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Benvenuto Cellini
LA VITA DI BENVENUTO
CELLINI FIORENTINO
scritta (per lui medesimo) in Firenze
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Questa mia Vita travagliata io scrivo
per ringraziar lo Dio della natura
che mi diè l'alma e poi ne ha 'uto cura,
alte diverse 'mprese ho fatte e vivo.
Quel mio crudel Destin, d'offes'ha privo
vita, or, gloria e virtú piú che misura,
grazia, valor, beltà, cotal figura
che molti io passo, e chi mi passa arrivo.
Sol mi duol grandemente or ch'io cognosco
quel caro tempo in vanità perduto:
nostri fragil pensier sen porta 'l vento.
Poi che 'l pentir non val, starò
contento
salendo qual'io scesi il Benvenuto
nel fior di questo degno terren tosco.
Io avevo
cominciato a scrivere di mia mano questa mia Vita, come si può vedere in
certe carte rappiccate, ma considerando che io perdevo troppo tempo e parendomi
una smisurata vanità, mi capitò inanzi un figliuolo di Michele di
Goro dalla Pieve a Groppine, fanciullino di età di anni XIII incirca ed
era ammalatuccio. Io lo cominciai a fare scrivere e in mentre che
io lavoravo, gli dittavo la Vita mia; e perché ne pigliavo qualche piacere,
lavoravo molto piú assiduo e facevo assai piú opera. Cosí lasciai al ditto tal
carica, quale spero di continuare tanto innanzi quanto mi ricorderò.
I. Tutti gli
uomini d'ogni sorte, che hanno fatto qualche cosa che sia virtuosa, o sí
veramente che le virtú somigli, doverieno, essendo veritieri e da bene, di lor
propia mano descrivere la loro vita; ma non si doverrebbe cominciare una tal
bella impresa prima che passato l'età de' quarant'anni. Avvedutomi d'una
tal cosa, ora che io cammino sopra la mia età de' cinquantotto anni
finiti, e sendo in Fiorenze patria mia, sovvenendomi di molte perversità
che avvengono a chi vive; essendo con manco di esse perversità, che io
sia mai stato insino a questa età, anzi mi pare di essere con maggior
mio contento d'animo e di sanità di corpo che io sia mai stato per lo
addietro; e ricordandomi di alcuni piacevoli beni e di alcuni innistimabili
mali, li quali, volgendomi in drieto, mi spaventano di maraviglia che io sia
arrivato insino a questa età de' 58 anni, con la quali tanto felicemente
io, mediante la grazia di Dio cammino innanzi.
II. Con tutto
che quegli uomini che si sono affaticati con qualche poco di sentore di virtú
hanno dato cognizione di loro al mondo, quella sola doverria bastare, vedutosi
essere uomo e conosciuto; ma perché egli è di necessità vivere
innel modo che uno truova come gli altri vivono, però in questo modo ci
si interviene un poco di boriosità di mondo, la quali ha piú diversi
capi. Il primo si è far sapere agli altri, che l'uomo ha la linea sua da
persone virtuose e antichissime. Io son chiamato Benvenuto Cellini, figliuolo
di maestro Giovanni d'Andrea di Cristofano Cellini; mia madre madonna
Elisabetta di Stefano Granacci, e l'uno e l'altra cittadini fiorentini.
Troviamo scritto innelle croniche fatte dai nostri Fiorentini molto antichi e
uomini di fede, secondo che scrive Giovanni Villani, sí come si vede la
città di Fiorenze fatta a imitazione della bella città di Roma, e
si vede alcuni vestigi del Collosseo e delle Terme. Queste cose sono presso a
Santa Croce; il Campitoglio era dove è oggi il Mercato Vecchio; la
Rotonda è tutta in piè, che fu fatta per il tempio di Marte; oggi
è per il nostro San Giovanni. Che questo fussi cosí, benissimo si vede e
non si può negare; ma sono ditte fabbriche molto minore di quelle di
Roma. Quello che le fece fare dicono essere stato Iulio Cesare con alcuni
gentili uomini romani, che, vinto e preso Fiesole, in questo luogo edificorno
una città, e ciascuni di loro prese affare uno di questi notabili
edifizii. Aveva Iulio Cesare un suo primo e valoroso capitano, il quali si
domandava Fiorino da Cellino, che è un castello il quali è presso
a Monte Fiasconi a dua miglia. Avendo questo Fiorino fatti i sua
alloggiamenti sotto Fiesole, dove è ora Fiorenze, per esser vicini al
fiume d'Arno per comodità dello esercito, tutti quelli soldati e altri,
che avevano affare del ditto capitano, dicevano: - Andiamo a Fiorenze - sí
perché il ditto capitano aveva nome Fiorino, e perché innel luogo che lui aveva
li ditti sua alloggiamenti, per natura del luogo era abbundantissima
quantità di fiori. Cosí innel dar principio alla città, parendo a
Iulio Cesare, questo, bellissimo nome e posto accaso, e perché i fiori
apportano buono aurio, questo nome di Fiorenze pose nome alla ditta
città; e ancora per fare un tal favore al suo valoroso capitano, e tanto
meglio gli voleva, per averlo tratto di luogo molto umile, e per essere un tal
virtuoso fatto dallui. Quel nome che dicono questi dotti immaginatori e
investigatori di tal dipendenzie di nomi, dicono per essere fluente a l'Arno;
questo non pare che possi stare, perché Roma è fluente al Tevero,
Ferrara è fluente al Po, Lione è fluente alla Sonna, Parigi
è fluente alla Senna; però hanno nomi diversi e venuti per altra
via. Noi troviamo cosí, e cosí crediamo dipendere da uomo virtuoso. Di poi
troviamo essere de' nostri Cellini in Ravenna, piú antica città di
Italia, e quivi è gran gentili uomini; ancora n'è in Pisa, e ne
ho trovati in molti luoghi di Cristianità; e in questo Stato ancora n'è
restato qualche casata, pur dediti all'arme; ché non sono molti anni da oggi
che un giovane chiamato Luca Cellini, giovane senza barba, combatté con uno
soldato pratico e valentissimo uomo, che altre volte aveva combattuto in
isteccato, chiamato Francesco da Vicorati. Questo Luca per propria virtú con
l'arme in mano lo vinse e amazzò con tanto valore e virtú, che fe'
maravigliare il mondo, che aspettava tutto il contrario: in modo che io mi
glorio d'avere lo ascendente mio da uomini virtuosi. Ora quanto io m'abbia
acquistato qualche onore alla casa mia, li quali a questo nostro vivere di oggi
per le cause che si sanno, e per l'arte mia, quali non è materia da gran
cose al suo luogo io le dirò; gloriandomi molto piú essendo nato umile e
aver dato qualche onorato prencipio alla casa mia, che se io fussi nato di gran
lignaggio, e colle mendacie qualità io l'avessi macchiata o stinta. Per
tanto darò prencipio come a Dio piacque che io nascessi.
III. Si
stavano innella Val d'Ambra li mia antichi, e quivi avevano molta
quantità di possessioni; e come signorotti, là ritiratisi per le
parte vivevano: erano tutti uomini dediti all'arme e bravissimi. In quel tempo
un lor figliuolo, il minore, che si chiamò Cristofano, fece una gran
quistione con certi lor vicini e amici: e perché l'una e l'altra parte dei capi
di casa vi avevano misso le mani, e veduto costoro essere il fuoco acceso di
tanta importanza, che e' portava pericolo che le due famiglie si disfacessino
affatto; considerato questo quelli piú vecchi, d'accordo, li mia levorno via
Cristofano, e cosí l'altra parte levò via l'altro giovane origine della
quistione. Quelli mandorno il loro a Siena; li nostri mandorno Cristofano a
Firenze, e quivi li comperorno una casetta in via Chiara dal monisterio di Sant'Orsola,
e al ponte a Rifredi li comperorno assai buone possessioni. Prese moglie il
ditto Cristofano in Fiorenze ed ebbe figliuoli e figliuole, e acconcie tutte le
sue figliuole, il restante si compartirno li figliuoli, di poi la morte di lor
padre. La casa di via Chiara con certe altre poche cose toccò a uno de'
detti figliuoli, che ebbe nome Andrea. Questo ancora lui prese moglie ed ebbe
quattro figliuoli masti. Il primo ebbe nome Girolamo, il sicondo Bartolomeo, il
terzo Giovanni, che poi fu mio padre, il quarto Francesco. Questo Andrea
Cellini intendeva assai del modo della architettura di quei tempi, e, come sua
arte, di essa viveva; Giovanni, che fu mio padre, piú che nissuno degli altri
vi dette opera. E perché, sí come dice Vitruio, in fra l'altre cose, volendo
fare bene detta arte, bisogna avere alquanto di musica e buon disegno, essendo
Giovanni fattosi buon disegnatore, cominciò a dare opera alla
musica, e insieme con essa imparò a sonare molto bene di viola e di
flauto; ed essendo persona molto studiosa, poco usciva di casa. Avevano per
vicino a muro uno che si chiamava Stefano Granacci, il quale aveva parecchi
figliuole tutte bellissime. Sí come piacque a Dio, Giovanni vidde una di queste
ditte fanciulle che aveva nome Elisabetta; e tanto li piacque che lui la chiese
per moglie: e perché l'uno e l'altro padre benissimo per la stretta
vicinità si conoscevano, fu facile a fare questo parentado; e a ciascuno
di loro gli pareva d'avere molto bene acconcie le cose sue. In prima quei dua
buon vecchioni conchiusono il parentado, di poi cominciorno a ragionare della
dota, ed essendo infra di loro qualche poco di amorevol disputa; perché Andrea
diceva a Stefano: - Giovanni mio figliuolo è 'l piú valente giovane e di
Firenze e di Italia, e se io prima gli avessi voluto dar moglie, arei aúte
delle maggior dote che si dieno a Firenze a' nostri pari - e Stefano diceva: -
Tu hai mille ragioni, ma io mi truovo cinque fanciulle, con tanti altri
figliuoli, che, fatto il mio conto, questo è quanto io mi posso stendere
-. Giovanni era stato un pezzo a udire nascosto da loro, e sopraggiunto
all'improvviso disse: - O mio padre, quella fanciulla ho desiderata e amata, e
none li loro dinari; tristo a coloro che si vogliono rifare in su la dota della
lor moglie. Sí bene, come voi vi siate vantato che io sia cosí saccente, o non
saprò io dare le spese alla mia moglie, e sattisfarla alli sua bisogni
con qualche somma di dinari manco che 'l voler vostro? Ora io vi fo intendere
che la donna è la mia e la dota voglio che sia la vostra -. A questo
sdegnato alquanto Andrea Cellini, il quale era un po' bizzarretto, fra pochi
giorni Giovanni menò la sua donna, e non chiese mai piú altra dota. Si
goderno la lor giovinezza e il loro santo amore diciotto anni, pure con gran
disiderio di aver figliuoli: di poi in diciotto anni la detta sua donna si
sconciò di dua figliuoli masti, causa della poca intelligenza de'
medici; di poi di nuovo ingravidò e partorí una femmina, che gli posono
nome Cosa, per la madre di mio padre. Di poi dua anni di nuovo
ingravidò: e perché quei vizii che hanno le donne gravide, molto vi si
pon cura, gli erano appunto come quegli del parto dinanzi; in modo che erano
resoluti che la dovessi fare una femmina come la prima, e gli avevono d'accordo
posto nome Reparata, per rifare la madre di mia madre. Avvenne che la partorí
una notte di tutti e' Santi, finito il dí d'Ognisanti a quattro ore e mezzo
innel mille cinquecento a punto. Quella allevatrice, che sapeva che loro
l'aspettavano femmina, pulito che l'ebbe la creatura, involta in bellissimi
panni bianchi, giunse cheta cheta a Giovanni mio padre, e disse; - Io vi porto
un bel presente, qual voi non aspettavi -. Mio padre, che era vero filosafo,
stava passeggiando e disse: - Quello che Idio mi dà, sempre m'è caro
- e scoperto i panni, coll'occhio vidde lo inaspettato figliuolo mastio.
Aggiunto insieme le vecchie palme, con esse alzò gli occhi a Dio, e
disse: - Signore, io ti ringrazio con tutto 'l cuor mio; questo m'è
molto caro, e sia il Benvenuto -. Tutte quelle persone che erano quivi,
lietamente lo domandavano, come e' si gli aveva a por nome, Giovanni mai
rispose loro altro se nome: - E' sia il Benvenuto -; e risoltisi, tal nome mi
diede il santo Battesimo, e cosí mi vo vivendo con la grazia di Dio.
IV. Ancora viveva Andrea Cellini mio
avo, che io avevo già l'età di tre anni incirca, e lui passava li
cento anni. Avevano un giorno mutato un certo cannone d'uno acquaio, e del
detto n'era uscito un grande scarpione, il quali loro non l'avevano veduto, ed
era dello acquaio sceso in terra, e itosene sotto una panca: io lo vidi, e,
corso allui, gli missi le mani a dosso. Il detto era sí grande, che avendolo
innella picciola mano, da uno degli lati avanzava fuori la coda, e da l'altro
avanzava tutt'a dua le bocche. Dicono, che con gran festa io corsi al mio avo,
dicendo; - Vedi, nonno mio, il mio bel granchiolino! - Conosciuto il ditto, che
gli era uno scarpione, per il grande spavento e per la gelosia di me, fu per
cader morto; e me lo chiedeva con gran carezze: io tanto piú lo strignevo
piagnendo, ché non lo volevo dare a persona. Mio padre, che ancora egli era in
casa, corse a cotai grida, e stupefatto non sapeva trovare rimedio, che quel
velenoso animale non mi uccidessi. In questo gli venne veduto un paro di
forbicine: cosí, lusingandomi, gli tagliò la coda e le bocche. Di poi
che lui fu sicuro del gran male, lo prese per buono aurio.
Innella
età di cinque anni in circa, essendo mio padre in una nostra celletta,
innella quale si era fatto bucato ed era rimasto un buon fuoco di querciuoli,
Giovanni con una viola in braccio sonava e cantava soletto intorno a quel
fuoco. Era molto freddo: guardando innel fuoco, accaso vidde in mezzo a quelle
piú ardente fiamme uno animaletto come una lucertola, il quale si gioiva in
quelle piú vigorose fiamme. Subito avedutosi di quel che gli era, fece chiamare
la mia sorella e me, e mostratolo a noi bambini, a me diede una gran ceffata,
per la quali io molto dirottamente mi missi a piagnere. Lui piacevolmente
rachetatomi, mi disse cosí: - Figliolin mio caro, io non ti do per male che tu
abbia fatto, ma solo perché tu ti ricordi che quella lucertola che tu vedi
innel fuoco, si è una salamandra, quali non s'è veduta mai piú
per altri, di chi ci sia notizia vera - e cosí mi baciò e mi dette certi
quattrini.
V.
Cominciò mio padre a 'nsegnarmi sonare di flauto e cantare di musica; e
con tutto che l'età mia fussi tenerissima, dove i piccoli bambini
sogliono pigliar piacere d'un zufolino e di simili trastulli, io ne avevo
dispiacere inistimabile, ma solo per ubbidire sonavo e cantavo. Mio padre
faceva in quei tempi organi con canne di legno maravigliosi, gravi cemboli, i
migliori e piú belli che allora si vedessino, viole, liuti, arpe bellissime ed
eccellentissime. Era ingegnere e per fare strumenti, come modi di gittar
ponti, modi di gualchiere, altre macchine, lavorava miracolosamente;
d'avorio e' fu il primo che lavorassi bene. Ma perché lui s'era innamorato di
quella che seco mi fu di padre ed ella madre, forse per causa di quel
flautetto, frequentandolo assai piú che il dovere, fu chiesto dalli Pifferi
della Signoria di sonare insieme con esso loro. Cosí seguitando un tempo per
suo piacere, lo sobillorno tanto che e' lo feciono de' lor compagni pifferi.
Lorenzo de Medici e Piero suo figliolo, che gli volevano gran bene,
vedevano di poi che lui si dava tutto al piffero e lasciava in drieto il suo
bello ingegno e la sua bella arte: lo feciono levare di quel luogo. Mio padre
l'ebbe molto per male, e gli parve che loro gli facessino un gran dispiacere.
Subito si rimise all'arte, e fece uno specchio, di diamitro di un braccio in
circa, di osso e avorio, con figure e fogliami, con gran pulizia e gran
disegno. Lo specchio si era figurato una ruota: in mezzo era lo specchio;
intorno era sette tondi, inne' quali era intagliato e commesso di avorio e osso
nero le sette Virtú; e tutto lo specchio, e cosí le ditte Virtú erano in un
bilico; in modo che voltando la ditta ruota, tutte le virtú si movevano; e
avevano un contrapeso ai piedi, che le teneva diritte. E perché lui aveva
qualche cognizione della lingua latina, intorno a ditto specchio vi fece un
verso latino, che diceva: “Per tutti il versi che volta la ruota di Fortuna, la
Virtú resta in piede”:
Rota sum;
semper, quoquo me verto
stat virtus
Ivi a poco
tempo gli fu restituito il suo luogo del piffero. Se bene alcune di queste cose
furno innanzi ch'io nascessi, ricordandomi d'esse, non l'ho volute lasciare
indietro. In quel tempo quelli sonatori si erano tutti onoratissimi artigiani,
e v'era alcuni di loro che facevano l'arte maggiori di seta e lana; qual fu
causa che mio padre non si sdegnò a fare questa tal professione. El
maggior desiderio che lui aveva al mondo, circa i casi mia, si era che io
divenissi un gran sonatore; e 'l maggior dispiacere che io potessi avere al
mondo, si era quando lui me ne ragionava, dicendomi, che se io volevo, mi
vedeva tanto atto a tal cosa, che io sarei il primo omo del mondo.
VI. Come ho
ditto, mio padre era un gran servitore e amicissimo della casa de' Medici, e quando
Piero ne fu cacciato, si fidò di mio padre in moltissime cose molte
importantissime. Di poi, venuto il magnifico Piero Soderini, essendo mio padre
al suo ufizio del sonare, saputo il Soderini il maraviglioso ingegno di mio
padre, se ne cominciò a servire in cose molte importantissime come
ingegnere: e in mentre che 'l Soderino stette in Firenze volse tanto bene a mio
padre, quanto immaginar si possi al mondo; e in questo tempo io, che era di
tenera età, mio padre mi faceva portare in collo, e mi faceva sonare di
flauto, e facevo sovrano, insieme con i musici del palazzo innanzi alla
Signoria, e sonavo al libro, e un tavolaccino mi teneva in collo. Di poi il
Gonfalonieri, che era il detto Soderino, pigliava molto piacere di
farmi cicalare, e mi dava de' confetti e diceva a mio padre: - Maestro
Giovanni, insegnali insieme con il sonare quelle altre tue bellissime arte - al
cui mio padre rispondeva: - Io non voglio che e' faccia altra arte, che 'l
sonare e comporre; perché in questa professione io spero fare il maggiore uomo
del mondo, se Idio gli darà vita -. A queste parole rispose alcuno di
quei vecchi Signori, dicendo a maestro Giovanni: - Fa' quello che ti dice il
Gonfaloniere; perché sarebbe egli mai altro che un buono sonatore? - Cosí passò
un tempo, insino che i Medici ritornorno. Subito ritornati i Medici, il
cardinale, che fu poi papa Leone, fece molte carezze a mio padre. Quella arme,
che era al palazzo de' Medici, mentre che loro erano stati fuori, era stato
levato da essa le palle, e vi avevano fatto dipignere una gran croce rossa,
quali era l'arme e insegna del Comune: in modo che, subito tornati, si
rastiò la croce rossa, e in detto scudo vi si comisse le sue palle
rosse, e misso il campo d'oro, con molta bellezza acconcie. Mio padre, il quali
aveva un poco di vena poetica naturale stietta, con alquanto di profetica, che
questo certo era divino in lui, sotto alla ditta arme, subito che la fu
scoperta, fece questi quattro versi: dicevan cosí:
Quest'arme,
che sepulta è stato tanto
sotto la
santa croce mansueta,
mostr'or la
faccia gloriosa e lieta,
aspettando di
Pietro il sacro ammanto.
Questo
epigramma fu letto da tutto Firenze. Pochi giorni appresso morí papa Iulio
secondo. Andato il cardinale de' Medici a Roma, contra a ogni credere del mondo
fu fatto papa, che fu papa Leone X, liberale e magnanimo. Mio padre gli
mandò li sua quattro versi di profezia. Il papa mandò a dirgli
che andasse là, che buon per lui. Non volse andare: anzi, in cambio di
remunerazioni, gli fu tolto il suo luogo del palazzo da Iacopo Salviati, subito
che lui fu fatto Gonfaloniere. Questo fu causa che io mi missi all'orafo; e
parte imparavo tale arte e parte sonavo, molto contro mia voglia.
VII.
Dicendomi queste parole, io lo pregavo che mi lasciassi disegnare tante ore del
giorno, e tutto il resto io mi metterei a sonare, solo per contentarlo. A
questo mi diceva: - Addunque tu non hai piacere di sonare? - Al quale io dicevo
che no, perché mi pareva arte troppa vile a quello che io avevo in animo. Il
mio buon padre, disperato di tal cosa, mi mise a bottega col padre del
cavalieri Bandinello, il quale si domandava Michelagnolo, orefice da Pinzi di
Monte, ed era molto valente in tale arte; non aveva lume di nissuna casata, ma
era figliuolo d'un carbonaio: questo non è da biasimare il
Bandinello, il quali ha dato principio alla casa sua, se da buona causa la
fussi venuta. Quali lo sia, non mi occorre dir nulla di lui. Stato che io fui
là alquanti giorni, mio padre mi levò dal ditto Michelognolo,
come quello che non poteva vivere sanza vedermi di continuo. Cosí malcontento
mi stetti a sonare insino alla età de' quindici anni. Se io volessi
descrivere le gran cose che mi venne fatto insino a questa età, e in
gran pericoli della propria vita, farei maravigliare chi tal cosa leggessi, ma
per non essere tanto lungo e per avere da dire assai, le lascierò
indietro.
Giunto
all'età de' quindici anni, contro al volere di mio padre mi missi
abbottega all'orefice con uno che si chiamò Antonio di Sandro orafo,
per soprannome Marcone orafo. Questo era un bonissimo praticone, e molto
uomo dabbene, altiero e libero in ogni cosa sua. Mio padre non volse che lui mi
dessi salario, come si usa agli altri fattori, acciò che, da poi che
volontaria io pigliavo a fare tale arte, io mi potessi cavar lo voglia di
disegnare quanto mi piaceva. E io cosí facevo molto volentieri, e quel mio
dabben maestro ne pigliava maraviglioso piacere. Aveva un suo unico figliuolo
naturale, al quali lui molte volte gli comandava, per risparmiar me. Fu tanta
la gran voglia o sí veramente inclinazione, e l'una e l'altra, che in pochi
mesi io raggiunsi di quei buoni, anzi i migliori giovani dell'arte, e cominciai
a trarre frutto delle mie fatiche. Per questo non mancavo alcune volte di
compiacere al mio buon padre, or di flauto or di cornetto sonando; e sempre gli
facevo cadere le lacrime con gran sospiri ogni volta che lui mi sentiva; e bene
spesso per pietà lo contentavo, mostrando che ancora io ne cavavo assai
piacere.
VIII. In
questo tempo, avendo il mio fratello carnale minore di me dua anni, molto
ardito e fierissimo, qual divenne dappoi de' gran soldati che avessi la scuola
del maraviglioso signor Giovannino de' Medici, padre del duca Cosimo: questo
fanciullo aveva quattordici anni in circa, e io dua piú di lui. Era una domenica
in su le 22 ore in fra la porta a San Gallo e la porta a Pinti, e quivi si era
disfidato con un garzone di venti anni in circa con le spade in mano: tanto
valorosamente lo serrava, che avendolo malamente ferito, seguiva piú oltre.
Alla presenza era moltissime persone, infra le quali v'era assai sua parenti
uomini; e veduto la cosa andare per la mala via, messono mano a molte frombole
e una di quelle colse nel capo del povero giovinetto mio fratello: subito cadde
in terra svenuto come morto. Io che a caso mi ero trovato quivi e senza amici e
senza arme, quanto io potevo sgridavo il mio fratello che si ritirassi, che
quello che gli aveva fatto bastava; intanto che il caso occorse che lui a quel
modo cadde come morto. Io subito corsi e presi la sua spada, e dinanzi a lui mi
missi, e contra parecchi spade e molti sassi, mai mi scostai dal mio fratello,
insino a che da la porta a San Gallo venne alquanti valorosi soldati e mi
scamporno da quella gran furia, molto maravigliandosi che in tanta giovinezza fussi
tanto gran valore. Cosí portai il mio fratello insino a casa come morto, e
giunto a casa si risentí con gran fatica. Guarito, gli Otto che di già
avevano condennati li nostri avversari, e confinatigli per anni, ancora noi
confinorno per se' mesi fuori delle dieci miglia. Io dissi al mio fratello: -
Vienne meco - e cosi ci partimmo dal povero padre, e in cambio di darci qualche
somma di dinari, perché non n'aveva, ci dette la sua benedizione. Io me n'andai
a Siena a trovare un certo galante uomo che si domandava maestro Francesco
Castoro; e perché un'altra volta io, essendomi fuggito da mio padre, me n'andai
da questo uomo dabbene e stetti seco certi giorni, insino che mio padre
rimandò per me, pure lavorando dell'arte dell'orefice; il ditto Francesco,
giunto a lui, subito mi ricognobbe e mi misse in opera. Cosí missomi a
lavorare, il ditto Francesco mi donò una casa per tanto quanto io
stavo in Siena; e quivi ridussi il mio fratello e me, e attesi a lavorare per
molti mesi. Il mio fratello aveva principio di lettere latine, ma era tanto
giovinetto che non aveva ancora gustato il sapore della virtú, ma si andava
svagando.
IX. In questo
tempo il cardinal de' Medici, il qual fu poi papa Clemente, ci fece tornare a Firenze
alli prieghi di mio padre. Un certo discepolo di mio padre, mosso da propia
cattività, disse al ditto cardinale che mi mandassi a Bologna a
'mparare a sonare bene da un maestro che v'era, il quali si domandava Antonio,
veramente valente uomo in quella professione del sonare. Il Cardinale disse a
mio padre che, se lui mi mandava là, che mi faria lettere di favore e
d'aiuto. Mio padre, che di tal cosa se ne moriva di voglia, mi mandò:
onde io, volonteroso di vedere il mondo, volentieri andai. Giunto a Bologna, io
mi missi allavorare con uno che si chiamava maestro Ercole del Piffero, e
cominciai a guadagnare: e intanto andavo ogni giorno per la lezione del sonare,
e in breve settimane feci molto gran frutto di questo maladetto sonare; ma
molto maggior frutto feci dell'arte dell'orefice, perché, non avendo
aùto dal ditto cardinale nissuno aiuto, mi missi in casa di uno
miniatore bolognese, che si chiamava Scipione Cavalletti; stava nella strada di
nostra Donna del Baraccan; e quivi attesi a disegnare e a lavorare per un che
si chiamava Graziadio giudeo, con il quali io guadagnai assai bene. In
capo di sei mesi me ne tornai a Fiorenze, dove quel Pierino piffero, già
stato allievo di mio padre, l'ebbe molto per male; e io, per compiacere a mio
padre, lo andavo a trovare a casa e sonavo di cornetto e di flauto insieme con
un suo fratel carnale che aveva nome Girolamo, ed era parecchi anni minore del
ditto Piero, ed era molto da bene e buon giovane, tutto il contrario del suo
fratello. Un giorno infra li altri venne mio padre alla casa di questo Piero,
per udirci sonare; e pigliando grandissimo piacere di quel mio sonare, disse: -
Io farò pure un maraviglioso sonatore, contro la voglia di chi mi ha
voluto impedire -. A questo rispose Piero, e disse il vero: - Molto piú utile e
onore trarrà il vostro Benvenuto, se lui attende a l'arte dell'orafo,
che a questa pifferata -. Di queste parole mio padre ne prese tanto isdegno,
veduto che ancora io avevo il medesimo oppenione di Piero, che con gran collora
gli disse: - Io sapevo bene che tu eri tu quello che mi impedivi questo mio
tanto desiderato fine, e sei stato quello che m'hai fatto rimuovere del mio
luogo del Palazzo, pagandomi di quella grande ingratitudine che si usa per
ricompenso de' gran benefizii. Io a te lo feci dare, e tu a me l'hai fatto
tôrre; io a te insegnai sonare con tutte l'arte che tu sai, e tu impedisci il
mio figliuolo che non facci la voglia mia. Ma tieni a mente queste profetiche
parole: e' non ci va, non dico anni o mesi, ma poche settimane, che per questa
tua tanto disonesta ingratitudine tu profonderai -. A queste parole rispose
Pierino e disse: - Maestro Giovanni, la piú parte degli uomini, quando
gl'invecchiano, insieme con essa vecchiaia impazzano, come avete fatto voi; e
di questo non mi maraviglio, perché voi avete dato liberalissimamente via tutta
la vostra roba, non considerato ch'e' vostri figliuoli ne avevano aver bisogno;
dove io penso far tutto il contrario: di lasciar tanto a' mia figliuoli, che
potranno sovenire i vostri -. A questo mio padre rispose: - Nessuno albere
cattivo mai fe' buon frutto, cosí per il contrario; e piú ti dico, che tu sei
cattivo e i tua figliuoli saranno pazzi e poveri, e verrano per la merzé a' mia
virtuosi e ricchi figliuoli -. Cosí si partí di casa sua, brontolando l'uno e
l'altro di pazze parole. Onde io, che presi la parte del mio buon padre,
uscendo di quella casa con esso insieme, gli dissi che volevo far vendette
delle ingiurie che quel ribaldo li aveva fatto - con questo che voi mi lasciate
attendere a l'arte del disegno -. Mio padre disse: - O caro flgliuol mio,
ancora io sono stato buono disegnatore: e per refrigerio di tal cosí
maravigliose fatiche e per amor mio, che son tuo padre, che t'ho ingenerato e
allevato e dato principio di tante onorate virtú, a il riposo di quelle, non mi
prometti tu qualche volta pigliar quel flauto e quel lascivissimo cornetto, e,
con qualche tuo dilettevole piacere, dilettandoti d'esso, sonare? - Io dissi
che sí, e molto volentieri per suo amore. Allora il buon padre disse che quelle
cotai virtú sarebbon la maggior vendetta che delle ingiurie ricevute da' sua
nimici io potessi fare. Da queste parole non arrivato il mese intero, che quel
detto Pierino, faccendo fare una volta a una sua casa, che lui aveva nella via
dello Studio, essendo un giorno ne la sua camera terrena, sopra una volta che
lui faceva fare, con molti compagni; venuto in proposito, ragionava del suo
maestro, ch'era stato mio padre; e replicando le parole che lui gli aveva detto
del suo profondare, non sí tosto dette, che la camera, dove lui era, per esser
mal gittata la volta, o pur per vera virtú di Dio che non paga il sabato,
profondò; e di quei sassi della volta e mattoni cascando insieme seco,
gli fiaccorno tutte a dua le gambe; e quelli ch'erano seco, restando in su li
orlicci della volta non si feceno alcun male, ma ben restorno storditi e
maravigliati; massime di quello che poco innanzi lui con ischerno aveva lor
ditto. Saputo questo mio padre, armato, lo andò a trovare, e alla
presenza del suo padre, che si chiamava Niccolaio da Volterra, trombetto della
Signoria, disse: - O Piero, mio caro discepolo, assai mi incresce del tuo male;
ma, se ti ricorda bene, egli è poco tempo che io te ne avverti'; e
altanto interverrà intra i figliuoli tua e i mia, quanto io ti dissi -.
Poco tempo appresso lo ingrato Piero di quella infirmità si morí.
Lasciò la sua impudica moglie con un suo figliuolo, il quale alquanti
anni a presso venne a me per elemosina in Roma. Io gnene diedi, sí per esser
mia natura il far delle elemosine; e appresso con lacrime mi ricordai il felice
istato che Pierino aveva, quando mio padre li disse tal parole, cioè che
i figliuoli del ditto Pierino ancora andrebbono per la mercé ai figliuoli
virtuosi sua. E di questo sia detto assai, e nessuno non si faccia mai beffe
dei pronostichi di uno uomo da bene, avendolo ingiustamente ingiuriato, perché
non è lui quel che parla, anzi è la voce de Idio istessa.
X. Attendendo pure all'arte de
l'orefice, e con essa aiutavo il mio buon padre. L'altro suo figliuolo e mio
fratello chiamato Cecchino, come di sopra dissi, avendogli fatto dare principio
di lettere latine, perché desiderava fare me, maggiore, gran sonatore e musico,
e lui, minore, gran litterato legista; non potendo isforzare quel che la natura
ci inclinava, qual fe' me applicato all'arte del disegno e il mio fratello,
quali era di bella proporzione e grazia, tutto inclinato a le arme; e per
essere ancor lui molto giovinetto, partitosi da una prima elezione della scuola
del maravigliosissimo signor Giovannino de' Medici; giunto a casa, dove io non
era, per esser lui manco bene guarnito di panni, e trovando le sue e
mie sorelle che, di nascosto da mio padre, gli detteno cappa e saio mia belle e
nuove: ché oltra a l'aiuto che io davo al mio padre e alle mie buone e oneste
sorelle, de le avanzate mie fatiche quelli onorati panni mi avevo fatti;
trovatomi ingannato e toltomi i detti panni, né ritrovando il fratello, che
torgnene volevo, dissi a mio padre perché e' mi lasciassi fare un sí gran
torto, veduto che cosí volontieri io mi affaticavo per aiutarlo. A questo mi
rispose, che io ero il suo figliuol buono, e che quello aveva riguadagnato,
qual perduto pensava avere: e che gli era di necessità, anzi precetto de
Idio istesso, che chi aveva del bene ne dessi a chi non aveva: e che per suo
amore io sopportassi questa ingiuria; Idio m'accrescerebbe d'ogni bene. Io,
come giovane sanza isperienza, risposi al povero afflitto padre; e preso certo
mio povero resto di panni e quattrini, me ne andai alla volta di una porta
della città: e non sapendo qual porta fosse quella che m'inviasse a
Roma, mi trovai a Lucca, e da Lucca a Pisa. E giunto a Pisa, questa era
l'età di sedici anni in circa, fermatomi presso al ponte di mezzo, dove
e' dicono la pietra del Pesce, a una bottega d'un'oreficeria, guardando con
attenzione quello che quel maestro faceva, il detto maestro mi domandò
chi ero e che proffessione era la mia: al quale io dissi che lavoravo un poco
di quella istessa arte che lui faceva. Questo uomo da bene mi disse che io
entrassi nella bottega sua, e subito mi dette inanzi da lavorare, e disse
queste parole: - Il tuo buono aspetto mi fa credere che tu sia da bene e buono
-. Cosí mi dette innanzi oro, argento e gioie; e la prima giornata fornita, la
sera mi menò alla casa sua, dove lui viveva onoratamente con una sua
bella moglie e figliuoli. Io, ricordatomi del dolore che poteva aver di me il
mio buon padre, gli scrissi come io era in casa di uno uomo molto buono e da
bene, il quale si domandava maestro Ulivieri della Chiostra, e con esso
lavoravo di molte opere belle e grande; e che stessi di buona voglia, che io
attendevo a imparare, e che io speravo con esse virtú presto riportarne a lui
utile e onore. Il mio buon padre subito alla lettera rispose dicendo cosí: -
Figliuol mio, l'amor ch'io ti porto è tanto che, se non fussi il grande
onore, quale io sopra ogni cosa osservo, subito mi sarei messo a venire per te,
perché certo mi pare essere senza il lume degli occhi il non ti vedere ogni dí,
come far solevo. Io attenderò a finire di condurre a virtuoso onore la
casa mia, e tu attendi a imparar delle virtú; e solo voglio che tu ricordi di
queste quattro semplici parole: e queste osserva, e mai non te le dimenticare:
In nella casa che tu vuoi stare,
vivi onesto e non vi rubare.
XI.
Capitò questa lettera alle mane di quel mio maestro Ulivieri e di
nascosto da me la lesse; di poi mi si scoperse averla letta, e mi disse queste
parole: - Già, Benvenuto mio, non mi ingannò il tuo buono
aspetto, quanto mi afferma una lettera, che m'è venuta alle mane, di tuo
padre, quale è forza che lui sia molto uomo buono e da bene; cosí fa
conto d'essere nella casa tua e come con tuo padre -. Standomi in Pisa andai a
vedere il Campo Santo, e quivi trovai molte belle anticaglie: ciò
è cassoni di marmo, e in molti altri luoghi di Pisa viddi molte altre
cose antiche, intorno alle quali tutti e' giorni che mi avanzavano del mio
lavoro della bottega assiduamente mi affaticavo; e perché il mio maestro con
grande amore veniva a vedermi alla mia cameruccia, che lui mi aveva dato,
veduto che io spendevo tutte l'ore mie virtuosamente, mi aveva posto uno amore
come se padre mi fusse. Feci un gran frutto in uno anno che io vi stetti, e
lavorai d'oro e di argento cose importante e belle, le quali mi detton
grandissimo animo a 'ndar piú inanzi. Mio padre in questo mezzo mi scriveva
molto pietosamente che io dovessi tornare a lui, e per ogni lettera mi
ricordava che io non dovessi perdere quel sonare, che lui con tanta fatica mi
aveva insegnato. A questo, subito mi usciva la voglia di non mai tornare dove
lui, tanto aveva in odio questo maledetto sonare; e mi parve veramente istare
in paradiso un anno intero che io stetti in Pisa, dove io non sonai mai. Alla
fine de l'anno Ulivieri mio maestro gli venne occasione di venire a Firenze a
vendere certe spazzature d'oro e argento che lui aveva: e perché in quella
pessima aria m'era saltato a dosso un poco di febbre, con essa e col maestro mi
ritornai a Firenze; dove mio padre fece grandissime carezze a quel mio maestro,
amorevolmente pregandolo, di nascosto da me, che fussi contento non mi rimenare
a Pisa. Restatomi ammalato, istetti circa dua mesi, e mio padre con grande
amorevolezza mi fece medicare e guarire, continuamente dicendomi che gli pareva
mill'anni che io fossi guarito, per sentirmi un poco sonare; e in mentre
ch'egli mi ragionava di questo sonare, tenendomi le dita al polso, perché aveva
qualche cognizione della medicina e delle lettere latine, sentiva in esso
polso, subito ch'egli moveva a ragionar del sonare, tanta grande alterazione,
che molte volte isbigottito e con lacrime si partiva da me. In modo che,
avedutomi di questo suo gran dispiacere, dissi a una di quelle mia sorelle che
mi portassero un flauto; che se bene io continuo avevo la febbre, per esser lo
strumento di pochissima fatica, non mi dava alterazione il sonare; con tanta
bella disposizione di mano e di lingua, che giugnendomi mio padre
all'improvisto, mi benedisse mille volte dicendomi, che in quel tempo che io ero
stato fuor di lui, gli pareva che io avessi fatto un grande acquistare; e
mi pregò che io tirassi inanzi e non dovessi perdere una cosí bella
virtú.
XII. Guarito
che io fui, ritornai al mio Marcone, uomo da bene, orafo, il quale mi dava da
guadagnare, con il quale guadagno aiutavo mio padre e la casa mia. In questo
tempo venne a Firenze uno iscultore che si domandava Piero Torrigiani, il qual
veniva di Inghilterra, dove egli era stato di molti anni; e perché egli era
molto amico di quel mio maestro, ogni dí veniva da lui; e veduto mia disegni e
mia lavori, disse: - Io son venuto a Firenze per levare piú giovani che io
posso; ché, avendo a fare una grande opera al mio Re, voglio, per aiuto, de'
mia Fiorentini; e perché il tuo modo di lavorare e i tua disegni son piú da
scultore che da orefice, avendo da fare grande opere di bronzo, in un medesimo
tempo io ti farò valente e ricco -. Era questo uomo di bellissima forma,
aldacissimo, aveva piú aria di gran soldato che di scultore, massimo a' sua mirabili
gesti e alla sua sonora voce, con uno agrottar di ciglia atto a spaventar ogni
uomo da qual cosa; e ogni giorno ragionava delle sue bravurie con quelle bestie
di quegli Inghilesi. In questo proposito cadde in sul ragionar di Michelagnolo
Buonaarroti; che ne fu causa un disegno che io avevo fatto, ritratto da un
cartone del divinissimo Michelagnolo. Questo cartone fu la prima bella opera
che Michelagnolo mostrò delle maravigliose sue virtú, e lo fece a gara
con uno altro che lo faceva: con Lionardo da Vinci; che avevano a servire per
la sala del Consiglio del palazzo della Signoria. Rappresentavano quando Pisa
fu presa da' Fiorentini; e il mirabil Lionardo da Vinci aveva preso per
elezione di mostrare una battaglia di cavagli con certa presura di bandiere,
tanto divinamente fatti, quanto imaginar si possa. Michelagnolo Buonaarroti,
innel suo dimostrava una quantità di fanterie che per essere di state
s'erano missi a bagnare in Arno; e in questo istante dimostra ch' e' si dia a
l'arme, a quelle fanterie ignude corrono a l'arme, e con tanti bei gesti, che
mai né delli antichi né d'altri moderni non si vidde opera che arrivassi a cosí
alto segno; e sí come io ho detto, quello del gran Lionardo era bellissimo e
mirabile. Stetteno questi dua cartoni, uno innel palazzo de' Medici, e uno alla
sala del Papa. In mentre che gli stetteno in piè, furno la scuola del
mondo. Se bene il divino Michelagnolo fece la gran cappella di papa Iulio da
poi, non arrivò mai a questo segno alla metà; la sua virtú non aggiunse
mai da poi alla forza di quei primi studii.
XIII. Ora
torniamo a Piero Torrigiani, che con quel mio disegno in mano disse cosí: -
Questo Buonaarroti e io andavamo a 'mparare da fanciulletti innella chiesa del
Carmine, dalla cappella di Masaccio: e perché il Buonaarroti aveva per usanza
di ucellare tutti quelli che disegnavano, un giorno in fra gli altri dandomi
noia il detto, mi venne assai piú stizza che 'l solito, e stretto la mana gli
detti sí grande il pugno in sul naso, che io mi senti' fiaccare sotto il pugno
quell'osso e tenerume del naso, come se fosse stato un cialdone: e cosí segnato
da me ne resterà insin che vive -. Queste parole generorono in me tanto
odio, perché vedevo continuamente i fatti del divino Michelagnolo, che non
tanto ch'a me venissi voglia di andarmene seco in Inchilterra, ma non potevo
patire di vederlo.
Attesi
continuamente in Firenze a imparare sotto la bella maniera di Michelagnolo, e
da quella mai mi sono ispiccato. In questo tempo presi pratica e amicizia
istrettissima con uno gentil giovanetto di mia età, il quale ancora lui
stava allo orefice. Aveva nome Francesco, figliuolo di Filippo di fra Filippo
eccellentissimo pittore. Nel praticare insieme generò in noi un tanto
amore, che mai né dí né notte stavamo l'uno senza l'atro: e perché ancora la
casa sua era piena di quelli belli studii che aveva fatto il suo valente padre,
i quali erano parecchi libri disegnati di sua mano, ritratti dalle belle
anticaglie di Roma; la qual cosa, vedendogli, mi innamororno assai; e dua anni
in circa praticammo insieme. In questo tempo io feci una opera di ariento di
basso rilievo, grande quanta è una mana di un fanciullo piccolo. Questa
opera serviva per un serrame per una cintura da uomo, che cosí grandi alora si
usavono. Era intagliato in esso un gruppo di fogliame fatto all'antica, con
molti puttini e altre bellissime maschere. Questa tale opera io la feci in
bottega di uno chiamato Francesco Salinbene. Vedendosi questa tale opera per
l'arte degli orefici, mi fu dato vanto del meglio giovane di quella arte. E
perché un certo Giovanbatista, chiamato il Tasso, intagliatore di legname,
giovane di mia età a punto, mi cominciò a dire che, se io volevo
andare a Roma, volentieri insieme ne verrebbe meco - questo ragionamento che
noi avemmo insieme fu poi il desinare a punto - e per essere per le medesime
cause del sonare adiratomi con mio padre, dissi al Tasso: - Tu sei persona da
far delle parole e non de' fatti -. Il quale Tasso mi disse: - Ancora io mi
sono adirato con mia madre, e se io avessi tanti quattrini che mi conducessino
a Roma, io non tornerei indrieto a serrare quel poco della botteguccia che io
tengo -. A queste parole io aggiunsi, che se per quello lui restava, io mi
trovavo a canto tanti quattrini, che bastavano a portarci a Roma tutti a dua.
Cosí ragionando insieme, mentre andavamo, ci trovammo alla porta a San Piero
Gattolini disavedutamente. Al quale io dissi: - Tasso mio, questa
è fattura d'Idio l'esser giunti a questa porta, che né tu né io aveduti
ce ne siàno: ora, da poi che io son qui, mi pare aver fatto la
metà del cammino -. Cosí d'accordo lui e io dicevamo, mentre che
seguivamo il viaggio: - Oh che dirà i nostri vecchi stasera? - Cosí
dicendo facemmo patti insieme di non gli ricordar piú insino a tanto che noi
fussimo giunti a Roma. Cosí ci legammo i grembiuli indietro, e quasi alla
mutola ce ne andammo insino a Siena. Giunti che fummo a Siena, il Tasso disse
che s'era fatto male ai piedi, che non voleva venire piú innanzi, e mi richiese
gli prestassi danari per tornarsene: al quale io dissi: - A me non ne
resterebbe per andare innanzi; però tu ci dovevi pensare a muoverti di
Firenze; e se per causa dei piedi tu resti di non venire, troveremo un cavallo
di ritorno per Roma, e allora non arai scusa di non venire -. Cosí preso il
cavallo, veduto che lui non mi rispondeva, inverso la porta di Roma presi il
cammino. Lui, vedutomi risoluto, non restando di brontolare, il meglio che
poteva, zoppicando drieto assai ben discosto e tardo veniva. Giunto che io fui
alla porta, piatoso del mio compagnino, lo aspettai e lo missi in groppa,
dicendogli: - Che domin direbbono e' nostri amici di noi, che partitici per
andare a Roma, non ci fussi bastato la vista di passare Siena? - Allora il buon
Tasso disse che io dicevo il vero; e per esser persona lieta, cominciò a
ridere e a cantare: e cosí sempre cantando e ridendo ci conducemmo a Roma.
Questo era a punto l'età mia di diciannove anni, insieme col millesimo.
Giunti che noi fummo in Roma, subito mi messi a bottega con uno maestro, che si
domandava Firenzola. Questo aveva nome Giovanni e era da Firenzuola di
Lombardia, ed era valentissimo uomo di lavorare di vasellami e cose grosse.
Avendogli mostro un poco di quel modello di quel serrame che io avevo fatto in
Firenze col Salinbene, gli piacque maravigliosamente, e disse queste parole,
voltosi a uno garzone che lui teneva, il quale era fiorentino e si domandava
Giannotto Giannotti, ed era stato seco parecchi anni; disse cosí: - Questo
è di quelli Fiorentini che sanno, e tu sei di quelli che non sanno -. Allora
io, riconosciuto quel Giannotto, gli volsi fare motto; perché inanzi che lui
andassi a Roma, spesso andavamo a disegnare insieme, ed eravamo stati molto
domestici compagnuzzi. Prese tanto dispiacere di quelle parole che gli aveva
detto il suo maestro, che egli disse non mi cognoscere né sapere chi io mi
fussi: onde io sdegnato a cotal parole, gli dissi: - O Giannotto, già
mio amico domestico, che ci siamo trovati in tali e tali luoghi, e a disegnare
e a mangiare e bere e dormire in villa tua; io non mi curo che tu faccia
testimonianza di me a questo uomo da bene tuo maestro, perché io spero che le
mane mia sieno tali, che sanza il tuo aiuto diranno quale io sia.
XIV. Finito
queste parole, il Firenzuola, che era persona arditissima e bravo, si volse al
detto Giannotto e li disse: - O vile furfante, non ti vergogni tu a usare
questi tali termini e modi a uno che t'è stato sí domestico compagno? -.
E nel medesimo ardire voltosi a me, disse: - Entra in bottega e fa come tu hai
detto, che le tue mane dicano quel che tu sei -: e mi dette a fare un
bellissimo lavoro di argento per un cardinale. Questo fu un cassonetto ritratto
da quello di porfido che è dinanzi alla porta della Retonda. Oltra
quello che io ritrassi, di mio arricchi'lo con tante belle mascherette, che il
maestro mio s'andava vantando e mostrandolo per l'arte, che di bottega sua
usciva cosí ben fatta opera. Questo era di grandezza di un mezzo braccio in
circa; ed era accomodato che serviva per una saliera da tenere in tavola.
Questo fu il primo guadagno che io gustai in Roma; e una parte di esso guadagno
ne mandai a soccorrere il mio buon padre: l'altra parte serbai per la vita mia;
e con esso me ne andavo studiando intorno alle cose antiche, insino a tanto che
e' danari mi mancorno, che mi convenne tornare a bottega a lavorare. Quel
Battista del Tasso mio compagno non istette troppo in Roma, che lui se ne
tornò a Firenze. Ripreso nuove opere, mi venne voglia, finite che io le
ebbi, di cambiate maestro, per esser sobbillato da un certo Milanese, il quale si
domandava maestro Pagolo Arsago. Quel mio Firenzuola primo ebbe a fare gran
quistione con questo Arsago, dicendogli in mia presenza alcune parole
ingiuriose, onde che io ripresi le parole in defensione del nuovo maestro.
Dissi ch'io era nato libero, e cosí libero mi volevo vivere, e che di lui non
si poteva dolere; manco di me, restando aver dallui certi pochi scudi
d'accordo; e come lavorante libero volevo andare dove mi piaceva, conosciuto
non far torto a persona. Anche quel mio nuovo maestro usò parecchi
parole, dicendo che non mi aveva chiamato, e che io gli farei piacere a
ritornare col Firenzuola. A questo io aggiunsi che non cognoscendo in modo
alcuno di farli torto, e avendo finite l'opere mia cominciate, volevo essere
mio e non di altri; e chi mi voleva mi chiedessi a me. A questo disse il
Firenzuola: - Io non ti voglio piú chiedere a te, e tu non capitare innanzi per
nulla piú a me -. Io gli ricordai e' mia danari: lui sbeffandomi; a il quale io
dissi, che cosí bene come io adoperavo e' ferri per quelle tale opere, che lui
aveva visto, non manco bene adoperrei la spada per recuperazione delle fatiche
mie. A queste parole a sorta si fermò un certo vecchione, il quale si
domandava maestro Antonio da San Marino. Questo era il primo piú eccellente orefice
di Roma, ed era stato maestro di questo Firenzuola. Sentito le mia ragione,
quale io dicevo di sorte che le si potevano benissimo intendete, subito
preso la mia protezione, disse al Firenzuola che mi pagassi. Le dispute furno
grande, perché era questo Firenzuola maraviglioso maneggiator di arme; assai
piú che ne l'arte de l'orefice; pur è la ragione che volse il suo luogo,
e io con lo istesso valore lo aiutai, in modo che io fui pagato; e con ispazio
di tempo il ditto Firenzuola e io fummo amici, e gli battezzai un figliuolo,
richiesto da lui.
XV. Seguitando di lavorare con
questo maestro Pagolo Arsago, guadagnai assai, sempre mandando la maggior parte
al mio buon padre. In capo di dua anni, alle preghiere del buon padre me ne
tornai a Firenze, e mi messi di nuovo a lavorare con Francesco Salinbene, con
il quale molto bene guadagnavo, e molto mi affaticavo a 'mparare. Ripreso la
pratica con quel Francesco di Filippo, con tutto che io fussi molto dedito a
qualche piacere, causa di quel maledetto sonare, mai lasciavo certe ore del
giorno o della notte, quale io davo alli studii. Feci in questo tempo un
chiavacuore di argento, il quale era in quei tempi chiamato cosí. Questo si era
una cintura di tre dita larga, che alle spose novelle s'usava di fare, ed era
fatta di mezzo rilievo con qualche figuretta ancora tonda in fra esse. Fecesi a
uno che si domandava Raffaello Lapaccini. Con tutto che io ne fussi malissimo
pagato, fu tanto l'onore che io ne ritrassi, che valse molto di piú che 'l
premio che giustamente trar ne potevo. Avendo in questo tempo lavorato con
molte diverse persone in Firenze, dove io avevo cognusciuto in fra gli
orefici alcuni uomini da bene, come fu quel Marcone mio primo maestro, altri
che avevano nome di molto buoni uomini, essendo sobissato da loro
innelle mie opere quanto e' potettono mi ruborno grossamente. Veduto questo, mi
spiccai da loro e in concetto di tristi e ladri gli tenevo. Uno orafo in fra
gli altri, chiamato Giovanbatista Sogliani, piacevolmente mi accomodò di
una parte della sua bottega, quale era in sul canto di Mercato Nuovo, accanto a
il banco che era de' Landi. Quivi io feci molte belle operette e guadagnai
assai: potevo molto bene aiutare la casa mia. Destossi la invidia da quelli
cattivi maestri, che prima io avevo aúti, i quali si chiamavano Salvadore e
Michele Guasconti: erano ne l'arte degli orefici tre grosse botteghe di
costoro, e facevano di molte faccende; in modo che, veduto che mi offendevano,
con alcuno uomo da bene io mi dolsi, dicendo che ben doveva lor bastare le
ruberie che loro mi avevano usate sotto il mantello della lor falsa dimostrata
bontà. Tornando loro a orecchi, si vantorno di farmi pentire assai di
tal parole; onde io non conoscendo di che colore la paura si fusse, nulla o
poco gli stimava.
XVI. Un giorno occorse che, essendo appoggiato alla bottega di
uno di questi, chiamato da lui, e parte mi riprendeva e parte mi bravava: al
cui io risposi, che se loro avessin fatto il dovere a me, io arei detto di loro
quel che si dice degli uomini buoni e da bene: cosí, avendo fatto il contrario,
dolessinsi di loro e non di me. In mentre che io stavo ragionando, un di loro,
che si domanda Gherardo Guasconti, lor cugine, ordinato forse da costoro
insieme, appostò che passassi una soma. Questa fu una soma di mattoni.
