Può leggersi ad alta voce, perché quello che scrive il signor don Chisciotte a vossignoria, è degno di essere stampato e scritto con lettere d'oro. Udite:

 

Don Chisciotte della Mancia

a Sancio Pancia,

governatore della isola Barattaria.

 

“Quando io mi aspettava di ricevere nuove delle tue balordaggini e impertinenze, mi arrivano invece, amico Sancio, quelle della tua saggezza; del che rendo grazie speciali al cielo, il quale dallo sterco sa sollevare i miseri, e fare degli sciocchi altrettanti savi e discreti. Mi fanno credere che tu governi come se fossi uomo, e che sei uomo come se fossi bestia; tanto grave è l'umiltà con cui ti conduci.

Voglio però avvertirti, o Sancio mio, ch'è molte volte necessario, per l'autorità della carica, andare contro all'umiltà del cuore; perché anche il portamento della persona che presiede a uffici importanti ha da uniformarsi a quanto essi richieggono, e non già alla misura di quell'uomo che a bassa ed umile condizione è inchinevole.

Vestiti bene, che un palo bene vestito non pare più palo: ma non ti dico questo perché tu abbia ad ornarti con isfogo puerile e disdicevole, ma cogli abiti che il tuo posto richiede, badando che siano sempre mondi e bene assettati.

Per farti ben volere dal popolo che tu governi, bada a due cose: l'una di essere bencreato con tutti, (che te l'ho già detto ancor per lo passato), l'altra di aver a cuore l'abbondanza delle vettovaglie, che non v'ha cosa che affligga tanto il cuore dei poveri quanto la fame e la carestia.

Non fare tante riforme e tanti decreti; e se li fai procura che siano giusti, e sopratutto che si osservino e si eseguiscano; perché le riforme che si trascurano egli è come se non si promulgassero, e fanno giudicare che il principe il quale ebbe senno ed antevidenza nel prescriverle, manchi poi di energia nel farle eseguire. Quelle leggi che emanano e che poi si dissolvono in fumo, sono come la trave del re dei ranocchi, di cui eglino al principio si spaventarono, e poi per dispregio vi montarono sopra. Ricordati, non sempre rigoroso o sempre indulgente, ma eleggi il mezzo fra quegli due estremi: che in ciò consiste la perfezione della saggezza.

Visita le carceri, i mercati, e sino le beccherie e i macelli; che la presenza del governatore in siffatti luoghi è di estrema importanza: e così tu conforterai i prigioni che attendono di essere restituiti alla libertà, e porrai in sesto le stadere e i pesi, evitando le frodi, ed incutendo il terrore nei rivenditori delle piazze e nei macellai.

Non ti mostrare (se anco lo fossi, benché non credo), amico né di robe, né di donne né della ghiottoneria; perché, come il popolo, o chi ha da trattar teco, conosce la piega a cui inchini, si studierà di far in te entrare la corruzione, e tanto ti assalirà, che ne andrai trascinato ad irreparabile perdizione. Guarda e riguarda, leggi e rileggi i consigli e i documenti che ti ho lasciati in iscritto prima che tu partissi alla volta del tuo governo, e troverai in essi, osservandoli, un grande aiuto contro i travagli e le difficoltà in cui ad ogni passo inciampano i governatori.

Scrivi ai tuoi padroni, e mostrati loro grato, ché la ingratitudine è figliuola della superbia ed uno dei più grossi peccati; e l'uomo che si mostra gentile a chi gli ha fatto alcun bene, dà indizio che lo sarà anche verso Iddio Signore, che tanti beni gli ha impartiti e tutto giorno gl'imparte.

La signora duchessa ha mandato un uomo a posta col tuo vestito e con un regalo a Teresa Pancia tua moglie, e attendiamo la risposta a momenti.

Io sono stato piuttosto ammalaticcio per certo gattamento che mi accadde, con pregiudizio del mio naso; ma non è stato poi nulla che se vi hanno incantatori che mi maltrattano, altri ve ne ha dai quali sono difeso. Fammi sapere se il maggiordomo che hai teco ebbe parte in quello ch'è avvenuto colla Trifaldi, siccome tu dubitavi, e di tutto ciò che ti accadrà mi andrai informando, essendo corto il cammino che ci divide. Penso di lasciar presto questa vita oziosa ed infingarda che conduco, non essendo io uomo nato per istrascinarla da inerte.

Mi è accaduto certo negozio per cui temo di poter incorrere nella disgrazia dei signori duchi; ma se per un lato ciò m'importa assai, dall'altro poi non m'importa niente, perché alla fine dei fini io ho a servire ai doveri della mia professione prima che soddisfare i gusti degli altri: comunemente si dice: amicus Plato, sed magis amica veritas. Ti ho detto questo in latino, perché può essere che adesso che sei governatore tu arrivi ad intenderlo. Dio ti guardi in modo che nessuno debba avere compassione dei fatti tuoi.

 

                            Il tuo amico.

Don Chisciotte Della Mancia.”

 

Con somma attenzione ascoltò Sancio la lettera, che fu celebrata e tenuta per eccellente da quanti la intesero. Egli si alzò sul fatto da tavola, e chiamato il segretario, si chiuse con lui in camera, e senza frapporre il menomo indugio, volle rispondere adeguatamente al suo signor don Chisciotte. Ordinò pertanto al segretario che senz'aggiungere o levare parola, scrivesse tutto ciò che gli detterebbe. E così fece, e la risposta è la seguente.

 

Sancio Pancia

a don Chisciotte della Mancia.

 

“L'occupazione dei miei negozi è tanto grande, che non mi resta tempo da grattarmi la testa, né da tagliarmi le ugne, sicché le porto tanto lunghe come Dio sa. Io dico questo, o signor del mio cuore, perché vossignoria non faccia le meraviglie se prima di adesso non le ho fatto sapere alcuna cosa intorno al mio bene o male stare in questo governo, nel quale patisco più fame di quando noi andavamo insieme per le selve e per i deserti.

L'altro dì mi ha scritto il mio signor duca ch'erano entrate in quest'isola delle spie per ammazzarmi, ma sino adesso non ne ho scoperto che una sola, ed è un certo dottore salariato per ammazzare quanti governatori qua arrivano. Costui si chiama il dottore Pietro Rezio, ed è nativo di Tiratinfuora, e veda vossignoria da questo nome solo se non si ha ad aver paura di morire per le sue mani. Questo dottore dice di sé medesimo che non si mette mai a medicare le infermità quando sono attuali, ma che adopera la sua arte perché non succedano; e le medicine che suole usare sono dieta, arcidieta, e tanta dieta che riduce l'uomo a pelle ed ossa, come se la debolezza non fosse peggiore della febbre. Insomma egli mi va ammazzando di fame, ed io mi vo morendo di rabbia; che quando io credeva di venire a questo governo per mangiare caldo e bere fresco, e per ricreare il mio corpo tra lenzuola di Olanda e materasse di piume, sono invece venuto a fare penitenza dei miei peccati, peggio che se fossi un romito: e siccome non lo fo di mia spontanea volontà, temo che al fine dei conti non mi abbia a portar via il diavolo.

Sino a questo punto la ho fatta magra, e non ho messo da parte alcuna provvisione, di che non posso indovinare il motivo; tanto più che sono stato assicurato che gli altri governatori venuti in quest'isola, anche prima di entrarvi, ricevono dagli abitanti e regali e denari a prestito; e dicono che questa è usanza non solo di questo ma anche degli altri governi.

Ieri di notte facendo la ronda per l'isola, incontrai una bella ragazza vestita da uomo con suo fratello da donna. Il mio scalco si è subito innamorato della ragazza, e si è ficcato in testa di volerla per sua sposa, come mi ha detto; ed io ho eletto il ragazzo per mio genero. Oggi stesso comunicheremo le nostre risoluzioni al padre di ambedue, ch'è un tal Diego della Gliana, cittadino e cristiano vecchio quanto vuole.

Io vado visitando i mercati come vossignoria mi consigliò, e ieri ho trovato una fruttaiuola che gridava nocciole nuove, ed aveva frammischiato con le nuove un buono staio di vecchie, vuote, tarlate e guaste. Ho comandato che fossero tutte applicate ai fanciulli delle dottrine, i quali le avranno sapute separar bene, ed ho sentenziato che per quindici giorni la fruttaiuola non comparisse al mercato. Mi hanno detto che mi sono portato benissimo: ma intanto quello che io posso scrivere a vossignoria si è che tutti affermano che in questo paese non vi è gente più briccona delle donne che vendono sul mercato: sono il peggio che si possa dire, svergognate, senza coscienza, temerarie, e così credo anche che sieno sull'esempio di quelle che ho vedute nei mercati degli altri paesi.

Sono molto contentissimo che la mia signora duchessa abbia scritto a mia moglie Teresa Pancia, e che le abbia mandato il regalo che vossignoria dice: e procurerò di mostrarmi grato a tempo e a luogo. Le bacerà le mani per parte mia, e le dirà che non ha versato in sacco rotto come lo vedrà dagli effetti.

Non vorrei che vossignoria avesse dei disgusti con codesti padroni, perché se vossignoria s'istizza, è cosa chiara che tutto torna a mio danno; e non sarà bene che avendo a me consigliato di farmi ben volere, ella poi non si comporti allo stesso modo verso chi le fa tanti favori, e l'ha trattata con tante carezze in codesto castello.

Non posso capire l'affare del gattamento, benché m'immagino che sarà qualche burla di quelle che sogliono fare a vossignoria i perfidi incantatori; ma ne saprò poi il netto quando ci rivedremo. Vorrei mandarle qualche cosa, ma non so che, quando non le mandassi qualche cannoncino da schizzatoi, che se ne fanno in questa isola di curiosissimi. Ad ogni modo se la mia carica durerà, cercherò qualche cosa da mandarle o per fas o per nefas.

Vossignoria paghi il porto delle lettere che capitassero di mia moglie Teresa Pancia, e me le mandi, perché ho gran voglia di sapere come se la passano in casa mia e la moglie e i figliuoli. E con questo Dio liberi vossignoria dai perfidi incantatori, e faccia che mi cavi sano ed in pace da questo governo, della qual cosa però dubito. Non vorrei lasciarvi la vita per causa dei pessimi trattamenti del dottore Pietro Rezio.

 

                            Servitore di vossignoria

Sancio Pancia il Governatore.”

 

Il segretario chiuse la lettera e spacciò incontanente il corriere; ed intanto i burlatori di Sancio si concertarono insieme per fargli terminare il governo.

Egli si occupò in quella sera nel fare diverse ordinazioni per il buon andamento di quella che figuravasi essere isola.

Ordinò fra le altre cose che non avessero a trovarvisi appaltatori di vettovaglie, e che vi si potesse introdurre il vino liberamente, a condizione però che dichiarato fosse il luogo d'onde partiva per assegnare il prezzo secondo la qualità e bontà; pena la testa a colui che lo innacquasse o gli mutasse nome; moderò il prezzo di ogni cosa necessaria a calzarsi, e delle scarpe principalmente, parendogli che fossero eccessivamente costose; mise la tassa ai salari dei servitori, che corrono senza freno sul cammino dell'interesse; stabilì gravissime pene a chi cantasse di notte o di giorno canzoni lascive; e ordinò che niun cieco recitasse miracoli in versi, se però autenticar non potesse la verità di quello che narrava, sembrandogli che la più parte dei prodigi che dai ciechi si sogliono raccogliere, sieno finti, in pregiudizio dei veri; stabilì un birro per i poveri, non già perché avesse a perseguitarli, ma perché dovesse riconoscere se tali fossero davvero, mentre sotto l'ombra di finto storpiamento e di piaghe false rubano a più potere e si ubbriacano: insomma fece sì provvide discipline che sino al presente giorno si osservano in quel paese, e sono chiamate: Le costituzioni del grande governatore Sancio Pancia.


CAPITOLO LII

 

RACCONTASI L'AVVENTURA DELLA SECONDA MATRONA DOLORIDA, O ANGUSTIATA, CHIAMATA CON ALTRO NOME DONNA RODRIGHEZ.

 

Cide Hamete racconta che trovandosi già don Chisciotte guarito dalle graffiature, gli sembrò che il tenore del suo vivere in quel castello fosse in opposizione all'ordine di cavalleria da esso lui professato. Determinò pertanto di chiedere licenza ai duchi per andarsene a Saragozza, le cui feste si avvicinavano, sperando di acquistare lo scudo destinato ai vincitori. Stando un giorno coi duchi a tavola, e apparecchiandosi a chiedere loro congedo, ecco entrare d'improvviso per la porta della gran sala due donne (come si conobbe di poi) vestite di bruno da capo ai piedi. Appressatasi a don Chisciotte una di esse, si gittò a terra quanto era lunga, tenendo la bocca combaciata coi piedi di don Chisciotte, e mandando fuori gemiti e pianti sì dolorosi e profondi che mise in tutti quelli che la udivano e la osservano la più grande confusione. Tuttoché si avvisassero i duchi che questa dovesse essere una novella burla immaginata dai loro dipendenti, nondimeno vedendo con quanto dolore e con qual veemenza sospirava la donna e gemeva e piangeva, stettero sempre in dubbio e in sospetto fino a tanto che don Chisciotte commosso la sollevò da terra, facendo che si scoprisse e togliesse il velo che nascondeva il lagrimoso suo volto.

Ella ciò eseguì, e mostrò essere quello che non sarebbesi immaginato da chicchessia, mentre scoprissi la faccia di donna Rodrighez, la matrona di casa; e l'altra coperta a bruno era la sua figliuola, la ingannata dal figliuolo del dovizioso contadino. Restarono maravigliati tutti coloro che la conoscevano, e più di tutti i duchi, che la tenevano bensì in conto di sciocca e zotica, ma non mai tale da discendere in siffatte pazzie. Finalmente voltasi donna Rodrighez verso i padroni, disse:

— Vogliano le eccellenze vostre concedermi che io un cotal poco mi apparti con questo cavaliere; che ciò mi è assolutamente indispensabile per uscire con onore dall'impegno in cui mi ha posta la temerità di un indegno villano.” Rispose il duca che aderiva alla sua inchiesta e che si mettesse pure a suo talento in disparte, e conferisse col signor don Chisciotte. Volgendo ella allora e la faccia e il discorso a don Chisciotte, così disse:

— Ricordatevi quel giorno, o valoroso cavaliere, che vi ho reso informato del torto e del tradimento usato da malvagio contadino alla mia dolce ed amatissima figliuola, ch'è la disgraziata che vi vedete dinanzi, e voi promesso mi avete di accingervi a difesa sua dirizzando il torto che le venne fatto. Ora è giunto a mia notizia che avete divisato di partire da questo castello per andarvene a cercar buone venture (così Dio ve le presenti), ma io vorrei che prima di cimentarvi ad altra impresa sfidaste questo villano indomito per obbligarlo a prendere la mia figliuola in moglie, adempiendo la parola che le ha dato di essere suo sposo e prima e dopo quello ch'è accaduto fra loro. Lo sperare che mi renda giustizia il mio signor duca è un pretender pere dall'olmo per le ragioni che nettamente ho già fatte conoscere a vossignoria: non dico altro, o signor cavaliere, e Dio conceda alla signoria vostra ogni bene, e non vi lasci mai senza il suo aiuto.”

A queste parole don Chisciotte rispose con molta gravità e prosopopea.

— Temperate, buona matrona, le vostre lagrime, o a meglio dire rasciugatele e risparmiate i vostri sospiri, che prendo sopra di me il risarcimento dovuto alla vostra figlia cui però sarebbe stato assai più onorevole di non abbandonarsi così alla cieca alle promesse degli innamorati, le quali d'ordinario son facili ad essere fatte, e difficili troppo ad essere mantenute. Io pertanto, con licenza del duca mio signore, mi recherò sull'istante in traccia dello sciagurato giovane senza cuore; lo troverò, lo sfiderò, e lo ammazzerò se negherà di mantenere la promessa fede. Il principale assunto della mia professione è, come sapete, di perdonare agli umili e di gastigare i superbi: ch'è quanto dire di sostenere i miseri e di punire gli arroganti.

— Non occorre, disse allora il duca, che la signoria vostra si dia il fastidio di andare in traccia del villano di cui si querela la buona matrona; né importa che a me dimandi la permissione di sfidarlo, che io glielo do già per isfidato, e prendo a carico mio di fargli sapere questo cimento, e di obbligarlo perché lo accetti, e venga a rispondere personalmente in questo mio castello, dove darò ad entrambi campo sicuro, eseguendo le condizioni tutte che in tali atti sogliono e debbono osservarsi; guarentirò egualmente, ad ognuno il giusto come si trovano obbligati tutti i principi che danno campo franco a quelli che combattono nei termini della loro giurisdizione.

— Ebbene, con questa certezza e con buona licenza della grandezza vostra, replicò don Chisciotte, dico in questo momento che rinunzio per questa sola volta alla nobiltà, ed umiliandomi mi rendo eguale alla bassezza del malfattore, mi fo suo pari, e lo abilito a poter venir meco a battaglia; e perciò, tutto che assente, lo sfido e lo provoco per aver egli male operato nell'ingannare questa poveretta: egli dee mantenerle la parola una volta datale di essere suo legittimo sposo, o morire.”

E trattosi incontanente un guanto, lo gittò in mezzo della sala, di dove fu raccolto dal duca, il quale soggiunse che, come aveva detto, accettava la disfida in nome del suo vassallo, e segnava il termine dopo sei giorni e il campo nella piazza del suo castello, e le armi solite dei cavalieri, cioè lancia, scudo e armatura con tutte le altre arme, senza inganno e soverchieria o superstizione di sorta alcuna, e dietro esame da farsi dai giudici del campo.

— È però necessario, continuò il duca, che questa buona matrona e questa cattiva donzella rimettano la ragione della loro giustizia in mano del signor don Chisciotte; che diversamente non si farà nulla, né lascerei che fosse in modo alcuno eseguita tal disfida.

— Io la rimetto, rispose la matrona.

— Ed io egualmente,” aggiunse la figlia tutta in lagrime, vergognosa e di malavoglia.

Concesso pertanto questo appuntamento, mentre il duca andava pensando a ciò che dovesse fare in quel caso, se ne partirono le brune donne, ed ordinò la duchessa che quind'innanzi non fossero più trattate come due serventi, ma come signore venturiere che venivano a dimandare giustizia dinanzi a lei. Fu subito assegnato loro un appartamento separato, e vennero trattate come forestiere, non senza apprensione delle altre donne di corte che non giungevano a intendere dove andasse a parare la follia e la cattiva condotta di donna Rodrighez e della male incamminata figliuola.

Standosi in questo, e per rallegrare la festa e dare buon termine al desinare, ecco ch'entra in sala quel paggio che recò le lettere e i regali a Teresa Pancia moglie del governatore Sancio Pancia, del cui arrivo ebbero i duchi gran contento, siccome desiderosi di sapere ciò che gli fosse successo nel viaggio. Si affrettavano a interrogarlo; ma egli disse che non avrebbe potuto rispondere così in pubblico né con brevi parole; e perciò che piacesse alle loro eccellenze di riserbarsi a privato colloquio, soddisfacendosi frattanto con quelle lettere. Due ne cavò fuori e le mise in mano alla duchessa. Aveva l'una questa soprascritta: “Lettera per la mia signora duchessa tale di non so dove;” e l'altra: “A mio marito Sancio Pancia governatore dell'isola Barattaria, che Dio prosperi più anni di me.”

La duchessa non poteva stare alle mosse, come suol dirsi, per la impazienza di leggere la lettera a lei diretta, ed apertala, e gittatovi lo sguardo, e conosciuto che poteva leggerla ad alta voce perché il duca e i circostanti la udissero, lo fece tosto. Ascoltiamola

 

Teresa Pancia

alla duchessa di non so dove.

 

“Gran contento mi ha dato, signora duchessa, la lettera scrittami da vostra grandezza; che posso veramente dire di averla desiderata per un gran pezzo di tempo. La filza dei coralli è buonissima, e il vestito da caccia di mio marito non lo è niente manco. Molto piacere ha provato tutto questo paese nel sentire che Sancio mio consorte sia stato fatto da vostra signoria governatore, sebbene non vi è alcuno che lo creda, e principalmente il curato e maestro Nicolò il barbiere e Sansone Carrasco il baccelliere; ma a me non importa un fico secco, mentre pur che ciò sia vero, com'egli è, ciarli pur ognuno come gli pare: ma se ho da confessare la verità non lo avrei creduto io medesima se non avessi visti i coralli e il vestito. Perché sappi vossignoria che in questo paese mio marito è tenuto da tutti per una bestia, e nessuno arriva a concepire che governo possa egli essere buono da sostenere, quando non è nato che per governare un branco di capre, Dio lo aiuti e lo incammini pel meglio dei suoi figliuoli. Io, signora amatissima, sono risoluta con sua buona licenza di mettere questa notizia a profitto della famiglia e di passare a corte, e poi di andarmene lunga distesa in un cocchio per far schizzar gli occhi ai mille invidiosi che tengo. Supplico intanto vostra eccellenza che ordini a mio marito che mi mandi dei denari, e che sia buona somma: perché nella corte le spese sono grandi; che il pane è tanto caro che vale un reale, e la carne trenta maravedis per libbra. Se poi non vuole che io venga me lo faccia sapere a tempo, mentre ho le brace sotto ai piedi per voglia di mettermi in viaggio, che dicono le mie vicine che se io e mia figlia ci faremo vedere con fasto e con pompa alla corte, verrà ad essere conosciuto mio marito più per mezzo mio che per sé proprio. Non potrà la gente far di meno di chiedere: “Chi sono le signore di questo cocchio?” e un mio servitore risponderà: “La moglie e la figliuola di Sancio Pancia governatore dell'isola Barattaria:” e di questa maniera sarà conosciuto Sancio, ed io sarò stimata e a Roma e per tutto.

“Mi sa male quanto mai si può dire che non si sieno in quest'anno raccolte che poche ghiande in questo paese, ma con tutto questo ne mando a vostra altezza mezzo quartuccio, che io stessa andai a raccorre nella montagna: non ne trovai di maggiori, eppure avrei voluto che fossero come uova di struzzo. Non si dimentichi la vostra pomposità di scrivermi, che io sarò sollecita a rispondere dandole avviso della mia salute e di tutto quello che sarà da farle sapere di questo paese, dove resto pregando Dio che tenga in sua custodia la vostra grandezza, e che non si scordi di me. Sancia mia figliuola e il mio figliuolo baciano a vossignoria le mani.

“Quella che tiene desiderio più grande di vedere V. S. che di scriverle

 

                                     “Sua servitora

Teresa Pancia.”

 

Gran piacere ebbero tutti, e specialmente i duchi, nell'udire questa lettera; e la duchessa chiese consiglio a don Chisciotte se fosse ben fatto aprir l'altra diretta al governatore che s'immaginava dovesse esser singolare. Disse don Chisciotte che l'aprirebbe egli per loro soddisfazione; e, ciò fatto, si trovò ch'era così concepita:

 

Teresa Pancia

a Sancio Pancia suo marito.

 

“Ho ricevuto la tua lettera, Sancio mio dolce, e ti prometto e giuro da cattolica romana che mancarono due dita sole che io non diventassi matta dalla consolazione. Credi pure, fratello, che quando venni a sapere che tu eri governatore, fui all'orlo di cascar morta; che tu sai il proverbio: tanto ammazza improvvisa allegrezza quanto gran dolore. A Sancetta tua figliuola scappò l'acqua senza nemmeno che se ne accorgesse, per lo puro contento. Io avevo davanti agli occhi il vestito che mi hai mandato: tenevo i coralli al collo regalatimi dalla mia signora duchessa; le lettere erano in mia mano, il messo che portò tutte queste cose stava presente: eppure con tutto questo io pensava che fosse un sogno quello che vedevo e toccavo, perché chi poteva figurarsi mai che un povero guidatore di capre dovesse arrivare ad essere governatore d'isole? Già tu sai, amico, che soleva dire mia madre: bisogna vivere molto per vedere molto. Dico questo perché penso di vedere anche più se vivo di più; mentre fo conto di non chetarmi se non arrivo a vederti appaltatore o doganiere, cariche che sebbene il diavolo porti via chi le esercita male, alla fine dei conti danno da possedere e da maneggiare sempre denari. Ti dirà la mia signora duchessa quanto grande sia il mio desiderio di venire alla corte: pensaci, e fammi sapere se ciò ti piace; nel qual caso io procurerò di farti onore, e anderemo in cocchio in compagnia.

Il curato, il barbiere, il baccelliere ed anche il sagrestano non possono credere che tu sia governatore; e vanno spargendo che tutto questo è imbroglio o cose d'incantesimo, come sono tutte quelle che risguardano il signor don Chisciotte tuo padrone. Sansone Carrasco dice che vuol venirti a trovare per cavare a te il governo dal capo, e la pazzia dal cervello di don Chisciotte. Io rido di tutto questo; e sto guardando il mio vezzo di coralli, e vo pensando come si possa fare a nostra figliuola un vestito di quello che mi hai mandato. Ho inviate alcune poche ghiande alla mia signora duchessa, le quali avrei voluto che fossero d'oro. Mandami tu qualche filza di perle, se si usano in cotesta tua isola.

Ti dirò anche le nuove che corrono in questo paese. La Berrucca maritò sua figliuola con un cattivo pittore, il quale è venuto in questo paese a dipingere con cinque dita. Gli fu ordinato dal consiglio di colorire le armi di sua Maestà sopra le porte del comune, ed egli ne chiese due ducati, li ebbe anticipatamente e lavorò otto giorni, in capo dei quali trovossi che non aveva dipinto niente, e disse che non sapeva risolversi a por mano al pennello per queste inezie. Restituì il denaro, e con tutto questo si maritò, per la fama che avea di buon pittore: verità è che ha già abbandonato il pennello, e che ha dato di piglio alla zappa, e va al campo come un gentiluomo. Il figliuolo di Pietro Lupo ha pigliato gli ordini minori con intenzione di farsi prete. Venne a saperlo Menicuccia, la nipote di Menico Silvano, e lo accusò di averle dato parola di tôrla per moglie, e le male lingue dicono qualche cosa di più; ma il giovane a tutta gola protesta che dicono il falso. Siamo senza ulive in quest'anno, né si trova in questo paese goccia di aceto. Passò di qua una cornpagnia di soldati, i quali menarono via tre ragazze del paese. Non voglio dirti chi sono perché forse torneranno, e non mancherà chi le pigli per moglie come saranno. Sancetta fa merletti da reticelle; guadagna ogni dì otto maravedis, e li va mettendo in un ghiandaruolo per suo corredo: ma adesso ch'è figliuola di un governatore, avrà da te la dote senza tanti stenti. La fontana della piazza è seccata. Una saetta è caduta sopra la berlina, che così s'inceneriscano tutte. Attendo risposta alla presente, e la tua risoluzione del mio venire alla corte. Dio con questo ti guardi più anni di me, o quanto sarò io per vivere, perché non vorrei lasciarti senza la mia compagnia in questo mondo.

 

                 Tua moglie

Teresa Pancia”

 

Queste lettere furono festeggiate, derise, stimate e soggetto di generale stupore; e per dare compimento all'opera giunse anche il corriere che recava la lettera di Sancio a don Chisciotte, che pure fu letta pubblicamente, e fu cagione che dovessero tutti dubitare se veramente fosse così semplice come pareva.

Si appartò la duchessa per essere informata dal paggio dell'avvenutogli nel paese di Sancio, ed egli fece il più minuto racconto senza omettere niuna circostanza. Consegnò le ghiande e di più una forma di cacio che Teresa gli aveva dato, assai buono, e da giudicarsi migliore del marzolino e del parmigiano. La duchessa lo ricevette con grandissimo contento, in cui la lasceremo per raccontare il fine ch'ebbe il governo del gran Sancio Pancia, fiore e specchio di tutti gl'isolani governatori.

CAPITOLO LIII

 

DEL TRAVAGLIOSO FINE CH'EBBE IL GOVERNO DI SANCIO PANCIA.

 

Credere che in questa umana vita debbano le cose durar sempre ad un modo, gli è un immaginare l'impossibile: mentre vediamo che tutto va alternandosi senza pose. Succede la state alla primavera, l'autunno alla state, il verno all'autunno, ed al verno la primavera: e così torna a girare il tempo con questa ruota continua, e la nostra vita sola scorre presto presto al suo fine, senza speranza di rinnovarsi se non nell'altra, che non ha limiti ed è eterna. Così si esprime Cide Hamete, filosofo maomettano; poi il conoscere la leggerezza e la instabilità di questa vita mortale, e la durazione della eterna, che si spera, è inteso da molti anche senza i lumi della fede, mediante la sola ragione naturale. Il nostro autore pronunziò così grave sentenza, riflettendo alla prestezza con che finì, si consumò, si disfece e dileguossi come ombra e fumo il governo di Sancio.

Stava egli la settima notte dei giorni del suo governo a letto, non satollo né di pane né di vino, e soltanto di proferire giudizi, di dar pareri e di fare statuti o prammatiche; ed il sonno a dispetto della fame cominciava a fargli chiudere le palpebre, quando sentì straordinario rumore di campane e di schiamazzi, che propriamente pareva che tutta l'isola avesse a sprofondarsi. Si pose a sedere sul letto, e stette cogli orecchi tesi per conoscere possibilmente d'onde procedesse sì terribile rombazzo: ma non solo non giunse allora a scoprirne la cause, anzi aggiungendosi allo strepito delle grida e delle campane, quello d'infinite trombe e tamburi, rimase egli più confuso che mai e tutto pieno di sospetti e di spavento. Rizzossi, si mise le pianelle per evitare l'umidità del terreno, e senza porsi indosso zimarra od altra veste, venne alla porta della sua camera; ed ecco che vide avanzarsi dal corridoio più di venti persone con torce accese in mano e colle spade sguainate, gridavano tutti il più che potevano: “All'armi, all'armi, signor governatore, all'armi, che sono entrati nell'isola infiniti nemici, e siamo perduti, quando il vostro grande valore non ci soccorra.”

Con tutto questo fracasso e furia e sollevamento sorpresero il povero governatore, che rimase tutto sbalordito senza distinguer bene quello che udisse o vedesse. Gli si avvicinò un uomo e gli disse:

— Presto, si armi vossignoria, se non vuole andare in precipizio con tutta l'isola.

— E perché m'ho ad armare? rispose Sancio; e che so io di armi o di soccorsi? Sarà meglio lasciare queste cose al mio padrone don Chisciotte, che in due parole le spedirà e vi troverà ripiego, mentre io, poveraccio, non m'intendo niente di queste frette tanto frettolose.

— Ah signor governatore! disse un altro, che viltà è questa? Dia di piglio all'armi e la finisca, che le portiamo qua armi offensive e difensive, e corra alla piazza e si costituisca nostra guida e nostro capitano; questo le appartiene di diritto come nostro governatore.

— Mi armino pure, alla buon'ora, replicò Sancio.

Incontanente gli recarono due pavesi, dei quali erano forniti a dovizia, e glieli misero alla camicia (senza lasciargli prendere altro vestito) uno dinanzi e l'altro di dietro: per certe concavità fatte ad arte gli trassero fuori le braccia; e quindi legaronli ben forte con cordicelle, di modo che rimase come murato e intavolato, diritto come un fuso, senza poter piegare le ginocchia, né muovere neanche un passo. Gli posero in mano una lancia sulla quale si appoggiò per reggersi in piedi, e quando lo ebbero così avviluppato, gl'intimarono che camminasse e che a modo di buon condottiere animasse tutti all'impresa: mentre speravano che avendo lui per tramontana, per lanterna e per diana, ogni cosa finirebbe con prospero evento.

— Come diavolo volete che io cammini? disgraziato di me, rispose Sancio, se non posso piegar le ginocchia coll'imbarazzo di queste tavole che stanno cucite colle mie carni! Portatemi a braccio, che questo è il meglio che io possa fare: mettetemi o ritto o attraverso in qualche sportello, che lo difenderò con questo lancione e con questo corpo.

— Eh signor governatore! disse un altro, la paura è quella che le dà fastidio e non mica le tavole: movasi e la finisca, ch'è tardi, e i nemici crescono e le grida incalzano, e il pericolo diventa sempre più terribile.

Il povero governatore, irritato da questi rimproveri, provò a muovere un passo, ma non fece altro che dare uno stramazzone in terra con tale precipizio che gli parve di essersi fatto in pezzi. Se ne restò come testuggine rinserrata dentro al suo nicchio, o come mezzo presciutto messo tra due strettoi, o come barca che dà a traverso nella rena. Ma non per questo ne sentì alcuna compassione quella gente burlona; che anzi smorzando le torcie, rinforzò ancora le grida, e reiterò l'allarme con sì gran furia, passando sul povero Sancio, e dando infiniti colpi sopra i suoi pavesi, che s'egli non si fosse tutto raggomitolato e raggricchiato, ficcando in giù la testa, sarebbe ita la cosa molto male per lui. Chiuso in quelle strettezze, sudava e grondava, raccomandandosi a Dio che di tanto pericolo lo cavasse. Taluno inciampava in lui, altri cadeva, e tale vi fu che gli montò addosso, e di là come da sentinella, dirigeva le squadre e sclamava:

— Passino i nostri da questa parte, che qua fanno forza maggiore i nemici; si difenda quello sportello, quella porta si chiuda, si sbarrino quelle scale, portino qua caroselle e palle infuocate, vengano caldaie con pece ed olio bollente, si alzino trincere di materassi per le strade.

Infine passava in rassegna con ardore tutte le cose e gli strumenti e le munizioni di guerra colle quali si suole difendere la città dall'assalto. Il ben macinato Sancio, che ascoltava e sopportava ogni cosa, dicea tra sé stesso:

— Oh piacesse a Dio che i nemici prendessero quest'isola, e che fossi o morto o tolto da tante angustie!

Salì al cielo la sua preghiera; poiché quando meno se l'aspettava, udironsi voci che ripetevano: “Vittoria, vittoria! i nemici sono in piena rotta; si alzi pure, signor governatore, venga a gioire del trionfo e a dividere le spoglie torte al nemico, mercé il valore del suo invincibile braccio.”

— Mi alzino altri, disse Sancio con voce dogliosa.

E aiutato a rizzarsi quando fu in piedi disse:

— Voglio che mi conficchino in fronte il nemico che ho superato, e non voglio io saperne di bottini dei nemici, e mi basta pregare e supplicare qualche amico, se pure ne ho alcuno, che mi dia un sorso di vino perché muoio di sete, e che mi rasciughi questo sudore nel quale mi vado tutto stemperando.

Lo rasciugarono, gli recarono del vino, gli slegarono i pavesi, passò a sedere sopra il suo letto, ma ivi svenne per la paura, per lo batticuore e per lo travaglio.

Rincresceva a tutti di avergliela fatta sì sonora; se non che il vedere poi Sancio tornato in sé, mitigò la pena che lo svenimento suo aveva cagionato. Chiese che ora fosse, e gli risposero che si avvicinava il giorno. Tacque, e senza aggiungere parole cominciò presto a vestirsi guardando il più rigoroso silenzio, e intanto stavano tutti osservando, desiderosi di vedere dove andrebbe a finire tale sua fretta. Finalmente si trovò vestito, e a poco a poco (giacché era tutto pesto, né poteva accelerare il passo), recossi alla stalla seguito da quanti quivi trovavansi; ed appressatosi al suo asino, lo abbracciò, gli diede in fronte il bacio di pace, e non senza spargere lacrime dagli occhi, gli indirizzò queste parole:

— Vien qua, compagno mio, amico mio, e consolatore de' miei travagli e delle miserie; quando io era d'accordo con te, né avevo altri pensieri che quelli di racconciare la tua bardella e di sostentare il tuo caro corpicciuolo, felici erano le mie ore e beati i giorni e gli anni: dopo che ti ho abbandonato per salire sopra le torri dell'ambizione e della superbia, mille miserie, mille travagli e quattromila smanie penetrarono dentro il mio cuore.

Intanto che stava dicendo queste e simili cose, attendeva ad imbardellare la bestia, senza che alcuno gli dicesse sillaba. Finì quella operazione, e con fatica e con istento vi montò sopra; poi indirizzando la parola al maggiordomo, allo scalco ed al dottore Pietro Rezio, non meno che agli altri tutti che quivi erano, disse:

— Fatemi largo, signori miei, e lasciatemi ritornare all'antica mia libertà; lasciatemi andare a cercar la mia vita passata, affinché io risusciti da questa morte presente: io non son nato per essere governatore, né per difendere isole, né città dai nemici che le vogliono prendere d'assalto; io m'intendo più dell'arare, del zappare, del potare e del propagginare le vigne, che di dare leggi e difendere regni e provincie. Bene sta San Pietro in Roma: e voglio dire che ognuno sta bene nell'ufficio pel quale è nato, e meglio sta a me una sega in mano che uno scettro di governatore; voglio piuttosto satollarmi di pane molle con l'olio, aceto e sale, che stare soggetto alla miseria d'un medico impertinente che mi faccia morire di fame: piuttosto voglio starmene nell'estate sotto l'ombra di un faggio, e coprirmi di sacco nell'inverno, ma in piena libertà, che dormire coi sospetti di un governo, ravvolto in lenzuola d'Olanda e vestito di pelliccie. Le signorie vostre restino con Dio, e dicano al duca mio signore che nacqui ignudo, che ignudo adesso mi trovo, né ho perduto, né ho guadagnato, e voglio dire che sono entrato in questo governo pitocco, e pitocco me ne vado, e che non mi accadde come a tanti altri governatori di altre isole che tornano a casa carichi di bottino. Vossignorie vadano pei fatti loro ché io vo pei fatti miei, ed ho bisogno di sollecitare a mettermi degli empiastri, perché temo di avere le costole tutte rotte, per colpa dei nemici che questa notte hanno passeggiato sopra la mia persona.

— Così non dev'essere, signor governatore, disse il dottor Rezio; ed io somministrerò a vossignoria una bevanda contro le cadute e percosse, per cui ella riacquisterà il primitivo suo vigore e la sua salute; e quanto al mangiare, prometto a lei di emendarmi, concedendole di cibarsi abbondantemente di tutto quello che le piacerà.

— È troppo tardi, disse Sancio, e tanto è possibile ch'io non vada, quanto che diventi turco. Oh, di queste burle non se ne fanno due volte, e giuro per la vita mia che non resterò in questo né piglierei altro governo, se pure me lo dessero tra due piatti; e ciò è tanto certo, come è certo che non si può volare senz'ale. La razza dei Pancia, signor dottore mio carissimo, sappiate che quando ha detto una volta no, vi persiste a dispetto di tutto il mondo: restino in questa stalla le ali della formica che mi sollevarono in aria, perché le rondini ed altri uccelli mi avessero a mangiare, e torniamocene pure a camminare per terra a piede sciolto, ché se non sarò fornito di scarpe trinciate di cordovano, non saranno almeno per mancarmi quelle rozze di corda; ognuno co' suoi pari, e niuno distenda le gambe più di quello che è lungo il lenzuolo; e mi lascino andare, che oramai si fa tardi.

Il maggiordomo disse:

— Signor governatore, noi volentieri la lasceremmo partire, benché molto ci dolga il perderla, che il suo ingegno ed il suo cristiano procedere ci lasceranno di lei un desiderio perpetuo: ma ognuno sa che tutti i governatori sono obbligati prima di lasciare il governo di sottoporsi ad un sindacato: ora vi si addatti vossignoria per questi dieci giorni che ha durato il suo reggimento, e poi se ne vada in santa pace.

— Nessuno mi può comandare questa cosa, soggiunse Sancio, se non fosse il duca mio signore, che è il solo padrone, ed io vo adesso a trovarlo, e a lui darò conto appuntino e senza difficoltà: perché siccome me ne vo ignudo, così basterà questo a provare che ho governato da angelo.

— Oh in fede mia, disse il dottor Rezio, che ha ragione il grande Sancio, ed io sono di avviso che lo lasciamo partire, poiché il duca avrà molto contento nel rivederlo.

Entrarono tutti in questo parere, e lo lasciarono andare, offrendogli compagnia e tutto quello che più gli piacesse, sì per comodo della sua persona che per vitto nel viaggio. Sancio disse che non voleva altro se non un po' di biada pel suo leardo, e mezza forma di cacio e mezzo pane per sé, mentre essendo la strada corta non aveva bisogno né di migliore né di peggiore credenza. Tutti lo abbracciarono, e a tutti egli diede il ricambio, lasciandoli edificati de' suoi detti e delle sue sentenze, non meno che della sua risoluta e discreta determinazione


CAPITOLO LIV

 

TRATTASI DI COSE APPARTENENTI A QUESTA E NON AD ALCUN'ALTRA ISTORIA.

 

La sfida che don Chisciotte aveva intimata per le ragioni già dette, parve al duca e alla duchessa che dovesse andare innanzi; e poiché il giovanotto stava nelle Fiandre, dove era fuggito per non essere costretto ad accettare donna Rodrighez per suocera, divisarono di sostituirvi uno staffiere guascone, che si chiamava Tosillo, istruendolo prima molto bene di tutto quello ch'egli dovesse fare. In capo di due giorni il duca annunziò a don Chisciotte che di là ad altri quattro verrebbe il suo avversario, e presenterebbesi in campo, armato come cavaliere, apparecchiato a sostenere che la donzella mentiva per metà della barba ed anco per tutta la barba intera, qualora continuasse a dire che le fosse stata data parola di maritaggio. Diede questa novella gran contento a don Chisciotte; il quale promise a se stesso di operare meraviglie, tenendo per buona ventura che se gli fosse offerta occasione in cui mostrare a quei signori fin dove giungesse la forza del poderoso suo braccio: e così tutto baldanzoso e giulivo stava attendendo i quattro giorni, che diventavano quattrocento secoli in comparazione delle sue smanie. Lasciamoli passare noi al modo stesso che lasciato abbiamo passare altre cose, e facciamoci ad accompagnare Sancio, che mezzo allegro e mezzo malinconico se ne veniva sopra il suo leardo in traccia del suo padrone, la cui compagnia eragli molto più gradevole dell'essere governatore di tutte le isole dell'intiero mondo.

Avvenne pertanto che non essendosi ancora molto scostato dall'isola da lui governata (che non seppe mai ben riconoscere se fosse isola, città, paese o castello quella al cui governo era stato posto), vide che per la strada medesima da lui battuta venivano sei pellegrini coi loro bordoni, ed erano di quelli che cantarellando vanno accattone. Giunti presso a lui si misero in ala, ed alzando tutti insieme la voce cominciarono a cantare nel loro idioma quello che Sancio non poté intendere, ad eccezione di una parola che nettamente si faceva sentire, limosina: dal che venne ad inferire cantando accattassero. E siccom'egli, per quanto Cide Hamete riporta, era molto caritativo, trasse dalle sue bisaccie il mezzo pane e la mezza forma di cacio di cui s'era provvisto, e li diede loro facendo intendere a cenni che altro non aveva da dispensare.

Assai volentieri accettarono, e dissero: — Guelte; guelte.

— Non intendo, disse Sancio, che cosa voi mi dimandiate, o buona gente.”

Uno di essi allora cavò una borsa dal seno, e la mostrò a Sancio; il quale venne così a comprendere che gli chiedeano danari: ond'è che mettendosi il dito grosso alla gola, e distendendo la mano su loro fece capire che non aveva un maledetto maravedis al suo comando, e dato di sprone al leardo passò avanti. Essendo stato da uno dei pellegrini guardato con molta attenzione, corse questi alla volta sua, e raggiuntolo, lo abbracciò a dirittura, e con alta voce in castigliano gli disse:

— Oh poffare il mondo! che è questo ch'io veggo? È egli possibile che io stringa fra le mie braccia il dolce mio amico, il mio buon vicino Sancio Pancia? Ah sì che lo stringo, ed egli è desso: che io già non dormo, né sono ubbriaco.”

Fece Sancio le maraviglie nel sentirsi chiamare a nome e nel vedersi abbracciare dal pellegrino straniero, e dopo averlo guardato ben bene senza mai proferire parola, non gli venne punto fatto di riconoscerlo. Il pellegrino, per toglierlo dalla sospensione in cui lo vedeva, gli disse:

— Come? E crederò io Sancio, fratel mio, che tu non ravvisi il tuo vicino Ricotte, il moresco che teneva bottega nel tuo paese?”