Quando detta soma fu al rincontro mio, questo Gherardo me la pinse talmente
addosso che la mi fece gran male. Voltomi subito e veduto che lui se ne rise,
gli menai sí grande il pugno in una tempia, che svenuto cadde come morto; di
poi voltomi ai sua cugini, dissi: - Cosí si trattano i ladri poltroni vostri
pari -: e volendo lor fare alcuna dimostrazione, perché assai erano, io, che mi
trovavo infiammato, messi mano a un piccol coltello che io avevo, dicendo cosí:
- Chi di voi esca della sua bottega, l'altro corra per il confessoro, perché il
medico non ci arà che fare -. Furno le parole a loro di tanto spavento,
che nessuno si mosse a l'aiuto del cugino. Subito che partito io mi fui,
corsono i padri e i figliuoli agli Otto, e quivi dissono che io con armata mano
gli avevo assaliti in su le botteghe loro, cosa che mai piú in Firenze s'era
usata tale. E' signori Otto mi fecion chiamare; onde io comparsi; e dandomi una
grande riprensione e sgridato, sí per vedermi in cappa e quelli in mantello e
cappuccio alla civile; ancora perché li avversari mia erano stati a parlare a
casa a quei Signori a tutti in disparte, e io, come non pratico, a nessun di
quelli Signori non avevo parlato, fidandomi della mia gran ragione che io
tenevo; e dissi, che a quella grande offesa e ingiuria che Gherardo mi aveva
fatta, mosso da còllora grandissima, e non gli dato altro che una
ceffata, non mi pareva dovere di meritare tanta gagliarda riprensione. Appena
che Prinzivalle della Stufa, il quale era degli Otto, mi lasciassi finir di
dire ceffata, che disse: - Un pugno e non ceffata gli desti -. Sonato il
campanuzzo e mandatici tutti fuora, in mia difesa disse Prinzivalle agli
compagni: - Considerate, signori, la semplicità di questo povero
giovane, il quale si accusa di aver dato ceffata, pensando che sia manco errore
che dare un pugno; perché d'una ceffata in Mercato Nuovo la pena si è
venticinque scudi, e d'un pugno poco o nonnulla. Questo è giovane molto
virtuoso, e mantiene la povera casa sua con le fatiche sua, molto abundante; e
volessi Idio che la città nostra di questa sorta ne avessi abundanzia,
sí come la n'ha mancamento.
XVII. Era
infra di loro alcuni arronzinati cappuccetti, che mossi dalle preghiere e male
informazioni delli mia avversari, per esser di quella fazione di fra Girolamo,
mi arebbon voluto metter prigione e condennarmi a misura di carboni: alla qual
cosa il buon Prinzivalle attutto rimediò. Cosí mi fece una piccola
condennagione di quattro staia di farina, le quali si dovessimo donare per
elemosina al monasterio delle Murate. Subito richiamatoci drento mi
comandò che io non parlassi parola sotto pena della disgrazia loro, e
che io ubbidissi di quello che condennato io ero. Cosí dandomi una gagliarda
grida ci mandorno al cancelliere: io che borbottando sempre dicevo “ceffata fu
e non pugno”, in modo che ridendo gli Otto si rimasono. Il cancelliere ci
comandò da parte del magistrato che noi ci dessimo sicurtà l'un
l'altro, e me solo condennorno in quelle quattro staia della farina. A me che
parve essere assassinato, non tanto ch'io mandai per un mio cugino, il quale si
domandava maestro Anniballe cerusico, padre di messer Librodoro Librodori,
volendo io che lui per me prommettessi. Il ditto non volse venire: per la qual
cosa io sdegnato, soffiando diventai come uno aspido, e feci disperato iudizio.
Qui si cognosce quanto le stelle non tanto ci inclinano, ma ci sforzano.
Conosciuto quanto grande obrigo questo Anniballe aveva alla casa mia,
m'accrebbe tanto còllora che, tirato tutto al male e anche per natura
alquanto collerico, mi stetti a 'spettare che il detto ufizio degli Otto fussi
ito a desinare: e restato quivi solo, veduto che nessuno della famiglia degli
Otto piú a me non guardava, infiammato di còllora, uscito del Palazzo,
corsi alla mia bottega, dove trovatovi un pugnalotto saltai in casa delli mia
avversari, che a casa e a bottega istavano. Trova'gli a tavola, e quel giovane
Gherardo, che era stato capo della quistione, mi si gettò a dosso: al
cui io menai una pugnalata al petto, che il saio, il colletto insino alla
camicia a banda a banda io li passai, non gli avendo tocco la carne o fattogli
un male al mondo. Parendo a me, per l'entrar della mana e quello rumor de'
panni, aver fatto grandissimo male, e lui per ispavento caduto a terra, dissi:
- O traditori, oggi è quel dí che io tutti vi ammazzo -. Credendo il
padre, la madre e le sorelle che quel fusse il dí del Giudizio, subito
gettatisi inginocchione per terra, misericordia ad alta voce con le bigoncie
chiamavano: e veduto non fare alcuna difesa contro di me, e quello disteso in
terra come morto, troppo vil cosa mi parve a toccargli; ma furioso corsi giú
per la scala: e giunto alla strada, trovai tutto il resto della casata, li
quali erano piú di dodici; chi di loro aveva una pala di ferro, alcuni un grosso
canale di ferro, altri martella, ancudine, altri bastoni. Giunto fra loro, sí
come un toro invelenito, quattro o cinque ne gittai in terra, e con loro
insieme caddi, sempre menando il pugnale ora a questo ora a quello. Quelli che
in piedi restati erano, quanto egli potevano sollecitavano, dando a me a dua
mane con martella, con bastoni e con ancudine: e perché Idio alcune volte
piatoso si intermette, fece che né loro a me e né io a loro non ci facemmo un
male al mondo. Solo vi restò la mia berretta, la quale assicuratisi e'
mia avversari che discosto a quella si eron fuggiti, ugniuno di loro la
percosse con le sua arme: di poi riguardato infra di loro de e' feriti e morti,
nessuno v'era che avessi male.
XVIII. Io me
ne andai alla volta di santa Maria Novella, e subito percossomi in frate Alesso
Strozzi, il quale io non conosceva, a questo buon frate io per l'amor de Dio mi
raccomandai, che mi salvassi la vita, perché grande errore avevo fatto. Il buon
frate mi disse che io non avessi paura di nulla, ché, tutti e' mali del mondo
che io avessi fatti, in quella cameruccia sua ero sicurissimo. In ispazio d'una
ora a presso, gli Otto, ragunatisi fuora del loro ordine, fecion mandare
un de' piú spaventosi bandi contra di me, che mai s'udissi, sotto pene grandissime
a chi m'avessi o sapessi, non riguardando né a luogo né a qualità che mi
tenessi. Il mio afflitto e povero buon padre entrando agli Otto, ginocchioni si
buttò in terra, chiedendo misericordia del povero giovane figliuolo:
dove che un di quelli arrovellati, scotendo la cresta dello arronzinato
capuccio, rizzatosi in piedi, con alcune ingiuriose parole disse al povero
padre mio: - Lièvati di costí, e va' fuora subito, ché domattina te lo
manderemo in villa con i lanciotti -. Il mio povero padre pure ardito rispose,
dicendo loro: - Quel che Idio arà ordinato, tanto farete, e non piú
là -. Al cui quel medesimo rispose che per certo cosí aveva ordinato
Idio. E mio padre allui disse: - Io mi conforto, che voi certo non lo sapete -
e partitosi dalloro, venne a trovarmi insieme con un certo giovane di mia
età, il quale si chiamava Piero di Giovanni Landi: ci volevamo bene piú
che se fratelli fussimo stati. Questo giovane aveva sotto il mantello una
mirabile ispada e un bellissimo giaco di maglia: e giunti a me, il mio animoso
padre mi disse il caso, e quel che gli avevan detto i signori Otto. Di poi mi
baciò in fronte e tutti a dua gli occhi; mi benedisse di cuore, dicendo
cosí: - La virtú de Dio sia quella che ti aiuti - e pòrtomi la spada e
l'arme, con le sue mane proprie me le aiutò vestire. Di poi disse: - O
figliuol mio buono, con queste in mano, o tu vivi o tu muori -. Pier Landi, che
era quivi alla presenza, non cessava di lacrimare, e pòrtomi dieci scudi
d'oro, io dissi che mi levassi certi peletti della barba, che prime caluggine
erano. Frate Alesso mi vestí in modo di frate e un converso mi diede per
compagnia. Uscitomi del convento, uscito per la porta di Prato, lungo le mura
me ne andai insino alla piazza di San Gallo; e salito la costa di Montui, in una
di quelle prime case trovai un che si domandava il Grassuccio, fratel carnale
di misèr Benedetto da Monte Varchi. Subito mi sfratai, e ritornato uomo,
montati in su dua cavalli, che quivi erano per noi, la notte ce ne andammo a
Siena. Rimandato indrieto il detto Grassuccio a Firenze, salutò mio
padre e gli disse che io ero giunto a salvamento. Mio padre rallegratosi assai,
gli parve mill'anni di ritrovar quello degli Otto che gli aveva detto ingiuria;
e trovatolo disse cosí: - Vedete voi, Antonio, ch'egli era Idio quello che
sapeva quel che doveva essere del mio figliuolo, e non voi? - Al cui rispose: -
Di' che ci càpiti un'altra volta -. Mio padre allui: - Io
attenderò a ringraziare Idio, che l'ha campato di questo.
XIX. Essendo
a Siena, aspettai il procaccia di Roma, e con esso mi accompagnai. Quando fummo
passati la Paglia scontrammo il corriere che portava le nuove del papa nuovo,
che fu papa Clemente. Giunto a Roma mi missi a lavorare in bottega di maestro
Santi orefice: se bene il detto era morto, teneva la bottega un suo figliuolo.
Questo non lavorava, ma faceva fare le faccende di bottega tutte a uno giovane
che si domandava Luca Agnolo da Iesi. Questo era contadino, e da piccol
fanciulletto era venuto a lavorare con maestro Santi. Era piccolo di statura,
ma ben proporzionato. Questo giovane lavorava meglio che uomo che io vedessi
mai insino a quel tempo, con grandissima facilità e con molto disegno:
lavorava solamente di grosseria, cioè vasi bellissimi, e bacini, e cose
tali. Mettendomi io a lavorar in tal bottega presi a fare certi candellieri per
il vescovo Salamanca spagnuolo. Questi tali candellieri furno riccamente
lavorati, per quanto si appartiene a tal opera. Un descepol di Raffaello da
Urbino, chiamato Gianfrancesco, per sopranome il Fattore, era pittore molto
valente; e perché egli era amico del detto vescovo, me gli misse molto in
grazia, a tale che io ebbi moltissime opere da questo vescovo, e guadagnavo
molto bene. In questo tempo io andavo quando a disegnare in Capella di
Michelagnolo, e quando alla casa di Agostino Chigi sanese, nella qual casa era
molte opere bellissime di pittura di mano dello eccellentissimo Raffaello da
Urbino; e questo si era il giorno della festa, perché in detta casa abitava
misser Gismondo Chigi, fratello del detto misser Agostino. Avevano molta boria
quando vedevano delli giovani miei pari che andavano a 'mparare drento alle
case loro. La moglie del detto misser Gismondo, vedutomi sovente in questa sua
casa - questa donna era gentile al possibile e oltramodo bella - accostandosi
un giorno a me, guardando li mia disegni, mi domandò se io ero scultore
o pittore: alla cui donna io dissi, che ero orefice. Disse lei, che troppo ben
disegnavo per orefice; e fattosi portare da una sua cameriera un giglio di bellissimi
diamanti legati in oro, mostrandomegli, volse che io gli stimassi. Io gli
stimai ottocento scudi. Allora lei disse che benissimo gli avevo stimati. A
presso mi domandò se mi bastava l'animo di legargli bene: io dissi che
molto volentieri, e alla presenza di lei ne feci un pochetto di disegno; e
tanto meglio lo feci, quanto io pigliavo piacere di trattenermi con questa tale
bellissima e piacevolissima gentildonna. Finito il disegno, sopragiunse
un'altra bellissima gentildonna romana, la quale era di sopra, e scesa a basso
dimandò la detta madonna Porzia quel che lei quivi faceva: la quale
sorridendo disse: - Io mi piglio piacere il vedere disegnare questo giovane da
bene, il quale è buono e bello -. Io, venuto in un poco di baldanza, pur
mescolato un poco di onesta vergogna, divenni rosso e dissi: - Quale io mi sia,
sempre, madonna, io sarò paratissimo a servirvi -. La gentildonna, anche
lei arrossita alquanto, disse: - Ben sai che io voglio che tu mi serva - e
pòrtomi il giglio, disse che io me ne lo portassi; e di piú mi diede
venti scudi d'oro, che l'aveva nella tasca, e disse: - Legamelo in questo modo
che disegnato me l'hai, e salvami questo oro vechio in che legato egli è
ora -. La gentildonna romana allora disse: - Se io fussi in quel giovane, volentieri
io m'andrei con Dio -. Madonna Porzia agiunse che le virtú rare volte stanno
con i vizii e che, se tal cosa io facessi, forte ingannerei quel bello aspetto
che io dimostravo di uomo da bene - e voltasi, preso per mano la gentildonna
romana, con piacevolissimo riso mi disse: - A Dio, Benvenuto -. Soprastetti
alquanto intorno al mio disegno che facevo, ritraendo certa figura di Iove di
man di Raffaello da Urbino detto. Finita che l'ebbi, partitomi, mi messi a fare
un picolo modellino di cera, mostrando per esso come doveva da poi tornar fatta
l'opera; e portatolo a vedere a madonna Porzia detta, essendo alla presenza
quella gentildonna romana, che prima dissi, l'una e l'altra grandemente
satisfatte delle fatiche mie, mi feceno tanto favore, che mosso da qualche poco
di baldanza, io promissi loro, che l'opera sarebbe meglio ancora la metà
che il modello. Cosí messi mano, e in dodici giorni fini' il detto gioiello in
forma di giglio, come ho detto di sopra, adorno con mascherini, puttini,
animali e benissimo smaltato; in modo che li diamanti, di che era il giglio,
erono migliorati piú della metà.
XX. In mentre
che io lavoravo questa opera, quel valente uomo Lucagnolo, che io dissi di
sopra, mostrava di averlo molto per male, piú volte dicendomi che io mi farei
molto piú utile e piú onore ad aiutarlo lavorar vasi grandi di argento, come io
avevo cominciato. Al quale io dissi, che io sarei atto, sempre che io volessi,
a lavorar vasi grandi di argento; ma che di quelle opere che io facevo, non ne
veniva ogni giorno da fare; e che in esse opere tali era non manco onore che
ne' vasi grandi di argento, ma sí bene molto maggiore utile. Questo Lucagnolo
mi derise dicendo: - Tu lo vedrai, Benvenuto; perché allora che tu arai finita
cotesta opera, io mi affretterò di aver finito questo vaso, il quale
cominciai quando tu il gioiello; e con la esperienza sarai chiaro l'utile che
io trarrò del mio vaso, e quello che tu trarrai de il tuo gioiello -. Al
cui io risposi, che volentieri avevo a piacere di fare con un sí valente uomo, quale
era lui, tal pruova, perché alla fine di tale opere si vedrebbe chi di noi si
ingannava. Cosí l'uno e l'altro di noi alquanto, con un poco di sdegnoso riso,
abbassati il capo fieramente, ciascuno desideroso di dar fine alle cominciate
opere; in modo che in termine di dieci giorni incirca ciascun di noi aveva con
molta pulitezza e arte finita l'opera sua. Quella di Lucagnolo detto si era un
vaso assai ben grande, il qual serviva in tavola di papa Clemente, dove buttava
drento, in mentre che era a mensa, ossicina di carne e buccie di diverse
frutte; fatto piú presto a pompa che a necessità. Era questo vaso ornato
con dua bei manichi, con molte maschere picole e grande, con molti bellissimi
fogliami, di tanta bella grazia e disegno, quanto inmaginar si possa; al quale
io dissi, quello essere il piú bel vaso che mai io veduto avessi. A questo,
Lucagnolo, parendogli avermi chiarito, disse: - Non manco bella pare a me
l'opera tua, ma presto vedremo la differenza de l'uno e de l'altro -. Cosí
preso il suo vaso, portatolo al papa, restò satisfatto benissimo, e
subito lo fece pagare secondo l'uso de l'arte di tai grossi lavori. In questo
mentre io portai l'opera mia alla ditta gentildonna madonna Porzia, la quali
con molta maraviglia mi disse, che di gran lunga io avevo trapassata la
promessa fattagli; e poi aggiunse, dicendomi che io domandassi delle fatiche
mie tutto quel che mi piaceva, perché gli pareva che io meritassi tanto, che
donandomi un castello, a pena gli parrebbe d'avermi sadisfatto; ma perché lei questo
non poteva fare, ridendo mi disse, che io domandassi quel che lei poteva fare.
Alla cui io dissi, che il maggior premio delle mie fatiche desiderato, si era
l'avere sadisfatto Sua Signoria. Cosí anch'io ridendo, fattogli reverenza, mi
parti', dicendo che io non voleva altro premio che quello. Allora madonna
Porzia ditta si volse a quella gentildonna romana, e disse: - Vedete voi che la
compagnia di quelle virtú che noi giudicammo in lui, son queste, e non sono i
vizii? - Maravigliatosi l'una e l'altra, pure disse madonna Porzia: - Benvenuto
mio, ha' tu mai sentito dire, che quando il povero dona a il ricco, il diavol
se ne ride? - Alla quale io dissi: - E però di tanti sua dispiaceri,
questa volta lo voglio vedere ridere - e partitomi, lei disse che non voleva
per questa volta fargli cotal grazia. Tornatomi alla mia bottega, Lucagnolo
aveva in un cartoccio li dinari avuti del suo vaso; e giunto mi disse: -
Accosta un poco qui a paragone il premio del tuo gioiello a canto al premio del
mio vaso -. Al quale io dissi che lo salvassi in quel modo insino al seguente
giorno; perché io speravo che sí bene come l'opera mia innel suo genere non era
stata manco bella della sua, cosí aspettavo di fargli vedere il premio di essa.
XXI. Venuto
l'altro giorno, madonna Porzia mandato alla mia bottega un suo maestro di casa,
mi chiamò fuora, e pòrtomi in mano un cartoccio pieno di danari
da parte di quella signora, mi disse, che lei non voleva che il diavol se ne
ridessi affatto; mostrando che quello che la mi mandava non era lo intero
pagamento che meritavano le mie fatiche, con molte altre cortese parole degne
di cotal signora. Lucagnolo, che gli pareva mill'anni di accostare il
suo cartoccio al mio, subito giunto in bottega, presente dodici lavoranti e
altri vicini fattisi innanzi, che desideravano veder la fine di tal contesa,
Lucagnolo prese il suo cartoccio con ischerno ridendo, dicendo: - Ou! ou - tre
o quattro volte, versato li dinari in sul banco con gran rumore: i quali erano venticinque
scudi di giuli, pensando che li mia fussino quattro o cinque scudi di moneta:
dove che io, soffocato dalle grida sue, dallo sguardo e risa de' circunstanti,
guardando cosí un poco dentro innel mio cartoccio, veduto che era tutto oro, da
una banda del banco tenendo gli occhi bassi, senza un romore al mondo, con
tutt'a dua le mane forte in alto alzai il mio cartoccio, il quali facevo
versare a modo di una tramoggia di mulino. Erano li mia danari la metà
piú che li sua; in modo che tutti quegli occhi, che mi s'erano affisati a dosso
con qualche ischerno, subito vòlti a lui, dissono: - Lucagnolo, questi
dinari di Benvenuto per essere oro, e per essere la metà piú, fanno
molto piú bel vedere che li tua -. Io credetti certo, che per la invidia,
insieme con lo scorno che ebbe quel Lucagnolo, subito cascassi morto: e con
tutto che di quelli mia danari allui ne venissi la terza parte, per esser io
lavorante - ché cosí è il costume: dua terzi ne tocca a il lavorante e
l'altra terza parte alli maestri della bottega - potette piú la temeraria
invidia che la avarizia in lui, qual doveva operare tutto il contrario, per
essere questo Lucagnolo nato d'un contadino da Iesi. Maladisse l'arte sua e
quelli che gnene avevano insegnata, dicendo che da mò innanzi non voleva
piú fare quell'arte di grosseria; solo voleva attendere a fare di quelle
bordellerie piccole, da poi che le erano cosí ben pagate. Non manco sdegnato io
dissi, che ogni uccello faceva il verso suo; che lui parlava sicondo le grotte
di dove egli era uscito, ma che io gli protestavo bene, che a me riuscirebbe
benissimo il fare delle sue coglionerie, e che a lui non mai riuscirebbe il far
di quella sorte bordellerie. Cosí partendomi adirato, gli dissi che presto
gnene faria vedere. Quelli che erano alla presenza gli dettono a viva voce il
torto, tenendo lui in concetto di villano come gli era, e me in concetto di
uomo, sí come io avevo mostro.
XXII. Il dí seguente andai a
ringraziare madonna Porzia, e li dissi che Sua Signoria aveva fatto il
contrario di quel che la disse: che volendo io fare che 'l diavolo se ne
ridessi, lei di nuovo l'aveva fatto rinnegare Idio. Piacevolmente l'uno e
l'altro ridemmo, e mi dette da fare altre opere belle e buone. In questo mezzo
io cercai, per via d'un discepolo di Raffaello da Urbino pittore, che il
vescovo Salamanca mi dessi da fare un vaso grande da acqua, chiamato
un'acquereccia, che per l'uso delle credenze che in sun esse si tengono
per ornamento. E volendo il detto vescovo farne dua di equal grandezza, uno ne
dette da fare al detto Lucagnolo, e uno ne ebbi da fare io; e la modanatura
delli detti vasi, ci dette il disegno quel ditto Gioanfrancesco pittore. Cosí
messi mano con maravigliosa voglia innel detto vaso, e fui accomodato d'una
particina di bottega da uno Milanese, che si chiamava maestro Giovanpiero della
Tacca. Messomi in ordine, feci il mio conto delli danari che mi potevano
bisognare per alcuna mia affari, e tutto il resto ne mandai assoccorrere il mio
povero buon padre; il quale, mentre che gli erano pagati in Firenze, s'abbatté
per sorte un di quelli arrabbiati che erano degli Otto a quel tempo che io feci
quel poco del disordine, e ch'egli svillaneggiandolo gli aveva detto di
mandarmi in villa con lanciotti a ogni modo. E perché quello arrabbiato aveva
certi cattivi figliolacci, a proposito mio padre disse: - A ogniuno piú
può intervenire delle disgrazie, massimo agli uomini collorosi quando
egli hanno ragione, come intervenne al mio figliuolo; ma veggasi poi del resto
della vita sua, come io l'ho virtuosamente saputo levare. Volesse Idio in
vostro servizio, che i vostri figliuoli non vi facessino né peggio, né meglio
di quel che fanno e mia a me; perché, sí come Idio m'ha fatto tale che io gli
ho saputi allevare, cosí, dove la virtú mia non ha potuto arrivare, Lui stesso
me gli ha campati, contra il vostro credere, dalle vostre violente mane -. E
partitosi, tutto questo fatto mi scrisse, pregandomi per l'amor di Dio che io
sonassi qualche volta, acciò che io non perdessi quella bella virtú, che
lui con tante fatiche mi aveva insegnato. La lettera era piena delle piú
amorevol parole paterne che mai sentir si possa; in modo tale che le mi mossono
a pietose lacrime, desiderando prima che lui morissi di contentarlo in buona
parte, quanto al sonare, sí come Idio ci compiace tutte le lecite grazie che
noi fedelmente gli domandiamo.
XXIII. Mentre
che io sollecitavo il bel vaso di Salamanca, e per aiuto avevo solo un
fanciulletto, che con grandissime preghiere d'amici, mezzo contra la mia
voglia, avevo preso per fattorino. Questo fanciullo era di età di
quattordici anni incirca; aveva nome Paulino ed era figliuolo di un cittadino
romano, il quale viveva delle sue entrate. Era questo Paulino il meglio creato,
il piú onesto e il piú bello figliuolo, che mai io vedessi alla vita mia; e per
i sua onesti atti e costumi, e per la sua infinita bellezza, e per el grande
amore che lui portava a me, avenne che per queste cause io gli posi tanto
amore, quanto in un petto di uno uomo rinchiuder si possa. Questo sviscerato
amore fu causa, che per vedere io piú sovente rasserenare quel maraviglioso
viso, che per natura sua onesto e maninconico si dimostrava; pure,
quando io pigliavo il mio cornetto, subito moveva un riso tanto onesto e tanto
bello, che io non mi maraviglio punto di quelle pappolate che
scrivono e' Greci degli dèi del cielo. Questo talvolta, essendo a quei
tempi, gli arebbe fatti forse piú uscire de' gangheri. Aveva questo Paulino una
sua sorela, che aveva nome Faustina, qual penso io che mai Faustina fussi sí
bella, di chi gli antichi libri cicalan tanto. Menatomi alcune volte alla vigna
sua, e per quel che io potevo giudicare, mi pareva che questo uomo da bene,
padre del detto Paulino, mi arebbe voluto far suo genero. Questa cosa mi
causava molto piú il sonare, che io non facevo prima. Occorse in questo tempo
che un certo Gianiacomo piffero da Cesena, che stava col Papa, molto mirabil
sonatore, mi fece intendere per Lorenzo tronbone lucchese, il quale è
oggi al servizio del nostro Duca, se io volevo aiutar loro per il Ferragosto
del Papa, sonar di sobrano col mio cornetto quel giorno parecchi mottetti, che
loro bellissimi scelti avevano. Con tutto che io fussi nel grandissimo
desiderio di finire quel mio bel vaso cominciato, per essere la musica cosa
mirabile in sé e per sattisfare in parte al mio vecchio padre, fui contento far
loro tal compagnia: e otto giorni innanzi al Ferragosto, ogni dí dua ore
facemmo insieme conserto, in modo che il giorno d'agosto andammo in Belvedere,
e in mentre che papa Clemente desinava, sonammo quelli disciplinati mottetti in
modo, che il Papa ebbe a dire non aver mai sentito musica piú suavemente e
meglio unita sonare. Chiamato a sé quello Gianiacomo, lo domandò di che
luogo e in che modo lui aveva fatto a avere cosí buon cornetto per sobrano, e
lo domandò minutamente chi io ero. Gianiacomo ditto gli disse a punto il
nome mio. A questo il Papa disse: - Adunque questo è il figliuolo di
maestro Giovanni? - Cosí disse che io ero. Il Papa disse che mi voleva al suo
servizio in fra gli altri musici. Gian Iacomo rispose: - Beatissimo Padre, di
questo io non mi vanto che voi lo abbiate, perché la sua professione, a che lui
attende continuamente, si è l'arte della oreficeria, e in quella opera
maravigliosamente, e tirane molto miglior guadagno che lui non farebbe al
sonare -. A questo il Papa disse: - Tanto meglio li voglio, essendo cotesta
virtú di piú in lui, che io non aspettavo. Fagli acconciare la medesima
provvisione che a voi altri; e da mia parte digli che mi serva e che alla
giornata ancora innell'altra professione ampliamente gli darò da fare -
e stesa la mana, gli donò in un fazzoletto cento scudi d'oro di Camera,
e disse: - Pàrtigli in modo, che lui ne abbia la sua parte -. Il ditto
Gian Iacomo spiccato dal Papa, venuto a noi, disse puntatamente tutto quel che
il Papa gli aveva detto; e partito li dinari infra otto compagni che noi eramo,
dato a me la parte mia, mi disse: - Io ti vo a fare scrivere nel numero delli
nostri compagni -. Al quale io dissi: - Lasciate passare oggi, e domani vi risponderò
-. Partitomi da loro, io andavo pensando se tal cosa io dovevo accettare,
considerato quanto la mi era per nuocere allo isviarmi dai belli studi della
arte mia. La notte seguente mi apparve mio padre in sogno, e con amorevolissime
lacrime mi pregava, che per l'amor di Dio e suo io fussi contento di pigliare
quella tale impresa; a il quali mi pareva rispondere, che in modo nessuno io
non lo volevo fare. Subito mi parve che in forma orribile lui mi spaventasse, e
disse: - Non lo faccendo arai la paterna maladizione, e faccendolo sia tu
benedetto per sempre da me -. Destatomi, per paura corsi a farmi scrivere; di
poi lo scrissi al mio vecchio padre, il quale per la soverchia allegrezza gli
prese uno accidente, il quali lo condusse presso alla morte; e subito mi
scrisse d'avere sognato ancora lui quasi che il medesimo che avevo fatto io.
XXIV. E' mi pareva, veduto di aver
sadisfatto alla onesta voglia del mio buon padre, che ogni cosa mi dovessi
succedere a onorata e gloriosa fine. Cosí mi messi con grandissima
sollecitudine a finire il vaso che cominciato avevo per il Salamanca. Questo
vescovo era molto mirabile uomo, ricchissimo, ma difficile a contentare:
mandava ogni giorno a vedere quel che io facevo; e quella volta che il suo
mandato non mi trovava, il detto Salamanca veniva in grandissimo furore,
dicendo che mi voleva far tôrre la ditta opera, e darla ad altri a finire.
Questo ne era causa il servire a quel maladetto sonare. Pure con grandissima
sollecitudine mi ero messo giorno e notte, tanto che conduttola a termine di
poterla mostrare al ditto vescovo, lo feci vedere: a il quali crebbe tanto
desiderio di vederlo finito, che io mi penti' d'arvegnene mostro. In termine di
tre mesi ebbi finita la detta opera con tanti belli animaletti, fogliami e maschere,
quante immaginar si possa. Subito la mandai per quel mio Paulino fattore a
mostrare a quel valente uomo di Lucagnolo detto di sopra; il qual Paulino, con
quella sua infinita grazia e bellezza, disse cosí: - Misser Lucagnolo, dice
Benvenuto che vi manda a monstrare le sue promesse e vostre coglionerie,
aspettando da voi vedere le sue bordellerie -. Ditto le parole, Lucagniolo
prese in mano il vaso, e guardollo assai; di poi disse a Paulino: - O bello
zittiello, di' al tuo padrone, che egli è un gran valente uomo, e che io
lo priego che mi voglia per amico, e non s'entri in altro -.
Lietissimamente mi fece la imbasciata quello onesto e mirabil giovanetto.
Portossi il ditto vaso al Salamanca, il quali volse che si facessi stimare.
Innella detta istima si intervenne questo Lucagnolo, il quali tanto
onoratamente me lo stimò e lodò da gran lunga, di quello che io
mi pensava. Preso il ditto vaso, il Salamanca spagnolescamente disse: - Io
giuro a Dio, che tanto voglio stare a pagarlo, quanto lui ha penato a farlo -.
Inteso questo, io malissimo contento mi restai, maladicendo tutta la Spagna e
chi li voleva bene. Era infra gli altri belli ornamenti un manico tutto di un
pezzo a questo vaso, sottilissimamente lavorato, che per virtú di una certa
molla stava diritto sopra la bocca del vaso. Monstrando un giorno per boria
monsignor ditto a certi sua gentiluomini spagnuoli questo mio vaso, avenne che
un di questi gentiluomini, partito che fu il ditto monsignore, troppo
indiscretamente maneggiando il bel manico del vaso, non potendo resistere
quella gentil molla alla sua villana forza, in mano al ditto si roppe; e
parendoli di aver molto mal fatto, pregò quel credenzier che n'aveva
cura, che presto lo portasse al maestro che lo aveva fatto, il quali subito lo
racconciassi e li prommettessi tutto il premio che lui domandava, pur che
presto fusse acconcio. Cosí capitandomi alle mani il vaso, promessi acconciarlo
prestissimo, e cosí feci. Il ditto vaso mi fu portato innanzi mangiare: a
ventidua ore venne quel che me lo aveva portato, il quale era tutto in sudore,
ché per tutta la strada aveva corso, avvengaché monsignore ancora di nuovo lo
aveva domandato per mostrarlo a certi altri signori. Però questo
credenziere non mi lasciava parlar parola, dicendo: - Presto, presto, porta il
vaso -. Onde io, volontoroso di fare adagio e non gnene dare, dissi che io non
volevo fare presto. Venne il servitore ditto in tanta furia, che, accennando di
mettere mano alla spada con una mana, e con la altra fece dimostrazione e forza
di entrare in bottega; la qual cosa io subito glie ne 'nterdissi con l'arme,
accompagnate con molte ardite parole, dicendogli: - Io non te lo voglio dare; e
va, di' a monsignore tuo padrone, che io voglio li dinari delle mie fatiche,
prima che egli esca di questa bottega -. Veduto questo di non aver potuto
ottenere per la via delle braverie, si messe a pregarmi, come si priega la
Croce, dicendomi, che se io gnene davo, farebbe per me tanto, che io sarei
pagato. Queste parole niente mi mossono del mio proposito, sempre dicendogli il
medesimo. Alla fine disperatosi della impresa, giurò di venire con tanti
spagnuoli, che mi arieno tagliati a pezzi; e partitosi correndo, in questo
mezzo io, che ne credevo qualche parte di questi assassinamenti loro, mi
promessi animosamente difendermi; e messo in ordine un mio mirabile scoppietto,
il quale mi serviva per andare a caccia, da me dicendo: - Chi mi toglie la roba
mia con le fatiche insieme, ancora se gli può concedere la vita? - in
questo contrasto, che da me medesimo faceva, comparse molti spagnuoli insieme
con il loro maestro di casa, il quale a il lor temerario modo disse a quei
tanti, che entrassin drento, e che togliessino il vaso, e me bastonassino. Alle
qual parole io monstrai loro la bocca dello scoppietto in ordine col suo fuoco,
e ad alta voce gridavo: - Marrani, traditori, assassinas'egli a questo modo le
case e le botteghe in una Roma? Tanti quanti di voi, ladri, s'appresseranno a
questo isportello, tanti con questo mio istioppo ne farò cader morti -.
E volto la bocca d'esso istioppo al loro maestro di casa, accennando di trarre,
dissi: - E tu ladrone, che gli ammetti, voglio che sia il primo a morire
-. Subito dette di piede a un giannetto, in su che lui era, e a tutta briglia
si misse a fuggire. A questo gran romore era uscito fuora tutti li vicini; e di
piú passando alcuni gentiluomini romani, dissono: -Ammazzali pur questi
marrani, perché sarai aiutato da noi -. Queste parole furno di tanta forza, che
molto ispaventati da me si partirno; in modo che, necessitati dal caso, furno
forzati annarrare tutto il caso a monsignor, il quale era superbissimo, e tutti
quei servitori e ministri isgridò, sí perché loro eran venuti a fare un
tale eccesso, e perché, da poi cominciato, loro non l'avevano finito.
Abbattessi in questo quel pittore che s'era intervenuto in tal cosa, a il quale
monsignore disse che mi venissi a dire da sua parte, che se io non gli portavo
il vaso subito, che di me il maggior pezzo sarien gli orecchi; e se io
lo portavo, che subito mi darebbe il pagamento di esso. Questa cosa non mi
messe punto di paura, e gli feci intendere che io lo andrei a dire al Papa
subito. Intanto, a lui passato la stizza e a me la paura, sotto la fede
di certi gran gentiluomini romani che il detto non mi offenderebbe, e con buona
sicurtà del pagamento delle mie fatiche, messomi in ordine con un gra'
pugnale e il mio buon giaco, giunsi in casa del detto monsignore, il
quale aveva fatto mettere in ordine tutta la sua famiglia. Entrato, avevo il
mio Paulino appresso con il vaso d'argento. Era né piú né manco come passare
per mezzo il Zodiaco, ché chi contrafaceva il leone, quale lo scorpio, altri il
cancro: tanto che pur giugnemmo alla presenza di questo pretaccio, il
quale sparpagliò le piú pretesche spagnolissime parole che inmaginar si
possa. Onde io mai alzai la testa a guardarlo, né mai gli risposi parola. A il
quale mostrava di crescere piú la stizza; e fattomi porgere da scrivere, mi
disse che io scrivessi di mia mano, dicendo d'essere ben contento e pagato da
lui. A questo io alzai la testa e li dissi che molto volentieri lo farei se
prima io avessi li mia dinari. Crebbe còllora al vescovo; e le
bravate e le dispute furno grande. Al fine prima ebbi li dinari, da poi
scrissi, e lieto e contento me ne andai.
XXV. Da
poi lo intese papa Clemente, il quale aveva veduto il vaso in prima, ma non gli
fu mostro per di mia mano, ne prese grandissimo piacere, e mi dètte
molte lode, e in pubblico disse che mi voleva grandissimo bene; a tale che
monsignore Salamanca molto si pentí d'avermi fatto quelle sue bravate: e per
rappattumarmi, per il medesimo pittore mi mandò a dire che mi
voleva dar da fare molte grande opere; al quale io dissi che volentieri le
farei, ma volevo prima il pagamento di esse, che io le cominciassi. Ancora
queste parole vènneno agli orecchi di papa Clemente, le quale lo mossono
grandemente a risa. Era alla presenza il cardinale Cibo, al quali il
Papa contò tutta la diferenza che io avevo aùto con questo
vescovo; di poi si volse a un suo ministro, e li comandò che continuamente
mi dessi da fare per il palazzo. Il ditto cardinal Cibo mandò per me, e
doppo molti piacevoli ragionamenti, mi dette da fare un vaso grande, maggior
che quello del Salamanca; cosí il cardinal Cornaro e molti altri di
quei cardinali, massimamente Ridolfi e Salviati: da tutti avevo da fare,
in modo che io guadagnavo molto bene. Madonna Porzia sopra ditta mi disse che
io dovessi aprire una bottega che fusse tutta mia: e io cosí feci, e mai
restavo di lavorare per quella gentile donna da bene, la quale mi dava
assaissimo guadagno, e quasi per causa sua istessa m'ero mostro al mondo uomo
da qualcosa. Presi grande amicizia col signor Gabbriello Ceserino, il quale era
gonfaloniere di Roma: a questo signore io li feci molte opere. Una infra le
altre notabile: questa fu una medaglia grande d'oro da portare in un cappello:
dentro isculpito in essa medaglia si era Leda col suo cigno; e sadisfattosi
assai delle mie fatiche, disse che voleva farla istimare per pagarmela il
giusto prezzo. E perché la medaglia era fatta con gran disciplina, quelli
stimatori della arte la stimarono molto piú che lui non s'immaginava: cosí
tenendosi la medaglia in mano, nulla ne ritraevo delle mie fatiche. Occorse il
medesimo caso di essa medaglia che quello del vaso del Salamanca. E perché
queste cose non mi tolgano il luogo da dire cose di maggiore importanza, cosí
brevemente le passerò.
XXVI. Con tutto che io esca alquanto della mia
professione, volendo descrivere la vita mia, mi sforza qualcuna di queste cotal
cose non già minutamente descriverle, ma sí bene soccintamente
accennarle. Essendo una mattina del nostro San Giovanni a desinare insieme con
molti della nazion nostra, di diverse professione, pittori, scultori, orefici;
infra li altri notabili uomini ci era uno domandato il Rosso pittore, e
Gianfrancesco discepolo di Raffaello da Urbino, e molti altri. E perché in quel
luogo io gli avevo condotti liberamente, tutti ridevano e motteggiavano,
secondo che promette lo essere insieme quantità di uomini, rallegrandosi
di una tanto maravigliosa festa. Passando a caso un giovane isventato,
bravaccio, soldato del signor Rienzo da Ceri, a questi romori, sbeffando disse
molte parole inoneste della nazione fiorentina. Io, che era guida di quelli
tanti virtuosi e uomini da bene, parendomi essere lo offeso, chetamente, sanza
che nessuno mi vedessi, questo tale sopragiunsi, il quale era insieme con una
sua puttana, che per farla ridere, ancora seguitava di fare quella
scornacchiata. Giunto a lui, lo domandai se egli era quello ardito, che diceva
male de' Fiorentini. Subito disse: - Io son quello -. Alle quale parole io
alzai la mana dandogli in sul viso, e dissi: - E io son questo -. Subito messo
mano all'arme l'uno e l'altro arditamente, ma non sí tosto cominciato tal
briga, che molti entrorno di mezzo, piú presto pigliando la parte mia che
altrimenti, essentito e veduto che io avevo ragione. L'altro giorno a presso mi
fu portato un cartello di disfida per combattere seco, il quale io accettai
molto lietamente, dicendo che questa mi pareva impresa da spedirla molto piú
presto che quelle di quella altra arte mia: e subito me ne andai a parlare a un
vechione chiamato il Bevilacqua, il quale aveva nome d'essere stato la
prima spada di Italia, perché s'era trovato piú di venti volte ristretto in
campo franco e sempre ne era uscito a onore. Questo uomo da bene era molto mio
amico, e conosciutomi per virtú della arte mia, e anche s'era intervenuto in
certe terribil quistione infra me e altri. Per la qual cosa lui lietamente
subito mi disse: - Benvenuto mio, se tu avessi da fare con Marte, io son certo
che ne usciresti a onore, perché di tanti anni, quant'io ti conosco, non t'ho
mai veduto pigliare nessuna briga a torto -. Cosí prese la mia impresa, e
conduttoci in luogo con l'arme in mano, sanza insanguinarsi, restando dal mio
avversario, con molto onore usci' di tale inpresa. Non dico altri particolari;
che se bene sarebbono bellissimi da sentire in tal genere, voglio riserbare
queste parole a parlare de l'arte mia, quale è quella che m'ha mosso a
questo tale iscrivere; e in essa arò da dire pur troppo. Se bene mosso
da una onesta invidia, desideroso di fare qualche altra opera che aggiugnessi e
passassi ancora quelle del ditto valente uomo Lucagnolo, per questo non mi
scostavo mai da quella mia bella arte del gioiellare; in modo che infra l'una e
l'altra mi recava molto utile e maggiore onore, e innell'una e nella altra
continuamente operavo cose diverse dagli altri. Era in questo tempo a Roma un
valentissimo uomo perugino per nome Lautizio, il quale lavorava solo di una
professione, e di quella era unico al mondo. Avenga che a Roma ogni cardinale
tiene un suggello, innel quale è impresso il suo titolo, questi suggelli
si fanno grandi quanti è tutta una mana di un piccol putto di dodici
anni incirca: e sí come io ho detto di sopra, in essa si intaglia quel titolo
del cardinale, nel quale s'interviene moltissime figure: pagasi l'uno di questi
suggelli ben fatti cento e piú di cento scudi. Ancora a questo valente uomo io
portavo una onesta invidia; se bene questa arte è molto appartata da
l'altre arti che si intervengono nella oreficeria; perché questo
Lautizio, faccendo questa arte de' suggelli, non sapeva fare altro. Messomi a
studiare ancora in essa arte, se bene difficilissima la trovavo, non mai stanco
per fatica che quella mi dessi, di continuo attendevo a guadagnare e a
imparare. Ancora era in Roma un altro eccellentissimo valente uomo, il quale
era milanese e si domandava per nome misser Caradosso. Questo uomo lavorava
solamente di medagliette cesellate fatte di piastra, e molte altre cose; fece
alcune Pace lavorate di mezzo rilievo, e certi Cristi di un palmo, fatti
di piastre sottilissime d'oro, tanto ben lavorate, che io giudicavo questo
essere il maggior maestro che mai di tal cose io avessi visto, e di lui piú che
di nessuno altro avevo invidia. Ancora c'era altri maestri, che lavoravano di
medaglie intagliate in acciaio, le quali son le madre e la vera guida a coloro
che vogliono sapere fare benissimo le monete. Attutte queste diverse
professioni con grandissimo studio mi mettevo a impararle. Écci ancora la
bellissima arte dello smaltare, quale io non viddi mai far bene ad altri, che a
un nostro fiorentino chiamato Amerigo, quale io non cognobbi, ma ben cognobbi
le maravigliosissime opere sue; le quali in parte del mondo, né da uomo mai,
non viddi chi s'appressassi di gran lunga a tal divinità. Ancor a questo
esercizio molto difficilissimo rispetto al fuoco, che nelle finite gran fatiche
per ultimo si interviene, e molte volte le guasta e manda in ruina, ancora a
questa diversa professione con tutto il mio potere mi messi; e se bene molto
difficile io la trovavo, era tanto il piacere che io pigliavo, che le ditte
gran difficultà mi pareva che mi fussin riposo: e questo veniva per uno
espresso dono prestatomi dallo Idio della natura d'una complessione tanto buona
e ben proporzionata, che liberamente io mi prommettevo dispor di quella tutto
quello che mi veniva in animo di fare. Queste professione ditte sono assai e
molto diverse l'una dall'altra; in modo che chi fa bene una di esse, volendo
fare le altre, quasi a nissuno non riesce come quella che fa bene; dove che io
ingegnatomi con tutto il mio potere di tutte queste professione equalmente
operare; e al suo luogo mostrerrò tal cosa aver fatta, sí come io dico.
XXVII. In
questo tempo, essendo io ancora giovane di ventitré anni in circa, si risentí
un morbo pestilenziale tanto inistimabile, che in Roma ogni dí ne moriva molte
migliaia. Di questo alquanto spaventato, mi cominciai a pigliare certi piaceri,
come mi dittava l'animo, pure causati da qualcosa che io dirò. Perché io
me ne andavo il giorno della festa volentieri alle anticaglie, ritraendo
di quelle or con cera or con disegno; e perché queste ditte anticaglie sono
tutte rovine, e infra quelle ditte ruine cova assaissimi colombi, mi venne
voglia di adoperare contra essi lo scoppietto: in modo che per fuggire il
commerzio, spaventato dalla peste, mettevo uno scoppietto in ispalla al mio
Pagolino, e soli lui e io ce ne andavamo alle ditte anticaglie. Il che ne
seguiva che moltissime volte ne tornavo carico di grassissimi colombi. Non mi
piaceva di mettere innel mio scoppietto altro che una sola palla, e cosí per
vera virtú di quella arte facevo gran caccie. Tenevo uno scoppietto diritto, di
mia mano; e drento e fuora non fu mai specchio da vedere tale. Ancora facevo di
mia mano la finissima polvere da trarre, innella quale io trovai i piú bei
segreti, che mai per insino a oggi da nessuno altro si sieno trovati; e di
questo, per non mi ci stendere molto, solo darò un segno da fare
maravigliare tutti quei che son periti in tal professione. Questo si era, che
con la quinta parte della palla il peso della mia polvere, detta palla mi
portava ducento passi andanti in punto bianco. Se bene il gran piacere, che io
traevo da questo mio scoppietto, mostrava di sviarmi dalla arte e dagli studii
mia, ancora che questo fussi la verità, in uno altro modo mi rendeva
molto piú di quel che tolto mi aveva: il perché si era, che tutte le volte che
io andavo a questa mia caccia, miglioravo la vita mia grandemente, perché
l'aria mi conferiva forte. Essendo io per natura malinconico, come io mi
trovavo a questi piaceri, subito mi si rallegrava il cuore, e venivami meglio
operato e con piú virtú assai, che quando io continuo stavo a' miei studii ed
esercizii; di modo che lo scoppietto alla fin del giuoco mi stava piú a
guadagno che a perdita. Ancora, mediante questo mio piacere, m'avevo fatto
amicizie di certi cercatori, li quali stavano alle velette di certi
villani lombardi, che venivano al suo tempo a Roma a zappare le vigne. Questi
tali innel zappare la terra sempre trovavono medaglie antiche, agate, prasme,
corniuole, cammei: ancora trovavano delle gioie, come s'è dire
ismeraldi, zaffini, diamanti e rubini. Questi tali cercatori da quei tai
villani avevano alcuna volta per pochissimi danari di queste cose ditte; alle
quali io alcuna volta, e bene spesso, sopragiunto i cercatori, davo loro tanti
scudi d'oro, molte volte di quello che loro appena avevano compero tanti giuli.
Questa cosa, non istante il gran guadagno che io ne cavavo, che era per l'un
dieci o piú, ancora mi facevo benivolo quasi attutti quei cardinali di Roma.
Solo dirò di queste qualcuna di quelle cose notabile e piú rare. Mi
capitò alle mane, infra tante le altre, una testa di un dalfino grande
quant'una fava da partito grossetta. Infra le altre, non istante che questa
testa fusse bellissima, la natura in questo molto sopra faceva la arte; perché
questo smiraldo era di tanto buon colore, che quel tale che da me lo comperò
a decine di scudi, lo fece acconciare a uso di ordinaria pietra da portare in
anello: cosí legato lo vendé centinaia. Ancora un altro genere di pietra:
questo si fu una testa del piú bel topazio, che mai fusse veduto al mondo: in
questo l'arte adeguava la natura. Questa era grande quant'una grossa nocciuola,
e la testa si era tanto ben fatta quanto inmaginar si possa: era fatta per
Minerva. Ancora un'altra pietra diversa da queste: questo fu un cammeo: in esso
intagliato uno Ercole che legava il trifauce Cerbero. Questo era di tanta
bellezza e di tanta virtú ben fatto, che il nostro gran Michelagnolo ebbe a
dire non aver mai veduto cosa tanto maravigliosa. Ancora infra molte medaglie
di bronzo, una me ne capitò, nella quale era la testa di Iove. Questa
medaglia era piú grande che nessuna che veduto mai io ne avessi: la testa era
tanto ben fatta, che medaglia mai si vidde tale. Aveva un bellissimo rovescio
di alcune figurette simili allei fatte bene. Arei sopra di questo da dire di
molte gran cose, ma non mi voglio stendere per non essere troppo lungo.
XXVIII. Come di sopra dissi, era cominciato la
peste in Roma: se bene io voglio ritornare un poco indietro, per questo non
uscirò del mio proposito. Capitò a Roma un grandissimo cerusico,
il quale si domandava maestro Iacomo da Carpi. Questo valente uomo, infra gli
altri sua medicamenti, prese certe disperate cure di mali franzesi. E
perché questi mali in Roma sono molto amici de' preti, massime di quei piú
ricchi, fattosi cognoscere questo valente uomo, per virtú di certi profumi
mostrava di sanare maravigliosamente queste cotai infirmità, ma voleva
far patto prima che cominciassi a curare; e' quali patti, erano a centinaia e
non a decine. Aveva questo valente uomo molta intelligenzia del disegno.
Passando un giorno a caso della mia bottega, vidde a sorta certi disegni che io
avevo innanzi, in fra' quali era parecchi bizzarri vasetti, che per mio piacere
avevo disegnati. Questi tali vasi erano molto diversi e varii da tutti quelli
che mai s'erano veduti insino a quella età. Volse il ditto maestro
Iacomo che io gnene facessi d'argento; i quali io feci oltra modo volentieri,
per essere sicondo il mio capriccio. Con tutto che il ditto valente uomo molto
bene me gli pagasse, fu l'un cento maggiore l'onore che mi
apportorno; perché in nella arte di quei valenti uomini orefici dissono non
aver mai veduto cosa piú bella né meglio condotta. Io non gli ebbi sí tosto
forniti, che questo uomo li mostrò al Papa; e l'altro dí dapoi
s'andò con Dio. Era molto litterato: maravigliosamente parlava della
medicina. Il Papa volse che lui restassi al suo servizio; e questo uomo disse,
che non voleva stare al servizio di persona del mondo; e che chi aveva bisogno
di lui, gli andassi dietro. Egli era persona molto astuta, e saviamente fece a
'ndarsene di Roma; perché non molti mesi apresso tutti quelli che egli aveva
medicati si condusson tanto male, che l'un cento eran peggio che prima: sarebbe
stato ammazzato, se fermato si fussi. Mostrò li mia vasetti in fra molti
signori; in fra li altri allo eccellentissimo duca di Ferrara; e disse, che
quelli lui li aveva aúti da un gran signore in Roma, dicendo a quello, se lui
voleva essere curato della sua infirmità, voleva quei dua vasetti; e che
quel tal signore gli aveva detto, ch'egli erano antichi, e che di grazia gli
chiedesse ogni altra cosa, qual non gli parrebbe grave a dargnene, purché
quelli gnene lasciassi: disse aver fatto sembiante non voler medicarlo, e
però gli ebbe. Questo me lo disse misser Alberto Bendedio in Ferrara, e
con gran sicumera me ne mostrò certi ritratti di terra; al quali io mi
risi; e non dicendo altro, misser Alberto Bendedio, che era uomo superbo,
isdegnato mi disse: - Tu te ne ridi, eh? e io ti dico che da mill'anni in qua
non c'è nato uomo che gli sapessi solamente ritrarre -. E io, per non
tor loro quella riputazione, standomi cheto, stupefatto gli ammiravo. Mi fu
detto in Roma da molti signori di questa opera, che a lor pareva miracolosa e
antica; alcuni di questi, amici mia; e io baldanzoso di tal faccenda, confessai
d'averli fatti io. Non volendo crederlo, ond'io volendo restar veritiero a quei
tali, n'ebbi a dare testimonianza a farne nuovi disegni; ché quella non
bastava, avenga che li disegni vecchi il ditto maestro Iacomo astutamente
portar se gli volse. In questa piccola operetta io ci acquistai assai.
XXIX.
Seguitando apresso la peste molti mesi, io mi ero scaramucciato, perché mi era
morti di molti compagni, ed ero restato sano e libero. Accadde una sera in fra
le altre, un mio confederato compagno menò in casa a cena una meretrice
bolognese, che si domandava Faustina. Questa donna era bellissima, ma era di
trenta anni in circa, e seco aveva una servicella di tredici in quattordici.