Lo guardò allora Sancio con maggiore attenzione, e finalmente lo riconobbe appuntino. Senza nemmeno smontare dal giumento, gli gittò le braccia al collo, e gli disse:

— Chi diavolo t'aveva a riconoscere, mio caro Ricotte, con quest'abito da mattaccino che porti? che cosa t'hai posto indosso? dimmi, di grazia: e chi ti ha fatto Franciotto? e come hai tanto coraggio di tornare in Ispagna, dove se ti scoprono, e ti acchiappano, mala ventura ti aspetta?

— Se tu non sarai quello che mi palesi, o Sancio, rispose il pellegrino, io sono certo che in quest'abito non vi sarà chi mi raffiguri. Appartiamoci, e andiamo in questo vicino albereto (che già anche i miei compagni si vogliono fermare, mangiare e riposare un poco), dove ti ciberai anche tu con noi altri in sollazzevole compagnia, ed io ti metterò al fatto di tutti i miei casi fino dal giorno che dovetti allontanarmi dal nostro paese per ubbidire al bando di sua Maestà, che ha cacciati con tanto rigore tutti i disgraziati della mia nazione, come ti è ben noto.”

Lo compiacque Sancio; e Ricotte dopo avere parlato agli altri pellegrini, si ridusse con loro all'indicato albereto fuori di mano dalla strada maestra. Gittarono a parte i bordoni, e si levarono le mozzette; e tutti erano giovani e begli uomini, ad eccezione di Ricotte, piuttosto attempato. Aveva ognuno il suo paio di bisacce, e per quanto pareva erano ben provveduti almeno di cose atte a chiamare la sete due leghe lontano. Si sdraiarono in terra, e valendosi dell'erba per tovaglie, vi soppraposero pane, sale, coltelli, noci, scheggie di cacio ed ossa spolpate di presciutto, le quali quantunque non si lasciassero masticare, non per questo schivavano di essere ben succhiate. Trassero fuori altresì un camangiare nero, che chiamano caviale, composto di uova di pesce, e grande svegliatore della sete; né vi mancarono ulive, sebbene secche e senza alcun acconcime, ma pur saporite e gustose. Le cose che più campeggiarono nel banchetto, furono sei boracce di vino, avendone ognuno cavata fuori una dalla sua bisaccia; e quella del buon Ricotte, ch'erasi trasformato di moresco in alemanno, poteva con tutte le altre cinque gareggiare e competere.

Cominciarono a mangiare con grandissimo gusto, e con pausa, e ad ogni boccone, pigliato colla punta del coltello, aggiungevano picciola porzione di companatico. Tutt'ad un tratto alzarono d'accordo le braccia e le boracce all'aria, le posero alla bocca e fissarono gli occhi al cielo, che propriamente sembrava che vi pigliassero la mira; e così dimenando la testa da una banda e dall'altra, indizio del gusto che provavano, impiegarono buono spazio di tempo vuotando nei loro stomachi le viscere di quei vasi. Sancio osservava e rifletteva sopra questa sua ventura, né gli spiaceva per nulla; ed anche per adattarsi al proverbio: Se vai a Roma dèi vivere alla romana; dimandò a Ricotte la boraccia, pigliò la mira come gli altri, e tracannò con non minor gusto di loro. Per quattro volte permisero le boracce di essere sollevate all'aria, ma non già per la quinta, trovandosi asciutte e secche più di un giunco marino: cosa che avvelenò l'allegria che si era diffusa in quella brigata. Taluno di tanto in tanto congiungeva la destra mano con la sinistra di Sancio, e diceva:

— Spagnuolo e Tedesco un compagno solo.”

Sancio rispondeva: — Buon compagno giura a Dio:” e mandavano fuori tali risate che duravano un'ora: né Sancio si ricordava più punto né poco di quanto nel governo gli era accaduto; che mentre si mangia e si beve hanno poca giurisdizione sopra di noi i pensieri ed i fastidi. Finalmente la mancanza del vino fu principio di profondo sonno da cui tutti furono colti, e per cui rimasero addormentati sulla tovaglia e sul mantile. Soli Ricotte e Sancio si tennero all'erta, avendo bensì mangiato di più, ma bevuto di meno degli altri; e Ricotte conducendo Sancio da parte, si mise con lui a sedere a pié di una quercia, lasciando gli altri pellegrini sepolti in dolcissimo sonno.

Ricotte, senza inciampar mai nel suo dialetto moresco, ma usando della pura lingua castigliana, così si fece a parlare:

— Tu sai bene, Sancio, vicino ed amico mio, come il bando fatto pubblicare da sua Maestà contro quelli della mia nazione mise in noi tutti il più grande terrore e raccapriccio. Io per lo manco ne fui colto a modo, che prima ancora del termine accordatoci per uscire di Spagna, sembravami già eseguito il rigore della pena sopra di me e sopra de' miei figliuoli. Determinai allora con prudente consiglio al parer mio (a guisa di colui che sa di essere cacciato dalla casa dove soggiorna, e si provvede di altra da collocarvisi), determinai, ripeto, di partire dal paese solo e senza la mia famiglia, e di andar a cercare dove poterla condurre con comodità e senza la fretta che ebbero gli altri miei paesani. Vidi benissimo, e tutti i vecchi della mia nazione videro pure, che quei bandi non erano già sole minaccie, ma leggi da dover essere ad un tempo determinato eseguite. E tanto più me ne persuasi: conoscendo gli stolti pensieri che avevano i nostri: pei quali giudicai che una ispirazione divina avesse mossa sua Maestà a tanta determinazione. Non già che fossimo tutti colpevoli (che alcuno v'era fermo e vero cristiano), ma perché il maggior numero essendo tale, sicché non gli si poteano contrapporre i buoni, veniva ad essere cosa prudente il non allevarsi la serpe in seno col tenersi troppi nemici in casa. Furono tutti castigati con la pena del bando; soave e piacevole secondo il parere di taluno, ma la più terribile che ci potesse colpire per quanto a me sembra. Ora, dovunque noi ci troviamo non facciamo che piangere per la cara Spagna; che alla fine siamo nati qui, ed è questa la nostra patria naturale, né troviamo in alcun luogo il rifugio di cui ha bisogno la nostra miseria. In Barberia e in tutte le parti dell'Africa, dove speravamo di esser ricevuti, accolti e assistiti è appunto dove piucché altrove ci offendono e ci strapazzano. Non abbiamo conosciuto il bene se non dopo averlo perduto, e la brama che da quasi tutti noi si alimenta di tornare in Ispagna è sì grande, che la più parte di quelli (e sono in copioso numero) che sanno la lingua come io la so, vi tornano; abbandonando la moglie e i figliuoli: sì eccedente è l'affetto che portano a questo paese! Ora io pure conosco per esperienza che è vero quel detto: Dolce è l'amore della patria. Partii, come dissi, dal mio paese, entrai in Francia, e tuttoché ci facessero ivi molto buona accoglienza, volli vedere altri paesi. Passai in Italia, di là in Alemagna, e mi sembrò quivi di poter vivere con più libertà che altrove: perché i suoi abitanti non badano molto alle minuzie, e vive ognuno a modo suo e per lo più con perfetta libertà di coscenza. Lasciai una casa che avevo tolto a pigione in un paese vicino ad Augusta, e mi accompagnai con questi pellegrini che costumano di venire ogni anno in buon numero a visitare i santuari di Spagna, ch'essi tengono per le loro Indie in considerazione del gran profitto e guadagno che ne traggono. Eglino scorrono quasi tutto questo regno, da dove partono sazi e satolli, come si suol dire; ed un solo reale che tenevano in danari, a poco va ad aumentarsi sino ai cento scudi, i quali cambiano in oro, nascondono nei vani de' loro bordoni o nelle toppe delle loro schiavine, e con fina industria, a dispetto dei passi e delle dogane, portano l'oro fuori del nostro regno. Ora sappi, o Sancio, che io non sono qua con altra intenzione che quella di cavare un tesoro che lasciai sotterrato; e per essere fuori del paese potrò farlo senza pericolo, studiando poi la maniera di scrivere o di passar io stesso da Valenza in Algeri dove stanno mia moglie e mia figlia, e di condurle in qualche porto di Francia, dal quale passeremo in Alemagna; ed ivi staremo aspettando quello che a Dio piacerà di fare di noi tutti. Lo sai bene, Sancio mio, che tanto Ricottina, mia figlia, quanto Francesca, mia moglie, sono cattoliche cristiane; e sebbene io non lo sia quanto esse, tengo tuttavia più del cristiano che del moro, e prego sempre il Signore che illumini il mio intelletto, e che mi faccia conoscere il modo come io l'ho da servire. Ti dirò per altro che non posso arrivar a capire come mai, tanto mia moglie, quanto mia figlia abbiano prescelto di andarsene in Barberia piuttosto che in Francia, dove potevano vivere come cristiane.

— La ragione è chiara, rispose Sancio, perché non poterono far di manco; e perché le ha condotte via Giovanni Tiopeyo, il fratello di tua moglie; il quale essendo moro fino, andò dove pensava di stare meglio e più al sicuro: voglio anche che tu sappia un'altra cosa, ed è che penso che tu vada inutilmente a cercare quello che hai lasciato sotterra; perché noi avemmo notizia che fu tolto ogni cosa a tuo cognato e a tua moglie delle molte perle e del molto contante che portavano a registrare.

— Questo potrà essere, disse Ricotte, ma ti so dire, o Sancio, che non possono aver toccato l'oro che io sotterrai, perché non dissi ad alcuno dove fosse, per timore che non mi succedesse qualche disgrazia; e così, se tu vuoi venir meco e aiutarmi a cavarlo e promettermi di mantenere il segreto, io ti farò il regalo di dugento scudi; molto opportuni a' tuoi bisogni, i quali sai bene ch'io li conosco.

— Ti compiacerei, disse Sancio, se fossi ingordo del danaro, ma non me ne curo; e devi sapere che appunto questa mattina mi sono lasciato scappare di mano un posto col quale avrei potuto intonacare d'oro le mura della mia casa, e in manco di sei mesi mangiare in piatti d'argento: ma tanto per quello che ti ho detto, come per parermi che farei tradimento al mio re, prestando aiuto ai suoi nemici, non diventerei tuo compagno né per dugento, né per quattrocento scudi di anticipazione.

— Che posto è egli questo che tu hai lasciato? disse Ricotte.

— Ho lasciato, rispose Sancio, di essere governatore di un'isola, e tale che in fede mia la eguale non si trova a tre tirate.

— E dove giace quest'isola? chiese Ricotte.

— Dove? soggiunse Sancio: due leghe di qua lontano, e chiamasi l'isola Barattaria.

— Sta cheto, Sancio, replicò Ricotte, che Isole non si trovano se non in mare, perché non vi sono isole sul continente.

— Come no? replicò Sancio: torno a dirti, Ricotte, che stamattina sono partito di là, e che ieri io stava governandola a mio piacere come un sagittario: ma con tutto questo ho voluto abbandonarla, sembrandomi uffizio pericoloso quello dei governatori.

— E qual guadagno vi facesti? dimandò Ricotte.

— Ho guadagnato, rispose Sancio, la persuasione che non sono buono da governare altro che branchi di bestiame, e che le ricchezze che si acquistano in questi governi, sono l'arrischiare di perdere il riposo, il sonno ed il proprio sostentamento ancora; perché danno molto poco da mangiare ai governatori delle isole, e spezialmente se vi sono medici custodi della sanità.

— Io non t'intendo, o Sancio, disse Ricotte, e mi pare che tu vada dicendo grandi spropositi; perché chi è mai colui che ti avesse a dare isole da governare? Mancano forse al mondo uomini più abili di te da eleggersi per governatori? Caro Sancio, rientra in te stesso e pensaci ancora una volta se vuoi venire come ti ho detto, per aiutarmi a cavare il tesoro, che ti assicuro ch'è tanto, da poterlo con ragione chiamare tesoro, e potrà dare anche a te molto bene da vivere come ti ho offerto.

— Io mi sono già dichiarato, disse Sancio, che vi rinunzio e ti basti la promessa che ti fo di mantenere il segreto, e va in buon'ora pel tuo viaggio e lasciami seguitare il mio; che dice il proverbio che un mal guadagno sfuma presto, e sfuma con lui anche chi l'ha fatto.

— Non insisterò altro, soggiunse Ricotte; ma dimmi, Sancio, ti trovavi tu nel nostro paese quando mia figliuola e mio cognato se ne partirono?

— Mi vi trovavo benissimo, rispose Sancio, e ti so dire che tua figliuola quando partì era così bella, che accorsero tutti a vederla, e dicevano ch'era la più avvenente creatura che si potesse vedere; ed ella andava via piangendo, ed abbracciava tutte le sue amiche e conoscenti o non solo, ma quanti andavano per mirarla, pregando tutti che la tenessero raccomandata al signore e alla Madonna sua madre: faceva questo con tanta tenerezza che mi misi a piangere anch'io quantunque io non sia gran fatto piagnone. Ti so anche dire che furono alcuni ai quali era venuto voglia di nasconderla o di rapirla durante il viaggio; ma li ritenne la paura di trasgredire ai comandi del re; e sopra tutti si mostrò molto appassionato don Pietro Gregorio, quel ragazzo primogenito e ricco che tu conosci, e dicono che le voleva gran bene; ed egli dopoché la giovane è partita, è sparito dal paese, e tutti credono che sia andato via per rapirla, ma poi sinora non se n'è saputo il netto.

— Sospettai sempre, disse Ricotte, che quel bel gentiluomo facesse all'amore colla mia figliuola, ma riposando tranquillo sulla onestà della mia cara Ricottina, non mi ha dato gran fastidio il sapere ch'egli la amasse. Tu avrai udito a dire più volte, o Sancio, che le moresche o di raro o non mai si sono frammischiate in amore con cristiani vecchi; e Ricottina, che per quanto credo, badava più ad essere cristiana che innamorata, non si doveva curare molto della passione di questo signor primogenito.

— Dio lo voglia, replicò Sancio, che sarebbe bene per tutti e due; ma lasciami partire, amico Ricotte, che voglio in questa sera arrivare dove sta il mio padrone il signor don Chisciotte.

— Parti con Dio, fratello Sancio, soggiunse Ricotte, che già stanno svegliandosi i miei compagni, ed è tempo che anche noi seguitiamo il nostro viaggio.”

Si abbracciarono entrambi; Sancio montò sul suo leardo, Ricotte si appoggiò al suo bordone, e ognuno andò per la sua strada.


CAPITOLO LV

 

AVVENIMENTI DI SANCIO NEL SUO VIAGGIO,

ED ALTRE COSE TANTO SINGOLARI QUANTO MAI SI PUÒ DIRE.

 

La riferita conversazione impedì a Sancio di giungere in quel giorno al castello del duca, ma lo colse discosto mezza lega la notte alquanto annuvolata ed oscura. Non si diede gran fastidio per questo, essendo allora stagione di estate; ma uscì dalla strada maestra con intenzione di attendere il novello giorno.

Se non che volle la sua disgraziata e nemica sorte che cercando un luogo dove poter accomodarsi, egli cadesse in un col suo asino in profondo ed oscuro antro, che aprivasi tra rottami di fabbriche molto antiche.

Nel rotolar giù si raccomandò a Dio di cuore parendogli di precipitar nelle profondità dell'abisso, ma così non fu; perché l'asino non era calato tre canne che si fermò e Sancio vi si trovò sopra salvo ed illeso Si tastò tutta la persona e raccolse il fiato per provare se trovavasi sano o pertugiato da qualche banda, ma trovandosi dalla testa ai piedi intero e sanissimo, non saziavasi mai di ringraziare il Cielo che lo avesse preservato dal farsi in mille pezzi. Tastò anche colle mani le pareti dell'antro per tentare di uscirne senza altrui assistenza, ma le trovò tutte rase senza un sasso dove potersi arrampicare; del che si afflisse assai; e il dolore gli si accrebbe di più quando udì che l'asino metteva lamenti lunghi e compassionevoli, né senza ragione, perché è duopo dire che si trovasse a ben tristo partito.

— Ahi, disse allora Sancio, quante impensate venture accadono ad ogni tratto a chi vive in questa valle di pianto! Chi mai detto avrebbe che colui che era ieri intronizzato come governatore di un'isola, comandando a servi ed a sudditi, dovesse oggi trovarsi sepolto nelle viscere di una caverna senza che uomo o servo o suddito si presti al suo soccorso? Qua non potrà essere di manco che ed io ed il mio asino non periamo ambidue di fame o di altro; e questo povero leardo morrà forse prima di me, per essere tutto pesto e macinato, ed io morrò dopo di lui per l'afflizione e la disperazione! Ah! fossi almeno fortunato come don Chisciotte quando calò giù nella grotta di quell'incantato Montesino dove trovò migliore accoglienza che in casa sua, sicché gli pareva di andare a tavola apparecchiata e a letto bene guarnito! A lui toccò vedere là dentro visioni belle e graziose, ed io, se non fallo, altro non vedrò qui fuorché rospi e serpenti. Meschino di me! che fine avranno poi avuto i miei sogni e le mie fortune? Caveranno di qua le mie ossa, se pure saranno un giorno scoperte, ridotte monde, rase e bianche, e saranno confuse con quelle del mio asino, e serviranno esse per indizio della nostra sorte, almeno a quelli cui sarà noto che Sancio Pancia non si allontanò mai dal giumento né il giumento da Sancio Pancia! Lo ripeterò un'altra volta: tre o quattro volte infelici noi che l'avara fortuna non avrà voluto che terminassimo la nostra vita in patria e tra le braccia dei nostri cari, dove se pure le disgrazie non hanno rimedio, v'è almeno chi si affligge degli afflitti, e chi ci chiude gli occhi nella nostra ultim'ora! Ah, mio compagno e mio amico, che male mercede ricevi tu de' tuoi buoni servigi! Perdonami, e invoca la fortuna nel miglior modo che sai, perché ci cavi da tanto travaglio: e se sei da tanto, prometto e giuro che ti cingerò la testa con corona di alloro, sicché parrai proprio un poeta laureato, e ti darò a doppio le profende.”

In questa maniera lagnavasi Sancio Pancia, e l'asino lo stava ascoltando senza rispondergli, che in altro tenevalo occupato l'angustia e il dolore. Passò l'intera notte fra sì triste querele e piagnistei, e tornò poi a comparire il giorno, alla cui luce meglio conobbe Sancio essere impossibile l'uscire della caverna senza l'altrui aiuto. Cominciò a chiamare e a gridare, affinché alcuno lo udisse, ma la sue voce e le sue grida erano mandate al deserto, ché non era anima viva in quei luoghi, sicché nulla più occorse a persuaderlo che quello sarebbe il sito della sua sepoltura.

Stava l'asino col muso rivolto all'insù, e Sancio tanto fece che lo rizzò, tuttoché appena potesse reggersi; e siccome le sue bisacce avevano corso la medesima buona fortuna della caduta, così poté cavar fuori un tozzo di pane che apprestò alla povera bestia. Le andava dicendo, come se avesse potuto capirlo:

— Tutti i guai si possono sopportare, se il pane non manca”

Intanto le venne scoperta da un lato dell'antro una piccola buca; ove poteva entrare una persona chinandosi; e Sancio vi si accostò, e andando carpone vi entrò dentro. Al suo innoltrarsi vide che la buca era larga e lunga; e bene poté vederlo, perché vi penetrava un benefico raggio di sole. Vide egualmente che la buca si dilatava in altre cavità spaziose, e contento di questa scoperta, tornò dov'era l'asino, e incominciò con un sasso a staccare la terra dal pertugio; e tanto insisté nel lavorìo, che in poco tempo riuscì ad avere un luogo aperto da potervi cacciar dentro l'asino, come in fatti ve lo cacciò. Presolo poi per la cavezza, cominciò ad aggirarsi nella grotta per vedere se trovasse qualche escita, ed ora avanzavasi al buio, ora aveva qualche tenue scintilla di luce, ma sempre camminava con gran paura.

— Misericordia di Dio! andava fra sé dicendo, questa che per conto mio è sventura sarebbe ventura pel mio signor don Chisciotte! Egli terrebbe questi abissi e queste caverne per giardini fioriti, e vi ravviserebbe i palagi di Galiana, e giudicherebbe per certo di passare da questo buio e da queste strettezze ad un prato verde ed ameno: io all'opposto, senza consiglio e senza coraggio, temo ad ogni passo che sotto ai piedi mi si spalanchi altra grotta più profonda di questa, e di dover finire inghiottito: malanno ben venuto se arriverà solo!”

In tal guisa e fra tanti spasimi gli parve di aver fatto circa una mezza lega, e finalmente discoprì un chiarore incerto, che giudicò indizio del giorno, e sperò che per qualche parte entrasse un raggio di luce, la quale avesse da servirgli di direzione per lo cammino all'altra vita.

A questo punto lo lascia Cide Hamete Ben-Engeli, e torna a trattare di don Chisciotte, che borioso e contento attendeva l'istante della battaglia che far doveva contro il ladro dell'onore della figlia di donna Rodrighez.

Ora avvenne che andando una mattina per addestrarsi al cimento in cui contava di trovarsi il giorno dopo, Ronzinante urtò dei piedi in luogo dove sarebbe inevitabilmente precipitato, s'egli non avesse tirata in tempo e con forza la briglia. Ritenne il cavallo, né cadde; e fattosi più davvicino, senza però smontare, guardò quella profondità, e sentì gran rumore di voci che uscivano dall'antro.

Fattavi maggior attenzione, poté intendere che colui che le mandava, così diceva:

— Olà, dell'alto, evvi qualche cristiano che mi ode? Qualche cavaliere caritatevole che senta compassione di un meschino sepolto vivo? Di un governatore infelice?”

Parve a don Chisciotte di sentire la voce di Sancio Pancia, della qual cosa restò sorpreso e stupefatto, e alzando anch'egli la voce gridò:

— Chi è laggiù in fondo? chi si lamenta?

— Chi può essere altri, rispose la voce, che lo sfortunatissimo Sancio Pancia, governatore per i suoi peccati e per la sua mala ventura dell'isola Barattaria, e già scudiere del famoso don Chisciotte della Mancia?”

Don Chisciotte, sentendo questo, trasecolò, e gli si accrebbe lo stupore, immaginando che Sancio fosse morto, e che la sua anima stesse quivi penando. Trasportato da questa fantasia disse:

— Io ti scongiuro per tutto quello di che scongiurare ti posso come cattolico cristiano, che tu mi dica chi sei: se sei anima in pena, dimmi quello che vuoi ch'io faccia per te; la mia professione è di favorire e soccorrere i bisognosi di questo mondo, e potrà anche estendersi a quelli dell'altro che non possono aiutarsi da per se stessi.

— Se così è, fu risposto, vossignoria che mi parla debb'essere il mio signor don Chisciotte della Mancia, ed anche dalla voce non mi pare altro che lui.

— Sì, don Chisciotte io sono, replicò, che professo di soccorrere e di aiutare nei bisogni e i vivi e i morti. E tu chi sei, che mi fai rimanere attonito? Se mai tu fossi il mio scudiere Sancio Pancia, e non sei in potere dei demoni, o se per pietà divina ti trovi al purgatorio, non mancheranno suffragi per cavarti dalle pene, ed io li solleciterò dal canto mio per quanto lo potranno le mie facoltà. Ti ripeto: dimmi e dichiara chi tu sei.

— Giuro, fu risposto, per la vita di chi più è caro a vossignoria, signor don Chisciotte, che sono io il suo scudiere Sancio Pancia, e che non sono morto in tutto il tempo di vita mia, né altro ho fatto fuorché lasciare il governo per cose e per cause che a raccontarle bisogna aver tempo. Ieri di notte sono precipitato in questa caverna, dove mi trovo col mio asino che non mi lascerà mentire, perché per più contrassegni si potrà provare ch'è qui con me.”

Il curioso e lo strano si è che, parve proprio che fosse inteso dall'asino quello che Sancio andava dicendo, perché a quel punto si mise a ragliare sì forte, che ne rimbombò tutta la grotta.

— Non occorre altro testimonio, disse don Chisciotte, conosco il raglio come se fosse uscito dal mio corpo, sento la tua voce, amico Sancio; aspetta che andrò al castello del duca, ch'è qua vicino, e condurrò meco chi possa cavarti fuori da queste spelonche dove i tuoi peccati ti hanno fatto precipitare.

— Vossignoria vada, rispose Sancio, ma torni presto per amore di Dio, chè non posso stare più qui sepolto vivo, e me ne vo morendo di spasimo.”

Lo lasciò don Chisciotte, e recossi al castello, dove narrò ai duchi l'avvenimento di Sancio Pancia, del che stupirono non poco, quantunque giudicassero ch'egli fosse caduto in una delle molte aperture che aveva quella grotta qua e là da lunghissimo tempo. Fecero portar subito e funi e canapi, e mercé l'opera di molta gente, e non senza grande fatica, cavarono fuori dalle tenebre l'asino e Sancio Pancia, a cui parve un miracolo di rivedere la luce del giorno.

Uno studente che ivi per caso trovavasi, veduto Sancio, disse:

— Tutti i pessimi governatori meritano di essere cacciati via e di uscire dai loro governi siccom'esce per appunto questo tapino dal profondo dell'abisso, morto di fame, scolorito, ed a quanto ne giudico, senza un maravedis.”

Lo udì Sancio, e rispose:

— Fratello mormoratore, sono otto o dieci giorni ch'entrai a governar l'isola che mi affidarono, nei quali giorni non mi vidi un'ora satollo di pane non che di altro. I medici mi hanno perseguitato, i nemici mi pestarono le ossa, mi è mancato il tempo di prendere nemmeno i danari che di ragione mi erano dovuti: se questo è vero, com'è verissimo, io non meritavo, mi pare, di uscirne a questa maniera: ma l'uomo pone e Dio dispone, ed egli sa meglio; e secondo i tempi conviene governarsi; e non vi sia chi dica: Non berrò di quest'acqua: che dove si pensa che stia carne secca, non sono nemmeno le stanghe per attaccarla; e Dio m'intende, e basta, né vado innanzi, tuttoché lo potrei.

— Non adirarti, disse don Chisciotte, o Sancio, né t'infastidiscano le altrui ciarle; ché non si finirebbe mai; tieni la coscenza netta, e lascia gracchiare, mentre il voler legare la lingua ai maldicenti egli è come voler chiudere con porte una campana. Se un governatore esce ricco dal suo governo dicono subito ch'è stato ladro, se n'esce povero, che fu scimunito.

— Sono d'opinione, rispose Sancio, che mi abbiano da giudicare piuttosto balordo che ladro.”

Con questi discorsi, e seguiti da una folla di ragazzi e di altra gente accorsa, giunsero al castello, dove il duca e la duchessa stavano aspettando don Chisciotte e Sancio. Non volle questi vedere il duca senz'avere prima governato bene nella stalla il leardo, sapendo che mala notte aveva passata nell'antro. Andò poi a vedere i suoi padroni, innanzi ai quali postosi ginocchione, disse:

— Io, o signori, poiché così piacque alla vostra grandezza, senza verun mio merito sono stato a governare la vostra isola Barattaria, dove ignudo entrai e di dove ignudo esco, sicché nessuna perdita ho fatto e nessun guadagno: se io abbia governato bene o male, vi furono dei testimoni che ne parleranno a loro talento. Io ho sciolto dubbi, ho giudicato liti e sono quasi morto dalla fame, perché così piacque al dottore Pietro Rezio, naturale di Tiratinfuora, medico isolano e governatoresco. Fui nottetempo assalito dai nemici; e quantunque noi fossimo ridotti tutti a mal termine, quelli dell'isola dicono che ne uscirono liberi e con vittoria mediante il valore del mio braccio: che tanto abbiano sanità quanto dicono il vero. Fatto sta che in questo tempo trascorso io ho bilanciato e scandagliato i carichi e gli obblighi che porta seco il governo, ed al conto che ho fatto, ho veduto che non si potranno adattare mai alle mie spalle, né sono pesi per le mie costole, né frecce per la mia faretra; laonde, primaché il governo mandasse me a traverso ho voluto mandar io a traverso il governo; e ieri mattina lasciai l'isola tale quale la ho ritrovata, con le strade medesime e casa e tetti che aveva quando vi sono entrato io. Non ho dimandato cosa alcuna in prestito a nessuno, non ho voluto punto mercanteggiare; e sebbene avessi pensieri di dare ordini utili, non ne diedi alcuno, temendo che rimanessero inosservati; che in questo caso è il medesimo farli e non farli. In fine sono uscito dall'isola senza che verun altro mi accompagni, dal mio leardo infuori; e sono precipitato dentro una caverna, per la quale andai camminando sino a che questa mattina mediante un raggio di sole, vidi per dove si usciva. Questa escita non mi sarebbe stata possibile, ma il Cielo mi ha parato innanzi per ignote strade il mio signor don Chisciotte, senza il quale sarei forse rimasto nell'antro sino alla fine del mondo. Ora dunque, miei signori duca e duchessa, voi vi vedete davanti il vostro governatore Sancio Pancia che in dieci giorni di governo non ha fatto altro guadagno se non quello di conoscere che non deve importargli un fico di essere governatore, non dico solo di un'isola, ma né anche di tutta la terra. E ciò posto, e baciando i piedi alle signorie vostre, e facendo come i ragazzi al giuoco, che dicono: Salta tu e dammelo tu; io do un salto dal governo, e me ne passo al servigio del mio signor don Chisciotte. È vero che anche con lui mangio il pane con disagio e con batticuore, ma finalmente poi mi cavo la fame; e quando sono sazio, tanto m'importa che sieno carote, come starne o pernici.

Così terminò la diceria di Sancio, non senza paura di don Chisciotte che non desse in migliaia di spropositi: però quando lo udì giunto al fine senza averne detti molti, ringraziò Dio. Il duca abbracciò Sancio, e gli disse che dispiacevagli sino all'anima che avesse rinunziato troppo presto al governo, ma che metterebbe ogni opera perché gli venisse assegnato altro officio di minor conseguenza e di maggior lucro. Lo abbracciò anche la duchessa, e volle che si avesse ogni cura di lui, perché tuttavia mostrava di essere malamente pesto e peggio macinato.

CAPITOLO LVI

 

DELLA SANGUINOSA E NON PIÙ VISTA BATTAGLIA SEGUITA TRA DON CHISClOTTE E LO STAFFIERE TOSILO, E DEL CONGEDO CHE PRESE DON CHISCIOTTE DAL DUCA.

 

La burla fatta a Sancio Pancia col governo affidatogli, recò molto da ridere ai duchi, tanto più che in quel giorno stesso arrivò il loro maggiordomo, e diede contezza di quasi tutte le parole ed azioni che Sancio aveva dette e fatte; e gran cose egli disse intorno all'assalto dell'isola, allo spavento di Sancio ed alla sua partenza, di che s'ebbero ambedue non piccola soddisfazione.

Dopo di ciò racconta la storia che venne il giorno della stabilita battaglia; ed avendo più volte il duca avvertito il suo staffiere Tosilo sul modo di condursi con don Chisciotte, per farlo rimanere soccombente senza torgli la vita e senza nepure ferirlo, ordinò che fossero tolti i ferri alle lancie, e dicendo a don Chisciotte che l'essere cristiano (del che egli tanto pregiavasi) vietava di correre in quella battaglia il risico di perdere la vita; e però fosse contento ch'egli concedeagli campo franco nel suo paese, quantunque facesse cosa contraria ai decreti del santo Concilio, che proibiscono tali disfide: né volesse in quel sì pericoloso frangente portare la cosa all'estremo del rigore. Don Chisciotte rispose che fossero pure disposte dalla eccellenza sua a pieno suo beneplacito le cose toccanti quel cimento, mentre si farebbe un dovere d'interamente osservarle.

Venuto pertanto il giorno formidabile, ed avendo ordinato il duca che uno spazioso palco si ergesse dinanzi la piazza del castello in cui sedessero i giudici del campo e le matrone madre e figlia instanti; vi accorsero genti da tutti i paesi e da tutte le ville circonvicine per vedere la novità di una battaglia di cui né i vivi né i morti di quel paese non avevano mai avuto idea.

Il primo ch'entrò nel campo e nello steccato fu il mastro delle cerimonie, che misurò il campo e lo esaminò da per tutto affinché inganno non vi si nascondesse. Entrarono di poi le matrone e sedettero al loro posto, coperte coi veli fino agli occhi e fino al petto eziandio, dando segni di non piccola compunzione. Don Chisciotte era già nello steccato.

Poco dopo, accompagnato da molte trombe, comparve da un lato della piazza sopra un superbo destriero che calpestava il suolo, il grande staffiere Tosilo colla visiera calata e tutto stretto da forti e lucenti armi. Mostrava il cavallo d'essere frigione, largo di petto e di pelame morello, e da ogni piede dinanzi e di dietro pendevagli un fiocco di lana. Il valoroso combattente avanzavasi istruito appieno dal duca suo signore del modo con cui contenersi doveva col bravo don Chisciotte della Mancia, ed era avvertito che non lo uccidesse a verun patto, ma che cercasse di schivare il primo incontro per allontanare il pericolo di sua morte, inevitabile se fosse stato di primo sbalzo colpito.

Passeggiò dunque per la piazza, e giunto dove stavano le matrone, si mise a guardar un cotal poco quella che lo domandava in isposo. Il maestro di campo chiamò don Chisciotte, già lesto e pronto; e congiuntamente a Tosilo chiese alle matrone se acconsentissero che don Chisciotte della Mancia fosse il difensore delle loro ragioni. Elleno risposero ch'erano contente, e che quanto fosse da lui operato in quel caso, lo riterrebbero per ben fatto, per fermo e per valido. Erano già entrati il duca e la duchessa in una galleria che riusciva sopra lo steccato, ed una folla di gente lo riempiva per ogni dove, ansiosa di vedere il terribile e straordinario cimento.

Fu condizione dei combattenti che vincendo don Chisciotte, dovesse il suo avversario farsi sposo alla figlia di donna Rodrighez; ma se don Chisciotte rimanesse vinto, fosse tosto svincolato il competitore dalla parola che si pretendeva da lui senza dare alcun'altra soddisfazione. Il maestro delle cerimonie assegnò i termini per incontrarsi, e collocò ognuno dei combattenti al posto rispettivo. Suonarono i tamburi, l'aria rimbombò dello squillare delle trombe, tremava sotto ai piedi la terra e sospesi stavano i cuori della turba spettatrice, temendo gli uni, sperando gli altri il felice o mal successo della grande ventura. Don Chisciotte infine, raccomandandosi di tutto cuore al Signore Iddio e alla signora Dulcinea del Toboso, stava aspettando il segnale dello scontro: ma ben diversi erano i pensieri che occupavano il nostro staffiere, il quale null'altro pensava fuorché a quello che ora si saprà.

Stando costui in osservazione della sua nemica, gli parve che gli offerisse allo sguardo la più bella e graziosa donna che avesse veduto in tempo di sua vita; ed il fanciullo bendato che, attesi simiglianti casi, suol essere chiamato Amore, trascurare non volle l'occasione offertagli di trionfare d'un anima staffieresca e di aggiungerla alla lista de' suoi trofei. E però, appressatosi a lui pian pianissimo e senz'essere veduto da chicchesia, cacciò nel sinistro lato del povero staffiere una freccia lunga due canne, e gli passò il cuore da banda a banda: e ben poté farlo a man salva, perché invisibile è Amore, ed entra ed esce ove più gli torni, senza che siavi chi gli domandi conto di quanto opera. Dico dunque che quando fu dato il segnale dell'assalto, stavasene il nostro staffiere fuori di sé, pensando alla bellezza di colei ch'egli aveva fatta signora della sua libertà, e quindi non si era punto curato del suono della tromba, come fatto aveva don Chisciotte; il quale la intese appena e subito si accinse alla pugna, e col galoppo più veloce che far poteva Ronzinante, andò incontro al nemico.

Vedutolo al cimento il suo buon scudiero Sancio Pancia, gridò ad alta voce:

— Dio ti guardi, o fiore e specchio dei cavalieri erranti: Dio ti faccia riuscir vincitore, poiché la ragione è dalla tua banda.”

Non mosse Tosilo un sol passo contro don Chisciotte, tuttoché lo vedesse venire alla sua volta, anzi chiamò con un grido il maestro del campo, e quando se lo vide vicino gli disse:

— Signore, questa battaglia non è ella fatta perché io diventi o non diventi sposo di quella signora?

— Si fa per questo appunto, rispose il maestro del campo.

— Or bene, soggiunse lo staffiere, io sono timoroso di coscienza e avrei rimorso che la battaglia procedesse più avanti; e tosto dichiaro che mi do per vinto, e che voglio sposarmi subito con quella signora.”

Restò maravigliato il maestro a queste inaspettate parole di Tosilo, e come colui che conosceva la macchina di questo fatto, non seppe che cosa rispondere. Si fermò don Chisciotte alla metà della sua carriera, vedendo che il suo nemico non lo assaliva e il duca non sapeva intendere come non proseguisse la zuffa: ma il maestro del campo andò a dichiarargli quello che Tosilo aveva detto, del che restò molto turbato e incollerito. Tosilo intanto andò a presentarsi davanti a donna Rodrighez, e con alta e sonora voce le disse:

— Signora, voglio maritarmi colla vostra figliuola, e non voglio per via di liti e di zuffe, avere quello che posso ottenere in pace e senza pericolo della vita.”

Il valoroso don Chisciotte udito queste parole, disse:

— Poiché così è, io mi dichiaro libero sciolto dalla mia promessa: si sposino alla buon'ora, e se nostro Signore Iddio gliela dà, san Pietro gliela benedica.”

Era già calato il duca nella piazza del castello, ed appressatosi a Tosilo, gli disse:

— È vero, cavaliere, che voi vi date per vinto, e che morso dai rimorsi della vostra coscienza, volete farvi sposo a questa donzella?

— Signor sì, rispose Tosilo.

— Fai molto bene, soggiunse Sancio, perché quello che tu hai a dare al topo, dallo al gatto, e uscirai da ogni briga.”

Andava Tosilo slacciandosi la celata e pregava che ne lo liberassero presto, mentre si sentiva mancare il fiato, né poteva stare più a lungo nella strettezza di quell'arnese. Gliela sciolsero prestamente, e restò chiaro e patente il suo mostaccio da staffiere. Vedendo questo donna Rodrighez e sua figliuola gridarono:

— Questo è inganno, questo è inganno! hanno messo Tosilo staffiere in luogo del vero sposo; giustizia di Dio e del re per tanta malizia e vigliaccheria.

— Non crediate, no, signore mie, né vogliate attribuirne al signor duca la colpa; ma questa è opera dei tristi incantatori che mi perseguitano, e che invidiosi della fama ch'io poteva acquistarmi colla vittoria, hanno trasformata la faccia del vostro sposo in quella di cotestui che dite essere staffiere del duca. Pigliatevi il mio consiglio, e a dispetto della malizia dei miei nemici maritatevi con esso lui, ch'è fuori di dubbio quegli appunto che voi bramate conseguir per marito.”

Il duca, udito questo, fu per voltare in uno scoppio di riso il suo sdegno, e disse:

— Sono sì fuori del comune le cose che intravvengono al signor don Chisciotte, ch'io sto per credere che sia costui il mio staffiere; ma si metta a campo lo spediente che adesso io proporrò. Differiamo le nozze per quindici interi giorni, se così vi piace, e teniamo rinserrato questo personaggio che ci rende dubbiosi, perché potrebbe addivenire che rivestisse nel frattempo le primitive sue forme: non ha poi a curare tanto il rancore che professano al signor don Chisciotte gl'incantatori, dovendo considerarsi che poco loro importa di usare simili fattucchierie e trasformazioni.

— Ah signore, soggiunse Sancio, non sa che questi malandrini hanno per metodo e per costume di cambiare le cose di una in un'altra, quando specialmente si tratta del mio padrone? nei passati giorni egli vinse un cavaliere chiamato dagli Specchi, e lo cambiarono nella figura del baccelliere Sansone Carrasco, naturale del nostro paese e grande nostro amico, anche la mia signora Dulcinea del Toboso la convertirono in brutta villana, ed io scommetterei adesso che questo staffiere avrà da vivere e da morire staffiere per tutto il corso della sua vita.”

Disse allora la figlia di donna Rodrighez:

— Sia chi si voglia costui che mi domanda in isposa, io lo gradisco, e voglio piuttosto esser legittima consorte di uno staffiere che amica e burlata da un cavaliere, benché tale non siasi mostrato chi mi mancò di parola.

Queste cose e questi successi ebbero per conclusione che Tosilo fosse rinserrato per vedere l'esito della trasformazione. Si acclamarono le vittorie di don Chisciotte, ma i circostanti rimasero rammaricati di non aver veduto farsi in pezzi due combattenti di tanta aspettazione, simili a quei ragazzi che restano malcontenti quando non viene castigato colui che doveva esserlo, e non lo è perché gli fu concesso il perdono o dalla parte offesa o dalla giustizia. La gente andò via, tornando il duca e don Chisciotte al castello, fu rinchiuso Tosilo, e rimasero donna Rodrighez e sua figlia contentissima di vedere o per una o per altra via risolversi in nozze quella ventura, e Tosilo non aveva altro desiderio che questo.

E oramai parve a don Chisciotte che gli convenisse di uscire dall'ozio in cui vissuto era in quel castello, e pensava che gran mancamento fosse lo starsene più a lungo neghittoso e perduto tra le carezze ed i doni che gli erano per le sue qualità di cavaliere errante profusi dagli ospiti, parendogli che avrebbe dovuto rendere stretto conto a Dio se fosse stato in ozio più a lungo. Dimandò un giorno la sua licenza ai duchi, che gliela concedettero con dimostrazioni di dispiacenza, e allora la duchessa consegnò a Sancio le lettere di sue moglie Teresa. Egli le ricevette e piangendovi sopra, disse: — Chi avrebbe detto mai che tante speranze di Teresa Pancia mia moglie avessero avuto a svanire, col farmi adesso tornare alle strascinate venture del mio padrone signor don Chisciotte? Ma se non altro, sono contento di vedere che la buona Teresa ha corrisposto come conveniva ad una sua pari, mandando le ghiande alla duchessa; che se non gliene avesse mandate, procurando a me un dispiacere, si sarebbe mostrata poco riconoscente; e poi mi consola il pensare che questo è dono che non può lasciar sospettare di doppie intenzioni. Ha mandate le ghiande quando io era governatore, ed è dovere che chi ottiene qualche benefizio lo contraccambi anche con bagatelle; né più di così si poteva fare da noi due: tutti potranno affermare che io era spoglio ed ignudo quando cominciai a governare, ed ero ignudo affatto quando ho finito, e posso tornar a dire con sicura coscienza (che non è poco): né ho perduto né ho guadagnato.”

Così la discorreva Sancio tra sé medesimo nel giorno della sua partenza: ed intanto don Chisciotte, che aveva la sera innanzi preso finale congedo dai duchi, uscì fuori la mattina, e si presentò armato di tutto punto sulla piazza del castello. Lo stavano osservando tutte le genti dai corridoi, ed anche i duchi erano accorsi a vederlo. Era Sancio montato sopra il suo asino colle bisaccie, col valigiotto e colla dispensa, tutto fuori di sé dall'allegria, perché il maggiordomo del duca (quello che aveva finto di essere la Trifaldi) gli aveva posto in mano un borsellino con dugento scudi d'oro per le spese di viaggio: dono di cui il suo don Chisciotte era affatto all'oscuro. Stando dunque, come si è detto, tutti attenti ad osservare la partenza dei viaggiatori, d'improvviso tra le altre matrone e donzelle, alzò la voce Altisidora lesta e discreta, e con dolente accento così proruppe:

 

“Ascoltami o mal nato cavaliere: tieni un poco le redini, non tormentare i fianchi della tua mal governata bestia.

Vedi, o perfido, che tu non fuggi da feroce serpente, ma sibbene da agnelletta ancora molto lontana dall'esser pecora.

Schernisti, orrido mostro, la più avvenente donzella che Diana vedesse mai nei suoi monti o Venere nelle sue selve. Crudel Bireno, fuggitivo Enea, Barabba t'accompagni e mal ti dea.

Tu ne porti (empio ladroneccio!) ne' tuoi artigli le viscere di un'amante umile e tenera. E ne porti altresì tre cuffie da notte, e il legaccio di una gamba che vince il bianco e il levigato del marmo. Ne porti duemila sospiri sì ardenti che potrebbero abbruciare duemila Troie, se duemila Troie vi fossero. Crudel Bireno, fuggitivo Enea, Barabba t'accompagni e mal ti dea.

Possano tanto indurirsi le viscere di Sancio, che Dulcinea non sia mai più liberata dal suo incantesimo; sicch'ella paghi la pena del tuo delitto; come avviene talvolta nel mio paese, che i giusti paghino il fio invece de' rei. Le più belle avventure ti si volgano in tristi, i piaceri in vani sogni, la costanza in obblio. Crudel Bireno, fuggitivo Enea, Barabba t'accompagni e mal ti dea.

Che da Siviglia a Marchena tutti abbianti in conto di traditore, e così da Granata a Loia, e da Londra fino in Inghilterra. Se mai giuocherai all'ombra od al picchetto, ti fuggano i re, né mai ti vengano alle mani né sette né assi. Qualora tu debba tagliarti un callo, possa fallirti il ferro e trar sangue; e se avrai da strapparti un dente molare, ti resti la radice rotta in bocca. Crudel Bireno, fuggitivo Enea, Barabba t'accompagni e mal ti dea.”

 

Frattantoché così querelavasi l'afflitta Altisidora, stava mirandola don Chisciotte senza risponderle parola; voltosi poi a Sancio,disse:

— Ti scongiuro, Sancio mio, per lo secolo de' tuoi morti, che tu mi dica una verità; è egli vero per caso che porti teco le tre cuffie e le legacce delle quali parla questa innamorata donzella?” Cui Sancio rispose:

— Le tre cuffie sì, è vero, ma non ne so niente di legacce io.” Piacque assai alla duchessa la prontezza della sua Altisidora, che per quanto la credesse ardita, vivace e disinvolta, non la giudicava però tale da tessere questa burla. Volle rinforzarla allora anche il duca, e disse:

— Non mi pare ben fatto, signor cavaliere, che avendo ricevuto in questo mio castello assai buona accoglienza, abbia osato portarsene tre cuffie per lo manco, oltre alle legacce, della mia donzella; e questo è indizio di vile animo e un fatto che non corrisponde alla celebrità del suo nome; o restituisca le legacce, ovvero lo sfido a battersi senza tema che mi venga cambiata o trasformata la faccia da maligni incantatori, siccome è avvenuto nell'affare del mio staffiere Tosilo.

— A Dio non piaccia, rispose don Chisciotte, ch'io sfoderi la mia spada contro la vostra illustrissima persona, da cui ho ricevuto favori tanto segnalati: restituirò le cuffie, poiché Sancio asserisce di averle seco: ma quanto alle legacce è impossibile, perché nessuno di noi due le ebbe; e se questa vostra donzella visiterà bene tutti i suoi ripostigli, è fuori di dubbio che le troverà; io non sono stato mai ladro, signor duca, e non lo sarò mai finché avrò vita e Iddio mi proteggerà. Questa vostra donzella tiene il linguaggio delle innamorate, ma questo non può tornare a carico mio: né mi credo io in dovere di far atti di scusa né con lei né con la signoria vostra, che supplico a tenermi in migliore concetto ed a rinnovarmi la permissione ch'io possa adesso seguitare la mia strada. — Sì, sì, ve la diamo di cuore, disse la duchessa: Iddio vi accompagni, o signor don Chisciotte, e faccia che abbiamo sempre buone nuove delle vostre imprese; andate pure, poiché quanto più indugereste, tanto più si accenderebbe il fuoco nei petti delle donzelle che vi tengono gli occhi addosso; e quanto ad Altisidora, le darò io quel castigo che servirà a renderla più circospetta e premurosa del suo decoro, senza più abusare né degli occhi, né delle parole.

— Una grazia ancora e poi non più, o valoroso signor don Chisciotte, disse allora Altisidora, e la grazia si è, che ella voglia perdonarrni il latrocinio che le imputai delle mie legacce: perché in coscenza mia che le ho sulle gambe, e non me n'era accorta, ed io era come colui che stando a cavallo sull'asino, lo cercava.

— Non lo aveva detto io? soggiunse Sancio: andate là ch'io era quello da proteggere i furti! io che se avessi voluto farne m'era venuta l'occasione come dipinta quando era governatore!”

Don Chisciotte abbassò la testa e fece riverenza ai duchi ed a tutti i circostanti, e volta la briglia a Ronzinante, seguitato da Sancio, già montato sull'asino, uscì dal castello, indirizzando il suo viaggio alla volta di Saragozza.


CAPITOLO LVII

 

COME PIOVVERO SOPRA DON CHISCIOTTE TANTE VENTURE

CHE L'UNA NON ASPETTAVA L'ALTRA.

 

Quando don Chisciotte si vide in campagna aperta, libero e sbarazzato dagli amorosi detti di Altisidora, parevagli di trovarsi nel suo centro e di sentirsi rinnovare il coraggio per proseguire le gesta delle sue cavallerie. Rivoltosi a Sancio gli disse:

— La libertà, o Sancio, è uno dei doni più preziosi dal cielo concesso agli uomini: i tesori tutti che si trovano in terra o che stanno ricoperti dal mare non le si possono agguagliare: e per la libertà, come per l'onore, si può avventurare la vita, quando per lo contrario la schiavitù è il peggior male che possa arrivare agli uomini. Io dico questo, o Sancio, perché tu hai ben veduto co' tuoi occhi le delizie e l'abbondanza da noi godute nel castello or or lasciato; eppure ti assicuro che in mezzo a que' sontuosi banchetti e a quelle bevande gelate, sembravami di essere nello strettoio della fame. Io non gustava di alcuna cosa con quella soddisfazione con cui gustata l'avrei se fosse stata mia propia, mentre l'obbligo del dovere e della retribuzione ai benefici ed alle grazie ricevute sono altrettanti legami che non lasciano campeggiare l'animo libero. Beato colui cui ha dato il cielo un tozzo di pane senz'altro obbligo fuor quello di essergli grato.

— Per altro, rispose Sancio, con tutto quello che vossignoria ha detto, mi pare che non sia bene che restino mal graditi dugento scudi in oro che mi regalò in un borsellino il maggiordomo del duca; i quali, come cordiale confortativo, io porto applicati sul cuore per tutto quello che ci potrà occorrere, mentre non avremo sempre al nostro comando castelli dove ci siano usate tante carezze; ed è probabile che ci troviamo talvolta in qualche osteria che ci costerà salata.

Tra questi ed altri discorsi, andavano seguitando il loro cammino cavaliere e scudiero, quando, dopo avere corso più di una lega, videro che sopra l'erba di un praticello stavano sdraiati nei loro mantelli e quietamente mangiando, dodici uomini vestiti da contadini:

Tenevano accanto a loro certe tele che sembravano lenzuola bianche, colle quali coprivano qualche altra cosa che vi era sotto, e stavano ritte, distese e distribuite ogni tanti passi. Giunse don Chisciotte presso quei che mangiavano, e dopo cortesissimo saluto chiese loro che cosa si trovasse nascosto sotto quelle lenzuola. Uno di essi gli rispose:

— Sotto a queste tele stanno alcune immagini di rilievo e d'intaglio da servire per una rappresentazione che facciamo nel nostro contado, e le portiamo coperte perché non perdano il lustro, e sulle spalle perché non si rompano.

— Se vi piacesse, replicò don Chisciottem io vorrei vederle, perché se le portate con tanta circospezione, convien dire che siano di molto pregio.

— E come lo sono! soggiunse un altro e ne sia prova il loro valore, che non ve n'ha una che costi meno di dugento scudi e se vossignoria se ne vuole meglio persuadere, ora le vedrà co' suoi occhi.”

Lasciò costui di mangiare, alzò la tela che copriva la prima immagine, ed era quella di san Giorgio a cavallo che calpesta un serpente e gli caccia la lancia nella gola, nell'attitudine di fierezza con cui suol essere dipinto: il quadro era, come si suol dire, una coppa d'oro.

Don Chisciotte, vedendolo, disse:

— Questo cavaliere è stato uno dei più famosi cavalieri erranti che vantar possa la milizia divina: si chiamò san Giorgio, e fu gran difensore delle donzelle. Veggiamo quest'altro.”

Scoperto che fu, apparì un san Martino a cavallo, che divideva con un povero il suo mantello. Lo vide appena don Chisciotte, che disse:

— Anche questo è stato uno dei cristiani venturieri, ed io credo che fosse più liberale che valoroso, come tu puoi vederlo chiaramente, o Sancio, perché sta partendo la sua cappa con un povero, e gliene dà la metà; ed io credo che ciò sia seguito d'inverno, ché se fosse avvenuto di estate gliel'avrebbe data tutta intera, poiché era molto caritativo.

— Eh, non sarà per questo, disse Sancio, ma dovette attenersi al proverbio che dice: Che per dare e avere buon cervello si ha da avere.”

Rise don Chisciotte, e disse che levassero un'altra tela, e si scoperse il patrono delle Spagne a cavallo, colla spada insanguinata, nell'atto d'atterrar Mori e di troncar teste. Subito che don Chisciotte lo vide, disse:

— Questo sì ch'è cavaliero, e delle squadre di Cristo: questo si chiama Diego Ammazza-Mori, uno dei più valorosi santi e cavalieri ch'abbia un dì vantato il mondo e che adesso possegga il paradiso.”

Alzarono altra tela, e vide la caduta di san Paolo da cavallo, colle circostanze tutte che sogliono essere dipinte nel quadro della sua conversione. Vedendolo così al vivo raffigurato, che pareva che Cristo gli parlasse e Paolo gli rispondesse:

— Questi, disse don Chisciotte, fu già il maggior nemico ch'abbia avuto la chiesa di Dio al tempo suo; cambiato poi nel più ardente difensore che vantare potrà giammai la errante cavalleria; santo il più costante fino alla morte, instancabile coltivatore della vigna del Signore, vero dottore delle genti, cui servono di scuola e di maestro i cieli e Gesù Cristo medesimo.”

Non restando altre immagini da vedersi, disse don Chisciotte che ritornassero a ricoprirle ed a quelli che le portavano, soggiunse:

— Terrò per buon augurio, o fratelli, di aver veduto quello che mi avete permèsso di vedere; poiché questi santi cavalieri professarono ciò che professo io medesimo, l'esercizio cioè delle armi; ma passa tra noi questa differenza, ch'eglino furono santi e pugnarono spiritualmente, ed io sono peccatore e umanamente combatto: eglino conquistarono il cielo a forza di braccia, perché gran sudore abbisogna per farne guadagno: ma io sino a questo punto non so veramente quello che io conquisti a forza di travagli; pure se la mia signora Dulcinea del Toboso si liberasse da quello che soffre, allora col migliorarsi della mia ventura e col rassodarmisi lo intendimento, potria forse essere ch'io volgessi i miei passi per migliore strada di quella in cui ora procedo.

— Dio lo senta e il peccato sia sordo, soggiunse Sancio.

Rimasero maravigliati, questi uomini, sì dalla figura come del discorso di don Chisciotte, senza poter comprendere neppure la metà di quello ch'egli volesse dire. Finirono di mangiare, caricarono le loro immagini e licenziandosi da don Chisciotte, proseguirono il loro viaggio. Sancio mostravasi stupefatto, come se non avesse conosciuto il suo padrone, parendogli che non potesse darsi al mondo né istorico, né istoria che non fossero sulle ugne e nella memoria di don Chisciotte, e così prese a dirgli:

— Certamente, signor padron mio, che se questa che oggi ci è successa si può chiamare ventura, essa è stata delle più blande e delle più quiete che abbiamo avute in tutto il tempo del nostro pellegrinaggio. Ne siamo usciti fuori senza bastonate e senza spaventi, non abbiamo cacciato mano alle spade, non abbiamo battuta la terra stramazzando coi nostri corpi, e non siamo rimasti per niente affamati; sia ringraziato Iddio che ci ha concesso un bene che sarà di buon augurio.

— Dici bene, o Sancio, soggiunse don Chisciotte; devi però avvertire che tutti i tempi non sono a un modo, né corrono sempre di una stessa foggia: e quelli che voi, o gente volgare, chiamate augurî, senzaché si fondino sopra alcuna ragione naturale, gli uomini savi giudicano che altra cosa non sieno fuorché buoni avvenimenti. Uno di questi vostri augurî si alza il mattino, esce di casa e incontra un frate del beato e serafico ordine di san Francesco, ed ecco che, come se avesse incontrato un corvo, volta le spalle e torna subito a casa. Un altro è a tavola, e gli si versa il sale, ed ecco che gli si diffonde la malinconia pel cuore, come se la natura avesse disposto di dare segni delle future calamità con cose sì inconcludenti. L'uomo prudente e cristiano non ha da indagare le disposizioni del cielo in queste sciocche fissazioni. Quando Cesare giunse in Africa, saltò fuori dalla nave, inciampò e cadde: i suoi soldati ebbero la caduta per malaugurio, ma egli abbracciando quel terreno, disse: Tu, o Africa, non mi scapperai più dalle mani, poiché sì ti tengo stretta ed abbracciata. Ora dunque, Sancio mio, persisti tu a credere che le figure di questa mattina fossero di buon augurio?

— Io lo credo fermamente, e vorrei che vossignoria mi dicesse per quale motivo quando vogliono dare qualche battaglia, invocando san don Diego Ammazza-Mori, dicono: Santiago e serra Spagna. La Spagna è forse aperta in modo che occorra serrarla? Che cerimonia è questa?

— Tu sei pure un semplicione, o Sancio, rispose don Chisciotte. Sappi che Dio ha concesso alle Spagne per protettore e patrono quel gran cavaliere della croce rossa che la salvò nei conflitti fra gli Spagnuoli ed i Mori; e quindi è invocato in tutte le occasioni di qualche cimento; e molte volte fu visto visibilmente assalire, rovinare, distruggere, annichilire squadroni interi degli Agareni, e potrei addurtene mille esempi che si trovano nelle vere nostre istorie.” Sancio mutò discorso, e disse al suo padrone:

— Io sono stato trasecolato, signor mio dell'ardire d'Altisidora, donzella della duchessa, e bisognerà confessare che le abbia proprio trafitto il cuore colui che chiamano Amore; il quale dicono ch'è fraschetta ciecolina od orba affatto, tal che se piglia per bersaglio un cuore, lo coglie, per piccolo che sia, e lo passa tosto da banda a banda colle sue frecce. Io aveva sentito a dire che le frecce si rintuzzano o si spuntano nel pudore e nel contegno delle ragazze, ma in questa Altisidora si aguzzano piuttosto che spuntarsi.

— Bisogna ricordarsi, o Sancio, disse don Chisciotte, che Amore non guarda rispetti, né termini di ragione, egli è come la morte, che tanto assale le sublimi torri dei re, come le capanne dei pastori: quando s'impadronisce di un cuore, prima di ogni altra cosa ne allontana il timore e la vergogna; e così fu nel nostro caso, in cui Altisidora dichiarò quei suoi desideri che generarono nel mio petto piuttosto confusione che pietà.

— Vossignoria è una tigre, disse Sancio, è di una barbarie inaudita: se fosse toccata a me questa sorte, mi sarei bene arreso io, e sarei io diventato suo vassallo: che cuore di marmo, che viscere di bronzo! Non so poi capire che cosa mai quella donzella abbia potuto vedere in vossignoria che le facesse tanta impressione da renderla innamorata: dove sono quella galanteria, quel brio, quelle grazie, quel sembiante, quel tutto insieme che ferisce e conquide? Ogni volta che io mi pongo a guardare vossignoria dalla punta dei piedi sino all'ultimo capello della testa, vedo cose da far piuttosto spaventare che innamorare: e se è vero che la bellezza è la prima e la principal cosa che allaccia, non avendone vossignoria neppure un'ombra, quanto a me non so capire di che diavolo mai la poveretta restasse innamorata.

— Devi considerare, o Sancio, rispose don Chisciotte, che due sorta di bellezze vi sono, l'una dell'anima, l'altra del corpo: campeggia la prima, e si spiega nell'intendimento, nell'onestà, nel buon procedere, nella liberalità e buona educazione, e possono queste doti tutte allignare in un uomo o donna di brutte forme: e quando si ha l'animo unicamente a questa bellezza e non già a quella del corpo, si suole pervenire ad un amore vivissimo e imperioso. Ben io mi avviso, o Sancio, di non essere bello, ma conosco ancora che non sono né deforme, né contraffatto: ed all'uomo di vaglia basta non essere mostruoso per ottenere corrispondenza d'affetti, sempreché però egli possegga le doti dell'animo che ti ho detto.”

Facendo questi discorsi, s'innoltrarono in un bosco posto fuori della strada maestra, e d'improvviso senz'aspettarselo, si trovò don Chisciotte avvolto in certe reti di filo verde che da un albero all'altro erano tese, e senza potersi immaginare che cosa si fosse, disse a Sancio: — Sembrami che l'affare di queste reti debba essere una delle più nuove avventure che possano accadere. Scommetterei la mia vita che gl'incantatori che mi perseguitano cercano ora di ravvilupparmi in queste reti perché io non prosegua il mio viaggio, e per vendicarsi della rigidezza che verso Altisidora ho mostrato; ma sappiano costoro che se queste reti, come sono di filo così fossero di diamanti durissimi e più tenaci di quella con cui il geloso Iddio dei fabbri avviluppò Venere e Marte, io nondimeno le romperei come se fossero di giunco marino o di fila di bambagia.” In così dire, voleva passare innanzi e rompere ogni cosa, quando improvvisamente gli si fecero avanti, sbalzando fuori tra gli alberi, due leggiadre pastorelle, o almanco come tali vestite; se non che le pellicce e zimarre erano di broccato finissimo, ed erano piuttosto bellissimi guarnelli tutti ornati di tabì d'oro: ondeggiavano i capelli sciolti sulle loro spalle che potevano gareggiare in biondezza coi raggi del sole, ed erano coronati da ghirlande conteste di verde alloro e di rosso amaranto: la loro età poteva credersi né minore di quindici, né maggiore di diciotto anni. Questa apparizione incantò don Chisciotte, stordì Sancio Pancia, e pareva che arrestasse il sole nel suo corso per compiacenza. Tutti quattro stettero muti. Dopo breve intervallo però, la prima a rompere il silenzio fu una delle due pastorelle, la quale disse a don Chisciotte: — Fermate il passo, signor cavaliere, e non rompete le reti che qua stanno tese non per vostro danno, ma per nostro spasso. Voi dimanderete forse perché vi sono poste; ed io, prevenendo la dimanda, ve ne dico la cagione. Due leghe di qua lontano è un paese dove sono molti ricchi e nobili personaggi tra loro amici e parenti: coi loro figliuoli, colle mogli e coi vicini vollero venire a spasso da questa parte, ch'è una delle più amene di tutti i contorni. Abbiamo formato tra noi una nuova e pastorale Arcadia, travestendo noi fanciulle da pastorelle ed i giovani da pastori, e abbiamo apprese a memoria due egloghe, l'una del famoso Garcilasso e l'altra dell'eccellentissimo Camoens nel suo idioma portoghese, che vorremmo rappresentare. Siamo arrivate qua ieri, ed abbiamo tra queste frondi drizzate le tende, cercando le sponde dei ruscelli che fertilizzano questi prati; e cominciammo iersera dal tendere le reti per fare inganno ai semplici augelletti, che scacciati e spaventati dal nostro rumore v'incapperanno. Se vorrete, o signore, essere nostro ospite, sarete da tutti accolto con cortesia; ché per adesso non hanno da entrare in questo luogo né malinconie, né noie.”

Tacque, non disse altro, e don Chisciotte così rispose: — O bellissima signora, non dovette certamente restare più maravigliato Atteone quando d'improvviso vide Diana bagnarsi nelle acque, di quello che io nel vedere la vostra leggiadria: lodo i passatempi che mi avete accennati, gradisco le vostre offerte, e se qualche cosa potessi fare per obbedirvi, vogliate comandarmi, ché io sono uomo la cui professione è di mostrarsi grato e di essere benefattore ad ogni sorta di gente, ed in particolare alle genti che le vostre persone rappresentano. Se queste reti, le quali non possono occupare che breve spazio di terreno, occupassero tutta la circonferenza della terra, io andrei a cercare nuovi mondi dove passare senza romperle: e perché vi piaccia dare qualche fede a queste inspirate mie parole, vi basti considerare ch'egli è don Chisciotte della Mancia quello che adesso vi parla; giacché credo che questo suo nome non arriverà nuovo ai vostri orecchi. — Deh! dolcissima amica mia, disse allora la pastorella alla sua compagna, che ventura è mai questa nostra? vedi tu questo signore che ci sta dinanzi? Or bene, sappi ch'è il più valoroso, il più innamorato, il più cortese cavaliere che viva al mondo, se pure non mente o non inganna un'istoria che si è stampata delle sue prodezze e che io ho letta: e scommetterei altresì che questo buon galantuomo che sta in sua compagnia è un tale Sancio Pancia suo scudiere, che non ha pari in graziosità. — È verissimo disse Sancio, io sono appunto quel grazioso e quel scudiere che dice vossignoria, e questo signore è il mio padrone, quello stesso don Chisciotte della Mancia istoriato e riferito.— Deh! l'altra soggiunse, supplichiamolo, o amica, ch'egli non ci abbandoni, ché i nostri genitori e fratelli ne avranno infinito piacere; ed io pure ho sentito raccontare delle grazie e delle prodezze che tu mi hai detto, ed anche mi è stato riferito ch'è il più costante e il più leale innamorato che si conosca, e che la sua dama è una tale Dulcinea del Toboso, la quale vince in bellezza ogni altra donna di Spagna. — E ben a ragione se le dà questo vanto, disse don Chisciotte, qualora non dovesse mettersi in dubbio per la incomparabile bellezza vostra. Ma non vogliate ora, mie signore, tenermi ozioso, perché gli obblighi della mia professione non mi permettono a verun patto di poter riposare.”

Sopraggiunse in questo un fratello di una delle due pastorelle, vestito egli pure da pastore, con leggiadria e bel garbo corrispondente al vestire delle fanciulle; ed elleno gli raccontarono che quel cavaliere con cui conferivano, non era niente manco che lo stesso valoroso don Chisciotte della Mancia e l'altro il suo scudiere Sancio, di cui aveva egli pure notizia, avendo letto la loro storia. Il galante pastore insistette pregando che don Chisciotte si recasse con lui alle sue tende; né questi seppe rifiutarsi più oltre, e si fece a seguirlo. Venne intanto il momento della caccia, ed empironsi le reti di augelli di varie specie, che nel periglio cadevano da cui tentavano di fuggire. Si adunarono in quel sito più di trenta persone, tutte bizzarramente vestite da pastori, e in un momento si divulgò all'intorno ch'erano ivi giunti don Chisciotte e il suo scudiere; di che non poca fu la contentezza, perché tutti sapevano bene le loro gesta. Passarono dopo la caccia alle tende, dove trovarono apprestate tavole con abbondanza e con isplendidezza, ed onorarono don Chisciotte, assegnandogli il primo posto; tutti lo guardavano e davano segni di ammirazione. Terminato il convito, don Chisciotte si alzò e gravemente disse: — Vogliono alcuni che la superbia sia uno dei peccati più sconci che si commettono dagli uomini: ma io sostengo che più grave è l'ingratitudine, attenendomi al detto che l'inferno è pieno d'ingrati. Per quanto mi è stato possibile, cercai sempre di non essere accusato di questa reità, sino da quando cominciò in me a spiegarsi il discernimento: e quando non posso ricambiare i benefici che impartiti mi vengono, supplisco almeno colla volontà: e se questo non basta, li divulgo per ogni dove, mentre chi fa palese e bandisce il bene che riceve, prova che lo ricambierebbe volentieri, se ciò stesse in sua mano. Avviene d'ordinario che quelli che ricevono siano inferiori a quelli che danno. Dio Signore è sovrano di tutti, perché benefica tutti: né i doni dell'uomo si possono agguagliare a quelli di Dio per la loro infinita distanza: ond'è che la nostra ristrettezza ed impotenza fa in qualche guisa le veci della gratitudine. Pertanto, su queste basi, grato com'io sono agl'infiniti vostri favori, non potendovi corrispondere in egual misura, e contenendomi nei ristretti confini della mia possibilità, offro quello che posso e che tengo di mia natura, e dichiaro che mi tratterrò per due giorni naturali in mezzo a questa strada maestra che va a Saragozza, per sostenere a prova con chi che sia, che queste signore pastorelle in maschera che si trovano qua presenti, sono le più vaghe e cortesi donzelle che vanti il mondo, tranne unicamente la senza pari Dulcinea del Toboso, la sola signora de' miei pensieri; sia detto con buona pace di quanti e quante mi ascoltano.”

Sentendo questo, Sancio, che con somma attenzione era stato ascoltandolo, mandata fuori una gran voce, soggiunse: — Come mai può darsi che vi sieno al mondo persone ostinate nel dire e nel giurare che questo mio signor padrone sia pazzo? Mi rispondano, di grazia, le signorie loro, signori pastori: c'è egli curato in villa, per giudizioso e saputo che egli sia, che possa dire ciò che il mio padrone ha detto? C'è egli cavaliere errante, per quanto voglia fare lo smargiasso, che possa offerire più di quello che il mio signore ha offerto?” Don Chisciotte si voltò a Sancio, e infastidito e tutto acceso in viso, gli disse — C'è egli signor Sancio caro, uomo nel mondo che possa dire che tu non sei un vero balordo, foderato di balordaggine, con non so che di passamani di malizioso e di vigliacco? Chi ti ordina d'immischiarti ne' fatti miei, e di strologare qua se io sia savio o scempiato? Taci, non voglio risposte, metti la sella a Ronzinante se non l'ha, e andiamo a dare esecuzione alle mie offerte; che colla ragione che milita a mio favore, puoi fare tuo conto che sieno belli e vinti tutti coloro che volessero negarmela.”

Con grande furia e con mostra di sdegno si alzò dalla sedia, restarono attoniti tutti i circostanti, essendo in dubbio se dovessero tenerlo per pazzo o per giudizioso. Si affrettò ognuno a renderlo persuaso che non occorrevano tante sue offerte, e che tutti bene conoscevano la gradita sua volontà, né v'era bisogno di altre prove per conoscere l'animo suo valoroso, bastando quelle che nell'istoria delle sue prodezze si raccontavano. Ad onta di tutto questo, don Chisciotte volle eseguire il suo intento: montò su Ronzinante, e imbracciato lo scudo e pigliata la lancia, si pose nel bel mezzo della strada maestra, che dal verde prato non era lontana. Sancio gli andò dietro col suo leardo, con tutta la pastorale comitiva, desiderosa di vedere dove andasse a parare la sua ardimentosa e non mai più udita proposta. Postossi pertanto don Chisciotle in mezzo alla strada, come si è detto, ferì l'aria con queste parole: — O voi altri passeggieri e viandanti, cavalieri, scudieri, genti a piedi ed a cavallo, che dovrete transitare per questa via o passare nei due giorni che a questo succedono, sappiate che don Chisciotte della Mancia, cavaliere errante, sta qui per difendere e per sostenere che le bellezze e cortesie tutte del mondo sono superate da quelle delle ninfe abitatrici di questi boschi e di questi prati, eccettuata soltanto la signora dell'anima mia Dulcinea del Toboso: chi fosse di contrario parere, venga innanzi che lo aspetto di pié fermo.” Due volte ripeté la disfida, ma non vi fu venturiere che sentisse queste parole.

La fortuna però che andava guidando le sue cose di bene in meglio, dispose che di lì a poco si scoprisse sulla strada una moltitudine di uomini a cavallo, la maggior parte con lance in mano, camminando tutti serrati in truppa e a gran passo. Non furono veduti appena da quelli che stavano appresso a don Chisciotte, che volte le spalle si sviarono lungi dalla strada, poiché conobbero che se li avessero attesi, avrebbe potuto succedere qualche malanno. Il solo don Chisciotte con intrepido cuore non si mosse né punto né poco; e Sancio Pancia si fece scudo delle groppe di Ronzinante. Arrivò una mandra condotta da vaccai con lance, e quello che la precedeva disse a don Chisciotte:

— Tirati da banda, asinaccio, che questi tori ti faranno in pezzi. — Che osi tu dire, canaglia? rispose don Chisciotte: che importa a me della forza dei tori, siano anche più feroci di quelli che nudrisce nelle sue rive lo Sciarama? Malandrini, confessate anche a squadrone serrato ch'è vero quanto ho poco fa pubblicato, o vi sfido meco a singolar tenzone.”

Non ebbe il vaccaio tempo di potergli rispondere, né don Chisciotte di ritirarsi ancorché avesse voluto: perché la truppa dei feroci tori e quella dei domestici capretti, con la moltitudine dei vaccai che li conducevano al paese dove seguir doveva una caccia nel dì seguente, passarono addirittura sopra i corpi di don Chisciotte e di Sancio, di Ronzinante e del leardo, facendoli tutti rotolare per terra. Sancio restò fracassato, don Chisciotte impaurito, pestò il leardo e Ronzinante non troppo cattolico. Finalmente, sebbene con non poca fatica, si rizzarono tutti, e don Chisciotte con gran fretta, inciampando qua e cadendo là, cominciò a correre dietro a quella mandra, ed a sclamare:

— Fermatevi, aspettate, canaglia vera, che qua v'invita un cavaliere solo, che non viene a patti, né è del parere di quelli che dicono: Al nemico che fugge fagli il ponte d'argento.” Non per questo si fermarono i frettolosi corridori, né fecero più conto delle sue bravate che dei nugoli dell'anno passato. La stanchezza obbligò don Chisciotte a fermarsi, e più incollerito che vendicato, si sdraiò in mezzo alla strada, aspettando che Sancio e Ronzinante e il leardo lo raggiungessero. Vennero, rimontarono a cavallo padrone e servitore, senza andare a togliere licenza dalla finta o contraffatta Arcadia, e con più vergogna che gusto, seguitarono il loro cammino.


CAPITOLO LVIII

 

STRAORDINARIO CASO CHE SUCCESSE A DON CHISCIOTTE E CHE PUÒ TENERSI IN CONTO DI VENTURA.

 

Don Chisciotte e Sancio per rimediare al polverio ed alla stanchezza di cui era stata cagione ad entrambi la ferocia dei tori, trovarono necessario il ristoro di una limpida e chiara fonte, al cui margine, lasciando in libertà senza briglia e senza cavezza Ronzinante e il leardo, si assisero i due bersagliati. Visitò Sancio la credenza delle bisacce, e cavò fuori quello ch'egli soleva chiamar camangiare; si risciacquò la bocca, e don Chisciotte si lavò il viso per lo cui refrigerio ravvivò gli spiriti affievoliti. Il grande dispiacere impediva a don Chisciotte di potersi cibare, e non osava Sancio toccar le vivande che aveva dinanzi per dovuto rispetto, aspettando che il suo signore vi mettesse mano pel primo.

Vedendo però che assorto nelle sue immaginazioni non curavasi di accostar pane alla bocca, cominciò (sovvertendo ogni genere di creanza) ad insaccare nello stomaco il pane ed il cacio che si vedeva dinanzi.

— Mangia pure, amico Sancio, disse don Chisciotte, sostenta quella vita che a te piucché a me piace, e lasciami morire sotto il peso de' miei pensieri e sotto quello delle mie sventure. Io nacqui, o Sancio, per vivere morendo, e tu per morire mangiando: e perché tu vegga che io dico il vero, considerami impresso nelle istorie, famoso nelle armi, ben creato nelle azioni, rispettato dai principi, tentato dalle donzelle, e al fine dei fini quando mi attendea palme, trionfi e corone guadagnate e meritate colle valorose mie imprese, mi vidi stamane calpestato, rotolato e pesto dai piedi di animali sudici e immondi! Questa considerazione mi allega i denti, m'instupidisce i mascellari, mi intirizzisce la destra e mi toglie in tutto e per tutto la volontà di mangiare; di maniera che penso di lasciarmi morire di fame, morte più crudele di ogni altra morte. — S'è così, disse Sancio sempre masticando a furia, vossignoria approverà quel proverbio che dice: corpo satollo anima consolata; io poi non penso di darmi la morte da me medesimo, che anzi vo' immaginando di fare come il ciabattino, che stira il cuoio coi denti, né ristà se nol vede al segno che vuole: e fo conto di tirare innanzi mangiando finché arrivi quel termine che il Cielo mi avrà segnato. Si persuada, signor mio, che non si dà pazzia più grande di quella di volersi disperare; e faccia a mio modo, mangi qualche cosa, e poi si metta a dormire sopra i verdi materassi di queste erbe, e vedrà che allo svegliarsi si sentirà rinvigorito lo spirito.” Così fece don Chisciotte, parendogli che le parole di Sancio, fossero più da filosofo che da mentecatto; e gli disse: — Se tu, o Sancio, far volessi per amor mio quello che ora ti dirò, sarebbe più certo il mio alleviamento, e meno sarebbero gravi gli affanni miei. Io ti supplico che mentre dormo per obbedire ai tuoi consigli, tu ti allontani un poco di qua e colle redini di Ronzinante, spogliandoti ignudo, tu ti dia tre o quattrocento scudisciate a conto delle tremila e tante delle quali sei debitore per ottenere il disincanto di Dulcinea: ché non è piccola afflizione quella di scorgere che per la tua noncuranza e per la tua negligenza stiasene incantata quella povera dama. — Oh, qua c'è da discorrere molto, disse Sancio: dormiamo intanto tutti e due, e poi Dio sa quello che sarà: non è mica piccolo negozio quello di frustarsi di per sé a sangue freddo: e tanto più se le frustate cadono addosso un corpo mal sostenuto e peggio cibato; che la mia signora Dulcinea abbia pazienza, e quando manco se l'aspetterà diventerò un crivello per le frustate: insino alla morte ogni cosa è vita, e voglio dire che io mi tengo in vita col desiderio di mantenere quanto ho promesso.” Allora gradì don Chisciotte la dichiarazione, mangiò un poco e Sancio molto, ed entrambi si misero a dormire, lasciando i due eterni compagni ed amici, Ronzinante e il leardo, in libera loro volontà di pascere l'abbondante erba ch'era nel prato.

Si svegliarono ch'era alquanto tardi, e tornarono a cavallo continuando il loro viaggio, affrettandosi per arrivare all'osteria che poteva essere una sola lega lontana. Io la chiamo osteria, perché don Chisciotte così la denominò contro l'usanza sua ch'era quella di chiamare castelli tutte le osterie. Giunsero finalmente e dimandarono all'oste se vi fosse da alloggiare. Rispose che sì, e con tanta agiatezza e comodità quanto poteasi trovare in Saragozza. Smontarono da cavallo, e Sancio ripose la sua credenza in una camera di cui l'oste gli consegnò la chiave. Condusse le bestie nella stalla, e diede loro la profenda, ringraziando il Cielo che alla fine l'osteria non fosse parsa un castello al suo padrone. Recossi poi a ricevere i suoi comandi, e lo trovò che stava seduto su di un muricciuolo. Venne l'ora della cena e di recarsi nella stanza, e Sancio chiese all'oste che cosa avesse d'apprestargli. Rispose che dimandasse pure ciò che venivagli in fantasia, non mancando l'osteria di uccelli dell'aria, di quadrupedi della terra e di pesci del mare. — Non occorre, tanta roba, rispose Sancio; un paio di polli arrosto ci bastano perché il mio padrone è delicato e mangia poco, e io ancora non sono molto divoratore.” Replicò l'oste che mancava di polli avendoglieli il nibbio pigliati tutti. — Ebbene, fateci dunque arrostire una pollastra che sia tenera. — Pollastra, padron mio! l'oste soggiunse: da quel che sono vi assicuro che ne ho mandate ieri alla città più di cinquanta, e dovete favorirmi di dimandare tutt'altro che vi piaccia, di pollastre infuori. — A questo modo, disse Sancio, non potrà essere di manco che non vi sia un poco di vitello o qualche quarto di capretto. — In casa non ne ho per adesso, rispose l'oste, essendosi consumato, ma nella ventura settimana ne sarà di avanzo. — Stiamo freschi! disse Sancio: scommetterei che tutta questa strepitosa abbondanza va a restringersi in un po' di prosciutto e in qualche paio di uova. — Per vita mia, soggiunse l'oste, che il mio signor ospite è un bell'umore: or ora gli ho detto che non tengo né galline, né pollastre, e vuole che abbia delle uova? Di grazia chiedetemi altre ghiottonerie, ma non mi dimandate cose relative a galline. — Ma finiamola dunque, corpo di me, disse Sancio mezzo in collera, e ditemi voi, signor oste, quello che avete senza perderci in altri discorsi.” Egli rispose:

— Quello che realmente e veramente ho in pronto sono due zampe di bue che paiono due piedi di vitella, ovvero due piedi di vitella che paiono due zampe di bue, e sono cotte coi loro ceci, cipolle e prosciutto, e stanno dicendo: Mangiami, mangiami. — Sia dunque finita, disse Sancio: queste sieno per conto mio, e nissuno le tocchi che le pagherò meglio di ogni altro: quanto al mio gusto particolare non cerco di più e mi importerebbe anche poco se fossero piedi piuttosto che zampe. — Non vi sarà chi le tocchi, disse l'oste, che gli altri miei ospiti sono personaggi che hanno con sé e cuoco e credenza e dispensiere. — Se si tratta di personaggi, disse Sancio, nessuno è più personaggio del mio padrone, ma l'offizio che fa non gli permette di portarsi dietro né dispense, né bottiglierie; perché noi ci distendiamo in mezzo ad un prato, e ci satolliamo sì di ghiande come di nespole.”

Questa fu la conversazione di Sancio coll'oste, né Sancio volle passare avanti a rispondere ad altre domande intorno all'uffizio ed all'esercizio del suo padrone. Venne l'ora della cena, e don Chisciotte passò nella sua camera. L'oste portò la pignatta come stava, e il cavaliere si mise a cenare a suo bell'agio.

Frattanto parvegli di sentir a dire da una stanza divisa dalla sua soltanto da un muro di mezza pietra: — Per la vita di vossignoria, signor don Geronimo, che mentre ci recano la cena, vogliamo leggere un altro capitolo della seconda Parte del don Chisciotte della Mancia.” Appena che don Chisciotte sentì proferire il suo nome, rizzossi in piedi, e con gli orecchi tesi ascoltando di che si trattasse, udì che quel tale don Geronimo rispondeva: — E perché vuole, vossignoria, signor don Giovanni che leggiamo questi spropositi? Quegli che ha letto la prima Parte dell'istoria di don Chisciotte della Mancia non può certamente dilettarsi della lettura della seconda. — Contuttociò, rispondeva don Giovanni, non sarà male di leggerla, che non vi è libro tanto cattivo che non contenga qualche cosa di buono: quello che mi dispiace si è che si scopre nella seconda Parte don Chisciotte già disinnamorato di Dulcinea del Toboso.” Don Chisciotte udendo questo, pieno d'ira e di dispetto, alzò la voce e disse: — Se vi è chi dice che don Chisciotte della Mancia si sia dimenticato o possa dimenticarsi di Dulcinea del Toboso, io gli proverò con armi eguali che va lontanissimo dalla verità; né la senza pari Dulcinea del Toboso può essere dimenticata, né in don Chisciotte può capire obblivione; la costanza è la sua insegna, sua professione è una memoria gelosa e soave, e non può essere obbligato a far forza a se stesso. — Chi è che ci risponde? fu inteso dire dall'altra stanza. — E chi altri può essere, Sancio soggiunse, fuorché lo stesso don Chisciotte della Mancia che manterrà quanto ha detto e quanto sarà per dire ché al buon pagatore non dolgono i pegni.”

Non aveva appena finito Sancio di parlare ch'entrarono per la porta della stanza due gentiluomini o tali rassembravano; ed uno di essi gittando le braccia al collo di don Chisciotte, gli disse: — Né la presenza vostra può smentire il vostro nome, né può il nome vostro non accreditare la vostra presenza. È fuori di dubbio, o signore, che voi siete il vero don Chisciotte della Mancia, tramontana e stella mattutina della errante cavalleria a marcia vergogna di colui che tentò di usurpare il vostro nome e di annientare le prodezze che vi hanno data celebrità; di colui, dico, ch'è stato l'autore del libro che vi presento.”

Pose in questo mentre il libro che aveva seco, in mano di don Chisciotte, che ricevutolo, senza proferire parole cominciò a scartabellarlo e d'indi a poco glielo restituì, dicendo: — Nel poco che ho visto ho trovato tre cose degne di riprensione. La prima risguarda alcune parole che ho letto nel prologo; l'altra che il dialetto è aragonese, perché talvolta scrive senza articoli: e la terza, che lo conferma più delle altre per ignorante, si è che va errato e si svia dalla verità nel punto più importante dell'istoria. Qua dice che la moglie di Sancio Pancia, mio scudiero, chiamasi Maria Guttierez, quando invece è Teresa Pancia; e chi commette spropositi in punto sì rilevante fa sospettare a buon diritto d'infedeltà in tutto il rimanente.” E Sancio soggiunse: — Oh è ben bello questo signor istoriatore! oh veramente sa per minuto le cose nostre! egli chiama Maria Guttierez mia moglie Teresa Pancia? Caro signore, riprenda il suo libro e guardi un poco se vi sono nominato anch'io, e come mi hanno cambiato il nome. — Per quello che ho inteso a dire amico mio, disse don Geronimo, voi dovete essere infallantemente Sancio Pancia, lo scudiere del signor don Chisciotte. — Io son quello rispose Sancio, ed anche me ne tengo. — In fede mia, disse il gentiluomo, che questo moderno autore non parla di voi con quella nettezza che si scorge essere nella vostra persona: vi siete dipinto mangiatore, balordo, niente grazioso, affatto diverso dall'altro Sancio descritto nella Parte prima della storia del vostro padrone. — Dio gli perdoni, disse Sancio; doveva lasciarmi nelle mie brache e non far parola della mia persona; che per guidare la danza bisogna saper suonare, e San Pietro sta bene soltanto a Roma.” I due gentiluomini pregarono don Chisciotte che si compiacesse di passare a cena nella loro stanza e in loro compagnia; poiché bene sapevano che quell'osteria non avrebbe potuto apprestargli cibi da suo pari. Don Chisciotte che fu sempre cortese e ben creato, condiscese alla dimanda e passò a cenare con loro. Sancio se ne restò con la pignatta di suo mero e misto impero, si pose a sedere in capo di tavola, e tenne l'oste in sua compagnia, che non meno di lui mostravasi affezionato ai piedi ossia zampe di bue.

Durante la cena dimandò don Giovanni a don Chisciotte che nuove avesse della signora Dulcinea del Toboso; se si fosse maritata, se avesse partorito, se fosse gravida, o se stando nella sua integrità si ricordasse (gelosa custode dell'onestà e del decoro) delle amorose affezioni del signor don Chisciotte della Mancia. Cui rispos'egli: — Dulcinea è sempre intatta, e i miei pensieri più fermi che mai; ma la sua bellezza è ora trasformata in quella di brutta villana.” E qui si fece a raccontare punto per punto l'incantamento della signora Dulcinea e quanto era successo nella grotta di Montèsino, col comando del savio Merlino per disincantarla, consistente nelle frustate che Sancio doveva darsi. Fu assai grande il piacere ch'ebbero i due gentiluomini udendo raccontare dal medesimo don Chisciotte gli strani successi della sua istoria, e rimasero tanto sorpresi dei suoi spropositi quanto della elegante maniera con cui sapeva raccontarli. Ora lo teneano per saggio, ora per mentecatto, senza sapersi determinare qual grado gli potessero dare tra la saggezza e la pazzia.

Terminò Sancio la sua cena, e lasciando ben bene briaco l'oste, passò nella stanza dove trovavasi il suo padrone, ed entrando disse: — Che io possa esser morto se l'autore di questo libro posseduto dalle vostre signorie non vuole che noi mangiamo insieme una buona pignatta di pane grattato; che mi dica mangiatore gliela perdono, ma ubbriaco no certamente. — Eppure vi chiama ubbriaco, disse don Geronimo, non mi ricordo precisamente in qual luogo: ma egli è certo che parla da maligno e da gran bugiardo per quanto posso capire dalla fisonomia del buon Sancio ch'è qua presente. — Si persuadano le signorie loro, disse Sancio, che il Sancio e il don Chisciotte di questa loro istoria debbono essere altre persone diverse da quelle delle quali parla Cide Hamete Ben-Engeli, e che siamo noi, il mio padrone ingegnoso, savio e innamorato, ed io semplice, grazioso e non mangione, né ubbriaco.