Per essere la detta Faustina cosa del mio amico, per tutto l'oro del mondo io
non l'arei tocca. Con tutto che la dicesse essere di me forte innamorata,
constantemente osservavo la fede allo amico mio; ma poi che a letto furno, io
rubai quella servicina, la quali era nuova nuova, ché guai allei se la
sua padrona lo avessi saputo. Cosí godetti piacevolmente quella notte con molta
piú mia sadisfazione, che con la patrona Faustina fatto non arei. Apressandosi
all'ora del desinare, onde io stanco, che molte miglia avevo camminato, volendo
pigliare il cibo, mi prese un gran dolore di testa, con molte anguinaie nel
braccio manco, scoprendomisi un carbonchio nella nocella della mana manca,
dalla banda di fuora. Spaventato ugnuno in casa, lo amico mio, la vacca grossa
e la minuta tutte fuggite, onde io restato solo con un povero mio fattorino, il
quale mai lasciar mi volse, mi sentivo soffocare il cuore, e mi conoscevo certo
esser morto. In questo, passando per la strada il padre di questo mio
fattorino, il quale era medico del cardinale Iacoacci e a sua provisione
stava, disse il detto fattore al padre: - Venite, mio padre, a veder Benvenuto,
il quale è con un poco di indisposizione a letto -. Non considerando
quel che la indisposizione potessi essere, subito venne a me, e toccatomi il
polso, vide e sentí quel che lui volsuto non arebbe. Subito vòlto al
figliuolo, gli disse: - O figliuolo traditore, tu m'hai rovinato: come poss'io
piú andare innanzi al cardinale? - A cui il figliuol disse: - Molto piú vale,
mio padre, questo mio maestro, che quanti cardinali ha Roma -. Allora il medico
a me si volse, e disse: - Da poi che io son qui, medicare ti voglio. Solo di
una cosa ti fo avvertito, che avendo usato il coito, se' mortale -. Al quali io
dissi: - Hollo usato questa notte -. A questo disse il medico: - In che creatura,
e quanto? - E gli dissi: - La notte passata, e innella giovinissima
fanciulletta -. Allora avvedutosi lui delle sciocche parole usate, subito mi
disse: - Sí per esser giovini a cotesto modo, le quali ancor non putano, e per
essere a buona ora il rimedio, non aver tanta paura, chi io spero per ogni modo
guarirti -. Medicatomi, e partitosi, subito comparse un mio carissimo amico,
chiamato Giovanni Rigogli, il quali, increscendoli e del mio gran male e
dell'essere lasciato cosí solo da il compagno mio, disse: - Non ti dubitare,
Benvenuto mio, che io mai non mi spiccherò da te, per infin che guarito
io non ti vegga -. Io dissi a questo amico, che non si appressassi a me, perché
spacciato ero. Solo lo pregavo che lui fussi contento di pigliare una certa buona
quantità di scudi che erano in una cassetta quivi vicina al mio letto, e
quelli, di poi che Idio mi avessi tolto al mondo, gli mandassi a donare al mio
povero padre, scrivendogli piacevolmente, come ancora io avevo fatto sicondo
l'usanza che prommetteva quella arrabbiata istagione. Il mio caro amico mi
disse non si voler da me partir in modo alcuno, e quello che da poi occorressi
innell'uno o innell'altro modo, sapeva benissimo quel che si conveniva fare per
lo amico. E cosí passammo innanzi con lo aiuto di Dio: e con i maravigliosi
rimedi cominciato a pigliare grandissimo miglioramento, presto a bene di quella
grandissima infirmitate campai. Ancora tenendo la piaga aperta, dentrovi la
tasta e un piastrello sopra, me ne andai in sun un mio cavallino salvatico,
il quale io avevo. Questo aveva i peli lunghi piú di quattro dita; era a punto
grande come un grande orsacchio, e veramente un orso pareva. In sun esso me ne
andai a trovare il Rosso pittore, il quale era fuor di Roma in verso
Civitavecchia, a un luogo del conte dell'Anguillara, detto Cervetera, e trovato
il mio Rosso, il quale oltra modo si rallegrò, onde io gli dissi: - I'
vengo a fare a voi quel che voi facesti a me tanti mesi sono -. Cacciatosi
subito a ridere, e abracciatomi e baciatomi, appresso mi disse, che per amor
del conte io stessi cheto. Cosí filicemente e lieti con buon vini e ottime
vivande, accarezzato dal ditto conte, in circa a un mese ivi mi stetti, e ogni
giorno soletto me ne andavo in sul lito del mare, e quivi smontavo, caricandomi
di piú diversi sassolini, chiocciolette e nicchi rari e bellissimi. L'ultimo
giorno, che poi piú non vi andai, fui assaltato da molti uomini, li quali,
travestitisi, eran discesi d'una fusta di Mori; e pensandosi d'avermi in modo
ristretto a un certo passo, il quali non pareva possibile a scampar loro delle
mani, montato subito in sul mio cavalletto, resolutomi al periglioso passo
quivi d'essere o arosto o lesso, perché poca speranza vedevo di scappare di uno
delli duoi modi, come volse Idio, il cavalletto, che era qual di sopra io
dissi, saltò quello che è impossibile a credere; onde io
salvatomi ringraziai Idio. Lo dissi al conte: lui dette a l'arme: si vidde le
fuste in mare. L'altro giorno apresso sano e lieto me ne ritornai in Roma.
XXX. Di
già era quasi cessata la peste, di modo che quelli che si ritrovavono
vivi molto allegramente l'un l'altro si carezavano. Da questo ne nacque una
compagnia di pittori, scultori, orefici, li meglio che fussino in Roma; e il
fondatore di questa compagnia si fu uno scultore domandato Michelagnolo. Questo
Michelagnolo era sanese, ed era molto valente uomo, tale che poteva comparire
in fra ogni altri di questa professione, ma sopra tutto era questo uomo il piú
piacevole e il piú carnale che mai si cognoscessi al mondo. Di questa detta
compagnia lui era il piú vecchio, ma sí bene il piú giovane alla valitudine del
corpo. Noi ci ritrovavomo spesso insieme; il manco si era due volte la
settimana. Non mi voglio tacere che in questa nostra compagnia si era Giulio
Romano pittore e Gian Francesco, discepoli maravigliosi del gran Raffaello da
Urbino. Essendoci trovati piú e piú volte insieme, parve a quella nostra buona
guida che la domenica seguente noi ci ritrovassimo a cena in casa sua, e che
ciascuno di noi fussi ubbrigato a menare la sua cornacchia, ché tal nome
aveva lor posto il ditto Michelagnolo; e chi non la menassi, fussi ubbrigato a
pagare una cena attutta la compagnia. Chi di noi non aveva pratica di tal donne
di partito, con non poca sua spesa e disagio se n'ebbe approvvedere, per non
restare a quella virtuosa cena svergognato. Io, che mi pensavo d'essere
provisto bene per una giovane molto bella, chiamata Pantassilea, la
quali era grandemente innamorata di me, fui forzato a concederla a un mio
carissimo amico, chiamato il Bachiacca il quali era stato ed era ancora
grandemente innamorato di lei. In questo caso si agitava un pochetto di amoroso
isdegno, perché veduto che alla prima parola io la concessi al Bachiacca, parve
a questa donna che io tenessi molto poco conto del grande amore che lei mi
portava; di che ne nacque una grandissima cosa in ispazio di tempo, volendosi
lei vendicare della ingiuria ricevuta da me; la qualcosa dirò poi al suo
luogo. Avvenga che l'ora si cominciava a pressare di appresentarsi alla virtuosa
compagnia ciascuno con la sua cornacchia, e io mi trovavo senza e pur troppo mi
pareva fare errore mancare di una sí pazza cosa; e quel che piú mi teneva si
era che io non volevo menarvi sotto il mio lume, in fra quelle virtú tali,
qualche spennacchiata cornacchiuccia; pensai a una piacevolezza per acrescere
alla lietitudine maggiore risa. Cosí risolutomi, chiamai un giovinetto de
età di sedici anni, il quale stava accanto a me: era figliuolo di uno
ottonaio spagnuolo. Questo giovine attendeva alle lettere latine ed era molto
istudioso. Avea nome Diego: era bello di persona, maraviglioso di color di
carne: lo intaglio della testa sua era assai piú bello che quello antico di
Antino e molte volte lo avevo ritratto; di che ne aveva aùto molto onore
nelle opere mie. Questo non praticava con persona, di modo che non era
cognusciuto: vestiva molto male e accaso: solo era innamorato dei suoi
maravigliosi studi. Chiamato in casa mia, lo pregai che mi si lasciassi
addobbare di quelle veste femminile che ivi erano apparecchiare. Lui fu facile
e presto si vestí, e io con bellissimi modi di acconciature presto accresce'
gran bellezze al suo bello viso: messigli dua anelletti agli orecchi, dentrovi
dua grosse e belle perle - li detti anelli erano rotti; solo istrignevano gli
orecchi, li quali parevano che bucati fussino -; da poi li messi al collo
collane d'oro bellissime e ricchi gioielli: cosí acconciai le belle mane di
anella. Da poi piacevolmente presolo per un orecchio, lo tirai davanti a un mio
grande specchio. Il qual giovine vedutosi, con tanta baldanza disse: -
Oimè, è quel, Diego? - Allora io dissi: - Quello è Diego,
il quale io non domandai mai di sorte alcuna piacere: solo ora priego quel
Diego, che mi compiaccia di uno onesto piacere: e questo si è, che in
quel proprio abito - io volevo che venissi a cena con quella virtuosa
compagnia, che piú volte io gli avevo ragionato. Il giovane onesto, virtuoso e
savio, levato da sé quella baldanza, volto gli occhi a terra, stette cosí
alquanto senza dir nulla: di poi in un tratto alzato il viso, disse: - Con
Benvenuto vengo; ora andiamo -. Messoli in capo un grainde sciugatoio, il quale
si domanda in Roma un panno di state, giunti al luogo, di già era
comparso ugniuno, e tutti fattimisi incontro: il ditto Michelagnolo era messo
in mezzo da Iulio e da Giovanfrancesco. Levato lo sciugatoio di testa a quella
mia bella figura, quel Michelagnolo - come altre volte ho detto, era il piú
faceto e il piú piacevole che inmaginar si possa - appiccatosi con tutte a dua
le mane, una a Iulio e una a Gianfrancesco, quanto egli potette in quel tiro li
fece abbassare, e lui con le ginocchia in terra gridava misericordia e chiamava
tutti e' populi dicendo: - Mirate, mirate come son fatti gli Angeli del
Paradiso! che con tutto che si chiamino Angeli, mirate che v'è ancora
delle Angiole - e gridando diceva
O Angiol bella, o Angiol degna,
tu mi salva, e tu mi segna.
A queste
parole la piacevol creatura ridendo alzò la mana destra, e gli dette una
benedizion papale con molte piacevol parole. Allora rizzatosi Michelagnolo,
disse che al Papa si baciava i piedi e che agli Angeli si baciava le gote: e
cosí fatto, grandemente arrossí il giovane, che per quella causa si accrebbe
bellezza grandissima. Cosí andati innanzi, la stanza era piena di sonetti, che
ciascun di noi aveva fatti, e mandatigli a Michelagnolo. Questo giovine li
cominciò a leggere, e gli lesse tutti: accrebbe alle sue infinite
bellezze tanto, che saria inpossibile il dirlo. Di poi molti ragionamenti e
maraviglie, ai quali io non mi voglio stendere, che non son qui per questo:
solo una parola mi sovvien dire, perché la disse quel maraviglioso Iulio
pittore, il quale virtuosamente girato gli occhi a chiunque era ivi attorno, ma
piú affisato le donne che altri, voltosi a Michelagnolo, cosí disse: -
Michelagnolo mio caro, quel vostro nome di cornacchie oggi a costoro sta bene,
benché le sieno qualche cosa manco belle che cornacchie apresso a uno de' piú
bei pagoni che immaginar si possa -. Essendo presto e in ordine le vivande,
volendo metterci a tavola, Iulio chiese di grazia di volere essere lui quel che
a tavola ci mettessi. Essendogli tutto concesso, preso per mano le donne, tutte
le accomodò per di dentro e la mia in mezzo; dipoi tutti gli uomini
messe di fuori, e me in mezzo, dicendo che io meritavo ogni grande onore. Era
ivi per ispalliera alle donne un tessuto di gelsumini naturali e bellissimi, il
quale faceva tanto bel campo a quelle donne, massimo alla mia, che impossibile
saria il dirlo con parole. Cosí seguitammo ciascuno di bonissima voglia quella
ricca cena, la quale era abundantissima a maraviglia. Di poi che avemmo cenato,
venne un poco di mirabil musica di voce insieme con istrumenti: e perché
cantavano e sonavano con i libri inanzi, la mia bella figura chiese da cantare la
sua parte; e perché quella della musica lui la faceva quasi meglio che l'altre,
dette tanto maraviglia, che li ragionamenti che faceva Iulio e Michelagnolo non
erano piú in quel modo di prima piacevoli, ma erano tutti di parole grave,
salde e piene di stupore. Apresso alla musica, un certo Aurelio Ascolano, che
maravigliosamente diceva allo improviso, cominciatosi a lodar le donne con
divine e belle parole, in mentre che costui cantava, quelle due donne, che
avevano in mezzo quella mia figura, non mai restate di cicalare; che una di
loro diceva innel modo che la fece a capitar male, l'altra domandava la mia
figura in che modo lei aveva fatto, e chi erano li sua amici, e quanto tempo
egli era che l'era arrivata in Roma, e molte di queste cose tale. Egli è
il vero che se io facessi solo per descrivere cotai piacevolezze, direi molti
accidenti che vi accaddono, mossi da quella Pantassilea, la quale forte era
innamorata di me: ma per non essere innel mio proposito, brevemente li passo.
Ora, venuto annoia questi ragionamenti di quelle bestie donne alla mia figura,
alla quali noi avevamo posto nome Pomona, la detta Pomona, volendosi spiccare
da quelli sciocchi ragionamenti di coloro, si scontorceva ora in sun una banda
ora in su l'altra. Fu domandata da quella femmina, che aveva menata Iulio, se
lei si sentiva qualche fastidio. Disse che sí, e che si pensava d'esser grossa
di qualche mese, e che si sentiva dar noia alla donna del corpo. Subito le due
donne, che in mezzo l'avevano, mossosi a pietà di Pomona, mettendogli le
mane al corpo, trovorno che l'era mastio. Tirando presto le mani a loro con
ingiuriose parole, quali si usano dire ai belli giovanetti, levatosi da tavola
subito le grida spartesi e con gran risa e con gran maraviglia, il fiero
Michelagnolo chiese licenzia da tutti di poter darmi una penitenzia a suo modo.
Avuto il sí, con grandissime gride mi levò di peso, dicendo: - Viva il
Signore: viva il Signore - e disse, che quella era la condannagione che io
meritavo, aver fatto un cosí bel tratto. Cosí finí la piacevolissima cena e la
giornata; e ugniun di noi ritornò alle case sue.
xxxi. Se io volessi descrivere precisamente quale e quante erano le
molte opere, che a diverse sorte di uomini io faceva, troppo sarebbe lungo il
mio dire. Non mi occorre per ora dire altro, se none che io attendevo con ogni
sollecitudine e diligenzia a farmi pratico in quella diversità e
differenzia di arte, che di sopra ho parlato. Cosí continuamente di tutte
lavoravo: e perché non m'è venuto alla mente ancora occasione di descrivere
qualche mia opera notabile, aspetterò di porle al suo luogo; che presto
verranno. Il detto Michelagnolo sanese scultore in questo tempo faceva la
sepoltura de il morto papa Adriano. Iulio Romano pittore ditto se ne
andò a servire il marchese di Mantova. Gli altri compagni si ritirorno
chi in qua e chi in là a sue faccende: in modo che la ditta virtuosa
compagnia quasi tutta si disfece. In questo tempo mi capitò certi
piccoli pugnaletti turcheschi, ed era di ferro il manico sí come la lama del
pugnale: ancora la guaina era di ferro similmente. Queste ditte cose erano
intagliate, per virtú di ferri, molti bellissimi fogliami alla turchesca, e
pulitissimamente commessi d'oro: la qual cosa mi incitò grandemente a
desiderio di provarmi ancora a affaticarmi in quella professione tanto diversa
da l'altre: e veduto ch'ella benissimo mi riusciva, ne feci parecchi opere.
Queste tali opere erano molto piú belle e molto piú istabile che le turchesche,
per piú diverse cause. L'una si era che in e' mia acciai io intagliavo molto
profondamente a sotto squadro; che tal cosa non si usava per i lavori
turcheschi. L'altra si era che li fogliami turcheschi non sono altro che foglie
di gichero con alcuni fiorellini di clizia; se bene hanno qualche poco di
grazia, la non continua di piacere, come fanno i nostri fogliami. Benché
innell'Italia siamo diversi di modo di fare fogliami; perché i Lombardi fanno
bellissimi fogliami ritraendo foglie de elera e di vitalba con bellissimi
girari, le quali fanno molto piacevol vedere; li Toscani e i Romani in questo
genere presono molto migliore elezione, perché contra fanno le foglie d'acanto,
detta branca orsina, con i sua festuchi e fiori, girando in diversi modi; e in
fra i detti fogliami viene benissimo accomodato alcuni uccelletti e diversi
animali, qual si vede chi ha buon gusto. Parte ne truova naturalmente nei fiori
salvatici, come è quelle che si chiamano bocche di lione, che cosí in
alcuni fiori si discerne, accompagnate con altre belle inmaginazione di quelli
valenti artefici: le qual cose son chiamate, da quelli che non sanno,
grottesche. Queste grottesche hanno acquistato questo nome dai moderni, per
essersi trovate in certe caverne della terra in Roma dagli studiosi, le quali
caverne anticamente erano camere, stufe, studii, sale e altre cotai cose.
Questi studiosi trovandole in questi luoghi cavernosi, per essere alzato dagli
antichi in qua il terreno e restare quelle in basso, e perché il vocabolo
chiama quei luoghi bassi in Roma, grotte; da questo si acquistorno il nome di grottesche.
Il qual non è il suo nome; perché sí bene, come gli antichi si
dilettavano di comporre de' mostri usando con capre, con vacche e con cavalle,
nascendo questi miscugli gli domandavono mostri; cosí quelli artefici facevano
con i loro fogliami questa sorte di mostri: e mostri è 'l vero lor nome
e non grottesche. Faccendo io di questa sorte fogliami commessi nel sopra ditto
modo, erano molto piú belli da vedere che li turcheschi. Accadde in questo
tempo che in certi vasi, i quali erano urnette antiche piene di cenere, fra
essa cenere si trovò certe anella di ferro commessi d'oro insin dagli
antichi, e in esse anella era legato un nicchiolino in ciascuno. Ricercando
quei dotti, dissono che queste anella le portavono coloro che avevano caro di star
saldi col pensiero in qualche stravagante accidente avvenuto loro cosí in bene
come in male. A questo io mi mossi, a requisizione di certi signori molto amici
miei e feci alcune di queste anellette; ma le facevo di acciaro ben purgato: di
poi, bene intagliate e commesse d'oro, facevano bellissimo vedere; e fu
talvolta che di uno di questi anelletti, solo delle mie fatture, ne ebbi piú di
quaranta scudi. Se usava in questo tempo alcune medagliette d'oro, che ogni
signore e gentiluomo li piaceva fare scolpire in esse un suo capriccio o
impresa; e le portavano nella berretta. Di queste opere io ne feci assai, ed
erano molto difficile a fare. E perché il gran valente uomo ch'io dissi,
chiamato Caradosso, ne fece alcune, le quali come erano di piú di una figura
non voleva manco che cento scudi d'oro de l'una; la qual cosa, non tanto per il
premio quanto per la sua tardità, io fui posto innanzi a certi signori,
ai quali infra l'altre feci una medaglia a gara di questo gran valent'uomo,
innella qual medaglia era quattro figure, intorno alle quali io mi ero molto
affaticato. Accadde che li detti gentiluomini e signori, ponendola accanto a
quella del maraviglioso Caradosso, dissono che la mia era assai meglio fatta e
piú bella, e che io domandassi quel che io volevo delle fatiche mie; perché,
avendo io loro tanto ben satisfatti, che loro me voleano satisfare altanto. Ai
quali io dissi, che il maggior premio alle fatiche mie e quello che io piú
desiderava, si era lo aggiugnere appresso alle opere di un cosí gran valent'uomo,
e che, se allor Signorie cosí paressi, io pagatissimo mi domandavo. Cosí
partitomi subito, quelli mi mandorno appresso un tanto liberalissimo presente,
che io fui contento, e mi crebbe tanto animo di far bene, che fu causa di
quello che per lo avvenire si sentirà.
XXXII. Se
bene io mi discosterò alquanto dalla mia professione, volendo narrare
alcuni fastidiosi accidenti intervenuti in questa mia travagliata vita; e
perché avendo narrato per l'adrieto di quella virtuosa compagnia e delle
piacevolezze accadute per conto di quella donna che io dissi, Pantassilea; la
quale mi portava quel falso e fastidioso amore; e isdegnata grandissimamente
meco per conto di quella piacevolezza, dove era intervenuto a quella cena Diego
spagnuolo di già ditto, lei avendo giurato vendicarsi meco, nacque una
occasione, che io descriverò, dove corse la vita mia a ripentaglio
grandissimo. E questo fu che, venendo a Roma un giovanetto chiamato Luigi
Pulci, figliuolo di uno de' Pulci al quale fu mozzato il capo per avere usato
con la figliuola; questo ditto giovane aveva maravigliosissimo ingegno poetico
e cognizione di buone lettere latine; iscriveva bene; era di grazia e di forma
oltramodo bello. Erasi partito da non so che vescovo, ed era tutto pieno di mal
franzese. E perché, quando questo giovane era in Firenze, la notte di state in
alcuni luoghi della città si faceva radotti innelle proprie strade, dove
questo giovane in fra i migliori si trovava a cantare allo inproviso; era tanto
bello udire il suo, che il divino Michelagnolo Buonaaroti, eccellentissimo
scultore e pittore, sempre che sapeva dov'egli era, con grandissimo desiderio e
piacere lo andava a udire; e un certo, chiamato il Piloto, valentissimo uomo,
orefice, e io gli facevomo campagnia. In questo modo accadde la cognizione
infra Luigi Pulci e me; dove, passato di molti anni, in quel modo mal condotto
mi si scoperse a Roma, pregandomi che io lo dovessi per l'amor de Dio aiutare.
Mossomi a compassione per le gran virtú sua, per amor della patria, e per
essere il proprio della natura mia, lo presi in casa e lo feci medicare in
modo, che per essere a quel modo giovane, presto si ridusse alla sanità.
In mentre che costui procacciava per essa sanità, continuamente
studiava, e io lo avevo aiutato provveder di molti libri sicondo la mia
possibilità; in modo che, cognosciuto questo Luigi il gran benifizio
ricevuto da me, piú volte con parole e con lacrime mi ringraziava, dicendomi
che se Idio li mettessi mai inanzi qualche ventura, mi renderebbe il guidardone
di tal benifizio fattoli. Al quale io dissi, che io non avevo fatto allui
quello che io arei voluto, ma sí bene quel che io potevo, e che il dovere delle
creature umane si era sovvenire l'una l'altra; solo gli ricordavo che questo
benifizio, che io gli avevo fatto, lo rendessi a un altro che avessi bisogno di
lui, sí bene come lui ebbe bisogno di me; e che mi volessi bene da amico, e per
tale mi tenessi. Cominciò questo giovane a praticare la Corte di Roma,
nella quale prestò trovò ricapito, e acconciossi con un vescovo,
uomo di ottanta anni, ed era chiamato il vescovo Gurgensis. Questo vescovo
aveva un nipote, che si domandava misser Giovanni: era gentiluomo veniziano.
Questo ditto misser Giovanni dimostrava grandemente d'essere innamorato delle
virtú di questo Luigi Pulci, e sotto nome di queste sue virtú se l'aveva fatto
tanto domestico, come se fussi lui stesso. Avendo il detto Luigi ragionato di
me e del grande obrigo che lui mi aveva, con questo misser Giovanni,
causò che 'l detto misser Giovanni mi volse conoscere. Nella qual cosa
accadde, che avendo io una sera infra l'altre fatto un po' di pasto a quella
già ditta Pantassilea, alla qual cena io avevo convitato molti virtuosi
amici mia, sopragiuntoci a punto ne l'andare a tavola il ditto misser Giovanni
con il ditto Luigi Pulci, apresso alcuna cirimonia fatta, restorno a cenare con
esso noi. Veduto questa isfacciata meritrice il bel giovine, subito gli fece
disegno addosso; per la qual cosa, finito che fu la piacevole cena, io chiamai
da canto il detto Luigi Pulci, dicendogli, per quanto obrigo lui s'era vantato
di avermi, non cercassi in modo alcuno la pratica di quella meretrice. Alle
qual parole lui mi disse: - Oimè, Benvenuto mio, voi mi avete dunque per
uno insensato? - Al quale io dissi: - Non per insensato, ma per giovine; e per
Dio gli giurai che di lei io non ho un pensiero al mondo, ma di voi mi dorrebbe
bene, che per lei voi rompessi il collo -. Alle qual parole lui giurò
che pregava Idio che, se mai e' le parlassi, subito rompesse il collo. Dovette
questo povero giovane fare tal giuro a Dio con tutto il cuore, perché e' roppe
il collo, come qui appresso si dirà. Il detto misser Giovanni si scoprí
seco d'amore sporco e non virtuoso; perché si vedeva ogni giorno mutare veste
di velluto e di seta al ditto giovane, e si cognosceva ch'e' s'era dato in
tutto alla scelleratezza e aveva dato bando alle sue belle mirabili virtú, e
faceva vista di non mi vedere e di non mi cognoscere, perché io lo avevo
ripreso, dicendogli che s'era dato in preda a brutti vizii i quali gli arien
fatto rompere il collo come disse.
xxxiii. Gli aveva
quel suo misser Giovanni compro un cavallo morello bellissimo, in el quale
aveva speso centocinquanta scudi. Questo cavallo si maneggiava mirabilissimamente,
in modo che questo Luigi andava ogni giorno a saltabeccar con questo
cavallo intorno a questa meretrice Pantassilea. Io, avedutomi di tal cosa, non
me ne curai punto, dicendo che ogni cosa faceva secondo la natura sua; e mi
attendevo a' mia studi. Accadde una domenica sera, che noi fummo invitati da
quello scultore Michelagnolo sanese a cena seco; ed era di state. A questa cena
ci era il Bachiacca già ditto, e con esso aveva menato quella ditta
Pantassilea, sua prima pratica. Cosí essendo a tavola a cena, lei era a sedere
in mezzo fra me e il Bachiacca ditto: in su il piú bello della cena lei si
levò da tavola, dicendo che voleva andare a alcune sue commodità,
perché si sentiva dolor di corpo, e che tornerebbe subito. In mentre che noi piacevolissimamente
ragionavàno e cenavamo, costei era soprastata alquanto piú che il
dovere. Accadde che, stando in orecchi, mi parve sentire isghignazzare cosí
sommissamente nella strada. Io teneva un coltello in mano, il quale io
adoperavo in mio servizio a tavola. Era la finestra tanto appresso alla tavola,
che sollevatomi alquanto, viddi nella strada quel ditto Luigi Pulci insieme con
la ditta Pantassilea, e senti' di loro Luigi che disse: - Oh se quel diavolo di
Benvenuto ci vedessi, guai a noi! - E lei disse: - Non abiate paura; sentite
che romore e' fanno: pensano a ogni altra cosa che a noi -. Alle qual parole
io, che gli avevo conosciuti, mi gittai da terra la finestra, e presi Luigi per
la cappa e col coltello che io avevo in mano certo lo ammazzavo; ma perché gli
era in sun un cavalletto bianco, al quale lui dette di sprone, lasciandomi la
cappa in mano per campar la vita. La Pantassilea si cacciò a fuggire in
una chiesa quivi vicina. Quelli che erano a tavola, subito levatisi, tutti
vennono alla volta mia, pregandomi che io non volessi disturbate né me né loro
a causa di una puttana; ai quali io dissi, che per lei io non mi sarei mosso,
ma sí bene per quello scellerato giovine, il quale dimostrava di stimarmi sí
poco: e cosí non mi lasciai piegare da nessuna di quelle parole di quei
virtuosi uomini da bene; anzi presi la mia spada e da me solo me ne andai in
Prati; perché la casa dove noi cenavamo era vicina alla porta di Castello, che
andava in Prati. Cosí andando alla volta di Prati, non istetti molto che,
tramontato il sole, a lento passo me ne ritornai in Roma. Era già fatto
notte e buio, e le porte di Roma non si serravano. Avvicinatosi a dua ore,
passai da casa di quella Pantassilea, con animo, che, essendovi quel Luigi
Pulci, di fare dispiacere a l'uno e l'altro. Veduto e sentito che altri non era
in casa che una servaccia chiamata la Canida, andai a posare la cappa e il
fodero della spada, e cosí me ne venni alla ditta casa, la quali era drieto a
Banchi in sul fiume del Tevero. Al dirimpetto a questa casa si era un giardino
di uno oste, che si domandava Romolo: questo giardino era chiuso da una folta
siepe di marmerucole, innella quale cosí ritto mi nascosi, aspettando che la
ditta donna venissi a casa insieme con Luigi. Alquanto soprastato, capitò
quivi quel mio amico detto il Bachiacca, il quale o sí veramente se l'era
immaginato, o gli era stato detto. Somissamente mi chiamò compare (che
cosí ci chiamavamo per burla); e mi pregò per l'amor di Dio, dicendo
queste parole quasi che piangendo: - Compar mio, io vi priego che voi non
facciate dispiacere a quella poverina, perché lei non ha una colpa al mondo -.
A il quale io dissi: - Se a questa prima parola voi non mi vi levate dinanzi,
io vi darò di questa spada in sul capo -. Spaventato questo mio povero
compare, subito se li mosse il corpo, e poco discosto possette andare, che
bisognò che gli ubbidissi. Gli era uno stellato, che faceva un chiarore
grandissimo: in un tratto io sento un romore di piú cavagli e da l'un canto e
dall'altro venivano inanzi: questi si erano il ditto Luigi e la ditta
Pantassilea accompagnati da un certo misser Benvegnato perugino, cameriere di
papa Clemente, e con loro avevano quattro valorosissimi capitani perugini, con
altri bravissimi giovani soldati: erano in fra tutti piú che dodici spade.
Quando io viddi questo, considerato che io non sapevo per qual via mi fuggire,
m'attendevo a ficcare in quella siepe; e perché quelle pungente marmerucole mi
facevano male, e mi aissavo come si fa il toro, quasi risolutomi di fare un
salto e fuggire; in questo, Luigi aveva il braccio al collo alla ditta
Pantassilea, dicendo: - Io ti bacerò pure un tratto, al dispregio di
quel traditore di Benvenuto -. A questo, essendo molestato dalle ditte
marmerucole e sforzato dalle ditte parole del giovine, saltato fuora, alzai la
spada, e con gran voce dissi: - Tutti siate morti -. In questo il colpo della
spada cadde in su la spalla al detto Luigi: e perché questo povero giovine que'
satiracci l'avevano tutto inferrucciato di giachi e d'altre cose tali, il colpo
fu grandissimo; e voltasi la spada, dette in sul naso e in su la bocca alla
ditta Pantassilea. Caduti tutti a dua in terra, il Bachiacca con le calze a
mezza gamba gridava e fuggiva. Vòltomi agli altri arditamente con la
spada, quelli valorosi uomini, per sentire un gran romore che aveva mosso
l'osteria, pensando che quivi fossi l'esercito di cento persone, se bene
valorosamente avevano messo mano alle spade, due cavalletti infra gli altri
ispaventati gli missono in tanto disordine, che gittando dua di quei migliori
sottosopra, gli altri si missono in fuga: e io veduto uscirne a bene, con
velocissimo corso e onore usci' di tale impresa, non volendo tentare piú la
fortuna che il dovere. In quel disordine tanto smisurato s'era ferito con le loro
spade medesime alcun di quei soldati e capitani, e misser Benvegnato ditto,
camerier del papa, era stato urtato e calpesto da un suo muletto; e un
servitore suo, avendo messo man per la spada, cadde con esso insieme, e lo ferí
in una mana malamente. Questo male causò, che piú che tutti li altri
quel misser Benvegnato giurava in quel lor modo perugino, dicendo: - Per
lo... di Dio, che io voglio che Benvegnato insegni vivere a Benvenuto -
e commesse a un di quei sua capitani, forse piú ardito che gli altri, ma per
esser giovane aveva manco discorso. Questo tale mi venne a trovare dove io mi
ero ritirato, in casa un gran gentiluomo napoletano, il quale avendo inteso e
veduto alcune cose della mia professione, apresso a quelle la disposizione de
l'animo e del corpo atta a militare, la qual cosa era quella a che il
gentiluomo era inclinato; in modo che, vedutomi carezzare, e trovatomi ancora
io nella propria beva mia, feci una tal risposta a quel capitano, per la quale
io credo che molto si pentissi di essermi venuto inanzi. Apresso a pochi
giorni, rasciutto alquanto le ferite e a Luigi e alla puttana e a quelli
altri, questo gran gentiluomo napoletano fu ricerco da quel misser Benvegnato,
al cui era uscito il furore, di farmi far pace con quel giovane detto
Luigi, e che quelli valorosi soldati, li quali non avevano che far nulla con
esso meco, solo mi volevano cognoscere. La qual cosa quel gentiluomo disse
attutti, che mi merrebbe dove e' volevano, e che volontieri mi farebbe
far pace; con questo, che non si dovessi né dall'una parte né dall'altra
ricalcitrar parole, perché sarebbon troppo contra il loro onore; solo bastava
far segno di bere e baciarsi, e che le parole le voleva usar lui, con le quale
lui volontieri li salveria. Cosí fu fatto. Un giovedí sera il detto gentiluomo
mi menò in casa al ditto misser Benvegnato, dove era tutti quei soldati
che s'erano trovati a quella isconfitta, ed erano ancora a tavola. Con il
gentiluomo mio era piú di trenta valorosi uomini, tutti ben armati; cosa che il
ditto misser Benvegnato non aspettava. Giunti in sul salotto, prima il detto
gentiluomo, e io apresso, disse queste parole: - Dio vi salvi, signori: noi
siamo giunti a voi, Benvenuto e io, il quale io lo amo come carnal fratello; e
siamo qui volentieri a far tutto quello che voi avete volontà di fare -.
Misèr Benvegnato, veduto empiersi la sala di tante persone, disse: - Noi
vi richiedemo di pace e non d'altro -. Cosí misèr Benvegnato promisse,
che la corte del governator di Roma non mi darebbe noia. Facemmo la pace: onde
io subito mi ritornai alla mia bottega, non potendo stare una ora sanza quel
gentiluomo napoletano, il quale o mi veniva a trovare o mandava per me. In
questo mentre guarito il ditto Luigi Pulci, ogni giorno era in quel suo cavallo
morello, che tanto bene si maneggiava. Un giorno in fra gli altri, essendo
piovegginato, e lui atteggiava il cavallo a punto in su la porta di
Pantassilea, isdrucciolando cadde, e il cavallo addòssogli; rottosi la
gamba dritta in tronco, in casa la ditta Pantassilea ivi a pochi giorni morí, e
adempié il giuro che di cuore lui a Dio aveva fatto. Cosí si vede che Idio tien
conto de' buoni e de' tristi, e a ciascun dà il suo merito.
XXXIV. Era di
già tutto il mondo in arme. Avendo papa Clemente mandato a chiedere al
signor Giovanni de' Medici certe bande di soldati, i quali vennono, questi
facevano tante gran cose in Roma, che gli era male stare alle botteghe
pubbliche. Fu causa che io mi ritirai in una buona casotta drieto a Banchi; e
quivi lavoravo a tutti quelli guadagnati mia amici. I mia lavori in questo
tempo non furno cose di molta importanza; però non mi occorre ragionar
di essi. Mi dilittai in questo tempo molto della musica e di tal piaceri simili
a quella. Avendo papa Clemente, per consiglio di misser Iacopo Salviati, licenziato
quelle cinque bande che gli aveva mandato il signor Giovanni, il quale di
già era morto in Lombardia, Borbone, saputo che a Roma non era soldati,
sollecitissimamente spinse l'esercito suo alla volta di Roma. Per questa
occasione tutta Roma prese l'arme; il perché, essendo io molto amico di
Alessandro, figliuol di Piero del Bene, e perché a tempo che i Colonnesi
vennono in Roma mi richiese che io gli guardassi la casa sua: dove che a questa
maggior occasione mi pregò, che io facessi cinquanta compagni per
guardia di detta casa, e che io fussi lor guida, sí come avevo fatto a tempo
de' Colonnesi; onde io feci cinquanta valorosissimi giovani, e intrammo in casa
sua ben pagati e ben trattati. Comparso di già l'esercito di Borbone
alle mura di Roma, il detto Alessandro del Bene mi pregò che io andassi
seco a farli compagnia: cosí andammo un di quelli miglior compagni e io; e per
la via con esso noi si accompagnò un giovanetto addomandato Cechino
della Casa. Giugnemmo alle mura di Campo Santo, e quivi vedemmo quel
maraviglioso esercito, che di già faceva ogni suo sforzo per entrare. A
quel luogo delle mura, dove noi ci accostammo, v'era molti giovani morti da
quei di fuora: quivi si combatteva a piú potere: era una nebbia folta quanto
immaginar si possa. Io mi vuolsi a Lessandro e li dissi: - Ritiriamoci a casa
il piú presto che sia possibile, perché qui non è un rimedio al mondo;
voi vedete, quelli montano e questi fuggono -. Il ditto Lessandro spaventato,
disse: - Cosí volessi Idio che venuti noi non ci fussimo! - e cosí
vòltosi con grandissima furia per andarsene, il quale io ripresi,
dicendogli: - Da poi che voi mi avete menato qui, gli è forza fare
qualche atto da uomo -. E vòlto il mio archibuso, dove io vedevo un
gruppo di battaglia piú folta e piú serrata, posi la mira innel mezzo apunto a
uno che io vedevo sollevato dagli altri; per la qual cosa la nebbia non mi
lasciava discernere se questo era a cavallo o a piè. Vòltomi
subito a Lessandro e a Cechino, dissi loro che sparassino i loro archibusi, e
insegnai loro il modo, acciocché e' non toccassino una archibusata da que' di
fuora. Cosí fatto dua volte per uno, io mi affacciai alle mura destramente, e
veduto in fra di loro un tumulto istrasordinario, fu che da questi nostri colpi
si ammazzò Borbone; e fu quel primo che io vedevo rilevato da gli altri,
per quanto da poi s'intese. Levatici di quivi, ce ne andammo per Campo Santo,
ed entrammo per San Piero; e usciti là drieto alla chiesa di Santo
Agnolo, arrivammo al portone di Castello con grandissime difficultà,
perché il signor Renzo da Ceri e il signor Orazio Baglioni davano delle ferite
e ammazzavono tutti quelli che si spiccavano dal combattere alle mura. Giunti
al detto portone, di già erano entrati una parte de' nimici in Roma, e
gli avevamo alle spalle. Volendo il Castello far cadere la saracinesca del
portone, si fece un poco di spazio, di modo che noi quattro entrammo drento.
Subito che io fui entrato, mi prese il capitan Pallone de' Medici, perché,
essendo io della famiglia del Castello, mi forzò che io lasciassi
Lessandro; la qual cosa molto contra mia voglia feci. Cosí salitomi su al
mastio, innel medesimo tempo era entrato papa Clemente per i corridori innel
Castello; perché non s'era voluto partire prima del palazzo di San Piero, non
possendo credere che coloro entrassino. Da poi che io mi ritrovai drento a quel
modo, accosta' mi a certe artiglierie, le quali aveva a guardia un bonbardiere
chiamato Giuliano fiorentino. Questo Giuliano affacciatosi lí al merlo del
castello, vedeva la sua povera casa saccheggiare, e straziare la moglie e'
figliuoli; in modo che, per non dare ai suoi, non ardiva sparare le sue
artiglierie; e gittato la miccia da dar fuoco per terra, con grandissimo pianto
si stracciava il viso; e 'l simile facevano certi altri bonbardieri. Per la
qual cosa io presi una di quelle miccie, faccendomi aiutare da certi ch'erano
quivi, li quali non avevano cotai passione: volsi certi pezzi di sacri e
falconetti dove io vedevo il bisogno, e con essi ammazzai di molti
uomini de' nemici; che se questo non era, quella parte che era intrata in Roma
quella mattina, se ne veniva diritta al Castello; ed era possibile che
facilmente ella entrassi, perché l'artiglierie non davano lor noia. Io
seguitavo di tirare; per la qual cosa alcun cardinali e signori mi benedivano e
davonmi grandissimo animo. Il che io baldanzoso, mi sforzavo di fare quello che
io non potevo; basta che io fu' causa di campare la mattina il Castello, e che
quelli altri bonbardieri si rimessono a fare i loro uffizii. Io seguitai tutto
quel giorno: venuto la sera, in mentre che l'esercito entrò in Roma per
la parte di Tresteveri, avendo papa Clemente fatto capo di tutti e' bonbardieri
un gran gentiluomo romano, il quale si domandava misser Antonio Santa Croce,
questo gran gentiluomo la prima cosa se ne venne a me, faccendomi carezze: mi
pose con cinque mirabili pezzi di artiglieria innel piú eminente luogo del
Castello, che si domanda da l'Agnolo a punto: questo luogo circunda il Castello
atorno atorno e vede inverso Prati e in verso Roma: cosí mi dette tanti sotto a
di me a chi io potessi comandare, per aiutarmi voltare le mie artiglierie; e
fattomi dare una paga innanzi, mi consegnò del pane e un po' di vino, e
poi mi pregò, che in quel modo che io avevo cominciato seguitassi. Io, che
tal volta piú era inclinato a questa professione che a quella che io tenevo per
mia, la facevo tanto volentieri, che la mi veniva fatta meglio che la ditta.
Venuto la notte, e i nimici entrati in Roma, noi che eramo nel Castello,
massimamente io, che sempre mi son dilettato veder cose nuove, istavo
considerando questa inestimabile novità e 'ncendio; la qual cosa quelli
che erano in ogni altro luogo che in Castello, nolla possettono né vedere né
inmaginare. Per tanto io non mi voglio mettere a descrivere tal cosa; solo
seguiterò descrivere questa mia vita che io ho cominciato, e le cose che
in essa a punto si appartengono.
xxxv. Seguitando di esercitar le mie artiglierie continuamente, per
mezzo di esse in un mese intero che noi stemmo nel Castello assediati, mi
occorse molti grandissimi accidenti degni di raccontargli tutti; ma per non
voler essere tanto lungo, né volermi dimostrare troppo fuor della mia
professione, ne lascierò la maggior parte, dicendone solo quelli che mi
sforzano, li quali saranno i manco e i piú notabili. E questo è il
primo: che avendomi fatto quel ditto misser Antonio Santa Croce discender giú
de l'Agnolo, perché io tirassi a certe case vicino al Castello, dove si erano
veduti entrare certi dell'inimici di fuora, in mentre che io tiravo, a me venne
un colpo di artiglieria, il qual dette in un canton di un merlo, e presene
tanto, che fu causa di non mi far male: perché quella maggior quantità
tutta insieme mi percosse il petto; e, fermatomi l'anelito, istavo in terra
prostrato come morto, e sentivo tutto quello che i circustanti dicevano; in fra
i quali si doleva molto quel misser Antonio Santa Croce, dicendo: -
Oimè, che noi abiàn perso il migliore aiuto che noi ci avessimo
-. Sopragiunto a questo rumore un certo mio compagno, che si domandava
Gianfrancesco, piffero, questo uomo era piú inclinato alla medicina che al
piffero, e subito piangendo corse per una caraffina di bonissimo vin greco:
avendo fatto rovente una tegola, in su la quale e' messe su una buona menata di
assenzio, di poi vi spruzzò su di quel buon vin greco; essendo inbeuto
bene il ditto assenzio, subito me lo messe in sul petto, dove evidente si
vedeva la percossa. Fu tanto la virtú di quello assenzio, che resemi subito
quelle ismarrite virtú. Volendo cominciare a parlare, non potevo, perché certi
sciocchi soldatelli mi avevano pieno la bocca di terra, parendo loro con quella
di avermi dato la comunione, con la quale loro piú presto mi avevano
scomunicato, perché non mi potevo riavere, dandomi questa terra piú noia assai
che la percossa. Pur di questa scampato, tornai a que' furori delle
artiglierie, seguitandoli con tutta quella virtú e sollecitudine migliore che
inmaginar potevo. E perché papa Clemente aveva mandato a chiedere soccorso al
duca di Urbino, il quale era con lo esercito de' Veniziani, dicendo
all'imbasciadore, che dicessi a Sua Eccellenzia, che tanto quanto il detto
Castello durava a fare ogni sera tre fuochi in cima di detto Castello,
accompagnati con tre colpi di artiglieria rinterzati, che insino che
durava questo segno, dimostrava che il Castello non saria areso; io ebbi questa
carica di far questi fuochi e tirare queste artiglierie: avvenga che sempre di
giorno io le dirizzava in quei luoghi dove le potevan fare qualche gran male;
la qual cosa il Papa me ne voleva di meglio assai, perché vedeva che io facevo
l'arte con quella avvertenza che a tal cose si promette. Il soccorso de il
detto duca mai non venne; per la qual cosa io, che non son qui per questo,
altro non descrivo.
xxxvi. In mentre che io mi stavo su a quel mio diabolico esercizio,
mi veniva a vedere alcuni di quelli cardinali che erano in Castello, ma piú
ispesso il cardinale Ravenna e il cardinal de' Gaddi, ai quali io piú volte
dissi ch'ei non mi capitassino innanzi, perché quelle lor berrettuccie rosse si
scorgevano discosto; il che da que' palazzi vicini, com'era la Torre de' Bini,
loro e io portavomo pericolo grandissimo; di modo che per utimo io gli feci
serrare, e ne acquistai con loro assai nimicizia. Ancora mi capitava spesso
intorno il signor Orazio Baglioni, il quale mi voleva molto bene. Essendo un
giorno in fra gli altri ragionando meco, lui vidde certa dimostrazione in una
certa osteria, la quale era fuor della porta di Castello, luogo chiamato
Baccanello. Questa osteria aveva per insegna un sole dipinto immezzo dua
finestre, di color rosso. Essendo chiuse le finestre, giudicò il detto
signor Orazio, che al dirimpetto drento di quel sole in fra quelle due finestre
fussi una tavolata di soldati a far gozzoviglia; il perché mi disse: -
Benvenuto, s'e' ti dessi il cuore di dar vicino a quel sole un braccio con
questo tuo mezzo cannone, io credo che tu faresti una buona opera, perché
colà si sente un gran romore, dove debb'essere uomini di molta
importanza -. Al qual signor io dissi: - A me basta la vista di dare in mezzo a
quel sole - ma sí bene una botte piena di sassi, ch'era quivi vicina alla bocca
di detto cannone, el furore del fuoco e di quel vento che faceva il cannone,
l'arebbe mandata atterra. Alla qual cosa il detto signore mi rispose: - Non
mettere tempo in mezzo, Benvenuto: imprima non è possibile che, innel
modo che la sta, il vento de il cannone la faccia cadere; ma se pure ella
cadessi e vi fussi sotto il Papa, saria manco male che tu non pensi, sicché
tira, tira -. Io, non pensando piú là, detti in mezzo al sole, come io
avevo promesso a punto. Cascò la botte, come io dissi, la qual dette a
punto in mezzo in fra il cardinal Farnese e misser Iacopo Salviati, che bene
gli arebbe stiacciati tutti a dui: che di questo fu causa che il ditto cardinal
Farnese a punto aveva rimproverato, che il ditto misser Iacopo era causa del
sacco di Roma; dove dicendosi ingiuria l'un l'altro, per dar campo alle
ingiuriose parole, fu la causa che la mia botte non gli stiacciò tutt'a
dua. Sentito il gran rimore che in quella bassa corte si faceva, il buon signor
Orazio con gran prestezza se ne andò giú; onde io fattomi fuora, dove
era caduta la botte, senti' alcuni che dicevano: - E' sarebbe bene ammazzare
quel bonbardieri -; per la qual cosa io volsi dua falconetti alla scala che
montava su, con animo risoluto, che il primo che montava, dar fuoco a un de'
falconetti. Dovetton que' servitori del cardinal Farnese aver commessione dal
cardinale di venirmi a fare dispiacere; per la qual cosa io mi feci innanzi, e
avevo il fuoco in mano. Conosciuto certi di loro, dissi: - O scannapane, se voi
non vi levate di costí, e se gli è nessuno che ardisca entrar drento a
queste scale, io ho qui dua falconetti parati, con e' quali io farò
polvere di voi; e andate a dire al cardinale, che io ho fatto quello che dai
mia maggiori mi è stato commesso, le qual cose si sono fatte e fannosi
per difension di lor preti, e non per offenderli -. Levatisi e' detti, veniva
su correndo il ditto signor Orazio Baglioni, al quale io dissi che stessi
indrieto, se non che io l'ammazzerei, perché io sapevo benissimo chi egli era.
Questo signore non sanza paura si fermò alquanto, e mi disse: -
Benvenuto, io son tuo amico -. Al quale io dissi: - Signore, montate pur solo,
e venite poi in tutti i modi che voi volete -. Questo signore, ch'era
superbissimo, si fermò alquanto, e con istizza mi disse: - Io ho voglia
di non venire piú su e di far tutto il contrario che io avevo pensato di far
per te -. A questo io gli risposi, che sí bene come io ero messo in quello
uffizio per difendere altrui, che cosí ero atto a difendere ancora me medesimo.
Mi disse che veniva solo; e montato ch'e' fu, essendo lui cambiato piú che 'l
dovere nel viso, fu causa che io tenevo la mana in su la spada, e stavo in cagnesco
seco. A questo lui cominciò a ridere, e ritornatogli il colore nel viso,
piacevolissimamente mi disse: - Benvenuto mio, io ti voglio quanto bene io ho,
e quando sarà tempo che a Dio piaccia, io te lo mostretrò.
Volessi Idio che tu gli avessi ammazzati que' dua ribaldi, ché uno è
causa di sí gran male, e l'altro talvolta è per esser causa di peggio -.
Cosí mi disse, che se io fussi domandato che io non dicessi che lui fussi quivi
da me quando io detti fuoco a tale artiglieria; e del restante che io non
dubitassi. I romori furno grandissimi, e la cosa durò un gran pezzo. In
questo io non mi voglio allungare piú inanzi: basta che io fu' per fare le
vendette di mio padre con misser Iacopo Salviati, il quale gli aveva fatto
mille assassinamenti (secondo che detto mio padre se ne doleva). Pure
disavedutamente gli feci una gran paura. Del Farnese non vo' dir nulla, perché
si sentirà al suo luogo quanto gli era bene che io l'avessi ammazzato.
xxxvii. Io mi attendevo a tirare le mie artiglierie, e con esse facevo
ognindí qualche cosa notabilissima; di modo che io avevo acquistato un credito
e una grazia col papa inistimabile. Non passava mai giorno, che io non
ammazzassi qualcun degli inimici di fuora. Essendo un giorno in fra gli altri,
il Papa passeggiava per il mastio ritondo, e vedeva in Prati un colonello
spagnuolo, il quale lui lo conosceva per alcuni contrassegni, inteso che questo
era stato già al suo servizio; e in mentre che lo guardava, ragionava di
lui. Io che ero di sopra a l'Agnolo, e non sapevo nulla di questo, ma vedevo
uno uomo che stava là a fare aconciare trincee con una zagaglietta in
mano, vestito tutto di rosato, disegnando quel che io potessi fare contra di
lui, presi un mio gerifalco che io avevo quivi, il qual pezzo si è
maggiore e piú lungo di un sacro, quasi come una mezza colubrina: questo pezzo
io lo votai, di poi lo caricai con una buona parte di polvere fine mescolata
con la grossa; di poi lo dirizzai benissimo a questo uomo rosso, dandogli un
arcata maravigliosa, perché era tanto discosto, che l'arte non prometteva
tirare cosí lontano artiglierie di quella sorta. Dèttigli fuoco e presi
apunto nel mezzo quel uomo rosso, il quali s'aveva messo la spada per
saccenteria dinanzi, in un certo suo modo spagnolesco: che giunta la mia palla della
artiglieria, percosso in quella spada, si vidde il ditto uomo diviso in dua
pezzi. Il Papa, che tal cosa non aspettava, ne prese assai piacere e
maraviglia, sí perché gli pareva inpossibile che una artiglieria potessi
giugnere tanto lunge di mira, e perché quello uomo esser diviso in dua pezzi,
non si poteva accomodare e come questo caso star potessi; e mandatomi a
chiamare, mi domandò. Per la qual cosa io gli dissi tutta la diligenza
che io avevo osato al modo del tirare; ma per esser l'uomo in dua pezzi, né lui
né io non sapevamo la causa. Inginocchiatomi, lo pregai che mi ribenedissi
dell'omicidio, e d'altri che io ne avevo fatti in quel Castello in servizio
della Chiesa. Alla qual cosa il Papa, alzato le mane e fattomi un patente
crocione sopra la mia figura, mi disse che mi benediva, e che mi perdonava
tutti gli omicidii che io avevo mai fatti e tutti quelli che mai io farei in
servizio della Chiesa appostolica. Partitomi, me ne andai su, e sollecitando
non restavo mai di tirare; e quasi mai andava colpo vano. Il mio disegnare e i
mia begli studii e la mia bellezza di sonare di musica, tutte erano in sonar di
quelle artiglierie, e s'i' avessi a dire particularmente le belle cose che in
quella infernalità crudele io feci, farei maravigliare il mondo; ma per
non essere troppo lungo me le passo. Solo ne dirò qualcuna di quelle piú
notabile, le quale mi sono di necessità; e questo si è, che
pensando io giorno e notte quel che io potevo fare per la parte mia in
defensione della Chiesa, considerato che i nimici cambiavano le guardie e
passavano per il portone di Santo Spirito, il quale era tiro ragionevole, ma,
perché il tiro mi veniva in traverso, non mi veniva fatto quel gran male che io
desiderava di fare; pure ogni giorno se ne ammazzava assai bene: in modo che,
vedutosi e' nimici impedito cotesto passo, messono piú di trenta botti una
notte in su una cima di un tetto, le quali mi impedivano cotesta veduta. Io,
che pensai un po' meglio a cotesto caso che non avevo fatto prima, volsi tutti
a cinque i mia pezzi di artiglieria dirizzandogli alle ditte botti; e aspettato
le ventidua ore in sul bel di rimetter le guardie; e perché loro, pensandosi
esser sicuri, venivano piú adagio e piú folti che 'l solito assai, il che, dato
fuoco ai mia soffioni, non tanto gittai quelle botti per terra che
m'inpedivano, ma in quella soffiata sola ammazzai piú di trenta uomini. Il
perché, seguitando poi cosí dua altre volte, si misse i soldati in tanto
disordine che, infra che gli eran pieni del latrocinio del gran sacco, desiderosi
alcuni di quelli godersi le lor fatiche, piú volte si volsono abottinare per
andarsene. Pure, trattenuti da quel lor valoroso capitano, il quale si
domandava Gian di Urbino, con grandissimo lor disagio furno forzati pigliare un
altro passo per il rimettere delle lor guardie; il qual disagio
importava piú di tre miglia, dove quel primo non era un mezzo. Fatto questa
impresa, tutti quei signori ch'erano in Castello mi facevano favori
maravigliosi. Questo caso tale, per esser di tanta importanza seguito, lo ho
voluto contare per far fine a questo, perché non sono nella professione che mi
muove a scrivere; che se di queste cose tale io volessi far bello la vita mia,
troppe me ne avanzeria da dirle. èccene
sola un'altra che al suo luogo io la dirò.
XXXVIII.