— Così credo anch'io, disse don Giovanni: e se fosse possibile si dovrebbe comandare che nessuno osasse trattare delle cose del gran don Chisciotte, da Cide Hamete, suo originario autore, in fuori; nel modo stesso che comandò Alessandro che nessuno ardisse di fare il suo ritratto, eccettuato Apelle. — Mi ritratti chi vuole, disse don Chisciotte, ma non mi maltratti; ché molte volte può la pazienza messa a cimento, degenerare in isdegno. — Non v'è ingiuria, disse don Giovanni che si possa fare al signor don Chisciotte della quale non sappia egli vendicarsi; se no la ripara collo scudo della sua tolleranza; ché al parere mio è grande e forte.”

Tra questi ed altri discorsi si consumò gran parte della notte: e tuttoché don Giovanni avesse bramato che procedesse don Chisciotte nella lettura del libro per udire le glose che vi facesse, nol poté a ciò indurre mai, dicendo egli che lo dava per letto e lo confermava per libro sciocco da capo a fondo. Oltre di che non avrebbe voluto che giugnendo a cognizione del suo autore ch'eragli pervenuto alle mani, si compiacesse che lo potesse aver letto, mentre dalle cose turpi ed oscene i pensieri non che gli occhi hanno sempre a stare lontani. Gli chiesero per dove fosse diretto il suo viaggio, rispose; — Alla volta di Saragozza per ritrovarmi alla giostra dello scudo, che in quella città suol farsi ogni anno.” Don Giovanni gli disse che in quella nuova istoria si racconta che don Chisciotte, o chi altro fosse, vi si era trovato a correre un anello, ma che il racconto era privo d'invenzione, povero di motti, poverissimo di ornamenti, e ricco di scimunitaggini. Or bene; appunto per questo, rispose don Chisciotte, non metterò più piede in Saragozza, e così renderò notorio al mondo la menzogna di questo moderno istorico, e ognuno conoscerà che io non sono quel don Chisciotte che egli dipinge. — Farà da suo pari, disse don Geronimo: e tanto più che anche in Barcellona si fanno giostre, dove troverà campo il signor don Chisciotte da lasciarvi prove del suo valore. — Così farò soggiunse don Chisciotte: e mi concedano le signorie vostre, essendo già ora opportuna, ch'io me ne vada a letto, tenendomi ed ascrivendomi nel novero dei loro più grandi amici e servitori. — E tengano anche me in questo numero, soggiunse Sancio; che forse potrò essere buono da qualche cosa.” Con questo si licenziarono e don Chisciotte e Sancio si ritirarono nella loro camera, lasciando don Giovanni e don Geronimo confusi nel pensare a quello strano miscuglio di saviezza e di pazzia ch'erano i veri caratteri di don Chisciotte e di Sancio, ben diversi da quelli descritti dall'autore aragonese. Si alzò don Chisciotte di buon mattino: e col dare replicati colpi al muro che tramezzava l'altra camera si congedò dai due ospiti. Sancio pagò l'oste con prodigalità, e lo consigliò che lodasse manco le provvisioni della sua osteria, ma che in vece la tenesse un po' meglio provvista.


CAPITOLO LIX

 

DI QUELLO CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE ANDANDO A BARCELLONA.

 

La mattina era fresca e dava indizio che tale sarebbe anche il giorno in cui don Chisciotte partì dall'osteria, informandosi prima quale fosse il più diritto cammino per condursi a Barcellona senza toccar Saragozza: sì grande era la sua brama di far restare mentitore quel novello istorico, il quale dicevasi che tanto lo vituperava. Ora è da sapere che per più di sei giorni non incontrò ventura degna di essere ricordata; dopo i quali, andando fuori di strada, lo sorprese la notte tra folte quercie e sughereti: ma già nel determinare queste cose non osserva come nelle altre Cide Hamete l'usata puntualità. Smontarono padrone e servitore, e sdraiati sui tronchi degli alberi, Sancio, che aveva bene merendato in quel giorno, si abbandonò subito al sonno. Don Chisciotte cui tenevano desto più assai le sue fantasie che la fame, non poteva chiudere gli occhi, ed andava invece e tornava col pensiero per infiniti e diversi luoghi. Ora sembravagli di essere nella grotta di Montèsino; ora di veder saltare e montare sopra la sua asina la trasformata Dulcinea; ora che gli stessero cantando agli orecchi le parole del savio Merlino, che dichiarava le condizioni ed i patti da eseguirsi per lo disincanto di lei. Disperavasi in considerare la lentezza e poca carità di Sancio suo scudiere, mentre, per quanto sapeva, egli erasi date sole cinque frustate, numero disuguale e minimo a fronte delle infinite che rimanevano. Derivò da tutto questo sì eccessiva tristezza e tant'ira, che tenne tra sé questo ragionamento: — Se il nodo gordiano fu tagliato dal grande Alessandro col dire: Tanto è tagliare come sciogliere; ed egli non lasciò per questo di essere dominatore dell'Asia intera; né più, né meno potrebbe avvenire adesso riguardo al disincanto di Dulcinea, se io dessi le frustate a Sancio, io medesimo a suo dispetto. Se la condizione del rimedio consiste nel doversi ricevere da Sancio, le tremila e tante frustate, che importa che se le dia da per sé o che le riceva da un altro, quando la sostanza del fatto è ch'egli le riceva, vengano di dove si voglia?” Pieno di siffatta immaginazione, si accostò a Sancio avendo prima prese le redini di Ronzinante ed avendole accomodate a modo da potergli con esse dare le scudisciate. Cominciò a sciogliergli le stringhe delle brache: ed è opinione che non avessero se non quella davanti che le reggesse. Ma non gli si accostò appena, che Sancio si svegliò con tutto il suo giudizio, e disse: — Chi è che mi tocca, e che mi scioglie le stringhe? — Sono io, rispose don Chisciotte, che vengo a supplire alle tue mancanze e ad alleviare i miei tanti travagli: vengo a frustarti, o Sancio, scaricandoti in parte del debito a cui ti obbligasti. Dulcinea perisce, tu vivi trascuratamente: ed io mi muoio desiderando; ora sciogli le brache di tua volontà: che la mia è inalterabile, e consiste nel consegnarti in queste solitudini duemila frustate per lo manco. — Oh questo no, disse Sancio, non lo faccia vossignoria, o viva Dio che mi sentiranno i sordi. Le frustate me le ho da affibbiare io volontariamente; non valgono niente date per forza da altri, e adesso non ho volontà di frustarmi; basti alla signoria vostra la parola che ho dato di cacciarmi le mosche di dosso allorquando me ne verrà desiderio. — Non posso rimettere ciò alla tua cortesia, disse don Chisciotte, giacché tu sei di cuore inflessibile, e tuttoché villano, di carni dilicate:” e frattanto procurava e faceva ogni studio per isciogliere le stringhe alle brache. Sancio, vedendo questo, rizzatosi presto ed assalendo il suo padrone, si abbracciò con lui a corpo a corpo, e facendogli un gambetto lo gittò in terra colla bocca all'insù, gli mise il ginocchio diritto sopra il petto, e colle mani gli teneva le mani dimodoché non lo lasciava voltarsi né fiatare. Don Chisciotte gli andava dicendo: — Come, traditore! è possibile che  tu giunga a tanto contro al tuo padrone e signore naturale? che tu metta le mani addosso a chi ti alimenta col suo pane? — Io non levo re, né metto re, Sancio rispose, ma soccorro me stesso che sono il naturale mio signore: mi prometta vossignoria che desisterà dalla sua risoluzione né mi frusterà in alcun tempo, ed io la lascerò libero e sciolto: e quando che no, tu morrai qua, traditore nimico di donna Sancia.” Don Chisciotte promise ogni cosa, giurò per la vita de' suoi pensieri di non toccargli più nemanco un pelo di vestito e di lasciare in piena e libera sua volontà ed arbitrio il frustarsi quando gli piacesse. Sancio si alzò allora, si allontanò buon tratto ed andò ad appoggiarsi ad un albero: ma ecco ch'egli sente toccarsi la testa: ond'è che alzando le mani gli vengono presi due piedi di persona che aveva scarpe e calze. Tremò di paura, si accostò ad altro albero, e gli avvenne lo stesso. Chiamò allora forte don Chisciotte, gridando: — Aiuto!” Accorse il padrone, e chiese che cosa mai fosse successo, e da che procedesse sì grande paura. Rispose Sancio che quegli alberi erano pieni di gambe e di piedi umani. Don Chisciotte tastò, si accorse subito di quello che poteva essere, e disse a Sancio: Non è cosa da aver paura: i piedi e le gambe che tu tocchi e non vedi, sono di fuorusciti e assassini; che quando la giustizia li ha nelle mani, li fa appendere qua a venti, a trenta per volta: ed ora congetturo da questo che noi siamo già arrivati presso a Barcellona:” e così era per l'appunto. La notte passò frattanto, e all'apparire del giorno videro quei grappoli sugli alberi, e si confermarono sempre meglio ch'erano corpi di malfattori.

Avanzava il giorno, e se i morti avevano dato occasione di spavento, vennero i vivi ad accrescerlo; perché don Chisciotte e Sancio si trovarono contornati da quaranta banditi che all'improvviso li assalirono, e dissero in catalano che non si movessero un passo solo sino a tanto che non arrivasse il loro capo. Trovavasi allora don Chisciotte col cavallo senza briglia e colla lancia appoggiata ad un albero, in somma senza alcuna difesa ond'è che giudicò savio partito d'incrocicchiare le mani e di abbassare la testa, riserbandosi a tempi e congiunture migliori. I banditi andarono subito a svegliare il leardo, spogliandolo di tutto ciò che portava nelle bisacce e nel valigiotto; e fu buona ventura di Sancio che tenea a cintola gli scudi del duca, ed anche quelli che aveva recati dal suo paese. Non l'avrebbe con tutto questo passata netta, e sarebbe stato frugato tra pelle e carne, se per migliore sua fortuna non fosse sopraggiunto il capo dei banditi, uomo di oltre trent'anni, robusto, di guardatura grave e di color bruno. Avanzavasi sopra poderoso cavallo, con fino giacco indosso e con ai lati quattro pistoletti, che in quel paese si chiamano pedregnali. Vide che gli scudieri (che così sogliono chiamare i loro compagni) si affacendavano a spogliare Sancio Pancia, e tosto comandò che desistessero. Fu ubbidito, e il valigiotto restò illeso. Gittò poi gli occhi ad un albero vicino, e vi osservò con meraviglia appoggiata una lancia e vide uno scudo in terra; indi guatò don Chisciotte tutto pensieroso, e ch'era la più mesta e malinconiosa figura che potesse mai formare la stessa malinconia. Gli si accostò e disse:

— Non istate di tanta malavoglia, galantuomo, che non siete già caduto nelle mani di qualche crudele Osiride, ma in quelle di Rocco Ghinart, il quale seconda più gl'impulsi della compassione che quei del rigore.

— Non procede la tristezza mia, disse don Chisciotte, dall'essere caduto in tuo potere, valoroso Rocco, la cui celebrità non conosce limiti, ma n'è cagione l'essermi per soverchia trascuratezza lasciato cogliere da' tuoi soldati senza lancia, quando io era obbligato, conformemente alle leggi della cavalleria errante che professo, a vivere continuamente in attenta veglia per essere a tutte le ore la sentinella di me medesimo: perché voglio che tu sappia, o gran Rocco, che se trovato mi avessero sul mio cavallo con la lancia e con lo scudo imbracciato, non ti sarebbe riuscito sì agevole di fare che mi arrendessi; e basti il dirti ch'io sono don Chisciotte della Mancia, quegli che tutto l'orbe ha riempiuto di sue segnalate prodezze.”

Rocco Ghinart conobbe subito che l'infermità di don Chisciotte sapeva più di pazzia che di altro. Quantunque avesse udito più volte mentovare il suo nome, contuttociò non mai tenne per vere le sue bravure, né si persuase mai che in corpo d'uomo allignasse cotal umore; di maniera che si compiacque all'estremo di essersi avvenuto in lui per conoscere da vicino ciò che di lontano erasi divulgato. Gli disse dunque: — Valoroso cavaliere, non vi sdegnate, né ascrivete a nemica sorte la presente condizione vostra, perché potrebbe darsi che la vostra tôrta fortuna in questi inciampi si raddrizzasse, mentre il Cielo per i strani e non più visti rigiri, non dagli uomini immaginati, suole sollevare i caduti e arricchire i miseri.”

Di già accingevasi don Chisciotte a rendergli grazie, quando intesero alle spalle rumore come di molti cavalli; ma era un solo, sul quale veniva a briglia sciolta un giovine di bell'aspetto d'intorno ai vent'anni, vestito di damasco verde, con passamani d'oro, con calzoni e saltambarco, con cappello rimboccato alla vallona, con un paio di stivali incerati e con i sproni, pugnale e spada indorata. — Io veniva, egli disse, in traccia di te, valoroso Rocco, per trovare nel tuo aiuto, se non rimedio, almeno conforto alla mia sventura; e per non tenerti dubbioso, scorgendo che non mi hai conosciuta, ti dirò ch'io sono Claudia Geronima, figlia di Simone Forte, tuo singolare amico, e nemico particolare di Clauehel Torreglia, altro nemico tuo, e della fazione a te contraria: ti è già noto che questo Torreglia ha un figliuolo, il cui nome è don Vincenzo Torreglia, o almanco così si chiamava due ore fa: ora ti dirò alle corte la mia disgrazia, e tu ascoltami. Egli mi vide, mi parlò di amore, io lo ascoltai, mi accesi di lui senza saputa de' miei genitori, ché già non vi è donna sì ritirata e circospetta cui manchino occasioni di mettere in esecuzione i suoi precipitosi voleri. Vincenzo promise di essere mio sposo, io di esser sua, né si passò innanzi. Seppi ieri che scordatosi di quella fede che mi aveva giurata, si ammogliava con altra donzella, e che la nuova sposa doveva questa mattina ricevere l'anello. Tutti i miei sensi si sono sconvolti, la sofferenza mi abbandonò, ed essendo mio padre lontano da casa, vestii questo mentito abito, diedi degli sproni a questo cavallo, raggiunsi don Vincenzo mezza lega di qua lontano, e senza perdermi in fare lamenti o in udire discolpe, gli sparai contro questo archibuso e queste due pistole ancora, sicché mi avviso di avergli piantato in corpo più di due palle aprendogli così più di una porta per dove potesse uscire il mio onore rinvolto nel suo sangue. L'ho lasciato in balia de' suoi servi, che non ardirono fare le sue difese, ed ora vengo a te perché mi faccia scortare in Francia; dove ho parenti che avranno cura di me, e perché tu difenda ad un tempo stesso mio padre per sottrarlo alle crudeli vendette degli amici di don Vincenzo.” Restò Rocco meravigliato della gagliardia, del coraggio, del successo della bella Claudia, e le disse: — Seguimi tosto, e andiamo a riconoscere se il tuo nimico sia morto, e di poi faremo ciò che sarà necessario.

Don Chisciotte, che aveva attentamente ascoltate le parole di Claudia e la risposta di Rocco Ghinart, disse: — Non occorre che alcuno si prenda pensiero di accingersi alla difesa di questa signora, mentre tolgo io questa protezione a mio carico: dienmi il mio cavallo e le mie armi, e qua mi aspettino, ché andrò io stesso in traccia di questo cavaliere, e o morto o vivo farò che adempia la parole che diede a tanta bellezza.

— Nessuno ne dubiti, disse Sancio, perché il mio padrone ci ha buona mano in materia di far parentadi, e non sono molti giorni che egli obbligò un altro a maritarsi che non voleva mantenere la parola data ad una ragazza: e se non fosse stato che i perfidi incantatori, i quali lo perseguitano, gli cambiarono la vera figura in quella di uno staffiere, adesso non si discorrerebbe più della integrità della giovane.” Rocco, che attendeva più all'avvenimento della bella Claudia che alle dicerie del padrone e del servo, senza dare loro retta prescrisse ai suoi scudieri di restituire a Sancio tutto quello che tolto gli avevano dal leardo, e comandò loro egualmente che dovessero ritirarsi nel luogo dove avevano alloggiato la notte precedente, e senz'altro dire partì frettolosamente con Claudia a cercare del ferito o morto don Vincenzo. Giunsero al sito da essa indicato, ma non vi trovarono che sangue sparso di fresco sopra il terreno. Distendendo la vista per ogni banda, scoprirono in lontananza alcune persone, e sospettarono, com'era in fatto, ch'ivi avesse essere don Vincenzo o vivo o morto, trasportato dai servi per medicarlo o per dargli sepoltura. Si affrettarono a raggiungerli: il che loro riuscì ben facile, perché gli altri procedevano con lentezza. Stava l'infelice tra le braccia de' suoi domestici, i quali egli pregava con istanca e fiacca voce a lasciarlo ivi morire, che non poteva passar oltre per lo spasimo delle ferite. Si slanciarono da cavallo Claudia e Rocco, e si appressarono a lui. I domestici spaventaronsi della presenza di Rocco, e Claudia turbossi tutta in vedere quella di don Vincenzo. Intenerita e sdegnosa ad un tempo, gli si avvicinò, gli prese le mani e gli disse: — Se tu mi avessi date queste mani conformemente ai nostri patti, non saresti adesso a sì terribile frangente.” Il ferito cavaliere aprì gli occhi socchiusi, riconobbe Claudia, e rispose: — Conosco bene, donna ingannata, che tu sei quella che mi ha ucciso, dando pena indegna e non dovuta a quella fede a cui non ho mancato, non avendoti giammai recato offesa. — Come? non è dunque vero, disse Claudia, che tu andavi in questo giorno a farti sposo alla ricca Eleonora, figlia di Balbastro? — No certo, rispose don Vincenzo, ma l'avversa mia sorte ti portò queste false nuove, perché nell'eccesso di tua gelosia tu avessi a privarmi della vita, della vita che tengo ancora per venturosa, se termina nelle tue mani e fra le tue braccia. E credimi, o Claudia, e in pegno di mia fede porgimi le tue mani e accettami se vuoi per tuo sposo, che non ho ora altri mezzi per dimostrarti la mia costanza.” Gli strinse Claudia la mano e se le serrò allora il cuore in maniera che svenuta cadde sul petto esangue di Vincenzo; il quale fu sul punto stesso assalito da mortale parossismo. Stava Rocco confuso e non sapeva a che partito appigliarsi. I domestici spruzzavano d'acqua il volto di Claudia; essa si riebbe dal perdimento dei sensi, ma non fu così di Vincenzo, che passò dal parossismo alla morte.

Vedendo Claudia ch'era troncato il filo della vita del suo amato sposo, ruppe l'aria coi suoi gemiti, ferì i cieli colle sue stride, si strappò e sparse al vento i capelli, si graffiò il viso e lasciò libero campo al dolore e alla disperazione. — Ah! me crudele e sconsiderata, diceva, con quanta facilità mi lasciai trasportare a sì reo divisamento! ah, arrabbiata forza di gelosia, a che sciagurato fine strascini chi ti dà ricetto in suo cuore! ah sposo mio, quando stavi per essere la mia gioia, fatalmente passasti dal talamo al sepolcro!” Tali e tanto dolenti erano le querele di Claudia che strapparono lagrime dagli occhi di Rocco, non accostumato a mandarne fuori in alcuna occasione. Piagnevano i domestici, Claudia ad ogni tratto ricadeva, e tutta quella campagna era divenuta l'asilo della tristezza e l'albergo della sventura. Finalmente Rocco ordinò ai servi di Vincenzo che portassero l'estinto al paese del suo genitore, ch'era poco discosto, e che ivi gli dessero sepoltura. — Disse Claudia a Rocco che volata sarebbe a rinserrarsi in un monastero dov'era badessa una sua zia, e dove aveva bisogno di terminare gl'infelici suoi giorni, procurando di rendersi non indegna di uno sposo migliore ed eterno. Lodò Rocco questo proposito, si offerse di accompagnarla dove volesse e di difenderla dal genitore di Vincenzo, dai parenti e da chiunque fosse per recarle offesa; ma Claudia non lo volle a suo compagno, e ringraziandolo il meno che potè, in mezzo ad un mare di pianto si licenziò e partì. I servi di Vincenzo trasportarono via il cadavere, Rocco ritornò ai suoi fidi, e così ebbe fine l'innamoramento di Claudia Geromina: né molto è da stupirne, essendo state le rigorose e invincibili forze della gelosia quelle che condussero la trama di questa compassionevole istoria.

Ritornato Rocco Ghinart nel luogo di prima, trovò i suoi scudieri e don Chisciotte con essi, il quale salito già sul suo Ronzinante, stava eccitandoli ad abbandonare un tenore di vita pericoloso e all'anima e alle persone: ma essendo la più parte gente guascona, zotica e sregolata, non persuadevasi molto dei suoi sermoni. Rocco domandò a Sancio se gli fossero state restituite le masserizie e le gioie che i suoi avevano derubate dal leardo. Rispose che sì, eccettuate tre cuffie che valevano tre città. — Che dici tu, galantuomo? soggiunse uno di quegli scudieri: io le ho qua, e non valgono tre reali. — E così è, disse don Chisciotte: ma il mio scudiere le tiene in sì alto pregio per considerazione della persona onde vengono.” Comandò Rocco sul fatto che fossero a Sancio restituite, e ordinò che i suoi si mettessero tutti in ala, prescrivendo che fossero ivi recati dinanzi a lui i vestiti, le gioie, i danari e tutto quello che dopo l'ultimo assalto avevano rubato. Ne fece brevemente lo scandaglio, restituendo ciò che non si poteva dividere, e riducendo ogni cosa a danari, la scompartì fra i compagni suoi con tanta prudenza ed equità, che non mancò di un puntino, né defraudò la giustizia distributiva. Fatto questo, con che restò contento ciascuno e soddisfatto e pagato, disse Rocco a don Chisciotte: — Se non si usasse con questa gente scrupolosa esattezza, non potrebbesi vivere con esso loro.” Sancio soggiunse: — Secondo quello che ho visto adesso si trova tanto buona la giustizia, ch'è necessario che si usi anche tra gli stessi ladroni.” Uno scudiere lo intese, e gli appuntò un archibuso, con cui lo avrebbe senza dubbio spacciato, se Rocco Ghinart non gli avesse gridato che si fermasse. S'impaurì Sancio, e seco stesso propose di non muovere più bocca in tutto il tempo che fosse restato tra quella canaglia.

Sopraggiunsero in questo alcuni di quegli scudieri ch'erano collocati come sentinelle ai vari posti delle strade a spiare la gente che per esse passava, e dare avviso al loro capo di quanto occorrere potesse; ed uno di costoro disse: — Signore, non lungi di qua e per la strada che va a Barcellona, si avanza una gran truppa.” Cui Rocco rispose: — Hai tu visto bene se sia di gente che ci venga a cercare, o di quella che cerchiamo noi? — È di quella che noi cerchiamo, ripigliò lo scudiere. — Ebbene, uscite tutti, replicò Rocco, e menatemi qua subito costoro e senzaché pur uno vi scappi.”

Ubbidirono, e rimasti soli don Chisciotte, Sancio e Rocco, stavano a vedere che cosa gli scudieri conducessero; frattanto disse Rocco a don Chisciotte: — Nuovo modo di vivere dee certo sembrare questo nostro al signor don Chisciotte, nuove le avventure, nuovi i successi, e perigliosi tutti: né mi fo maraviglia se così gli apparirà; perché ad onore del vero io confesserò che non avvi tenore di vita più inquieto, né più pauroso del nostro. Mi vi strascinò non so qual desiderio di vendetta, che ha la possa di sconvolgere ogni più riposato cuore; ma io sono di mia natura compassionevole e proclive al ben fare; né fu, come ho detto, se non la voglia di lavare la macchia di un torto sofferto che mi rimosse dalle mie buone inclinazioni, e che mi fa ora perseverare nel presente stato, in onta e in contrapposizione della mia volontà. E siccome un abisso chiama l'altro, e una un'altra colpa, così le vendette si vennero talmente concatenando, che non solo le mie, ma prendo anche le altrui sopra di me. Pure Iddio mi concede, quantunque io viva in mezzo al labirinto delle mie contraddizioni, di non farmi perdere la speranza di uscirne fuori per afferrare un porto di sicurezza.” Restò edificato don Chisciotte nell'udire da Rocco sì lodevoli e sensati concetti: e tanto più che davasi egli a credere che in mezzo al mestiere di rubare, di uccidere, di assassinare non vi potesse esser uomo che ragionasse con buoni principii. Soggiunse dunque: — Signor Rocco, il fondamento della salute consiste nel conoscere l'indole della malattia e nel cercare che l'infermo prenda le medicine ordinate dal medico. L'infermo siete voi, voi conoscete il vostro male, e il Cielo, o Iddio, a meglio dire, ch'è il nostro medico, vi applicherà medicine atte a guarirvi; le quali sogliono risanare a poco a poco, e non repentinamente e per miracolo: e molto più che i falli dei peccatori di talento sono più presso all'emenda di quelli delli sciocchi. Poiché mi avete nei vostri discorsi data a conoscere molta prudenza non altro occorre se non che vi facciate animo e speriate il miglioramento della vostra coscienza; e se voleste abbreviare il cammino e mettervi con facilità su quello della salute, venite meco, ed io vi insegnerò ad essere cavaliere errante, nel cui esercizio tanti travagli si soffrono e tante sventure, che tolte come penitenza dei nostri peccati, in due salti vi porteranno in cielo.”

Rise Rocco del consiglio di don Chisciotte, cui (cambiando discorso) die' conto del tragico avvenimento di Claudia Geronima, di che ne ebbe gran dolore Sancio, al quale erano andate a sangue la bellezza, il brio e la disinvoltura della giovane. Tornarono due cavalieri a cavallo, due pellegrini a piedi e un cocchio con varie donne, le quali erano seguite da sei servitori, parte a piedi e parte a cavallo, con altri due vetturini che menavano i cavalieri. Tutti stavano attorniati dagli scudieri, conservando e vincitori e vinti gran silenzio, e in attenzione di ciò che il gran Rocco Ghinart fosse per dire. Dimandò egli ai cavalieri chi fossero, ov'erano diretti, e che denari seco recassero. Rispose uno di loro: — Signore, noi siamo due capitani d'infanteria spagnuola, abbiamo in Napoli le nostre compagnie, e ci rechiamo ad imbarcarci su quattro galee, che dicono starsene in Barcellona pronte alla vela con ordine di passare in Sicilia; siamo possessori di dugento o trecento scudi, coi quali andiamo, secondoché ci pare, ricchi e contenti, perché le ristrettezze inseparabili d'ordinario dai soldati non permettono loro di possedere tesori.”

Fece Rocco ai pellegrini la dimanda medesima, ed essi risposero che andavano ad imbarcarsi per passare a Roma, e fra tutti e due contar potevano fino a sessanta reali. Volle anche sapere chi fosse nel cocchio e dove venisse e del denaro che si recava; ed uno tra quelli ch'erano a cavallo disse: — La mia signora donna Ghioncar di Chignones, consorte del reggente della vicaria di Napoli, con una figliuoletta, una donzella ed una matrona son quelle che trovansi nel cocchio: e noi siamo sei servitori che le accompagniamo, e seicento scudi sono il totale dei nostri danari. — Dimodoché, soggiunse Rocco, noi abbiamo a nostra disposizione novecento scudi e sessanta reali: sessanta sono i soldati miei, facciasi il conto di ciò che ne tocca per testa, giacché io per me sono cattivo aritmetico.” Ciò udendosi dagli assassini, alzarono la voce, dicendo: — Viva mille anni Rocco Ghinart a dispetto dei malvagi che tentano la sua perdizione.” Se ne mostrano invece afflitti i capitani, si rattristò la signora reggente, e non meno rimasero mortificati i pellegrini, vedendosi confiscato ogni loro piccolo avere. Li tenne Rocco per buona pezza a tal modo sospesi: ma non gli piacque che passasse innanzi tanta tristezza dipinta su tutti quei visi, e voltosi ai capitani, disse: — Le signorie vostre, signori capitani si compiacciano di prestarmi sessanta scudi per atto di cortesia; ed ottanta la signora reggente, ad oggetto di rendere soddisfatta questa squadra che mi accompagna: perché l'abate mangia di quello che canta; e poi potranno proseguire liberamente il loro viaggio senza imbarazzo di sorta, mercé il salvacondotto che io loro darò, per cui incontrando taluna delle squadre che io tengo sparse per questi contorni, non ne abbiano danno; ché non è mia intenzione di far torto ai soldati, né a donna alcuna, soprattutto a quelle di condizione distinta.” Infiniti e vivamente espressi furono i concetti dai capitani impiegati a fine di rendere grazie a Rocco per la sua cortesia e liberalità: che tale chiamarono l'aver loro lasciati i danari. La signora donna Ghioncar di Chignones voleva gittarsi dal cocchio per baciare le mani e i piedi al gran Rocco; ma non vi acconsentì egli a verun patto, ed anzi le chiese perdono del dispiacere che le aveva fatto, scusandosi con dire che a ciò lo sforzava il suo sciagurato mestiere. Ordinò la signora reggente ad un suo servidore che gli desse incontanente gli ottanta scudi di sua parte; e già avevano i capitani sborsati i sessanta. Andavano i pellegrini a rassegnare tutto il loro miserabile avere, ma Rocco disse loro che se ne stessero fermi, e voltosi ad un compagno, soggiunse: — Di questi scudi ne toccano due a ciascuno, e ne avanzano venti: dieci si diano a questi pellegrini, e dieci a questo buon scudiere, affinché possa dir bene di quest'avventura.” Cavato poi di saccoccia quanto occorreva per iscrivere, Rocco diede loro in pergamena un salvocondotto per i capi delle sue squadre. Licenziatosi da tutta questa gente la lasciò andare libera e attonita della nobiltà del suo operare, della sua bella disposizione e della sua strana liberalità, riputandolo più un Alessandro Magno che un ladrone. Disse uno degli scudieri in sua lingua guascona o catalana: — Questo nostro capitano sarebbe meglio frate che bandito: ma se da ora in avanti vuol fare l'uomo liberale, lo faccia col suo, e non già col nostro.” Non parlò quello sventurato sì piano che Rocco non lo avesse inteso, e cacciata fuori la spada, gli spaccò la testa quasi in due parti, dicendo: — Punisco in tal modo i linguacciuti ed i temerari.”

N'ebbero gli altri spavento, e nessuno osò aggiungere parola: sì grande era l'ubbidienza che gli portavano.

Si appartò Rocco, e scrisse una lettera ad un suo amico di Barcellona, partecipandogli che aveva seco il famoso don Chisciotte della Mancia, quel cavaliere errante di cui tante cose erano sparse, e facendogli sapere che era il più grazioso ed assennato uomo del mondo, e che dopo quattro giorni, ricorrendo la solennità di san Giovanni Battista, glielo condurrebbe in mezzo alla piazza della città, armato di tutto punto, sopra il cavallo detto Ronzinante, con Sancio scudiere montato sopra il suo asino: che di ciò desse contezza ai Niarri suoi amici, affinché ne pigliassero diletto, non volendo che ne godessero punto i Cadegli suoi avversari, quantunque conoscesse essere impossibile quasi l'ottenere questo, perché le pazzie e discrezioni di don Chisciotte e le graziosità del suo scudiere Sancio Pancia non avrebbero potuto fare a meno di non divertire il mondo intero. Mandò queste lettere per uno de' suoi scudieri, il quale cambiando l'abito di bandito in quello di contadino, entrò in Barcellona, e le ricapitò a chi erano dirette.

CAPITOLO LX

 

DI CIÒ CHE AVVENNE A DON CHISCIOTTE ENTRANDO A BARCELLONA,

CON ALTRE COSE CHE HANNO PIÙ DEL VERO CHE DEL SAVIO.

 

Don Chisciotte si trattenne con Rocco tre giorni e tre notti: e avrebbe dato di che osservare ed ammirare nel tenore del suo vivere se dimorato fosse con lui trecento anni. Trovavansi di bel mattino in un luogo, e all'ora del desinare in altro; talvolta fuggivano senza sapere da chi, o aspettavano tal'altro senza sapere chi. Dormivano sempre ritti, interrompendo il sonno per cambiarsi da un luogo all'altro, ed occupandosi di continuo nel metter spie, nel tenere sentinelle in ascolto, nel soffiare nelle micce degli archibusi, sebbene ne avessero pochi, perché per lo più si servivano di pistoletti. Rocco passava la notte appartato da' suoi ed in luoghi a tutti gli altri ignoti, mentre i molti bandi pubblicati dal viceré di Barcellona contro la sua vita lo rendevano timoroso ed inquieto a segno di non fidarsi di chicchessia, e temeva sempre che i suoi stessi compagni o gli togliessero la vita, o lo dessero in potere della giustizia: vita veramente miserabile ed affannosa! In fine, per istrade inusitate, per tragitti e sentieri coperti partirono Rocco, don Chisciotte e Sancio con sei scudieri alla volta di Barcellona, e pervennero nel suo circuito la notte della vigilia di san Giovanni Battista. Rocco, abbracciati don Chisciotte e Sancio, a cui consegnò i dieci scudi, prima promessi, ma sino allora non isborsati, li lasciò con mille offerte che gli vennero dagli altri due ricambiate, poi tornò addietro e, don Chisciotte, a cavallo come stava, si fece ad attendere il giorno. Non tardò molto a scoprire la faccia dai balconi dell'Oriente la bianca Aurora, l'erbe rallegrando ed i fiori, in vece di rallegrare gli orecchi; ma gioirono ben presto anche questi del suono dei molti pifferi, dello strepito dei tamburi, del rumore dei sonagli e d'un frastuono di voci che gridavano: “Fuora, fuora, scappa, scappa:” ed erano voci di corrieri provenienti dalla città. L'aurora diede tempo al sole che con la faccia poco più grande di una rotella andasse a poco a poco sorgendo dal più basso orizzonte, e don Chisciotte e Sancio volsero lo sguardo per ogni dove, e videro il mare fino a quel punto da essi non mai veduto, e sembrò loro spaziosissimo e lungo assai più delle lagune di Ruidera che conoscevano nella Mancia. Si presentarono ai loro sguardi le galere che trovavansi sulla rada, le quali abbassando le tende lasciavano apparire e banderuole e stendardi che tremolavano all'aria e baciavano e rompevano l'acqua; e dal di dentro di esse usciva il suono dei clarinetti, dei pifferi e delle trombe, che da vicino e da lungi risuonavano di accenti soavi e bellicosi. Cominciavano le galere a muoversi ed a fare una specie di scaramuccia per le placide acque, godendo al punto medesimo di una tal quale corrispondenza per mezzo degl'infiniti cavalieri che sopra pomposi cavalli e con isfarzo grande di livree uscivano dalla città. I soldati delle galere sparavano infiniti pezzi di artiglieria, e vi rispondevano quelli che stavan sulle muraglie e sui forti; e l'artiglieria grossa rompeva l'aere con ispaventevole fracasso, facendo tuonare nelle galere i cannoni di corsia. Il mare allegro, gioconda la terra, sereno il cielo e reso torbido unicamente dal fumo delle artiglierie, sembrava che tutto ciò infondesse un subito indicibile piacere in ogni ordine di persone. Sancio, sbalordito di tutto, non sapeva spezialmente immaginare come mai potessero avere tanti piedi quei massi che pel mare si movevano.

In tanto quelli delle livree correndo con grida moresche e barbariche, giunsero là dove trovavasi don Chisciotte tutto attonito: ed uno, ch'era stato prevenuto da Rocco Ghinart, disse a don Chisciotte con alta voce:

— Sia il ben venuto alla città nostra lo specchio, il fanale, la stella, la tramontana e la guida di tutta l'errante cavalleria che si trova al mondo: ben venuto sia, lo ripeto, il valoroso don Chisciotte della Mancia; non già il falso, il fittizio, l'apocrifo che in questi giorni da adulterate istorie ci venne mostrato, ma il veridico, il legittimo, il fedele che ci ha descritto Cide Hamete Ben-Engeli, fiore dei veri storici.”

Non rispose parola don Chisciotte, né i cavalieri aspettarono che la dicesse, ma volgendo il cammino e confondendosi cogli altri che li seguivano, cominciarono a far giravolte intorno a don Chisciotte, il quale allora, guardando Sancio, disse:

— Noi siamo stati conosciuti intimamente da cotestoro, e giuocherei quanto ho al mondo che hanno letto la nostra istoria e quella ancora dell'Aragonese poco fa stampata.”

Ritornò di nuovo il cavaliere che parlato avea a don Chisciotte, e si fece a dirgli:

“Venga con noi la signoria vostra, signor don Chisciotte, venga in nostra compagnia, che noi siamo suoi servidori, come siamo grandi amici di Rocco Ghinart.”

Don Chisciotte rispose:

— Se cortesia nasce da cortesia, la vostra signor cavaliere, è figlia o parente molto stretta di quella del gran Rocco: guidatemi dove meglio vi torna, che io mi uniformerò al voler vostro e con maggiore soddisfazione ancora se m'impiegherete a servirvi.”

Con espressioni non meno di queste obbliganti rispose il cavaliere, e serrandolo tutti nel mezzo, al suono dei pifferi ed allo strepito dei tamburi, si avviarono verso la città. All'entrarvi, i ragazzi, che sono più cattivi della stessa cattiveria, fecero che due di loro, arditelli e rompicolli, senza riguardo alcuno si cacciassero tra la folla, e alzando la coda del leardo e quella di Ronzinante ficcassero, sotto ad ognuna delle bestie, un mazzo di lappole. I poveri animali che sentivano i nuovi sproni, stringevano le code, ma ciò non faceva che accrescere in loro il pizzicore, in maniera che dando mille corvette fecero strammazzare i loro padroni. Don Chisciotte, tutto svergognato e affrontato andò a levare il pennacchio dalla coda della sua rozza, e Sancio l'altro del suo leardo. Volevano i compagni di don Chisciotte gastigare i ragazzi della sfacciataggine loro, ma non fu possibile, poiché si frammischiarono con mille che li seguitavano.

Tornarono alle loro cavalcature don Chisciotte e Sancio, e coll'applauso medesimo e colla musica stessa giunsero alla casa della loro guida; casa grande e maestosa, propria insomma di un ricco cavaliere. In questa casa li lasceremo per adesso, così prescrivendoci Cide Hamete.


CAPITOLO LXI

 

LA VENTURA DELLA TESTA INCANTATA, CON ALTRE BAGATTELLE

CHE NON SI PUÒ FAR A MENO DI NON RACCONTARE.

 

L'ospite di don Chisciotte chiamavasi don Antonio Moreno, ed era cavaliere di affabili modi, ricco, saggio, amante degli onesti passatempi, il quale vedendosi in casa il cavaliere errante, pensò subito a qualche burla innocente per esercitarlo nelle sue pazzie: giacché non sono burle quelle che pungono, né vi ha passatempo che sia permesso se torna a danno altrui. La prima cosa che fece fu disarmare don Chisciotte e farlo vedere in pubblico con quel suo stretto e camozzato vestito (come lo abbiamo già altra volta descritto e dipinto) ad un balcone che corrispondeva sopra una strada delle più frequentate della città, a vista del popolo e dei ragazzi, che stavanlo mirando come fanno delle bertucce. Corsero nuovamente dinanzi a lui quelli dalle livree, come se a sola sua contemplazione e non per rallegrare quel dì festivo se le avessero poste indosso. Sancio era in somma gioia, sembrandogli, senza saperne il come, di trovarsi ancora alle nozze di Camaccio, o nella casa di don Diego di Miranda, o in un castello come era stato quello del duca.

Furono in quel giorno a pranzo con don Antonio alcuni suoi amici, e tutti onoravano e trattavano don Chisciotte come cavaliere errante; della qual cosa egli andava sì gonfio, da non capire in se stesso. Le graziosità di Sancio furono tante, che stavano a bocca aperta ad udirlo i servi tutti di casa e quanti erano a tavola. Don Antonio gli disse: — Qua è stato riferito, Sancio mio buono, che voi siate amicissimo del buon mangiare e delle polpette a segno di metterne in serbatoio pel dì seguente, se ve ne avanzano. — No signore, non è così, disse Sancio, perché io pecco più in pulitezza che in ghiottoneria, e il mio signor don Chisciotte, che è qua presente, sa bene che noi sogliamo passare gli otto giorni insieme contentandoci di una manata di ghiande o di noci: è per altro vero che se qualche volta mi dànno la vacca, io corro per la funicella, e voglio dire che mangio quello che mi viene presentato, e mi servo dei tempi come li trovo: e chiunque siasi che abbia detto che io sono mangione e poco forbito, tenga per certo vossignoria che s'inganna di grosso e direi ciò in altro modo se non avessi rispetto alle barbe onorate che sono a questa vostra tavola. — È fuori di dubbio, soggiunse don Chisciotte, che la parsimonia e la nettezza con cui Sancio mangia si possono scrivere e incidere anche in lamine di bronzo, affinché restino memorabili eternamente nei secoli avvenire; è però vero che quando ha fame par alquanto divoratore, perché mangia con furia e macina a due ganasce; ma la pulitezza resta sempre, e quando fu governatore apprese a cibarsi tanto alla schizzinosa, che usava della forchetta mangiando anche i granelli dell'uva o quelli delle melagrane. — Come? disse don Antonio: Sancio fu governatore? — Appunto, rispose Sancio, di un'isola, chiamata la Barattaria, e la ho governata per dieci giorni nel modo che si poteva meglio desiderare, a costo per altro della mia quiete: ho imparato in quell'occasione ad avere in disprezzo tutti i governi del mondo; sono scappato via dall'isola, e poi sono caduto giù in una grotta dove mi tenni per morto, ma mi è riuscito di uscirne fuori per miracolo.” Si fece don Chisciotte a raccontare minutamente il successo del governo di Sancio; il che recò sommo piacere agli ascoltanti. Sparecchiate le tavole, don Antonio prese don Chisciotte per la mano, ed entrò con lui in una camera appartata, dove non era altro ornamento fuorché un tavolino che pareva di diaspro, coi piedi della stessa pietra, e in cui sopra base simile a quella che suole sostenere le teste degl'imperatori romani dal busto in su, stava collocata una testa che pareva di bronzo. Si mise don Antonio a passeggiare con don Chisciotte d'intorno alla camera e a raggirarsi presso alla tavola, e poco dopo disse: — Ora, signor don Chisciotte, che sono certo che nessuno ci ode o ci può sentire, e sta ben chiusa la porta, voglio narrare a vossignoria una delle più rare venture o, meglio dire, novità che immaginare si possano, a condizione però che vossignoria mi giuri che quanto dirò resterà depositato negli ultimi stanzini della segretezza.