Saltando innanzi un pezzo, dirò come papa Clemente, per salvare i regni
con tutta la quantità delle gran gioie della Camera apostolica, mi fece
chiamare, e rinchiusesi con il Cavalierino e io in una stanza soli. Questo
Cavalierino era già stato servitore della stalla di Filippo Strozzi: era
franzese, persona nata vilissima; e per essere gran servitore, papa Clemente lo
aveva fatto ricchissimo, e se ne fidava come di sé stesso: in modo che il Papa
detto, e il Cavaliere e io rinchiusi nella detta stanza, mi messono innanzi li
detti regni con tutta quella gran quantità di gioie della Camera
apostolica; e mi comisse che io le dovessi sfasciare tutte dell'oro, in che le
erano legate. E io cosí feci; di poi le rinvolsi in poca carta ciascune e le
cucimmo in certe farse adosso al Papa e al detto Cavalierino. Dipoi
mi dettono tutto l'oro, il quale era in circa dugento libbre, e mi dissono che
io lo fondessi quanto piú segretamente che io poteva. Me ne andai a l'Agnolo,
dove era la stanza mia, la quale io poteva serrare, che persona non mi dessi
noia: e fattomi ivi un fornelletto a vento di mattoni e acconcio innel fondo di
detto fornello un ceneràcciolo grandotto a guisa di un piattello,
gittando l'oro di sopra in su' carboni, a poco a poco cadeva in quel piatto. In
mentre che questo fornello lavorava, io continuamente vigilavo come io potevo
offendere gli inimici nostri; e perché noi avevamo sotto le trincee degli
inimici nostri a manco di un trar di mano, io facevo lor danno innelle dette
trincee con certi passatoiacci antichi, che erano parecchi cataste, già
munizione del Castello. Avendo preso un sacro e un falconetto, i quali erano
tutti a dui rotti un poco in bocca, questi io gli empievo di quei passatoiacci;
e dando poi fuoco alle dette artiglierie, volavano già alla impazzata
facendo alle dette trincee molti inaspettati mali: in modo che, tenendo questi
continuamente in ordine, in mentre che io fondevo il detto oro, un poco innanzi
all'ora del vespro veddi venire in su l'orlo della trincea uno a cavallo in sun
un muletto. Velocissimamente andava il detto muletto: e costui parlava a quelli
delle trincee. Io stetti avvertito di dar fuoco alla mia artiglieria innanzi
che egli giugnessi al mio diritto: cosí col buon iudizio dato fuoco, giunto, lo
investi' con un di quelli passatoi innel viso a punto: quel resto dettono al
muletto, il quale cadde morto: nella trincea sentissi un grandissimo tumulto:
detti fuoco a l'altro pezzo, non sanza lor gran danno. Questo si era il
principe d'Orangio, che per di dentro delle trincee fu portato a una certa
osteria quivi vicina, dove corse in breve tutta la nobilità dello
esercito. Inteso papa Clemente quello che io avevo fatto, subito mandò a
chiamarmi, e dimandatomi del caso, io gli contai il tutto, e di piú gli dissi
che quello doveva essere uomo di grandissima importanza, perché in quella
osteria, dove e' l'avevano portato, subito vi s'era ragunato tutti e' caporali
di quello esercito, per quel che giudicar si poteva. Il Papa di bonissimo
ingegno fece chiamare misser Antonio Santa Croce, il qual gentiluomo era capo e
guida di tutti e' bombardieri, come ho ditto: disse che comandassi a tutti noi
bombardieri, che noi dovessimo dirizzare tutte le nostre artiglierie a quella
detta casa, le quali erano un numero infinito, e che a un colpo di archibuso
ogniuno dessi fuoco; in modo che ammazzando quei capi, quello esercito, che era
quasi in puntelli, tutto si metteva in rotta; e che talvolta Idio arebbe udite
le loro orazione, che cosí frequente e' facevano, e per quella via gli arebbe liberati
da quelli impii ribaldi. Messo noi in ordine le nostre artiglierie, sicondo la
commissione del Santa Croce aspettando il segno, questo lo intese il cardinal
Orsino, e cominciò a gridare con il Papa, dicendo che per niente non si
dovessi far tal cosa, perché erano in sul concludere l'accordo, e se que' ci si
ammazzavano, il campo sanza guida sarebbe per forza entrato in Castello, e gli
arebbe finiti di rovinare a fatto: pertanto non volevano che tal cosa si
facessi. Il povero Papa disperato, vedutosi essere assassinato drento e fuora,
disse che lasciava il pensiero alloro. Cosí, levatoci la commessione, io che
non potevo stare alle mosse, quando io seppi che mi venivano a dare ordine che
io non tirassi, detti fuoco a un mezzo cannone che io avevo, il qual percosse
in un pilastro di un cortile di quella casa, dove io vedevo appoggiato
moltissime persone. Questo colpo fece tanto gran male ai nimici, che gli fu per
fare abandonare la casa. Quel cardinale Orsino ditto mi voleva fare o impiccare
o ammazzare in ogni modo; alla qual cosa il Papa arditamente mi difese. Le gran
parole che occorson fra loro, se bene io le so, non facendo professione di
scrivere istorie, non mi occorre dirle: solo attenderò al fatto mio.
XXXIX. Fonduto
che io ebbi l'oro, io lo portai al Papa, il quale molto mi ringraziò di
quello che io fatto avevo, e commesse al Cavalierino che mi donasse venticinque
scudi, scusandosi meco che non aveva piú da potermi dare. Ivi a pochi giorni si
fece l'accordo. Io me ne andai col signor Orazio Baglioni insieme con trecento
compagni alla volta di Perugia; e quivi il signor Orazio mi voleva consegnare
la compagnia, la quale io per allora non volsi, dicendo che volevo andare a
vedere mio padre in prima, e ricomperare il bando che io avevo di
Firenze. Il detto signore mi disse, che era fatto capitano de' Fiorentini; e
quivi era ser Pier Maria di Lotto, mandato dai detti Fiorentini, a il quale il
detto signor Orazio molto mi raccomandò come suo uomo. Cosí me ne venni
a Firenze con parecchi altri compagni. Era la peste inistimabile, grande.
Giunti a Firenze, trovai il mio buon padre, il quale pensava o che io fussi
morto in quel Sacco, o che allui ignudo io tornassi. La qual cosa avenne tutto
il contrario: ero vivo, e con di molti danari, con un servitore, e bene a
cavallo. Giunto al mio vecchio, fu tanto l'allegrezza che io gli viddi, che
certo pensai, mentre che mi abbracciava e baciava, che per quella e' morissi
subito. Raccòntogli tutte quelle diavolerie del Sacco, e datogli una
buona quantità di scudi in mano, li quali soldatescamente io me avevo
guadagnati, apresso fattoci le carezze, il buon padre e io, subito se ne
andò agli Otto a ricomperarmi il bando; e s'abbatté per sorte a esser
degli Otto un di quegli che me l'avevan dato, ed era quello che indiscretamente
aveva detto quella volt'a mio padre, che mi voleva mandare in villa co' lanciotti;
per la qual cosa mio padre usò alcune accorte parole in atto di
vendetta, causate dai favori che mi aveva fatto il signor Orazio Baglioni.
Stando cosí, io dissi a mio padre come il signor Orazio mi aveva eletto per
capitano, e che e' mi conveniva cominciare a pensare di fare la compagnia. A
queste parole sturbatosi subito il povero padre, mi pregò per l'amor di
Dio, che io non dovessi attendere a tale impresa, con tutto che lui cognoscessi
che io saria atto a quella e a maggior cosa; dicendomi apresso, che aveva
l'altro figliuolo, e mio fratello, tanto valorosissimo alla guerra, e che io
dovessi attendere a quella maravigliosa arte, innella quale tanti anni e con sí
grandi studi io mi ero affaticato di poi. Se bene io gli promessi ubidirlo,
pensò come persona savia, che se veniva il signor Orazio, sí per avergli
io promesso e per altre cause, io non potrei mai mancare di non seguitare le
cose della guerra; cosí con un bel modo pensò levarmi di Firenze,
dicendo cosí: - O caro mio figliuolo, qui è la peste inistimabile,
grande, e mi par tuttavia di vederti tornare a casa con essa; io mi ricordo,
essendo giovane, che io me ne andai a Mantova, nella qual patria io fui molto
carezzato, e ivi stetti parecchi anni. Io ti priego e comando, che per amor
mio, piú presto oggi che domani, di qui ti lievi e là te ne vada.
XL. Perché sempre m'è dilettato di vedere
il mondo, e non essendo mai stato a Mantova, volentieri andai, preso que'
danari che io avevo portati; e la maggior parte di essi ne lasciai al mio buon
padre, prommettendogli di aiutarlo sempre dove io fussi, lasciando la mia
sorella maggiore a guida del povero padre. Questa aveva nome Cosa, e non avendo
mai voluto marito, era accettata monaca in Santa Orsola, e cosí soprastava per
aiuto e governo del vecchio padre e per guida de l'altra mia sorella minore, la
quale era maritata a un certo Bartolomeo scultore. Cosí partitomi con la
benedizione del padre, presi il mio buon cavallo, e con esso me ne andai a
Mantova. Troppe gran cose arei da dire, se minutamente io volessi scrivere
questo piccol viaggio. Per essere il mondo intenebrato di peste e di guerra,
con grandissima difficultà io pur poi mi condussi alla ditta Mantova;
innella quale giunto che io fui, cercai di cominciare a lavorare; dove io fui
messo in opera da un certo maestro Nicolò milanese, il quale era orefice
del Duca di detta Mantova. Messo che io fui in opera, di poi dua giorni
appresso io me ne andai a visitare misser Iulio Romano pittore eccellentissimo,
già ditto, molto mio amico, il quale misser Iulio mi fece carezze
inestimabile ed ebbe molto per male che io non ero andato a scavalcare a casa
sua; il quale vivea da signore, e faceva una opera pel Duca fuor della porta di
Mantova, luogo detto a Te. Questa opera era grande e maravigliosa, come forse
ancora si vede. Subito il ditto misser Iulio con molte onorate parole
parlò di me al Duca; il quale mi commesse che io gli facessi un modello
per tenere la reliquia del sangue di Cristo, che gli hanno, qual dicono essere
stata portata quivi da Longino; di poi si volse al ditto misser Iulio,
dicendogli che mi facessi un disegno per detto reliquiere. A questo, misser
Iulio disse: - Signore, Benvenuto è un uomo che non ha bisogno delli
disegni d'altrui, e questo Vostra Eccellenzia benissimo lo giudicherà,
quando la vedrà il suo modello -. Messo mano a far questo ditto modello,
feci un disegno per il ditto reliquiere da potere benissimo collocare la ditta
ampolla: di poi feci per di sopra un modelletto di cera. Questo si era
un Cristo assedere, che innella mana mancina levata in alto teneva la sua Croce
grande, con atto di appoggiarsi a essa; e con la mana diritta faceva segno con
le dita di aprirsi la piaga del petto. Finito questo modello, piacque tanto al
Duca, che li favori furno inistimabili, e mi fece intendere, che mi terrebbe al
suo servizio con tal patto, che io riccamente vi potrei stare. In questo mezzo,
avendo io fatto reverenzia al Cardinale suo fratello, il detto Cardinale
pregò il Duca, che fussi contento di lasciarmi fare il suggello
pontificale di Sua Signoria reverendissima; il quale io cominciai.
In mentre che questa tal opera io lavoravo, mi sopraprese la febbre quartana;
la qual cosa, quando questa febbre mi pigliava, mi cavava de' sentimenti; onde
io maledivo Mantova e chi n'era padrone, e chi volentieri vi stava. Queste
parole furono ridette al Duca da quel suo orefice milanese ditto, il
quale benissimo vedeva che 'l Duca si voleva servir di me. Sentendo il detto
Duca quelle mie inferme parole, malamente meco s 'adirò; onde, io
essendo adirato con Mantova, della stizza fummo pari. Finito il mio suggello,
che fu un termine di quattro mesi, con parecchi altre operette fatte al Duca
sotto nome del Cardinale, da il ditto Cardinale io fui ben pagato; e mi
pregò che io me ne tornassi a Roma in quella mirabil patria, dove noi ci
eramo conosciuti. Partitomi con una buona somma di scudi di Mantova, giunsi a
Governo, luogo dove fu ammazzato quel valorosissimo signor Giovanni. Quivi mi
prese un piccol termine di febbre, la quale non m'impedí punto il mio viaggio,
e restata innel ditto luogo, mai piú l'ebbi. Di poi giunto a Firenze, pensando
trovare il mio caro padre, bussando la porta, si fece alla finestra una certa
gobba arrabbiata, e mi cacciò via con assai villania, dicendomi che io
l'avevo fradicia. Alla qual gobba io dissi: - Oh dimmi, gobba perversa,
ècc'elli altro viso in questa casa che 'l tuo? - No, col tuo malanno -.
Alla qual io dissi forte: - E questo non ci basti dua ore -. A questo contrasto
si fece fuori una vicina, la qual mi disse che mio padre con tutti quelli della
casa mia erano morti di peste: onde che io parte me lo indovinavo, fu la
cagione che il duolo fu minore. Di poi mi disse che solo era restata viva
quella mia sorella minore, la quale si chiamava Liperata, che era istata
raccolta da una santa donna, la quale si domandava monna Andrea de' Bellacci.
Io mi parti' di quivi per andarmene all'osteria. A caso rincontrai un mio
amicissimo: questo si domandava Giovanni Rigogli. Iscavalcato a casa sua, ce ne
andammo in piazza, dove io ebbi nuove che 'l mio fratello era vivo, il quale io
andai a trovare a casa di un suo amico, che si domandava Bertino Aldobrandi.
Trovato il fratello, e fattoci carezze e accoglienze infinite, il perché si
era, che le furno istrasordinarie, che a lui di me e a me di lui era stato dato
nuove della morte di noi stessi, di poi levato una grandissima risa, con
maraviglia presomi per la mano, mi disse: - Andiamo, fratello, che io ti meno
in luogo il quale tu mai non immagineresti: questo si è, che io ho
rimaritata la Liperata nostra sorella, la quale certissimo ti tiene per morto
-. In mentre che a tal luogo andavamo, contammo l'uno all'altro di bellissime
cose avvenuteci; e giunti a casa, dov'era la sorella, gli venne tanta
stravaganza per la novità inaspettata ch'ella mi cadde in braccio
tramortita; e se e' non fossi stato alla presenza il mio fratello, l'atto fu
tale sanza nessuna parola, che il marito cosí al primo non pensava che
io fossi il suo fratello. Parlando Cechin mio fratello e dando aiuto alla
svenuta, presto si riebbe; e pianto un poco il padre, la sorella, il marito, un
suo figliuolino, si dette ordine alla cena; e in quelle piacevol nozze in tutta
la sera non si parlò piú di morti, ma sí bene ragionamenti da nozze.
Cosí lietamente e con grande piacere finimmo la cena.
XLI. Forzato
dai prieghi del fratello e della sorella, furno causa che io mi fermai a
Firenze, perché la voglia mia era volta a tornarmene a Roma. Ancora quel mio
caro amico - che io dissi prima in alcune mie angustie tanto aiutato da lui,
questo si era Piero di Giovanni Landi - ancora questo Piero mi disse che io mi
doverrei per alquanto fermare a Firenze; perché essendo i Medici cacciati di
Firenze, cioè il signore Ipolito e signore Alessandro, quali
furno poi un Cardinale e l'altro Duca di Firenze, questo Piero ditto mi disse,
che io dovessi stare un poco a vedere quel che si faceva. Cosí cominciai a
lavorare in Mercato Nuovo, e legavo assai quantità di gioie e guadagnavo
bene. In questo tempo capitò a Fiorenza un sanese chiamato Girolamo
Marretti: questo sanese era stato assai tempo in Turchia, ed era persona di
vivace ingegno. Capitommi a bottega, e mi dette a fare una medaglia d'oro da
portare in un cappello; volse in questa medaglia che io facessi uno Ercole che
sbarrava la bocca a il lione. Cosí mi missi a farlo; e in mentre che io lo
lavorava, venne Michelagnolo Buonaarroti piú volte a vederlo; e perché io mi
v'ero grandemente affaticato, l'atto della figura e la bravuria de l'animale
molto diversa da tutti quelli che per insino allora avevano fatto tal
cosa; ancora per esser quel modo del lavorare totalmente incognito a quel
divino Michelagnolo, lodò tanto questa mia opera, che a me crebbe tanto
l'animo di far bene, che fu cosa inistimabile. Ma perché io non avevo altra
cosa che fare se non legare gioie, che se bene questo era il maggior guadagno
che io potessi fare, non mi contentavo, perché desideravo fare opere d'altra
virtú che legar gioie; in questo accadde un certo Federigo Ginori, giovane di
molto elevato spirito. Questo giovane era stato a Napoli molti anni, e perché
gli era molto bello di corpo e di presenza, se era innamorato in Napoli di una
principessa; cosí, volendo fare una medaglia innella quale fussi un Atalante
col mondo addosso, richiese il gran Michelagnolo, che gne ne facessi un poco il
disegno. Il quale disse al ditto Federigo: - Andate a trovare un certo giovane
orefice, che ha nome Benvenuto; quello vi servirà molto bene, e certo
che non gli accade mio disegno; ma perché voi non pensiate che di tal piccola
cosa io voglia fuggire le fatiche, molto volentieri vi farò un poco di
disegno: intanto parlate col detto Benvenuto, che ancora esso ne faccia un poco
di modellino; di poi il meglio si metterà in opera -. Mi venne a trovare
questo Federigo Ginori, e mi disse la sua voluntà, appresso quanto quel
maraviglioso Michelagnolo mi aveva lodato; e che io ne dovessi fare ancora io
un poco di modellino di cera, in mentre che quel mirabile uomo gli aveva
promesso di fargli un poco di disegno. Mi dette tanto animo quelle parole di
quel grande uomo, che io subito mi messi con grandissima sollecitudine a fare
il detto modello; e finito che io l'ebbi, un certo dipintore molto amico di
Michelagnolo, chiamato Giuliano Bugiardini, questo mi portò il disegno
de l'Atalante. Innel medesimo tempo io mostrai al ditto Giuliano il mio
modellino di cera: il quali era molto diverso da quel disegno di Michelagnolo;
talmente che Federigo ditto e ancora il Bugiardino conclusono che io dovessi
farlo sicondo il mio modello. Cosí lo cominciai, e lo vidde lo eccellentissimo
Michelagnolo, e me lo lodò tanto, che fu cosa inistimabile. Questo era
una figura, come io ho detto, cesellata di piastra; aveva il cielo addosso,
fatto una palla di cristallo, intagliato in essa il suo zodiaco, con un campo
di lapislazzuli: insieme con la ditta figura faceva tanto bel vedere, che era
cosa inistimabile. Era sotto un motto di lettere, le quali dicevano “Summa
tulisse juvat”. Sadisfattosi il ditto Federigo, me liberalissimamente
pagò. Per essere in questo tempo misser Aluigi Alamanni a Firenze, era
amico de il detto Federigo Ginori, il quale molte volte lo condusse a bottega
mia, e per sua grazia mi si fece molto domestico amico.
XLII. Mosso
la guerra papa Clemente alla città di Firenze, e quella preparatasi alla
difesa, fatto la città per ogni quartiere gli ordini delle milizie
populare, ancora io fui comandato per la parte mia. Riccamente mi messi in
ordine: praticavo con la maggior nobiltà di Firenze, i quali
molto d'accordo si vedevano voler militare a tal difesa, e fecesi quelle
orazioni per ogni quartiere, qual si sanno. Di piú si trovavano i giovani piú
che 'l solito insieme, né mai si ragionava d'altra cosa che di questa. Essendo
un giorno in sul mezzodí in su la mia bottega una quantità di omaccioni
e giovani, e' primi della città, mi fu portato una lettera di
Roma, la qual veniva da un certo chiamato in Roma maestro Iacopino della Barca.
Questo si domandava Iacopo dello Sciorina, ma della Barca in Roma, perché
teneva una barca che passava il Tevero infra Ponte Sisto e Ponte Santo Agnolo.
Questo maestro Iacopo era persona molto ingegnosa, e aveva piacevoli e bellissimi
ragionamenti: era stato in Firenze già maestro di levare opere a'
tessitori di drappi. Questo uomo era molto amico di papa Clemente, il quale
pigliava gran piacere di sentirlo ragionare. Essendo un giorno in questi cotali
ragionamenti, si cadde in proposito e del Sacco e dell'azione del Castello: per
la qual cosa il Papa, ricordatosi di me, ne disse tanto bene quanto immaginar
si possa; e aggiunse, che se lui sapeva dove io fussi, arebbe piacere di
riavermi. Il detto maestro Iacopo disse che io ero a Firenze; per la qual cosa
il Papa gli commesse che mi scrivessi che io tornassi allui. Questa ditta
lettera conteneva che io dovessi tornare al servizio di Clemente, e che buon
per me. Quelli giovani che eran quivi alla presenza, volevano pur sapere quel
che quella lettera conteneva; per la qual cosa, il meglio che io potetti, la
nascosi: dipoi iscrissi al ditto maestro Iacopo pregandolo, che né per bene né
per male in modo nessuno lui non mi scrivessi. Il ditto, cresciutogli maggior
voglia, mi scrisse un'altra lettera, la quale usciva tanto de' termini, che se
la si fussi veduta, io sarei capitato male. Questa diceva che, da parte del
Papa, io andassi subito, il quali mi voleva operare a cose di grandissima
importanza; e che, se io volevo far bene, che io lasciassi ogni cosa subito, e
non istessi a far contro a un papa, insieme con quelli pazzi arrabbiati. Vista
la lettera, la mi misse tanta paura, che io andai a trovare quel mio caro
amico, che si domandava Pier Landi; il quale vedutomi, subito mi domandò
che cosa di nuovo io avevo, che io dimostravo essere tanto travagliato. Dissi
al mio amico che, quel che io avevo che mi dava quel gran travaglio, in modo
nessuno non gliel potevo dire; solo lo pregavo che pigliassi quelle tali chiave
che io gli davo, e che rendessi le gioie e l'oro al terzo e al quarto, che lui
in sun un mio libruccio troverebbe scritto; di poi pigliassi la roba della mia
casa, e ne tenessi un poco di conto con quella sua solita amorevolezza, e che
infra brevi giorni lui saprebbe dove io fussi. Questo savio giovane, forse a un
dipresso imaginatosi la cosa, mi disse: - Fratel mio, va' via presto, di poi
scrivi, e delle cose tue non ti dare un pensiero -. Cosí feci. Questo fu il piú
fedele amico, il piú savio, il piú da bene, il piú discreto, il piú amorevole
che mai io abbia conosciuto. Partitomi di Firenze, me ne andai a Roma, e di
quivi scrissi.
XLIII. Subito che io giunsi in Roma, ritrovato
parte delli mia amici, dalli quali io fui molto ben veduto e carezzato, e
subito mi messi a lavorare opere tutte da guadagnare e non di nome da
descrivere. Era un certo vecchione orefice, il quale si domandava Raffaello del
Moro. Questo era uomo di molta riputazione ne l'arte, e nel resto era molto
uomo da bene. Mi pregò che io fussi contento andare a lavorare nella
bottega sua, perché aveva da fare alcune opere d'importanza, le quali erano di
bonissimo guadagno: cosí andai volentieri. Era passato piú di dieci giorni, che
io non m'ero fatto vedere a quel detto maestro Iacopino della Barca; il quale,
vedutomi a caso, mi fece grandissima accoglienza, e domandatomi quant'egli era
che io ero giunto, gli dissi che gli era circa quindici giorni. Questo uomo
l'ebbe molto per male, e mi disse che io tenevo molto poco conto d'un papa, il
quale con grande istanzia di già gli aveva fatto scrivere tre volte per
me: e io, che l'avevo aùto molto piú per male di lui, nulla gli risposi
mai, anzi mi ingozzavo la stizza. Questo uomo, ch'era abundantissimo di
parole, entrò in sun una pesta e ne disse tante, che pur poi, quando io
lo viddi stracco, non gli dissi altro, se non che mi menassi dal Papa a sua
posta; il qual rispose, che sempre era tempo; onde io gli dissi: - E io ancora
son sempre parato -. Cominciatosi a 'vviare verso il palazzo, e io seco (questo
fu il Giovedí santo), giunti alle camere del Papa lui che era conosciuto e io
aspettato, subito fummo messi drento. Era il Papa innel letto un poco
indisposto e seco era misser Iacopo Salviati e l'arcivescovo di Capua. Veduto
che m'ebbe il Papa, molto strasordinariamente si rallegrò; e io,
baciatogli e' piedi, con quanta modestia io potevo me li accostavo appresso,
mostrando volergli dire alcune cose d'importanza. Subito fatto cenno con la
mana, il ditto missere Iacopo e l'arcivescovo si ritirorno molto discosto da
noi. Subito cominciai, dicendo: - Beatissimo Padre, da poi che fu il Sacco in
qua, io non mi son potuto né confessare né comunicare, perché non mi vogliono
assolvere. Il caso è questo, che quando io fonde' l'oro e feci quelle
fatiche a scior quelle gioie, Vostra Santità dette commessione al
Cavalierino che donasse un certo poco premio delle mie fatiche, il quale io non
ebbi nulla, anzi mi disse piú presto villania. Andatomene su, dove io avevo
fonduto il detto oro, levato le ceneri trovai in circa una libra e mezzo d'oro
in tante granellette come panico; e perché io non avevo tanti danari da potermi
condurre onorevolmente a casa mia, pensai servirmi di quelli, e rendergli da
poi quando mi fusse venuto la comodità. Ora io son qui a' piedi di
Vostra Santità, la quali è 'l vero confessoro: quella mi faccia
tanto di grazia di darmi licenzia acciò che io mi possa confessare e
comunicare, e mediante la grazia di Vostra Santità, io riabbia la grazia
del mio signor Idio -. Allora il Papa con un poco di modesto sospiro, forse
ricordandosi de' sua affanni, disse queste parole: - Benvenuto, io sono
certissimo quel che tu di' il quale, ti posso assolvere d'ogni inconveniente
che tu avessi fatto, e di piú voglio, sí che liberissimamente e con buono animo
di' su ogni cosa, ché, se tu avessi aùto il valore di un di
quei regni interi, io son dispostissimo a perdonarti -. Allora io dissi: -
Altro non ebbi, beatissimo Padre, che quanto io ho detto; e questo non
arrivò al valore di cento quaranta ducati, che tanto ne ebbi dalla zecca
di Perugia, e con essi n'andai a confortare il mio povero vecchio padre -.
Disse il Papa: - Tuo padre è stato cosí virtuoso, buono e dabbene uomo,
quanto nascessi mai, e tu punto non traligni: molto m'incresce che i danari
furno pochi; però questi, che tu di' che sono, io te ne fo un presente,
e tutto ti perdono; fa di questo fede al confessoro, se altro non c'è
che attenga a me; di poi, confessato e comunicato che tu sia, lascerai' ti
rivedere, e buon per te -. Spiccato che io mi fui dal Papa, accostatosi il
ditto misser Iacopo e l'arcivescovo, il Papa disse tanto ben di me, quanto
d'altro uomo che si possa dire al mondo; e disse che mi aveva confessato e
assoluto; di poi aggiunse, dicendo a l'arcivescovo di Capua, che mandassi per
me e che mi domandassi se sopra a quel caso bisognava altro, che di tutto mi
assolvessi, che gnene dava intera autorità, e di piú mi facessi quante
carezze quanto e' poteva. Mentre che io me ne andavo con quel maestro Iacopino,
curiosissimamente mi domandava che serrati e lunghi ragionamenti erano stati
quelli che io avevo aúti col Papa: la qualcosa come e' m'ebbe dimandato piú di
dua volte, gli dissi che non gnene volevo dire, perché non eran cose che
s'attenessino allui; però non me ne dimandassi piú. Andai a fare tutto quello
che ero rimasto col Papa; di poi, passato le due feste, lo andai a visitare: il
quale, fattomi piú carezze che prima, mi disse: - Se tu venivi un poco prima a
Roma, io ti facevo rifare quella mia dua regni, che noi guastammo in Castello;
ma perché e' le son cose, dalle gioie di fuora, di poca virtú, io ti
adopererò a una opera di grandissima importanza, dove tu potrai mostrare
quel che tu sai fare. E questo si è il bottone del peviale (il quale si
fa tondo a foggia di un tagliere, e grande quanto un taglieretto, di un terzo
di braccio): in questo io voglio che si faccia un Dio Padre di mezzo rilievo, e
in mezzo al detto voglio accomodare questa bella punta del diamante grande con
molte altre gioie di grandissima importanza. Già ne cominciò uno Caradosso,
e non lo finí mai; questo io voglio che si finisca presto, perché me lo voglio
ancora io godere qualche poco; sí che va', e fa' un bel modellino -. E mi fece
mostrare tutte le gioie; onde io affusolato subito andai.
xLiv. In mentre che l'assedio era intorno a Firenze, quel Federigo
Ginori, a chi io avevo fatto la medaglia de l'Atalante, si morí di tisico, e la
ditta medaglia capitò alle mane di misser Luigi Alamanni, il quale in
ispazio di breve tempo la portò egli medesimo a donare a re Francesco,
re di Francia, con alcuni sua bellissimi scritti. Piacendo oltramodo questa
medaglia al Re, il virtuosissimo misser Luigi Alamanni parlò di me con
Sua Maestà alcune parole di mia qualità, oltra l'arte, con
tanto favore, che il Re fece segno di aver voglia di conoscermi. Con tutta la
sollecitudine che io potevo sollecitando quel detto modelletto, il quale facevo
della grandezza apunto che doveva essere l'opera, risentitosi ne l'arte degli
orefici molti di quelli, che pareva loro essere atti a far tal cosa; e perché
gli era venuto a Roma un certo Micheletto, molto valente uomo per intagliare
corniuole, ancora era intelligentissimo gioielliere, ed era uomo vecchio e di
molta riputazione: erasi intermesso alla cura de' dua regni del Papa: faccendo
io questo detto modello, molto si maravigliò che io non avevo fatto capo
allui, essendo pure uomo intelligente e in credito assai del Papa. A l'ultimo,
veduto che io non andavo dallui, lui venne da me domandandomi quello che io
facevo: - Quel che m'ha comisso il Papa - gli risposi. Allora e' disse: - Il
Papa m'ha comisso che io vegga tutte queste cose che per Sua Santità si
fanno -. Al quale io dissi che ne dimanderei prima il Papa, di poi saprei quel
che io gli avessi a rispondere. Mi disse che io me ne pentirei; e partitosi da
me adirato, si trovò insieme con tutti quelli dell'arte, e ragionando di
questa cosa, dettono il carico al detto Michele tutti; il quale, con
quel suo buono ingegno fece fare da certi valenti disegnatori piú di trenta
disegni tutti variati l'uno dall'altro, di questa cotale impresa. E perché gli
aveva a sua posta l'orecchio del Papa, accordatosi con un altro gioielliere, il
quale si chiamava Pompeo, milanese (questo era molto favorito dal Papa, ed era
parente di misser Traiano primo cameriere del Papa), cominciorno questi dua,
cioè Michele e Pompeo, a dire al Papa che avevano visto il mio modello,
e che pareva loro che io non fossi strumento atto a cosí mirabile impresa. A
questo il Papa disse che l'aveva a vedere anche lui; di poi, non essendo io
atto, si cercherebbe chi fussi. Dissono tutt'a dua, che avevano parecchi
disegni mirabili sopra tal cosa: a questo il Papa disse che l'aveva caro assai,
ma che non gli voleva vedere prima che io avessi finito il mio modello; di poi
vedrebbe ogni cosa insieme. Infra pochi giorni io ebbi finito il mio modello, e
portatolo una mattina su dal Papa, quel misser Traiano mi fece aspettare, e in
questo mezzo mandò con diligenzia per Micheletto e per Pompeo, dicendo
loro che portassino i disegni. Giunti che e' furno, noi fummo messi drento; per
la qual cosa subito Michele e Pompeo cominciorno a squadernare i lor disegni, e
il Papa a vedergli. E perché i disegnatori fuor de l'arte del gioiellare non
sanno la situazione delle gioie, ne manco coloro che erano gioiellieri non
l'avevano insegnata loro: perché è forza a un gioielliere, quando infra
le sue gioie intervien figure, ch'egli sappia disegnare, altrimenti non gli
vien fatto cosa buona; di modo che tutti que' disegni avevano fitto quel
maraviglioso diamante nel mezzo del petto di quel Dio Padre. Il Papa, che pure
era di bonissimo ingegno, veduto questa cosa tale, non gli finiva di piacere; e
quando e' n'ebbe veduto insino a dieci, gittato el resto in terra, disse a me,
che mi stavo là da canto: - Mostra un po' qua, Benvenuto, il tuo
modello, acciò che io vegga se tu sei nel medesimo errore di costoro -.
Io fattomi innanzi e aperto una scatoletta tonda, parve che uno splendore dessi
proprio negli occhi del Papa; e disse con gran voce: - Se tu mi fussi stato in
corpo, tu non l'aresti fatto altrimenti come io veggo: costoro non
sapevano altro modo a vituperarsi -. Accostatisi molti gran signori, il
Papa mostrava la differenza che era dal mio modello a' lor disegni. Quando
l'ebbe assai lodato, e coloro spaventati e goffi alla presenza, si volse a me e
disse; - Io ci cognosco apunto un male che è d'importanza grandissima.
Benvenuto mio, la cera è facile da lavorare; il tutto è farlo
d'oro -. A queste parole io arditamente risposi dicendo: - Beatissimo Padre, se
io non lo fo meglio dieci volte di questo mio modello, sia di patto che voi non
me lo paghiate -. A queste parole si levò un gran tomulto fra quei
signori, dicendo che io promettevo troppo. V'era un di questi signori,
grandissimo filosofo, il quale disse in mio favore: - Di quella bella
finnusumia e simitria di corpo, che io veggo in questo giovane, mi prometto
tutto quello che dice, e da vantaggio -. Il Papa disse: - È per che io
lo credo ancora io -. Chiamato quel suo cameriere misser Traiano, gli disse che
portassi quivi cinquecento ducati d'oro di Camera. In mentre che i danari si
aspettavano, il Papa di nuovo piú adagio considerava in che bel modo io avevo
accomodato il diamante con quel Dio Padre. Questo diamante l'avevo apunto messo
in mezzo di questa opera, e sopra d'esso diamante vi avevo accomodato a sedere
il Dio Padre in un certo bel modo svolto che dava bellissima accordanza, e non
occupava la gioia niente: alzando la man diritta dava la benedizione. Sotto al
detto diamante avevo accomodato tre puttini, che co le braccia levate in alto
sostenevano il ditto diamante. Un di questi puttini di mezzo era di tutto
rilievo; gli altri dui erano di mezzo. A l'intorno era assai quantità di
puttini diversi, accomodati con l'altre belle gioie. Il resto de Dio Padre
aveva uno amanto che svolazzava, dil quale usciva di molti puttini, con molti
altri belli ornamenti, li quali facevano bellissimo vedere. Era questa opera
fatta di uno stucco bianco sopra una pietra negra. Giunto i danari, il Papa di
sua mano me gli dette, e con grandissima piacevolezza mi pregò, che io
facessi di sorte che lui l'avessi a' sua dí, e che buon per me.
xLv. Portatomi
via i danari e il modello, mi parve mill'anni di mettervi le mane. Cominciato
subito con gran sollecitudine a lavorare, in capo di otto giorni il Papa mi
mandò a dire per un suo cameriere, grandissimo gentiluomo bolognese, che
io dovessi andar da lui, e portare quello che io avevo lavorato. Mentre che io
andavo, questo ditto cameriere, che era la piú gentil persona che fussi in
quella Corte, mi diceva che non tanto il Papa volessi veder quell'opera, ma me
ne voleva dare un'altra di grandissima importanza; e questa si era le stampe
delle monete della zecca di Roma; e che io mi armassi a poter rispondere
a Sua Santità: che per questo lui me ne aveva avvertito. Giunsi dal
Papa, e squadernatogli quella piastra d'oro, dove era già isculpito Idio
Padre solo, il quale cosí bozzato mostrava piú virtú che quel
modelletto di cera; di modo che il Papa stupefatto disse: - Da ora innanzi
tutto quello che tu dirai, ti voglio credere - e fattomi molti sterminati
favori, disse: - Io ti voglio dare un'altra impresa, la quale mi sarebbe cara
quant'è questa e piú, se ti dessi il cuor di farla -; e dittomi che
arebbe caro di far le stampe delle sue monete, e domandandomi se io n'avevo piú
fatte, e se me ne dava il cuore di farle, io dissi che benissimo me ne dava il
cuore, e che io avevo veduto come le si facevano; ma che io no n'avevo mai
fatte. Essendo alla presenza un certo misser Tommaso da Prato, il quale era
datario di sua Santità, per essere molto amico di quelli mia nimici,
disse: - Beatissimo Padre, gli favori che fa Vostra Santità a questo
giovane, e lui per natura arditissimo, son causa che lui vi prometterebbe un
mondo di nuovo; perché, avendogli dato una grande impresa, e ora
aggiugnendognene una maggiore, saranno causa di dar l'una noia a l'altra -. Il
Papa adirato se gli volse e disse, gli badassi all'uffizio suo; e a me impose
che io facessi un modello d'un doppione largo d'oro innel quale voleva che
fussi un Cristo ignudo con le mane legate, con lettere che dicessino “Ecce
Homo”; e un rovescio dove fussi un papa e uno imperatore, che dirizzassino
d'accordo una croce, la quale mostrassi di cadere, con lettere che
dicessino “Unus spiritus et una fides erat in eis”. Commessomi il Papa
questa bella moneta, sapragiunse il Bandinello scultore, il quale non era ancor
fatto cavaliere, e con la sua solita prosunzione vestita d'ignoranzia disse: -
A questi orafi, di queste cose belle bisogna lor fare e' disegni -. Al quale io
subito mi volsi e dissi che io non avevo bisogno di sua disegni per l'arte mia;
ma che io speravo bene con qualche tempo, che con i mia disegni io darei noia
all'arte sua. Il Papa mostrò aver tanto caro queste parole, quanto
immaginar si possa, e voltosi a me, disse: - Va', pur, Benvenuto mio, e attendi
animosamente a servirmi, e non prestare orecchio alle parole di questi pazzi -.
Cosí partitomi, e con gran prestezza feci dua ferri; e stampato una
moneta in oro, portato una domenica doppo desinare la moneta e' ferri al Papa,
quando la vidde, restato maravigliato e contento, non tanto della bella opera
che gli piaceva oltramodo, ancora piú lo fe' maravigliare la prestezza che io
avevo usata. E per accrescere piú satisfazione e maraviglia al Papa, avevo meco
portato tutte le vecchie monete che s'erano fatte per l'adietro da quei valenti
uomini che avevano servito papa Iulio e papa Lione; e veduto che le mie molto
piú satisfacevano, mi cavai di petto un moto proprio per il quale io domandavo
quel detto uffizio del maestro delle stampe della zecca; il quale uffizio dava
sei scudi d'oro di provisione il mese, sanza che i ferri poi erano pagati dal
zecchiere, che se ne dava tre al ducato. Preso il Papa il mio moto proprio e
voltosi, lo dette in mano al datario, dicendogli che subito me lo spedissi.
Preso il datario il moto proprio e volendoselo mettere innella tasca, disse: -
Beatissimo Padre, Vostra Santità non corra cosí a furia; queste son cose
che meritano qualche considerazione -. Allora il Papa disse: - Io v'ho inteso;
date qua quel moto proprio - e presolo, di sua mano subito lo segnò; poi
datolo allui disse: - Ora non c'è piú replica; speditegne voi ora,
perché cosí voglio, e val piú le scarpe di Benvenuto che gli occhi di tutti
questi altri balordi -. E cosí ringraziato Sua Santità, lieto oltremodo
me ne andai a lavorare.
xLvi. Ancora lavoravo in bottega di quel Raffaello del Moro
sopraditto. Questo uomo da bene aveva una sua bella figlioletta, per la quale
lui mi aveva fatto disegno adosso; e io, essendomene in parte avveduto, tal
cosa desideravo, ma in mentre che io avevo questo desiderio, io non lo
dimostravo niente al mondo; anzi istavo tanto costumato, che i' gli facevo
maravigliare. Accadde, che a questa povera fanciulletta gli venne una
infermità innella mana ritta, la quale gli aveva infradiciato quelle dua
ossicina che seguitano il dito mignolo e l'altro accanto al mignolo. E perché
la povera figliuola era medicata per la inavvertenza del padre da un medicaccio
ignorante, il quale disse che questa povera figliuola resterebbe storpiata di
tutto quel braccio ritto, non gli avvenendo peggio; veduto io il povero padre
tanto sbigottito, gli dissi che non credessi tutto quel che diceva quel medico
ignorante. Per la qual cosa lui mi disse non avere amicizia di medici nissuno
cerusici, e che mi pregava, che se io ne conoscevo qualcuno, gnene avviassi.
Subito feci venire un certo maestro Iacomo perugino uomo molto eccellente nella
cerusia; e veduto che egli ebbe questa povera figlioletta, la quale era
sbigottita perché doveva avere presentito quello che aveva detto quel medico
ignorante, dove questo intelligente disse che ella non arebbe mal nessuno e che
benissimo si servirebbe della sua man ritta, se bene quelle dua dita ultime
fussino state un po' piú debolette de l'altre, per questo non gli darebbe una
noia al mondo. E messo mano a medicarla, in ispazio di pochi giorni volendo
mangiare un poco di quel fradicio di quelli ossicini, il padre mi
chiamò, che io andassi anch'io a vedere un poco quel male, che a questa
figliuola si aveva a fare. Per la qual cosa preso il ditto maestro Iacopo certi
ferri grossi, e veduto che con quelli lui faceva poca opera e grandissimo male
alla ditta figliuola, dissi al maestro che si fermassi e che mi aspettassi uno
ottavo d'ora. Corso in bottega feci un ferrolino d'acciaio finissimo e torto; e
radeva. Giunto al maestro, cominciò con tanta gentilezza a lavorare, che
lei non sentiva punto di dolore, e in breve di spazio ebbe finito. A questo,
oltra l'altre cose, questo uomo da bene mi pose tanto amore, piú che non aveva
a dua figliuoli mastii, e cosí attese a guarire la bella figlioletta. Avendo
grandissima amicizia con un certo misser Giovanni Gaddi, il quale era cherico
di camera; questo misser Giovanni si dilettava grandemente delle virtú, con
tutto che in lui nessuna non ne fussi. Istava seco un certo misser Giovanni,
greco, grandissimo litterato; un misser Lodovico da Fano simile a quello,
litterato; messer Antonio Allegretti; allora misser Annibal Caro
giovane. Di fuora eramo misser Bastiano veniziano, eccellentissimo pittore, e
io; e quasi ogni giorno una volta ci rivedevamo col ditto misser Giovanni: dove
che per questa amicizia quell'uomo da bene di Raffaello orefice disse al ditto
misser Giovanni: - Misser Giovanni mio, voi mi cognoscete, e perché io vorrei
dare quella mia figlioletta a Benvenuto, non trovando miglior mezzo che Vostra
Signoria, vi prego che me ne aiutate, e voi medesimo delle mie facultà
gli facciate quella dota che allei piace -. Questo uomo cervellino non
lasciò a pena finir di dire quel povero uomo da bene, che sanza un
proposito al mondo gli disse: - Non parlate piú, Raffaello, di questo perché
voi ne siete piú discosto che il gennaio dalle more -. Il povero uomo, molto
isbattuto, presto cercò di maritarla; e meco istavano la madre d'essa e
tutti ingrognati, e io non sapevo la causa: e parendomi che mi pagassin di
cattiva moneta di piú cortesie, che io avevo usato loro, cercai di aprire una
bottega vicino a loro. Il ditto misser Giovanni non disse nulla in sin che la
ditta figliuola non fu maritata, la qual cosa fu in ispazio di parecchi mesi.
Attendevo con gran sollecitudine a finire l'opera mia e servire la zecca, ché
di nuovo mi commisse il Papa una moneta di valore di dua carlini, innella quale
era il ritratto della testa di Sua Santità, e da rovescio un Cristo in
sul mare, il quale porgeva la mana a San Pietro, con lettere intorno che
dicevano: “Quare dubitasti?”. Piacque questa moneta tanto oltramodo, che
un certo segretario del Papa, uomo di grandissima virtú, domandato il Sanga,
disse: - Vostra Santità si può gloriare d'avere una sorta di
monete, la quale non si vede negli antichi, con tutte le lor pompe -. A questo
il Papa rispose: - Ancora Benvenuto si può gloriare di servire uno
imperatore par mio, che lo cognosca -. Seguitando la grande opera d'oro,
mostrandola spesso al Papa, la qual cosa lui mi sollecitava di vederla, e ogni
giorno piú si maravigliava.
xLvii. Essendo un
mio fratello in Roma al servizio del duca Lessandro, al quale in questo tempo
il Papa gli aveva procacciato il ducato di Penna; stava al servizio di questo
Duca moltissimi soldati, uomini da bene, valorosi, della scuola di quello
grandissimo signor Giovanni de' Medici, e il mio fratello in fra di loro,
tenutone conto dal ditto Duca quanto ciascuno di quelli altri piú valorosi. Era
questo mio fratello un giorno doppo desinare in Banchi in bottega d'un certo
Baccino della Croce, dove tutti quei bravi si riparavano: erasi messo in
su una sedia e dormiva. In questo tanto passava la corte del bargello, la quale
ne menava prigione un certo capitan Cisti, lombardo, anche lui della scuola di
quel gran signor Giovannino, ma non istava già al servizio del Duca. Era
il capitano Cattivanza degli Strozzi in su la bottega del detto Baccino della
Croce. Veduto il ditto capitan Cisti il capitan Cattivanza degli Strozzi. gli
disse: - Io vi portavo quelli parecchi scudi che io v'ero debitore; se voi gli
volete, venite per essi prima che meco ne vadino in prigione -. Era questo
capitano volentieri a mettere al punto, non si curando sperimentarsi, per che,
trovatosi quivi alla presenza certi bravissimi giovani piú volonterosi che
forti a sí grande impresa, disse loro che si accostassino al capitan Cisti, e
che si facessin dare quelli sua danari, e che, se la corte faceva resistenza,
loro a lei facessin forza, se a loro ne bastava la vista. Questi giovani erano
quattro solamente, tutti a quattro sbarbati; e il primo si chiamava Bertino
Aldobrandi, l'altro Anguillotto dal Lucca: degli altri non mi sovviene il nome.
Questo Bertino era stato allevato e vero discepolo del mio fratello, e il mio
fratello voleva allui tanto smisurato bene, quanto immaginar si possa. Eccoti i
quattro bravi giovani accostatisi alla corte del bargello, i quali erano piú di
cinquanta birri in fra picche, archibusi e spadoni a dua mane. In breve parole
si misse mano a l'arme, e quei quattro giovani tanto mirabilmente strignevano
la corte, che se il capitano Cattivanza solo si fussi mostro un poco, sanza
metter mano all'arme, quei giovani mettevano la corte in fuga; ma soprastati
alquanto, quel Bertino toccò certe ferite d'importanza, le quale lo
batterno per terra: ancora Anguillotto nel medesimo tempo toccò una ferita
innel braccio dritto, che non potendo piú sostener la spada, si ritirò
il meglio che potette; gli altri feciono il simile; Bertino Aldobrandi fu
levato di terra malamente ferito.
xLviii. In tanto che queste cose seguivano, noi eramo tutti a tavola. Perché
la mattina s'era desinato piú d'un'ora piú tardi che 'l solito nostro. Sentendo
questi romori, un di quei figliuoli, il maggiore, si rizzò da tavola per
andare a vedere questa mistia. Questo si domandava Giovanni, al quale io dissi:
- Di grazia non andare, perché a simili cose sempre si vede la perdita sicura
sanza nullo di guadagno -: il simile gli diceva suo padre: - Deh, figliuol mio,
non andare -. Questo giovane, senza udir persona, corse giú pella scala. Giunto
in Banchi, dove era la gran mistia, veduto Bertino levar di terra, correndo,
tornando adrieto, si riscontrò in Cechino mio fratello, il quali lo
domandò che cosa quella era. Essendo Giovanni da alcuni accennato che
tal cosa non dicessi al ditto Cecchino, disse a la 'npazzata come gli
era che Bertino Aldobrandi era stato ammazzato dalla corte. Il mio povero
fratello misse sí grande il mugghio, che dieci miglia si sarebbe sentito; di
poi disse a Giovanni: - Oimè, saprestimi tu dire chi di quelli me l'ha
morto? - Il ditto Giovanni disse che sí, e che gli era un di quelli che aveva
uno spadone a dua mane, con una penna azzurra nella berretta. Fattosi innanzi
il mio povero fratello e conosciuto per quel contrassegno lo omicida, gittatosi
con quella sua maravigliosa prestezza e bravuria in mezzo a tutta quella corte,
e sanza potervi rimediare punto, messo una stoccata nella trippa, e passato
dall'altra banda il detto, cogli elsi della spada lo spinse in terra, voltosi
agli altri con tanta virtú e ardire, che tutti lui solo metteva in fuga: se non
che, giratosi per dare a uno archibusiere, il quale per propia necessità
sparato l'archibuso, colse il valoroso sventurato giovane sopra il
ginocchio della gamba dritta; e posto in terra, la ditta corte mezza in fuga
sollecitava a 'ndarsene, acciò che un altro simile a questo sopraggiunto
non fossi. Sentendo continuare quel tomulto, ancora io levatomi da tavola, e
messomi la mia spada accanto, che per ugniuno in quel tempo si portava, giunto
al ponte Sant'Agnolo viddi un ristretto di molti uomini: per la qual cosa
fattomi innanzi, essendo da alcuni di quelli conosciuto, mi fu fatto largo e
mostromi quel che manco io arei voluto vedere, se bene mostravo grandissima
curiosità di vedere. In prima giunta nol cognobbi, per essersi vestito
di panni diversi da quelli che poco innanzi io l'avevo veduto; di modo che,
conosciuto lui prima me, disse: - Fratello carissimo, non ti sturbi il mio gran
male, perché l'arte mia tal cosa mi prometteva; fammi levare di qui presto,
perché poche ore ci è di vita -. Essendomi conto il caso in mentre che
lui mi parlava, con quella brevità che cotali accidenti promettono, gli
risposi: - Fratello, questo è il maggior dolore e il maggior dispiacere
che intervenir mi possa in tutto il tempo della vita mia: ma istà di
buona voglia, che innanzi che tu perda la vista, di chi t'ha fatto male vedrai
le tua vendette fatte per le mia mane -. Le sue parole e le mie furno di questa
sustanzia, ma brevissime.
xlix. Era la corte discosto da noi cinquanta passi, perché Maffio,
ch'era lor bargello, n'aveva fatto tornare una parte per levar via quel
caporale che il mio fratello aveva ammazzato; di modo che, avendo camminato
prestissimo quei parecchi passi rinvolto e serrato nella cappa, ero giunto a
punto accanto a Maffio, e certissimo l'ammazzavo, perché i populi erano assai,
e io m'ero intermesso fra quelli. Di già con quanta prestezza immaginar
si possa avendo fuor mezza la spada, mi si gettò per di drieto alle
braccia Berlinghier Berlinghieri, giovane valorosissimo e mio grande amico, e
seco era quattro altri giovani simili a lui, e' quali dissono a Maffio: -
Lévati, ché questo solo t'ammazzava -. Dimandato Maffio - chi è questo?
- dissono: - Questo è fratello di quel che tu vedi là, carnale -.
Non volendo intendere altro, con sollecitudine si ritirò in Torre di
Nona, e a me dissono: - Benvenuto, questo impedimento che noi ti abbiamo dato
contra tua voglia, s'è fatto a fine di bene: ora andiamo a soccorrere
quello che starà poco a morire -. Cosí voltici, andammo dal mio
fratello, il quale io lo feci portare in una casa. Fatto subito un consiglio di
medici, lo medicorno, non si risolvendo a spiccargli la gamba affatto, che
talvolta sarebbe campato. Subito che fu medicato, comparse quivi il duca Lessandro,
il quale faccendogli carezze (stava ancora il mio fratello in sé), disse al
duca Lessandro: - Signor mio, d'altro non mi dolgo, se none che Vostra
Eccellenzia perde un servitore, del quale quella ne potria trovare forse de'
piú valenti di questa professione, ma non che con tanto amore e fede vi
servissino, quanto io faceva -. Il Duca disse che s'ingegnasse di vivere; de'
resto benissimo lo cognosceva per uomo da bene e valoroso. Poi si volse a certi
sua, dicendo loro che di nulla si mancasse a quel valoroso giovane. Partito che
fu il Duca, l'abundanzia del sangue, qual non si poteva stagnare, fu causa di
cavarlo del cervello; in modo che la notte seguente tutta farneticò,
salvo che volendogli dare la comunione, disse: - Voi facesti bene a confessarmi
dianzi: ora questo sacramento divino non è possibile che io lo possa
ricevere in questo di già guasto istrumento: solo contentatevi che io lo
gusti con la divinità degli occhi per i quali sarà ricevuto dalla
immortale anima mia; e quella sola allui chiede misericordia e perdono -.
Finite queste parole, levato il Sacramento, subito tornò alle medesime
pazzie di prima, le quali erano composte dei maggiori furori, delle piú orrende
parole che mai potessimo immaginare gli uomini; né mai cessò in tutta
notte insino al giorno. Come il sole fu fuora del nostro orizzonte si volse a
me e mi disse: - Fratel mio, io non voglio piú star qui, perché costoro mi
farebbon fare qualche gran cosa, di che e' s'arebbono a pentire d'avermi dato
noia -, e scagliandosi con l'una e l'altra gamba, la quale noi gli avevamo
messo in una cassa molto ben grave, la tramutò in modo di montare a
cavallo: voltandosi a me col viso disse tre volte: - Adio, adio - e l'ultima
parola se ne andò con quella bravosissima anima. Venuto l'ora debita, che
fu in sul tardi a ventidua ore, io lo feci sotterrare con grandissimo onore
innella chiesa de' Fiorentini, e di poi gli feci fare una bellissima lapida di
marmo, innella quale vi si fece alcuni trofei e bandiere intagliate. Non voglio
lasciare in drieto, che domandandolo un di quei sua amici, chi gli aveva dato
quell'archibusata, se egli lo ricognoscessi, disse di sí, e dettegli e'
contrassegni; e' quali, se bene il mio fratello s'era guardato da me che tal
cosa io non sentissi, benissimo lo avevo inteso, e al suo luogo si dirà
il seguito.
L. Tornando
alla ditta lapida, certi maravigliosi litterati, che conoscevano il mio
fratello, mi dettono una epigramma dicendomi che quella meritava quel mirabil
giovane, la qual diceva cosí: “Francisco Cellino Fiorentino, qui quod in
teneris annis ad Ioannem Medicem ducem plures victorias retulit et signifer
fuit, facile documentum dedit quantae fortitudinis et consilii vir futurus
erat, ni crudelis fati archibuso transfossus quinto aetatis lustro jaceret,
Benvenutus frater posuit. Obiit die XXVII
Maii MDXXIX”. Era dell'età di venticinque anni; e perché
domandato in fra i soldati Cecchino del Piffero, dove il nome suo proprio era
Giovanfrancesco Cellini, io volsi fare quel nome propio, di che gli era
conosciuto, sotto la nostra arme. Questo nome io l'avevo fatto intagliare di
bellissime lettere antiche; le quali avevo fatto fare tutte rotte, salvo che la
prima e l'ultima lettera. Le quali lettere rotte, io fui domandato per quel che
cosí avevo fatto da quelli litterati, che mi avevano fatto quel bello
epigramma. Dissi loro quelle lettere esser rotte, perché quello strumento
mirabile del suo corpo era guasto e morto; e quelle dua lettere intere, la
prima e l'ultima, si erano, la prima, memoria di quel gran guadagno di quel
presente che ci dava Idio, di questa nostra anima accesa dalla sua
divinità: questa non si rompeva mai; quella altra ultima intera si era
per la gloriosa fama delle sue valorose virtú. Questo piacque assai e di poi
qualcuno altro se n'è servito di questo modo. Appresso feci intagliare
in detta lapida l'arme nostra de' Cellini, la quale io l'alterai da quel che
l'è propia; perché si vede in Ravenna, che è città
antichissima, i nostri Cellini onoratissimi gentiluomini, e' quali hanno per
arme un leone rampante, di color d'oro in campo azzurro, con un giglio rosso
posto nella zampa diritta, e sopra il rastrello con tre piccoli gigli d'oro.
Questa è la nostra vera arme de' Cellini. Mio padre me la
mostrò, la quale era la zampa sola, con tutto il restante delle ditte
cose; ma a me piú piacerebbe che si osservassi quella dei Cellini di Ravenna
sopra detta. Tornando a quella che io feci nel sepulcro del mio fratello, era
la branca del lione, e in cambio del giglio gli feci una accetta in mano, col
campo di detta arme partito in quattro quarti; e quell'accetta che io
feci, fu solo perché non mi si scordassi di fare le sue vendette.
LI. Attendevo
con grandissima sollecitudine a finire quell'opera d'oro a papa Clemente, la
quale il ditto Papa grandemente desiderava, e mi faceva chiamare dua e tre
volte la settimana, volendo vedere detta opera, e sempre gli cresceva di
piacere: e piú volte mi riprese quasi sgridandomi della gran mestizia che io
portavo di questo mio fratello; e una volta in fra l'altre, vedutomi sbattuto e
squallido piú che 'l dovere, mi disse: - Benvenuto, oh! i' non sapevo che tu
fussi pazzo; non hai tu saputo prima che ora, che alla morte non è
rimedio? Tu vai cercando di andargli drieto -. Partitomi dal Papa seguitava
l'opera e i ferri della zecca, e per mia innamorata mi avevo preso il
vagheggiare quello archibusieri, che aveva dato al mio fratello. Questo tale
era già stato soldato cavalleggieri, di poi s'era messo per archibusieri
nel numero de' caporali col bargello; e quello che piú mi fece crescere la
stizza, fu che lui s'era vantato in questo modo, dicendo: - Se non ero io, che
ammazzai quel bravo giovane, ogni poco che si tardava, che egli solo con nostro
gran danno tutti ci metteva in fuga -. Cognoscendo io che quella passione di
vederlo tanto ispesso mi toglieva il sonno e il cibo e mi conduceva per il mal
cammino, non mi curando di far cosí bassa impresa e non molto lodevole, una
sera mi disposi a volere uscire di tanto travaglio. Questo tale istava a casa
vicino a un luogo chiamato Torre Sanguigna accanto a una casa dove stava
alloggiato una cortigiana delle piú favorite di Roma, la quali si domandava la
signora Antea. Essendo sonato di poco le ventiquattro ore, questo archibusieri
si stava in su l'uscio suo con la spada in mano, e aveva cenato. Io con gran
destrezza me gli acostai con un gran pugnal pistolese e girandogli un
marrovescio, pensando levargli il collo di netto, voltosi anche egli
prestissimo, il colpo giunse innella punta della spalla istanca; e fiaccato
tutto l'osso, levatosi sú, lasciato la spada smarrito dal gran dolore, si messe
a corsa; dove che seguitandolo, in quattro passi lo giunsi, e alzando il
pugnale sopra la sua testa, lui abassando forte il capo, prese il pugnale
apunto l'osso del collo e mezza la collottola, e innell'una e nell'altra parte
entrò tanto dentro il pugnale, che io, se ben facevo gran forza di
riaverlo, non possetti; perché della ditta casa de l'Antea saltò fuora
quattro soldati con le spade inpugnate in mano, a tale che io fui forzato a metter
mano per la mia spada per difendermi da loro. Lasciato il pugnale mi levai di
quivi, e per paura di non essere conosciuto me ne andai in casa il duca
Lessandro, che stava in fra piazza Navona e la Ritonda. Giunto che io fui, feci
parlare al Duca, il quale mi fece intendere che, se io ero solo, io mi stessi
cheto e non dubitassi di nulla, e che io me ne andassi a lavorare l'opera del
Papa, che la desiderava tanto, e per otto giorni io mi lavorassi drento;
massimamente essendo sopraggiunto quei soldati che mi avevano impedito, li
quali avevano quel pugnale in mano, e contavano la cosa come l'era ita, e la
gran fatica che egli avevano durato a cavare quel pugnale dell'osso del collo e
del capo di colui, il quale loro non sapevano chi quel si fussi. Sopraggiunto
in questo Giovan Bandini, disse loro: - Questo pugnale è il mio, e
l'avevo prestato a Benvenuto, il quale voleva far le vendette del suo fratello
-. I ragionamenti di questi soldati furno assai, dolendosi d'avermi impedito,
se bene la vendetta s'era fatta a misura di carboni. Passò piú di otto
giorni: il Papa non mi mandò a chiamare come e' soleva. Da poi mandatomi
a chiamare per quel gentiluomo bolognese suo cameriere, che già dissi,
questo con gran modestia mi accennò come il Papa sapeva ogni cosa, e che
Sua Santità mi voleva un grandissimo bene, e che io attendessi a
lavorare e stessi cheto. Giunto al Papa, guardatomi cosí coll'occhio del porco,
con i soli sguardi mi fece una paventosa bravata; di poi atteso a l'opera,
cominciatosi a rasserenare il viso, mi lodò oltra modo, dicendomi che io
avevo fatto un gran lavorare in sí poco tempo; da poi guardatomi in viso,
disse: - Or che tu se' guarito, Benvenuto, attendi a vivere - e io, che lo
'ntesi, dissi che cosí farei. Apersi una bottega subito bellissima in Banchi, al
dirimpetto a quel Raffaello, e quivi fini' la detta opera in pochi mesi a
presso.
LII.
Mandatomi il Papa tutte le gioie, dal diamante in fuora, il quale per alcuni
sua bisogni lo aveva impegnato a certi banchieri genovesi, tenevo tutte l'altre
gioie, e di questo diamante avevo solo la forma. Tenevo cinque bonissimi
lavoranti, e fuora di questa opera facevo di molte faccende; in modo che la
bottega era carica di molto valore d'opere e di gioie, d'oro e di argento.
Tenendo in casa un cane peloso, grandissimo e bello, il quale me lo aveva
donato il duca Lessandro, se bene questo cane era buono per la caccia, perché
mi portava ogni sorta di uccelli e d'altri animali che ammazzato io avessi con
l'archibuso, ancora per guardia d'una casa questo era maravigliosissimo. Mi
avenne in questo tempo, promettendolo la stagione innella quale io mi trovava,
innell'età di ventinove anni, avendo preso per mia serva una giovane di
molta bellissima forma e grazia, questa tale io me ne servivo per ritrarla, a
proposito per l'arte mia: ancora mi compiaceva alla giovinezza mia del diletto
carnale. Per la qual cosa, avendo la mia camera molto apartata da quelle dei
mia lavoranti, e molto discosto alla bottega, legata con un bugigattolo d'una
cameruccia di questa giovane serva; e perché molto ispesso io me la godevo; (e
se bene io ho aùto il piú legger sonno che mai altro uomo avessi al
mondo, in queste tali occasioni de l'opere della carne egli alcune volte si fa
gravissimo e profondo); sí come avvenne, che una notte in fra l'altre, essendo
istato vigilato da un ladro, il quale sott'ombra di dire che era orefice,
aocchiando quelle gioie disegnò rubarmele, per la qual cosa sconfittomi
la bottega, trovò assai lavoretti d'oro e d'argento: e soprastando
a sconficcare alcune cassette per ritrovare le gioie che gli aveva vedute, quel
cane ditto se gli gettava a dosso, e lui con una spada malamente da quello si
difendeva; di modo che piú volte il cane corse per la casa, entrato innelle
camere di quei lavoranti, che erano aperte per esser di state. Da poi che quel
suo gran latrare quei non volevan sentire, tirato lor le coperte da dosso,
ancora non sentendo, pigliato per i bracci or l'uno or l'altro, per forza gli
svegliò, e latrando con quel suo orribil modo, mostrava loro il sentiero
avviandosi loro inanzi. E' quali veduto che lor seguitare non lo volevano,
venuto a questi traditori a noia, tirando al detto cane sassi e bastoni, (e
questo lo potevano fare, perché era di mia commessione che loro
tutta la notte tenessimo il lume), per ultimo serrato molto ben le camere, il
cane, perso la speranza de l'aiuto di questi ribaldi, da per sé solo si messe
all'impresa; e corso giú, non trovato il ladro in bottega, lo raggiunse; e
combattendo seco, gli aveva di già stracciata la cappa e tolta; e se non
era che lui chiamò l'aiuto di certi sarti, dicendo loro che per l'amor
di Dio l'aiutassimo difendere da un cane arrabiato, questi credendo che cosí
fussi il vero, saltati fuora iscacciorno il cane con gran fatica. Venuto il
giorno, essendo iscesi in bottega, la vidono sconfitta e aperta, e rotto tutte
le cassette. Cominciorno ad alta voce a gridare - oimè, oimè! -
onde io resentitomi, ispaventato da quei romori mi feci fuora. Per la qual cosa
fattimisi innanzi, mi dissono: - Oh sventurati a noi, che siamo stati rubati da
uno che ha rotto e tolto ogni cosa! - Queste parole furno di tanta potenzia,
che le non mi lasciorno andare al mio cassone a vedere se v'era drento le gioie
del Papa: ma per quella cotal gelosia ismarrito quasi affatto il lume degli
occhi, dissi che loro medesimi aprissino il cassone, vedendo quante vi mancava
di quelle gioie del Papa. Questi giovani si erano tutti in camicia; e quando di
poi aperto il cassone videro tutte le gioie e l'opera d'oro insieme con esse,
rallegrandosi mi dissono: - E' non ci è mal nessuno, da poi che l'opera
e le gioie son qui tutte; se bene questo ladro ci ha lasciati tutti in camicia,
causa che iersera per il gran caldo noi ci spogliammo tutti in bottega e ivi
lasciammo i nostri panni -. Subito ritornatomi le virtú al suo luogo,
ringraziato Idio, dissi: - Andate tutti a rivestirvi di nuovo, e io ogni cosa
pagherò, intendendo piú per agio il caso come gli è passato -.
Quello che piú mi doleva, e che fu causa di farmi smarrire e spaventare tanto
fuor della natura mia, si era che talvolta il mondo non avessi pensato che io
avessi fatto quella finzione di quel ladro sol per rubare io le gioie; e perché
a papa Clemente fu detto da un suo fidatissimo e da altri, e' quali furno
Francesco del Nero, il Zana de' Biliotti suo computista, il vescovo di Vasona e
molti altri simili: - Come fidate voi, beatissimo Padre, tanto gran valor di
gioie a un giovine, il quale è tutto fuoco, ed è piú ne l'arme
inmerso che ne l'arte, e non ha ancora trenta anni? - La qual cosa il Papa
rispose, se nessun di loro sapeva che io avessi mai fatto cose da dare loro tal
sospetto. Francesco del Nero, suo tesauriere, presto rispose dicendo. - No,
beatissimo Padre, perché e' non ha aùto mai una tale occasione -. A
questo il Papa rispose: - Io l'ho per intero uomo da bene, e se io vedessi un
mal di lui, io non lo crederrei -. Questo fu quello che mi dette il maggior
travaglio, e che subito mi venne a memoria. Dato che io ebbi ordine a' giovani
che fussino rivestiti, presi l'opera insieme con le gioie, accomodandole meglio
che io potevo a' luoghi loro, e con esse me ne andai subito dal Papa, il quale
da Francesco del Nero gli era stato detto parte di quei romori, che nella
bottega mia s'era sentito; e subito messo sospetto al Papa. Il Papa piú presto
immaginato male che altro, fattomi uno sguardo adosso terribile, disse con voce
altiera: - Che se' tu venuto a far qui? che c'è? - ècci tutte le vostre gioie e
l'oro, e non manca nulla -. Allora il Papa, rasserenato il viso, disse: - Cosí
sia tu il benvenuto -. Mostratogli l'opera, e in mentre che la vedeva, io gli
contavo tutti gli accidenti del ladro e de' mia affanni, e quello che m'era di
maggior dispiacere. Alle qual parole molte volte si volse a guardarmi in viso
fiso, e alla presenza era quel Francesco del Nero, per la qual cosa pareva che
avessi mezzo per male non si essere aposto. All'ultimo il Papa, cacciatosi a
ridere di quelle tante cose che io gli avevo detto, mi disse: - Va', e attendi
a essere uomo da bene, come io mi sapevo.
LIII.
Sollecitando la ditta opera e lavorando continuamente per la zecca, si
cominciò a vedere per Roma alcune monete false istampate con le mie
proprie stampe. Subito furno portate dal Papa; e datogli sospetto di me, il
Papa disse a Iacopo Balducci zecchiere: - Fa' diligenza grandissima di trovare
il malfattore, perché sappiamo che Benvenuto è uomo da bene -. Questo
zecchiere traditore, per esser mio nimico, disse: - Idio voglia, beatissimo
Padre, che vi riesca cosí qual voi dite; perché noi abbiamo qualche riscontro
-. A questo il Papa si volse al governatore di Roma, e disse che lui
facessi un poco di diligenza di trovare questo malfattore. In questi dí il Papa
mandò per me; di poi con destri ragionamenti entrò in su le
monete, e bene a proposito mi disse: - Benvenuto, darebbet'egli il cuore di far
monete false? - Alla qual cosa io risposi, che le crederrei far meglio che
tutti quanti gli uomini, che a tal vil cosa attendevano; perché quelli che
attendono a tal poltronerie non sono uomini che sappin guadagnare, né sono uomini
di grande ingegno; e se io col mio poco ingegno guadagnavo tanto che mi
avanzava, perché quando io mettevo ferri per la zecca, ogni mattina inanzi che
io desinassi mi toccava guadagnare tre scudi il manco; (che cosí era stato
sempre l'usanza del pagare i ferri delle monete, e quello sciocco del zecchiere
mi voleva male, perché e' gli arebbe voluti avere a miglior mercato); a me mi
bastava assai questo che io guadagnavo con la grazia di Dio e del mondo; che a
far monete false non mi sarebbe tocco a guadagnar tanto. Il Papa attinse
benissimo le parole; e dove gli aveva dato commessione che con destrezza
avessin cura che io non mi partissi di Roma, disse loro che cercassino con
diligenza, e di me non tenessin cura, perché non arebbe voluto isdegnarmi, qual
fussi causa di perdermi. A chi e' commesse caldamente, furno alcuni de'
chierici di Camera, e' quali, fatto quelle debite diligenze, perché a lor
toccava, subito lo trovorno. Questo si era uno istampatore della propia zecca,
che si domandava per nome Céseri Macheroni, cittadin romano; e insieme seco fu
preso uno ovolatore di zecca.
LIV. In
questo dí medesimo, passando io per piazza Naona, avendo meco quel mio bello
can barbone, quando io sono giunto dinanzi alla porta del bargello, il mio cane
con grandissimo impito forte latrando si getta dentro alla porta del bargello
addosso a un giovane, il quale aveva fatto cosí un poco sostenere un certo
Donnino, orefice, da Parma già discepol di Caradossa, per aver
aùto indizio che colui l'avessi rubato. Questo mio cane faceva tanta
forza di volere sbranare quel giovane, che, mosso i birri a compassione,
massimamente il giovane audace difendeva bene le sue ragione, e quel Donnino
non diceva tanto che bastassi, maggiormente essendovi un di quei caporali de'
birri, ch'era genovese e conosceva il padre di questo giovane; in modo che, fra
il cane e quest'altre occasione, facevan di sorte che volevan lasciar andar via
quel giovane a ogni modo. Accostato che io mi fui, il cane, non cognoscendo
paura né di spada né di bastoni, di nuovo gittatosi adosso a quel giovane,
coloro mi dissono che se io non rimediavo al mio cane, me lo ammazzerebbono.
Preso il cane il meglio che io potevo, innel ritirarsi il giovane in su la
cappa, gli cadde certe cartuzze della capperuccia; per la qual cosa quel
Donnino ricognobbe esser cose sue. Ancora io vi ricognobbi un piccolo anellino;
per la qual cosa subito io dissi: - Questo è il ladro che mi sconfisse e
rubò la mia bottega; però il mio cane lo ricognosce - e lasciato
il cane, di nuovo si gli gettò adosso; dove che il ladro mi si
raccomandò, dicendomi che mi renderebbe quello che aveva di mio. Ripreso
il cane, costui mi rese d'oro e di argento e di anelletti quel che gli aveva di
mio, e venticinque scudi da vantaggio; di poi mi si raccomandò. Alle
quali parole io dissi, che si raccomandassi a Dio, perché io non gli farei né
ben né male. E tornato alle mie faccende, ivi a pochi giorni quel Céseri
Macherone delle monete false fu impiccato in Banchi dinanzi alla porta della
zecca; il compagno fu mandato in galea; il ladro genovese fu impiccato in Campo
di Fiore; e io mi restai in maggior concetto di uomo da bene che prima non ero.
LV. Avendo
presso a fine l'opera mia, sopravenne quella grandissima inundazione, la quale
traboccò d'acqua tutta Roma. Standomi a vedere quel che tal cosa faceva,
essendo di già il giorno logoro, sonava ventidua ore, e l'acque
oltramodo crescevano. E perché la mia casa e bottega el dinanzi era in Banchi e
il di drieto saliva parecchi braccia, perché rispondeva in verso Monte Giordano,
di modo che, pensando prima alla salute della vita mia, di poi all'onore, mi
missi tutte quelle gioie adosso e lasciai quell'opera d'oro a quelli mia
lavoranti in guardia, e cosí scalzo discesi per le mie finestre di drieto, e il
meglio che io potessi passai per quelle acque tanto che io mi
condussi a Monte Cavallo, dove io trovai misser Giovanni Gaddi cherico di
Camera, e Bastiano Veniziano pittore. Accostatomi a misser Giovanni, gli detti
tutte le ditte gioie, che me le salvassi; il quale tenne conto di me, come se
fratello gli fussi stato. Di poi a pochi giorni, passati i furori dell'acqua,
ritornai alla mia bottega, e fini' la ditta opera con tanta buona fortuna,
mediante la grazia de Dio e delle mie gran fatiche, che ella fu tenuta la piú
bella opera che mai fussi vista a Roma; di modo che, portandola al Papa, egli
non si poteva saziare di lodarmela; e disse: - Se io fussi uno imperatore
ricco, io donerei al mio Benvenuto tanto terreno, quanto il suo occhio
scorressi; ma perché noi dal dí d'oggi siamo poveri imperatori falliti, ma a
ogni modo gli darem tanto pane, che basterà alle sue piccole voglie -.
Lasciato che io ebbi finire al Papa quella sua smania di parole, gli chiesi un
mazzieri ch'era vacato. Alle qual parole il Papa disse che mi voleva dar cosa
di molta maggiore importanza. Risposi a Sua Santità, che mi dessi quella
piccola, intanto, per arra. Cacciandosi a ridere, disse che era contento, ma
che non voleva che io servissi, e che io mi convenissi con li compagni mazzieri
di non servire, dando loro qualche grazia, che già gli avevano domandato
al Papa, qual era di potere con autorità riscuotere le loro entrate.
Ciò fu fatto. Questo mazziere mi rendeva poco manco di dugento scudi
l'anno di entrata.
LVI.
Seguitando appresso di servire il Papa or di un piccolo lavoro or di un altro,
m'impose che io gli facessi un disegno di un calice ricchissimo; il quale io
feci il ditto disegno e modello. Era questo modello di legno e di cera; in
luogo del bottone del calice avevo fatto tre figurette di buona grandezza tonde,
le quale erano la Fede, la Speranza, e la Carità; innel piede poi avevo
fatto a conrispondenza tre storie in tre tondi di basso rilievo: che innell'una
era la natività di Cristo, innell'altra la resurressione di
Cristo, innella terza si era San Pietro crocifisso a capo di sotto; che cosí mi
fu commesso che io facessi. Tirando inanzi questa ditta opera, il Papa molto
ispesso la voleva vedere; in modo che, avvedutomi che Sua Santità non
s'era poi mai piú ricordato di darmi nulla, essendo vacato un frate del Piombo,
una sera io gnene chiesi. Al buon Papa non sovvenendo piú di quella ismania
che gli aveva usato in quella fine di quella altra opera, mi disse: - L'ufizio
del Piombo rende piú di ottocento scudi, di modo che se io te lo dessi, tu ti
attenderesti a grattare il corpo, e quella bell'arte che tu hai alle mane si
perderebbe, e io ne arei biasimo -. Subito risposi che le gatte di buona sorte
meglio uccellano per grassezza che per fame: - Cosí quella sorte degli uomini
dabbene che sono inclinati alle virtú, molto meglio le mettono in opera quando
egli hanno abundantissimamente da vivere; di modo che quei principi che tengono
abundantissimi questi cotali uomini, sappi Vostra Santità che eglino
annaffiano le virtú: cosí per il contrario le virtú nascono ismunte
e rognose; e sappi Vostra Santità, che io non lo chiesi con intenzione
di averlo. Pur beato che io ebbi qual povero mazziere! Di questo tanto
m'immaginavo. Vostra Santità farà bene, non l'avendo voluto dar a
me, a darla a qualche virtuoso che lo meriti, e non a qualche ignorantone che
si attenda a grattare il corpo come disse Vostra Santità. Pigliate
esemplo dalla buona memoria di papa Iulio, che un tale ufizio dette a Bramante,
eccellentissimo architettore -. Subito fattogli reverenza infuriato mi parti'.
Fattosi innanzi Bastiano Veniziano, pittore, disse: - Beatissimo padre, Vostra
Santità sia contenta di darlo a qualcuno che si affatica ne l'opere
virtuose; e perché, come sa Vostra Santità, ancora io volentieri mi affatico
in esse, la priego che me ne faccia degno -. Rispose il Papa: - Questo diavolo
di Benvenuto non ascolta le riprensioni. Io ero disposto a dargnene, ma e' none
sta bene essere cosí superbo con un Papa; pertanto io non so quel che io mi
farò -. Subito fattosi innanzi il vescovo di Vasona, pregò per il
ditto Bastiano, dicendo: - Beatissimo padre, Benvenuto è giovane e molto
meglio gli sta la spada accanto che la vesta da frati: Vostra Santità
sia contenta di darlo a questo virtuoso uomo di Bastiano; e a Benvenuto talvolta
potrete dare qualche cosa buona, la quale forse sarà piú a proposito che
questa -. Allora il Papa, voltosi a messer Bartolomeo Valori, gli disse: - Come
voi scontrate Benvenuto, ditegli da mia parte che lui stesso ha fatto avere il
Piombo a Bastiano dipintore; e che stia avvertito, che la prima cosa migliore
che vaca, sarà la sua; e che intanto attenda a far bene, e finisca
l'opere mie -. L'altra sera seguente a dua ore di notte, scontrandomi in messer
Bartolomeo Valori in sul cantone della zecca: lui aveva due torcie innanzi e
andava in furia, domandato dal Papa; faccendogli riverenza, si fermò e
chiamommi, e mi disse con grandissima affezione tutto quello che gli aveva
ditto il Papa che mi dicessi. Alle qual parole io risposi, che con maggiore
diligenzia e istudio finirei l'opera mia, che nessuna mai de l'altre; ma sí
bene senza punto di speranza d'avere nulla mai dal Papa. Il detto misser
Bartolomeo ripresemi, dicendomi che cosí non si doveva rispondere a le offerte
d'un Papa. A cui io dissi, che ponendo isperanza a tal parole, saputo che io
non l'arei a ogni modo, pazzo sarei a rispondere altrimenti; e partitomi, me ne
andai a 'ttendere alle mie faccende. Il ditto messer Bartolomeo dovette ridire
al Papa le mie ardite parole, e forse piú che io non dissi, di modo che il Papa
stette piú di dua mesi a chiamarmi, e io in questo tempo non volsi mai andare
al palazzo per nulla. Il Papa, che di tale opera si struggeva, commesse a
messer Ruberto Pucci che attendessi un poco a quel che io facevo. Questo omaccion
da bene ogni dí mi veniva a vedere, e sempre mi diceva qualche amorevol parola,
e io allui. Appressandosi il Papa a voler partirsi per andare a Bologna, a
l'ultimo poi, veduto che da per me io non vi andavo, mi fece intendere dal
ditto misser Roberto, che io portassi sú l'opera mia, perché voleva vedere come
io l'avevo innanzi. Per la qual cosa io la portai, mostrando detta opera esser
fatto tutta la importanza, e lo pregavo che mi lasciassi cinquecento scudi,
parte a buon conto, e parte mi mancava assai bene de l'oro da poter finire
detta opera. Il Papa mi disse: - Attendi, attendi a finirla -. Risposi
partendomi, che io la finirei, se mi lasciava danari. Cosí me ne andai.
LVII. Il Papa
andato alla volta di Bologna lasciò il cardinale Salviati legato di
Roma, e lasciògli commessione che mi sollecitassi questa ditta opera, e
li disse: - Benvenuto è persona che stima poco la sua virtú, e manco
Noi; sí che vedete di sollecitarlo, in modo che io la truovi finita -. Questo
Cardinal bestia mandò per me in capo di otto dí, dicendomi che io
portassi sú l'opera; a il quale io andai allui senza l'opera. Giunto che io
fui, questo Cardinale subito mi disse: - Dov'è questa tua cipollata? ha'
la tu finita? - Al quale io risposi: - O Monsignor reverendissimo, io la mia
cipollata non ho finita, e non la finirò, se voi non mi date delle
cipolle da finirla -. A queste parole il ditto Cardinale, che aveva piú viso di
asino che di uomo, divenne piú brutto la metà; e venuto al primo a mezza
spada, disse: - Io ti metterò in una galea, e poi arai di grazia di
finir l'opera -. Ancora io con questa bestia entrai in bestia, e gli dissi: -
Monsignore, quando io farò peccati che meritino la galea, allora voi mi
vi metterete: ma per questi peccati io non ho paura di vostra galea: e di piú
vi dico, a causa di Vostra Signoria, io non la voglio mai piú finire; e non
mandate mai piú per me, perché io non vi verrò mai piú inanzi, se
già voi non mi facessi venir co' birri -. Il buon Cardinale provò
alcune volte amorevolmente a farmi intendere che io doverrei lavorare e che i'
gnene doverrei portare a mostrare; in modo che a quei tali io dicevo: - Dite a
Monsignore che mi mandi delle cipolle, se vuol che io finisca la cipollata - né
mai gli risposi altre parole; di sorte che lui si tolse da questa disperata
cura.
Lviii. Tornò il Papa da Bologna,
e subito domandò di me, perché quel Cardinale di già gli aveva
scritto il peggio che poteva de' casi mia. Essendo il Papa innel maggior furore
che immaginar si possa, mi fece intendere che io andassi con l'opera. Cosí
feci. In questo tempo che il Papa stette a Bologna, mi si scoperse una scesa
con tanto affanno agli occhi, che per il dolore io non potevo quasi vivere,
in modo che questa fu la prima causa che io non tirai innanzi l'opera: e fu sí
grande il male, che io pensai certissimo rimaner cieco; di modo che io avevo
fatto il mio conto, quel che mi bastassi a vivere cieco. Mentre che io andavo
al Papa, pensavo il modo che io avevo a tenere a far la mia scusa di non aver
potuto tirare innanzi l'opera. Pensavo che in quel mentre che il Papa la vedeva
e considerava, poterli dire i fatti: la qual cosa non mi venne fatta, perché
giunto dallui, subito con parole villane disse: - Da' qua quell'opera; è
ella finita? - Io la scopersi: subito con maggior furore disse: - In
verità de Dio dico a te, che fai professione di non tener conto di
persona, che se e' non fussi per onor di mondo io ti farei insieme con
quell'opera gittar da terra quelle finestre -. Per la qual cosa, veduto io il
Papa diventato cosí pessima bestia, sollecitavo di levarmigli dinanzi. In
mentre che lui continuava di bravare, messami l'opera sotto la cappa,
borbottando dissi: - Tutto il mondo non farebbe che un cieco fussi tenuto a
lavorare opere cotali -. Maggiormente alzato la voce, il Papa disse: - Vien
qua; che di' tu? - Io stetti infra dua di cacciarmi a correre giú per quelle
scale; di poi mi risolsi, e gettatomi in ginocchioni, gridando forte, perché
lui non cessava di gridare, dissi: - E se io sono per una infirmità
divenuto cieco, sono io tenuto a lavorare? - A questo e' disse: - Tu hai pur
veduto lume a venir qui, né credo che sia vero nessuna di queste cose che tu
di'-. Al quale io dissi, sentendogli alquanto abbassar la voce: - Vostra
Santità ne dimandi il suo medico, e troverrà il vero -. Disse: -
Piú all'agio intenderemo se la sta come tu di'-. Allora, vedutomi prestare
audienza, dissi: - Io non credo che di questo mio gran male ne sia causa altri
che il cardinal Salviati, perché e' mandò per me subito che Vostra
Santità fu partito, e giunto allui, pose alla mia opera nome una
cipollata, e mi disse che me la farebbe finire in una galea; e fu tanto la
potenzia di quelle inoneste parole, che per la estrema passione subito mi
senti' infiammare il viso, e vennemi innegli occhi un calore tanto ismisurato,
che io non trovavo la via a tornarmene a casa: di poi a pochi giorni mi cadde
dua cataratti in su gli occhi; per la qual cosa io non vedevo punto di lume, e
da poi la partita di Vostra Santità io non ho mai potuto lavorare nulla -.
Rizzatomi di ginocchioni, mi andai con Dio; e mi fu ridetto che il Papa disse:
- Se e' si dà gli ufizi, non si può dare la discrezione con essi.
Io non dissi al Cardinale che mettessi tanta mazza: che se gli è il vero
che abbia male innegli occhi, quale intenderò dal mio medico, sarebbe da
'vergli qualche compassione -. Era quivi alla presenza un gran gentiluomo molto
amico del Papa e molto virtuosissimo. Domandatogli il Papa che persona io ero,
dicendo: - Beatissimo Padre, io ve ne domando, perché m'è parso che voi
siete venuto in un tempo medesimo nella maggior còllora che io vedessi
mai, e innella maggiore compassione; sí che per questo io domando Vostra
Santità chi egli è; che se è persona che meriti essere
aiutato, io gli insegnerei un segreto da farlo guarire di quella
infermità - a queste parole disse il Papa: - Quello è il maggiore
uomo che nascessi mai della sua professione; e un giorno che noi siamo insieme
vi farò vedere delle maravigliose opere sue, e lui con esse; e mi sarà
piacere che si vegga se si gli può fare qualche benifizio -. Di poi tre
giorni il Papa mandò per me un dí doppo desinare, ed eraci questo
gentiluomo alla presenza. Subito che io fui giunto, el Papa si fece portare
quel mio bottone del piviale. In questo mezzo io avevo cavato fuora quel mio
calice; per la qual cosa quel gentiluomo diceva di non aver mai visto un'opera
tanto maravigliosa. Sopraggiunto il bottone, gli accrebbe molto piú maraviglia;
guardatomi in viso disse: - Gli è pur giovane a saper tanto, ancora
molto atto a 'cquistare -. Di poi me domandò del mio nome. Al quale io
dissi: - Benvenuto è il mio nome -. Rispose: - Benvenuto sarò io
questa volta per te; piglia de' fioralisi con il gambo, col fiore e con la
barba tutto insieme, di poi gli fa stillare con gentil fuoco, e con quell'acqua
ti bagna gli occhi parecchi volte il dí, e certissimamente guarrai di
cotesta infirmità; ma fatti prima purgare, e poi continua la detta acqua
-. Il Papa mi usò qualche amorevol parola: cosí me ne andai mezzo
contento.
lix. La infirmità gli era il vero che io l'avevo, ma credo
che io l'avessi guadagnata mediante quella bella giovane serva che io tenevo
nel tempo che io fui rubato. Soprastette quel morbo gallico a scoprirmisi piú
di quattro mesi interi, di poi mi coperse tutto tutto a un tratto: non era
innel modo de l'altro che si vede, ma pareva che io fussi coperto di certe
vescichette, grandi come quattrini, rosse. I medici non mel volson mai
battezzare mal franzese: e io pure dicevo le cause che credevo che fussi.
Continuavo di medicarmi a lor modo, e nulla mi giovava; pur poi a l'ultimo,
risoltomi a pigliare il legno contra la voglia di quelli primi medici di Roma,
questo legno io lo pigliavo con tutta la disciplina e astinenzia che immaginar
si possa, e in brevi giorni senti' grandissimo miglioramento; a tale che in
capo a cinquanta giorni io fui guarito e sano come un pesce. Da poi, per dare
qualche ristoro a quella gran fatica che io avevo durato, entrando innel
inverno, presi per mio piacere la caccia dello scoppietto, la quale mi induceva
a andare a l'acqua e al vento, e star pe' pantani; a tale che in brevi giorni
mi tornò l'un cento maggior male di quel che io avevo prima. Rimessomi
nelle man de' medici, continuamente medicandomi, sempre peggioravo. Saltatomi
la febbre adosso, io mi disposi di ripigliare il legno: gli medici non
volevano, dicendomi che se io vi entravo con la febbre, in otto dí morrei. Io
mi disposi di far contro la voglia loro; e tenendo i medesimi ordini che
all'altra volta fatto avevo, beuto che io ebbi quattro giornate di questa santa
acqua de il legno, la febbre se ne andò afatto. Cominciai a pigliare
grandissimo miglioramento, e in questo che io pigliavo il detto legno sempre
tiravo inanzi i modelli di quella opera; e' quali in cotesta astinenzia io feci
le piú belle cose e le piú rare invenzione che mai facessi alla vita mia. In
capo di cinquanta giorni io fui benissimo guarito, e di poi con grandissima
diligenzia io mi attesi a 'ssicurare la sanità adosso. Di poi che io fui
sortito di quel gran digiuno, mi trovai in modo netto dalle mie
infirmità, come se rinato io fussi. Se bene io mi pigliavo piacere ne
l'assicurare quella mia desiderata sanità, non mancavo ancora di
lavorare; tanto che innell'opera detta e innella zecca, ad ogniona di loro
certissimo davo la parte del suo dovere.
LX.
Abbattessi ad essere fatto legato di Parma quel ditto cardinale Salviati, il
quale aveva meco quel grande odio sopraditto. In Parma fu preso un certo
orefice milanese falsatore di monete, il quali per nome si domandava Tobbia.
Essendo giudicato alla forca e al fuoco, ne fu parlato al ditto Legato,
messogli innanzi per gran valente uomo. Il ditto Cardinale fece sopratenere la
eseguizione della giustizia, e scrisse a papa Clemente, dicendogli essergli
capitato in nelle mane uno uomo il maggior del mondo della professione de
l'oreficeria, e che di già gli era condennato alle forche e al fuoco,
per essere lui falsario di monete; ma che questo uomo era simplice e buono,
perché diceva averne chiesto parere da un suo confessoro, il quale, diceva, che
gnene aveva dato licenzia che le potessi fare. Di piú diceva: -
Se voi fate venire questo grande uomo a Roma, Vostra Santità sarà
causa di abbassare quella grande alterigia del vostro Benvenuto, e sono
certissimo che le opere di questo Tobbia vi piaceranno molto piú che quelle di
Benvenuto -. Di modo che il Papa lo fece venire subito a Roma. E poi che fu
venuto, chiamatici tutti a dua, ci fece fare un disegno per uno a un corno di
liocorno il piú bello che mai fusse veduto: si era venduto diciassette mila
ducati di Camera. Volendolo il Papa donare a il re Francesco, lo volse in prima
guarnire riccamente d'oro, e commesse a tutti a dua noi che facessimo i detti
disegni. Fatti che noi gli avemmo, ciascun di noi il portò al Papa. Era
il disegno di Tubbia affoggia di un candegliere, dove, a guisa della candela,
si imboccava quel bel corno, e del piede di questo ditto candegliere faceva
quattro testoline di liocorno con semplicissima invenzione: tanto che quando
tal cosa io vidi, non mi potetti tenere che in un destro modo io non
sogghignassi. Il Papa s'avvide e subito disse: - Mostra qua il tuo disegno, -
il quale era una sola testa di liocorno, a conrispondenza di quel ditto corno.
Avevo fatto la piú bella sorte di testa che veder si possa; il perché si era,
che io avevo preso parte della fazione della testa del cavallo e parte
di quella del cervio, arricchita con la piú bella sorte di velli e altre
galanterie, tale che, subito che la mia si vide, ogniuno gli dette il vanto. Ma
perché alla presenza di questa disputa era certi milanesi di grandissima
autorità, questi dissono: - Beatissimo Padre, Vostra Santità
manda a donare questo gran presente in Francia: sappiate che i Franciosi sono
uomini grossi, e non cognosceranno l'eccellenzia di questa opera di Benvenuto;
ma sí bene piacerà loro questi ciborii, li quali ancora saranno fatti
piú presto; e Benvenuto vi attenderà a finire il vostro calice, e
verravi fatto dua opere in un medesimo tempo; e questo povero uomo, che voi
avete fatto venire, verrà ancora lui ad essere adoperato -. Il Papa,
desideroso di avere il suo calice, molto volentieri s'appiccò al
consiglio di quei milanesi: cosí l'altro giorno dispose quella opera a Tubbia
di quel corno di liocorno, e a me fece intendere per il suo guardaroba che io dovessi
finirgli il suo calice. Alle qual parole io risposi, che non desideravo altro
al mondo che finire quella mia bella opera; ma che se la fossi d'altra materia
che d'oro, io facilissimamente da per me la potrei finire; ma per essere a quel
modo d'oro, bisognava che Sua Santità me ne dessi, volendo che io
la potessi finire. A questo parole questo cortigiano plebeo disse: -
Oimè, non chiedere oro al Papa, che tu lo farai venire in tanta
còllora, che guai, guai a te -. Al quale io dissi: - O misser voi, la
Signoria vostra, insegnatemi un poco come sanza farina si può fare il
pane? cosí sanza oro mai si finirà quell'opera -. Questo guardaroba mi
disse, parendogli alquanto che io lo avessi uccellato, che tutto quello
che io avevo ditto riferirebbe al Papa; e cosí fece. Il Papa, entrato
in un bestial furore, disse che voleva stare a vedere se io ero un cosí pazzo
che io non la finissi. Cosí si stette dua mesi passati e se bene io avevo detto
di non vi voler dar su colpo, questo non avevo fatto, anzi continuamente io
avevo lavorato con grandissimo amore. Veduto che io non la portavo, mi
cominciò a disfavorire assai, dicendo che mi gastigherebbe a ogni
modo. Era alla presenza di queste parole uno milanese suo gioielliere. Questo
si domandava Pompeo, il quale era parente stretto di un certo misser Traiano,
il piú favorito servitore che avessi papa Clemente. Questi dua d'accordo
dissono al Papa: - Se Vostra Santità gli togliessi la zecca, forse voi
gli faresti venir voglia di finire il calice -. Allora il Papa disse: - Anzi
sarebbon dua mali: l'uno, che io sarei mal servito della zecca che m'importa
tanto; e l'altro, che certissimo io non arei mai il calice -. Questi dua detti
milanesi, veduto il Papa mal voIto inverso di me, a l'ultimo possetton tanto,
che pure mi tolse la zecca, e la dette a un certo giovane perugino, il quale si
domandava Fagiuolo per soprannome. Venne quel Pompeo a dirmi da parte del Papa,
come Sua Santità mi aveva tolto la zecca, e che se io non finivo il
calice mi torrebbe de l'altre cose. A questo io risposi: - Dite a Sua
Santità che la zecca e' l'ha tolta a sé e non a me, e quel medesimo gli
verrebbe fatto di quell'altre cose; e che quando Sua Santità me la
vorrà rendere, io in modo nessuno non la rivorrò -. Questo isgraziato
e sventurato gli parve mill'anni di giungere dal Papa per ridirgli tutte
queste cose, e qualcosa vi messe di suo di bocca. Ivi a otto giorni
mandò il Papa per questo medesimo uomo dirmi che non voleva piú che io
gli finissi quel calice, e che lo rivoleva appunto in quel modo e a quel
termine che io l'avevo condotto. A questo Pompeo io risposi: - Questa non
è come la zecca, che me la possa tòrre; ma sí ben e' cinquecento
scudi, che io ebbi, sono di Sua Santità, i quali subito gli
renderò: e l'opera è mia, e ne farò quanto m'è di
piacere -. Tanto corse a riferir Pompeo, con qualche altra mordace parola, che
a lui stesso con giusta causa io avevo detto.
LXI. Di
poi tre giorni appresso, un giovedí, venne a me dua camerieri di Sua
Santità favoritissimi, che ancora oggi n'è vivo uno di quelli,
ch'è vescovo, il quale si domandava misser Pier Giovanni, ed era
guardaroba di Sua Santità; l'altro si era ancora di maggior lignaggio di
questo, ma non mi sovviene il nome. Giunti a me mi dissono cosí: - Il Papa ci
manda. Benvenuto: da poi che tu non l'hai voluta intendere per la via piú
agevole, dice, o che tu ci dia l'opera sua, o che noi ti meniamo prigione -.
Allora io li guardai in viso lietissimamente, dicendo: - Signori, se io dessi
l'opera a Sua Santità, io darei l'opera mia e non la sua; e poi tanto
l'opera mia io non gnene vo' dare; perché avendola condotta molto innanzi con
le mia gran fatiche, non voglio che la vada in mano di qualche bestia
ignorante, che con poca fatica me la guasti -. Era alla presenza, quando io
dicevo questo, quell'orefice chiamato Tobbia ditto di sopra, il quale
temerariamente mi chiedeva ancora i modelli di essa opera: le parole, degne di
un tale sciagurato che io gli dissi, qui non accade riplicarle. E perché quelli
signori camerieri mi sollecitavano che io mi spedissi di quel che io volevo
fare, dissi a loro che ero spedito: preso la cappa, e innanzi che io uscissi
della mia bottega, mi volsi a una immagine di Cristo con gran riverenza e con
la berretta in mano, e dissi: - O benigno e immortale, giusto e santo Signor
nostro, tutte le cose che tu fai sono secondo la tua giustizia, quale è
sanza pari: tu sai che appunto io arrivo all'età de' trenta anni della
vita mia, né mai insino a qui mi fu promesso carcere per cosa alcuna: da poi
che ora tu ti contenti che io vadia al carcere, con tutto il cuor mio te ne
ringrazio -. Di poi vòltomi ai dua camerieri, dissi cosí con un certo
mio viso alquanto rabbuffato: - Non meritava un par mio birri di manco valore
che voi Signori; sí che mettetemi in mezzo, e come prigioniero mi menate dove
voi volete -. Quelli dua gentilissimi uomini, cacciatisi a ridere, mi messono
in mezzo, e sempre piacevolmente ragionando mi condussono dal Governatore di
Roma, il quale era chiamato il Magalotto. Giunto allui, insieme con esso si era
il Procurator fiscale, li quali mi attendevano, quelli signor camerieri ridendo
pure dissono al Governatore: - Noi vi consegnamo questo prigione, e tenetene
buona cura. Ci siamo rallegrati assai, che noi abbiamo tolto l'uffizio alli
vostri secutori, perché Benvenuto ci ha detto, che essendo questa la prima
cattura sua, non meritava birri di manco valore che noi ci siamo -. Subito
partitisi giunsono al Papa; e dettogli precisamente ogni cosa, in prima fece
segno di voler entrare in furia, appresso si sforzò di ridere, per
essere alla presenza alcuni Signori e Cardinali amici mia, li quali grandemente
mi favorivano. Intanto il Governatore e il Fiscale parte mi bravavano, parte mi
esortavano, parte mi consigliavano, dicendomi che la ragione voleva, che uno
che fa fare una opera a un altro, la può ripigliare a sua posta, e in
tutti i modi che allui piace. Alle quali cose io dissi, che questo non lo
prometteva la giustizia, né un papa non lo poteva fare; perché e'
non era un papa di quella sorte che sono certi signoretti tirannelli, che fanno
a' lor popoli il peggio che possono, non osservando né legge né giustizia:
però un Vicario di Cristo non può far nessuna di queste cose.
Allora il Governatore con certi sua birreschi atti e parole disse: - Benvenuto,
Benvenuto, tu vai cercando che io ti faccia quel che tu meriti. - Voi mi farete
onore e cortesia, volendomi fare quel che io merito -. Di nuovo disse: - Manda
per l'opera subito, e fa di non aspettar la siconda parola -. A questo io
dissi: - Signori, fatemi grazia che io dica ancora quattro parole sopra le mie
ragione -. Il Fiscale, che era molto piú discreto birro che non era il
Governatore, si volse a il Governatore, e disse: - Monsignore,
facciàngli grazia di cento parole; pur che dia l'opera, assai ci basta
-. Io dissi: - Se e' fussi qualsivoglia sorte di uomo che facessi murare un
palazzo o una casa, giustamente potrebbe dire a il maestro che la murassi: “Io
non voglio che tu lavori piú in su la mia casa o in su 'l mio palazzo”:
pagandogli le sue fatiche giustamente ne lo può mandare. Ancora se fossi
un signore che facessi legare una gioia di mille scudi, veduto che il
gioielliere non lo servissi sicondo la voglia sua, può dire: “Dammi la
mia gioia perché io non voglio l'opera tua”. Ma a questa cotal cosa non
c'è nessuno di questi capi; perché la non è né una casa,
né una gioia; altro non mi si può dire, se non che io renda e'
cinquecento scudi che io ho aúti. Sí che, Monsignori, fate tutto quel che voi
potete, ché altro non arete da me, che e' cinquecento scudi. Cosí direte al
Papa. Le vostre minaccie non mi fanno una paura al mondo; perché io sono uomo
da bene, e non ho paura de' mia peccati -. Rizzatosi il Governatore e il
Fiscale, mi dissono che andavano dal Papa, e che tornerebbono con commessione,
che guai a me. Cosí restai guardato. Mi passeggiavo per un salotto: e gli
stettono presso a tre ore a tornare dal Papa. In questo mezzo mi venne a
visitare tutta la nobiltà della nazion nostra di mercanti, pregandomi
strettamente che io non la volessi stare a disputare con un Papa, perché
potrebbe essere la rovina mia. Ai quali io risposi, che m'ero risoluto
benissimo di quel che io volevo fare.
LXII. Subito
che il Governatore insieme col Fiscale furono tornati da Palazzo, fattomi
chiamare, disse in questo tenore: - Benvenuto, certamente e' mi sa male d'esser
tornato dal Papa con una commessione tale, quale io ho; sí che o tu trova
l'opera subito, o tu pensa a' fatti tua -. Allora io risposi che, da poi che io
non avevo mai creduto insino a quell'ora che un santo Vicario di Cristo potessi
fare un'ingiustizia - però io lo voglio vedere prima che io lo creda; sí
che fate quel che voi potete -. Ancora il Governatore replicò, dicendo:
- Io t'ho da dire dua altre parole da parte del Papa, dipoi seguirò la
commessione datami. Il Papa dice che tu mi porti qui l'opera, e che io la vegga
mettere in una scatola e suggellare; di poi io l'ho apportare al Papa, il quale
promette per la fede sua di non la muovere dal suo suggello chiusa, e subito te
la renderà; ma questo e' vuol che si faccia cosí per averci anch'egli la
parte dell'onor suo -. A queste parole io ridendo risposi, che molto volentieri
gli darei l'opera mia in quel modo che diceva, perché io volevo saper ragionare
come era fatta la fede di un Papa. E cosí mandato per l'opera mia, suggellata
in quel modo che e' disse, gliene detti. Ritornato il Governatore dal Papa con
la ditta opera innel modo ditto, presa la scatola il Papa, sicondo che mi
riferí il Governatore ditto, la volse parecchi volte; dipoi domandò il
Governatore, se l'aveva veduta; il qual disse che l'aveva veduta e che in sua
presenza in quel modo s'era suggellata; di poi aggiunse, che la gli era paruta
cosa molto mirabile. Per la qual cosa il Papa disse: - Direte a Benvenuto, che
i Papi hanno autorità di sciorre e legare molto maggior cosa di questa -
e in mentre che diceva queste parole, con qualche poco di sdegno aperse la
scatola, levando le corde e il suggello con che l'era legata: di poi la
guardò assai, e per quanto io ritrassi, e' la mostrò a quel
Tubbia orefice, il quale molto la lodò. Allora il Papa lo domandò
se gli bastava la vista di fare una opera a quel modo; il Papa gli disse che
lui seguitassi quell'ordine apunto; di poi si volse al Governatore e gli disse:
- Vedete se Benvenuto ce la vuol dare; che dandocela cosí, se gli paghi tutto
quel che l'è stimata da valenti uomini; o sí veramente, volendocela
finir lui, pigli un termine: e se voi vedete che la voglia fare, díesigli
quelle comodità che lui domanda giuste -. Allora il Governatore disse: -
Beatissimo Padre, io che cognosco la terribil qualità di quel giovane,
datemi autorità che io glie ne possa dare una sbarbazzata a mio modo -.
A questo il Papa disse che facessi quel che volessi con le parole, benché gli
era certo che e' farebbe il peggio; di poi quando e' vedessi di non poter fare
altro, mi dicessi che io portassi li sua cinquecento scudi a quel Pompeo suo
gioielliere sopraditto. Tornato il Governatore, fattomi chiamare in camera sua,
e con un birresco sguardo, mi disse: - E' papi hanno autorità di sciorre
e legare tutto il mondo, e tanto subito si afferma in Cielo per ben fatto:
eccoti là la tua opera sciolta e veduta da Sua Santità -. Allora
subito io alzai la voce e dissi: - Io ringrazio Idio, che io ora so ragionare
com'è fatta la fede de' papi -. Allora il Governatore mi disse e fece
molte sbardellate braverie; e da poi veduto che lui dava in nunnulla, affatto
disperatosi dalla impresa, riprese alquanto la maniera piú dolce, e mi disse: -
Benvenuto, assai m incresce che tu non vuoi intendere il tuo bene;
però va', porta i cinquecento scudi, quando tu vuoi, a Pompeo sopra
ditto -. Preso la mia opera, me ne andai, e subito portai li cinquecento scudi
a quel Pompeo. E perché talvolta il Papa, pensando che per incomodità o
per qualche altra occasione io non dovessi cosí presto portare i dinari,
desideroso di rattaccare il filo della servitú mia; quando e' vedde che
Pompeo gli giunse innanzi sorridendo con li dinari in mano, il Papa gli disse
villania, e si condolse assai che tal cosa fussi seguita in quel modo:
di poi gli disse: - Va', truova Benvenuto a bottega sua, e fagli piú carezze
che può la tua ignorante bestialità; e digli, che se mi vuol
finire quell'opera per farne un reliquiere per portarvi drento il Corpus
Domini, quando io vo con esso a pricissione, che io gli darò le
comodità che vorrà a finirlo; purché egli lavori -. Venuto Pompeo
a me, mi chiamò fuor di bottega, e mi fece le piú isvenevole carezze
d'asino, dicendomi tutto quel che gli aveva commesso il Papa. Al quale io
risposi subito, che il maggior tesoro che io potessi desiderare al mondo, si
era l'aver riauto la grazia d'un cosí gran Papa, la quale si era smarrita da
me, e non per mio difetto, ma sí bene per difetto della mia smisurata infirmità,
e per la cattività di quelli uomini invidiosi che hanno piacere di
commetter male; - e perché il Papa ha 'bundanzia di servitori, non mi mandi piú
intorno, per la salute vostra; ché badate bene al fatto vostro. Io non
mancherò mai né dí né notte di pensare e fare tutto quello che io
potrò in servizio del Papa; e ricordatevi bene, che detto che voi avete
questo al Papa di me, in modo nessuno non vi intervenire in nulla
de' casi mia, perché io vi farò cognoscere gli errori vostri con la
penitenzia che meritano -. Questo uomo riferí ogni cosa al Papa in molto piú
bestial modo che io non gli aveva porto. Cosí si stette la cosa un pezzo, e io
m'attendevo alla mia bottega e mie faccende.
Lxiii. Quel Tubbia orefice sopra ditto
attendeva a finire quella guarnitura e ornamento a quel corno di liocorno; e di
piú il Papa gli aveva detto che cominciassi il calice in su quel modo che gli
aveva veduto il mio. E cominciatosi a farsi mostrare dal ditto Tubbia quel che
lui faceva, trovatosi mal sodisfatto, assai si doleva di aver rotto con
esso meco, e biasimava l'opere di colui, e chi gnene aveva messe inanzi; e
parecchi volte mi venne a parlare Baccino della Croce da parte del Papa, che io
dovessi fare quel reliquiere. Al quale io dicevo, che io pregavo Sua
Santità, che mi lasciassi riposare della grande infirmità che io
avevo aùto, della quale io non ero ancor ben sicuro; ma che io
mostrerrei a Sua Santità, di quelle ore ch'io potevo operare, che tutte
le spenderei in servizio suo. Io m'ero messo a ritrarlo, e gli facevo una
medaglia segretamente; e quelle stampe di acciaio per istampar detta medaglia,
me le facevo in casa; e alla mia bottega tenevo un compagno, che era stato mio
garzone, il qual si domandava Felice. In questo tempo, sí come fanno i giovani,
m'ero innamorato d'una fanciulletta siciliana, la quale era bellissima; e
perché ancor lei dimostrava volermi gran bene, la madre sua accortasi di tal
cosa, sospettando di quello che gli poteva intervenire (questo si era che io
avevo ordinato per un anno fuggirmi con detta fanciulla a Firenze,
segretissimamente dalla madre), accortasi lei di tal cosa, una notte
segretamente si partí di Roma e andossene alla volta di Napoli; e dette nome
d'esser ita da Civitavecchia, e andò da Ostia. Io l'andai drieto a
Civitavecchia, e feci pazzie inistimabile per ritrovarla. Sarebbon troppo
lunghe a dir tal cose per l'apunto: basta che io stetti in procinto o
d'impazzare o di morire. In capo di dua mesi lei mi scrisse che si trovava in
Sicilia molto mal contenta. In questo tempo io avevo atteso a tutti i piaceri
che immaginar si possa, e avevo preso altro amore, solo per istigner quello.