— Lo giuro, rispose don Chisciotte, e per maggiore sicurezza vi metterò anche di più una lapide sopra, perché voglio che sappia la signoria vostra, signor don Antonio (già sapeva il suo nome), che adesso ella parla con tale persona che ha bensì orecchie per ascoltare, ma non lingua per favellare: sicché può vossignoria trasfondere nel mio ciò che richiudesi nel suo petto, e far conto di aver seppellito ogni cosa negli ultimi abissi del silenzio. — Sulla fede di questa promessa, rispose don Antonio, voglio che vossignoria resti trasecolato di quanto vedrà che sto facendo per procurar alcun alleviamento alle pene che provo, non avendo a chi versare in seno i miei segreti: che tali non sono da essere comunalmente confidati.” Stava don Chisciotte ansioso di conoscere il successo e il fine di tanti preamboli; e in questo, pigliandogli don Antonio la mano, gliela fece passeggiare per tutta la testa di bronzo e per tutto il tavolino e per lo piè di diaspro, sopra la quale la testa stava, e poi disse: — Questa testa, signor don Chisciotte, venne fabbricata ed eretta da uno dei più grandi incantatori e maliardi che siano stati al mondo, polacco di nazione, per quanto credo, e discepolo del grande Scotto, di cui vanno attorno sì alte maraviglie. Fu costui in casa mia, e pel prezzo di mille scudi che gli ho pagati, la lavorò ed essa tiene la proprietà e la virtù di rispondere ad ogni cosa che le si dimandi all'orecchio. L'artefice notò stelle, dipinse caratteri, osservò astri, guardò punti, e la costrusse in fine con tanta perfezione quanta dimani noi ne conosceremo per esperienza: perché in tutti i venerdì resta mutola ed oggi appunto è venerdì. Frattanto la signoria vostra potrà predisporre le dimande che volesse farle, perché in quanto a me io so già per tante prove che non risponde se non per dire la verità.” Restò maravigliato don Chisciotte della virtù e della proprietà della testa, e fu tentato di non prestar fede a don Antonio; ma considerando che sì breve spazio di tempo correre doveva per fare lo sperimento, null'altro volle soggiungere fuorché ringraziarlo che gli avesse fatto palese sì alto segreto. Uscirono della stanza, don Antonio ne serrò la porta a chiave, e passarono agli altri cavalieri che trovavansi nella sala. Aveva Sancio fatta intanto la narrazione di molte delle venture accadute al suo padrone. Condussero quella sera don Chisciotte a diporto, non armato, ma in abito di città, con palandrano di panno lionato indosso, che in quella stagione avrebbe potuto far sudare lo stesso ghiaccio, ed ordinarono ai servi che intertenessero Sancio in modo da non lasciarlo uscire di casa. Andava don Chisciotte non già sopra Ronzinante, ma sopra un gran mulo di passo piano e molto bene assettato. Gli misero il palandrano, e dietro le spalle, senza che egli se ne avvedesse, cucirono un bullettino in pergamena in cui scrissero a lettere maiuscole: COSTUI È DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA. Cominciato appena il passeggio, ognuno metteva gli occhi e leggeva: Costui è don Chisciotte della Mancia;” e don Chisciotte restava maravigliato nel sentirsi chiamato a nome da tutti quelli che lo guardavano, e nell'essere conosciuto universalmente, ond'è che voltosi a don Antonio gli disse: — Grande si è la prerogativa che in sé racchiude la errante cavalleria, perché rende celebre e famoso chi la professa per ogni parte del mondo. Guardi, signor don Antonio, che fino i ragazzi della città mi riconoscono senz'avermi mai veduto. — Così è per lo appunto, rispose don Antonio, mentre siccome il fuoco non può star rinserrato ed ascoso, per la stessa ragione non può a meno di non essere conosciuta la virtù; e quella che si acquista colla professione delle armi risplende sovra ogni altra e campeggia.”

Accadde che procedendo don Chisciotte col riferito applauso, un Castigliano che lesse il cartello affibbiato alle spalle, alzò la voce dicendo: — Oh, il diavolo ti porti, don Chisciotte della Mancia! com'è possibile che tu sia giunto fin qua senza essere morto per le infinite bastonate che ti fiaccarono le ossa? Tu sei un pazzo, e manco male se lo fossi per te solo e dentro i cancelli della tua propria pazzia, ma tu hai la proprietà di render pazzi e scimuniti quanti trattano e comunicano con te: e se io dica il vero, lo possono attestare i signori che ti accompagnano: torna, torna, mentecatto, a casa tua, bada alle tue faccende, alla moglie ed ai figlioli, e finiscila con queste balordaggini che t'intarlano il cervello, e ti privano fin del senso comune. — Fratello, disse don Antonio, seguitate la vostra strada, né vi affaccendate a porgere consigli a chi non ve li dimanda: il signor don Chisciotte della Mancia è savio quanto basta; e noi altri che lo accompagniamo non siamo bestie: deve essere la virtù onorata ovunque risieda: e andate voi col malanno, né v'impicciate dove non v'è chi vi chiami. — Per mia fé vossignoria ha ragione, rispose il Castigliano; ché il mettersi in testa di ridurre a partito questo povero uomo sarebbe lo stesso che dar calci alle muraglie: ma con tutto questo mi muove a compassione il vedere che il buon ingegno di cui dicono provveduto questo scioccone in ogni altra cosa, gli si scoli pel canale della sua errante cavalleria: il malanno colga me e tutti i miei discendenti se darò più consigli ad alcuno, quand'anche vivessi più anni di Matusalemme.” E detto questo, il consigliere andò pei fatti suoi.

Seguitò il passeggio: ma tanto grande era la folla di ragazzi e di altri, curiosi di leggere il cartello, da rendersi indispensabile che don Antonio glielo levasse via; e ciò fece, fingendo di levarne tutt'altra cosa. Sopraggiunse la sera; se ne ritornarono a casa, e seguì un bel festino di dame: perché la moglie di don Antonio, ch'era signora molta ragguardevole, bella e discreta, pregò altre sue amiche che venissero a far onore al suo ospite ed a gustare delle sue amene e singolari pazzie. Alcune vennero in fatto, e vi ebbero splendidissima cena, a cui tenne dietro una danza cominciata verso le dieci della notte. Tra le donne n'erano due di umore furbesco e burlone: e tuttoché onestissime, si mostrarono sfacciatelle alquanto con lasciar luogo a burle che tenevano rallegrata la società. Ebbero tanta premura nell'impegnare don Chisciotte al ballo, che non solo nel corpo, ma lo macinarono sino nell'anima. Era curiosa cosa a vedere la figura di don Chisciotte, lungo, disteso, magro, giallo, stretto nel vestito, sgraziato, niente affatto lesto, e le damigelle che quasi furtivamente gli stavano dicendo amorosi detti ed egli pure che di nascosto faceva loro mal viso. Udendosi egli caricare d'infinite affettuose espressioni, alzò finalmente la voce, e disse: Fugite partes adversæ, lasciatemi la mia quiete, malvenuti pensieri, e voi altre o signore, desistete da vostri desiderii, perché la regina dei miei, senza pari Dulcinea del Toboso non acconsente che io sia di altre vassallo e schiavo.” Ed in ciò dire si pose a sedere sulla terra in mezzo alla sala, stracco morto a cagion del soverchio ballare. Ordinò don Antonio che lo portassero di peso sul letto, ed il primo che gli mettesse le mani addosso fu Sancio, dicendogli: — Sia maledetta l'ora in cui, signor padrone, vi saltò in testa di mettervi a ballare: pensate voi che tutti i bravi e tutti i cavalieri erranti siano ballerini? Se la pensate così la pensate male assai, perché vi sarà taluno a cui basterà più l'animo di ammazzare un gigante, che di fare una capriola: se si trattasse di sgambettare, io m'ingegnerei forse di supplire al vostro mancamento, perché dimeno anch'io le gambe come un girifalco, ma in materia di ballare non mi ci metto, che non ne so un'acca.” Sancio diede argomento di ridere a quei del festino con queste ed altre tali dicerie, dopo di che mise a letto il padrone, coprendolo bene, affinché sudasse un buon pezzo.

Parve opportuno a don Antonio nel dì seguente di fare la sperienza sopra la testa incantata: e unitamente a don Chisciotte, a Sancio, ai due amici ed alle due signore che lo avevano macinato nel ballo, e ch'eransi trattenute in quella notte con la moglie di don Antonio, passarono nella camera dove stava la testa. Manifestò a tutti la proprietà che aveva, obbligandoli tutti al segreto, e disse che quello era il primo dì in cui se ne doveva far prova. Non vi era alcuno cui fosse palese il segreto dell'incanto, dai due amici di don Antonio all'infuori: e sarebbero pur essi stati colti da meraviglia se non gli avesse don Antonio preventivamente avvertiti: sì raro e ammirabile era il lavoro di quella macchina! il primo che si accostasse all'orecchio fu don Antonio istesso, che con sommessa voce le disse, ma in modo da essere dagli altri inteso: — Dimmi, o testa, per la virtù che in te rinchiudi, a quali oggetti trovasi applicato il mio pensiero presentemente?” La testa senza mover labbra, con distinta e chiara voce, e tale da far sentire agli astanti tutte le sue parole, rispose: — Io non giudico dei pensieri.”

Attoniti rimasero tutti; e tanto più quanto che né per quant'era larga la stanza, né intorno alla tavola eravi persona umana che potesse rispondere. — Quanti siamo in questa camera?” dimandò don Antonio, e gli fu risposto: — Ci sei tu e due tuoi amici, tua moglie, due sue amiche, un famoso cavaliere, chiamato don Chisciotte della Mancia, il suo scudiere che ha nome Sancio Pancia.” Oh qua sì che si accrebbe la maraviglia, e si arricciarono i capelli a tutti per lo spavento. Scostatosi don Antonio dalla testa, disse: — Io non ho più d'uopo di persuadermi che non venni ingannato da colui che mi ti vendé, o testa sapiente, o testa parlatrice, o testa risponditora, o testa ammirabile: un altro vi si accosti, e le chiegga ciò che più gli vada a grado.” E siccome le donne sono d'ordinario frettolose e curiose di sapere, la prima che le si avvicinasse fu una delle due amiche della moglie di don Antonio; ed ecco la sua dimanda: — Dimmi, o testa, e che cosa potrei io fare per diventare molto bella?” Le fu risposto: — Sii molto onesta. — Non ti dimando altro,” disse la signora. Successe a lei la compagna sua, e disse: — Vorrei sapere, o testa, se mio marito mi ami o no.” Le fu risposto: — Guarda come egli comportasi teco e da questo lo conoscerai.” Si scostò la maritata, dicendo: — Questa risposta non aveva bisogno di domanda, perché in effetto le opere che si fanno spiegano dichiaratamente le intenzioni di chi le fa.”

Poscia le andò appresso uno dei due amici di don Antonio, e le chiese: — Chi sono io? — Tu lo sai, gli fu risposto. — Non ti dimando questo, replicò il cavaliere, ma se tu mi conosci. — Ti conosco, rispose, tu sei don Pietro Noriz. — Non voglio saper altro, e questo basta per persuadermi, o testa, che tu sai ogni cosa.” Allontanatosi costui, si appressò l'altro amico e così interrogò: — Dimmi, testa, che desiderii ha il mio figlio maggiore? — Ho già detto, rispose, che non giudico dei pensieri: ciò non ostante so dirti che quelli del tuo figliuolo sono di vederti sotterra. — E così è per lo appunto, disse il cavaliere, mentre ciò che veggo cogli occhi tocco colle mani, e di più non dimando.” Si avvicinò la moglie di don Antonio e disse: — Testa, non so quale dimanda farti: vorrei soltanto da te sapere se godrò per lunghi anni la compagnia del mio buon marito. — La godrai, rispose, da che gli promettono molti anni di vita la salute e la sua moderazione del vivere; ché la vita suole essere accorciata dalla intemperanza.” Si accostò finalmente don Chisciotte e disse: — Dimmi, o testa, o tu che rispondi; fu verità o sogno quanto mi è accaduto nella grotta di Montèsino? Saranno indispensabili le frustate di Sancio mio scudiere? Avrà compimento il disincanto di Dulcinea? — Quanto alla grotta, rispose, c'è da dire assai, poiché vi è un po' di tutto; le frustate di Sancio procederanno troppo adagio; il disincanto di Dulcinea avrà la sua esecuzione. — Non voglio sapere di più, disse don Chisciotte, ché pur ch'io vegga Dulcinea tolta d'incanto, farò conto che mi sieno come arrivate in un fiato quante venture potessi mai desiderare.” L'ultimo a dimandare fu Sancio, e ciò che chiese fu questo — Per fortuna avrò io, o testa, un altro governo? Avrà fine questa meschinità di vita da scudiere? Tornerò a vedere Teresa mia moglie e i miei figliuoli?” Rispose: — Avrai il governo della tua casa: se tralascerai di servire non sarai più scudiere: e se ritornerai, rivedrai la moglie e i figliuoli. — E non sai rispondere meglio di così? disse Sancio: queste cose sapeva dirmele anche il profeta Perugrulio. — Bestia, disse don Chisciotte allora: e che cosa volevi tu che ti rispondesse? Non basta egli che le risposte della testa corrispondano alle dimande? — Sì, sì, basta, disse Sancio: ma pure io avrei voluto che si fosse spiegata più per disteso, e mi avesse detto cose di più buon senso.”

Le dimande e le risposte con ciò ebbero fine; ma non ebbe fine lo stupore di tutti, ad eccezione dei due amici di don Antonio dai quali sapevasi bene come passava la faccenda. Volle Cide Hamete Ben-Engeli fare una dichiarazione a questo passo per non tenere dubbioso il mondo che alcun maliardo o qualche straordinario mistero nella testa si rinchiudesse; e scrisse che don Antonio Moreno, ad imitazione di altra testa da lui veduta in Madrid e fabbricata da uno stuccatore, avevasi costrutta questa in casa sua ad oggetto di darsi spasso alle spalle degl'ignoranti; ed il meccanismo era a questo modo: la tavola della mensa era di legno dipinta e inverniciata come diaspro, ed il piè che la sosteneva era della materia istessa, con quattro artigli di aquila che dal piede uscivano per più saldo sostegno del peso sovrapposto. La testa, che aveva forma di medaglia e figura d'imperadore romano, e colore di bronzo, era tutta vôta, e lo era pure la tavola della mensa sì esattamente unita che non appariva segno di commessura: vuoto egualmente era il piè della tavola che rispondeva alla gola ed al petto della testa, e ogni cosa aveva corrispondenza in altra camera sottoposta a quella dove stava collocata. Un cannone di latta, perfettamente lavorato e invisibile ad ognuno, stendevasi per tutto l'anzidetto vôto di piede, mensa, gola, petto della medaglia e figura descritta, e nella stanza sottoposta situavasi quello che doveva rispondere colla bocca avvicinata allo stesso cannone, di guisa che a maniera di cerbottana andava su e giù la voce in parole articolate e chiare, ed in questo modo non era possibile che si potesse discoprire l'inganno. Un nipote di don Antonio, studente, discreto ed acuto, era il rispondente; il quale informato dal suo zio intorno a quelli ch'entrare dovevano con lui nella camera dalla testa, poteva senza difficoltà rispondere presto e bene alle prime dimande; alle successive poi replicava per conghietture e con avvedutezza da saggio. Dice di più Cide Hamete Ben-Engeli che durò intorno a dieci o dodici giorni questa macchina maravigliosa, ma divulgatosi per la città che don Antonio teneva in casa sua una testa incantata, la quale rispondeva alle dimande di ogni persona, temette che ciò non giungesse agli orecchi delle vigilanti sentinelle di nostra fede; però avendo dichiarato il caso ai signori dell'inquisizione, comandarono tosto che si disfacesse, né passasse oltre la cosa, affinché non s'ingenerasse scandalo nel volgo ignorante. Nella opinione però di don Chisciotte e di Sancio rimase la testa per incantata e per risponditrice, con soddisfazione di don Chisciotte più che di Sancio Pancia.

I cavalieri della città, per compiacere don Antonio, per fare cosa gradita a don Chisciotte e per dargli largo campo di rendere solenni le sue pazzie, disposero la corsa dell'anello di là a sei giorni, ma non ebbe effetto per la ragione seguente dallo storico dichiarata. Venne voglia a don Chisciotte di andare a spasso per la città a piedi, temendo la persecuzione dei ragazzi se fosse uscito ancora a cavallo; ond'è ch'egli e Sancio con due servidori, che don Antonio diede loro per compagnia, uscirono al passeggio. Ora accadde, che camminando don Chisciotte per una strada, alzò gli occhi, e vide scritto sopra una porta a lettere cubitali: QUI SI STAMPANO LIBRI. Ciò gli piacque fuor di modo, perché sino allora non aveva veduto mai stamperie e desiderava sapere come fossero costrutte. Entrò dentro coi compagni, e vide tirare da una parte, correggere dall'altra, quivi comporre, emendare di là, e infine tutte quelle macchine che nelle grandi stamperie si ritrovano. Accostossi don Chisciotte ad una cassetta, e domandò che cosa si facesse ivi. I lavoranti rispondevano, egli ascoltava con maravigliosa attenzione, e passava avanti. Avvicinatosi ad altra cassetta, dimandò ad uno in che lavorasse; e quegli rispose: — Signore, il cavaliere che qua vedete (indicandogli un uomo di bello e grave aspetto) ha tradotto un libro italiano nella nostra lingua castigliana, ed io lo sto componendo perché sia stampato. — Che titolo ha?” dimandò don Chisciotte. L'autore allora soggiunse; — Signore, il libro in italiano si chiama Le bagattelle, ch'è come se in castigliano dicessimo Los Juguetes: e quantunque sia libro umile nel suo titolo, rinserra in sé molte cose ottime ed importanti. — Conosco, disse don Chisciotte, un cotal poco la lingua italiana, e mi pregio di cantare qualche stanza dell'Ariosto: ma signor mio, voglia favorirmi di dirmi (e non pensi che la mia dimanda sia diretta a scandagliare il suo ingegno) per mera mia curiosità; ha ella trovato mai che nel suo originale si nomini pignatta? Spesse volte, rispose l'autore. — E come, disse don Chisciotte, traduce ella in castigliano questo vocabolo? — Come vuol ella, rispose l'autore, che io lo traduca, se non dicendo holla? Poffar Bacco! soggiunse don Chisciotte, vossignoria è molto infarinato nella lingua italiana! Scommetterei che dove in italiano è detto piace, vossignoria traduce plaze in castigliano; e dove dice più ella traduce mas, e il su lo dichiara coll'arriba e il giù coll'abbascio. Appunto così, rispose, perché queste sono le proprie voci corrispondenti — Va benissimo, disse don Chisciotte, ma giurerei che vossignoria non è ben rimeritato dal mondo, nemico sempre di premiare i fioriti ingegni e le fatiche più commendevoli. Oh quanti uomini di vaglia che vivono nell'oscurità! quante virtù dispregiate e vilipese! Contuttociò a me pare che il tradurre da una in altra lingua, purché non intendasi delle regine delle lingue, la greca e la latina, egli è come un guardar al rovescio i tappeti di Fiandra, dove, sebbene si distinguano le figure, sono però sempre piene di fila che le imbrattano, e non si scorgono così appariscenti come nel loro diritto. Il tradurre da una lingua facile e molto somigliante non è né indizio d'ingegno, né occasione da far mostra di stile: ed è in tutto come colui che copia una scrittura trasportandola in altro foglio: ma non per questo voglio inferire che lodevole non sia l'esercizio del tradurre, mentre in più basse cose potrebbe l'uomo impiegarsi e di assai minore profitto; vanno però eccettuati dal novero dei volgari traduttori due scrittori nostri, l'uno il dottore Cristoforo di Figheroa nel suo Pastor Fido e l'altro don Giovanni di Sciaureghi nell'Aminta, dove può ognuno restare in dubbio quale sia la traduzione e quale l'originale. Ma vossignoria mi dica: si stampa questo libro a sue spese o ne ha venduto il privilegio al libraio?

— Si stampa per conto mio, rispose l'autore, e spero di guadagnare mille ducati per lo meno con questa prima impressione, che debb'essere di duemila esemplari, e si hanno a smerciare a sei reali per uno a bocca baciata.

— Ben si conosce che vossignoria, disse don Chisciotte, è poco pratico in materia di stampe e che non sa gli aggiramenti e gl'imbrogli degli stampatori, e le loro misteriose corrispondenze: le do parola che quando vossignoria si troverà carico di duemila esemplari de' suoi libri, si troverà col corpo sì pesto da pigliarne spavento; e tanto più se il libro non venisse molto bene accolto o non fosse abbastanza mordace. — Ma, soggiunse l'autore, che cosa potrei fare? Dovrei cederlo al libraio, che mi darebbe tre maravedis pel mio privilegio, e pur crederebbe di farmi un regalo nel darmeli? Io non consegno alle stampe i miei libri per acquistarmi celebrità nel mondo, essendo io abbastanza conosciuto per le mie opere: voglio farne guadagno, perché senza questo non vale un quattrino la fama. — Dio gliela mandi buona,” rispose don Chisciotte: e passò innanzi ad altra cassetta, dove vide che stavano correggendo il foglio di un libro intitolato Luce dell'anima, e disse: — Questa sorta di libri, tuttoché ne abbiamo molti dello stesso genere, sono quelli che si debbono stampare, perché troppo grande è il numero oggidì de' malvagi, e sono necessarie infinite luci per tanti ciechi.”

Tirò innanzi, e vide che occupavansi nel correggere altra opera, il cui titolo era: La seconda Parte dell'ingegnoso cittadino don Chisciotte della Mancia, composta da un tale nativo di Tordesiglias.

— Questo libro è a mia cognizione, disse don Chisciotte, e posso assicurare in mia coscienza che io lo tenevo già per dato alle fiamme, in castigo delle sue impertinenze; ma verrà il suo sammartino come ad ogni porco, che le istorie fantastiche tanto hanno di buono e di dilettevole quanto si accostano alla verità o la rassomigliano; e le vere tanto sono migliori quanto più sono vere.”

Detto questo, uscì dalla stamperia mostrandosi di animo alquanto alterato.

Nello stesso giorno don Antonio dispose ch'egli fosse condotto ad osservare le galere che si trovavano sulla rada, del che Sancio si rallegrò molto, non avendone egli veduto mai in vita sua. Il capo delle galere era stato già avvisato da don Antonio che in quel giorno avrebbe avuto una visita del famoso don Chisciotte della Mancia, di cui non solo egli stesso, il capo, ma tutti gli abitatori della città avevano perfetta notizia e quello che nelle galere successe, si leggerà nel capitolo seguente.


CAPITOLO LXII

 

DEL MALE CHE OCCASIONÒ A SANCIO LA VISITA DELLE GALERE,
E DELLA NUOVA VENTURA DELLA BELLA MORESCA.

 

Don Chisciotte faceva congetture continue intorno alle risposte della testa incantata, senza però che alcuna riuscisse mai a scoprirne l'artifizio, od a sospettare d'inganno, ma andavano tutte a finire nelle promesse ch'egli teneva per indubitate, del disincanto di Dulcinea. Non aggiravasi il suo pensiero che sopra tal punto, e gioiva seco medesimo nella speranza di vedere adempiuti i suoi voti. Sancio, benché abborrisse la sola idea di tornare ad essere governatore, come si è detto, avrebbe tuttavia voluto ritornare al piacere di comandare e di vedersi ubbidito: che questa è la mala conseguenza del dominio, per quanto sia di poca considerazione e da burla. Finalmente e don Chisciotte e Sancio e l'ospite don Antonio Moreno e i due amici si recarono in quella sera a vedere le galere, ed il capo della squadra li attendeva, ansioso di poter conoscere i due famosi uomini don Chisciotte e Sancio. Appena arrivarono alla marina, le galere tutte fecero tenda, suonarono i pifferi, e gettarono in acqua lo schifo, coperto di ricchi tappeti e di cuscini di velluto chermisino. All'istante che don Chisciotte vi mise il piede, la capitana sparò il cannone di corsia, e le altre galere fecero lo stesso; e al salire egli per la scala esterna venne salutato dalla ciurma tutta come si usa quando persona di grande affare entra nelle galere, dicendo: hu, hu, hu, per tre volte. Gli porse la mano il generale, che così il chiameremo, il quale era un nobilissimo cavaliere valenzano, che abbracciando don Chisciotte, gli disse:

— Io segnerò questo giorno con bianca pietra, essendo uno dei migliori che io possa contare in vita mia, poiché mi è toccato in sorte di vedere il signor don Chisciotte della Mancia, il quale in sé rinserra e tiene compreso tutto il valore dell'errante cavalleria.”

Gli rispose don Chisciotte con altre non meno gentili espressioni, lieto soprammodo nel vedersi trattare sì alla signorile. Tutti entrarono alla poppa, che stava apparecchiata a festa e sedettero sulle balestriere. Il comite passò alla corsia, e diede segno col fischio che la ciurma facesse fuor camiciola, ciò che eseguì in un baleno. Sancio, che osservò tanta gente ignuda, restò trasecolato, e molto più quando vide far tenda con grande velocità, sicché a lui parve che ogni cosa fosse quivi opera di diavoli: ma tutto finora fu bagattelle a paragone di quelle che sono per riferire. Stava Sancio seduto presso lo stentaruolo, accanto allo spalliere dalla mano dritta; il quale, avvertito di ciò che doveva fare, acchiappò Sancio, e lo gittò come una palla; dopo di che tutta la ciurma ritta in piè e all'erta, cominciò dalla banda dritta ed andò passandolo e rivoltandolo sulle sue braccia di banco in banco, e andava ciò facendo con tanta celerità che il povero Sancio perdette la vista, e si persuase senz'altro che fossero i diavoli che lo gittassero al vento. Non desistettero dal giuoco sino a tanto che non lo ebbero voltato dalla banda sinistra, e poi ripostolo sulla poppa, restò il meschino fracassato ed ansante, mandando fuori il sudore a goccioloni come nocciuole, senza sapere neppur che cosa gli andasse accadendo.

Don Chisciotte che vide volar Sancio senz'ali, dimandò al generale se quelle fossero cerimonie che si usassero colle persone ch'entravano nelle galere per la prima volta; perché quando ciò fosse per avventura, egli, che non aveva intenzione alcuna di farvi la sua professione, non vorrebbe sottostare a simiglianti esercizi: e giurava da cavaliere, che se osato avesse qualcuno accostarsegli per prenderlo e rivoltarlo, gli avrebbe fatto uscir l'anima a calci; e in così dire rizzossi lesto, ed impugnò la sua spada. In questo istante fecero tenda, e lasciarono cadere con grande frastuono l'antenna dall'alto al basso. Parve a Sancio che il cielo uscisse fuori da' suoi cardini e fosse per cadergli in testa, cosiché stavasene accovacciato e gobbo e impaurito. Non era in molto miglior condizione il suo signor don Chisciotte, che mezzo spaventato egli pure, stringeva le spalle ed aveva tutto scolorito il viso. La ciurma alzò l'antenna colla stessa fretta e collo stesso fracasso con cui era stata ammainata, e tutto questo nel silenzio, e come se niuno fra tanta gente avesse avuto voce e fiato. Diede segno il comite che raccogliessero le ancore e saltando in mezzo alla corsia col corvaccio e frusta cominciò a scacciare le mosche dalle spalle della ciurma ed allontanarsi a poco a poco dalla riva.

Quando Sancio vide muoversi tutti in un punto quei piedi coloriti (ché tali avvisò esser i remi), disse fra sé: — Queste sì che sono cose veramente incantate, e non quelle che il mio padrone suol nominare; che han fatto eglino questi disgraziati, poiché li frustano in tal maniera? E come quest'uomo solo che sta qui fischiando può avere sì grande audacia di frustare tanta gente? Ora sì che avrò ragione di dire che questo è un inferno o per lo manco un purgatorio.” Don Chisciotte, vedendo con quanta attenzione stava Sancio osservando quello che si faceva, disse: — Oh, amico Sancio, con quale speditezza e con quanto tuo poco incomodo potresti ora, volendolo, spogliarti ignudo dalla cintola in su, metterti fra questi signori, e dar fine una volta al disincanto di Dulcinea! Quanto poco tu sentiresti la tua miseria confusa colla miseria e la pena di tutta questa ciurmaglia! E tanto più quanto che forse il savio Merlino potrebbe valutare per dieci ognuna delle tue frustate per essere data da buona mano; che già alla fin fine te le dovrai pur affibbiare,” Voleva sapere il generale di che frustate si trattasse o di che disincanto di Dulcinea, quando un marinaro disse: — Monscivi fa segno che nella costa ci sono vascelli da remo per la banda di ponente.”

Ciò udito, saltò il generale nella corsia, e soggiunse — Orsù, figliuoli, facciamo che non ci scappi qualche brigantino di corsari, e questo che la torre ci accenna debb'essere di Algeri.”

Si appressarono all'istante le altre tre galere alla capitana per ricevere gli ordini, e comandò il generale che due di quelle s'innoltrassero in mare, mentr'egli colle altre avrebbe fatto cammino terra terra, perché con queste precauzioni la capitana sarebbe in istato di far il suo ufficio. La ciurma dié mano ai remi, spingendo le galere con tanta furia che pareva che volassero; e quelle che camminarono al mare scopersero a due miglia un brigantino, il quale parve loro di quattordici o quindici banchi all'incirca e così era. Questo vascello, quando si accorse delle galere, si mise alla fuga con disegno e con isperanza di scappare attesa la sua leggerezza: ma il contrario gli avvenne, perché la capitana era uno dei più leggeri vascelli che navigassero in mare, ond'è che andò accostandosegli siffattamente che quelli del brigantino conobbero a tutta evidenza di non potere più sottrarsi colla fuga.

L'arraez avrebbe voluto che, deposti i remi, si fossero tutti arresi per non irritare il capitano che comandava le nostre galere, ma la sorte altramente guidava ogni cosa, e fece avvicinare tanto la capitana che i nemici potevano udire le voci che da essa partivano intimando che si arrendesse. Due Torracchi, ch'è come a dire, due Turchi briachi, i quali stavano sul brigantino, spararono allora alcune archibugiate e uccisero due soldati che maneggiavano le nostre balestriere. Il generale a tal vista giurò di non lasciar vivo uomo di quelli che stavano sul vascello: e fattosi ad investirlo con furia gli riuscì di sottrarsi di sotto alla palamenta. La galera passò innanzi buon tratto, e quelli del vascello, vedendosi allora perduti, fecero vela frattantoché la galera voltava, e di nuovo a vele e a remi tentarono di fuggire: ma infruttuosa riuscì loro ogni diligenza, come inutile era riuscita l'audacia; giacché arrivandoli la capitana, a poco più di mezzo miglio, li gittò sopra la palamenta e li pigliò tutti vivi. In questo sopraggiunsero le altre due galere, e tutte e quattro tornarono colla preda alla spiaggia, dove infinita gente era corsa ad attenderle, desiderosa di vedere quello che si portasse. Il generale diede fondo vicino a terra, ed accorgendosi che stava alla marina il viceré della città, fece calare lo schifo per guidarlo alla galera, e ordinò che si ammainasse l'antenna per appiccare subito l'arraez e gli altri Turchi da lui presi e trovati nel vascello, che in tutti arrivavano al numero di trentasei: gente robusta e per la maggior parte della classe degli archibusieri.

Dimandò il generale quale di loro fosse l'arraez del brigantino, e gli venne risposto in lingua castigliana da uno dei prigionieri (che si scoperse essere rinnegato spagnuolo): — Il giovine che vi vedete dinanzi, o signore, è il nostro arraez,” e accennò uno dei più belli e ben disposti garzoni che umana immaginazione figurare potesse; non arrivava egli, per quanto ne pareva, all'età di venti anni. Gli disse il generale: — Rispondimi, cane malconsigliato, e che ti indusse ad ammazzare i miei soldati, quando vedevi che era per te impossibile la fuga? È egli questo il rispetto che si porta alle capitane? Non sai tu che la temerità non è bravura? Le speranze dubbie possono bensì rendere audaci gli uomini, ma non temerari.” Voleva ripigliare l'arraez, ma non poté per allora il generale udir la risposta, essendo passato in fretta ad accogliere il viceré, che già entrava nella galea seguitato da alcuni suoi servi e da altre persone della città. — È riuscita bene la caccia? signor generale, disse il viceré. — E tanto bene, rispose il generale, che la vedrà vostra eccellenza or ora pendente all'antenna. — Perché questo? — replicò il viceré.

— Perché, rispose il generale, contro ogni legge e in offesa di ogni diritto e costumanza di guerra furono uccisi due dei migliori soldati che fossero su queste galere; ed io ho giurato d'impiccare quanti ne prendessi, e specialmente l'arraez del brigantino.”

In ciò dire accennò il prigioniero, che aveva già legate le mani, e con la fune alla gola stava aspettando la morte. Lo guardò il viceré, e scorgendolo sì bello, sì ben composto e sì rassegnato, che gli serviva per lettera di raccomandazione la sua leggiadria, gli venne voglia di fargli perdonare la morte. Gli dimandò tosto: dimmi, arraez, sei turco tu di nazione, o moro o rinnegato. — Cui rispose il giovine in lingua pura castigliana: — Né sono turco di nazione, né moro, né rinnegato. — Dunque chi sei? replicò il viceré. — Una donna cristiana, rispose il giovane. — Donna e cristiana, in tale abito e in tale cimento? soggiunse il viceré, è cosa più da maravigliarsi che da credersi. — Sospendete, replicò il giovane, l'esecuzione della mia sentenza finché vi dia conto di me, che già non perderete per questo gran tempo a isfogare la vostra vendetta.”

Quale sarebbe stato mai quel cuore di pietra che non si fosse intenerito a questi detti, o che non si fosse almeno invogliato di udire quello che l'infelice ed afflitto garzone voleva narrare? Il generale soggiunse che parlasse pure a sua voglia; ma che non isperasse di trovare perdono della conosciuta sua colpa.

Ottenuta questa licenza, cominciò il giovane a dire: — Nata di genitori moreschi, io appartenni a quella sfortunata più che prudente nazione sulla quale piovve nei giorni nostri un mare di sciagure, e nella corrente dell'infortunio fui raccolta dai miei due zii in Barberia. A nulla mi giovò l'asserire che io ero cristiana, come in effetto lo sono, né già per finzione o per apparenza, ma con vera ed intima credenza; né vollero prestarmi fede gl'incaricati del nostro luttuoso esiglio, né gli zii medesimi, che piuttosto mi giudicarono menzognera e industriosa ad attaccare quei ripieghi che potessero farmi rimanere nel mio paese naturale; di maniera che più colla forza che colla volontà mi strascinarono seco. Ebbi genitori savii e cristiani, succhiai col latte la fede cattolica, fui allevata nei buoni costumi, né colla lingua, né colle usanze diedi mai indizii di essere moresca. A pari passo di queste virtù (che io tengo per tali) crebbe la mia avvenenza, se ne ho alcuna, e tuttoché il mio vivere solitario e circospetto fosse mantenuto con rigore, ciò non tolse che non potesse vedermi un giovane cavaliere, detto don Gaspare Gregorio, primogenito di un signore che aveva la sua abitazione vicina alla mia. Ebbe il giovane occasione di vedermi e di parlarmi, restò acceso di me ed io non meno di lui; e troppo lungo sarebbe l'informarvi di mille eventi; che fatalmente il divietano e il corto tempo ed il terrore del mio spirito, ora che tra la lingua e la gola vedo la terribile fune che mi minaccia. Sappiate almeno che nel mio esilio ebbi don Gregorio a compagno, ch'egli si confuse tra i moreschi usciti dai vostri regni e dei quali conosceva bene la lingua, e che legò amicizia coi due miei zii che seco mi conducevano. Il mio genitore, scoppiato che fu il primo fulmine contro tutti noi era fuggito e passato in regni stranieri a cercare altro asilo, lasciando sotterrate in luogo che io sola conosco, e perle e gemme e argenti ed ori, comandandomi che in nessun modo io toccassi tanti tesori, nemmanco se fossi bandita. Lo ubbidii, e con gli zii ed altri parenti ed amici passammo in Barberia, eleggendo per nostro soggiorno Algeri, che ci parve allora un inferno. Venne a cognizione del re la mia bellezza, ed ebbe sentore di quelle ricchezze alle quali dovetti in parte la mia ventura. Mi chiamò a sé, mi chiese il nome del paese di Spagna che mi aveva veduta nascere, e quali gioie e danari recassi meco. E della patria e delle gioie e dei denari lo resi istrutto, dicendogli che questi erano sotterrati, e che facilmente potevansi ricuperare se io fossi tornata per essi: e tutto questo gli dissi colla speranza che potesse piuttosto accecarlo la sua avarizia che la mia bellezza. Durante il nostro colloquio gli fu riferito che io ero accompagnata da un giovine di belle maniere e di molta avvenenza, né rimasi punto in dubbio che dovesse essere don Gaspare Gregorio, le cui leggiadre forme non avevano pari. Mi turbai tutta considerando il pericolo ch'egli correva fra quella barbara gente. In effetto ordinò il re che gli fosse subito condotto innanzi e chiese a me se io giudicassi veramente sincere le informazioni che gli venivano date. Come se il Cielo stesso mi suggerisse il consiglio, risposi che era appunto così, ma che io doveva confidargli che non era egli altramente uomo, ma donna mia pari, e che lo supplicavo a concedermi che andassi a vestirla de suoi abiti naturali perché potesse far pompa di sua leggiadria e comparirgli dinanzi senza rossore. Ottenni questa permissione, rimettendo ad altro giorno il conferire sul modo da tenersi perché io passassi in Ispagna a dissotterrare il tesoro nascosto. Informai don Gaspare del pericolo che correva restando colle apparenze di uomo, gli posi indosso un vestito da mora, e la sera stessa lo condussi alla presenza del re, il quale restò sorpreso vedendolo, e divisò seco stesso di custodirlo, per poi farne un dono al gran signore. Per evitare ogni pericolo che potesse passare nel serraglio delle sue donne, e non si fidando neppure di se medesimo, volle che andasse a soggiornare in casa di alcune more di grande distinzione perché ottenesse e custodia e assistenza, il che si eseguì senz'altro dire. Il dolore che ambedue provammo (mentre non posso negare che io l'amo) lo immaginino quelli che struggonsi per amore, e che sieno costretti a separarsi. Diede ordine il re che io tornassi in Ispagna su questo brigantino, e che mi accompagnassero due Turchi originari, che furono quelli dai quali furono uccisi i vostri soldati. Si unì meco anche questo rinnegato spagnuolo (accennando colui che aveva parlato il primo), il quale so bene ch'è cristiano celato, e che viene con maggior desiderio di rimanere in Ispagna che tornarsene in Barberia. La ciurma del brigantino è composta di Turchi e di Mori che ad altro non servono se non al remo; e quei due Turchi avari insolenti, disobbedendo agli ordini che avevano di mettermi in terra con questo rinnegato e cogli abiti di cristiani che abbiamo con noi, vollero da prima scorrere tutta la costa per tentare qualche buona preda; e ciò facevano temendo che, postici a terra, non potesse avvenirci qualche accidente pel quale fosse scoperto il loro brigantino, e poi preso con loro.

“Sull'imbrunire del giorno arrivammo su questa spiaggia, e senza esserci accorti delle quattro galere fummo scoperti, e voi sapete pur troppo adesso quale fu la nostra disavventura. Don Gregorio rimase tra le more in abito di donna, con manifesto pericolo di perdersi, ed io sono alla presenza vostra colle mani cinte di funi, aspettando, o per meglio dire, paventando di perdere una vita che peraltro mi è ormai venuta a noia. Ho narrato l'istoria che mi risguarda, quanto vera altrettanto infelice, ed ora quello di cui vi prego si è che mi lasciate morire cristiana, da che come vi ho già detto, io non sono rea di alcuna di quelle cose che si considerano come delitto in quelli di mia nazione.

Tacque, avendo gli occhi pregni di tenere lagrime, le quali vennero accompagnate dal pianto dei circostanti. Il viceré, uomo di animo dolce e compassionevole, senza dir parola si avvicinò e sciolse colle propie sue mani la funicella che stringeva le belle mani della vezzosa mora. Ora è da sapersi che mentre la moresca cristiana stava narrando la sua storia, teneva in lei fissi gli occhi un vecchio pellegrino, che unitamente ad altri era entrato col viceré nella galera, ed appena aveva ella dato fine al suo discorso, che si lanciò al collo di lei, ed abbracciandola e con parole interrotte da mille singhiozzi e sospiri, così disse:

— O Anna Felice, o sventurata figliuola mia, io sono Ricotte tuo padre, che ti cerca per ogni dove, e che senza di te non sa vivere, poiché tu sei l'anima mia.”

Spalancò gli occhi Sancio, presente a questi detti, e alzò la testa che teneva china, pensando ancora alla fatalità de' suoi sbalzi; e osservato bene il pellegrino, lo riconobbe tosto per quel Ricotte stesso in cui si era incontrato nel giorno che lasciato aveva il governo dell'isola. Si scoprì allora che quella era fuori di dubbio la figliuola del pellegrino, la quale, sciolta appena dalle funi volò ad abbracciare suo padre ed a confondere con lui mille lagrime di allegrezza. Ricotte gridò: — Questa, o signori, è mia figliuola, è Anna Felice, più sfortunata nelle vicende che nel suo nome: è Anna Felice, col soprannome di Ricotte, tanto nota per la sua bellezza quanto per le ricchezze mie. Io dovetti uscire di patria per cercare in regni stranieri chi mi albergasse e accogliesse, e dopo domiciliato in Alemagna, tornai in questo regno sotto le spoglie di pellegrino, in compagnia di altri Tedeschi per rintracciar nuove della figlia e per dissotterrare un importante tesoro, da me nascosto. Non trovai la figlia, trovai bene il tesoro che porto meco, ed ora per quello stravagante giro di vicende che avete udito, anche l'altro tesoro che sopra tutti mi fa ricco, ritrovo nella mia dilettissima Anna Felice. Se il nostro poco fallo, se le sue lagrime, se le mie possono aprire le porte della misericordia senza offesa della giustizia, usatela verso di noi che non avemmo mai in pensiero di offendervi, né conveniamo punto nelle intenzioni dei nostri che sono stati da voi esiliati.”

Allora disse Sancio:

— Io conosco molto bene Ricotte ed è verissimo quello che ha detto di Anna Felice, sua figliuola, ma quanto alle altre bagattelle di andare e tornare, di avere buona o cattiva intenzione, io non mi c'intrammetto.”

In mezzo alla maraviglia prodotta in tutti dallo stranissimo caso, così pronunziò il generale:

— Certo, le vostre lagrime, o bella Anna Felice, non mi lasceranno dar retta al mio giuramento: vivete, pietosa giovine, gli anni di vita che vi serba il Cielo, e portino la pena del loro delitto gl'indegni e gli audaci che hanno provocato il mio sdegno.”

Ordinò sul fatto che fossero impiccati all'antenna i due Turchi che ucciso avevano i suoi soldati: ma il viceré disse affettuosamente che non s'impiccassero, perché erano stati piuttosto pazzi che scellerati. Il generale fece quanto il viceré desiderava: perché l'uomo difficilmente persiste a volersi vendicare quando è cessato il bollore dell'ira.

Rivolsero poi ogni cura per trarre don Gaspare Gregorio dal pericolo in cui era rimasto. Ricotte offerì per questo da duemila ducati in perle e gioie che aveva seco. Si tennero varii consigli, ma nessuno fu tanto opportuno quanto quello che diede il rinnegato spagnuolo già ricordato, il quale si offerse di tornare ad Algeri in una piccola barca d'intorno a sei banchi, armata di vogatori cristiani, sapendo egli bene e come e quando poteva e doveva sbarcare, e conoscendo eziandio la casa dove albergava don Gaspare. Dubitavano il generale e il viceré se fosse da prestar fede ad un rinnegato, ed affidare a lui i vogatori cristiani; ma Anna Felice fece sicurtà, e Ricotte suo padre aggiunse che prometteva che avrebbe pagato il riscatto dei cristiani se la mala sorte li avesse condotti a perdersi. Così raccomandata ogni cosa, il viceré sbarcò, don Antonio Moreno menò seco la moresca e suo padre, colle raccomandazioni del viceré perché desse loro favore e li accarezzasse per quanto potesse, ed egli stesso, il buon principe, largheggiò in doni: tanto grande era la benevolenza e la carità che le bellezze di Anna Felice infuso avevano nel petto di lui.

CAPITOLO LXIII

 

DELLA VENTURA CHE DIEDE PIÙ MOLESTIA

A DON CHISCIOTTE DI QUANTE ALTRE GLI ERANO SUCCESSE.

 

La moglie di don Antonio, per quanto ci narra la storia, mostrò gran contentezza in ricevere Anna Felice in casa sua, e quindi l'accolse con infinita cortesia, invaghita di quella bellezza e di quella saggezza delle quali era la moresca fornita a dovizia, di maniera che la gente della città, come a suono di campana, recavasi a vederla. Disse don Chisciotte a don Antonio, che il partito preso per ritornare a don Gregorio la libertà non lo trovava buono, avendo più del pericoloso che del conveniente, e che il meglio sarebbe stato che avessero fatto sbarcare lui stesso in Barberia colle sue armi e col suo Ronzinante, ch'egli tratto ne lo avrebbe a dispetto di tutta la Morea, come fatto aveva don Gaiféro della sposa sua Melisendra.

— Si ricordi la signoria vostra, disse Sancio, udendo questa offerta, che il signor don Gaiféro cavò la sua sposa da terraferma e la portò in Francia per terraferma, ma nel caso presente, riuscendo anche di liberare don Gregorio, non sapremmo come condurlo in Ispagna, essendovi il mare di mezzo.

— A tutto si rimedia dalla morte in fuori, don Chisciotte rispose; mentre giunto che fosse l'imbarco alla marina, noi potremmo entrarvi se anche tutto il mondo ce lo impedisse.