Lxiv. Mi accadde per certe diverse
stravaganze, che io presi amicizia di un certo prete siciliano, il quale era di
elevatissimo ingegno e aveva assai buone lettere latine e grece. Venuto una
volta in un proposito d'un ragionamento, in el quale s'intervenne a parlare
dell'arte della negromanzia; alla qual cosa io dissi: - Grandissimo desiderio
ho avuto tutto il tempo della vita mia di vedere o sentire qualche cosa di
quest'arte -. Alle qual parole il prete aggiunse: - Forte animo e sicuro
bisogna che sia di quel uomo che si mette a tale impresa -. Io risposi che
della fortezza e della sicurtà dell'animo me ne avanzerebbe, pur che i'
trovassi modo a far tal cosa. Allora rispose il prete: - Se di cotesto ti basta
la vista, di tutto il resto io te ne satollerò -. Cosí fummo d'acordo di
dar principio a tale impresa. Il detto prete una sera in fra l'altre si messe
in ordine, e mi disse che io trovassi un compagno, insino in dua. Io chiamai
Vincenzio Romoli mio amicissimo, e lui menò seco un Pistolese, il quale
attendeva ancora lui alla negromanzia. Andaticene al Culiseo, quivi paratosi il
prete a uso di negromante, si misse a disegnare i circuli in terra con le piú
belle cirimonie che immaginar si possa al mondo; e ci aveva fatto portare
profummi preziosi e fuoco, ancora profummi cattivi. Come e' fu in ordine, fece
la porta al circulo; e presoci per mano, a uno a uno ci messe drento al
circulo; di poi conpartí gli uffizii; dette il pintàculo in mano a
quell'altro suo compagno negromante, agli altri dette la cura del fuoco per e'
profummi; poi messe mano agli scongiuri. Durò questa cosa piú d'una ora
e mezzo; comparse parecchi legione, di modo che il Culiseo era tutto pieno. Io
che attendevo ai profummi preziosi, quando il prete cognobbe esservi tanta
quantità, si volse a me e disse: - Benvenuto, dimanda lor qualcosa -. Io
dissi che facessino che io fussi con la mia Angelica siciliana. Per quella
notte noi non avemmo risposta nessuna; ma io ebbi bene grandissima satisfazione
di quel che io desideravo di tal cosa. Disse il negromante che bisognava che
noi ci andassimo un'altra volta, e che io sarei satisfatto di tutto quello che
io domandavo, ma che voleva che io menassi meco un fanciulletto vergine. Presi
un mio fattorino, il quale era di dodici anni in circa, e meco di nuovo chiamai
quel ditto Vincenzio Romoli; e, per essere nostro domestico compagno un certo
Agnolino Gaddi, ancora lui menammo a questa faccenda. Arrivati di nuovo a il
luogo deputato, fatto il negromante le sue medesime preparazione con
quel medesimo e piú ancora maraviglioso ordine, ci mise innel circulo, qual di
nuovo aveva fatto con piú mirabile arte e piú mirabil cerimonie; di poi a quel
mio Vincenzio diede la cura de' profummi e del fuoco; insieme la prese il detto
Agnolino Gaddi; di poi a me pose in mano il pintàculo, qual mi disse che
io lo voltassi sicondo e' luoghi dove lui m'accennava, e sotto il
pintàculo tenevo quel fanciullino mio fattore. Cominciato il negromante
a fare quelle terrebilissime invocazioni, chiamato per nome una gran
quantità di quei demonii capi di quelle legioni, e a quelli comandava
per la virtú e potenzia di Dio increato, vivente ed eterno, in voce ebree,
assai ancora greche e latine; in modo che in breve di spazio si empié tutto il
Culiseo l'un cento piú di quello che avevan fatto quella prima volta. Vincenzio
Romoli attendeva a fare fuoco insieme con quell'Agnolino detto, e molta
quantità di profummi preziosi. Io per consiglio del negromante di nuovo
domandai potere essere con Angelica. Voltosi il negromante a me, mi disse: -
Senti che gli hanno detto? Che in ispazio di un mese tu sarai dove lei - e di
nuovo aggiunse, che mi pregava che io gli tenessi il fermo, perché le legioni
eran l'un mille piú di quel che lui aveva domandato, e che l'erano le piú
pericolose; e poi che gli avevano istabilito quel che io avevo domandato,
bisognava carezzargli, e pazientemente gli licenziare. Da l'altra banda il
fanciullo, che era sotto il pintàculo, ispaventatissimo diceva che in
quel luogo si era un milione di uomini bravissimi, e' quali tutti ci
minacciavano: di piú disse, che gli era comparso quattro smisurati giganti, e'
quali erano armati e facevan segno di voler entrar da noi. In questo il
negromante, che tremava di paura, attendeva con dolce e suave modo el meglio
che poteva a licenziarli. Vincenzio Romoli, che tremava a verga a verga,
attendeva ai profummi. Io, che avevo tanta paura quant'e loro, mi ingegnavo di
dimostrarla manco, e a tutti davo maravigliosissimo animo; ma certo io m'ero
fatto morto, per la paura che io vedevo nel negromante. Il fanciullo
s'era fitto il capo in fra le ginocchia, dicendo: - Io voglio morire a questo
modo, ché morti siàno -. Di nuovo io dissi al fanciullo: - Queste
creature son tutte sotto a di noi, e ciò che tu vedi si è fummo e
ombra; sí che alza gli occhi -. Alzato che gli ebbe gli occhi, di nuovo disse:
- Tutto il Culiseo arde, e 'l fuoco viene adosso a noi - e missosi le mane al
viso, di nuovo disse che era morto, e che non voleva piú vedere. Il negromante
mi si raccomandò, pregandomi che io gli tenessi il fermo, e che io
facessi fare profummi di zaffetica: cosí, voltomi a Vincenzio Romoli,
dissi che presto profumassi di zaffetica. In mentre che io cosí diceva,
guardando Agnolino Gaddi, il quale si era tanto ispaventato che le luce degli
occhi aveva fuor del punto, ed era piú che mezzo morto, al quale io
dissi: - Agnolo, in questi luoghi non bisogna aver paura, ma bisogna darsi da
fare e aiutarsi; sí che mettete sú presto di quella zaffetica -. Il ditto
Agnolo, in quello che lui si volse muovere, fece una strombazzata di coreggie
con tanta abundanzia di merda, la qual potette piú che la zaffetica. Il
fanciullo, a quel gran puzzo e quel romore alzato un poco il viso, sentendomi
ridere alquanto, assicurato un poco la paura, disse che se ne cominciavano a
'ndare a gran furia. Cosí soprastemmo in fino a tanto che e' cominciò a
sonare i mattutini. Di nuovo ci disse il fanciullo che ve n'era restati pochi,
e discosto. Fatto che ebbe il negromante tutto il resto delle sue cerimonie,
spogliatosi e riposto un gran fardel di libri, che gli aveva portati, tutti
d'accordo seco ci uscimmo del circulo, ficcandosi l'un sotto l'altro; massimo
il fanciullo, che s'era messo in mezzo, e aveva preso il negromante per la
veste e me per la cappa; e continuamente, in mentre che noi andavamo inverso le
case nostre in Banchi, lui ci diceva che dua di quelli, che gli aveva visti nel
Culiseo, ci andavano saltabeccando innanzi, or correndo su pe' tetti e or per
terra. Il negromante diceva, che di tante volte quante lui era entrato innelli
circuli, non mai gli era intervenuto una cosí gran cosa, e mi persuadeva che io
fussi contento di volere esser seco a consacrare un libro; da il quale noi
trarremmo infinita ricchezza, perché noi dimanderemmo li demonii che ci
insegnassino delli tesori, i quali n'è pien la terra, e a quel
modo noi diventeremmo ricchissimi; e che queste cose d'amore si erano
vanità e pazzie, le quale non rilevavano nulla. Io li dissi, che se io
avessi lettere latine, che molto volentieri farei una tal cosa. Pur lui mi
persuadeva, dicendomi, che le lettere latine non mi servivano a nulla, e che se
lui avessi voluto, trovava di molti con buone lettere latine; ma che non aveva
mai trovato nessuno d'un saldo animo come ero io, e che io dovessi attenermi al
suo consiglio. Con questi ragionamenti noi arrivammo alle case nostre, e
ciascun di noi tutta quella notte sognammo diavoli.
LXV. Rivedendoci
poi alla giornata, il negromante mi strigneva che io dovessi attendere a
quella impresa; per la qual cosa io lo domandai che tempo vi si metterebbe a
far tal cosa, e dove noi avessimo a 'ndare. A questo mi rispose che in manco
d'un mese noi usciremmo di quella impresa, e che il luogo piú a proposito si
era nelle montagne di Norcia; benché un suo maestro aveva consacrato quivi
vicino al luogo detto alla Badia di Farfa; ma che vi aveva aùto qualche
difficultà, le quali non si arebbono nelle montagne di Norcia; e che
quelli villani norcini son persone di fede, e hanno qualche pratica di questa
cosa, a tale che possan dare a un bisogno maravigliosi aiuti. Questo prete
negromante certissimamente mi aveva persuaso tanto, che io volentieri mi ero
disposto a far tal cosa, ma dicevo che volevo prima finire quelle medaglie che
io facevo per il Papa, e con il detto m'ero conferito e non con altri,
pregandolo che lui me le tenessi segrete. Pure continuamente lo domandavo se
lui credeva che a quel tempo io mi dovessi trovare con la mia Angelica siciliana,
e veduto che s'appressava molto al tempo, mi pareva molta gran cosa che di lei
io non sentissi nulla. Il negromante mi diceva che certissimo io mi troverrei
dove lei, perché loro non mancan mai, quando e' promettono in quel modo come
ferno allora; ma che io stessi con gli occhi aperti, e mi guardassi da qualche
scandolo, che per quel caso mi potrebbe intervenire; e che io mi sforzassi di
sopportare qualche cosa contra la mia natura, perché vi conosceva drento un
grandissimo pericolo; e che buon per me se io andavo seco a consacrare il
libro, che per quella via quel mio gran pericolo si passerebbe, e sarei causa
di far me e lui felicissimi. Io, che ne cominciavo avere piú voglia di lui, gli
dissi che per essere venuto in Roma un certo maestro Giovanni da Castel
Bolognese, molto valentuomo per far medaglie di quella sorte che io facevo, in
acciaio, e che non desideravo altro al mondo che di fare a gara con questo
valentomo, e uscire al mondo adosso con una tale impresa, per la quale io
speravo con tal virtú, e non con la spada, ammazzare quelli parecchi mia
nimici. Questo uomo pure mi continuava dicendomi: - Di grazia, Benvenuto mio,
vien meco e fuggi un gran pericolo che in te io scorgo -. Essendomi io disposto
in tutto e per tutto di voler prima finir la mia medaglia, di già eramo
vicini al fine del mese; al quale, per essere invaghito tanto innella medaglia,
io non mi ricordavo piú né di Angelica né di null'altra cotal cosa, ma tutto
ero intento a quella mia opera.
Lxvi. Un giorno fra gli altri, vicino a l'ora del vespro, mi venne
occasione di trasferirmi fuor delle mie ore da casa alla mia bottega; perché
avevo la bottega in Banchi, e una casetta mi tenevo drieto a Banchi, e poche
volte andavo a bottega; ché tutte le faccende io le lasciavo fare a quel mio
compagno che avea nome Felice. Stato cosí un poco a bottega, mi ricordai che io
avevo a 'ndare a parlare a Lessandro del Bene. Subito levatomi e arrivato in
Banchi, mi scontrai in un certo molto mio amico, il quale si domandava per nome
ser Benedetto. Questo era notaio e era nato a Firenze, figliuolo d'un cieco che
diceva l'orazione, che era sanese. Questo ser Benedetto era stato a Napoli
molt' e molt'anni; dipoi s'era ridotto in Roma, e negoziava per certi mercanti
sanesi de' Chigi. E perché quel mio compagno piú e piú volte gli aveva chiesto
certi dinari, che gli aveva aver dallui di alcune anellette che lui gli aveva
fidate, questo giorno, iscontrandosi in lui in Banchi li chiese li sua dinari
in un poco di ruvido modo, il quale era l'usanza sua; ché il detto ser
Benedetto era con quelli sua padroni, in modo che, vedendosi far quella cosa
cosí fatta, sgridorno grandemente quel ser Benedetto, dicendogli che si
volevano servir d'un altro, per non avere a sentir piú tal baiate. Questo ser
Benedetto il meglio che e' poteva si andava con loro difendendo, e diceva che
quello orefice lui l'aveva pagato, e che non era atto a affrenare il furore de'
pazzi. Li detti sanesi presono quella parola in cattiva parte e subito lo
cacciorno via. Spiccatosi dalloro, affusolato se ne andava alla mia bottega,
forse per far dispiacere al detto Felice. Avvenne, che appunto innel mezzo di
Banchi noi ci incontrammo insieme: onde io, che non sapevo nulla, al mio solito
modo piacevolissimamente lo salutai; il quale con molte villane parole mi
rispose. Per la qual cosa mi sovvenne tutto quello che mi aveva detto il
negromante; in modo che, tenendo la briglia il piú che io potevo a quello che
con le sue parole il detto mi sforzava a fare, dicevo: - Ser Benedetto
fratello, non vi vogliate adirar meco, che non v'ho fatto dispiacere, e non so
nulla di questi vostri casi, e tutto quello che voi avete che fare con Felice,
andate di grazia e finitela seco; che lui sa benissimo quel che v'ha a
rispondere; onde io, che none so nulla, voi mi fate torto a mordermi di questa
sorte, maggiormente sapendo che io non sono uomo che sopporti ingiurie -. A
questo il detto disse, che io sapevo ogni cosa e che era uomo atto a farmi
portar maggior soma di quella, e che Felice e io eramo dua gran ribaldi. Di
già s'era ragunato molte persone a vedere questa contesa. Sforzato dalle
brutte parole, presto mi chinai in terra e presi un mòzzo di fango,
perché era piovuto, e con esso presto gli menai a man salva per dargli in sul
viso. Lui abbassò il capo, di sorte che con esso gli detti in sul mezzo
del capo. In questo fango era investito un sasso di pietra viva con molti acuti
canti, e cogliendolo con un di quei canti in sul mezzo del capo, cadde come
morto svenuto in terra; il che, vedendo tanta abondanzia di sangue, si
giudicò per tutti e' circostanti che lui fossi morto.
LXVII. In
mentre che il detto era ancora in terra, e che alcuni si davano da fare per
portarlo via, passava quel Pompeo gioielliere già ditto di sopra. Questo
il Papa aveva mandato per lui per alcune sue faccende di gioie. Vedendo
quell'uomo mal condotto, domandò chi gli aveva dato. Di che gli fu
detto: - Benvenuto gli ha dato, perché questa bestia se l'ha cerche -. Il detto
Pompeo, prestamente giunto che fu al Papa, gli disse: - Beatissimo padre,
Benvenuto adesso adesso ha ammazzato Tubbia; che io l'ho veduto con li mia
occhi -. A questo il Papa infuriato comesse al Governatore, che era quivi alla
presenza, che mi pigliassi, e che m'impiccassi subito innel luogo dove si era
fatto l'omicidio, e che facessi ogni diligenzia a avermi, e non gli capitassi
innanzi prima che lui mi avessi impiccato. Veduto che io ebbi quello sventurato
in terra, subito pensai a' fatti mia, considerato alla potenzia de' mia nimici,
e quel che di tal cosa poteva partorire. Partitomi di quivi, me ne ritirai a
casa misser Giovanni Gaddi cherico di Camera; volendomi metter in ordine il piú
presto che io potevo, per andarmi con Dio. Alla qual cosa, il detto misser
Giovanni mi consigliava che io non fussi cosí furioso a partirmi, ché tal volta
potria essere che 'l male non fussi tanto grande quanto e' mi parve: e fatto
chiamare messer Anibal Caro, il quale stava seco, gli disse che andassi a
'ntendere il caso. Mentre che di questa cosa si dava i sopraditti ordini,
conparse un gentiluomo romano che stava col cardinal de' Medici e da quello
mandato. Questo gentiluomo, chiamato a parte misser Giovanni e me, ci disse che
il Cardinale gli aveva detto quelle parole che gli aveva inteso dire al Papa, e
che non aveva rimedio nessuno da potermi aiutare, e che io facessi tutto il mio
potere di scampar questa prima furia, e che io non mi fidassi in nessuna casa
di Roma. Subito partitosi il gentiluomo, il ditto misèr Giovanni
guardandomi in viso, faceva segno di lacrimare, e disse: - Oimè, tristo
a me! che io non ho rimedio nessuno a poterti aiutare! - Allora io dissi: -
Mediante Idio, io mi aiuterò ben da me; solo vi richieggo che voi mi
serviate di un de' vostri cavalli -. Era di già messo in ordine un caval
morello turco, il piú bello e il miglior di Roma. Montai in sun esso con uno
archibuso a ruota dinanzi a l'arcione, stando in ordine per difendermi con
esso. Giunto che io fui a ponte Sisto, vi trovai tutta la guardia del bargello
a cavallo e a piè; cosí faccendomi della necessità virtú,
arditamente spinto modestamente il cavallo, merzé di Dio oscurato gli occhi
loro, libero passai, e con quanta piú fretta io potetti me ne andai a
Palombara, luogo del signor Giovanbatista Savello, e di quivi rimandai
il cavallo a misser Giovanni, né manco volsi ch'egli sapessi dove io mi fussi.
Il detto signor Gianbatista, carezzato ch'egli m'ebbe dua giornate, mi
consigliò che io mi dovessi levar di quivi e andarmene alla volta di
Napoli, per tanto che passassi questa furia; e datomi compagnia, mi fece
mettere in sulla strada di Napoli, in su la quale io trovai uno scultore mio
amico, che se ne andava a San Germano a finire la seppoltura di Pier de' Medici
a Monte Casini. Questo si chiamava per nome il Solosmeo: lui mi dette nuove,
come quella sera medesima papa Clemente aveva mandato un suo cameriere a
intendere come stava Tubbia sopraditto; e trovatolo a lavorare, e che in lui
non era avvenuto cosa nissuna, né manco non sapeva nulla, referito al Papa, il
ditto si volse a Pompeo e gli disse: - Tu sei uno sciagurato, ma io ti protesto
bene, che tu hai stuzzicato un serpente, che ti morderà e faratti il
dovere -. Di poi si volse al cardinal de' Medici, e gli commisse che tenessi un
poco di conto di me, che per nulla lui non mi arebbe voluto perdere. Cosí il
Solosmeo e io ce ne andavamo cantando alla volta di Monte Casini, per andarcene
a Napoli insieme.
LxvIii. Riveduto
che ebbe il Solosmeo le sue faccende a Monte Casini, insieme ce ne andammo alla
volta di Napoli. Arrivati a un mezzo miglio presso a Napoli, ci si fece
incontro uno oste il quale ci invitò alla sua osteria, e ci diceva che
era stato in Firenze molt'anni con Carlo Ginori; e se noi andavamo alla sua
osteria, che ci arebbe fatto moltissime carezze, per esser noi Fiorentini. Al
qual oste noi piú volte dicemmo, che seco noi non volevamo andare. Questo uomo
pur ci passava inanzi e or ristava indrieto, sovente dicendoci le medesime
cose, che ci arebbe voluti alla sua osteria. Il perché venutomi a noia, io lo
domandai se lui mi sapeva insegnare una certa donna siciliana, che aveva nome
Beatrice, la quale aveva una sua bella figliuoletta che si chiamava Angelica,
ed erano cortigiane. Questo ostiere, parutoli che io l'uccellassi,
disse: - Idio dia il malanno alle cortigiane e chi vuol lor bene - e dato il
piè al cavallo, fece segno di andarsene resoluto da noi. Parendomi
essermi levato da dosso in un bel modo quella bestia di quell'oste, con tutto
che di tal cosa io non estessi in capitale, perché mi era sovvenuto quel grande
amore che io portavo a Angelica, e ragionandone col ditto Solosmeo non senza
qualche amoroso sospiro, vediamo con gran furia ritornare a noi l'ostiere, il
quale, giunto da noi, disse: - E' sono o dua over tre giorni, che accanto alla
mia osteria è tornato una donna e una fanciulletta, le quali hanno
cotesto nome; non so se sono siciliane o d'altro paese -. Allora io dissi: -
Gli ha tanta forza in me quel nome di Angelica, che io voglio venire alla tua
osteria a ogni modo -. Andammocene d'accordo insieme coll'oste nella
città di Napoli, e scavalcammo alla sua osteria, e mi pareva mill'anni
di dare assetto alle mie cose, qual feci prestissimo; e entrato nella ditta
casa accanto a l'osteria, ivi trovai la mia Angelica, la quale mi fece le piú
smisurate carezze che inmaginar si possa al mondo. Cosí mi stetti seco da
quell'ora delle ventidua ore in sino alla seguente mattina con tanto piacere,
che pari non ebbi mai. E in mentre che in questo piacere io gioiva, mi sovvenne
che quel giorno apunto spirava il mese che mi fu promisso in el circolo di
negromanzia dalli demonii. Sí che consideri ogni uomo, che s'inpaccia con loro,
e' pericoli inistimabili che io ho passati.
LXIX. Io mi
trovavo innella mia borsa a caso un diamante, il quale mi venne mostrato in fra
gli orefici: e se bene io ero giovane ancora, in Napoli io ero talmente
conosciuto per uomo da qualcosa, che mi fu fatto moltissime carezze. Infra gli
altri un certo galantissimo uomo gioielliere, il quale aveva nome misser
Domenico Fontana. Questo uomo da bene lasciò la bottega per tre giorni
che io stetti in Napoli, né mai si spiccò da me, mostrandomi molte
bellissime anticaglie che erano in Napoli e fuor di Napoli; e di piú mi
menò a fare reverenzia al Vicerè di Napoli, il quale gli aveva
fatto intendere che aveva vaghezza di vedermi. Giunto che io fui da Sua
Eccellenzia, mi fece molte onorate accoglienze; e in mentre che cosí facevamo,
dètte innegli occhi di Sua Eccellenzia il sopra ditto diamante; e
fattomiselo mostrare, disse, che se io ne avessi a privar me, non cambiassi
lui, di grazia. Al quale io, ripreso il diamante, lo porsi di nuovo a Sua
Eccellenzia, e a quella dissi, che il diamante e io eramo al servizio di
quella. Allora e' disse che aveva ben caro il diamante, ma che molto piú caro
li sarebbe che io restassi seco; che mi faria tal patti, che io mi loderei di
lui. Molte cortese parole ci usammo l'un l'altro; ma venuti poi ai meriti del
diamante, comandatomi da Sua Eccellenzia che io ne domandassi pregio, qual mi
paressi, a una sola parola, al quale io dissi che dugento scudi era il suo
pregio a punto. A questo Sua Eccellenzia disse che gli pareva che io non fussi
niente iscosto dal dovere; ma per esser legato di mia mano, conoscendomi per il
primo uomo del mondo, non riuscirebbe, se un altro lo legasse, di quella
eccellenzia che dimostrava. Allora io dissi, che il diamante non era legato di
mia mano e che non era ben legato; e quello che egli faceva, lo faceva per sua
propria bontà; e che se io gnene rilegassi, lo migliorerei assai da quel
che gli era. E messo l'ugna del dito grosso ai filetti del diamante, lo trassi
del suo anello, e nettolo alquanto lo porsi al Viceré; il quale satisfatto e
maravigliato, mi fece una poliza, che mi fussi pagato li dugento scudi che io
l'aveva domandato. Tornatomene al mio alloggiamento, trovai lettere che
venivano dal cardinale de' Medici, le quali mi dicevano che io ritornassi a
Roma con gran diligenzia, e di colpo me ne andassi a scavalcare a
casa Sua Signoria reverendissima. Letto alla mia Angelica la lettera, con amorosette
lacrime lei mi pregava che di grazia io mi fermassi in Napoli, o che io ne la
menassi meco. Alla quale io dissi, che se lei ne voleva venir meco, che io gli
darei in guardia quelli dugento ducati che io avevo presi dal Viceré. Vedutoci
la madre a questi serrati ragionamenti, si accostò a noi, e mi disse: -
Benvenuto, se tu ti vuoi menare la mia Angelica a Roma, lassami un quindici
ducati, acciocché io possa partorire, e poi me ne verrò ancora io -.
Dissi alla vecchia ribalda, che trenta volentieri gnene lascierei, se lei si
contentava di darmi la mia Angelica. Cosí restati d'accordo, Angelica mi
pregò che io li comperassi una vesta di velluto nero, perché in Napoli
era buon mercato. Di tutto fui contento; e mandato per il velluto, fatto il
mercato e tutto, la vecchia, che pensò che io fossi piú cotto che
crudo, mi chiese una vesta di panno fine per sé, e molt'altre spese per sua
figliuoli, e piú danari assai di quelli che io gli avevo offerti. Alla quale io
piacevolmente mi volsi e le dissi: - Beatrice mia cara, bastat'egli quello che
io t'ho offerto? - Lei disse che no. Allora io dissi, che quel che non bastava
a lei basterebbe a me: e baciato la mia Angelica, lei con lacrime e io con riso
ci spiccammo, e me ne tornai a Roma subito.
LXX. Partendomi di Napoli a notte con li dinari
addosso, per non essere appostato né assassinato, come è il costume di
Napoli, trovatomi alla Selciata, con grande astuzia e valore di corpo mi difesi
da piú cavagli, che mi erano venuti per assassinare. Di poi gli altri giorni
appresso, avendo lasciato il Solosmeo alle sue faccende di Monte Casini, giunto
una mattina per desinare all'osteria di Adagnani; essendo presso all'osteria,
tirai a certi uccelli col mio archibuso, e quelli ammazzai; e un ferretto, che
era nella serratura del mio stioppo, mi aveva stracciato la man ritta. Se bene
non era il male d'inportanza, appariva assai, per molta quantità di
sangue che versava la mia mano. Entrato ne l'osteria, messo il mio cavallo al
suo luogo, salito in sun un palcaccio, trovai molti gentiluomini napoletani,
che stavano per entrare a tavola; e con loro era una gentil donna giovane, la
piú bella che io vedessi mai. Giunto che io fui, appresso a me montava un
bravissimo giovane mio servitore con un gran partigianone in mano: in modo che
noi, l'arm'e il sangue, messe tanto terrore a quei poveri gentili uomini,
massimamente per esser quel luogo un nidio di assassini; rizzatisi da tavola,
pregorno Idio, con grande spavento, che gli aiutassi. Ai quali io dissi
ridendo, che Idio gli aveva aiutati, e che io ero uomo per difendergli da chi
gli volesse offendere; e chiedendo a loro qualche poco di aiuto per fasciar la
mia mana, quella bellissima gentil donna prese un suo fazzoletto riccamente
lavorato d'oro, volendomi con esso fasciare: io non volsi: subito lei lo
stracciò pel mezzo, e con grandissima gentilezza di sua mano mi
fasciò. Cosí assicuratisi alquanto, desinammo assai lietamente. Di poi
il desinare montammo a cavallo, e di compagnia ce ne andavamo. Non era ancora
assicurata la paura; ché quelli gentili uomini astutamente mi facevano
trattenere a quella gentildonna, restando alquanto indietro: e io a pari con
essa me ne andavo in sun un mio bel cavalletto, accennato al mio servitore che
stessi un poco discosto da me; in modo che noi ragionavamo di quelle cose che
non vende lo speziale. Cosí mi condussi a Roma col maggior piacere che io
avessi mai.
Arrivato che
io fui a Roma, me ne andai a scavalcare al palazzo del cardinale de' Medici; e
trovatovi Sua Signoria reverendissima, gli feci motto, e lo ringraziai
de l'avermi fatto tornare. Di poi pregai Sua Signoria reverendissima, che mi
facessi sicuro dal carcere, e se gli era possibile ancora della pena
pecuniaria. Il ditto Signore mi vidde molto volentieri; mi disse che io non
dubitassi di nulla; di poi si volse a un suo gentiluomo, il quale si domandava
misser Pierantonio Pecci, sanese, dicendogli che per sua parte dicessi
al bargello che non ardissi toccarmi. Appresso lo domandò come stava
quello a chi io avevo dato del sasso in sul capo. Il ditto messer Pierantonio
disse che lui stava male, e che gli starebbe ancor peggio; il perché si era
saputo che io tornavo a Roma, diceva volersi morire per farmi dispetto. Alle
qual parole con gran risa il Cardinale disse: - Costui non poteva fare altro
modo che questo, a volerci fare cognoscere che gli era nato di sanesi -. Di poi
voltosi a me, mi disse: - Per onestà nostra e tua, abbi pazienzia
quattro o cinque giorni, che tu non pratichi in Banchi; da questi in là
va' poi dove tu vuoi, e i pazzi muoiano a lor posta -. Io me ne andai a casa
mia, mettendomi a finire la medaglia, che di già avevo cominciata, della
testa di papa Clemente, la quale io facevo con un rovescio figurato una Pace.
Questa si era una femminetta vestita con panni sottilissimi, soccinta, con
una faccellina in mano, che ardeva un monte di arme legate insieme a guisa di
un trofeo; e ivi era figurato una parete di un tempio, innel quale era figurato
il Furore con molte catene legato, e all'intorno si era un motto di lettere, il
quale diceva “Clauduntur belli portae”. In mentre ch'io finivo la ditta
medaglia, quello che io avevo percosso era guarito, e 'l Papa non cessava di
domandar di me: e perché io fuggivo di andare intorno al cardinale de'
Medici, avvenga che tutte le volte che io gli capitavo inanzi, Sua Signoria mi
dava da fare qualche opera d'importanza, per la qual cosa m'inpediva assai alla
fine della mia medaglia, avvenne che misser Pier Carnesecchi, favoritissimo
del Papa, prese la cura di tener conto di me: cosí in un destro modo mi disse
quanto il Papa desiderava che io lo servissi. Al quale io dissi che in brevi
giorni io mostrerrei a Sua Santità, che mai io non m'ero scostato dal
servizio di quella.
LXXI. Pochi
giorni appresso, avendo finito la mia medaglia, la stampai in oro e in argento
e in ottone. Mostratala a messer Piero, subito m'introdusse dal Papa. Era un
giorno doppo desinare del mese di aprile, ed era un bel tempo: il Papa era in
Belvedere. Giunto alla presenza di Sua Santità, li porsi in mano le medaglie
insieme con li conii di acciaio. Presele, subito cognosciuto la gran forza di
arte che era in esse, guardato misser Piero in viso, disse: - Gli antichi non
furno mai sí ben serviti di medaglie -. In mentre che lui e gli altri le
consideravano, ora i conii ora le medaglie, io modestissimamente cominciai a
parlare e dissi: - Se la potenzia delle mie perverse istelle non avessino
aùto una maggior potenzia, che alloro avessi impedito quello che
violentemente in atto le mi dimostrorno, Vostra Santità senza sua causa
e mia perdeva un suo fidele e amorevole servitore. Però, beatissimo
Padre, non è error nessuno in questi atti, dove si fa del resto, usar
quel modo che dicono certi poveri semplici uomini, usando dire, che si dee
segnar sette e tagliar uno. Da poi che una malvagia bugiarda lingua d'un mio
pessimo avversario, che aveva cosí facilmente fatto adirare Vostra
Santità, che ella venne in tanto furore, commettendo al Governatore che
subito preso m'impiccassi; veduto da poi un tale inconveniente, faccendo un
cosí gran torto a sé medesima a privarsi di un suo servitore, qual Vostra
Santità istessa dice che egli è, penso certissimo che, quanto a
Dio e quanto al mondo, da poi Vostra Santità n'arebbe aùto un non
piccolo rimordimento. Però i buoni e virtuosi padri, similmente i
padroni tali, sopra i loro figliuoli e servitori non debbono cosí
precipitatamente lasciar loro cadere il braccio addosso; avvenga che lo
increscerne lor da poi non serva a nulla. Da poi che Idio ha impedito questo
maligno corso di stelle, e salvatomi a Vostra Santità, un'altra volta
priego quella, che non sia cosí facile a l'adirarsi meco -. Il Papa, fermato di
guardare le medaglie, con grande attenzione mi stava a udire; e perché alla
presenzia era molti Signori di grandissima importanza, il Papa, arrossito
alquanto, fece segno di vergognarsi, e non sapendo altro modo a uscir di quel
viluppo, disse che non si ricordava di aver mai dato una tal commessione.
Allora avvedutomi di questo, entrai in altri ragionamenti, tanto che io
divertissi quella vergogna che lui aveva dimostrato. Ancora Sua Santità
entrato in e' ragionamenti delle medaglie, mi dimandava che modo io avevo
tenuto a stamparle cosí mirabilmente, essendo cosí grande; il che lui non aveva
mai veduto degli antichi, medaglie di tanta grandezza. Sopra quello si
ragionò un pezzo, e lui, che aveva paura che io non gli facessi un'altra
orazioncina peggio di quella, mi disse che le medaglie erano bellissime e che
gli erano molto grate, e che arebbe voluto fare un altro rovescio a sua fantasia,
se tal medaglie si poteva istampare con dua rovesci. Io dissi che sí. Allora
Sua Santità mi commesse che io facessi la storia di Moisè quando
e' percuote la pietra, ch'e' n'esce l'acqua, con un motto sopra, il qual
dicessi “Ut bibat populus”. E poi aggiunse: - Va, Benvenuto, che tu non
l'arai finita sí tosto che io arò pensato a casi tua -. Partito che io
fui, il Papa si vantò alla presenza di tutti di darmi tanto, che io arei
potuto riccamente vivere, senza mai piú affaticarmi con altri. Attesi
sollecitamente a finire il rovescio del Moisè.
LXXII. In questo mezzo il Papa
si ammalò; e, giudicando i medici che 'l male fussi pericoloso, quel mio
avversario, avendo paura di me, commise a certi soldati napoletani che
facessino a me quello che lui aveva paura che io non facessi allui. Però
ebbi molte fatiche a difendere la mia povera vita. Seguitando fini' il rovescio
afatto: portatolo su al Papa, lo trovai nel letto malissimo condizionato. Con
tutto questo egli mi fece gran carezze, e volse veder le medaglie e e' conii; e
faccendosi dare occhiali e lumi, in modo alcuno non iscorgeva nulla. Si messe a
brancolarle alquanto con le dita; di poi fatto cosí un poco, gittò un
gran sospiro e disse a certi che gl'incresceva di me, ma che se Idio gli
rendeva la sanità, acconcerebbe ogni cosa. Da poi tre giorni il Papa
morí, e io, trovatomi aver perso le mie fatiche, mi feci di buono animo, e
dissi a me stesso che mediante quelle medaglie io m'ero fatto tanto cognoscere,
che da ogni papa, che venissi, io sarei adoperato forse con miglior fortuna.
Cosí da me medesimo mi missi animo, cancellando in tutto e per tutto le grande
ingiurie che mi aveva fatte Pompeo; e missomi l'arme indosso e accanto, me ne
andai a San Piero, baciai li piedi al morto Papa non sanza lacrime; di poi mi ritornai
in Banchi a considerare la gran confusione che avviene in cotai occasione. E in
mentre che io mi sedeva in Banchi con molti mia amici, venne a passare Pompeo
in mezzo a dieci uomini benissimo armati; e quando egli fu a punto a rincontro
dove io era, si fermò alquanto in atto di voler quistione con esso meco.
Quelli ch'erano meco, giovani bravi e volontoriosi, accennatomi che io dovessi
metter mano, alla qual cosa subito considerai, che se io mettevo mano alla
spada, ne sarebbe seguito qualche grandissimo danno in quelli che non vi
avevano una colpa al mondo; però giudicai che e' fussi il meglio, che io
solo mettessi a ripintaglio la vita mia. Soprastato che Pompeo fu del dir dua
Avemarie, con ischerno rise inverso di me; e partitosi, quelli sua anche risono
scotendo il capo; e con simili atti facevano molte braverie: quelli mia
compagni volson metter mano alla quistione; ai quali io adiratamente dissi, che
le mie brighe io ero uomo da per me a saperle finire, che io non avevo bisogno
di maggior bravi di me; sí che ognun badassi al fatto suo. Isdegnati quelli mia
amici si partirno da me brontolando. In fra questi era il piú caro mio amico,
il quale aveva nome Albertaccio del Bene, fratel carnale di Alessandro e di
Albizzo, il quale è oggi in Lione grandissimo ricco. Era questo
Albertaccio il piú mirabil giovane che io cognoscessi mai, e il piú animoso, e
a me voleva bene quanto a sé medesimo; e perché lui sapeva bene che quello atto
di pazienzia non era stato per pusillità d'animo, ma per aldacissima bravuria,
che benissimo mi conosceva, e replicato alle parole, mi pregò che io gli
facessi tanta grazia di chiamarlo meco a tutto quel che io avessi animo di
fare. Al quale io dissi: - Albertaccio mio, sopra tutti gli altri carissimo;
ben verrà tempo che voi mi potrete dare aiuto; ma in questo caso, se voi
mi volete bene, non guardate a me, e badate al fatto vostro, e levatevi via
presto sí come hanno fatto gli altri, perché questo non è tempo da
perdere -. Queste parole furno dette presto.
LXXIII. Intanto
li nimici mia, di Banchi a lento passo s'erano avviati inverso la Chiavica,
luogo detto cosí, e arrivati in su una crociata di strade le
quali vanno in diversi luoghi; ma quella dove era la casa del mio nimico
Pompeo, era quella strada che diritta porta a Campo di Fiore; e per alcune
occasione de il detto Pompeo, era entrato in quello ispeziale che stava in sul
canto della Chiavica, e soprastato con ditto speziale alquanto per alcune sue
faccende; benché a me fu ditto che lui si era millantato di quella bravata che
allui pareva aver fattami: ma in tutti i modi la fu pur sua cattiva fortuna;
perché arrivato che io fui a quel canto, apunto lui usciva dallo speziale, e
quei sua bravi si erano aperti, e l'avevano di già ricevuto in mezzo.
Messi mano a un picol pungente pugnaletto, e sforzato la fila de' sua bravi, li
messi le mane al petto con tanta prestezza e sicurtà d'animo, che
nessuno delli detti rimediar non possettono. Tiratogli per dare al viso, lo
spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo punsi apunto sotto
l'orecchio; e quivi raffermai dua colpi soli, che al sicondo mi cadde morto di
mano, qual non fu mai mia intenzione; ma, sí come si dice, li colpi non si
danno a patti. Ripreso il pugnale con la mano istanca, e con la ritta tirato
fuora la spada per la difesa della vita mia, dove tutti quei bravi
corsono al morto corpo, e contro a me non feceno atto nessuno, cosí soletto mi
ritirai per strada Iulia, pensando dove io mi potessi salvare. Quando io fui
trecento passi, mi raggiunse il Piloto, orefice, mio grandissimo amico, il
quale mi disse: - Fratello, da poi che 'l male è fatto, veggiamo di
salvarti -. Al quale io dissi: - Andiamo in casa di Albertaccio del Bene, che
poco inanzi gli avevo detto che presto verrebbe il tempo che io arei bisogno di
lui -. Giunti che noi fummo a casa Albertaccio, le carezze furno inistimabile,
e presto comparse la nobiltà delli giovani di Banchi d'ogni nazione, da'
Milanesi in fuora; e tutti mi si offersono di mettete la vita loro per salvazione
della vita mia. Ancora misser Luigi Rucellai mi mandò a offerire
maravigliosamente, che io mi servissi delle cose sua, e molti altri di quelli
omaccioni simili a lui; perché tutti d'accordo mi benedissono le mani,
parendo loro che colui mi avessi troppo assassinato, e maravigliandosi molto
che io avessi tanto soportato.
Lxxiv. In questo
istante il cardinal Cornaro, saputo la cosa, da per sé mandò trenta
soldati, con tanti partigianoni, picche e archibusi, li quali mi menassino in
camera sua per ogni buon rispetto; e io accettai l'offerta, e con quelli
me ne andai, e piú di altretanti di quelli ditti giovani mi feciono compagnia.
In questo mezzo saputolo quel misser Traiano suo parente, primo cameriere del
Papa, mandò al cardinal de' Medici un gran gentiluomo milanese, il qual
dicessi al Cardinale il gran male che io avevo fatto, e che Sua Signoria
reverendissima era ubbrigata a gastigarmi. Il Cardinale rispose subito, e
disse: - Gran male arebbe fatto a non fare questo minor male: ringraziate
messer Traiano da mia parte, che m'ha fatto avvertito di quel che io non sapeva
- e subito voltosi, in presenza del ditto gentiluomo, al vescovo di Frullí suo
gentiluomo e familiare, li disse: - Cercate con diligenzia il mio Benvenuto, e
menatemelo qui, perché io lo voglio aiutare e difendere; e chi farà
contra di lui, farà contra di me -. Il gentiluomo molto arrossito si
partí, e il vescovo di Frullí mi venne a trovare in casa il cardinal Cornaro; e
trovato il Cardinale, disse come il cardinale de' Medici mandava per Benvenuto,
e che voleva esser lui quello che lo guardassi. Questo cardinal Cornaro,
ch'era bizzarro come un orsacchino, molto adirato rispose al vescovo,
dicendogli che lui era cosí atto a guardarmi come il cardinal de' Medici. A
questo il vescovo disse, che di grazia facessi che lui mi potessi parlare una
parola fuor di quello affare, per altri negozi del cardinale. Il
Cornaro li disse che per quel giorno facessi conto di avermi parlato. Il
cardinal de' Medici era molto isdegnato; ma pure io andai la notte seguente
senza saputa del Cornaro, benissimo accompagnato, a visitarlo; dipoi lo pregai
che mi facessi tanto di grazia di lasciarmi in casa del ditto Cornaro, e li
dissi la gran cortesia che Cornaro m'aveva usato; dove che, se Sua
Signoria reverendissima mi lasciava stare col ditto Cornaro, io verrei ad avere
un amico piú nelle mie necessitate; o pure che disponessi di me tutto quello
che piacessi a Sua Signoria. Il quale mi rispose, che io facessi quanto mi
pareva. Tornatomene a casa il Cornaro, ivi a pochi giorni fu fatto papa il
cardinal Farnese: e subito dato ordine alle cose di piú importanza, apresso il
Papa domandò di me, dicendo che non voleva che altri facessi le sue
monete, che io. A queste parole rispose a Sua Santità un certo
gentiluomo suo domestichissimo, il quale si chiamava messer Latino Iuvinale;
disse che io stavo fuggiasco per uno omicidio fatto in persona di un Pompeo
milanese, e aggiunse tutte le mie ragione molto favoritamente. Alle qual parole
il Papa disse: - Io non sapevo della morte di Pompeo, ma sí bene sapevo le
ragione di Benvenuto, sí che facciasigli subito un salvo condotto, con il quale
lui stia sicurissimo -. Era alla presenza un grande amico di quel Pompeo e
molto domestico del Papa, il quale si chiamava misser Ambruogio, ed era
milanese, e disse al Papa: - In e' primi dí del vostro papato non saria bene
far grazie di questa sorte -. Al quale il Papa voltosigli, gli disse: - Voi non
la sapete bene sí come me. Sappiate che gli uomini come Benvenuto, unici nella
lor professione, non hanno da essere ubrigati alla legge: or
maggiormente lui, che so quanta ragione e' gli ha -. E fattomi fare il salvo
condotto, subito lo cominciai a servire con grandissimo favore.
Lxxv. Mi venne a trovare quel Latino
Iuvinale detto, e mi commesse che io facessi le monete del Papa. Per la qual
cosa si destò tutti quei mia nimici: cominciorno a impedirmi,
che io non le facessi. Alla qual cosa il Papa, avvedutosi di tal cosa, gli
sgridò tutti, e volse che io le facessi. Cominciai a fare le stampe
degli scudi, innelle quali io feci un mezzo San Pagolo, con un motto di
lettere che diceva “Vas electionis”. Questa moneta piacque molto piú che
quelle di quelli che avevan fatto a mia concorrenza; di modo che il Papa disse
che altri non gli parlassi piú di monete, perché voleva che io fossi quello che
le facessi e no altri. Cosí francamente attendevo a lavorare; e quel messer
Latino Iuvinale m'introduceva al Papa, perché il Papa gli aveva dato questa
cura. Io desideravo di riavere il moto proprio dell'uffizio dello stampatore
della zecca. A questo il Papa si lasciò consigliare, dicendo che prima
bisognava che avessi la grazia dell'omicidio, la quale io riarei per le Sante
Marie di Agosto per ordine de' caporioni di Roma, che cosí si
usa ogni anno per questa solenne festa donare a questi caporioni dodici
sbanditi; intanto mi si farebbe un altro salvo condotto, per il quale io
potessi star sicuro per insino al ditto tempo. Veduto questi mia nimici che non
potevano ottenere per via nessuna impedirmi la zecca, presono un altro
espediente. Avendo il Pompeo morto lasciato tremila ducati di dota a una sua
figliuolina bastarda, feciono che un certo favorito del signor Pier Luigi,
flgliuol del Papa, la chiedessi per moglie per mezzo del detto Signore: cosí fu
fatto. Questo ditto favorito era un villanetto allevato dal ditto Signore, e
per quel che si disse allui toccò pochi di cotesti dinari, perché il
ditto Signore vi messe su le mane, e se ne volse servire. Ma perché piú volte
questo marito di questa fanciulletta, per compiacere alla sua moglie, aveva
pregato il Signore ditto che mi facessi pigliare, il quale Signore aveva
promisso di farlo come ei vedessi abbassato un poco il favore che io avevo col
Papa; stando cosí in circa a dua mesi, perché quel suo servitore cercava di
avere la sua dota, el Signore non gli rispondendo a proposito, ma faceva
intendere alla moglie che farebbe le vendette del padre a ogni modo. Con tutto
che io ne sapevo qualche cosa, e appresentatomi piú volte al ditto Signore,
il quale mostrava di farmi grandissimi favori; dalla altra banda aveva ordinato
una delle due vie, o di farmi ammazzare o di farmi pigliare dal bargello.
Commesse a un certo diavoletto di un suo soldato còrso, che la facessi
piú netta che poteva: e quelli altri mia nimici, massimo messer Traiano, aveva
promesso di fare un presente di cento scudi a questo corsetto; il quale disse
che la farebbe cosí facile come bere uno vuovo fresco. Io, che tal cosa intesi,
andavo con gli occhi aperti e con buona compagnia e benissimo armato con giaco
e con maniche, che tanto avevo aùto licenzia. Questo ditto
corsetto per avarizia pensando guadagnare quelli dinari tutti a man salva,
credette tale inpresa poterla fare da per se solo; in modo che un
giorno, doppo desinare, mi feciono chiamare da parte del signor Pier Luigi;
onde io subito andai, perché il Signore mi aveva ragionato di voler fare
parecchi vasi grandi di argento. Partitomi di casa in fretta, pure con le mie
solite armadure, me ne andavo presto per istrada Iulia, pensando di non trovar
persona in su quell'ora. Quando io fui su alto di strada Iulia per voltare al
palazzo del Farnese, essendo il mio uso di voltar largo ai canti, viddi quel
corsetto già ditto, levarsi da sedere e arrivare al mezzo della strada:
di modo che io non mi sconciai di nulla, ma stavo in ordine per difendermi; e
allentato il passo alquanto, mi accostai al muro per dare larga istrada al
ditto corsetto. Anche lui accostatosi al muro, e di già appressatici
bene, cognosciuto ispresso per le sue dimostrazione che lui aveva
voluntà di farmi dispiacere, e vedutomi solo a quel modo, pensò
che la gli riuscissi; in modo che io cominciai a parlare e dissi: - Valoroso
soldato, se e' fossi di notte, voi potresti dire di avermi preso in iscambio;
ma perché gli è di giorno, benissimo cognoscete chi io sono, il quale
non ebbi mai che fare con voi, e mai non vi feci dispiacere; ma io sarei bene
atto a farvi piacere -. A queste parole lui in atto bravo, non mi si levando
dinanzi, mi disse che non sapeva quello che io mi dicevo. Allora io dissi: - Io
so benissimo quello che voi volete, e quel che voi dite; ma quella impresa che
voi avete presa a fare è piú difficile e pericolosa, che voi non
pensate, e tal volta potrebbe andare a rovescio; e ricordatevi che voi avete a
fare con uno uomo il quale si difenderebbe da cento. E non è impresa
onorata da valorosi uomini, qual voi siete, questa -. Intanto ancora io stavo
in cagnesco, canbiato il colore l'uno e l'altro. Intanto era comparso populi,
che di già avevano conosciuto che le nostre parole erano di ferro;
che non gli essendo bastato la vista a manomettermi, disse: - Altra
volta ci rivedremo -. Al quale io dissi: - Io sempre mi riveggo con gli uomini
da bene, e con quelli che fanno ritratto tale -. Partitomi, andai a casa il
Signore, il quale non aveva mandato per me. Tornatomi alla mia bottega, il
detto corsetto per un suo grandissimo amico e mio mi fece intendere, che io non
mi guardassi piú da lui, che mi voleva essere buono fratello; ma che io mi
guardassi bene da altri, perché io portavo grandissimo pericolo; ché
uomini di molta importanza mi avevano giurato la morte adosso. Mandatolo a
ringraziare, mi guardavo il meglio che io potevo. Non molti giorni apresso mi
fu detto da un mio grande amico, che 'l signor Pier Luigi aveva dato espressa
commessione che io fussi preso la sera. Questo mi fu detto a venti ore; per la
qual cosa io ne parlai con alcuni mia amici, e' quali mi confortorno che
io subito me ne andassi. E perché la commessione era data per a una ora di
notte, a ventitré ore io montai in su le poste, e me ne corsi a Firenze:
perché da poi che quel corsetto non gli era bastato l'animo di far la impresa
che lui promesse, il signor Pier Luigi di sua propria autorità aveva
dato ordine che io fussi preso, solo per racchetare un poco quella figliuola di
Pompeo, la quale voleva sapere in che luogo era la sua dota. Non la potendo
contentare della vendetta in nissuno de' dua modi che lui aveva ordinato, ne
pensò un altro, il quale lo diremo al suo luogo.
Lxxvi. Io giunsi a Firenze, e feci motto
al duca Lessandro, il quale mi fece maravigliose carezze, e mi ricercò
che io mi dovessi restar seco. E perché in Firenze era un certo scultore
chiamato il Tribolino, ed era mio compare, per avergli io battezzato un suo
figliuolo, ragionando seco, mi disse che uno Iacopo del Sansovino, già
primo suo maestro, lo aveva mandato a chiamare; e perché lui non aveva mai
veduto Vinezia, e per il guadagno che ne aspettava, ci andava molto volentieri;
e domandando me se io avevo mai veduto Vinezia, dissi che no; onde egli mi
pregò che io dovessi andar seco a spasso; al quale io promessi:
però risposi al duca Lessandro che volevo prima andare insino a Vinezia,
di poi tornerei volentieri a servirlo; e cosí volse che io gli promettessi, e
mi comandò che inanzi che io mi partissi io gli facessi motto. L'altro
dí appresso, essendomi messo in ordine, andai per pigliare licenza dal Duca; il
quale io trovai innel palazzo de' Pazzi, innel tempo che ivi era alloggiato la
moglie e le figliuole del signor Lorenzo Cibo. Fatto intendere a Sua
Eccellenzia come io volevo andare a Vinezia con la sua buona grazia,
tornò con la risposta Cosimino de' Medici, oggi Duca di Firenze, il
quale mi disse che io andassi a trovare Nicolò da Monte Aguto, e lui mi
darebbe cinquanta scudi d'oro, i quali danari mi donava la Eccellenzia del
Duca, che io me gli godessi per suo amore; di poi tornassi a servirlo. Ebbi li
danari da Nicolò, e andai a casa per il Tribolo, il quale era in
ordine; e mi disse se io avevo legato la spada. Io li dissi che chi era a
cavallo per andare in viaggio non doveva legar le spade. Disse che in Firenze
si usava cosí, perché v'era un certo ser Maurizio, che per ogni piccola cosa
arebbe dato della corda a San Giovanbatista; però bisognava portar le
spade legate per insino fuor della porta. Io me ne risi, e cosí ce ne andammo.
Accompagnammoci con il procaccia di Vinezia, il quale si chiamava per sopra
nome Lamentone: con esso andammo di compagnia, e passato Bologna una sera in
fra l'altre arrivammo a Ferrara; e quivi alloggiati a l'osteria di Piazza, il
detto Lamentone andò a trovare alcuno de' fuora usciti, a portar loro
lettere e imbasciate da parte della loro moglie: che cosí era di consentimento
del Duca, che solo il procaccio potessi parlar loro, e altri no, sotto pena
della medesima contumazia in che loro erano. In questo mezzo, per essere poco
piú di ventidua ore, noi ce ne andammo, il Tribulo e io, a veder tornare il
duca di Ferrara, il quale era ito a Belfiore a veder giostrare. Innel suo
ritorno noi scontrammo molti fuora usciti, e' quali ci guardavano fiso, quasi
isforzandoci di parlar con esso loro. Il Tribolo, che era il piú pauroso uomo
che io cognoscessi mai, non cessava di dirmi: - Non gli guardare e non parlare
con loro, se tu vuoi tornare a Firenze -. Cosí stemmo a veder tornare il Duca;
di poi tornaticene a l'osteria, ivi trovammo Lamentone. E fattosi vicina a
un'ora di notte, ivi comparse Nicolò Benintendi e Piero suo fratello, e
un altro vecchione, qual credo che fussi Iacopo Nardi, insieme con parecchi
altri giovani; e' quali subito giunti dimandavano il procaccia, ciascuno delle
sue brigate di Firenze: il Tribolo e io stavamo là discosto, per non
parlar con loro. Di poi che gl'ebbono ragionato un pezzo con Lamentone, quel
Nicolò Benintendi disse: - Io gli cognosco quei dua benissimo; perché
fann'eglino tante merde di non ci voler parlare? - Il Tribolo pur mi diceva che
io stessi cheto. Lamentone disse loro, che quella licenzia che era data allui,
non era data a noi. Il Benintendi aggiunse e disse che l'era una
asinità, mandandoci cancheri e mille belle cose. Allora io alzai la
testa con piú modestia che io potevo e sapevo, e dissi: - Cari gentiluomini,
voi ci potete nuocere assai, e noi a voi non possiamo giovar nulla; e con tutto
che voi ci abiate detto qualche parola la quale non ci si conviene, né anche
per questo non vogliamo essere adirati con esso voi -. Quel vecchione de' Nardi
disse che io avevo parlato da un giovane da bene, come io ero. Nicolò
Benintendi allora disse: - Io ho in culo loro e il Duca -. Io replicai, che con
noi egli aveva torto, che non avevàno che far nulla de' casi sua. Quel
vecchio de' Nardi la prese per noi, dicendo al Benintendi che gli aveva il
torto; onde lui pur continuava di dire parole ingiuriose. Per la qualcosa io li
dissi che io li direi e farei delle cose che gli dispiacerebbono; sí che
attendessi al fatto suo, e lasciassici stare. Rispose che aveva in culo il Duca
e noi di nuovo, e che noi e lui eramo un monte di asini. Alle qual parole mentitolo
per la gola, tirai fuora la spada; e 'l vecchio, che volse essere il
primo alla scala, pochi scaglioni in giú cadde, e loro tutti l'un sopra
l'altro addòssogli. Per la qual cosa, io saltato inanzi, menavo la spada
per le mura con grandissimo furore, dicendo: - Io vi ammazzerò tutti - e
benissimo avevo riguardo a non far lor male, che troppo ne arei potuto fare. A
questo romore l'oste gridava; Lamenton diceva - Non fate - alcuni di loro
dicevano - Oimè il capo! - altri - Lasciami uscir di qui -. Questa era
una bussa inistimabile: parevano un branco di porci: l'oste venne col lume; io
mi ritirai sú e rimessi la spada. Lamentone diceva a Nicolò Benintendi,
che gli aveva mal fatto; l'oste disse a Nicolò Benintendi: - E' ne va la
vita a metter mano per l'arme qui, e se il Duca sapessi queste vostre
insolenzie, vi farebbe appiccare per la gola; sí che io non vi voglio fare
quello che voi meriteresti; ma non mi ci capitate mai piú in questa osteria,
che guai a voi -. L'oste venne sú da me, e volendomi io scusare, non mi
lasciò dire nulla, dicendomi che sapeva che io avevo mille ragioni, e
che io mi guardassi bene innel viaggio da loro.
LXXVII. Cenato
che noi avemmo, comparse sú un barcheruolo per levarci per Vinezia; io
dimandai se lui mi voleva dare la barca libera: cosí fu contento, e di tanto
facemmo patto. La mattina a buonotta noi pigliammo i cavagli per
andare al porto, quale è non so che poche miglia lontano da
Ferrara; e giunto che noi fummo al porto, vi trovammo il fratello di
Nicolò Benintendi con tre altri compagni, i quali aspettavano che io
giugnessi: in fra loro era dua pezzi di arme in asta, e io avevo compro un bel
giannettone in Ferrara. Essendo anche benissimo armato, io non mi
sbigotti' punto, come fece il Tribolo che disse: - Idio ci aiuti: costor son
qui per ammazzarci -. Lamentone si volse a me e disse: - Il meglio che tu possa
fare si è tornartene a Ferrara, perché io veggo la cosa pericolosa. Di
grazia, Benvenuto mio, passa la furia di queste bestie arrabiate -.
Allora io dissi: - Andiàno inanzi, perché chi ha ragione Idio l'aiuta; e
voi vedrete come mi aiuterò da me. Quella barca non è ella
caparrata per noi? - Sí, - disse Lamentone. - E noi in quella staremo sanza
loro, per quanto potrà la virtú mia -. Spinsi inanzi il cavallo, e
quando fu presso a cinquanta passi, scavalcai e arditamente col mio giannettone
andavo innanzi. Il Tribolo s'era fermato indietro ed era rannicchiato in sul
cavallo, che pareva il freddo stesso; e Lamentone procaccio gonfiava e soffiava
che pareva un vento; che cosí era il suo modo di fare; ma piú lo faceva allora
che il solito, stando acconsiderare che fine avessi avere quella diavoleria.
Giunto alla barca, il barcheruolo mi si fece innanzi e mi disse, che quelli
parecchi gentiluomini fiorentini volevano entrare di compagnia nella barca, se
io me ne contentavo. Al quale io dissi: - La barca è caparrata per noi,
e non per altri, e m'incresce insino al cuore di non poter essere con loro -. A
queste parole un bravo giovane de' Magalotti disse: - Benvenuto, noi faremo che
tu potrai -. Allora io dissi: - Se Idio e la ragione che io ho insieme con le
forze mie, vorranno o potranno, voi non mi farete poter quel che voi dite -. E
con le parole insieme saltai nella barca. Volto lor la punta dell'arme, dissi:
- Con questa vi mostrerrò che io non posso -. Voluto fare un poco di
dimostrazione, messo mano all'arme e fattosi innanzi quel de' Magalotti,
io saltai in su l'orlo della barca, e tira'gli un cosí gran colpo, che se non
cadeva rovescio in terra, io lo passavo a banda a banda. Gli altri compagni,
scambio di aiutarlo, si ritirorno indietro: e veduto che io l'arei potuto
ammazzare, in cambio di dargli, io li dissi: - Levati su, fratello, e piglia le
tue arme e vattene; bene hai tu veduto che io non posso quel che io non voglio,
e quel che io potevo fare non ho voluto -. Di poi chiamai drento il Tribolo e
il barcheruolo e Lamentone; cosí ce ne andammo alla volta di Vinezia. Quando
noi fummo dieci miglia per il Po, quelli giovani erano montati in su una
fusoliera e ci raggiunsono; e quando a noi furno al dirimpetto, quello isciocco
di Pier Benintendi mi disse: - Vien pur via, Benvenuto, ché ci rivedremo in
Vinezia. - Avviatevi che io vengo - dissi - e per tutto mi lascio rivedere -.
Cosí arrivammo a Vinezia. Io presi parere da un fratello del cardinal Cornaro,
dicendo che mi facessi favore che io potessi aver l'arme, qual mi disse
che liberamente io la portassi, che il peggio che me ne andava si era perder la
spada.
Lxxviii. Cosí portando l'arme, andammo a
visitare Iacopo del Sansovino scultore, il quale aveva mandato per il Tribolo;
e a me fece gran carezze, e vuolseci dar desinare, e seco restammo. Parlando
col Tribolo, gli disse che non se ne voleva servire per allora, e che tornassi
un'altra volta. A queste parole io mi cacciai a ridere, e piacevolmente dissi
al Sansovino: - Gli è troppo discosto la casa vostra dalla sua, avendo a
tornare un'altra volta -. Il povero Tribolo sbigottito disse: - Io ho qui la
lettera, che voi mi avete scritta, che io venga -. A questo disse il Sansovino,
che i sua pari, uomini da bene e virtuosi, potevan fare quello e maggior cosa.
Il Tribolo si ristrinse nelle spalle e disse - Pazienzia - parecchi volte. A
questo, non guardando al desinare abundante che mi aveva dato il Sansovino,
presi la parte del mio compagno Tribolo, che aveva ragione. E perché a quella
mensa il Sansovino non aveva mai restato di cicalare delle sue gran pruove,
dicendo mal di Michelagnolo e di tutti quelli che facevano tal arte, solo
lodando se istesso a maraviglia; questa cosa mi era venuta tanto a noia, che io
non avevo mangiato boccon che mi fussi piaciuto, e solo dissi queste dua
parole: - O messer Iacopo, li uomini da bene fanno le cose da uomini da bene, e
quelli virtuosi, che fanno le belle opere e buone, si cognoscono molto meglio
quando sono lodati da altri, che a lodarsi cosí sicuramente da per loro
medesimi -. A queste parole e lui e noi ci levammo da tavola bofonchiando. Quel
giorno medesimo, trovandomi per Venezia presso al Rialto, mi scontrai in Piero
Benintendi, il quale era con parecchi; e avedutomi che loro cercavano di farmi
dispiacere, mi ritirai inn'una bottega d'uno speziale, tanto che io lasciai
passare quella furia. Dipoi io intesi che quel giovane de' Magalotti, a chi io
avevo usato cortesia, molto gli aveva sgridati; e cosí si passò.
LXXIX. Da poi pochi giorni appresso ce ne
ritornammo alla volta di Firenze; ed essendo alloggiati a un certo luogo, il
quale è di qua da Chioggia in su la man manca venendo inverso Ferrara,
l'oste volse essere pagato a suo modo innanzi che noi andassimo a dormire; e
dicendogli che innegli altri luoghi si usava di pagare la mattina, ci disse: -
Io voglio esser pagato la sera, e a mio modo -. Dissi, a quelle parole, che gli
uomini che volevan fare a lor modo, bisognava che si facessino un mondo a lor
modo, perché in questo non si usava cosí. L'oste rispose che io non gli
affastidissi il cervello, perché voleva fare a quel modo. Il Tribolo tremava di
paura, e mi punzecchiava che io stessi cheto, acciò che loro non
ci facessino peggio: cosí lo pagammo a lor modo; poi ce ne andammo a dormire.
Avemmo di buono bellissimi letti, nuovi ogni cosa e veramente puliti: con tutto
questo io non dormi' mai, pensando tutta quella notte in che modo io avevo da
fare a vendicarmi. Una volta mi veniva in pensiero di ficcargli fuogo in casa;
un'altra di scannargli quattro cavagli buoni, che gli aveva nella stalla; tutto
vedevo che m'era facile il farlo, ma non vedevo già l'esser facile il
salvare me e il mio compagno. Presi per ultimo spediente di mettere le robe e'
compagni innella barca, e cosí feci: e attaccato i cavalli all'alzana, che
tiravano la barca, dissi che non movessino la barca in sino che io ritornassi,
perché avevo lasciato un paro di mia pianelle nel luogo dove io avevo dormito.
Cosí tornato ne l'osteria domandai l'oste; il qual mi rispose che non aveva che
far di noi, e che noi andassimo al bordello. Quivi era un suo fanciullaccio
ragazzo di stalla, tutto sonnachioso, il quale mi disse: - L'oste non si
moverebbe per il Papa, perché e' dorme seco una certa poltroncella che lui ha
bramato assai - e chiesemi la bene andata; onde io li detti parecchi di quelle
piccole monete veniziane, e li dissi che trattenessi un poco quello che tirava
l'alzana, insinché io cercassi delle mie pianelle e ivi tornassi. Andatomene
su, presi un coltelletto che radeva, e quattro letti che v'era, tutti gli
tritai con quel coltello; in modo che io cognobbi aver fatto un danno di piú di
cinquanta scudi. E tornato alla barca con certi pezzuoli di quelle sarge nella mia
saccoccia, con fretta dissi al guidatore dell'alzana che prestamente parassi
via. Scostatici un poco dalla osteria, el mio compar Tribolo disse che aveva
lasciato certe coreggine che legavano la sua valigetta, e che voleva tornare
per esse a ogni modo. Alla qual cosa io dissi che non la guardassi in dua
coreggie piccine, perché io gnene farei delle grande quante egli vorrebbe. Lui
mi disse io ero sempre in su la burla, ma che voleva tornare per le sue
coreggie a ogni modo; e faccendo forza all'alzana che e' fermassi, e io dicevo
che parassi innanzi, in mentre gli dissi il gran danno che io avevo
fatto a l'oste: e mostratogli il saggio di certi pezzuoli di sarge e altro, gli
entrò un triemito addosso sí grande, che egli non cessava di dire
all'alzana: - Para via, para via presto - e mai si tenne sicuro di questo
pericolo, per insino che noi fummo ritornati alle porte di Firenze. Alle quali
giunti, il Tribolo disse: - Leghiamo le spade per l'amor de Dio, e non me ne
fate piú; ché sempre m'è parso avere le budella 'n un catino -. Al
quale io dissi: - Compar mio Tribolo, a voi non accade legare la spada, perché
voi non l'avete mai isciolta, - e questo io lo dissi accaso, per non gli avere
mai veduto fare segno di uomo in quel viaggio. Alla quale cosa lui guardatosi
la spada, disse: - Per Dio che voi dite il vero, che la sta legata in quel modo
che io l'acconciai innanzi che io uscissi di casa mia -. A questo mio compare
gli pareva che io gli avessi fatto una mala compagnia, per essermi risentito e
difeso contra quelli che ci avevano voluto fare dispiacere; e a me pareva che
lui l'avessi fatta molto piú cattiva a me, a non si mettere a 'iutarmi in cotai
bisogni. Questo lo giudichi chi è da canto sanza passione.
LXXX. Scavalcato
che io fui, subito andai a trovare il duca Lessandro e molto lo ringraziai del
presente de' cinquanta scudi, dicendo a Sua Eccellenzia che io ero paratissimo
a tutto quello che io fussi buono a servire Sua Eccellenzia. Il quale subito
m'impose che io facessi le stampe delle sue monete: e la prima che io feci si
fu una moneta di quaranta soldi, con la testa di Sua Eccellenzia da una banda e
dall'altra un San Cosimo e un San Damiano. Queste furono monete d'argento, e
piacquono tanto, che il Duca ardiva di dire che quelle erano le piú belle monete
di Cristianità. Cosí diceva tutto Firenze, e ogniuno che le vedeva. Per
la qual cosa chiesi a Sua Eccellenzia che mi fermassi una provvisione, e che mi
facessi consegnare le stanze della zecca; il quale mi disse che io attendessi a
servirlo, e che lui mi darebbe molto piú di quello che io gli domandavo; e
intanto mi disse che aveva dato commessione al maestro della zecca, il quale
era un certo Carlo Acciaiuoli, e allui andassi per tutti li dinari che io
volevo: e cosí trovai esser vero: ma io levavo tanto assegnatamente li danari,
che sempre restavo a' vere qualche cosa, sicondo il mio conto. Di nuovo feci le
stampe per il giulio, quale era un San Giovanni in profilo assedere con un
libro in mano, che a me non parve mai aver fatto opera cosí bella; e dall'altra
banda era l'arme del ditto duca Lessandro. A presso a questa io feci la stampa
per i mezzi giuli, innella quale io vi feci una testa in faccia di un San
Giovannino. Questa fu la prima moneta con la testa in faccia in tanta
sottigliezza di argento, che mai si facessi; e questa tale dificultà non
apparisce, se none agli occhi di quelli che sono eccellenti in cotal
professione. Appresso a questa io feci le stampe per li scudi d'oro; innella
quale era una croce da una banda con certi piccoli cherubini, e dall'altra
banda si era l'arme di Sua Eccellenzia. Fatto che io ebbi queste quattro sorte
di monete, io pregai Sua Eccellenzia che terminassi la mia provisione, e mi
consegnassi le sopraditte stanze, se a quella piaceva il mio servizio: alle
qual parole Sua Eccellenzia mi disse benignamente che era molto contenta, e che
darebbe cotai ordini. Mentre che io gli parlavo, Sua Eccellenzia era innella
sua guardaroba e considerava un mirabile scoppietto, che gli era stato mandato
della Alamagna: il quale bello strumento, vedutomi che io con grande attenzione
lo guardavo, me lo porse in mano, dicendomi che sapeva benissimo quanto io di
tal cosa mi dilettavo, e che per arra di quello che lui mi aveva promesso, io
mi pigliassi della sua guardaroba uno archibuso a mio modo, da quello in fuora,
che ben sapeva che ivi n'era molti de' piú belli e cosí buoni. Alle qual parole
io accettai e ringraziai; e vedutomi dare alla cerca con gli occhi, commise al
suo guardaroba, che era un certo Pretino da Lucca, che mi lasciassi pigliare
tutto quello che io volevo. E partitosi con piacevolissime parole, io mi
restai, e scelsi il piú bello e il migliore archibuso che io vedessi mai, e che
io avessi mai, e questo me lo portai a casa. Dua giorni di poi io gli portai
certi disegnetti che Sua Eccellenzia mi aveva domandato per fare alcune opere
d'oro, le quali voleva mandare a donare alla sua moglie, che per
ancora era in Napoli. Di nuovo io gli domandai la medesima mia faccenda, che e'
me la spedissi. Allora Sua Eccellenzia mi disse, che voleva in prima che io gli
facessi le stampe di un suo bel ritratto, come io aveva fatto a papa Clemente.
Cominciai il ditto ritratto di cera; per la qual cosa Sua Eccellenzia commisse,
che attutte l'ore che io andavo per ritrarlo, sempre fossi messo drento. Io che
vedevo che questa mia faccenda andava in lungo, chiamai un certo Pietro Pagolo
da Monte Ritondo, di quel di Roma, il quale era stato meco da piccol
fanciulletto in Roma; e trovatolo che gli stava con un certo Bernardonaccio
orafo, il quale non lo trattava molto bene, per la qual cosa io lo levai
dallui, e benissimo gl'insegnai mettere quei ferri per le monete; e intanto io
ritraevo il Duca: e molte volte lo trovavo a dormicchiare doppo desinare con
quel suo Lorenzino che poi l'ammazzò, e non altri; e io molto mi
maravigliavo che un Duca di quella sorte cosí si fidassi.
LXXXI.
Accadde che Ottaviano de' Medici, il quale pareva che governassi ogni cosa,
volendo favorire contra la voglia del Duca il maestro vecchio di zecca, che si
chiamava Bastiano Cennini, uomo all'anticaccia e di poco sapere, aveva
fatto mescolare nelle stampe degli scudi quei sua goffi ferri con i mia; per la
qual cosa io me ne dolsi col Duca; il quale, veduto il vero, lo ebbe
molto per male, e mi disse: - Va, dillo a Ottaviano de' Medici, e mostragnene
-. Onde io subito andai; e mostratogli la ingiuria che era fatto alle mie belle
monete, lui mi disse asinescamente: - Cosí ci piace di fare -. Al quale io
risposi, che cosí non era il dovere, e non piaceva a me. Lui disse: - E se cosí
piacessi al Duca?- Io gli risposi: - Non piacerebbe a me; ché non è
giusto né ragionevole una tal cosa -. Disse che io me gli levassi dinanzi, e
che a quel modo la mangerei, se io crepassi. Ritornatomene dal Duca, gli narrai
tutto quello che noi avevamo dispiacevolmente discorso, Ottaviano de' Medici e
io; per la qual cosa io pregavo Sua Eccellenzia che non lasciassi far torto
alle belle monete che io gli avevo fatto, e a me dessi buona licenzia. Allora
e' disse: - Ottaviano ne vuol troppo; e tu arai ciò che tu vorrai;
perché cotesta è una ingiuria che si fa a me -. Questo giorno medesimo,
che era un giovedí, mi venne di Roma uno amplio salvo condotto dal Papa,
dicendomi che io andassi presto per la grazia delle Sante Marie di mezzo
agosto, acciò che io potessi liberarmi di quel sospetto de l'omicidio
fatto. Andatomene dal Duca, lo trovai nel letto, perché dicevano che egli aveva
disordinato; e finito in poco piú di dua ore quello che mi bisognava alla sua
medaglia di cera, mostrandognene finita, li piacque assai. Allora io mostrai a
Sua Eccellenzia il salvo condotto aùto per ordine del Papa, e come il
Papa mi richiedeva che io gli facessi certe opere; per questo andrei a
riguadagnare quella bella città di Roma, e intanto lo servirei della sua
medaglia. A questo il Duca disse mezzo in còllora: - Benvenuto, fa' a
mio modo, non ti partire; perché io ti risolverò la provvisione, e ti
darò le stanze in zecca con molto piú di quello che tu non mi sapresti
domandare, perché tu mi domandi quello che è giusto e ragionevole: e chi
vorrestú che mi mettessi le mia belle stampe che tu m'hai fatte? - Allora io
dissi: - Signore, e' s'è pensato a ogni cosa, perché io ho qui un mio
discepolo, il quale è un giovane romano, a chi io ho insegnato, che
servirà benissimo la Eccellenzia Vostra per insino che io ritorno con la
sua medaglia finita a starmi poi seco sempre. E perché io ho in Roma la mia
bottega aperta con lavoranti e alcune faccende, aùto che io ho la
grazia, lasserò tutta la divozione di Roma a un mio allevato che
è là, e di poi con la buona grazia di Vostra Eccellenzia me ne
tornerò a lei -. A queste cose era presente quello Lorenzino sopraddetto
de' Medici e non altri: il Duca parecchi volte l'accennò che ancora lui
mi dovessi confortare a fermarmi; per la qual cosa il ditto Lorenzino non disse
mai altro, se none: - Benvenuto, tu faresti il tuo meglio a restare -. Al quale
io dissi che io volevo riguadagnare Roma a ogni modo. Costui non disse altro, e
stava continuamente guardando il Duca con un malissimo occhio. Io, avendo
finito a mio modo la medaglia e avendola serrata nel suo cassettino, dissi al
Duca: - Signore, state di buona voglia, che io vi farò molto piú bella
medaglia che io non feci a papa Clemente: ché la ragion vuole che io faccia
meglio, essendo quella la prima che io facessi mai; e messer Lorenzo qui mi
darà qualche bellissimo rovescio, come persona dotta e di grandissimo
ingegno -. A queste parole il ditto Lorenzo subito rispose dicendo: - Io non
pensavo a altro, se none a darti un rovescio che fussi degno di Sua Eccellenzia
-. El Duca sogghignò, e guardato Lorenzo, disse: - Lorenzo, voi
gli darete il rovescio, e lui lo farà qui, e non si partirà -.
Presto rispose Lorenzo, dicendo: - Io lo farò il piú presto ch'io posso,
e spero far cosa da far maravigliare il mondo -. Il Duca, che lo teneva quando
per pazzericcio e quando per poltrone, si voltolò nel letto e si rise
delle parole che gli aveva detto. Io mi parti' sanza altre cirimonie di
licenzia, e gli lasciai insieme soli. Il Duca, che non credette che io me ne
andassi, non mi disse altro. Quando e' seppe poi che io m'ero partito, mi
mandò drieto un suo servitore, il quale mi raggiunse a Siena, e mi dette
cinquanta ducati d'oro da parte del Duca, dicendomi che io me gli godessi per
suo amore, e tornassi piú presto che io potevo. - E da parte di messer
Lorenzo ti dico, che lui ti mette in ordine un rovescio maraviglioso per quella
medaglia che tu vuoi fare -. Io avevo lasciato tutto l'ordine a Pietropagolo
romano sopraditto in che modo egli avev'a mettere le stampe; ma perché l'era
cosa difficilissima, egli non le misse mai troppo bene. Restai creditore della
zecca, di fatture di mie ferri, di piú di settanta scudi.
LXXXII. Me ne
andai a Roma, e meco ne portai quel bellissimo archibuso a ruota che
mi aveva donato il Duca, e con grandissimo mio piacere molte volte lo adoperai
per via, faccendo con esso pruove inistimabile. Giunsi a Roma; e perché io
tenevo una casetta in istrada Iulia, la quale non essendo in ordine, io
andai a scavalcare a casa di messer Giovanni Gaddi cherico di Camera, al quale
io avevo lasciato in guardia al mio partir di Roma molte mie belle arme e molte
altre cose che io avevo molte care. Però io non volsi scavalcare alla
bottega mia; e mandai per quel Filice mio compagno, e fècesi mettere in
ordine subito quella mia casina benissimo. Dipoi l'altro giorno vi andai a
dormir drento, per essermi molto bene messo in ordine di panni e di tutto
quello che mi faceva mestiero, volendo la mattina seguente andare a visitare il
Papa per ringraziarlo. Avevo dua servitori fanciulletti, e sotto alla casa mia
ci era una lavandara, la quale pulitissimamente mi cucinava. Avendo la sera
dato cena a parecchi mia amici, con grandissimo piacere passato quella cena, me
ne andai a dormire; e non fu sí tosto apena passato la notte, che la mattina
piú d'un'ora avanti il giorno io senti' con grandissimo furore battere la porta
della casa mia, ché l'un colpo non aspettava l'altro. Per la qual cosa io
chiamai quel mio servitor maggiore, che aveva nome Cencio: era quello che io
menai nel cerchio di negromanzia: dissi che andassi a vedere chi era quel pazzo
che a quell'ora cosí bestialmente picchiava. In mentre che Cencio andava, io
acceso un altro lume, che continuamente uno sempre ne tengo la notte, subito mi
missi adosso sopra la camicia una mirabil camicia di maglia, e sopra essa un
poco di vestaccia a caso. Tornato Cencio, disse: - Oimè! padrone mio,
egli è il bargello con tutta la corte, e dice, che se voi non fate
presto, che getterà l'uscio in terra; e hanno torchi e mille cose
con loro -. Al quale io dissi: - Di' loro che io mi metto un poco di vestaccia
addosso, e cosí in camicia ne vengo -. Immaginatomi che e' fussi uno
assassinamento, sí come già fattomi dal signor Pierluigi, con la mano
destra presi una mirabil daga che io avevo, con la sinistra il salvo condotto;
di poi corsi alla finestra di drieto, che rispondeva sopra certi orti, e quivi
viddi piú di trenta birri: per la qual cosa io cognobbi da quella banda non
poter fuggire. Messomi que' dua fanciulletti inanzi, dissi loro, che aprissino
la porta quando io lo direi loro apunto. Messomi in ordine, la daga nella ritta
e 'l salvo condotto nella manca, in atto veramente di difesa, dissi a que' dua
fanciulletti: - Non abbiate paura, aprite -. Saltato subito Vittorio bargello
con du' altri drento, pensando facilmente di poter mettermi le mani addosso,
vedutomi in quel modo in ordine, si ritirorno indrieto e dissono: - Qui bisogna
altro che baie -. Allora io dissi, gittato loro il salvo condotto: -
Leggete quello e, non mi possendo pigliare, manco voglio che mi tocchiate -. Il
bargello allora disse a parecchi di quelli, che mi pigliassimo, e che il salvo
condotto si vedria da poi. A questo, ardito spinsi inanzi l'arme e dissi: -
Idio sia per la ragione; o vivo fuggo, o morto preso -. La stanza si era
istretta: lor fecion segno di venire a me con forza, e io grande atto di
difesa; per la qual cosa il bargello cognobbe di non mi poter avere in altro
modo che quel che io avevo detto. Chiamato il cancelliere, in mentre che faceva
leggere il salvo condotto, fece segno dua o tre volte di farmi mettere le mani
adosso; onde io non mi mossi mai da quella resoluzione fatta. Toltosi dalla
impresa, mi gittorno il salvo condotto in terra, e senza me se ne andarono.
LXXXIII. Tornatomi
a riposare, mi senti' forte travagliato, né mai possetti rappiccar sonno. Avevo
fatto proposito che, come gli era giorno, di farmi trar sangue; però ne
presi consiglio da misser Giovanni Gaddi, e lui da un suo mediconzolo, il quale
mi domandò se io avevo aùto paura. Or cognoscete voi che giudizio
di medico fu questo, avendogli conto un caso sí grande, e lui farmi una tal
dimanda! Questo era un certo civettino, che rideva quasi continuamente e di
nonnulla; e in quel modo ridendo, mi disse che io pigliassi un buon bicchier di
vin greco, e che io attendessi a stare allegro e non aver paura. Messer
Giovanni pur diceva: - Maestro, chi fussi di bronzo o di marmo a questi
casi tali arebbe paura; or maggiormente uno uomo -. A questo quel mediconzolino
disse: - Monsignore, noi non siamo tutti fatti a un modo: questo non è
uomo né di bronzo né di marmo, ma è di ferro stietto - e messomi le mane
al polso, con quelle sua sproposite risa, disse a messer Giovanni: - Or
toccate qui; questo non è polso di uomo, ma è d'un leone o d'un
dragone - onde io, che avevo il polso forte alterato, forse fuor di quella
misura che quel medico babbuasso non aveva imparata né da Ipocrate né da
Galeno, sentivo ben io il mio male, ma per non mi far piú paura né piú danno di
quello che aùto io avevo, mi dimostravo di buono animo. In questo tanto
il ditto messer Giovanni fece mettere in ordine da desinare, e tutti di
compagnia mangiammo: la quale era, insieme con il ditto messer Giovanni, un
certo misser Lodovico da Fano, messer Antonio Allegretti, messer Giovanni
Greco, tutte persone litteratissime, messer Annibal Caro, quale era molto
giovane; né mai si ragionò d'altro a quel desinare, che di questa brava
faccenda. E piú la facevan contare a quel Cencio, mio servitorino, il quale era
oltramodo ingegnoso, ardito e bellissimo di corpo: il che tutte le volte che
lui contava questa mia arrabbiata faccenda, facendo l'attitudine che io faceva,
e benissimo dicendo le parole ancora che io dette aveva, sempre mi sovveniva
qualcosa di nuovo; e spesso loro lo domandavano se egli aveva
aùto paura: alle qual parole lui rispondeva, che dimandassino me se io
avevo aùto paura; perché lui aveva aùto quel medesimo che avevo
aùto io. Venutomi a noia questa pappolata, e perché io mi sentivo
alterato forte, mi levai da tavola, dicendo che io volevo andare a vestirmi di
nuovo di panni e seta azzurri, lui e io; che volevo andare in processione ivi a
quattro giorni, che veniva le Sante Marie, e volevo il ditto Cencio mi portassi
il torchio bianco acceso. Cosí partitomi andai a tagliare e' panni
azzurri con una bella vestetta di ermisino pure azzurro e un saietto del
simile; e allui feci un saio e una vesta di taffettà, pure azzurro.
Tagliato che io ebbi le ditte cose, io me ne andai dal Papa; il quale mi disse
che io parlassi col suo messer Ambruogio; che aveva dato ordine che io facessi
una grande opera d'oro. Cosí andai a trovare misser Ambruogio; il quale era
informato benissimo della cosa del bargello, e era stato lui d'accordo con i
nimici mia per farmi tornare, e aveva isgridato il bargello che non mi aveva
preso; il qual si scusava, che contra a uno salvo condotto a quel modo lui non
lo poteva fare. Il ditto messer Ambruogio mi cominciò a ragionare della
faccenda che gli aveva commesso il Papa; di poi mi disse che io ne facessi i
disegni e che si darebbe a ogni cosa. Intanto ne venne il giorno delle Sante
Marie; e perché l'usanza si è, quelli che hanno queste cotai grazie, di
costituirsi in prigione; per la qual cosa io mi ritornai al Papa e dissi a Sua
Santità, che io non mi volevo mettere in prigione e che io pregavo
quella, che mi facessi tanto di grazia, che io non andassi prigione. Il Papa mi
rispose che cosí era l'usanza, e cosí si facessi. A questo io m'inginocchiai di
nuovo, e lo ringraziai del salvo condotto che Sua Santità mi aveva
fatto; e che con quello me ne ritornerei a servire il mio Duca di Firenze, che
con tanto desiderio mi aspettava. A queste parole il Papa si volse a un suo
fidato e disse: - Faccisi a Benvenuto la grazia senza il carcere; cosí
se gli acconci il suo moto propio, che stia bene -. Fattosi acconciare il moto
propio, il Papa lo risegnò: fecesi registrare al Campidoglio; di poi,
quel deputato giorno, in mezzo a dua gentiluomini molto onoratamente andai in
processione, ed ebbi la intera grazia.
LXXXIV. Dappoi quattro giorni appresso, mi prese
una grandissima febbre con freddo inistimabile: e postomi a letto, subito mi
giudicai mortale. Feci chiamare i primi medici di Roma, in fra i quali si era
un maestro Francesco da Norcia, medico vecchissimo e di maggior credito
che avessi Roma. Contai alli detti medici quale io pensavo che fussi stata la
causa del mio gran male, e che io mi sarei voluto trar sangue, ma io fui
consigliato di no; e se io fussi a tempo, li pregavo che me ne traessino.
Maestro Francesco rispose, che il trarre sangue ora non era bene, ma allora sí,
che non arei aùto un male al mondo; ora bisognava medicarmi per un'altra
via. Cosí messono mano a medicarmi con quanta diligenzia e' potevano e sapevano
al mondo; e io ogni dí peggioravo a furia, in modo che in capo di otto giorni
il mal crebbe tanto, che li medici disperati della impresa detton commessione
che io fussi contento e mi fussi dato tutto quello che io domandavo. Maestro
Francesco disse: - Insinché v'è fiato, chiamatemi a tutte l'ore, perché
non si può immaginare quel che la natura sa fare in un giovane di questa
sorte; però, avvenga che lui svenissi, fategli questi cinque rimedi l'un
dietro all'altro, e mandate per me, che io verrò a ogni ora della notte;
che piú grato mi sarebbe di campar costui, che qualsivoglia cardinal di Roma -.
Ogni dí mi veniva a visitare dua o tre volte messer Giovanni Gaddi, e ogni
voIta pigliava in mano di quei miei belli scoppietti e mie maglie e mie spade,
e continuamente diceva: - Questa cosa è bella, e quest'altra è
piú bella - cosí di mia altri modelletti e coselline: di modo che io me l'avevo
recato a noia. E con esso veniva un certo Mattio Franzesi, il quale
pareva che gli paressi mill'anni ancora allui io mi morissi; non perché allui
avessi a toccar nulla del mio, ma pareva che lui desiderassi quel che misser
Giovanni mostrava aver gran voglia. Io avevo quel Filice già detto mio
compagno, il quale mi dava il maggiore aiuto che mai al mondo potessi dare uno
uomo a un altro. La natura era debilitata e avvilita a fatto; e non mi era
restato tanta virtú che, uscito il fiato, io lo potessi ripigliare; ma sí bene
la saldezza del cervello istava forte, come la faceva quando io non avevo male.
Imperò stando cosí in cervello, mi veniva a trovare alletto un
vecchio terribile, il quale mi voleva istrascicare per forza drento in una sua
barca grandissima; per la qual cosa io chiamavo quel mio Felice, che si
accostassi a me, e che cacciassi via quel vecchio ribaldo. Quel Felice, che mi
era amorevolissimo, correva piagnendo e diceva: - Tira via, vecchio traditore,
che mi vuoi rubare ogni mio bene -. Messer Giovanni Gaddi allora, ch'era quivi
alla presenza, diceva; - Il poverino farnetica, e ce n'è per poche ore
-. Quell'altro Mattio Franzesi diceva: - Gli ha letto Dante, e in questa grande
infermità gli è venuto quella vagillazione - e diceva cosí
ridendo: - Tira via, vecchio ribaldo, e non dare noia al nostro Benvenuto -.
Vedutomi schernire, io mi volsi a messer Giovanni Gaddi e allui dissi: - Caro
mio padrone, sappiate che io non farnetico, e che gli è il vero di
questo vecchio, che mi dà questa gran noia. Ma voi faresti bene il
meglio a levarmi dinanzi cotesto isciagurato di Mattio, che si ride del mio
male: e da poi che Vostra Signoria mi fa degno che io la vegga, doverresti
venirci con messer Antonio Allegretti o con messer Annibal Caro, o con di
quelli altri vostri virtuosi, i quali son persone d'altra discrezione e d'altro
ingegno, che non è cotesta bestia -. Allora messer Giovanni disse per motteggio
a quello Mattio, che si gli levassi dinanzi per sempre; ma perché Mattio
rise, il motteggio divenne da dovero, perché mai piú messer Giovanni non
lo volse vedere, e fece chiamare messer Antonio Allegretti, e messer Lodovico,
e messer Annibal Caro. Giunti che furono questi uomini da bene, io ne presi
grandissimo conforto, e con loro ragionai in cervello un pezzo, pur
sollecitando Felice che cacciassi via il vecchio. Misser Lodovico mi dimandava
quel che mi pareva vedere, e come gli era fatto. In mentre che io gnene
disegnavo con le parole bene, questo vecchio mi pigliava per un braccio, e per
forza mi tirava a sé; per la qual cosa io gridavo che mi aiutassino, perché
mi voleva gittar sotto coverta in quella sua spaventata barca. Ditto
quest'ultima parola, mi venne uno sfinimento grandissimo, e a me parve che mi
gettassi in quella barca. Dicono che allora in questo svenire, che io mi
scagliavo e che io dissi di male parole a messer Giovanni Gaddi, sí che veniva
per rubarmi e non per carità nessuna; e molte altre bruttissime parole,
le quale fecion vergognare il ditto messer Giovanni. Di poi dissono che io mi
fermai come morto; e soprastati piú d'un'ora, parendo loro che io mi freddassi,
per morto mi lasciorono. E ritornati a casa loro, lo seppe quel Mattio
Franzesi, il quale scrisse a Firenze a messer Benedetto Varchi mio
carissimo amico, che alle tante ore di notte lor mi avevano veduto morire. Per
la qual cosa quel gran virtuoso di messer Benedetto e mio amicissimo, sopra la
non vera ma sí ben creduta morte fece un mirabil sonetto, il quale si
metterà al suo luogo. Passò piú di tre grande ore prima che io mi
rinvenissi; e fatto tutti e' rimedi del sopraditto maestro Francesco, veduto
che io non mi risentivo, Felice mio carissimo si cacciò a correre a casa
maestro Francesco da Norcia, e tanto picchiò che egli lo svegliò
e fecelo levare, e piagnendo lo pregava che venissi a casa, che pensava che io
fossi morto. Al quale, maestro Francesco, che era collorosissimo, disse: -
Figlio, che pensi tu che io faccia a venirvi? se gli è morto, a me duol
egli piú che a tte; pensi tu che con la mia medicina, venendovi, io li possa
soffiare in culo e rendertelo vivo? - Veduto che 'l povero giovane se ne andava
piangendo, lo chiamò indietro e gli dette certo olio da ugnermi e' polsi
e il cuore, e che mi serrassino istrettissime le dita mignole dei piedi e delle
mane; e che se io rinvenivo, che subito lo mandassimo a chiamare. Partitosi
Felice, fece quanto maestro Francesco gli aveva detto; e essendo fatto quasi di
chiaro e parendo loro d'esser privi di speranza, dettono ordine a fare la vesta
e a lavarmi. In un tratto io mi risenti', e chiamai Felice, che presto presto
cacciassi via quel vecchio che mi dava noia. Il quale Felice volse mandare per
maestro Francesco, e io dissi che non mandassi e che venissi quivi da me,
perché quel vecchio subito si partiva e aveva paura di lui. Accostatosi Felice
a me, io lo toccavo e mi pareva che quel vecchio infuriato si scostassi;
però lo pregavo che stessi sempre da me. Comparso maestro Francesco,
disse che mi voleva campare a ogni modo, e che non aveva mai veduto maggior
virtú in un giovane, a' sua dí, di quella; e dato mano allo scrivere, mi fece
profumi, lavande, unzioni, impiastri e molte cose inistimabile. Intanto io mi
risenti' con piú di venti mignatte al culo, forato, legato e tutto
macinato. Essendo venuto molti mia amici a vedere il miracolo de il resuscitato
morto, era comparso uomini di grande importanza e assai; presente i quali io
dissi che quel poco de l'oro e de' danari, quali potevano essere in circa
ottocento scudi fra oro, argento, gioie e danari, questi volevo che fussino
della mia povera sorella che era a Firenze, quale aveva per nome monna
Liperata; tutto il restante della roba mia, tanto arme quanto ogni altra cosa,
volevo fussino del mio carissimo Filice, e cinquanta ducati d'oro piú,
acciò che lui si potessi vestire. A queste parole Filice mi si
gittò al collo, dicendo che non voleva nulla, altro che mi voleva vivo.
Allora io dissi: - Se tu mi vuoi vivo, toccami accotesto modo, e sgrida a
cotesto vecchio, che ha di te paura -. A queste parole v'era di quelli che
spaventavano, conosciuto che io non farneticavo, ma parlavo a
proposito e in cervello. Cosí andò faccendo il mio gran male, e
poco miglioravo. Maestro Francesco eccellentissimo veniva quattro volte o
cinque il giorno: misser Giovanni Gaddi, che s'era vergognato, non mi capitava
piú innanzi. Comparse il mio cognato, marito della ditta mia sorella: veniva di
Fiorenze per la eredità: e perché gli era molto uomo da bene, si
rallegrò assai l'avermi trovato vivo; il quale a me dette un conforto
inistimabile il vederlo, e subito mi fece carezze dicendo d'esser venuto solo
per governarmi di sua mano propria; e cosí fece parecchi giorni. Di poi io ne
lo mandai, avendo quasi sicura isperanza di salute. Allora lui lasciò il
sonetto di messer Benedetto Varchi, quale è questo:
IN LA CREDUTA
E NON VERA MORTE
DI BENVENUTO
CELLINI
Chi ne consolerà, Mattio? chi
fia
che ne vieti
il morir piangendo, poi
che pur
è vero, oimè, che sanza noi
cosí per
tempo al Ciel salita sia
quella chiara alma amica, in cui fioria
virtú cotal,
che fino a' tempi suoi
non vidde
equal, né vedrà, credo, poi
il mondo,
onde i miglior si fuggon pria?
Spirto gentil, se fuor del mortal velo
S'ama, mira dal
Ciel chi in terra amasti,
pianger non
già 'l tuo ben, ma 'l proprio male.
Tu ten sei gito a contemplar su 'n
Cielo
l'alto
Fattore, e vivo il vedi or quale
con le tue
dotte man quaggiú il formasti.
LXXXV. Era la
infirmità stata tanta inistimabile, che non pareva possibile di venirne
a fine; e quello uomo da bene di maestro Francesco da Norcia ci durava piú
fatica che mai, e ogni giorno mi portava nuovi rimedii, cercando di consolidare
il povero istemperato istrumento, e con tutte quelle inistimabil fatiche non
pareva che fussi possibile venire a capo di questa indegnazione, in modo che
tutti e' medici se ne erano quasi disperati e non sapevano piú che fare. Io,
che avevo una sete inistimabile, e mi ero riguardato, sí come loro mi avevano
ordinato, di molti giorni: e quel Felice, che gli pareva aver fatto una bella
impresa a camparmi, non si partiva mai da me; e quel vecchio non mi dava piú
tanta noia, ma in sogno qualche volta mi visitava. Un giorno Felice era andato
fuora, e a guardia mia era restato un mio fattorino e una serva, che si
chiamava Beatrice. Io dimandavo quel fattorino quel che era stato di quel
Cencio mio ragazzo e che voleva dire che io non lo avevo mai veduto a' mia
bisogni. Questo fattorino mi disse che Cencio aveva aùto assai maggior
male di me, e che gli stava in fine di morte. Felice aveva lor comandato che
non me lo dicessino. Detto che m'ebbe tal cosa io ne presi grandissimo
dispiacere: di poi chiamai quella serva detta Beatrice, pistolese, e la pregai
che mi portassi pieno d'acqua chiara e fresca uno infrescatoio grande di
cristallo, che ivi era vicino. Questa donna corse subito, e me lo portò
pieno. Io li dissi che me lo appoggiassi alla bocca e che se la me ne lasciava
bere una sorsata a mio modo, io li donerei una gammurra. Questa serva, che
m'aveva rubato certe cosette di qualche inportanza, per paura che non si
ritrovassi il furto, arebbe aùto molto a caro che io fussi morto; di
modo che la mi lasciò bere di quell'acqua per dua riprese quant'io potetti,
tanto che buonamente io ne bevvi piú d'un fiasco: di poi mi copersi e cominciai
a sudare e addormenta'mi. Tornato Felice di poi che io dovevo aver dormito in
circa a un'ora, dimandò il fanciullo quel che io facevo. Il fanciullo
gli disse: - Io non lo so: la Beatrice gli ha portato pieno quello infrescatoio
d'acqua, e l'ha quasi beuto tutto; io non so ora se s'è morto o vivo -.
Dicono che questo povero giovane fu per cadere in terra per il gran dispiacere
che gli ebbe; di poi prese un mal bastone, e con esso disperatamente bastonava
quella serva, dicendo: - Ohimè, traditora, che tu me l'hai morto! – In
mentre che Felice bastonava e lei gridava, e io sognavo; e mi pareva che quel
vecchio aveva delle corde in mano, e volendo dare ordine di legarmi, Felice l'aveva
sopraggiunto e gli dava con una scura, in modo che questo vecchio
fuggiva, dicendo: - Lasciami andare, che io non ci verrò di gran pezzo
-. Intanto la Beatrice gridando forte era corsa in camera mia; per la qual cosa
svegliatomi, dissi: - Lasciala stare, che forse per farmi male ella m'ha fatto
tanto bene, che tu non hai mai potuto, con tutte le tue fatiche, far nulla di
quel che l'ha fatto ogni cosa: attendetemi a 'iutare, che io son sudato;
e fate presto -. Riprese Filice animo, mi rasciugò e confortò: e
io, che senti' grandissimo miglioramento, mi promessi la salute. Comparso
maestro Francesco, veduto il gran miglioramento e la serva piagnere, e 'l
fattorino correre innanzi e 'ndrieto, e Filice ridere, questo scompiglio dette
da credere al medico che vi fussi stato qualche stravagante caso, per la qual
cosa fussi stato causa di quel mio gran miglioramento. Intanto comparse
quell'altro maestro Bernardino, che da principio non mi aveva voluto cavar
sangue. Maestro Francesco, valentissimo uomo, disse: - Oh potenzia della
natura! lei sa e' bisogni sua, e i medici non sanno nulla -. Subito rispose
quel cervellino di maestro Bernardino e disse: - Se e' ne beeva piú un fiasco,
e gli era subito guarito -. Maestro Francesco da Norcia, uomo vecchio e di grande
autorità, disse: - Egli era il malan che Dio vi dia -. E poi si volse a
me, e mi domandò se io ne arei potuto ber piú; al quale io dissi che no,
perché io m'ero cavato la sete a fatto. Allora lui si volse al ditto maestro
Bernardino e disse: - Vedete voi che la natura aveva preso a punto il suo
bisogno, e non piú e non manco? Cosí chiedev'ella il suo bisogno, quando il
povero giovane vi richiese di cavarsi sangue: se voi cognoscevi che la salute
sua fussi stata ora innel bere dua fiaschi d'acqua, perché non l'aver detto
prima? e voi ne aresti aùto il vanto -. A queste parole il mediconsolo
ingrognato si partí, e non vi capitò mai piú. Allora maestro Francesco
disse che io fussi cavato di quella camera, e che mi facessin portare inverso
un di quei colli di Roma. Il cardinal Cornaro, inteso il mio miglioramento, mi
fece portare a un suo luogo che gli aveva in Monte Cavallo: la sera medesima io
fui portato con gran diligenza in sur una sedia ben coperto e saldo. Giunto che
io fui, cominciai a vomitare; innel qual vomito mi uscí dello stomaco un verme
piloso, grande un quarto di braccio: e' peli erano grandi e il verme era
bruttissimo, macchiato di diversi colori, verdi, neri e rossi: serbossi al
medico; il quale disse non aver mai veduto una tal cosa, e poi disse, a Felice:
- Abbi or cura al tuo Benvenuto, che è guarito, e non gli lasciar far
disordini; perché se ben quello l'ha campato, un altro disordine ora te lo
amazzerebbe. Tu vedi, la infermità è stata sí grande, che
portandogli l'olio santo noi non eramo stati a tempo; ora io cognosco, che con
un poco di pazienzia e di tempo e' farà ancora dell'altre belle opere -.
Poi si volse a me, e disse: - Benvenuto mio, sia savio e non fare
disordini nessuno: e come tu se' guarito voglio che tu mi faccia una Nostra Donna
di tua mano, perché la voglio adorar sempre per tuo amore -. Allora io gnene
promessi; dipoi lo domandai se fussi bene che io mi trasferissi in sino a
Firenze. Allora e' mi disse che io mi assicurassi un po' meglio e che e' si
vedessi quel che la natura faceva.
Lxxxvi. Passato che noi otto giorni, il miglioramento era tanto poco,
che quasi io m'ero venuto a noia a me medesimo; perché io ero stato piú di
cinquanta giorni in quel gran travaglio; e resolutomi mi messi in ordine; e in
un paio di ceste 'il mio caro Felice e io ce ne andammo alla volta di Firenze;
e perché io non avevo scritto nulla, giunsi a Firenze in casa la mia sorella,
dove io fui pianto e riso a un colpo da essa sorella. Per quel dí mi venne a
vedere molti mia amici; fra gli altri Pier Landi, ch'era il maggior e il piú
caro che io avessi mai al mondo; l'altro giorno venne un certo Nicolò da
Monte Aguto, il quale era mio grandissimo amico; e perché gli aveva sentito
dire al Duca: - Benvenuto faceva molto meglio a morirsi, perché gli è
venuto qui a dare in una cavezza, e non gnene perdonerò mai - venendo
Nicolò a me, disperatamente mi disse: - Oimè, Benvenuto mio caro:
che se' tu venuto a far qui? non sapevi tu quel che tu hai fatto contro al
Duca? che gli ho udito giurare, dicendo che tu sei venuto a dare in una cavezza
a ogni modo -. Allora io dissi: - Nicolò, ricordate a Sua Eccellenzia
che altretanto già mi volse fare papa Clemente, e a sí torto; che faccia
tener conto di me e mi lasci guarire; per che io mostrerrò a Sua
Eccellenzia, che io gli sono stato il piú fidel servitore che gli arà
mai in tempo di sua vita; e perché qualche mio nimico arà fatto per
invidia questo cattivo uffizio, aspetti la mia sanità, che come io posso
gli renderò tal conto di me, che io lo farò maravigliare -. Questo
cattivo uffizio l'aveva fatto Giorgetto Vassellario aretino, dipintore, forse
per remunerazione di tanti benifizii fatti a lui; che avendolo trattenuto in
Roma e datogli le spese, e lui messomi assoqquadro la casa; perché gli aveva
una sua lebbrolina secca, la quale gli aveva usato le mane a grattar sempre, e
dormendo con un buon garzone che io avevo, che si domandava Manno, pensando di
grattar sé, gli aveva scorticato una gamba al detto Manno con certe sue sporche
manine, le quale non si tagliava mai l'ugna. Il ditto Manno prese da me
licenza, e lui lo voleva ammazzare a ogni modo: io gli messi d'accordo; di poi
acconciai il detto Giorgio col cardinal dei Medici, e sempre lo aiutai. Questo
è il merito che lui aveva detto al duca Lessandro ch'io avevo detto male
di Sua Eccellenzia, e che io m'ero vantato di volere essere il primo a saltare
in su le mura di Firenze, d'accordo con li nimici di Sua Eccellenzia
fuorasciti. Queste parole, sicondo che io intesi poi, gliene faceva dire
quel galantuomo di Ottaviano de' Medici, volendosi vendicare della stizza che
aveva aùto il Duca seco per conto delle monete e della mia partita di
Firenze; ma io, ch'ero innocente di quel falso appostomi, non ebbi una paura al
mondo: e il valente maestro Francesco da Montevarchi grandissima virtú mi
medicava, e ve lo aveva condotto il mio carissimo amico Luca Martini, il quale
la maggior parte del giorno si stava meco.
LXXXvII. Intanto io avevo rimandato a Roma
il fidelissimo Filice alla cura delle faccende di là. Sollevato alquanto
la testa dal primaccio, che fu in termine di quindici giorni, se bene io non
potevo andare con i mia piedi, mi feci portare innel palazzo de' Medici, su
dove è il terrazzino: cosí mi feci mettere a sedere per aspettare il
Duca che passassi. E facendomi motto molti mia amici di Corte, molto
si maravigliavano che io avessi preso quel disagio a farmi portare in quel
modo, essendo dalla infirmità sí mal condotto; dicendomi che io dovevo
pure aspettar d'esser guarito, e dipoi visitare il Duca. Essendo assai insieme
ragunati, e tutti mi guardavano per miracolo; non tanto l'avere inteso che io
ero morto, ma piú pareva loro miracolo, che come morto parevo loro. Allora io
dissi, presente tutti, come gli era stato detto da qualche scellerato ribaldo
al mio signor Duca, che io mi ero vantato di voler essere il primo a salire in
su le mura di Sua Eccellenzia, e che appresso io avevo detto male di quella;
per la qual cosa a me non bastava la vista di vivere né di morire, se
prima io non mi purgavo da questa infamia, e conoscere chi fussi quel temerario
ribaldo che avessi fatto quel falso rapporto. A queste parole s'era ragunato
una gran quantità di que' gentiluomini; e mostrando avere di me
grandissima compassione, e chi diceva una cosa e chi un'altra; io dissi che mai
piú mi volevo partir di quivi, insin che io non sapevo chi era quello che mi
aveva accusato. A queste parole s'accostò fra tutti que' gentiluomini
maestro Agostino, sarto del Duca, e disse: - Se tu non vuoi sapere altro che
cotesto, ora ora lo saprai -. A punto passava Giorgio sopraditto, dipintore:
allora maestro Agustino disse: - Ecco chi t'ha accusato: ora tu sai tu se gli
è vero o no -. Io arditamente, cosí come io non mi potevo muovere,
dimandai Giorgio se tal cosa era vera. Il ditto Giorgio disse che no, che non
era vero, e che non aveva mai detto tal cosa. Maestro Austino disse: - O
impiccato, non sai tu che io lo so certissimo? - Subito Giorgio si partí, e
disse che no, che lui non era stato. Stette poco e passò 'l Duca; al
quali io subito mi feci sostenere innanzi a Sua Eccellenzia, e lui si
fermò. Allora io dissi che io ero venuto quivi a quel modo, solo
per iustificarmi. Il Duca mi guardava e si maravigliava che io fussi vivo; di
poi mi disse che io attendessi a essere uomo dabbene e guarire. Tornatomi a
casa, Niccolò da Monte Aguto mi venne a trovare, e mi disse che io avevo
passato una di quelle furie la maggiore del mondo, quale lui non aveva mai
creduto; perché vidde il male mio scritto d'uno immutabile inchiostro; e che io
attendessi a guarire presto, e poi mi andassi con Dio, perché la veniva d'un
luogo e da uomo, il quale mi arebbe fatto male. E poi ditto - guarti – e' mi
disse: - Che dispiaceri ha' tu fatti a quel ribaldaccio di Ottaviano de'
Medici? - Io gli dissi che mai io avevo fatto dispiacere allui, ma che lui ne
aveva ben fatti a me: e contatogli tutto il caso della zecca, e' mi disse: -
Vatti con Dio il piú presto che tu puoi, e sta' di buona voglia, che piú presto
che tu non credi vedrai le tua vendette -. Io attesi a guarire: detti consiglio
a Pietropagolo, ne' casi delle stampe delle monete; dipoi m'andai con Dio,
ritornandomi a Roma, sanza far motto al Duca o altro.
LXXXVIII.
Giunto che io fui a Roma, rallegratomi assai con li mia amici, cominciai la
medaglia del Duca; e avevo di già fatto in pochi giorni la testa in
acciaio, la piú bella opera che mai io avessi fatto in quel genere, e mi veniva
a vedere ogni giorno una volta almanco un certo iscioccone chiamato messer
Francesco Soderini; e veduto quel che io facevo, piú volte mi disse: -
Oimè, crudelaccio, tu ci vuoi pure immortalare questo arrabbiato
tiranno. E perché tu non facesti mai opera sí bella, a questo si cognosce che
tu sei sviscerato nimico nostro e tanto amico loro, che il Papa e lui t'hanno
pur voluto fare impiccar dua volte a torto: quel fu il padre e il figliuolo;
guardati ora dallo Spirito Santo -. Per certo si teneva che il duca Lessandro
fussi figliuolo di papa Clemente. Ancora diceva il ditto messer Francesco e
giurava ispressamente, che, se lui poteva, che m'arebbe rubato que ferri di
quella medaglia. Al quale io dissi che gli aveva fatto bene a dirmelo, e che io
gli guarderei di sorte, che lui non gli vedrebbe mai piú. Feci
intendere a Firenze che dicessino a Lorenzino che mi mandassi il
rovescio della medaglia. Niccolò da Monte Agusto, a chi io l'avevo
scritto, mi scrisse cosí, dicendomi che n'aveva domandato quel pazzo
malinconico filosafo di Lorenzino; il quale gli aveva detto che giorno e notte
non pensava ad altro, e che egli lo farebbe piú presto ch'egli avessi possuto:
però mi disse, che io non ponessi speranza al suo rovescio, e che io ne
facessi uno da per me, di mia pura invenzione; e che finito che io l'avessi,
liberamente lo portassi al Duca, ché buon per me. Avendo fatto io un disegno
d'un rovescio, qual mi pareva a proposito, e con piú sollecitudine che io
potevo lo tiravo inanzi; ma perché io non ero ancora assicurato di quella
ismisurata infirmità, mi pigliavo assai piaceri innell'andare a caccia
col mio scoppietto insieme con quel mio caro Filice, il quale non sapeva far
nulla dell'arte mia, ma perché di continuo, dí e notte, noi eramo insieme,
ogniuno s'immaginava che lui fossi eccellentissimo ne l'arte. Per la qual cosa,
lui ch'era piacevolissimo, mille volte ci ridemmo insieme di questo gran credito
che lui si aveva acquistato; e perché egli si domandava Filice Guadagni, diceva
motteggiando meco: - Io mi chiamerei Filice Guadagni - poco, se non che voi mi
avete fatto acquistare un tanto gran credito, che io mi posso domandare de'
Guadagni - assai -. E io gli dicevo, che e' sono dua modi di guadagnare: il
primo è quello che si guadagna a sé, il sicondo si è quello che
si guadagna ad altri; di modo che io lodavo in lui molto piú quel sicondo modo
che 'l primo, avendomi egli guadagnato la vita. Questi ragionamenti noi gli
avemmo, piú e piú volte, ma in fra l'altre un dí de l'Epifania, che noi eramo
insieme presso alla Magliana, e di già era quasi finito il giorno: il
qual giorno io avevo ammazzato col mio scoppietto de l'anitre e de l'oche assai
bene; e quasi resolutomi di non tirar piú il giorno, ce ne venivamo
sollecitamente in verso Roma. Chiamando il mio cane, il quale chiamavo per nome
Barucco, non me lo vedendo innanzi, mi volsi e vidi che il ditto cane
ammaestrato guardava certe oche che s'erano appollaiate in un fossato. Per la
qual cosa io subito iscesi; messo in ordine il mio buono scoppietto, molto
lontano tirai loro, e ne investi' dua con la sola palla; ché mai non volsi
tirare con altro che con la sola palla, con la quale io tiravo dugento braccia,
e il piú delle volte investivo; che con quell'altri modi non si può far
cosí; di modo che, avendo investito le dua oche, una quasi che morta e l'altra
ferita, che cosí ferita volava malamente, questa la seguitò il mio cane
e portommela; l'altra, veduto che la si tuffava adrento innel fossato, li
sopraggiunsi adosso. Fidandomi de' mia stivali ch'erano assai alti, spignendo
il piede innanzi mi si sfondò sotto il terreno: se bene io presi l'oca,
avevo pieno lo stivale della gamba ritta tutto d'acqua. Alzato il piede
all'aria votai l'acqua, e montato a cavallo, ci sollecitavàno di
tornarcene a Roma; ma perché egli era gran freddo, io mi sentivo di sorte diacciare
la gamba, che io dissi a Filice: - Qui bisogna soccorrer questa gamba, perché
io non cognosco piú modo a poterla sopportare -. Il buon Filice sanza dire
altro scese del suo cavallo, e preso cardi e legnuzzi e dato ordine di voler
far fuoco, in questo mentre che io aspettavo, avendo poste le mani in fra le
piume del petto di quell'oche, senti' assai caldo; per la qual cosa io non
lasciai fare altrimenti fuoco, ma empie' quel mio stivale di quelle piume di
quell'oca, e subito io sentii tanto conforto, che mi dette la vita.