— Vossignoria fa tutto agevole e si dipinge ogni cosa bella e compiuta, replicò Sancio, ma dal detto al fatto corre un gran tratto, ed io mi attengo al consiglio del rinnegato che mi è parso uomo dabbene e di assai buone viscere.”

Disse don Antonio che se male riuscisse al rinnegato il progetto, prenderebbesi allora lo spediente di far passare in Barberia il gran don Chisciotte. Partì il rinnegato, dopo due giorni, in una barca leggera di sei remi per parte, armato di ciurma valentissima, e dopo due altri giorni fecero vela le galere per levante, chiesto essendosi dal generale al viceré che gli piacesse informarlo di ciò che fosse per avvenire intorno alla liberazione di don Gregorio ed al successo di Anna Felice; ed il viceré promise di compiacerlo.

Trovandosi un dì don Chisciotte al passeggio sulla spiaggia, armato di tutto punto (perché, come sempre diceva, erano le armi l'ornamento suo, e suo riposo il combattere, né senz'arme poteva vivere un momento), vide venire alla sua volta un cavaliere per tutto armato, il quale portava dipinta nello scudo una luna risplendente. Fattosi questi da vicino tanto da poter essere inteso, e rivolgendosi a don Chisciotte, disse con sonora voce:

— Insigne cavaliere e non mai abbastanza lodato don Chisciotte della Mancia, io sono il cavaliere dalla Bianca Luna, il cui nome già vi sarà noto per certo a cagione delle sue prodezze inaudite. Vengo a combattere con voi ed a provare il valore del vostro braccio per farvi conoscere e confessare che la mia dama, qualunque ella si sia, è senza paragone più bella di Dulcinea del Toboso; verità che se voi volontariamente confessate, scamperà voi dalla morte e me dal disturbo di darvela. Vengo qui a battermi in disfida, e se vi accingete a pugnare ed io vi vinco, altra soddisfazione non voglio se non che deponendo le armi e tralasciando di andar cercando venture, ve ne ritorniate nel vostro paese per l'intero corso di un anno, dove starete senza toccare la spada in disarmata pace e in utile riposo, come richiedono le cure delle vostre facoltà e la salvezza dell'anima vostra: se poi io resterò da voi vinto, porrò la mia testa alla vostra discrezione e vostro sarà lo spoglio delle mie armi e del destriero, e passerà nella vostra la fama delle mie illustri prodezze; guardate bene quello che vi conviene meglio, e rispondetemi incontanente, da che questo giorno solo mi è assegnato per dar compimento a così importante affare.”

Attonito e sospeso restò don Chisciotte sì dall'arroganza del cavaliere dalla Bianca Luna, come dalla cagione per cui lo sfidava, e con gravità e con arcigno sembiante, rispose:

— O cavaliere dalla Bianca Luna, le cui prodezze non sono giunte peranco a mia cognizione, io giurerei senza esitare che voi non vedeste mai l'illustre mia Dulcinea; che l'avessero i vostri occhi veduta non sareste tanto temerario di proporre la vostra disfida, e la sola sua vista vi trarrebbe d'inganno; poiché non vi è bellezza che possa paragonarsi a quella di Dulcinea. Non vi dirò che mentite, poiché non sapete quello che avete proposto; e dopo ciò alle condizioni da voi intimate accetto il combattimento, e subito, perché non valichi il giorno che solo vi resta; escludo però dai vostri patti quello che passi in me la fama di vostre prodezze, non sapendo io né quali, né quante si sieno, e delle mie mi contento tal quali sono. Ora pigliate pure la parte del campo che meglio vi aggrada, ed io farò lo stesso, e a chi Dio la dà, san Pietro la benedica.”

Erasi già divulgata per la città la venuta del cavaliere dalla Bianca Luna, e il viceré aveva già ricevuto l'avviso ch'egli stava a parlamento con don Chisciotte della Mancia. Giudicando il viceré che fosse questa qualche nuova ventura ordita da don Antonio Moreno o da qualche altro gentiluomo, recossi tosto alla spiaggia unitamente a don Antonio ed a molti cavalieri, e vi giunse appunto all'istante in cui don Chisciotte, volte le redini a Ronzinante, stava per prendere quel campo che gli si rendeva necessario. Vedendoli allora il viceré tutti e due in atto di volersi affrontare, si frappose e domandò loro per qual causa si fossero mossi a sì improvvisa battaglia. Rispose il cavaliere dalla Bianca Luna che trattavasi di precedenza di bellezza, e brevemente disse le cose medesime esposte prima a don Chisciotte, con l'accettazione della disfida, fatta da ambe le parti. Accostossi il viceré a don Antonio e con voce sommessa gli chiese se sapesse egli chi fosse quel cavaliere dalla Bianca Luna, e se si trattasse di qualche burla per togliersi spasso di don Chisciotte. Espose don Antonio che né sapeva chi colui fosse, né se quella disfida si facesse davvero o da giuoco. Questa risposta tenne perplesso il viceré se dovesse lasciar correre o impedire la zuffa; ma persuaso in cuor suo che fosse cosa da scherzo, si appartò dicendo:

— Signori cavalieri, se qua non vi è altro rimedio che confessare o morire, ed il signor don Chisciotte se ne sta nel suo tredici, e vossignoria dalla Bianca Luna, nel suo quattordici, alla buon'ora; si battano e si rompano la testa.”

Il cavaliere dalla Bianca Luna con cortesi e sensate espressioni mostrossi grato alla licenza che dal viceré gli veniva concessa, e don Chisciotte fece lo stesso. Raccomandatosi questi di tutto cuore al Cielo ed alla sua Dulcinea, siccome usava sempre nel principio degli attacchi, tornò a pigliare un po' più del campo, vedendo che altrettanto faceva il suo nemico, e senza suono di tromba o di altro istrumento guerresco, volsero ambedue le briglie ai loro cavalli. Siccome il destriero del cavalier dalla Bianca Luna era assai leggero, così raggiunse don Chisciotte ad oltre due terzi della carriera, e lo incontrò con forza sì prevalente, che senza toccarlo colla lancia (che per quanto poté giudicarsi, tenne a bella posta alzata) fece dare a don Chisciotte ed al suo Ronzinante uno stramazzone sonoro. Gli andò subito dopo sopra, e postagli la lancia contro la visiera, gli disse:

— Siete vinto, cavaliere, ed anche morto, se non confessate le condizioni della nostra pugna.”

Don Chisciotte, pesto, stordito, senza alzarsi la visiera e come se parlasse dal di dentro di una tomba, con voce debole e inferma, rispose:

— Dulcinea del Toboso è la più bella creatura che viva, e io il più sventurato cavaliere che cavalchi la terra: e non è bene che la mia debolezza defraudi la verità: stringi pure, o cavaliere, la lancia, toglimi la vita, da che mi togliesti l'onore.

— Io nol farò per certo, soggiunse quello dalla Bianca Luna: viva, sì, nella integrità sua, viva la fama della bellezza della signora Dulcinea del Toboso; a me basta che il signor don Chisciotte si ritiri per un anno nel suo paese, o sino a tanto che gli sarà da me comandato, a norma dei nostri patti, prima di entrare nuovamente in battaglia.”

Udirono tutto questo il viceré, don Antonio e molti altri ch'erano presenti, e raccolsero ancora la seguente risposta di don Chisciotte:

— Purché non si dimandi cosa che torni in pregiudizio di Dulcinea del Toboso, tutto io accordo da puntuale e leale cavaliere.”

Ascoltata questa confessione, quello dalla Bianca Luna voltò la briglia, e abbassando il capo verso il viceré, rientrò a mezzo galoppo nella città. Ordinò il principe a don Antonio che in ogni maniera tentasse di sapere chi costui fosse. Rizzarono poi don Chisciotte, gli scopersero la faccia, e lo trovarono scolorito e trasudato. Ronzinante non si poteva muovere, per essere stato troppo malconcio, e Sancio troppo sconsolato ed afflitto, non sapeva più né che dire, né che fare.

Vedeva il suo signore abbattuto, vinto, obbligato a non prendere le armi per un anno, e tutto questo sembravagli un sogno o tutta macchina d'incantesimi. Stava considerando che rimaneva oscurata tutta la luce di gloria per tante imprese, disfatte, come si disfa il fumo dal vento, e svanite per conseguenza tutte le sue speranze: temeva infine che Ronzinante non avesse a restare per sempre storpiato, e storpiato o no, restavagli ognora il dubbio se il suo padrone potesse raddirizzarsi dopo quel colpo. Finalmente sopra una seggetta a mano fatta venire dal viceré, portarono don Chisciotte in città, né lo abbandonò il viceré stesso, sempre desideroso di sapere chi fosse quel cavaliere dalla Bianca Luna che aveva ridotto a sì mal partito il cavaliere dalla Trista Figura, il cavaliere dai Leoni, il famosissimo don Chisciotte della Mancia.


CAPITOLO LXIV

 

SI VIENE A SAPERE CHI FOSSE IL CAVALIERE DALLA BIANCA LUNA, LIBERAZIONE DI DON GREGORIO ED ALTRI AVVENIMENTI.

 

Don Antonio Moreno tenne dietro al cavaliere dalla Bianca Luna, e lo seguitarono e perseguitarono molti ragazzi, finché lo videro entrare in un'osteria, nel centro della città. Don Antonio, desideroso assai di conoscerlo, si cacciò pure nell'osteria, ed intanto uno scudiere venne a disarmare l'incognito, che si rinserrò in una stanza a pian terreno. Don Antonio gli si mise d'attorno, che non poteva trovar posa sino a tanto che non arrivasse a saperne il nome. Ora vedendo quello dalla Bianca Luna che l'altro gli stava ostinatamente a lato, gli disse: — Signore, bene mi avviso che voi mi venite appresso per sapere ch'io mi sia: e non essendovi ragione alcuna di farvene un segreto, mentre questo mio servitore mi disarma, ve lo dirò colla più candida verità. Sappiate dunque che io mi chiamo il baccelliere Sansone Carrasco, e che sono dell'istesso paese di don Chisciotte, le cui pazzie e balordaggini muovono a compassione tutti quelli che lo conoscono, e me sopra tutti, persuaso come sono che dipender possa la sua salute dal suo riposo e dallo starsene nel suo paese e a casa sua. Ho studiato il modo di ottenere questo intento, e corrono già tre mesi da che escii alla campagna, fingendomi cavaliere errante, chiamandomi il cavaliere dagli Specchi, con intenzione di combattere seco lui, di vincere senza recargli nocumento, e di mettere per condizione della nostra battaglia che il vinto restasse alla discrezione del vincitore. Divisava allora di chiedergli (poiché lo riteneva già per vinto) che tornasse al suo paese, e che non escisse per un anno intero, nel qual tempo potesse essere medicato: ma la sorte dispose altrimenti, perché egli vinse me, e mi fece stramazzare da cavallo, né il mio proponimento ebbe effetto. Allora egli continuò baldanzoso delle sue follie, ed io tornai a casa vinto, smaccato e pesto per caduta assai pericolosa: ma non per questo venne meno in me il desiderio di tornare in traccia di lui e di abbatterlo come oggidì mi è riuscito e come voi avete veduto. Egli ch'è esattissimo nella osservanza delle leggi cavalleresche, sarà rigido esecutore senza dubbio di quella che gl'imposi in adempimento di sua parola, e questo o signore, è il fatto, senzaché mi resti altro a soggiungere. Ora, io vi prego quanto so e posso che non mi discopriate, né facciate sapere a don Chisciotte ch'io mi sia, affinché il mio disegno ottenga buon effetto e si possa veder tornato in cervello quest'uomo che lo ha ottimo, purché dia bando alle fantasticherie della cavalleria. — Oh, signor mio, disse don Antonio, Dio vi perdoni il discapito che vi proponeste di recare a tutto il mondo col voler far rinsavire il più grazioso pazzo che possa trovarsi. Non vi accorgete, o signore, che il profitto della saviezza di don Chisciotte non sarebbe mai tanto grande quanto il gusto ch'egli dà a tutti co' suoi vaneggiamenti? Io per altro credo che tutta l'accortezza del signor baccelliere non varrà a ridonare la sua ragione ad uomo fuori di cervello: e se non fosse contro la carità, vorrei che non guarisse mai don Chisciotte, perché colla sua sanità non solamente andremmo a perdere le sue facezie, ma quelle ancora di Sancio, suo scudiere, che sono di natura tale che una sola può mettere la gioia nella stessa melanconia; dopo tutto questo io prometto di tacere, né dirò certamente cosa alcuna, e starò a vedere se riesca vero il mio sospetto che non abbiano punto a conseguire il desiderato intento tutte le cure e le diligenze del signor Carrasco.” Rispose questi che l'affare poteva già dirsi bene incamminato, e che ne sperava fortunato successo: ed essendosi don Antonio offerto di fare quanto potesse da lui dipendere, e licenziatisi, fece Sansone legare sopra un mulo l'arme sue, se ne escì dalla città sul cavallo medesimo su cui era entrato in battaglia, e ritornò alla patria senzaché gl'intravvenisse cosa degna d'essere riportata in questa veritiera istoria.

Raccontò don Antonio al viceré quello che Carrasco gli aveva detto, del che egli sentì gran piacere, non senza osservare che per la ritirata di don Chisciotte sarebbe mancato quel diletto che potevano avere tutti quelli ai quali eran note le sue pazzie. Sei giorni se ne stette don Chisciotte a letto, sbigottito, mesto, pensieroso e maltrattato, andando e tornando incessantemente col pensiero sul disgraziato successo della sua disfatta. Andavalo Sancio racconsolandolo, e fra le altre cose le diceva: — Signor mio, alzi la testa e se può si consoli e ringrazi Iddio, che essendogli piaciuto di farla stramazzare, non ne sia escito con qualche costola rotta; e poi ella sa bene che chi la fa l'aspetta, e che non vi è sempre carne secca dove sono gli uncini ai quali appenderla; e facciasi beffe del medico, ché per questa sorte di malattie non ve n'è bisogno, e torniamo a casa nostra, cessando di andar cercando venture per paesi e per luoghi sconosciuti: ché se bene la si consideri, nessuno ha perduto più di me, quantunque vossignoria sia stato peggio trattato. Anch'io dopo avere abbandonato il governo non sono più governatore; e quantunque mi fosse venuta la voglia di diventar conte, neppure questa avrà più effetto se vossignoria non diventa più re e se lascia l'esercizio della sua cavalleria; ed ecco anche le mie speranze convertitesi in fumo. — Di grazia, Sancio, sta cheto, disse don Chisciotte: ché già la mia reclusione e ritiro non ha a durare più di un anno; e compìto questo, tornerò ai miei onorati esercizi, né potrà mancarmi il conquisto di un regno, e quindi di qualche contea da regalarti. — Voglialo il Cielo, disse Sancio, ed il peccato sia sordo; ché sempre ho udito dire ch'è meglio buona speranza che cattivo possedimento.”

Si trattenevano in questi discorsi, quando entrò don Antonio, dicendo con apparenza di somma contentezza: — Buone nuove, signor don Chisciotte, mentre don Gregorio, col rinnegato che andò per lui, è giunto salvo alla spiaggia: ma che dico alla spiaggia? egli si trova in casa del viceré, e lo vedremo qui a momenti.” Si rallegrò don Chisciotte un cotal poco e disse: — In verità, sto per dire che bramato avrei che avvenuto fosse il contrario, mentre ciò mi avrebbe obbligato a passare in Barberia, dove col valore del mio braccio avrei donata la libertà non pure a don Gregorio, ma ben anche a quanti schiavi ivi si trovano. Ma che dico io, miserabile di me! Non sono io il vinto? Il caduto non sono io? Non sono io quello che per un intero anno non potrò più toccare arme? Dunque, e che voglio io promettere? Di che mi vanto ora che dovrò maneggiare la rocca in luogo della spada? — Non si parli di queste cose, disse Sancio: viva la gallina per quanto abbia la pipita, che oggi per te, domani per me: e in questa materia d'incontri e di percosse non è alcuno che ne possa sapere il netto: perché colui che oggi stramazza per terra, può rizzarsi domani, quando non preferisce di starsene a letto; e voglio dire, di lasciarsi sbigottire senza pigliar nuovo animo per nuovi contrasti. Si alzi adesso vossignoria per ricevere don Gregorio, poiché mi pare che tutta la gente stia sottosopra, e debba essere già venuto in questa casa.” Diceva Sancio la verità, perché avendo già don Gregorio ed il rinnegato data notizia al viceré di sua andata e ritorno, desideroso il primo di vedere Anna Felice, erasi recato subito col rinnegato alla casa di don Antonio. Benché don Gregorio quando fu liberato da Algeri portasse ancora gli abiti di donna, li aveva però cambiati in barca con un prigioniero fuggito insieme con lui; ma in qualsivoglia modo fosse venuto, avrebbe fatto conoscere di esser egli persona degna di considerazione e di riguardo non ordinario, essendo bello oltre quanto si potesse mai dire e dell'età tra i diciasette e i diciotto anni. Andarono ad incontrarlo Ricotte e sua figlia; il padre colle lagrime agli occhi e la figliuola col più onesto contegno. Non seguirono abbracciamenti, perché dov'è grande amore non è ostentazione. Si facevano ammirare da tutti gli astanti le due bellezze di don Gregorio e di Anna Felice, l'una appresso all'altra; ed era eloquente il silenzio nei due amanti, e gli occhi erano le lingue che discoprivano i loro lieti e discreti pensieri. Il rinnegato narrò l'industria ed i mezzi usati per far fuggire don Gregorio, e questi dipinse i pericoli e i cimenti nei quali trovossi colle donne fra cui era costretto di passare la vita: e tutto ciò senza lungo discorso, ma alle brevi, e mostrando un discernimento superiore all'età. Finalmente Ricotte pagò e diede larghi compensi tanto al rinnegato, come a quelli che avevano vogato al remo, ed il rinnegato con pienezza di cuore tornò in grembo alla Chiesa, e d'infetto membro si restituì sano colla penitenza e col pentimento. Passati due giorni, trattò il viceré con don Antonio del modo come Anna Felice e suo padre potessero restarsene in Ispagna, sembrandogli non essere inconveniente che dimorata vi fosse una giovine tanto cristiana ed un padre (a quanto pareva) fornito di sì buone intenzioni; si offerse don Antonio di recarsi alla Corte per trattare questo affare, dovendo già portarvisi a forza per altri suoi interessi, e fece credere che colà pel canale dei favori e dei donativi poteva condursi ogni difficile cosa a termine fortunato. — No, disse Ricotte, presente a questo discorso, nulla è da sperarsi dalle protezioni e dai regali, da che appresso il grande don Bernardino di Valasco, conte di Salazar, ch'ebbe dalla Maestà sua l'incarico del nostro bando, preghi non valgono, né hanno efficacia veruna le promesse, gl'intercessori e la compassione.

— Per concludere, soggiunse allora don Antonio, quando io sarò alla Corte userò le possibili diligenze: e faccia il Cielo ciò che più gli piaccia: ma intanto don Gregorio verrà meco a consolare il dolore in cui sono immersi i suoi genitori per la sua lontananza. Compagna di mia moglie resterà in casa mia o passerà in un monastero Anna Felice, e spero che piacerà al viceré di lasciare in casa sua il buon Ricotte fino a tanto che si vedrà l'effetto delle mie cure.”

Acconsentì il viceré a quanto venne proposto; ma don Gregorio, sapendo come andava la cosa, protestò alle prime che non voleva, né poteva a patto alcuno lasciare donna Felice, ma che intanto si sarebbe di buona voglia recato a rivedere i suoi genitori per trovare poi modo di venire per lei. Rimasero Anna Felice colla moglie di don Antonio, Ricotte in casa del viceré e don Antonio partì. Dopo due giorni si misero in viaggio anche don Chisciotte e Sancio perché la caduta non permise a don Chisciotte di affrettare il suo cammino. Vi furono e sospiri e svenimenti e singhiozzi al dividersi di don Gregorio da Anna Felice, e Ricotte offrì a don Gregorio mille scudi se li bramava, ma egli non ne volle pur uno; soltanto se ne fece prestare cinque da don Antonio; promettendogliene la restituzione alla Corte. Con ciò partirono i due, e poco dopo don Chisciotte e Sancio, come si è detto: don Chisciotte disarmato, e Sancio a piedi, perché il leardo era stato caricato colle armi del suo padrone.


CAPITOLO LXV

 

TRATTASI DI QUELLO CHE VEDRÀ CHI LEGGE O SARÀ PER UDIRE CHI SI FARÀ LEGGERE.

 

Allorché don Chisciotte uscì di Barcellona, si voltò a guardare il sito dov'era caduto, e disse: — Qua fu Troia, qua la sventura mia e non la mia viltà mi tolse i trofei e le conquiste; qui la sorte usò meco de' suoi dritti e de' suoi torti, qua si oscurò la luce delle mie prodezze; qua infine cadde la mia ventura per non rialzarsi mai più.” Ciò udendo Sancio, soggiunse: — Tanto è da bravi cuori, signor mio, l'avere pazienza nelle disgrazie come allegrezza nelle prosperità: e questo lo sostengo per la mia propria esperienza, che se io stava allegro quando ero governatore, non mi abbandono però alla malinconia ora che sono scudiere e a piedi. Ho inteso dire che quella che si chiama Fortuna è femmina briaca e capricciosa, e soprattutto cieca, ond'è che non vede quello che fa, né sa chi abbatta o chi innalzi. — Sancio, tu sputi fuori troppa sapienza, disse don Chisciotte, né so da chi tu abbia imparate tante cose; quello che io debbo dirti si è che non si dà fortuna in questo misero mondo, né le cose che qua giù accadono, buone o cattive, vengono a caso, ma per singolare provvidenza del Cielo; e da ciò nasce quello che si suole d'ordinario dire, che ognuno è l'artefice di sua ventura. Io lo fui della mia, non però colla necessaria prudenza, e quindi mi hanno guidato a mal partito le mie presunzioni; mentre io doveva por mente che la fiacchezza del mio Ronzinante non avrebbe potuto far fronte alla straordinaria grandezza del cavallo di quello della Bianca Luna. Mi arrischiai al cimento, feci quanto potei, fui scavalcato; ma tuttoché io abbia perduto l'onore, non mancherà in me la virtù di mantenere la parola che ho data. Quando io era cavaliere errante, da intraprendente e valoroso accreditavo ogni azione colle mie opere e colle mie mani, e adesso che mi trovo essere cavaliere pedestre, darò credito alle mie parole col fedele adempimento delle promesse. Cammina pertanto, o amico Sancio, e andiamo a compiere nel nostro paese l'anno del noviziato, dove raccoglieremo nuove virtù per tornarcene poi all'esercizio delle armi; ché io non sono per abbandonarlo giammai. — Signore, Sancio rispose, per dire la verità non è cosa troppo gustosa questo camminare a piedi, né si può a questo modo far viaggio sollecito: potremmo lasciare le nostre armi attaccate ad alcuno di questi alberi in cambio di un impiccato; ché montando in sul leardo coi piedi alzati da terra faremmo le giornate corte; mentre il voler pensare che io abbia da andare a piedi e far presto, egli è un volere le cose contro natura. — Tu dici bene, o Sancio, rispose don Chisciotte; si appendano pure le armi mie per insegna, e appiedi od all'intorno di esse incideremo negli alberi ciò che nel trofeo delle armi d'Orlando stava scritto:

 

Nessun le mova

Che star non possa con Orlando a prova.

 

— Parmi che tutto questo andrà benissimo, rispose Sancio: e se non fosse che la necessità ci obbliga a tenere con noi Ronzinante, egli sarebbe bene d'impiccarlo esso pure. — Taci, taci, replicò don Chisciotte; che già mi avviso di non volere che s'impicchino né armi, né Ronzinante, acciocché non si dica: A buon servigio mal guiderdone. — Vossignoria, rispose Sancio, parla per eccellenza: perché, secondo il parere dei prudenti, la colpa dell'asino non resta a carico della bardella; e poiché la colpa n'è tutta di vossignoria, perciò ella castighi se stesso e non rovesci la sua collera sulle armi rotte e insanguinate, né sulla docilità del cavallo, né sulla tenerezza dei miei piedi, esigendo che camminino oltre il dovere.”

Con queste ed altre confabulazioni si consumò tutto quel giorno non solo, ma quattro altri ancora, senzaché accadesse cosa che impedisse il viaggio; ma al quinto giorno, nell'entrare in un paese i viaggiatori trovarono alla porta di un'osteria molta gente, che per essere dì festivo se ne stava colà a sollazzo. Erasi già don Chisciotte avvicinato, quando un contadino con voce alta disse: — Qualcuno di questi due signori che adesso vengono, e che non conoscono le nostre differenze, dirà quello che si debba fare nella nostra scommessa. — Lo dirò volentieri, rispose don Chisciotte, e con equità, quando io sappia di che si tratti. — Il caso è questo, mio buon signore, disse il contadino: un abitante di questo paese, ch'è tanto grasso che pesa dugentosettantacinque libbre, sfidò a correre altro suo vicino, che non ne pesa più di centoventicinque, e fu la condizione che dovessero correre cento passi di carriera carichi di peso uguale; e avendo dimandato allo sfidatore come avessi ad aggiustare il peso, disse che lo sfidato che pesa centoventicinque libbre se ne mettesse addosso centocinquanta di ferro; e così si aggiusterebbero le centoventicinque del magro colle dugentosettantacinque del grasso. — Oh questo no, disse Sancio prima che rispondesse don Chisciotte, e tocca a me che da pochi giorni cessai di essere governatore, come tutti sanno, a decidere questi dubbi e a pronunziare la sentenza su questi litigi. — Decidi pure in buon'ora, Sancio amico, disse don Chisciotte, ché io non mi sento di poter dare i bricioli al gatto: tanto sconvolto e indebolito ho il povero mio cervello. — Con questa persuasione, disse Sancio rivolto ai contadini che gli stavano d'intorno colla bocca aperta, io sono a dirvi che la dimanda del grasso non dà nel verosimile, né ha ombra di giustizia, perché se vero è quello che si suol dire, che lo sfidato ha la scelta delle armi, non è bene che costui le scelga tali che impediscano il conseguimento della vittoria: io porto opinione che il grasso sfidatore si sbucci, mondi, diradi, ripulisca, allestisca, e cavi centocinquanta libbre delle sue carni da questa o quella parte del suo corpo, come meglio gli piace, e restando così sole centoventicinque libbre di peso, si faranno giuste ed eguali le centoventicinque del suo contrario, e a questo modo potranno correre in pari grado. — Viva Dio, disse un contadino, che questo signore ha parlato come un benedetto ed ha pronunciato sentenza da canonico: ma io scommetterei che il grasso non si vorrà levare non che centocinquanta libbre, ma neppure un'oncia sola delle sue carni.

— Il meglio che si potrebbe fare, disse allora un altro, sarebbe che non corressero punto né poco, acciocché il magro non si straccasse col peso, né il grasso si scarnasse, e che si spendesse piuttosto la metà della scommessa in tanto vino, e che menassimo questi signori a qualche osteria dove se ne trova del buono: e mettetemi sopra a me la cappa se piove. — Io, o signori, rispose don Chisciotte, vi ringrazio, ma non posso trattenermi né anche un momento solo, mentre molti pensieri e avvenimenti funesti mi fanno essere scortese; né ora potrei occuparmi di altro che dell'affrettare il mio cammino.”

Diede degli sproni al suo Ronzinante, passò innanzi lasciando tutti maravigliati di avere veduto e notato sì la figura sua stravagante, come l'acutezza del suo servitore; che per tale giudicarono Sancio. Un altro di quei contadini disse:

— Se il servitore è tanto prudente, che cosa sarà mai il padrone? Io giurerei che se vanno a studiare a Salamanca diventano alcadi di Corte, come è bere un uovo; che ogni cosa è burla fuorché lo studiare e ristudiare, e avere favore e ventura; poi, quando l'uomo meno se l'aspetta, si trova con un governo in mano o con una mitra in testa.”

Là passarono quella notte, padrone e servitore, in mezzo alla campagna, a cielo scoperto, e continuando nel dì seguente il viaggio, videro venire alla volta loro un uomo a piedi, con un paio di bisacce al collo, un bastone in mano con puntale di ferro, ed in arnese propriamente da corriere a piedi. Quando fu da vicino, e conobbe don Chisciotte, accelerò tosto il passo, e vennegli frettoloso incontro, e abbracciandolo per la coscia dritta (ché altrimenti fare non poteva), gli disse con segni di grande allegrezza:

— Ah, mio signor don Chisciotte della Mancia! ah che grande contento ha da arrivare fino al cuore del mio signor duca quando sappia che vossignoria torna al suo castello, dove egli sta tuttavia colla mia signora duchessa!

— Amico, io non vi conosco, rispose don Chisciotte, né so chi voi vi siate se voi non me lo dite.

— Io, rispose il corriere, io sono Tosilo, lo staffiere del mio signor duca, quello che non volle combattere con vossignoria quando si trattò del matrimonio della figliuola di donna Rodrighez.

— Dio mi aiuti: disse don Chisciotte: e com'è possibile che voi siate quello che i miei nemici incantatori trasformarono nello staffiere che dite per defraudarmi dell'onore della battaglia?

— Di grazia, non dite questo, mio buon signore, replicò il corriere, che non fu incanto di sorta, né alcuna mutazione di viso, ma io entrai Tosilo staffiere nello steccato, e Tosilo staffiere ne uscii. Allora pensai di maritarmi senza combattere, per essermi piaciuta la giovane, ma il mio pensiero mi riuscì a rovescio, perché non era appena partito vossignoria dal castello, che il mio signor duca mi fece dare di cento legnate per avere trasgredito gli ordini impartitimi prima di entrare in battaglia, e terminò quel negozio. La ragazza si è fatta monaca, donna Rodrighez è tornata in Castiglia, ed io passo adesso a Barcellona per portare un mazzo di lettere al viceré che gli sono dirette dal mio padrone. Se vossignoria volesse bere un poco, io ne ho una zucchetta piena di buono e pretto, sebbene un po' caldo, ed ho alquante scheggie di cacio di Lucardo che farebbero venire la sete ad un addormentato.

Accetto io l'invito, disse Sancio, e vada il resto della cortesia, e mesca allegramente il buon Tosilo a dispetto di tutti gl'incantatori che stanno nelle Indie.

— Insomma, disse don Chisciotte, tu sei, o Sancio, il più gran ghiottone ed il più gran ignorante che viva. Non capisci tu che questo corriere è incantato, e questo è un Tosilo contraffatto? Sta pure con lui se ti piace, e satollati, ché io mi avvierò innanzi adagio adagio, aspettando che tu mi raggiunga.”

Lo staffiere si mise a ridere, cavò fuori la sua zucca, sbisacciò le scheggie di cacio e un pane, e sdraiatosi con Sancio sull'erba, in santa pace e buona compagnia diedero fondo a tutta la provvigione con sì buon appetito, che leccarono anche il mezzo delle lettere solo perché sapeva di cacio. Tosilo diceva a Sancio:

— Questo tuo padrone, amico mio, deve essere senza dubbio un pazzo.

— Come deve? rispondeva Sancio: egli non deve niente ad alcuno, ché paga ogni cosa, massime quando la moneta è pazzia. Io veggo le cose come sono, ed anche glielo dico, ma a che pro? E adesso tanto peggio ch'ella è finita, perché è stato vinto dal cavaliere dalla Bianca Luna.”

Tosilo voleva esserne informato, ma Sancio gli rispose che sarebbe scortesia il farsi aspettare dal suo padrone, e che se si fossero incontrati un altro giorno, gli avrebbe raccontata ogni cosa. Rizzandosi dall'erba, dopo avere scosso il saio, e le briciole della barba, si mise innanzi il leardo, e dicendo:

— Addio, Tosilo,” raggiunse il padrone, che sotto l'ombra di un albero lo stava aspettando.


CAPITOLO LXVI

 

SI DETERMINA DON CHISCIOTTE DI FARSI PASTORE, E DI CONDURRE LA VITA TRA LE CAMPAGNE, FINCHÉ SCORRA L'ANNO DI SUA PROMESSA, CON ALTRI AVVENIMENTI PIACEVOLI E GUSTOSI.

 

Se tanti pensieri tenevano afflitto don Chisciotte prima ch'ei fosse fatto stramazzare, molti più lo tribolavano dopo la sua sconfitta. Stavasene, come si è detto, sotto un albero all'ombra, e quivi come mosche al mele, un'afflizione era da altra raggiunta, ed ora egli pensava al disincanto di Dulcinea, ora alla vita che dovrebbe fare nell'ozio a cui era obbligato. Lo raggiunse Sancio, e gli fece molti elogi della liberalità dello staffiere Tosilo. — Ed è dunque possibile, o Sancio, dissegli don Chisciotte, che ti sii fitto in capo che colui sia vero e reale staffiere? Si vede bene che ti è uscito di mente d'aver veduto Dulcinea convertita e trasformata in contadina, e il cavaliere dagli Specchi nel baccelliere Sansone Carrasco: opere tutte degl'incantatori che mi perseguitano, ma dimmi un poco: chiedesti tu a questo tuo Tosilo che cosa sia accaduto di Altisidora? se pianse per la mia assenza, se ha dati all'oblio gl'innamorati pensieri che, me presente, la tormentavano? — Oh, i pensieri che io aveva in testa, disse Sancio, non mi lasciarono tempo d'informarmi di queste inezie; e poi, per l'anima mia, mi pare, signor mio, che adesso dovrebbe vossignoria occuparsi di altro che d'inezie amorose. — Tu dèi riflettere, o Sancio, rispose don Chisciotte, che corre gran differenza dalle opere che si fanno per amore a quelle che provengono da gratitudine: e può darsi benissimo che un cavaliere sia disamorato; ma, parlando con istretto rigore, egli non può essere mai ingrato e sconoscente. Altisidora, per quanto si è veduto, mi volle bene: mi donò le tre cuffie che tu sai, pianse alla mia partenza, mi maledisse, mi vituperò, e a dispetto del pudore mandò pubblici lamenti: segni tutti che mi adorava; giacché gli sdegni degli amanti sogliono finire in maledizioni. Io non mi sono trovato in caso, né di darle speranze né di offrirle tesori, perché le prime furono da me serbate a Dulcinea, e i tesori dei cavalieri erranti sono come quelli dei folletti, apparenti cioè e fallaci: e mi è permesso unicamente mostrare il pegno che da lei tengo, senza pregiudizio però di quello che mi venne da Dulcinea. Ah, Dulcinea! tu sei il bersaglio delle offese di costui che in vituperevole guisa è sempre restio a volersi frustare e a castigare queste sue carni, che possa io vederle divorate dai lupi, poi che vogliono serbarsi a pascolo dei vermi piuttostoché adoperarsi a conforto di una sventurata! — Signor mio, disse Sancio, se debbo confessare la verità, io non mi posso mettere in testa che le frustate delle mie natiche abbiano che fare con i disincanti degl'incantati: ch'è come si dicesse: Se ti duole il capo, ungiti le ginocchia. Vorrei giurare che in quante storie vossignoria ha letto, e che trattano della cavalleria errante, non si è mai visto alcuno disincantato a prezzo di frustate ma comunque la cosa sia, io mi frusterò quando però me ne verrà la voglia, e ne abbia opportunità. — Lo faccia il Cielo, rispose don Chisciotte, e ti presti egli favore affinché tu ti ravvegga e conosca l'obbligo che ti corre di aiutare la mia signora, ch'è anche tua, perché tu sei mio.”

Andavano con questi ragionamenti seguitando il loro viaggio, quando giunsero al sito medesimo dove erano già stati scompigliati dai tori. Lo riconobbe don Chisciotte, e disse a Sancio: “Il prato è questo dove noi c'incontrammo colle bizzarre pastorelle e coi pastori galanti che volevano rinnovare e imitare la pastorale Arcadia: pensiero nuovo altrettanto quanto prudente, ed a cui imitazione io vorrei, o Sancio, se tu approvi il divisamento, che noi ci convertissimo in pastori per tutto il tempo in cui sarò obbligato al ritiro. Io comprerò alquante pecore e le altre cose tutte che al pastorale esercizio son necessarie; mi chiamerò il pastore Chisciotizzo e tu il pastore Pancino, e ce ne andremo per i monti, per le selve e per i prati, qui cantando, querelandoci là, bevendo le onde dei liquidi cristalli delle fonti o dei limpidi ruscelli ovvero dei rapidi fiumi. Ci somministreranno le querce a larga mano le dolcissime loro frutta; ci serviranno di sedia i tronchi dei durissimi sugheri, di ombra i salici, di odore le rose e di tappeti gli spaziosi campi di mille colori dipinti. Sarà nostro alito l'aria chiara e pura; saranno luce la luna e le stelle a dispetto dell'oscurità della notte; avremo allegrezza nel gaudio e nel pianto, e c'inspirerà Apollo i versi e gli amorosi concetti coi quali potremo renderci famosi non pure nei secoli presenti, ma nei futuri. — Perdinci, rispose Sancio, che questa maniera di vita sarebbe uno zucchero, e mi andrebbe proprio proprio a sangue; e scommetterei che il baccelliere Carrasco e maestro Nicolò barbiere, non l'avranno saputo appena, che verrà loro la frega di seguitarla e di farsi eglino ancora pastori con noi: e chi sa che non venga il grillo anche al signor curato di entrare nel branco, ch'egli è uomo di allegro umore e molto amico di darsi bel tempo. — Tu hai detto benissimo, soggiunse don Chisciotte, e il baccelliere Sansone Carrasco se entrerà nel pastorale grembo (ché vi entrerà senza dubbio), potremo chiamarlo il pastore Sansonino o il pastore Carrascone. Nicolò barbiere potrà intitolarsi Niccoloso, come già l'antico Boscano si chiamò Nemoroso; non so che nome daremo al curato, se non fosse alcuno derivativo dal suo appellandolo il pastore Curatambro. In riguardo alle pastorelle delle quali dovremo essere seguaci, potremo, come in una cesta di pere, scegliere i loro nomi: e giacché quello della mia signora tanto quadra a pastorella come a principessa, non occorre che io vada a dicervellarmi per cercarne altro che meglio le si convenga: tu, o Sancio, porrai poi alla tua il nome che più ti andrà a genio. — Io fo conto, disse Sancio, di non metterle altri nomi che quello di Teresona, che calzerà bene colla sua grassezza; e molto più che celebrandola io nei miei casti desiderii, non andando a cercare miglior pane che di grano per le case altrui; né sarà poi bene che il curato tenga pastora, come colui che ci deve dar buon esempio; e se il baccelliere vorrà averne una, ci pensi egli. — Poffare il mondo! disse don Chisciotte, che vita abbiamo a condurre noi, Sancio amico! Quante zampogne ci hanno da rallegrare gli orecchi, quante pive zamorane, quanti tamburini, quante sonagliere, quanti ribecchini! Pensa poi se tra questa diversità di musica ci sarà frammischiata quella degli alboghi! Oh si avranno tra noi quasi tutti i pastorali strumenti. — Che cosa sono questi alboghi? disse Sancio, ché io non li ho sentiti mai a nominare, né li ho visti mai in vita mia. — Gli alboghi, rispose don Chisciotte, sono certe piastre come di candelliere d'ottone, che dando una contro l'altra, per lo vôto e vano mandano suono se non molto grato ed armonico, almeno che non dispiace e si accorda colla rusticità della piva e del tamburino. Albogo è vocabolo moresco, come lo sono tutti quelli che nella lingua castigliana cominciano in al; per esempio: almohaza, almozar, alhambra, alguázil, alhuzema, alcuza, almazen, alcanzia, ed altri somiglianti, che debbono essere pochi più: e tre soltanto ne ha la lingua spagnuola che sono moreschi e terminano in i, e sono: borcegui, zaguizami, maravedi: le voci alheli e alfaqui, tanto dall'al onde cominciano, quanto dall'i in cui finiscono, sono conosciute per arabiche. Ti ho detto questo di passaggio e per essermelo ricordato nella occasione di nominare alboghi; e ci ha da giovare assai alla perfezione di questo esercizio l'essere io un cotal poco poeta, come tu sai, e come lo è ancora in grado eccellente il baccelliere Sansone Carrasco: del curato non fo parole, ma scommetterei ch'egli pure non debba avere i suoi merletti ed il collare da poeta, come non dubito che li avrà maestro Niccolò; perché tutti o la maggior parte dei barbieri sono poetastri o chitarristi. Io mi dorrò della lontananza; tu ti vanterai d'innamorato costante; il pastore Carrascone d'essere disprezzato, e il curato Cutacambro di quello che più gli sarà in piacere, ed in tal maniera procederà benissimo la nostra vita.”

Sancio rispose: — Signore e mio padrone, io sono tanto disgraziato che ho paura non arriverà mai quel giorno in cui mi vegga in questo beato posto. Che bei cucchiai farei io quando fossi pastore! Quanti pani grattati! Quanti pastorali manicaretti! Rinunzierei allora alla fama di savio, e mi contenterei di quella di grazioso; e Sancetta, mia figliuola, porterebbe da mangiare al gregge: ma attenti bene, ché Sancetta è belluccia, e vi hanno pastori più maliziosi che semplici, né vorrei che andasse per lane, e tornasse tosata; ché nelle campagne come nelle città vi si pecca; e levata la causa, si leva il peccato; e occhio che non vede, cuore non crede; ed è meglio essere uccello di campagna, che di gabbia. — Basta, basta, non più proverbi, o Sancio, disse don Chisciotte, che qualsivoglia di quelli che hai detto basta per esprimere il tuo pensiero. Ti ho consigliato le tante volte a non voler essere sì prodigo di strambotti, ma e' mi pare di aver predicato al deserto, e come diceva quella buona donna: Forbice, forbice. — Mi sembra, rispose Sancio, che vossignoria sia come quello che si suole dire, che la padella ha detto al paiuolo: Fatti in là, ché tu mi tingi; ella mi sta correggendo perché mi astenga dal dire proverbi, e intanto vossignoria li va infilzando a due per due. — Considera, o Sancio, rispose don Chisciotte, che io fo uso dei proverbi a proposito, e calzano a pennello quando io li dico: ma tu li strascichi tanto, che escono fuori di tempo e non in via naturale. Mi ricordo di averti detto altra volta che i proverbi sono sentenze brevi, cavate dalla sperienza e dalle speculazioni dei nostri antichi saggi, e che il proverbio ch'esce senza occasione, è piuttosto sproposito che sentenza. Ma di ciò non si parli più: e giacché si avvicina la sera, appartiamoci alquanto dalla strada maestra, e cerchiamo dove passare la notte, ché dimani Dio sa quello che sarà.” Si ritirarono, cenarono tardi e male, e ognuno pensi che ciò seguiva contro la intenzione di Sancio, il quale si ricordava tutte le angustie della errante cavalleria incontrate nelle selve e nei monti, che però vedeva talvolta temperate coll'abbondanza trovata nei castelli e nelle abitazioni sì di don Diego di Miranda, come nelle nozze del ricco Camaccio ed in casa di don Antonio Moreno. Considerando non essere possibile che sia sempre di giorno, né sempre di notte, si addormentò finalmente, lasciando in piena veglia il padrone.

La notte era alquanto buia, benché la luna fosse in cielo; ma si trovava in sito da non poter essere veduta, perché la dea Diana se ne va talvolta a passeggiare agli antipodi, e lascia neri i monti e oscure le valli. Servì don Chisciotte alla natura, dormendo il primo sonno, che non fu però seguitato dal secondo, tutto al contrario di Sancio, che non fece mai un secondo sonno, perché cominciava la sera per finire la mattina: dal che conoscevansi e la buona complessione e i suoi pochi pensieri. Quelli che occuparono don Chisciotte furono tali da indurlo a svegliar Sancio, ed a dirgli: — Io resto stupito della indole di tua natura, o Sancio, e mi figuro che tu sii fatto di marmo o di bronzo che non ha movimento né senso alcuno: io veglio mentre tu dormi, io piango quando tu ridi, io svengo per lo digiuno, quando tu te ne stai a panciolle e senza far nulla per avere pieno il ventre; ma non sai che debbono i buoni e amorosi servi togliere sopra di loro le pene dei padroni, almeno perché si dice che hanno buon cuore? Guarda adesso la serenità di questa notte e la solitudine in cui ci troviamo, la quale c'invita a frapporre qualche veglia al nostro sonno: levati, per la vita tua, e scostati di qua un cotal poco, e con buon animo e con gradito ardire affibiati tre o quattrocento frustate a buon conto per le occorrenti per lo disincanto di Dulcinea. Te ne prego, te ne supplico, ché non vorrei più far teco alle braccia come altra volta, mentre so quanto pesano. Quando ti sarai ben bene frustato, passeremo il resto della notte cantando, io la mia assenza e tu il tuo coraggio, e daremo tosto principio al pastorale esercizio che dovrà diventare la gradita nostra occupazione.

— Padrone mio, rispose Sancio, io non sono frate che mi abbia a svegliare sul bel mezzo del sonno per disciplinarmi, né manco mi pare che dall'estremo dolore delle frustate si possa passare in un attimo a cantare di musica: mi lasci vossignoria a dormire e non mi stia a sollecitare altro di frustarmi, ché giuro sull'anima mia che non vorrei ora torcermi né anche un pelo della casacca.

— Ah, anima indurita! sclamò don Chisciotte, scudiere senza pietà, pane mal impiegato, mercedi mal valutate e quello che avesti, e quello che avevo pensato di darti! In grazia mia ti sei visto governatore, in grazia mia ti trovi con vicina speranza di essere conte o di tenere altro equivalente titolo, e non tarderà a passare quest'anno, ché io post tenebras spero lucem!

— Io non intendo niente di questo, disse Sancio, e intendo solo che fino a tanto che dormo non sento né timore, né speranza, né travaglio, né gloria: che benedetto sia pure chi inventò il sonno, cappa che copre tutti gli umani pensieri, cibo che toglie la fame, acqua che estingue la sete, fuoco per cui fugge il freddo, freddo che tempra l'ardore, moneta generale con cui tutto si compra, bilancia e peso che rende eguale il re al pastore ed il saggio allo zotico: no, il sonno non ha in sé altro di cattivo, da quanto ho inteso dire più volte, se non che rassomiglia alla morte, passando poca differenza da uomo morto ad addormentato. — Non ti ho sentito mai, o Sancio, disse don Chisciotte, a parlare con tanta eleganza come adesso, e vengo a comprendere essere vero il tuo proverbio: Non con chi tu nasci, ma con chi tu pasci.

— Oh, corpo del diavolo! replicò Sancio, non sono poi io quello che infilza proverbi, ché anche alla signoria vostra snocciolano fuori di bocca a coppie meglio che a me, e non vi è altra differenza tra i miei ed i suoi se non che quelli di vossignoria sono buttati là a tempo, ed i miei fuori di stagione, ma poi sono tutti proverbi.”

In questa guisa continuava il dialogo, quando s'intese ad un tratto sordo fracasso e noioso rumore che per tutte quelli valli si distendeva. Rizzossi don Chisciotte, e pose mano alla spada, e Sancio si rannicchiò sotto al leardo, mettendosi ai fianchi il fagotto delle armi e la bardella del suo giumento, e tremando tutto di paura. Non restò senza perturbarsi né anche don Chisciotte per lo rombazzo che veniva crescendo e appressandosi. Ora avvenne che certi uomini menando a vendere ad un mercato più di seicento porci, con essi a quell'ora avanzavano cammino, ed era il rumore causato dal degrignare e dallo stridere che facevano quegli animali, e con cui assordavano gli orecchi di don Chisciotte e di Sancio senzaché potessero capire che cosa si fosse. Arrivò in truppa il gregge grugnitore, e senza portar rispetto all'autorità del valoroso don Chisciotte, passò di sopra ad esso ed a Sancio, disfacendo le trincee e facendo cadere tutto ad un fiato e don Chisciotte ed anche il suo Ronzinante. Il gran numero, il grugnire e la prestezza con cui arrivarono quegl'immondi animali, produssero estrema confusione, gittando sottosopra la bardella, le armi, il leardo, Ronzinante, Sancio e don Chisciotte. Si rizzò Sancio alla meglio, ed infuriato dimandò la spada al padrone, dicendogli che voleva ammazzare una dozzina di quei signori e malcreati porci, che già li aveva benissimo conosciuti. Don Chisciotte gli disse:

 — Lasciali andare, amico, che questo affronto è pena del mio peccato, ed è giusto castigo del Cielo che un cavaliere errante abbattuto sia mangiato dal gavocciolo, punto dalle vespe, calpestato dai porci.

— Deve pure, Sancio rispose, essere castigo del Cielo che gli scudieri dei vinti cavalieri erranti siano dalle mosche punzecchiati, mangiati dagl'insetti e investiti dalla fame? Se gli scudieri fossero figliuoli dei cavalieri ai quali servono, o loro prossimi parenti, non ci sarebbe che dire quando li colpisse la pena dei falli sino alla quarta generazione: ma che hanno mai a fare i Pancia con i Chisciotti? Basta, torniamoci a coricare, e dormiamo il poco che rimane della notte; ché domani qualche santo ci aiuterà.

— Dormi tu, o Sancio, rispose don Chisciotte, tu che sei nato per dormire, quando io nacqui per vegliare. Nel poco di tempo che manca sino all'alba, io lascerò libero il corso ai miei pensieri, e li sfogherò in un madrigaletto, che composi stanotte nella mia fantasia senza farne teco parola.

— Pare a me, rispose Sancio, che i pensieri che possono esprimersi in versi non debbano essere molto seri, ma vossignoria versifichi pure a suo piacere, ché intanto io dormirò il meglio che potrò.”

E sdraiandosi sulla terra, si accoccolò e tornò a dormire saporitamente senzaché mallevadorie, debiti o dolore alcuno ne lo sturbassero. Don Chisciotte, appoggiato al tronco di un faggio o sughero (ché Cide Hamete Ben-Engeli non ha distinto bene di che qualità fosse l'albero), cantò al suono dei suoi stessi sospiri i versi seguenti:

 

Amore, allorch'io penso

Quanto il mal che mi dài sia grande e forte,

Vommi incontro alla morte,

Sperando di finir mio male immenso.

 

Ma giunto appena al passo,

Che è porto a questo mar del mio tormento,

Tanta letizia sento

Che la vita s'afforza e nol trapasso.

 

Così il viver m'uccide,

E la morte fa sì ch'io torni in vita:

Vedi sorte inaudita,

Che ognor tra vita e morte mi divide!

 

Accompagnato era da molti gemiti e da non poche lagrime ognuno di questi versi, come parto di un cuore trafitto dal cruccio dell'essere stato vinto e da quello dell'assenza di Dulcinea. Venne il giorno, ed il sole colpì co' suoi raggi gli occhi di Sancio, che si destò, si stirò, e scuotendo e dilungando le infingarde membra, mirò il mal governo che avevano fatto i porci della sua credenza, e maledisse il gregge, e andò anche più avanti colle imprecazioni. Tornarono finalmente ambidue all'intrapreso cammino, e al declinare del giorno si accorsero che venivano alla volta loro intorno a dieci uomini a cavallo, e quattro o cinque a piedi. Si destò il coraggio a don Chisciotte, e si avvilì quello di Sancio, perché quella gente portava lance e targhe, e sembrava disposta a combattere. Don Chisciotte si voltò a Sancio e gli disse:

— Se io potessi, o Sancio, trattare le armi, e non fossi sì legato nelle braccia della mia fede, io valuterei meno di uno zero le nuove diavolerie che ci minacciano: ma potrebbe anche essere che fosse altra cosa differente da quella che noi temiamo.”

Giunsero in quell'istante due di quelli a cavallo, e inalberando le lance, senza dir parole circondarono don Chisciotte, e gliele appuntarono alle spalle ed al petto, minacciando di volerlo ammazzare. Uno di quelli a piedi si avvicinò un dito alla bocca in segno che ciascuno dovesse osservare il silenzio, pigliò Ronzinante per la briglia e lo tirò fuori di strada; gli altri a piedi cacciaronsi dinanzi Sancio e il leardo, e serbando ognuno alto e costante silenzio, seguitò i passi di colui che menava don Chisciotte, il quale due o tre volte tentò di chiedere dove lo conducessero o quello che da lui si pretendesse. Ma cominciava egli appena a movere le labbra, e tosto erano pronte a chiuderle i ferri delle lance; e lo stesso avveniva a Sancio subito che faceva mostra di voler parlare: ed uno di quei pedoni punzecchiava con un pungolo lui e il leardo ancora, come se anche questo desse intenzione di voler parlare. Venne la notte, accelerando il passo, crebbe la paura nei due prigioni, e più ancora quando udirono che di tanto in tanto dicevasi loro:

— Camminate, trogloditi; tacete, barbari; pagate, antropofaghi; non vi lagnate, sciti; non aprite gli occhi, Polifemi ammazzatori, leoni divoratori;” ed altri nomi simili a questi coi quali tormentavano l'udito dei miserabili padrone e servitore. Andava Sancio fra sé dicendo:

— A noi tortoliti? a noi barbieri, a noi troppo fango! Eh, non mi piacciono per niente questi titoli; tira un cattivo vento a quest'aia: tutto il male viene in una volta come al cane le bastonate, e volesse Dio che fossero almeno le ultime tra tante nostre sventurate venture.”

Don Chisciotte marciava come un uomo mezzo fuori di sé e senza cogliere nel segno, per quanti ragionamenti facesse a fine di conoscere la causa che l'esponeva a tanti oltraggi, dai quali in sostanza veniva a conchiudere ch'ei non poteva sperar nulla di bene. Pervennero quasi ad un'ora di notte in un castello, che fu conosciuto da don Chisciotte per quello del duca, da dove non era molto che aveva fatto partenza.

— Mi aiuti il Cielo! diss'egli come l'ebbe meglio riconosciuto: che sarà mai? Non è questa la casa della cortesia e della buona creanza? Ma per i vinti il bene si converte in male e il male in peggio.”

Entrarono nell'andito principale del castello, e lo videro preparato e disposto in maniera che si accrebbe in loro la meraviglia, e si raddoppiò la paura, come si vedrà nel capitolo seguente.


CAPITOLO LXVII

 

SI NARRA IL PIÙ RARO E IL PIÙ NUOVO SUCCESSO CHE NELL'INTERO CORSO DI QUESTA GRANDE ISTORIA AVVENUTO SIA A DON CHISCIOTTE.

 

Gli uomini venuti a cavallo, insieme agli altri che li seguitavano a piedi, pigliando di peso e con somma prestezza Sancio e don Chisciotte li misero nell'andito, intorno a cui ardevano da circa cento torce poste sui loro candelabri; e pei corridoi dell'andito stesso stavano più di cinquecento lumi, di maniera che in onta alla notte, che mostravasi alquanto oscura, non si conosceva il mancamento del giorno. In mezzo all'andito stava un catafalco alto più che due braccia da terra, coperto tutto con grandissimo baldacchino di velluto nero, all'intorno del quale, sui varî gradini, ardevano candele di cera bianca sopra più di cento candellieri d'argento: sulla sommità del catafalco scorgeasi estinto corpo di donzella adorna di sì esimia bellezza, da far parere bella la morte medesima. Teneva la testa posata sopra un guanciale di broccato, era coronata d'una ghirlanda di vari e odorosi fiori; colle mani messe in croce sul petto, e tra esse un ramo di palma in segno di trionfo. Vi era un teatro ad un lato dell'andito, dove seduti si stavano due personaggi, i quali col portare corona in testa e scettro in mano mostravano di essere re veri o finti. Accanto a questo apparente teatro, dove salivasi per alcuni gradini, si trovavano altre due sedie, sulle quali posero i due prigioni don Chisciotte e Sancio, facendoveli adagiare; e tutto ciò in grande silenzio e indicando loro con segni che dovessero sempre tacere: ma senza bisogno di questi segni sarebbero già rimasti taciturni, mentre l'alta meraviglia prodotta in loro dagli oggetti che avevano dinanzi agli occhi ne teneva legate le lingue. Salirono sul teatro con grande accompagnamento due personaggi d'importanza, che vennero da don Chisciotte riconosciuti sul fatto pel duca e la duchessa suoi ospiti, e si assisero su due sedie ricchissime, accanto a quelli che avevano figura di re.

Chi mai non doveva essere meravigliato, quando aggiungasi che si riconobbe da don Chisciotte che il corpo morto, il quale giaceva sul catafalco, era quello della vezzosa Altisidora! Al giungere del duca e della duchessa in teatro, si alzarono don Chisciotte e Sancio, e fecero loro profonda riverenza, cui ricambiarono i duchi inchinando un poco la testa. In questo apparve uno staffiere, che appressatosi a Sancio, gli mise indosso una zimarra di tela bottana nera, a fiamme di fuoco, e levandogli il capuccio, gli pose sulla testa una mitra simile a quelle che si dànno agl'inquisiti del Santo Officio, e gli disse all'orecchio che non movesse labbra, altrimenti gli si applicherebbe un paio di morse o sarebbe spacciato sul fatto. Sancio si guardava da capo a piedi, vedevasi tutto in fiamme ma poiché non si sentiva ardere, non ne faceva gran caso. Si levò la mitra, e vide che vi erano dipinti dei diavoli; se la rimise e disse fra sé: — Fortuna mia che né quelli mi abbruciano, né questi mi portano via.”

Anche don Chisciotte lo stava squadrando minutamente, e tuttoché la paura tenesse sospesi i suoi sensi, non poté a meno di non sogghignare vedendo la figura di Sancio. Frattanto si cominciò a far sentire un suono poetico, ma soave di flauto, che pareva uscire dal di sotto del catafalco, e che non essendo sturbato da alcuna umana voce (perché in quel sito il silenzio stesso era rigido custode di sé medesimo) spiegava carattere di dolcezza e di amore.

D'improvviso comparve poi accanto di quello che sembrava cadavere, un bel garzone vestito alla romana, il quale, al suono di armoniosa arpa, toccata da lui medesimo, cantò con soavissima e chiara voce queste due stanze:

 

Finché non riede Altisidora al giorno

Per crudeltà di don Chisciotte uccisa,

Finché di questo incantator soggiorno

Vestita a brun la Corte si ravvisa,

E la padrona a quante dame ha intorno

Di saia e rascia appresta la divisa,

Canterò sua bellezza e il destin reo

Con miglior plettro dell'odrisio Orfeo.

 

E quest'officio a me, credo, non tocca

Sol mentre dura la mortal mia vita,

Ma con la lingua morta e fredda in bocca

Per te io moverò la voce ardita:

Deh! perché morte omai il suo stral non scocca.

Ché in riva a Stige, ove il destin m'invita,

Andrò di te cantando, e al suono mio

L'onda immobil starà del pigro Oblio.

 

— Non più, disse a tal punto uno dei due che parevano re: non più, o divino cantore, che sarebbe un procedere all'infinito il farci ora il quadro della morte e delle grazie di Altisidora senza pari; non morta già, come fassi a credere il volgo ignorante, ma viva nelle lingue della fama e nel castigo cui deve soggiacere Sancio Pancia, qua presente, per restituirla alla perduta luce. Tu dunque, o Radamanto, che meco giudice siedi nelle tenebrose caverne di Dite, giacché ti è noto quanto negl'impenetrabili destini è statuito a far rivivere questa donzella, dillo, dichiaralo qui incontanente e lo spiega, affìnché quel bene non si indugi che col suo rinascere ci facciamo a sperare.” Profferì appena tai detti Minosse, giudice e compagno di Radamanto, che rizzatosi questi in piedi, così sclamò: — Su, o ministri di questa casa, alti e bassi, grandi e piccoli, venite l'uno dopo l'altro, e si stampino da voi sul viso di Sancio ventiquattro guanciate, colla giunta di dodici pizzicotti e di sei punture di spilletto alle braccia e ai lombi, che in questa cerimonia consiste la risurrezione di Altisidora. Sancio, udito questo, così ruppe il silenzio: — Tanto mi lascio schiaffeggiare il viso e tramenarmi la faccia come farmi moro; che ha da fare, corpo di... lo strapazzare la mia persona col far tornare l'anima in corpo di quella ragazza? Date da bere al prete, ché il chierico ha sete; incantano Dulcinea, e vogliono frustar me perché io la disincanti. Altisidora muore del male che Dio le manda, e risusciterà se mi daranno ventiquattro schiaffi, e faranno un crivello del mio corpo a furia di spille, e vogliono illividirmi le braccia di pizzicotti? Vadano a fare queste burle a tutt'altri, ché io sono cane vecchio, e da una volta in fuori non mi si mena mica pel naso. — Tu morrai, disse ad alta voce Radamanto; ammànsati, o tigre; umiliati, o superbo Nembrotte; soffri e taci, ché non si vogliono da te cose impossibili; né andar ad investigare quante spine abbia questo negozio. Hai ad esser schiaffeggiato, bucherato, pertugiato, e i pizzicotti ti hanno a far piangere: orsù, ministri, eseguite il comando, altrimenti io vi farò conoscere il vostro dovere.”

Parve in questo istante che si avanzassero per l'andito sei matrone processionalmente una dietro l'altra, quattro con occhiali, e tutte colla mano destra alzata con quattro dita di polso fuor delle maniche per fare più lunghe le mani, siccome è la costumanza di oggidì. Non le ebbe Sancio vedute appena, che muggendo come un toro, gridò: — Pazienza se mi malmenerà tutto il mondo, ma matrone no, no che non voglio esser toccato da matrone; non vi acconsento se il diavolo mi porti: e mi facciano graffiare il muso dai gatti, come al mio padrone, mi trapassino il corpo con punte di pugnali, mi attanaglino le braccia con ferri infuocati, soffrirò tutto con pazienza e servirò questi signori, ma non vengano a toccarmi matrone.” Don Chisciotte allora rivolto a Sancio, disse: — Figliuolo, abbi pazienza, contenta chi comanda, e rendi grazie al Cielo che tale virtù ripose in questo tuo corpo, che pel suo martirio trovino disincanto le incantate persone, ed abbiano sino i morti a risuscitare.” Si erano già le matrone avvicinate a Sancio, quando egli ammansato già e persuaso, accomodandosi ben bene nella sedia, porse il viso e la barba alla prima, la quale gli diede una guanciata potentissima, e dopo gli fece una riverenza profonda. — Manco riverenze, manco smorfie, signora matrona, disse Sancio, ché, per vita mia, avete le mani che sanno di odore acetino.” Vennero le altre matrone a schiaffeggiarlo una dopo l'altra, ed ebbe dall'altra gente di casa pizzicotti, che pur tollerava: ma quello che poi non poté sopportare fu il pungimento degli spilletti ond'è che alzatosi dalla sedia tutto sdegnato, diede di piglio ad una torcia che stavagli appresso, corse a ridosso delle matrone e di tutti i suoi carnefici, e disse: — Fuora di qua, ministri infernali, ché non sono io di bronzo da non sentire questi martirii.” Allora Altisidora, che doveva trovarsi stracca per essere stata sì a lungo supina, si voltò di fianco; il che veduto dai circostanti, proruppero tutti ad una voce: — Altisidora vive! Vive Altisidora!” Ordinò Radamanto a Sancio che calmasse lo sdegno, essendosi già conseguito l'intento che si voleva. Tostoché don Chisciotte vide Altisidora dar segni di vita, corse a mettersi ginocchioni dinanzi a Sancio, così dicendogli: — Ecco, ecco il tempo, o figlio delle mie viscere, non che tu ti dia alcuna delle frustate che sei obbligato affibbiarti pel disincanto di Dulcinea senza pari: ecco, ripeto, il tempo in cui la tua virtù è maturata e perfezionata, e può operare con isperanza di ottenere il bene che da te si attende.” Sancio rispose: — Qua piove un malanno sopra all'altro: qua non si mette mele sulle frittelle: starei fresco se dopo i pizzicotti, gli schiaffi e le punture, venisse il sopraccarico delle frustate: non vi resterebbe altro che pigliare una pietra, legarmela al collo e buttarmi in un pozzo, ché anche questo dovrei sopportare, poiché per medicare i mali che fanno gli altri, ho ad essere io la vacca delle nozze; mi lascino stare, per la vita mia, o che io gitto e mando tutti all'inferno.”

Di già Altisidora alzata, si era posta a sedere sul catafalco, e al tempo stesso suonarono i pifferi accompagnati da flauti e dalle voci di tutti, che gridavano: Viva Altisidora! Altisidora viva!” Si levarono i duchi e i due re Minosse e Radamanto, e tutti congiuntemente a don Chisciotte e a Sancio, andarono a ricevere Altisidora, aiutandola a calare dal catafalco; ed essa, facendo la svenuta, s'inchinò ai duchi e ai re, e guardando per traverso don Chisciotte, gli disse: — Il Cielo ti perdoni, o disamorato cavaliere: ché per la tua crudeltà sono stata all'altro mondo (a quanto mi parve) più di mille anni; ed a te, il più compassionevole di tutti gli scudieri che vivano sulla terra, rendo grazie della vita che a solo tuo merito ho ricuperata: disponi da oggi in avanti, o Sancio amico, di sei delle mie camicie che ti dono, affinché tu ne faccia altre sei per tuo uso, e se non le troverai tutte sane, le troverai almeno tutte nette.” Sancio, colle ginocchia in terra, levatasi la mitra, le baciò le mani. Ordinò il duca lo spogliassero, e gli restituissero il suo cappuccio e il suo casaccone, e gli togliessero di dosso la zimarra fiammante, ma Sancio pregò allora il duca che la zimarra e la mitra gli fossero regalate, perché contava di portarle al suo paese in segno e memoria del non più veduto successo.

La duchessa gli disse che tutto gli sarebbe concesso, mentre egli sapeva bene quanto gli fosse amica. Ordinò il duca che l'andito gli fosse sbarazzato, che tutti si ritirassero alle loro stanze, e che don Chisciotte e Sancio fossero condotti in quelle che ben conoscevano.


CAPITOLO LXVIII

 

CHE TIEN DIETRO AL CAPITOLO SESSANTASETTE, E TRATTA DI COSE NECESSARIE

A SAPERSI PER MAGGIOR CHIAREZZA DI QUESTA STORIA.

 

Sancio dormì quella notte in una carriuola nella stanza medesima di don Chisciotte; ma avrebbe voluto poter farne a meno, sapendo benissimo che il suo padrone non gli avrebbe lasciato chiuder occhio a furia di domande, e risposte, e non trovavasi egli in disposizione di parlar molto; come colui che pel sofferto martirio non aveva la lingua spedita, sicché gli sarebbe tornato assai meglio il dormire soletto in qual si fosse stanzaccia piuttosto che in compagnia in bellissima camera. Il suo timore gli riuscì sì vero, e il dubbio sì certo, che coricatosi appena, il suo padrone gli disse:

— Che te ne pare, Sancio, di quello ch'è accaduto in questa notte? Non si può negare che non sia grande e terribile la forza di una disperazione amorosa, poiché cogli occhi tuoi stessi vedesti morta Altisidora non per altri dardi o per altra spada, né uccisa con altro istrumento o con altro mortifero veleno, che col solo riflesso del rigore e della trascuranza che ho dimostrata per lei.

— Fosse pure andata alla malora, rispose Sancio, quanto e come avesse voluto, ed avesse lasciato stare me in libertà, ché io non l'ho innamorata mai, né curata mai: e non posso capire come sia questa cosa che la sanità di Altisidora, più capricciosa che savia, abbia a che fare, come dissi altra volta, coi martirii del povero Sancio Pancia: basta, bisogna pure persuadersi che vanno pel mondo incantatori ed incanti, dei quali mi scampi Dio, poiché non so liberarmene da mia posta: e contuttociò supplico vossignoria che mi lasci dormire, né mi faccia altre dimande se non vuole che io mi disperi e mi getti da una finestra.

— Dormi pure, amico Sancio, rispose don Chisciotte, se lo puoi in onta delle ricevute spillettate, dei pizzicotti e delle guanciate che ti hanno dato.

— Nessun dolore, Sancio replicò, fu tanto grande quanto l'affronto degli schiaffi, non per altro se non perché li ho ricevuti per mano di matrone, che possano tutte profondare negli abissi; ma torno a pregare vossignoria che mi lasci dormire; mentre il sonno è un sollievo delle miserie per quelli che ne sono sopraccaricati.

— Orsù, dormi a tua voglia, disse don Chisciotte, e Dio ti accompagni.”

Si posero a dormire tutti e due, e intanto piacque a Cide Hamete, autore di questa grande istoria, di scrivere e di dar conto della ragione che mosse i duchi a ordire l'edifizio della macchina riferita. Ripiglia egli pertanto col dire che non essendosi dimenticato mai il baccelliere Carrasco di quando fu vinto e scavalcato da don Chisciotte, volle tentar nuova sorte, confidando di cavarne miglior successo. Informatosi dunque dal paggio che recò la lettera e i donativi a Teresa Pancia, moglie di Sancio, dove fosse rimasto don Chisciotte, aveva cercato nuove armi e nuovo cavallo, e aggiunta al suo scudo la bianca luna, portando ogni cosa sopra un mulo condotto da un contadino, ma non da Tomaso Zeziale, suo antico scudiere, perché non fosse riconosciuto da Sancio, né dal suo padrone. Giunto al castello del duca venne informato che don Chisciotte erasi avviato alla giostra di Saragozza, e delle burle che s'era prese di lui e di Sancio; delle quali cose tutte rise non poco e fe' le maraviglie il baccelliere, che teneva sempre la mente rivolta all'acutezza e semplicità di Sancio, ed all'estremo della pazzia di don Chisciotte. Gli aveva detto il duca che se lo trovasse, gli riuscisse o no vincerlo, ripassasse al suo castello per dargli conto di tutto il successo. Così fatto aveva il baccelliere: partì cercando di lui, nol trovò in Saragozza, passò avanti, e gli accadde quanto si è raccontato: tornato poi al castello del duca, gli disse ogni cosa colle condizioni della battaglia, e che già don Chisciotte era pronto, come buon cavaliere errante, a mantenere la sua promessa e starsene ritirato pel corso di un anno nel suo paese; nel qual tempo poteva accadere (soggiunse il baccelliere) che risanasse della sua pazzia. Assicurò che questa era l'unica intenzione che lo aveva mosso a fare quelle trasformazioni, per impedire che un cittadino tanto sensato com'era don Chisciotte, finisse pazzo del tutto, e partì poi dalla casa del duca, e tornò al suo paese, aspettandovi don Chisciotte che fedelmente lo seguitava. Tutte queste notizie furono causa delle bizzarrie del duca nel fargli le narrate burle: sì grande era lo spasso che si prendeva egli delle cose di Sancio e di don Chisciotte; ond'è che nelle lontane strade, per dove pensò che don Chisciotte dovesse passare, aveva inviati i suoi servi a piedi e a cavallo, affinché trovandolo, o per forza o per amore seco lo menassero al castello. Lo raggiunsero, e ne resero informato il duca, il quale disposto avendo ciò che immaginava di fare, non ebbe appena notizia del suo arrivo, che ordinò che fossero accese le torce e le candele dell'andito, e che Altisidora si coricasse sul catafalco con tutti gli apparati già descritti. Dice qui Cide Hamete Ben-Engeli che quanto a lui egli giudica senza esitare che fossero tanto pazzi i burlatori quanto i burlati, e che i duchi non erano due dita lontani dal meritarsi il titolo di balordi per quella loro grande smania di farsi giuoco di due scimuniti; i quali (per ritornare alla nostra narrazione) l'uno dormendo saporitamente e l'altro vegliando coi suoi fantastici pensieri, furono colti dal giorno e dalla voglia di alzarsi: ché le oziose piume, né come vinto, né come vincitore, piacquero mai a don Chisciotte.

Altisidora risuscitata, secondando l'umore dei suoi padroni, coronata colla ghirlanda medesima di cui era adorna sul catafalco, e vestita con tunicella di taffettà bianco seminata di fiori d'oro, coi capegli sciolti giù per le spalle ed appoggiata a bastone di nero e finissimo ebano, entrò nella camera di don Chisciotte. La vide egli appena, che turbato e confuso si ravvolse e coprì tutto col lenzuolo e colla coltre del letto, non articolando parola, né sapendo come trovare la via per farle alcun segno di cortesia e di riverenza. Altisidora si pose a sedere in una sedia accanto al letto, e dopo avere mandato il più profondo sospiro, con tenera e fioca voce gli disse:

— Quando le donne di alta nascita e le ritirate donzelle dànno bando all'onore, e libertà alla lingua di parlare senz'avvertenza, facendo pubblici i segreti sepolti nel loro cuore, si trovano al cattivo termine in cui io sono. Io, o signor Don Chisciotte della Mancia, sono una di queste, miserabile, vinta e innamorata; ma contuttociò onesta e sofferente tanto, che per esserlo a sì alto grado questa mia anima scoppiò pel silenzio, ed io ne perdetti la vita. Corrono due giorni da che riflettendo alla crudeltà con cui mi trattasti, o più duro del marmo alle querele mie, o perfidioso cavaliere, io ho dovuto restar morta od essere almeno giudicata tale da chi mi ha veduta: e se stato non fosse l'Amore, che sentendo pietà del caso mio, depositò il mio rimedio nei martirii di questo buono scudiere, mi troverei di già all'altro mondo.

— Sarebbe stato meglio, disse Sancio, che Amore avesse depositato il rimedio nei martirii del mio asino, che io gliene avrei anche avuto obbligo; ma mi dica di grazia, o signora (che il cielo la accomodi di altro amante più tenero del mio padrone), che cosa ha veduto ella nell'altro mondo? Che cosa c'è egli all'inferno? Donde viene che chi muore disperato abbia ad andare colaggiù per forza?

— A dirvi il vero, rispose Altisidora, io non dovetti morire interamente, giacché non entrai nell'inferno; ché se ciò fosse stato non ne avrei potuto uscire a patto alcuno: vero è bensì che giunsi sino alla porta dove stavano una dozzina di diavoli giocando alle pallottole, tutti in calze e giubbone, con collari guerniti di merletti e di reticelle fiamminghe, e con manichini che loro servivano di ribecchini a lattughe, dai quali uscivano quattro dita di braccia, acciocché le mani paressero più lunghe. In esse tenevano molte pallottole di fuoco, e quello che più mi fece stupire si fu che per formarle servivansi di certi libri all'apparenza pieni di vento e di borra, cosa mirabile e nuova; ma non fu questa la sola causa del mio stordimento, giacché lo fu pure il vedere che essendo proprio dei giuocatori il rallegrarsi chi vince e rattristarsi chi perde, a quel giuoco stavano tutti col grugno e brontolavano, e tutti si arrabbiavano e tutti si maledicevano.

— Di questa cosa non è da farsi alcuna maraviglia, rispose Sancio, perché i diavoli o giuochino o no, non possono essere mai contenti né quando perdono, né quando vincono.

— Così debb'essere, rispose Altisidora; ma c'è altra cosa che mi fece trasecolare, e fu che al primo balzo non rimaneva più palla sana, o almeno che fosse buona da giuocare altra volta, e così balzavano e si distruggevano qua e là i libri che era uno stupore. Ad uno di essi, nuovo e fiammante e ben legato, diedero sì terribile colpo da fargli schizzare fuora le budella, ond'è che le carte andarono disperse; e disse uno ad un altro diavolo:

— Guarda un poco che libro è codesto? E il diavolo rispose:

— Questo è la seconda Parte della storia di don Chisciotte della Mancia, non già composta da Cide Hamete, suo primo autore, ma dall'Aragonese che dice essere naturale di Tordesiglia. — Toglietemelo via dagli occhi, l'altro diavolo rispose, e sprofondatelo nell'abisso dell'inferno, sicché le mie pupille mai più non lo veggano.

— Tanto egli è pessimo? rispondeva l'altro.

— Tanto pessimo, soggiungeva il primo, che se io medesimo mi fossi accinto a comporlo, non ne avrei potuto fare uno peggiore;” e così seguitarono il giuoco con altri libri: ed io avendo sentito il nome di don Chisciotte, che tanto apprezzo ed amo, procurai di tenermi bene in mente quella visione.

— Visione debb'essere stata senza dubbio, disse don Chisciotte, perché al mondo non v'è un altro io; e già cotesta storia va attorno da una in altra mano, ma in alcuna non resta, poiché ognuno le dà un calcio né io mi sono punto alterato nell'udire che vo come corpo fantastico per le tenebre dell'abisso e per la luce della terra, non essendo io quegli di cui tratta cotale spuria istoria: e poi se fosse buona, fedele e veridica, vivrebbe dei secoli; ma siccome è cattiva, molto corto sarà il passo tra il suo nascere e il suo morire.”

Voleva Altisidora continuare a dolersi di don Chisciotte, quand'egli la interruppe, dicendo:

“Già vi dichiarai molte volte, o signora, che mi dispiace che voi abbiate in me collocati i vostri pensieri, perché io posso piuttosto gradirli che secondarli. Nacqui per essere di Dulcinea del Toboso; e i destini, se pure vi sono, mi hanno fatto per lei: ed è pensare all'impossibile l'immaginarsi che altra bellezza riesca ad occupare quella fede che a lei sola ho serbata: e questo vi serva di disinganno, ritirandovi nei limiti della vostra onestà, che nessuno si potrà mai obbligare a quello che non può essere.”

Sentendo questo, Altisidora fece vista di entrare in collera e di alterarsi, e gli disse:

— Viva Dio! don Merluzzo, anima di mortaio, nocciuolo di dattero, più ostinato e duro di villano pregato quando diventa cavaliero, che se io mi metto attorno ti cavo codesti occhiacci: pensi tu forse, signor don fracassato a bastonate, che io mi sia morta per causa tua? Tutto quello che stanotte hai visto è stato finzione, ché io non sono donna che per somiglianti capelli abbia a soffrire il dolore di un solo nero di ugna, non che morirmi.

— E io ne sono pienamente persuaso, soggiunse Sancio, che queste morti degli innamorati sono tutte baie: e possono bene decantarle, ma che poi le mettano in esecuzione credalo Giuda.”

Stando in questi ragionamenti, entrò il musico cantatore e poeta, che aveva gorgheggiate le due già riferite ottave, il quale, fatta a don Chisciotte profonda riverenza, disse:

— Mi conti vossignoria, signor cavaliere e mi tenga nel novero dei suoi più fidati servidori, ch'è molto tempo che io me le sono affezionato sì per la celebrità ch'ella gode come per le imprese che vanta.”

Don Chisciotte gli rispose:

— Mi dica la signoria vostra chi ella è, affinché la mia civiltà corrisponder possa ai suoi meriti.”

Rispose il giovane:

— Io sono il musico ed il panegirista della notte scorsa.

— Per certo; replicò don Chisciotte, ch'ella ha voce eccellentissima, ma quello ch'ella cantò non mi parve che cadesse gran fatto a proposito, che hanno a fare le ottave di Garcilasso con la morte di questa signora?

— Di questo non si meravigli vossignoria, riprese il musico, ché tra gl'intonsi poeti dell'età nostra è alla moda la piena libertà dello scrivere e del rubare dagli altri autori; e venga o non venga a proposito quello che scrivono, non vi è scioccheria che non mettano in versi e in musica attribuendola a licenza poetica.”

Don Chisciotte avrebbe voluto replicare, ma ne fu impedito dai duchi venuti essi pure a visitarlo, e coi quali tenne lungo piacevole dialogo, prendendovi parte anche Sancio, il quale disse tante facezie e tante malizie, che i duchi non si saziavano mai di sentire tanta furia di semplicità e di acutezze. Li supplicò don Chisciotte che lo lasciassero partire in quel giorno medesimo, poiché ai vinti cavalieri come lui conveniva meglio di soggiornare in porcile che in palagio reale. Vi acconsentirono di buon grado, e la duchessa gli dimandò se Altisidora restata fosse nella sua buona grazia. Rispose:

— Sappia, signora mia, che tutto il male di questa donzella nasce dal suo ozio, il cui rimedio non in altro consisterebbe che in una onesta ed incessante occupazione. Mi disse poco fa che nell'inferno si usano le reticelle e siccome ella deve saperle fare, badi ad ordirne, e così occupandosi in dimenare i piombini, la sua immaginazione non troverà pascolo negli oggetti ai quali ha donato il suo cuore; è questa verità, è questo il mio parere, è questo il mio consiglio.

— Ed anche il mio, soggiunse Sancio, che parlando per esperienza dico che non ho visto mai reticellaia che sia morta per innamoramento. Una donzella occupata nel lavoro pone più presto i suoi pensieri in finire il suo compito che in pensare agli amori; e in questo pigli esempio da me, che quando sto zappando non mi ricordo punto del mio idolo, voglio dire se la mia Teresa Pancia mi voglia bene più che alle pupille dei suoi occhi.

— Voi parlate da grande uomo, disse la duchessa, ed io farò che la mia Altisidora si impieghi da ora innanzi in cucire lenzuola e camicie ed altra biancheria; lavori ch'ella conosce molto bene.

— Non occorrerà, disse allora Altisidora, che la signoria vostra si serva di questo rimedio, mentre basterà a cancellare dalla mia memoria questo maledetto bestione con la considerazione della sua crudeltà; e con licenza di vostra grandezza voglio levarmi di qua per non vedermi più davanti agli occhi, non dirò la sua trista figura, ma il suo brutto ed abbominevole mostaccio.

— Mi pare, signorina mia; disse allora il duca, che siamo a quello che si suol dire: Chi ingiuria è prossimo a perdonare.”

Altisidora fece vista di rasciugarsi le lagrime col fazzoletto, e riveriti sommessamente i suoi padroni, se ne uscì dalla camera.

— Io ti annunzio, o povera donzella, disse Sancio, io ti annuncio malaventura: poiché tu te la sei pur questa volta pigliata con animuccia di giunco marino e con cuore di quercia, ma affé che se fossi stato io il provocato da te, tu sentiresti adesso altro suono.

Il discorso terminò; don Chisciotte si vestì, desinò coi duchi e partì quella stessa sera.


CAPITOLO LXIX

 

DI CIÒ CHE ACCADDE A DON CHISCIOTTE CON SANCIO NEL RESTITUIRSI AL PAESE NATIVO.

 

La mente di don Chisciotte era per una parte molto concentrata nei suoi pensieri, e molto lieta per l'altra. La sua tristezza procedeva dall'essere stato vinto, e la sua allegrezza dal considerare la virtù mostrata da Sancio nel procurare il ritorno in vita di Altisidora, tuttoché egli covasse in sé qualche dubbio che la innamorata donzella non fosse morta daddovero. Sancio non andava lieto per niente; ché gli doleva che Altisidora non gli avesse mantenuta la promessa di dargli le sei camicie; e pensando e ripensando a questa cosa sola, disse al padrone: — Certo, signor padrone, che io sono il medico più sfortunato che viva al mondo; poiché se ne trovano molti che dopo aver ammazzati gli infermi, vogliono essere pagati delle loro fatiche; e queste consistono in firmare una polizzetta di certi rimedii che non fanno essi, ma sono figli della testa dello speziale. A me invece la sanità degli altri è costata gocce di sangue, schiaffi, pizzicotti, punture e frustate, e non mi hanno dato neppure un maravedis. Giuro a Dio che se mi mettono per le mani un altro infermo, prima che io lo medichi mi hanno da ungere bene le mani, che l'abate mangia di quello ch'egli canta, né mi persuaderò mai che Dio mi abbia dato questa virtù, perché la comunichi agli altri amore et gratia.

— Tu hai ragione, amico Sancio, rispose don Chisciotte, e Altisidora si è portata male assai nel non darti le promesse camicie, ma pensa che la virtù che possiedi è gratis data, perché non ti costò veruno studio, ché non si vuole studio di sorta per farsi martoriare la persona: ti dirò ben io che se tu avessi voluto essere pagato per le frustate indispensabili al disincanto di Dulcinea, io ti avrei dato il più generoso guiderdone, quando però non mi fosse venuto il sospetto che il premio non avesse resa inefficace la medicina: ma già mi pare che non si perderà niente a farne la prova. Orsù, veniamo a patti, Sancio mio caro, guarda quanto pretendi, e frustati subito e pagati in moneta sonante, giacché tu hai i miei danari nelle tue mani.” Sancio spalancò gli occhi ed allungò il collo a questa offerta, ed in cuor suo stabilì di frustarsi di molta buona voglia, sicché disse al padrone: — Penso di dare gusto a vossignoria in quello che desidera con mio utile; perché l'amore che porto a Teresa Pancia ed ai figliuoli è causa che mi abbia a dimostrare interessato. Ora mi dica a quanto mi pagherà ogni frustata. — Se ti avessi a pagare, o Sancio, rispose don Chisciotte, nella misura che merita la grandezza e qualità di questo rimedio, sarebbero poca cosa i tesori di Venezia e le miniere del Potosi, ma fa conto su quello che tieni di ragion mia, e metti tu stesso la tassa ad ogni frustata. — Sono, rispose Sancio, tremila trecento e tante: cinque, me ne ho date a conto, e restano le più; e entrino tra le tante le cinque, e riduciamoli a tremila e trecento, che ad un quarticello per una (che non ne vorrei meno se tutto il mondo me lo comandasse) ammontano, per le tremila, a tremila quarticelli che sono mille e cinquecento mezzi reali, che vengono a formare settecento cinquanta reali, e le trecento fanno centocinquanta mezzi reali, che vengono ad essere settantacinque reali, i quali aggiunti ai settecentocinquanta, sono in tutto ottocento venticinque reali. Questi io li diffalcherò da quelli che tengo di ragione di vossignoria, e provveduto e contento tornerò in casa mia, comunque bene frustato; ché già non si può avere il male senza le mosche. — O Sancio benedetto! Sancio amabile! rispose don Chisciotte, oh quanto ci troveremo obbligati, Dulcinea ed io, a servirti nei giorni tutti che ci donerà il cielo di vita! Se torna Dulcinea al primiero suo essere (che non è possibile che non torni) fortuna si potrà dire la sua disgrazia, felicissima e trionfante la mia passata sconfitta. Ora pensa tu quand'è che vuoi dare principio alla disciplina, che io per abbreviarne il termine ti aggiungo dieci reali. — Quando? disse Sancio: in questa notte senza alcun fallo; e procuri vossignoria che ci troviamo in campagna a cielo scoperto, che io diserterò queste mie povere carni.”

Giunse la notte attesa da don Chisciotte colla maggiore ansietà, sembrandogli che le ruote del carro di Apollo si fossero fracassate e che si allungasse il giorno oltre l'usato; al modo appunto che accade agli innamorati, i quali non aggiustano mai la partita dei loro desiderii. Penetrarono finalmente in un albereto poco distante dalla strada maestra, dove lasciando vôta la sella e la bardella di Ronzinante e del leardo, si coricarono sulla verde erba, e cenarono della provvisione che seco portava Sancio; il quale, facendo del capestro e della cavezza del leardo una forte e pieghevole disciplina, si scostò dal suo padrone intorno a venti passi, e andò presso alcuni faggi. Don Chisciotte che lo vide andare con animo risoluto ed ardito, gli disse: — Bada, amico, di non maltrattarti soverchiamente; lascia tempo tra una frustata e l'altra, né accelerarne troppo il corso, affinché sul bel mezzo non ti venga a mancare il fiato; e voglio dire che le frustate non sieno tanto terribili che ti abbia a mancare la vita prima che si compia il numero stabilito: ma perché tu non pecchi nel troppo né nel troppo poco, io starò qui in un canto e conterò con questa corona le frustate che ti darai; ed ora il cielo ti secondi conformemente al merito della tua buona intenzione.

— Al buon pagatore non gli dolgono i pegni, disse Sancio, ed io penso di disciplinarmi in maniera da sentire il dolore, ma senza ammazzarmi, che in questo appunto deve consistere la sostanza del miracolo.” Si spogliò dalla cintola all'insù, e acchiappata la funicella, cominciò a flagellarsi, e don Chisciotte a noverare le frustate. Doveva aversene date Sancio intorno a sei o otto, che gli parve troppo brutto il giuoco e troppo vile il prezzo, e fermandosi un poco disse al padrone, che protestava di essersi ingannato, perché ognuna di quelle frustate meritava mezzo reale, e non un solo quartuccio. — Tira pure innanzi Sancio mio, non perderti di animo, gli rispose don Chisciotte, che raddoppierò la posta. — Se così è, disse Sancio, piovano le frustate;” ma il volpone in vece di battersi le spalle andava battendo gli alberi, e mandava di tanto in quanto certi gemiti sì lunghi che ad ognuno di essi pareva che l'anima dovesse scappargli fuori. Don Chisciotte, ch'era tenero di cuore e timoroso che Sancio non lasciasse la vita, e in conseguenza non potesse egli giungere al suo intento per la imprudenza dello scudiere, si fece a dirgli: Per vita tua, amico, non tirare più innanzi, che questa medicina mi pare crudele, e sarà bene dar tempo al tempo, che Roma non si costrusse in un'ora: ti sei date, se non ho contato male, più di mille frustate, e bastino queste per ora, ché l'asino sopporta il carico, ma non il sopraccarico. — No, no, signor mio non voglio che si dica di me: Chi paga innanzi è servito dopo; si scosti un poco, e mi lasci dare non meno di altre mille frustate, ché a due levate di queste avremo saldata la partita ed anche ne sopravanzeranno. — Poiché sei in sì buona disposizione, replicò don Chisciotte, il cielo ti aiuti, e continua pure che io mi metto d'accanto.” Tornò Sancio al suo giuoco con tanto fervore, che aveva già levata la corteccia al tronco dell'albero: sì grande era la violenza con cui frustava; ed una volta con voce sonora dando una fortissima scudisciata ad un faggio, disse:

— Qua morrai, Sansone, e quanti sono con te.”

All'udire questo doglioso accento, e al colpo della strepitosa percossa volò don Chisciotte e prendendo il torto capestro che servì a Sancio per istrumento di disciplina, gli disse:

— Non permetta la sorte, o Sancio amico che per soddisfar me, tu perda una vita che deve servire per sostentare la tua moglie e i tuoi figliuoli; aspetti pure Dulcinea migliore congiuntura, che io mi conterrò nei limiti di una propinqua speranza, e attenderò che nuove forze tu riacquisti, perché abbia termine questo negozio con soddisfazione di tutti i noi.

— Poiché così piace a vossignoria, rispose Sancio, così sia alla buon'ora, e intanto mi getti il suo ferraiuolo sopra le spalle, che io sto sudando, e non vorrei raffreddarmi, ché questo è il risico in cui incappano tutti i nuovi disciplinati.”

Don Chisciotte secondò le preghiere di Sancio, e restando in farsetto, lo coprì, ed egli si addormentò sino a tanto che lo destò il sole, e poi continuarono il viaggio, il quale per allora ebbe fine in un paese ch'era di là lontano tre leghe.

Presero alloggio all'osteria, che don Chisciotte riconobbe per tale e non per castello circondato di fosse, di torri, di rastelli, con ponte levatoio; mentre dopo la sua ultima disfatta cominciava ad essere un poco più ragionevole, come ora si dirà. Si posero in una sala terrena addobbata, in vece di paramenti, con cuoi di sargie vecchie, dipinte, come si usa tra i contadini. In una di esse era figurato da pessima mano il ratto di Elena, quando il perfido ospite la tolse a Menelao, ed in altra vedeasi la storia di Didone e di Enea, ella su un'alta torre in atto di far segno con un pannolino all'ospite fuggitivo, ed egli che andava navigando per mare su una fregata o brigantino. Notò Sancio nelle due istorie che Elena non andava di malavoglia, perché rideva di soppiatto e maliziosamente, ma che la bella Didone sgorgava dagli occhi lagrime grosse quanto una noce. Vedendo ciò don Chisciotte disse:

— Furono sventuratissime ambedue queste donne per non essere nate nella età nostra, ed io disgraziato sopra tutti per non avere nella età loro veduto la luce del giorno: ché se io fossi stato a quei tempi, né arsa sarebbe Troia, né distrutta Cartagine, e solo che io avessi ammazzato Paride sarebbesi ovviate tante disgrazie.

— Io mi farò turco, disse Sancio, se non accadrà fra alquanti anni che in ogni bettola, in ogni osteria, in ogni bottega di barbiere si avrà a vedere dipinta l'istoria delle nostre prodezze; ma vorrei che la dipingessero pittori più esperti di colui che ha sgorbiate queste.

— Hai ragione, o Sancio, disse don Chisciotte, perché questo pittore è come Orbanescia di Ubeda, il quale interrogato che cosa dipingesse, rispondeva: Quello che verrà fuori; e se dipingeva un gallo vi scriveva di sotto: Questo è un gallo; affinché qualcuno non lo credesse una volpe. Ed a costui sembrami, o Sancio, che assomigliare si possa lo scrittore che mise in luce la storia del nuovo don Chisciotte, in cui è gettato giù tutto quello che dalla penna usciva, senza criterio; e si potrebbe anche dire ch'egli abbia fatto come un poeta che trovavasi alla Corte negli anni andati, chiamato Maulone, il quale rispondeva improvvisando a quante cose gli domandavano; chiedendogli un tale che cosa significasse Deum de Deo? rispose: Dia dove dia. Ma lasciando questo da parte, dimmi se fai pensiero, o Sancio, di affibbiarti un'altra frustatura stanotte, e se vuoi che sia piuttosto sotto il tetto che a cielo scoperto.

— Per dinci, Sancio rispose, che per quello che io penso di darmi, tanto fa che sia in casa come in campagna: per altro vorrei che fosse tra gli alberi, mentre mi pare che mi accompagnino e mi aiutino mirabilmente a sopportare tanta fatica.

— Non ha da essere per questa notte né l'uno, né l'altro, rispose don Chisciotte, affinché tu abbia agio di rinfrescare le tue forze e arrivare in buon essere alla nostra Teresa, presso cui giungeremo al più tardi domani.”

Sancio rispose che facesse il piacer suo, ma ch'egli bramava sollecitare la conclusione di quel negozio a sangue caldo, e quando gliene veniva voglia, perché l'indugio suole apportare pericolo; e aiutati che ti aiuterò, ed è meglio uccelletto in mano che avvoltoio in aria.

— Non più proverbi, o Sancio, te ne scongiuro, disse don Chisciotte, che sembra che tu ritorni al sicut erat; parla pianamente e alla liscia e senza contorcimenti, come tante volte ti ho detto, e vedrai come un pane ti vale per cento.

— Io non so che maledetta disgrazia sia la mia, disse Sancio, che non posso dire parola senza che c'incorpori qualche proverbio, né dire proverbio che non mi paia parola, ma se potrò mai mi emenderò;” e con questo cessò per allora il ragionamento.


CAPITOLO LXX

 

DON CHISCIOTTE E SANCIO ARRIVANO AL LORO PAESE.

 

Tutto quel giorno si trattennero don Chisciotte e Sancio in quel paese e in quell'osteria aspettando la notte, Sancio per finire in campagna aperta l'intero compito della sua disciplina, e don Chisciotte per vederne il fine in cui consisteva quello di ogni suo desiderio. Giunse frattanto all'osteria un passeggero a cavallo, seguito da tre o quattro servi, uno dei quali disse a colui che pareva essere il padrone: — Può la signoria vostra, signor don Alvaro Tarfe, starsene qua a passare le ore più calde giacché le stanze mi paiono pulite e fresche.” Sentendo questo, don Chisciotte disse a Sancio: — Ascoltami, Sancio, quando io scartabellai quel libro della seconda parte della mia istoria, mi parve di avervi trovato di passaggio questo nome di don Alvaro Tarfe. — Questo può essere, rispose Sancio; ma aspettiamo un poco che venga questo signore, e gliene dimanderemo.” Smontò il cavaliere, e l'ostessa lo fece entrare in una sala terrena dirimpetto alla stanza di don Chisciotte, adorna di vecchie sargie dipinte come quelle che trovavansi nell'altra camera contigua. Si pose il cavaliere arrivato di fresco un vestito d'estate e passando al portico dell'osteria, che era spazioso e fresco, ed ove stava don Chisciotte passeggiando così lo interrogò: — Per dove è diretto, galante signor mio?”

E don Chisciotte rispose; — Per il paese ch'è qua vicino, dove io sono nato; e vossignoria per dove? — Io, o signore, rispose il cavaliere, vado a Granata mia patria. — È bella patria, replicò don Chisciotte; ma dicami per favore come si chiama vossignoria, poiché ho un presentimento che debba importarmi il saperlo. — Don Alvaro Tarfe è il mio nome,” rispose il viaggiatore, cui don Chisciotte replicò: — Crederei senza tema d'ingannarmi che dovesse essere vossignoria quel don Alvaro Tarfe che va impresso nella seconda parte dell'istoria di don Chisciotte della Mancia, scritta di recente e data alla luce del mondo da un moderno autore? — Io sono quel desso appunto, rispose il cavaliere; e Chisciotte, soggetto primario di quella storia, fu mio grandissimo amico, e quello io fui che lo cavai dal suo paese, od almeno lo indussi a seguitarmi per certa giostra che si faceva in Saragozza dov'io era diretto, e davvero che gli ho prestati molti buoni servigi, ed ho il merito io solo di aver fatto che il boia non gli cacciasse le mosche dalle spalle; per essere egli uomo audacissimo. — Dicami, di grazia, soggiunse don Chisciotte, pare a lei, signor don Alvaro, che io somigli a questo tale don Chisciotte che ricorda vossignoria? — No certamente, rispose l'altro; no a patto alcuno. — E questo don Chisciotte, soggiunse il nostro, aveva egli seco uno scudiere Sancio Pancia? — Sì, lo aveva, soggiunse don Alvaro, e tuttoché avesse fama di essere graziosissimo, io non ho mai sentito da lui cosa detta con garbo. — Lo credo anch'io, disse allora Sancio, perché il dire galanterie e cose graziose non è da tutti; e questo Sancio di cui ella parla, signor galante, debb'essere stato qualche birbone e sgarbato ed anche ladro; mentre il vero Sancio Pancia sono io che ho tante gentilezze che pare mi sieno piovute addosso; e se vossignoria non lo crede, facciane l'esperienza, e vengami dietro per un anno almanco, e vedrà che ad ogni tratto mi scappano fuori tanto frequenti, che senza ch'io sappia il più delle volte quello ch'io mi dica, fo ridere quanti mi ascoltano. Il vero don Chisciotte della Mancia, il famoso, il valente, il discreto, l'innamorato, il disfacitore di torti, il tutore dei pupilli e degli orfani, il protettore delle vedove, l'ammazzatore delle donzelle, quello che tiene per unica sua signora la senza pari Dulcinea del Toboso, è poi questo signore ch'ella vede qua in corpo ed in anima, e che è il mio padrone: ed ogni altro don Chisciotte, ed ogni altro Sancio Pancia, sono cose da burla e da sogno. — Per mia fe', che lo credo, rispose don Alvaro, mentre voi avete detto più grazie, o amico, in queste poche parole che adesso ho sentite, di quante io ne abbia raccolte dall'altro Sancio Pancia comunque parlasse pur molto. Egli aveva più del ghiotto che del garbato, più del goffo che del grazioso, ed io tengo per cosa certa che gli incantatori che perseguitano don Chisciotte il buono, abbiano voluto perseguitare anche me in don Chisciotte il cattivo; né intendo punto quello che voi mi dite, perché potrei giurare che l'ho lasciato rinchiuso nello spedale dei pazzarelli in Toledo affinché lo curino, e poi trovo ora qua altro don Chisciotte ben diverso dal mio. — Io, disse don Chisciotte, non so se mi sia il buono: so bene che non sono il cattivo, e in prova di ciò bramo che sappia vossignoria, il mio signor don Alvaro Tarfe, che per tutto il corso di mia vita non ho messo mai piede in Saragozza: anzi, per essermi stato detto che cotesto don Chisciotte fantastico erasi trovato alla giostra in quella città, non volli neppure entrarvi, a fine di costituirlo mentitore in faccia a tutto il mondo: e così me ne andai a dilungo in Barcellona, sede della cortesia, albergo dei forestieri, spedale dei poveri, patria dei valorosi, ricetto degli offesi, esempio di reciproche, leali amicizie, ed in sito ed in bellezza città unica. Tuttoché le cose che quivi mi sono accadute non sieno punto piacevoli e mi abbiano dato molto rammarico, nientedimeno io le sopporto volentieri pel piacere di averla veduta: insomma persuadasi, signor don Alvaro Tarfe, che io sono il verace don Chisciotte della Mancia, quello stesso cui bandisce la fama, e non quel disgraziato che ha voluto usurpare il mio nome ed onorare se stesso coi miei pensieri; ed ora supplico vossignoria per obbligo che ha come cavaliere, che le piaccia dichiarare dinanzi al giudice di questo paese che ella mi ha veduto oggi per la prima volta, e ch'io non sono quel don Chisciotte che va impresso nella seconda parte, né questo Sancio Pancia, mio scudiere, è quello che fu conosciuto da vossignoria. — Vi servirò di molta buona voglia, rispose don Alvaro, quantunque riesca stravagante il vedere due Chisciotti e due Sanci ad un tempo, tanto conformi nei nomi e tanto diversi nelle azioni, e torno a dire, che dovrò confessare di non aver veduto quello che ho veduto; e che non sia successo quello che è successo. — Certamente, disse Sancio, che la signoria vostra debba essere incantata come lo è la mia signora Dulcinea: e volesse Dio che io valessi a disincantarla col darmi tremila e tante frustate, che me le darei senza alcun interesse. — Non so quello che voi vogliate dire di frustate,” disse don Alvaro; e Sancio rispose ch'era cosa lunga da raccontare, ma ch'egli avrebbe detto tutto se fossero andati insieme per la stessa strada.

Giunse frattanto l'ora del pranzo, nel quale si fanno compagni don Chisciotte e don Alvaro, e mentre desinavano giunse per caso il giudice del comune nell'osteria con un notaio. Al cospetto di esso giudice fece don Chisciotte una domanda in tutta equità la quale era che don Alvaro Tarfe ivi presente dichiarasse dinanzi a sua signoria che conosceva quel don Chisciotte della Mancia, che era ivi presente, ma ch'era diverso di quello che si andava stampando in una storia intitolata: Seconda parte di don Chisciotte della Mancia, composta da un tale Avelloneda nativo di Tordesiglias. Il giudice provvide giuridicamente ed il notaio fece la dichiarazione colle forme. Rimasero allora molto lieti don Chisciotte e Sancio, come se quella dichiarazione fosse cosa per loro di somma importanza onde mostrare con ogni chiarezza la differenza fra i due don Chisciotti e i due Sanci, fra le loro opere e le loro parole.

Si fecero molti complimenti ed offerte fra don Alvaro e don Chisciotte, e il gran Mancego mostrò la sua saggezza cavando don Alvaro dall'errore in cui stava, e facendogli credere di essere stato incantato, poiché toccava palpabilmente due don Chisciotti sì diversi l'uno dall'altro. Venne la notte, partironsi da quell'osteria, ed alla distanza di mezza lega presero due differenti strade, l'una che menava alla patria di don Chisciotte, l'altra che era quella intrapresa già da don Alvaro. Nel breve spazio di tempo che furono in compagnia, don Chisciotte confessò la disgrazia della sua disfatta e l'incanto e il rimedio di Dulcinea, cose tutte che accrebbero l'ammirazione in don Alvaro, il quale abbracciati don Chisciotte e Sancio, seguitò la sua strada. Don Chisciotte consumò la vegnente notte fra gli alberi, per dar campo a Sancio di compire la sua penitenza, che la terminò nel modo stesso dalla notte antecedente, più a spese delle cortecce dei faggi che delle sue spalle, le quali custodì con gelosia tale che le frustate non avrebbero potuto cacciare una mosca se vi si fosse posta. L'ingannato don Chisciotte non isbagliò nel conto di un solo colpo, e trovò che, con quelle dell'altra notte, sommavano a tremila e ventinove. Pare che il sole avesse anticipato il suo nascere per essere testimonio di quel sagrifizio, ed alla sua luce, ripreso il cammino, padrone e scudiere ragionavano insieme sull'inganno di don Alvaro e molto lodavansi dell'aver voluto pigliare la sua dichiarazione per via di giustizia e con tutta l'autenticità.

In quel giorno, e nella notte seguente, viaggiarono senzaché accadesse loro cosa degna di essere memorata, se non fosse che Sancio diede intero compimento alla sua frustatura, di che rimase don Chisciotte soprammodo contento, ed aspettavasi già di trovare per istrada al rinascere del dì la sua Dulcinea disincantata. Infatti non si abbatteva egli in donna senza bene esaminarla per riconoscere se fosse Dulcinea del Toboso, tenendo per cosa infallibile che non avessero a riuscire mendaci le promesse di Merlino.

Con siffatti pensieri e desiderii montarono su un'altura, da dove scopersero il loro paese, alla cui vista Sancio si pose ginocchione e disse: — Spalanca gli occhi, o sospirata mia patria, e guarda che torna a te Sancio Pancia, tuo figliuolo, se non molto ricco, almanco molto bene frustato; stendi le braccia, e ricevi similmente il tuo figliuolo don Chisciotte, che se fu vinto dalle braccia altrui, torna però vincitore di sé medesimo, lo che, per quanto egli mi ha insegnato, è la vittoria più grande che possa darsi. Io porto meco danari, perché se mi sono frustato non l'ho fatto senza mio interesse.

— Pon fine a coteste stoltezze, disse don Chisciotte, ed entriamo in buon'ora nella nostra terra, dove daremo pascolo alle nostre immaginazioni e ordine alla vita pastorale che abbiamo pensato di esercitare.

Con questo vennero alla china, e si avviarono al loro paese.


CAPITOLO LXXI

 

DEGLI AUGURI CH'EBBE DON CHISCIOTTE ALL'ENTRARE NEL SUO PAESE CON ALTRI AVVENIMENTI CHE ADORNANO E ACCREDITANO QUESTA GRANDE ISTORIA.

 

All'ingresso nella terra natale, per quanto ci narra Cide Hamete Ben-Engeli, vide don Chisciotte che stavano in piazza a contendere due ragazzi e l'uno diceva all'altro: — Non ti affaticare, Periquillo, ché tu non la vedrai se campassi mille anni.” Udì questo don Chisciotte e disse a Sancio: — Hai tu sentito quello che ha detto quel ragazzo? Tu non la vedrai se campassi mille anni. Che importa a noi che abbia dette queste parole? rispose Sancio. — Che importa? replicò don Chisciotte: non comprendi tu che applicandole alle mie intenzioni vogliono significare ch'io non rivedrò la senza pari Dulcinea del Toboso?”

Stava Sancio per rispondergli, quando ne fu distolto dal vedere una lepre che fuggiva perseguitata dai levrieri e dai cacciatori, e che tutta impaurita venne ad accovacciarsi sotto le gambe del suo leardo. La pigliò Sancio a mano salva, e la presentò a don Chisciotte, il quale esclamò: — Male signum, male signum! Che malaugurio può mai cavarsene?” I due ragazzi che contrastavano corsero a vedere la lepre, e Sancio dimandò ad uno di essi perché contendessero. Quello che aveva detto: — Tu non la vedrai se campassi mille anni,” rispose che aveva tolta al suo compagno una gabbia da grilli, ed aveva protestato di non restituirgliela mai più.

Arrivarono intanto i cacciatori, domandarono della lepre, e don Chisciotte la consegnò. Continuavano la loro strada quando incontrarono all'improvviso il baccelliere Sansone Carrasco ed il curato che recitava l'uffizio.

Smontò don Chisciotte, e li abbracciò strettamente. Stavano sulla porta la serva e la nipote, le quali avevano già avuto nuova del suo arrivo e l'avevano anche data a Teresa Pancia, moglie di Sancio, la quale tutta scapigliata, in carpetta, e menando per mano Sancetta, sua figliuola, corse a vedere il marito. Scorgendo che non era sì bene assettato della persona come pensava che dovesse essere un governatore, gli disse: — Che vuol dire, marito mio, che tu torni a questa maniera? Ei mi pare di vedere un mascalzone, un pelapiedi, e tu hai più cera da disgovernato che da governatore. — Taci, taci, Teresa, rispose Sancio, che il più delle volte l'uomo pensa che sia una cosa, ed è un'altra, né sempre dove sono stanghe v'è carne secca, e andiamo a casa che ti racconterò maraviglie e ti mostrerò i denari (che importa più di tutto) guadagnati colla mia industria, e senza danno di alcuno.

Don Chisciotte, senza aspettare termini, né ore, si appartò nello stesso punto col baccelliere e col curato, e confessò loro alle brevi la sua disfatta e l'obbligo in cui era di non uscire più, durante un anno, dal suo paese; il che avrebbe eseguito con rigore, né sarebbe uscito per un minuto, a solo fine di non trasgredire alla puntualità dovutasi all'ordine dell'errante cavalleria. Raccontò poi che aveva divisato di farsi, durante quell'anno, pastore. Supplicò in fine i suoi due amici, che se non avessero avuto grandi faccende, volessero diventare compagni suoi, che già aveva pensato a tutto. Il curato gli disse: — Vorrei sapere quali saranno i nostri nomi.

Rispose don Chisciotte che aveva a sé imposto il nome di Chisciottizzo pastore, al dottore quello di Carrascone, al curato quello di Curatambo, e a Sancio Pancia quello di pastore Pancino. Ognuno della casa stupì della nuova pazzia di don Chisciotte; ma perché non lasciasse un'altra volta il paese, né se ne tornasse alle sue cavallerie, si offrirono per compagni suoi nel suo nuovo esercizio. — E tanto più volentieri, disse Sansone Carrasco, che, come sa tutto il mondo, io sono poeta celeberrimo, e potrò ad ogni istante comporre versi pastorali e cortigiani, e come mi verrà meglio, purché non meniamo vita oziosa tra quelle catapecchie che dovremo abitare: ma poi importerà molto, signori miei, che ciascuno di noi elegga il nome della pastora, che sarà da celebrarsi nei nostri componimenti e che non si lasci arbore per duro che sia senzaché porti inciso il suo nome, com'è uso e costume di tutti gl'innamorati pastorelli. — Stupenda è questa osservazione, disse don Chisciotte, ma a me non accade di eleggere il nome della mia pastora, mentre voglio conservare quello della senza pari Dulcinea del Toboso, gloria di queste spiagge, ornamento di questi prati, sostegno della bellezza, modello della grazia, soggetto in somma su cui potrebbe fondarsi bene ogni lode per iperbolica che si fosse. — Va benissimo, soggiunse il curato, quanto a voi, e quanto a noi andremo cercando dove vorrà la sorte pastorelle più dozzinali, che se non ci quadreranno bene non possano almeno annoiarci. — Quanto a questo, disse Sansone Carrasco, se fossimo imbarazzati sulla scelta dei nomi, non ci mancherebbero quegli che sono in istampa e dei quali è pieno il mondo: Fillide, Amarilli, Diana, Florida, Galatea, Belisarda, già si vendono per le piazze, e non sarà poi gran cosa se verranno comprati da noi, e tenuti per nostri, e se per sorte la mia dama pastora si chiamasse Anna, io la celebrerei sotto il nome di Anarda, e se Francesca, la chiamerei Francenia, e se Lucia, Lucinda; che tutto viene ad essere una pietanza medesima: e Sancio Pancia (se pure avrà luogo nella nostra compagnia) potrà celebrare sua moglie Teresa Pancia col nome di Teresaina.”

Rise don Chisciotte dell'applicazione del nome, ed il curato portò alle stelle l'onorata ed onesta sua risoluzione, e si offrì di nuovo a tenergli compagnia in tutto il tempo che potrebbe disporre dopo adempiti gli obblighi suoi. Dopo questi discorsi si licenziarono, e pregarono e consigliarono don Chisciotte che avesse cura della sua salute e che badasse a governarsi il più che potesse.

La nipote e la serva avevano ascoltato tutto il dialogo seguìto fra i tre, e subito che i due se ne furono andati, l'una e l'altra entrarono nella camera di don Chisciotte, e la nipote gli disse: — Che faccenda è questa, signor zio? Adesso che noi altre pensavamo che vossignoria tornasse a ridursi a casa sua ed a condurre con noi vita quieta e onorata, ella vuole entrare in nuovi labirinti facendosi pastorello! Oh il bel pastorello! Vien qua, passa di là; eh! sappia pure che coll'orzo verde non si fanno zampogne.” Soggiunse la serva: — Come potrebbe vossignoria sopportare alla campagna i calori della state, i freddi dell'inverno, gli urli dei lupi? Questi sono esercizi da uomini forti e robusti, e allevati a quel mestiere sino dalle fascie, e sarebbe forse manco male l'essere cavaliere errante piuttosto che pastore: ci pensi vossignoria, pigli il mio consiglio, ché non glielo do mica dopo essere satolla di pane e di vino, ma a corpo digiuno e con i cinquant'anni che ho sulle spalle: stia a casa sua, tenga occhio attento alla sua roba, si confessi spesso, soccorra i poveretti, e se gliene riesce male dica che io sono cattiva femmina. — Tacete, figliuole, rispose don Chisciotte, ché io so benissimo quello che mi conviene, e infrattanto menatemi a letto che mi pare di non istar troppo bene. Tenete per certa cosa che, divenga io cavaliere errante o pastorello, non mancherò mai di aiutarvi di quello che avrete bisogno, e di accudire ai miei affari, come lo sperimenterete in effetto.” Le buone donne, ché tali erano senza dubbio serva e nipote, lo condussero a letto, e gli apprestarono il cibo ed ogni più affettuosa assistenza.


CAPITOLO LXXII

 

COME DON CHISCIOTTE CADDE AMMALATO, E DEL TESTAMENTO

CHE FECE E DELLA SUA MORTE.

 

Conciossiacosaché le umane cose non possono essere eterne, declinando elleno sempre dai loro principî finché giungono all'ultimo fine, e ciò è specialmente proprio delle vite degli uomini, così non avendo la vita di don Chisciotte alcun particolare privilegio dal Cielo che la conservasse, pervenne al suo termine ed all'ultima sua ora quando egli meno se la aspettava. O fosse la malinconia che s'ingenerava in lui per essere stato vinto, ovvero la disposizione del Cielo che così ordinava, fu preso da una febbre che lo tenne sei giorni a letto, nei quali era sempre visitato dal curato, dal baccelliere e dal barbiere, suoi amici, oltre di che il suo buon scudiere Sancio Pancia non si discostò mai dal suo capezzale. Sospettavano tutti che il cordoglio di essere stato vinto e di non poter vedere compiti i suoi voti colla libertà e col disincanto di Dulcinea lo avesse ridotto a quello stato, e però tentavano ogni via per distrarlo, dicendogli il baccelliere che stesse di buon animo e pensasse ad escire dal letto a fine di dare cominciamento al pastorale esercizio, per cui aveva già apparecchiata un'egloga che ne disgradava quante ne avesse composte il celebre Sanazzaro; ed in oltre che aveva già comperato co' suoi propri danari due valentissimi cani per custodia del bestiame, l'uno chiamato Barcino, l'altro Butrone, venduti a lui da un pecoraio di Chintanar. Ma non per questo don Chisciotte poteva togliersi d'intorno la malinconia. I suoi amici chiamarono allora il medico, che gli tastò il polso, e non se ne mostrò punto contento: anzi disse che era bene attendere alla salute dell'anima, perché quella del corpo stava in pericolo. Don Chisciotte lo ascoltò con animo riposato, ma non così fu della sua serva, della nipote e dello scudiere, i quali cominciarono a lagrimare dirottamente, come se già se lo vedessero morto. Il parere del medico fu che stesse per consumarsi una vita troppo oppressa di disgusti e di afflizioni. Pregò allora don Chisciotte che lo lasciassero solo, perché voleva dormire un poco, e così fecero; ed egli dormì un sonno di oltre sei ore, così profondo, che la serva e la nipote temevano che non si avesse a risvegliare mai più. Si destò finalmente, passato quel tempo, e con alta e sonora voce disse: — Benedetto sia l'onnipotente Iddio che tanto bene ci ha fatto! Le sue misericordie non hanno confine né dai peccati degli uomini vengono mai impedite o menomate!” Stette la nipote attenta alle parole dello zio, e le parvero più a proposito di quelle ch'egli solesse dire, durante almeno quella malattia. Ella gli dimandò: — Che cosa dice signor zio? Vi è niente di nuovo? Di che misericordie intende ella? Di che peccati degli uomini? — Le misericordie, o nipote mia, rispose don Chisciotte, sono quelle che in questo istante ha usato meco Domeneddio, le quali, come ho detto, non sono menomate dai miei peccati: io tengo già il giudizio libero e sano, scevro dalle ombre caliginose dell'ignoranza in cui mi aveva posto una continua e detestabile lettura dei libri di cavalleria; conosco adesso i passati spropositi e imbrogli, e mi duole soltanto di essermene avveduto troppo tardi senz'avere più mezzo di risarcire il tempo perduto colla lettura di altri libri che siano luce dell'anima. Mi sento, nipote mia dolcissima, presso alla mia ultima ora, la quale vorrei passare in modo da far giudicare a tutti che la mia trascorsa vita non è stata tanto sciagurata da lasciare dopo di me la riputazione di pazzo; e sebbene io fui tale pur troppo, vorrei togliere dal mondo questo mal odore di me in questi estremi momenti. Chiamami, ti prego, o figliuola, i miei buoni amici, il curato, il baccelliere Sansone Carrasco e mastro Niccolò barbiere, che ora voglio confessarmi e fare il mio testamento.

La nipote risparmiò la fatica di andarli a chiamare, poiché entrarono in quel punto tutti e tre nella stanza. Appena don Chisciotte li vide, disse loro: — Congratulatevi meco, miei buoni amici, che io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono quell'Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono. Dinanzi a voi mi dichiaro nemico di Amadigi di Gaula e di tutto l'infinito stuolo della sua stirpe; adesso mi vengono in odio tutte le storie profane della cavalleria errante; adesso conosco la mia balordaggine ed il pericolo che ho corso nelle mie letture;  adesso per misericordia del Signore Iddio imparo a mio costo a dispregiarle e ad averle in abbominazione.” Quando tutti e tre udirono questo discorso, giudicarono senz'altro che lo avesse colto qualche nuova pazzia, ed il baccelliere Sansone Carrasco disse:

— E che è questo, o signor don Chisciotte? Ora che abbiamo nuove che la signora Dulcinea non è più incantata e che ci manca tanto poco per diventare pastori e passare cantando la nostra vita beatamente, vossignoria si vuol far romito? Si accheti un poco, torni in se stesso, sbandisca dall'animo le malinconie. — Quelle, replicò don Chisciotte, che mi hanno recato tanto danno sinora, spero che la morte le convertirà in mio vantaggio col divino aiuto: io sento, o signori, che vado morendo a gran passi; però lasciamo le burle, e conducetemi tosto un confessore che mi ascolti ed un notaio che scriva il mio testamento; nel frangente in cui sono non resta più da scherzare; e voi, signor curato, usatemi la carità di confessarmi, e vadano gli altri pel notaio.” Tutti si guardarono in faccia l'un l'altro, attoniti alle parole che don Chisciotte aveva dette, e quantunque dubbiosi, vollero prestargli fede. Uno degl'indizi da cui conghietturarono ch'egli si avvicinasse alla morte, fu il suo rapidissimo passaggio dalla follia alla saggezza, poiché ai discorsi già riferiti altri ne aggiunse sì bene pensati, sì cristiani, sì giusti, che tolta affatto ogni perplessità, si persuasero che fosse realmente tornato in buon cervello. Il curato fece uscire di camera tutti, e rimasto solo con lui, lo confessò. Il baccelliere Carrasco andò pel notaio, e tornò presto con esso e con Sancio Pancia, il quale già informato dal baccelliere dell'estremo pericolo in cui stava il suo padrone, si unì tosto alla serva e alla nipote, e si mise a fare le boccacce ed a strillare disperatamente. Finì la confessione, ed il curato escì fuori dicendo: — Muore daddovero e muore con sana mente Alonso Chisciano il buono: potete entrare, miei signori, perché ora faccia il suo testamento.” Diedero, queste nuove, terribile spinta ai gravidi occhi della nipote, della serva e di Sancio, di maniera che sgorgavano a torrenti le lagrime, e uscivano dal loro petto mille profondi sospiri. Si è già alcuna volta osservato che sino a tanto che don Chisciotte fu Alfonso Chisciano il buono, e non altro, ed anche quando fu don Chisciotte della Mancia, si mantenne egli di piacevole condizione e di tratto urbano, e quindi era ben veduto non solo da quelli di casa sua, ma ben anche da quanti lo conoscevano.

Il notaio entrò con tutti gli altri in camera, e dopo avere scritto l'introduzione del testamento, e raccomandata a Dio l'anima di don Chisciotte con tutte le forme cristiane che sono d'uso, venendo ai legati, disse: — Item, è mia volontà che a Sancio Pancia, il quale nella mia pazzia io m'avevo eletto scudiere, non sia cercato verun conto dei danari che teneva di mia ragione, essendo corse fra lui e me varie partite e disgusti e differenze. Se ne sopravanzassero, dopo essersi pagato di quanto gli debbo, il restante sia tutto suo che già sarà poca cosa, e in ogni modo buon pro gli faccia; e se quando io era pazzo mi era proposto di dargli il governo d'un'isola, ora che sono in giudizio gli darei il governo di un regno, se lo avessi, perché la strettezza della sua condizione e la fedeltà meritano ogni cosa.

Rivoltosi a Sancio, gli disse: — Perdonami amico, le occasioni che ti ho date di parer pazzo con me, facendoti cadere nell'errore in cui io era che vi fossero o vi siano al mondo cavalieri erranti. — Ahi, rispose Sancio in mezzo ai singulti, vossignoria non muoia signor mio, pigli il mio consiglio, badi a vivere, ché non può fare l'uomo peggiore bestialità in questa vita del lasciarsi morire così alla babbalà, senzaché nessuno lo ammazzi né altre mani lo finiscano fuorché quelle della malinconia; non si lasci per carità cogliere dalla poltroneria, e si levi da questo letto che anderemo in campagna vestiti da pastori come siamo rimasti d'accordo; e chi sa che dietro a qualche bosco non troviamo la signora donna Dulcinea non più incantata, com'è comune nostro desiderio: e se per caso vossignoria muore del dolore di essere stato vinto, ne dia a me tutta la colpa, e dica che se avessi strette un poco le cinghie a Ronzinante, non sarebbe stramazzato; e già vossignoria avrà letto molte volte nei suoi libri di cavalleria che i cavalieri erano soliti scavalcarsi l'un l'altro, e che quello che oggi è vinto, dimani è vincitore. — Così è, disse Sansone Carrasco, e il buon Sancio è molto pratico di questi casi. — Signori, replicò don Chisciotte, andiamo pian piano, ché adesso nei nidi dell'anno passato non sono più uccelli; poc'anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora, ripeto, non sono altro che Alfonso Chisciano il buono: possano il mio pentimento e la mia ingenuità riguadagnarmi presso di voi, o amici, quella riputazione di cui una volta ho goduto; e seguiti a scrivere il signor notaio. — Item, lascio la mia facoltà ad Antonia Chisciana, mia nipote, ch'è qui presente, levando prima da essa quanto occorre per soddisfare a tutti i legati da me istituiti, ed il primo intendo che sia quello di pagare il salario che devo alla mia serva per tutto il tempo che mi ha prestato la sua assistenza, e di più venti ducati da farsi un vestito. Nomino per esecutori testamentari il signor curato ed il signor baccelliere Sansone Carrasco, qua presenti. Item, è mia volontà che se Antonia Chisciana, mia nipote, vorrà maritarsi, si accompagni ad un uomo del quale si sappia per certo che non abbia letto mai libri di cavalleria; e nel caso che gli avessi letti, e che nullostante mia nipote lo volesse sposare, lo sposi pure, ma perda tutto quello che le ho lasciato, ed i miei esecutori possano a loro beneplacito distribuirlo in opere pie. Item, supplico i detti miei esecutori testamentari che se la buona sorte facesse loro conoscere l'autore, il quale si dice che abbia scritta l'istoria che corre impressa col titolo di Seconda parte delle prodezze di don Chisciotte della Mancia, gli dimandino perdono da parte mia con ogni affetto possibile per l'occasione che io gli ho data, senza volerlo, di scrivere quei tanti e sì grossi spropositi che in essa si leggono, perché io mi distacco da questa vita collo scrupolo di avergliene dato motivo.” Chiuse con queste ultime parole il suo testamento, e colto da uno svenimento, si distese nel letto quanto era lungo. Allora fu generale il disordine della famiglia, e tutti accorsero a dargli soccorso nei tre giorni che sopravvisse al testamento, cadendo di tratto in tratto in totale perdimento di sensi. Ad onta del generale scompiglio, si pensava per altro al refrigerio, e la nipote mangiava, la serva brindeggiava e Sancio gozzovigliava; giacché il fare eredità cancella o tempera negli eredi la memoria del dolore ch'è ben ragionevole che il morto lasci.

Giunse finalmente l'ultima ora di don Chisciotte, dopo avere avuti tutti i sacramenti e dopo avere abbominati con molte e sode ragioni tutti i libri di cavalleria. Il notaio allora disse ad alta voce: — Non ho mai letto in alcuna opera di cavalleria che un cavaliere errante sia morto nel suo letto così tranquillo e così cristianamente rassegnato come don Chisciotte.” Tra la compassione ed il pianto dei circostanti egli dunque esalò lo spirito, e voglio dire, morì: ed il curato ottenne dal notaio la legale testimonianza che “Alonso Chisciano il buono, chiamato comunemente don Chisciotte della Mancia, era passato da questa presente vita, e morto naturalmente.” Si volle questa giurata prova per togliere l'occasione che qualche altro autore, diverso da Cide Hamete Ben-Engeli, lo facesse risuscitare con falsità e dettasse interminabili storie delle sue prodezze. E questo fu il fine dell'ingegnoso Idalgo della Mancia, la cui patria non volle Cide Hamete rendere chiaramente nota per lasciare che tutti i paesi e i villaggi della Mancia contendessero tra loro per affigliarselo e tenerlo per suo, come contesero per Omero le sette città della Grecia.

Non si registrano in questo luogo le lamentazioni di Sancio, della nipote e della serva di don Chisciotte, né i nuovi epitaffi della sua sepoltura. Sansone Carrasco però gli pose il seguente:

“Giace qui il forte Idalgo salito a tal grado di valore, che morte non poté trionfare di lui nel suo morire.

“Affrontò tutto il mondo e vi recò lo spavento; e fu sua ventura viver pazzo e morir rinsavito.”

Qui poi il prudentissimo Cide Hamete, rivoltosi alla sua penna, disse: — O pennuzza mia, tu rimarrai qua attaccata a questo uncino e a questo filo di rame, non so quanto ben temperata, e tu vivrai per lunghi secoli, se presuntuosi e malevoli istorici non ti vengano a distaccare per profanarti; ma primaché ti tocchino, li puoi avvertire e dir loro nel miglior modo che sia:

“Via, gente perversa, che nessuno mi tocchi; perocché questa impresa, o buon re, era serbata a me solo.”

Per te sola nacque don Chisciotte, e tu per lui; egli seppe fare e tu scrivere; voi due soli siete d'accordo ad onta e dispetto dello scrittore finto e tordesigliesco, il quale ardì o vorrà ancora ardire di scrivere con mal temperata penna di struzzo le prodezze del valoroso nostro cavaliere, il che non è peso delle sue spalle, né opera del suo agghiacciato ingegno. Lo avvertirai, o penna, se giugni per caso a conoscerlo, che lasci riposare in pace nella tomba le stanche e già guaste ossa di don Chisciotte, e non lo voglia portare a Castiglia la vecchia, facendo escire dalla fossa dove realmente e veridicamente giace disteso quanto egli è lungo, e nell'assoluta impossibilità di fare la terza giornata od altre nuove peregrinazioni. Per pigliarsi giuoco delle tante che fecero tutti i cavalieri erranti, bastano bene le due ch'egli ha eseguite con tanto gusto e diletto delle genti che n'ebbero notizia sì in questi come in altri regni stranieri. Resterà così satisfatta la cristiana tua professione consigliando al bene chi ti vuol male; ed io autore rimarrò assai contento di essere stato il primo che abbia goduto per intero il frutto degli scritti miei, com'era mio desiderio. Non altro volli se non che mettere in abborrimento degli uomini le finte e spropositate istorie dei libri di cavalleria, i quali, la mercé delle venture accadute al mio vero don Chisciotte, vanno a quest'ora inciampando, e senz'alcun dubbio cadranno poi onninamente.

 

Fine

 

DEL CAPRICCIO

DISCRETISSIMO ACCADEMICO DELL'ARGAMASSIGLIA

IN LODE DI RONZINANTE

CAVALLO DI DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA.

 

SONETTO.

 

Sovra il superbo trono adamantino,

 Che con piede di sangue calca Marte

 Della Mancia l'eroe l'insegne ha sparte

 Del tuo vessil con sforzo peregrino.

Quivi l'usbergo appende e il brando fine,

 Con cui fiere, sconquassa, frange, parte:

 Nuove prodezze: ond'è, che duopo ha l'arte

 Di nuovo stile a ornar tal paladino.

Se del grande Amadigi è Gaula altera,

 Per la cui stirpe forte in pugne cento

 Trionfò Grecia e alzò sì chiaro il grido,

Oggi nel tempio, ove Bellona impera,

 Chisciotte ha un serto, e va per lui contento,

 Più che la Grecia o Gaula, il suo bel nido.

Di lui qual gente tacerà, qual lido?

 Fin Ronzinante suo fu sì gagliardo,

 Che Brigliadoro superò e Baiardo.

 

 

DEL PANIGUADO, ACCADEMICO DELL'ARGAMASSIGLIA

IN LAUDEM DULCINEAE DEL TOBOSO.

 

SONETTO.

 

Questa, che miri con guance pienotte,

 Con sen ricolmo e in atto sì gioioso,

 è Dulcinea reina del Toboso.

 Di cui fu innamorato il gran Chisciotte.

Cento scòrse per lei boscaglie e grotte

 Della gran Sierra Negra, e del famoso

 Montiel d'Aranjuez fino al piano erboso,

 Onde n'ebbe talor le piante rotte,

Colpa di Ronzinante. Oh dura stella,

 Che di Mancia la dama, e quest'invitto

 Pro' cavaliere n'hai tolto in sì verd'anni!

Ella cessò, morendo, d'esser bella,

 Ed ei d'Amor, come ne' marmi è scritto,

 Male scansar poteo l'ire e gl'inganni.

 

————

 

DEL BURLATORE, ACCADEMICO ARGAMASSIGLIESE,

A SANCIO PANCIA.

 

SONETTO.

 

Sancio Pancia è costui (strano portento!)

 Grande il valor, picciol di corpo e corto,

 Il più ingenuo scudiero, e il meno accorto,

 Che avesse il mondo: il giuro e non men pento.

Ch'e' fusse conte mancovvi un momento,

 Colpa del secol niquitoso e torto,

 Che a lui negò maligno un tal conforto,

 E nemmen perdonolla al suo giumento.

Sovr'esso ei giva (vel soffrite in pace)

 Docil scudier seguendo il mansueto

 Cavallo Ronzinante, ed il suo sire.

O speranza degli uomini fallace,

 Che in pria promettere suole un viver cheto,

 Poi 'n ombra, in fumo, in sogno usa svanire!

 

———

 

DEL CACCIADIAVOLO, ACCADEMICO DELL'ARGAMASSIGLIA,

ALLA SEPOLTURA DI DON CHISCIOTTE.

 

EPITAFFIO.

 

Qui sen giace il cavaliero,

 Che malconcio e mal errante

 Corse in groppa a Ronzinante

 Ora questo, or quel sentiero.

Sancio Pancia, non sincero,

 Qui pur giace ad esso a canto

 Ch'ebbe almen fra tutti il vanto

 Del più fido e buon scudiero.

 

——

 

DEL TICHETOCCHE, ACCADEMICO DELL'ARGAMASSIGLIA.

ALLA SEPOLTURA DI DULCINEA DEL TOBOSO.

 

EPITAFFIO.

 

Dulcinea qui sta tranquilla,

 Che di carne ancorché onusta,

 Morte barbara ed ingiusta

 Alfin colse e incenerilla.

Sua prosapia illustre brilla;

 Dama apparve nel sembiante;

 Di Chisciotte fu l'amante,

 E l'onor della sua villa.

 

Furon questi i versi che si poterono leggere; gli altri vennero affidati ad un accademico affinché li spiegasse per conghiettura, perché tutte le lettere erano rosicchiate dal tarlo. Si vuole che vi sia riuscito, ma a prezzo di molte vigilie e di grande diligenza, e che abbia in animo di mandarli alla luce.

Se si avvererà la terza peregrinazione di don Chisciotte:

Fors'altri canterà con miglior plettro.

 

 

FINE DEL PRIMO VOLUME.