LXXXIX.
Montai a cavallo, venivamo sollecitamente alla volta di Roma. Arrivati che noi
fummo in un certo poco di rialto, era di già fatto notte, guardando in
verso Firenze tutti a dua d'accordo movemmo gran voce di maraviglia, dicendo: -
Oh Dio del cielo, che gran cosa è quella che si vede sopra Firenze? -
Questo si era com'un gran trave di fuoco, il quale scintillava e rendeva
grandissimo splendore. Io dissi a Filice: - Certo noi sentiremo domane qualche
gran cosa sarà stata a Firenze -. Cosí venuticene a Roma, era un buio
grandissimo: e quando noi fummo arrivati vicino a Banchi e vicino alla casa
nostra, io avevo un cavalletto sotto, il quale andava di portante furiosissimo,
di modo che, essendosi el dí fatto un monte di calcinacci e tegoli rotti nel
mezzo della strada, quel mio cavallo non vedendo il monte, né io, con quella furia
lo salse, di poi allo scendere traboccò, in modo che fare un tombolo: si
messe la testa in fra le gambe; onde io per propria virtú de Dio non mi feci un
male al mondo. Cavato fuora e' lumi da' vicini a quel gran romore, io, ch'ero
saltato in piè, cosí, sanza montare altrimenti, me ne corsi a casa
ridendo, che avevo scampato una fortuna da rompere il collo. Giunto a
casa mia, vi trovai certi mia amici, ai quali, in mentre che noi cenavamo
insieme, contavo loro le istrettezze della caccia e quella diavoleria del trave
di fuoco che noi avevamo veduto: e' quali dicevano: - Che domin vorrà
significar cotesto? - Io dissi: - Qualche novità è forza che sia
avvenuto a Firenze -. Cosí passatoci la cena piacevolmente, l'altro giorno al
tardi venne la nuova a Roma della morte del duca Lessandro. Per la qual cosa
molti mia conoscenti mi venivan dicendo: - Tu dicesti bene, che sopra Firenze
saria accaduto qualche gran cosa -. In questo veniva a saltacchione in sun una
certa mulettaccia quel messer Francesco Soderini: ridendo per la via forte alla
'npazzata, diceva: - Quest'è il rovescio della medaglia di quello
iscellerato tiranno, che t'aveva promesso il tuo Lorenzino de' Medici - e di
piú aggiugneva: - Tu ci volevi immortalare e' duchi: noi non vogliàn piú
duchi - e quivi mi faceva le baie come se io fussi stato un capo di quelle
sette che fanno e' duchi. In questo e' sopraggiunse un certo Baccio Bettini, il
quale aveva un capaccio come un corbello, e ancora lui mi dava la baia di
questi duchi, dicendomi: - Noi gli abbiamo isducati, e non arem piú duchi; e tu
ce gli volevi fare inmortali - con di molte di queste parole fastidiose. Le
quali venutemi troppo a noia, io dissi loro: - O isciocconi, io sono un povero
orefice, il quale servo chi mi paga, e voi mi fate le baie come se io fussi un
capo di parte: ma io non voglio per questo rimproverare a voi le
insaziabilità, pazzie e dappocaggine de' vostri passati; ma io dico bene
a coteste tante risa isciocche che voi fate, che innanzi che e' passi dua o tre
giorni il piú lungo, voi arete un altro duca, forse molto peggiore di questo
passato -. L'altro giorno appresso venne a bottega mia quello de' Bettini, e mi
disse: - E' non accadrebbe lo ispendere dinari in corrieri, perché tu sai le
cose inanzi che le si faccino: che spirito è quello che te le
dice? - E mi disse come Cosimo de' Medici, figliuolo del signor Giovanni, era
fatto Duca: ma che egli era fatto con certe condizioni, le quali l'arebbono
tenuto, che lui non arebbe potuto isvolazzare a suo modo. Allora toccò a
me a ridermi di loro, e dissi: - Cotesti uomini di Firenze hanno messo un
giovane sopra un maraviglioso cavallo, poi gli hanno messo gli sproni e datogli
la briglia in mano in sua libertà, e messolo in sun un bellissimo campo,
dove è fiori e frutti e moltissime delizie; poi gli hanno detto che lui
non passi certi contrassegnati termini: or ditemi a me voi, chi è quello
che tener lo possa, quando lui passar li voglia? Le legge non si posson dare a
chi è padron di esse -. Cosí mi lasciorno stare e non mi davon noia.
xc. Avendo atteso alla mia bottega, e seguitavo alcune mie
faccende, non già di molto momento, perché mi attendevo alla
restaurazione della sanità, e ancora non mi pareva essere assicurato
dalla grande infirmità che io avevo passata. In questo mentre lo Imperadore
tornava vittorioso dalla impresa di Tunizi, e il Papa aveva mandato per me e
meco si consigliava che sorte di onorato presente io lo consigliavo per donare
allo Imperatore. Al quale io dissi, che il piú a proposito mi pareva donare a
Sua Maestà una croce d'oro con un Cristo, al quale io avevo quasi fatto
uno ornamento, il quale sarebbe grandemente a proposito e farebbe grandissimo
onore a Sua Santità e a me. Avendo già fatto tre figurette d'oro,
tonde, di grandezza di un palmo in circa: queste ditte figure furno quelle che
io avevo cominciate per il calice di papa Clemente; erano figurate per la Fede,
la Speranza e la Carità; onde io aggiunsi di cera tutto il restante del
piè di detta croce; e portatolo al Papa con il Cristo di cera e con
molti bellissimi ornamenti, sadisfece grandemente al Papa; e innanzi che io mi
partissi da Sua Santità rimanemmo conformi di tutto quello che si aveva
a fare, e appresso valutammo la fattura di detta opera. Questo fu una sera a
quattro ore di notte: el Papa aveva dato commessione a messer Latino Iuvinale
che mi facessi dar danari la mattina seguente. Parve al detto messer Latino,
che aveva una gran vena di pazzo, di volere dar nuova invenzione al Papa, la
qual venissi dallui stietto; che egli disturbò tutto quello che si era
ordinato; e la mattina, quando io pensai andare per li dinari, disse con quella
sua bestiale prosunzione: - A noi tocca a essere gl'inventori, e a voi gli
operatori. Innanzi che io partissi la sera dal Papa, noi pensammo una cosa
molto migliore -. Alle qual prime parole, non lo lasciando andar piú innanzi,
gli dissi: - Né voi né il Papa non può mai pensare cosa migliore, che
quelle dove e' s'interviene Cristo; sí che dite ora quante pappolate
cortigianesche voi sapete -. Sanza dir altro si partí da me in còllora,
e cercò di dare la ditta opera a un altro orefice; ma il Papa non volse,
e subito mandò per me e mi disse, che io avevo detto bene, ma che si
volevan servire di uno Uffiziuolo di Madonna, il quale era miniato maravigliosamente,
e ch'era costo al cardinal de' Medici a farlo miniare piú di dumila scudi: e
questo sarebbe a proposito per fare un presente alla Imperatrice, e che allo
Imperadore farebbon poi quello che avevo ordinato io, che veramente era
presente degno di lui; ma questo si faceva per aver poco tempo, perché lo
Imperadore s'aspettava in Roma in fra un mese e mezzo. Al ditto libro voleva
fare una coperta d'oro massiccio, riccamente lavorata, e con molte gioie
addorna. Le gioie valevano in circa sei mila scudi: di modo che, datomi le
gioie e l'oro, messi mano alla ditta opera, e sollecitandola in brevi giorni io
la feci comparire di tanta bellezza, che il Papa si maravigliava e mi faceva
grandissimi favori, con patti che quella bestia de l'Iuvinale non mi venissi
intorno. Avendo la ditta opera vicina alla fine, comparse lo Imperatore, a il
quale s'era fatti molti mirabili archi trionfali, e giunto in Roma con
maravigliosa pompa, qual toccherà a scrivere ad altri, perché non vo'
trattare se non di quel che tocca a me, alla sua giunta subito egli donò
al Papa un diamante, il quale lui aveva compero dodicimila scudi. Questo
diamante il Papa lo mandò per me e me lo dette, che io gli facessi un
anello alla misura del dito di Sua Santità; ma che voleva che io
portassi prima el libro al termine che gli era. Portato che io ebbi el
libro al Papa, grandemente gli sodisfece: di poi si consigliava meco che scusa
e' si poteva trovare con lo Imperadore, che fussi valida, per essere quella
ditta opera imprefetta. Allora io dissi che la valida iscusa si era, che io
arei detto della mia indisposizione, la quale Sua Maestà arebbe
facilissimamente creduta, vedendomi cosí macilente e scuro come io ero. A
questo il Papa disse che molto gli piaceva; ma che io arrogessi da parte di Sua
Santità, faccendogli presente del libro, di fargli presente di me
istesso: e mi disse tutto il modo che io avevo attenere, delle parole che io
avevo a dire, le qual parole io le dissi al Papa, domandandolo se gli piaceva
che io dicessi cosí. Il quale mi disse: - Troppo bene dicesti, se a te bastassi
la vista di parlare in questo modo allo Imperadore, che tu parli a me -. Allora
io dissi, che con molta maggior sicurtà mi bastava la vista di parlate
con lo Imperadore; avvenga che lo Imperadore andava vestito come mi andavo io,
e che a me saria parso parlare a uno uomo che fussi fatto come me; qual cosa
non m'interveniva cosí parlando con Sua Santità, innella quale io vi
vedevo molto maggior deità, sí per gli ornamenti eclesiastici, quali mi
mostravano una certa diadema, insieme con la bella vecchiaia di Sua
Santità: tutte queste cose mi facevano piú temere, che non quelle dello
Imperadore. A queste parole il Papa disse: - Va, Benvenuto mio, che tu sei un
valente uomo: facci onore, ché buon per te.
XCI.
Ordinò il Papa dua cavalli turchi, i quali erano istati di papa
Clemente, ed erono i piú belli che mai venissi in Cristianità. Questi
dua cavalli il Papa commesse a messer Durante suo cameriere che gli menassi giú
ai corridoi del palazzo, e ivi li donassi allo Imperadore, dicendo certe
parole che lui gl'impose. Andammo giú d'accordo; e giunti alla presenza dello
Imperadore, entrò que' dua cavalli con tanta maestà e con tanta
virtú per quelle camere, che lo Imperadore e ogniuno si maravigliava. In questo
si fece innanzi il ditto messer Durante con tanto isgraziato modo e con certe
sue parole bresciane, annodandosigli la lingua in bocca, che mai si vidde e
sentí peggio: mosse lo Imperadore alquanto a risa. In questo io di già
avevo iscoperto la ditta opera mia; e avvedutomi che con gratissimo modo lo
Imperadore aveva volto gli occhi inverso di me, subito fattomi innanzi, dissi:
- Sacra Maestà, il santissimo nostro papa Paulo manda questo libro di
Madonna a presentare a Vostra Maestà, il quale si è scritto a
mano e miniato per mano de il maggior uomo che mai facessi tal professione; e
questa ricca coperta d'oro e di gioie è cosi imprefetta per causa della
mia indisposizione: per la qualcosa Sua Santità insieme con il ditto
libro presenta me ancora, e che io venga apresso a Vostra Maestà a finirgli
il suo libro; e di piú tutto quello che lei avessi in animo di fare, per tanto
quanto io vivessi, lo servirei -. A questo lo Imperadore disse: - Il libro
m'è grato e voi ancora; ma voglio che voi me lo finiate in Roma; e come
gli è finito e voi guarito, portatemelo e venitemi a trovare -. Di poi
innel ragionare meco, mi chiamò per nome, per la qual cosa io mi
maravigliai perché non c'era intervenuto parole dove accadessi il mio nome; e
mi disse aver veduto quel bottone del piviale di papa Clemente, dove io avevo
fatto tante mirabil figure. Cosí distendemmo ragionamenti di una mezz'ora
intera, parlando di molte diverse cose tutte virtuose e piacevole: e
perché a me pareva esserne uscito con molto maggiore onore di quello che io
m'ero promesso, fatto un poco di cadenza a il ragionamento, feci reverenzia e
partimmi. Lo Imperadore fu sentito che disse: - Dònisi a Benvenuto
cinquecento scudi d'oro subito - di modo che quello che li portò su,
dimandò qual era l'uomo del Papa che aveva parlato allo Imperatore. Si
fece innanzi messer Durante, il quale mi rubò li mia cinquecento scudi.
Io me ne dolsi col Papa; il quale disse che io non dubitassi; che sapeva ogni
cosa, quant'io m'ero portato bene a parlare allo Imperadore, e che di quei
danari io ne arei la parte mia a ogni modo.
xcii. Tornato alla bottega mia, messi mano con gran sollecitudine a
finire l'anello del diamante; el quale mi fu mandato quattro, i primi gioiellieri
di Roma; perché era stato detto al Papa, che quel diamante era legato per mano
del primo gioiellier del mondo in Vinezia, il quale si chiamava maestro Miliano
Targhetta, e per esser quel diamante alquanto sottile, era impresa troppo
difficile a farla sanza gran consiglio. Io ebbi caro e' quattro uomini
gioiellieri, infra i quali si era un milanese domandato Gaio. Questo era la piú
prosuntuosa bestia del mondo, e quello che sapeva manco e gli pareva saper piú:
gli altri erano modestissimi e valentissimi uomini. Questo Gaio innanzi a tutti
cominciò a parlare e disse: - Salvisi la tinta di Miliano e a
quella, Benvenuto, tu farai di berretta; perché sí come 'l tignere un diamante
è la piú bella e la piú difficil cosa che sia ne l'arte del gioiellare,
Miliano è il maggior gioielliere che fussi mai al mondo, e questo si
è il piú difficil diamante -. Allora io dissi, che tanto maggior gloria
mi era il combattere con un cosí valoroso uomo d'una tanta professione; dipoi
mi volsi agli altri gioiellieri e dissi: - Ecco che io salvo la tinta di
Miliano; e mi proverrò se faccèndone io migliorassi quella;
quando che no, con quella medesima lo ritigneremo -. Il bestial Gaio disse che,
se io la facessi a quel modo, volentieri le farebbe di berretta. Al quale io
dissi: - Adunque faccendola meglio, lei merita due volte di berretta: - Sí -
disse; e io cosí cominciai a far le mie tinte. Messomi intorno con grandissima
diligenzia a fare le tinte, le quali al suo luogo insegnerò come le si
fanno: certissimo che il detto diamante era il piú difficile che mai né prima
né poi mi sia venuto innanzi, e quella tinta di Miliano era virtuosamente
fatta; però la non mi sbigottí ancora. Io, auzzato i mia ferruzzi dello
ingegno, feci tanto che io non tanto raggiugnerla, ma la passai assai
bene. Dipoi, conosciuto che io avevo vinto lui, andai cercando di vincer me, e
con nuovi modi feci una tinta che era meglio di quella che io avevo fatto, di
gran lunga. Dipoi mandai a chiamare i gioiellieri, e tinto con la tinta di
Miliano il diamante, da poi ben netto, lo ritinsi con la mia. Mòstrolo
a' gioiellieri, un primo valent'uomo di loro, il quale si domandava Raffael
del Moro, preso il diamante in mano, disse a Gaio: - Benvenuto ha passato la
tinta di Miliano -. Gaio, che non lo voleva credere, preso il diamante in mano,
e' disse: - Benvenuto, questo diamante è meglio dumila ducati, che con
la tinta di Miliano -. Allora io dissi: - Da poi che io ho vinto Miliano,
vediamo se io potessi vincer me medesimo - e pregatogli che mi aspettassino un
poco, andai in sun un mio palchetto, e fuor della presenza loro ritinsi il
diamante, e portatolo a' gioiellieri, Gaio subito disse: - Questa è la
piú mirabil cosa che io vedessi mai in tempo di mia vita, perché questo
diamante val meglio di diciotto mila scudi, dove che appena noi lo stimavamo
dodici -. Gli altri gioiellieri voltisi a Gaio, dissono: - Benvenuto è
la gloria dell'arte nostra, e meritamente e alle sue tinte e allui doviamo fare
di berretta -. Gaio allora disse: - Io lo voglio andare a dire al Papa, e
voglio che gli abbia mille scudi d'oro di legatura di questo diamante -. E
corsosene al Papa, gli disse il tutto; per la qual cosa il Papa mandò
tre volte quel dí a veder se l'anello era finito. Alle ventitré ore poi io
portai su l'anello: e perché e' non mi era tenuto porta, alzato cosí discretamente
la portiera, viddi il Papa insieme col marchese del Guasto, il quale lo doveva
istrignere di quelle cose che lui non voleva fare, e senti' che disse al
Marchese: - Io vi dico di no, perché a me si appartiene esser neutro e non
altro -. Ritiratomi presto indietro, il Papa medesimo mi chiamò: onde io
presto entrai, e pòrtogli quel bel diamante in mano, il Papa mi
tirò cosí da canto, onde il Marchese si scostò. Il Papa in mentre
che guardava il diamante, mi disse: - Benvenuto, appicca meco ragionamento che
paia d'importanza, e non restar mai in sin che il Marchese istà qui in
questa camera -. E mosso a passeggiare, la cosa che faceva per me, mi piacque,
e cominciai a ragionar col Papa del modo che io avevo fatto a tignere il
diamante. Il Marchese istava ritto da canto, appoggiato a un panno d'arazzo, e
or si scontorceva in sun un piè e ora in sun un altro. La tema di questo
ragionamento era tanto d'importanza, volendo dirla bene, che si sarebbe
ragionato tre ore intere. Il Papa ne pigliava tanto gran piacere, che
trapassava il dispiacere che gli aveva del Marchese, che stessi quivi.
Io che avevo mescolato inne' ragionamenti quella parte di filosofia che
s'apparteneva in quella professione, di modo che avendo ragionato cosí vicino a
un'ora, venuto a noia al Marchese, mezzo in còllora si partí: allora il
Papa mi fece le piú domestiche carezze, che immaginar si possa al mondo, e
disse: - Attendi, Benvenuto mio, che io ti darò altro premio alle tue
virtú, che mille scudi che m'ha ditto Gaio che merita la tua fatica -. Cosí
partitomi, il Papa mi lodava alla presenza di quei suoi domestici, infra i
quali era quel Latin Iuvenale, che dianzi io avevo parlato. Il quale, per
essermi diventato nimico, cercava con ogni studio di farmi dispiacere; e
vedendo che il Papa parlava di me con tanta affezione e virtú, disse: - E' non
è dubbio nessuno che Benvenuto è persona di maraviglioso ingegno;
ma se bene ogni uomo naturalmente è tenuto a voler bene piú a
quelli della patria sua che agli altri, ancora si doverrebbe bene considerare
in che modo e' si dee parlare di un Papa. Egli ha avuto a dire, che papa
Clemente era il piú bel principe che fussi mai, e altrettanto virtuoso, ma sí
bene con mala fortuna; e dice che Vostra Santità è tutta al
contrario, e che quel regno vi piagne in testa, e che voi parete un covon di
paglia vestito, e che in voi non è altro che buona fortuna -. Queste
parole furno di tanta forza, dette da colui che benissimo le sapeva dire, che
il Papa le credette: io non tanto non l'aver dette, ma in considerazion mia non
venne mai tal cosa. Se il Papa avessi possuto con suo onore, mi arebbe fatto
dispiacere grandissimo; ma come persona di grandissimo ingegno, fece sembiante
di ridersene: niente di manco e' riservò in sé un tanto grand'odio in
verso di me, che era inistimabile; e io me ne cominciai a 'vvedere, perché non
entravo innelle camere con quella facilità di prima, anzi con
grandissima difficultà. E perché io ero pur molt'anni pratico in queste
corte, e' m'immaginai che qualche uno avessi fatto cattivo uffizio contro a di
me; e destramente ricercandone, mi fu detto il tutto, ma non mi fu detto chi
fussi stato; e io non mi potevo inmaginare chi tal cosa avessi detto, che
sapendolo io ne arei fatto vendette a misura di carboni.
xciii. Attesi a finire il mio libretto; e finito che io l'ebbi, lo
portai dal Papa, il quale veramente non si potette tenere che egli non me lo
lodassi grandemente. Al quale io dissi che mi mandassi a portarlo come lui mi
aveva promesso. Il Papa mi rispose, che farebbe quanto gli venissi bene di fare
e che io avevo fatto quel che s'apparteneva a me. Cosí dette commessione
che io fossi ben pagato. Delle quale opere in poco piú di dua mesi io mi
avanzai cinquecento scudi: il diamante mi fu pagato a ragion di cencinquanta
scudi e non piú; tutto il restante mi fu dato per fattura di quel libretto, la
qual fattura ne meritava piú di mille, per essere opera ricca di assai figure e
fogliami e smalti e gioie. Io mi presi quel che io possetti avere, e feci
disegno di andarmi con Dio di Roma. In questo il Papa mandò il detto
libretto allo Imperadore per un suo nipote domandato il signore Sforza, il
quale presentando il libro allo Imperadore, lo Imperatore l'ebbe gratissimo, e
subito domandò di me. Il giovanetto signore Sforza, ammaestrato, disse
che per essere io infermo non ero andato. Tutto mi fu ridetto.
Intanto messomi io in ordine per andare
alla volta di Francia; e me ne volevo andare soletto; ma non possetti, perché
un giovanetto che stava meco, il quale si domandava Ascanio; questo giovane era
di età molto tenera ed era il piú mirabil servitore che fossi mai al
mondo; e quando io lo presi, e' s'era partito da un suo maestro, che si
domandava Francesco, che era spagnolo e orefice. Io, che non arei voluto
pigliare questo giovanetto per non venire in contesa con il detto spaguolo,
dissi a Ascanio: - Non ti voglio, per non fare dispiacere al tuo maestro -. E'
fece tanto che il maestro suo mi scrisse una polizza, che liberamente io
lo pigliassi. Cosí era stato meco di molti mesi; e per essersi partito magro e
spunto, noi lo domandavamo il Vecchino; e io pensavo che fossi un vecchino, sí
perché lui serviva tanto bene; e perché gli era tanto saputo, non pareva
ragione che innell'età di tredici anni, che lui diceva di avere,
vi fussi tanto ingegno. Or per tornare, costui in quei pochi mesi messe
persona, e ristoratosi dallo istento divenne il piú bel giovane di Roma,
e sí per essere quel buon servitor che io ho detto, e perché gl'imparava l'arte
maravigliosamente, io gli posi uno amore grandissimo come figliuolo, e lo
tenevo vestito come se figliuolo mi fussi stato. Vedutosi il giovane
restaurato, e' gli pareva avere aùto una gran ventura a capitarmi alle
mane. Andava ispesso a ringraziare il suo maestro, che era stato causa del suo
gran bene; e perché questo suo maestro aveva una bella giovane per moglie, lei
diceva: - Surgetto, che hai tu fatto che tu sei diventato cosí bello? - e cosí
lo chiamavano quando gli stava con esso loro. Ascanio rispose a lei: -
Madonna Francesca, è stato lo mio maestro che mi ha fatto cosí bello e
molto piú buono -. Costei velenosetta l'ebbe molto per male che Ascanio dicessi
cosí: e perché lei aveva nome di non pudica donna, seppe fare a questo giovanetto
qualche carezza forse piú là che l'uso de l'onestà; per la
qual cosa io mi avvedevo che molte volte questo giovanetto andava piú che 'l
solito suo a vedere la sua maestra. Accadde, che avendo un giorno dato
malamente delle busse a un fattorino di bottega, il quale, giunto che io
fui, che venivo di fuora, il detto fanciullo piagnendo si doleva, dicendomi che
Ascanio gli aveva dato sanza ragion nessuna. Alle qual parole io dissi a
Ascanio: - O con ragione o senza ragione, non ti venga mai piú dato a nessun di
casa mia, perché tu sentirai in che modo io so dare io -. Egli mi rispose: onde
io subito mi gli gittai addosso, e gli detti di pugna e calci le piú
aspre busse che lui sentissi mai. Piú tosto che lui mi possette uscir delle
mane, sanza cappa e sanza berretta fuggí fuora, e per dua giorni io non seppi
mai dove lui si fussi, né manco ne cercavo, se none in capo di dua giorni mi
venne a parlare un gentiluomo spagnuolo, il quale si domandava don Diego.
Questo era il piú liberale uomo che io conoscessi mai al mondo; io gli avevo
fatte e facevo alcune opere, di modo che gli era assai mio amico. Mi disse che
Ascanio era tornato col suo vecchio maestro, e che, se e' mi pareva,
che io gli dessi la sua berretta e cappa che io gli avevo donata. A queste
parole io dissi che Francesco si era portato male, e che gli aveva fatto da
persona malcreata; perché se lui m'avessi detto subito che Ascanio fu andato
dallui, sí come lui era in casa sua, io molto volentieri gli arei dato
licenzia; ma per averlo tenuto dua giorni, poi né me lo fare intendere, io
non volevo che gli stessi seco; e che facessi che io non io vedessi in modo
alcuno in casa sua. Tanto riferí don Diego: per la qual cosa il detto Francesco
se ne fece beffe. L'altra mattina seguente io vidi Ascanio, che lavorava certe
pappolate di filo accanto al ditto maestro. Passando io, il ditto
Ascanio mi fece riverenzia, e il suo maestro quasi che mi derise. Mandommi a
dire per quel gentiluomo don Diego che, se a me pareva, che io rimandassi a
Ascanio e' panni che io gli avevo donati; quando che no, non se ne curava, e
che a Ascanio non mancheria panni. A queste parole io mi volsi a don Diego e
dissi: - Signor don Diego, in tutte le cose vostre io non viddi mai né il piú
liberale né il piú dabbene di voi; ma cotesto Francesco è tutto il
contrario di quel che voi siete, perché gli è un disonorato marrano.
Ditegli cosí da mia parte, che se innanzi che suoni vespro lui medesimo non
m'ha rimenato Ascanio qui alla bottega mia, io l'ammazzerò a ogni modo;
e dite a Ascanio, che se lui non si leva di quivi in quell'ora
consacrata al suo maestro, che io farò a lui poco manco -. A
queste parole quel signor don Diego non mi rispose niente, anzi andò e
messe in opera cotanto spavento al ditto Francesco, che lui non sapeva che
farsi. Intanto Ascanio era ito a cercar di suo padre, il quale era venuto a
Roma da Tagliacozzi, di donde gli era; e sentendo questo scompiglio, ancora lui
consigliava Francesco che dovessi rimenare Ascanio a me. Francesco diceva a
Ascanio: - Vavvi da te, e tuo padre verrà teco -. Don Diego diceva: -
Francesco, io veggo qualche grande scandolo: tu sai meglio di me chi è
Benvenuto; rimènagnene sicuramente, e io verrò teco -. Io che
m'ero messo in ordine, passeggiavo per bottega aspettando il tocco di vespro,
dispostomi di fare una delle piú rovinose cose che in tempo di mia vita mai
fatta avessi. In questo sopraggiunse don Diego, Francesco e Ascanio, e il
padre, che io non conosceva. Entrato Ascanio, io che gli guardavo tutti con
l'occhio della stizza, Francesco di colore ismorto disse: - Eccovi rimenato
Ascanio, il quale io tenevo, non pensando farvi dispiacere -. Ascanio
reverentemente disse: - Maestro mio, perdonatemi; io son qui per far tutto
quello che voi mi comanderete -. Allora io dissi: - Se' tu venuto per finire il
tempo che tu m'hai promesso? - Disse di sí, e per non si partir mai piú da me.
Io mi volsi allora e dissi a quel fattorino, a chi lui aveva dato, che gli
porgessi quel fardello de' panni: e allui dissi: - Eccoti tutti e' panni che io
t'avevo donati, e con essi abbi la tua libertà e va dove tu vuoi -. Don
Diego restato maravigliato di questo, ché ogni altra cosa aspettava. In questo,
Ascanio insieme col padre mi pregava che io gli dovessi perdonare e
ripigliarlo. Domandato chi era quello che parlava per lui, mi disse esser suo
padre; al quale di poi molte preghiere dissi: - E per esser voi suo padre, per
amor vostro lo ripiglio.
XCIV.
Essendomi risoluto, come io dissi poco fa, di andarmene alla volta di Francia,
sí per aver veduto che il Papa non mi aveva in quel concetto di prima, ché per
via delle male lingue m'era stato intorbidato la mia gran servitú, e per paura
che quelli che potevano non mi facessin peggio; però mi ero disposto di
cercare altro paese, per veder se io trovavo miglior fortuna, e volentieri mi
andavo con Dio, solo. Essendomi risoluto una sera per partirmi la mattina,
dissi a quel fidel Felice, che si godessi tutte le cose mia insino al mio
ritorno; e se avveniva che io non ritornassi, volevo che ogni cosa fossi suo. E
perché io avevo un garzone perugino, il quale mi aveva aiutato finir quelle
opere del Papa, a questo detti licenzia, avendolo pagato delle sue fatiche. Il
quale mi disse, che mi pregava che io lo lasciassi venir meco, e che lui
verrebbe a sue spese; che s'egli accadessi che io mi fermassi a lavorare con il
Re di Francia, gli era pure il meglio che io avessi meco de li mia Italiani, e
maggiormente di quelle persone che io cognoscevo che mi arebbon saputo aiutare.
Costui seppe tanto pregarmi, che io fui contento di menarlo meco innel modo che
lui aveva detto. Ascanio, trovandosi ancora lui alla presenza di questo
ragionamento, disse mezzo piangendo: - Dipoi che voi mi ripigliasti, i' dissi
di voler star con voi a vita, e cosí ho in animo di fare -. Io dissi al ditto
che io non lo volevo per modo nessuno. Il povero giovanetto si metteva in
ordine per venirmi drieto a piede. Veduto fatto una tal resoluzione, presi un
cavallo ancora per lui, e messogli una mia valigetta in groppa, mi caricai di
molti piú ornamenti che fatto io non arei; e partitomi di Roma ne venni a
Firenze, e da Firenze a Bologna, e da Bologna a Vinezia, e da Vinezia me ne
andai a Padova: dove io fui levato d'in su l'osteria da quel mio
caro amico, che si domandava Albertaccio del Bene. L'altro giorno a presso andai
a baciar le mane a messer Pietro Bembo, il quale non era ancor cardinale. Il
detto messer Pietro mi fece le piú sterminate carezze che mai si possa fare a
uomo del mondo; di poi si volse ad Albertaccio e disse: - Io voglio che
Benvenuto resti qui con tutte le sue persone, se lui ne avessi ben cento; sí
che risolvetevi, volendo anche voi Benvenuto, a restar qui meco, altrimenti io
non ve lo voglio rendere - e cosí mi restai a godere con questo virtuosissimo
Signore. Mi aveva messo in ordine una camera, che sarebbe troppo onorevole a un
cardinale, e continuamente volse che io mangiassi accanto a Sua Signoria. Dipoi
entrò con modestissimi ragionamenti, mostrandomi che arebbe aùto
desiderio che io lo ritraessi; e io, che non desideravo altro al mondo, fattomi
certi stucchi candidissimi dentro in uno scatolino, lo cominciai; e la prima
giornata io lavorai dua ore continue, e bozzai quella virtuosa testa di tanta
buona grazia, che Sua Signoria ne restò istupefatta; e come quello che
era grandissimo innelle sue lettere e innella poesia in superlativo grado, ma
di questa mia professione Sua Signoria non entendeva nulla al mondo: il perché
si è che allui parve che io l'avessi finita a quel tempo, che io non
l'avevo a pena cominciata: di modo che io non potevo dargli ad intendere che la
voleva molto tempo a farsi bene. All'utimo io mi risolsi a farla il meglio che
io sapevo col tempo che la meritava: e perché egli portava la barba corta alla
veniziana, mi dette di gran fatiche a fare una testa che mi sadisfacessi. Pure
la fini' e mi parve fare la piú bella opera che io facessi mai, per quanto si
aparteneva a l'arte mia. Per la qual cosa io lo viddi sbigottito, perché e'
pensava che avendola io fatta di cera in dua ore io la dovessi fare in dieci
d'acciaro. Veduto poi che io non l'avevo potuta fare in dugento ore di cera, e
dimandavo licenzia per andarmene alla volta di Francia, il perché lui si
sturbava molto, e mi richiese che io gli facessi un rovescio a quella sua
medaglia, almanco; e questo fu un caval Pegaseo in mezzo a una ghirlanda di
mirto. Questo io lo feci in circa a tre ore di tempo, dandogli bonissima
grazia; e essendo assai sadisfatto, disse: - Questo cavallo mi par pure maggior
cosa l'un dieci, che non è il fare una testolina, dove voi avete
penato tanto: io non son capace di questa difficultà -. Pure mi diceva e
mi pregava, che io gnene dovessi fare in acciaro, dicendomi: - Di grazia
fatemela, perché voi me la farete ben presto, se voi vorrete -. Io gli promessi
che quivi io non la volevo fare; ma dove io mi fermassi a lavorare gliene farei
senza manco nessuno. In mentre che noi tenevamo questo proposito, io ero andato
a mercatare tre cavalli per andarmene alla volta di Francia; e lui faceva tener
conto di me segretamente, perché aveva grandissima autorità in Padova;
di modo che volendo pagare i cavalli, li quali avevo mercatati cinquanta
ducati, il padrone di essi cavalli mi disse: - Virtuoso uomo, io vi fo un
presente delli tre cavalli -. Al quale io risposi: - Tu non sei tu che me gli
presenti; e da quello che me gli presenta io non gli voglio, perché io non gli
ho potuto dar nulla delle fatiche mie -. Il buono uomo mi disse che, non
pigliando quei cavagli, io non caverei altri cavagli di Padova e sarei
necessitato a 'ndarmene a piede. A questo io me ne andai al magnifico messer
Pietro, il quale faceva vista di non saper nulla, e pur mi carezzava, dicendomi
che io soprastessi in Padova. Io che non ne volevo far nulla ed ero disposto a
'ndarmene a ogni modo, mi fu forza accettare li tre cavalli; e con essi me ne
andai.
xcv. Presi il cammino per terra di Grigioni, perché altro cammino
non era sicuro, rispetto alle guerre. Passammo le montagne dell'Alba e della
Berlina: era agli otto dí di maggio ed era la neve grandissima. Con grandissimo
pericolo della vita nostra passammo queste due montagne. Passate che noi le
avemmo, ci fermammo a una terra la quale, se ben mi ricordo, si domanda
Valdistà: quivi alloggiammo. La notte vi capitò un corriere
fiorentino, il quale si domandava il Busbacca. Questo corriere io l'avevo
sentito ricordare per uomo di credito e valente nella sua professione, e non
sapevo che gli era scaduto, per le sue ribalderie. Quando e' mi vedde
all'osteria, lui mi chiamò per nome, e mi disse che andava per cose
d'inportanza a Lione, e che di grazia io gli prestassi dinari per il viaggio. A
questo io dissi, che non avevo danari da potergli prestare, ma che volendo
venir meco di compagnia io gli farei le spese insino a Lione. Questo ribaldo
piagneva e facevami le belle lustre dicendomi, come - per e' casi d'importanza
della nazione essendo mancato danari a un povero corrieri, un par vostro
è ubbrigato a 'iutarlo - e di piú mi disse che portava cose di
grandissima importanza di messer Filippo Strozzi: e perché gli aveva una guaina
d'un bicchiere coperta di cuoio, mi disse innell'orecchio, che in quella guaina
era un bicchier d'argento, e che in quel bicchiere era gioie di valore di molte
migliaia di ducati, e che e' v'era lettere di grandissima importanza, le quali
mandava messer Filippo Strozzi. A questo io dissi a lui, che mi lasciassi
rinchiuder le gioie a dosso a lui medesimo, le quali porterebbon manco pericolo
che a portarle in quel bicchiere; e che quel bicchiere lasciassi a me, il quale
poteva valere dieci scudi incirca, e io lo servirei di venticinque. A queste
parole il corrier disse, che se ne verrebbe meco, non potento far altro, perché
lasciando quel bicchiere non gli sarebbe onore. Cosí la mozzammo; e la mattina
partendoci arrivammo a un lago, che è in fra Valdistate e Vessa; questo
lago è lungo quindici miglia, dove e s'arriva a Vessa. Veduto le barche
di questo lago, io ebbi paura; perché le dette barche son d'abete, non molto
grande e non molto grosse, e non son confitte, né manco impeciate; e se io non
vedevo entrare in un'altra simile quattro gentiluomini tedeschi con i loro
cavagli, io non entravo mai in questa; anzi mi sarei piú presto tornato
addietro; ma io mi pensai, alle bestialità che io vedevo fare a coloro,
che quelle acque tedesche non affogassino, come fanno le nostre della Italia.
Quelli mia dua giovani mi dicevano pure: - Benvenuto, questa è una
pericolosa cosa a entrarci drento con quattro cavalli -. A e' quali io dicevo:
- Non considerate voi, poltroni, che quei quattro gentiluomini sono entrati
innanzi a noi, e vanno via ridendo? Se questo fussi vino, come l'è
acqua, io direi che lor vanno lieti per affogarvi drento; ma perché l'è
acqua, io so ben che e' non hanno piacere d'affogarvi, sí ben come noi -.
Questo lago era lungo quindici miglia e largo tre in circa; da una banda era un
monte altissimo e cavernoso, dall'altra era piano e erboso. Quando noi fummo
drento in circa quattro miglia, il ditto lago cominciò a far fortuna, di
sorte che quelli che vogavano ci chiedevano aiuto che noi gli aiutassimo
vogare; cosí facemmo un pezzo. Io accennavo, e dicevo che ci gettassino a
quella proda di là; lor dicevano non esser possibile, perché non
v'è acqua che sostenessi la barca, e che e' v'è certe secche, per
le quale la barca subito si disfarebbe e annegheremmo tutti, e pure ci sollecitavano
che noi aiutassimo loro. E' barcheriuoli si chiamavano l'un l'altro,
chiedendosi aiuto. Vedutogli io sbigottiti, avendo un caval savio gli acconciai
la briglia al collo e presi una parte della cavezza con la man mancina. Il
cavallo che era, sí come sono, con qualche intelligenza, pareva che si fussi
avveduto quel che io volevo fare, che avendogli volto il viso in verso
quell'erba fresca, volevo che, notando, ancora me istrascicassi seco. In questo
venne una onda sí grande da quel lago, che la soprafece la barca. Ascanio
gridando: - Misericordia, padre mio, aiutatemi - mi si volse gittare addosso;
il perché io messi mano al mio pugnaletto, e gli dissi che facessino
quel che io avevo insegnato loro, perché i cavagli salverebbon lor la vita sí
bene, com'io speravo camparla ancora io per quella via; e se piú e' mi si
gittassi addosso, io l'ammazzerei. Cosí andammo innanzi parecchi miglia con
questo mortal pericolo.
XCVI. Quando
noi fummo a mezzo il lago, noi trovammo un po' di piano da poterci riposare, e
in su questo piano viddi ismontato quei quattro gentiluomini
tedeschi. Quando noi volemmo ismontare, il barcherolo non voleva per niente.
Allora io dissi a' mia giovani: - Ora è tempo a far qualche pruova di
noi: sí che mettete mano alle spade, e facciàno che per forza e' ci
mettino in terra -. Cosí facemmo con gran difficultà, perché lor fecion
grandissima resistenza. Pure messi che noi fummo in terra, bisognava salire due
miglia su per quel monte, il quale era piú difficile che salire su per una scala
a piuoli. Io ero tutto armato di maglia con istivali grossi e con uno
scoppietto in mano, e pioveva quanto Idio ne sapeva mandare. Quei diavoli di
quei gentiluomini tedeschi con quei lor cavalletti a mano facevano miracoli, il
perché i nostri cavagli non valevano per questo effetto, e crepavamo di fatica
a farli salire quella difficil montagna. Quando noi fummo in su un pezzo, il
cavallo d'Ascanio, che era un cavall'unghero mirabilissimo, questo era innanzi
un pochetto al Busbacca corriere, e 'l ditto Ascanio gli aveva dato la sua
zagaglia, che gliene aiutassi portare; avvenne che per e' cattivi passi quel
cavallo isdrucciolò e andò tanto barcollone, non si potendo
aiutare, che percosse in su la punta della zagaglia di quel ribaldo di quel corriere,
che non l'aveva saputa iscansare; e passata al cavallo la gola a banda a banda,
quell'altro mio garzone, volendo aiutare ancora il suo cavallo, che era un
caval morello, isdrucciolò inverso il lago e s'attenne a un respo, il
qual era sottilissimo. In su questo cavallo era un paio di bisacce, nelle quali
era drento tutti e' mia danari con ciò che io avevo di valore: dissi al
giovane che salvassi la sua vita, e lasciassi andare il cavallo in malora: la
caduta si era piú d'un miglio e andava a sottosquadro e cadeva nel lago. Sotto
questo luogo a punto era fermato quelli nostri barcheruoli; a tale che se il
cavallo cadeva, dava loro a punto addosso. Io era innanzi a tutti e stavamo a
vedere tombolare il cavallo, il quale pareva che andassi al sicuro in
perdizione. In questo io dicevo a' mia giovani: - Non vi curate di nulla,
salvianci noi e ringraziamo Idio d'ogni cosa; a me mi sa solamente male di
questo povero uomo del Busbacca, che ha legato il suo bicchiere e le sue gioie,
che son di valore di parecchi migliaia di ducati, all'arcione di quel cavallo,
pensando quell'essere piú sicuro: e mia son pochi cento di scudi, e
non ho paura di nulla al mondo, purché io abbia la grazia de Dio -. Il Busbacca
allora disse: - E' non m'incresce de' mia, ma e m'incresce ben de' vostri -.
Dissi a lui: - Perché t'incresc'egli de' mia pochi, e non t'incresce de' tua
assai? - Il Busbacca disse allora: - Dirovelo in nel nome di Dio: in questi
casi e ne' termini che noi siamo, bisogna dire il vero. Io so che i vostri sono
iscudi, e son da dovero; ma quella mia vesta di bicchiere, dove io ho detto
esser tante gioie e tante bugie, è tutta piena di caviale -. Sentendo
questo io non possetti fare che io non ridessi: quei mia giovani risono; lui
piagneva. Quel cavallo si aiutò, quando noi l'avevamo fatto ispacciato.
Cosí ridendo ripigliammo le forze e mettemmoci a seguitare il monte. Quelli
quattro gentiluomini tedeschi, ch'erono giunti prima di noi in cima di quella
ripida montagna, ci mandorno alcune persone, le quali ci aiutorno; tanto che noi
giugnemmo a quel salvatichissimo alloggiamento: dove, essendo noi molli,
istracchi e affamati, fummo piacevolissimamente ricevuti; e ivi ci rasciugammo,
ci riposammo, sodisfacemmo alla fame e con certe erbacce fu medicato il cavallo
ferito; e ci fu insegnato quella sorte d'erbe, le quali n'era pieno la siepe, e
ci fu detto, che tenendogli continuamente la piaga piena di quell'erbe, il
cavallo non tanto guarirebbe, ma ci servirebbe come se non avessi un male al
mondo: tanto facemmo. Ringraziato i gentiluomini, e noi molto ben ristorati, di
quivi ci partimmo e passammo innanzi, ringraziando Idio, che ci aveva salvati
da quel gran pericolo.
xcvii. Arrivammo a una terra di là da Vessa: qui ci riposammo
la notte, dove noi sentimmo a tutte l'ore della notte una guardia, che cantava
in molto piacevol modo; e per essere tutte quelle case di quella città
di legno di abeto, la guardia non diceva altra cosa, se non che s'avessi cura
al fuoco. Il Busbacca, che era spaventato della giornata, a ogni ora che colui
cantava, el Busbacca gridava in sogno, dicendo: - Ohimè Idio, che io
affogo! - e questo era lo spavento del passato giorno; e arroto a quello, che
s'era la sera inbriacato, perché volse fare a bere quella sera con tutti
e' tedeschi che vi erano; e talvolta diceva: - Io ardo - e talvolta: - Io
affogo -: gli pareva essere alcune volte innello 'nferno marterizzato con quel
caviale al collo. Questa notte fu tanto piacevole, che tutti e' nostri affanni
si erano conversi in risa. La mattina levatici con bellissimo tempo, andammo a
desinare a una lieta terra domandata Lacca. Quivi fummo mirabilmente trattati;
di poi pigliammo guide, le quali erano di ritorno a una terra chiamata Surich.
La guida che menava, andava su per un argine d'un lago, e non v'era altra
strada, e questo argine ancora lui era coperto d'acqua, in modo che la bestial
guida sdrucciolò, e il cavallo e lui andorno sotto l'acqua. Io, che ero
drieto alla guida a punto, fermato il mio cavallo, istetti a veder la bestia
sortir dell'acqua; e come se nulla non fossi stato, ricominciò a
cantare, e accennavami che io andassi innanzi. Io mi gittai in su la man ritta,
e roppi certe siepe; cosí guidavo i mia giovani e 'l Busbacca. La guida
gridava, dicendomi in tedesco pure che se quei populi mi vedevano, mi arebbero ammazzato.
Passammo innanzi e scampammo quell'altra furia. Arrivammo a Surich,
città maravigliosa, pulita quanto un gioiello. Quivi riposammo un giorno
intero, di poi una mattina per tempo ci partimmo; capitammo a un'altra bella
città chiamata Solutorno: di quivi capitammo a Usanna, da Usanna a
Ginevra, da Ginevra a Lione, sempre cantando e ridendo. A Lione mi riposai per
quattro giornate; molto mi rallegrai con alcuni mia amici; fui pagato della
spesa che io avevo fatta per il Busbacca; di poi in capo dei quattro giorni,
presi il cammino per la volta di Parigi. Questo fu viaggio piacevole, salvo che
quando noi giugnemmo alla Palissa, una banda di venturieri ci volsono
assassinare, e non con poca virtú ci salvammo. Di poi ce ne andammo
insino a Parigi sanza un disturbo al mondo: sempre cantando e ridendo giugnemmo
a salvamento.
xcviii. Riposatomi in Parigi alquanto, me ne andai a trovare il Rosso
dipintore, il quale stava al servizio del Re. Questo Rosso io pensava che lui
fossi il maggiore amico che io avessi al mondo, perché io gli avevo fatto in
Roma i maggior piaceri che possa fare un uomo a un altro uomo; e perché questi
cotai piaceri si posson dire con brieve parole, io non voglio mancare di non
gli dire, mostrando quant'è sfacciata la ingratitudine. Per la sua mala
lingua, essendo lui in Roma, gli aveva detto tanto male de l'opere di Raffaello
da Urbino, che i discepoli suoi lo volevano ammazzare a ogni modo: da questo lo
campai, guardandolo dí e notte con grandissime fatiche. Ancora per aver detto
male di maestro Antonio da San Gallo, molto eccellente architettore, gli fece
torre un'opera che lui gli aveva fatto avere da messer Agnol de Cesi; dipoi
cominciò tanto a far contro a di lui, che egli l'aveva condotto a
morirsi di fame; per la qual cosa io gli prestai di molte decine di scudi per
vivere. E non gli avendo ancora riauti, sapendo che gli era al servizio del Re,
lo andai, come ho detto, a visitare: non tanto pensavo che lui mi rendessi li
mia dinari, ma pensavo che mi dessi aiuto e favore per mettermi al servizio di
quel gran Re. Quando costui mi vedde, subito si turbò e mi disse: -
Benvenuto, tu se venuto con troppa spesa innun cosí gran viaggio, massimo di
questo tempo, che s'attende alla guerra e non a baiuccole di nostre opere -.
Allora io dissi, che io avevo portato tanti dinari da potermene tornare a Roma
in quel modo che io ero venuto a Parigi; e che questo non era il cambio delle
fatiche che io avevo durate per lui; e che io cominciavo a credere quel che mi
aveva detto di lui maestro Antonio da San Gallo. Volendosi metter tal cosa in
burla, essendosi avveduto della sua sciagurataggine, io gli mostrai una lettera
di cambio di cinquecento scudi a Ricciardo del Bene. Questo sciagurato pur si
vergognava, e volendomi tenere quasi per forza, io mi risi di lui, e me ne
andai insieme con un pittore, che era quivi alla presenza. Questo si domandava
lo Sguazzella: ancora lui era fiorentino; anda'mene a stare in casa sua con tre
cavalli e tre servitori a tanto la settimana. Lui benissimo mi trattava, e io
meglio lo pagavo. Di poi cercai di parlare al Re, al quale m'introdusse un
certo messer Giuliano Buonaccorsi suo tesauriere. A questo io soprastetti
assai, perché io non sapevo che il Rosso operava ogni diligenza, che io non
parlassi al Re. Poiché il ditto messer Giuliano se ne fu avveduto, subito mi
menò a Fontana Biliò e messemi drento inanzi al Re, da il quale
io ebbi un'ora intera di gratissima audienza. E perché il Re era in assetto per
andare alla volta di Lione, disse al ditto messer Giuliano che seco mi menassi,
e che per la strada si ragionerebbe di alcune belle opere, che Sua
Maestà aveva in animo di fare. Cosí me ne andavo insieme a presso al
traino della Corte; e per la strada feci grandissima servitú col
cardinale di Ferrara, il quale non aveva ancora il cappello. E perché ogni sera
io avevo grandissimi ragionamenti con il ditto Cardinale, e Sua Signoria diceva
che io mi dovessi restare in Lione a una sua badia, e quivi potrei godere in
fine a tanto che il Re tornassi dalla guerra, che se ne andava alla volta di
Granopoli, e alla sua badia in Lione io arei tutte le comodità.
Giunti che noi fummo a Lione, io mi ero ammalato, e quel mio giovane Ascanio
aveva preso la quartana; di sorte che m'era venuto a noia i franciosi e la lor
Corte, e mi parea mill'anni di ritornarmene a Roma. Vedutomi disposto il
Cardinale a ritornare a Roma, mi dette tanti dinari, che io gli facessi in Roma
un bacino e un boccale d'ariento. Cosí ce ne ritornammo alla volta di Roma in
su bonissimi cavalli, e venendo per le montagne del Sanpione; e essendomi
accompagnato con certi franzesi, con li quali venimmo un pezzo, Ascanio con la
sua quartana, e io con una febbretta sorda, la quale pareva che non mi
lasciassi punto; e avevo sdegnato lo stomaco di modo, che io non credo che mi
toccassi a mangiare un pane intero la settimana, e molto desideravo di arrivare
in Italia, desideroso di morire in Italia e non in Francia.
XCIX. Passato
che noi avemmo li monti del Sanpione detto, trovammo un fiume presso a un luogo
domandato Indevedro. Questo fiume era molto largo, assai profondo, e sopra esso
aveva un ponticello lungo e stretto, sanza sponde. Essendo la mattina una
brinata molto grossa, giunto al ponte, che mi trovavo innanzi a tutti, e
conosciutolo molto pericoloso, comandai alli mia giovani e servitori che
scavalcassino, menando li lor cavalli a mano. Cosí passai il detto ponte molto
felicemente, e me ne venivo ragionando con un di quei dua franzesi, il quale
era un gentiluomo: quell'altro era un notaro, il quale era restato a dietro
alquanto, e dava la baia a quel gentiluomo franzese e a me, che per paura di
nonnulla avevàno voluto quel disagio de l'andar a piede. Al
quale io mi volsi, vedutolo in sul mezzo del ponte, e lo pregai che venissi
pianamente, per che egli era in luogo molto pericoloso. Questo uomo, che non
potette mancare alla sua franciosa natura, mi disse in francioso che io era
uomo di poco animo, e che quivi non era punto di pericolo. Mentre che diceva
queste parole, volse pugnere un poco il cavallo, per la qual cosa subito il
cavallo isdrucciolò fuor del ponte, e con le gambe inverso il cielo
cadde a canto a un sasso grossissimo. E perché Idio molte volte è
misericordioso de' pazzi, questa bestia insieme con l'altra bestia e suo
cavallo dettono innun tonfano grandissimo, dove gli andorno sotto, e
lui e il cavallo. Subito veduto questo, con grandissima prestezza io mi cacciai
a correre, e con gran difficoltà saltai in su quel sasso, e
spenzolandomi da esso, aggiunsi un lembo d'una guarnacca che aveva
adosso quest'uomo, e per quel lembo lo tirai su, che ancora stava coperto
dall'acqua; e perché gli aveva beuto assai acqua, e poco stava che saria
affogato, io, vedutolo fuor del pericolo, mi rallegrai seco d'avergli campato
la vita. Per la qual cosa costui mi rispose in franzese e mi disse che io non
avevo fatto nulla; che la importanza si era le sue scritture, che valevan di
molte dicine di scudi: e pareva che queste parole costui me le dicesse in
còllora, tutto molle e barbugliando. A questo, io mi volsi a certe guide
che noi avevamo, e commissi che aiutassino quella bestia, e che io gli
pagherei. Una di quelle guide virtuosamente e con gran fatica si mise a
'iutarlo, e ripescògli le sue scritture, tanto che lui non perse nulla;
quell'altra guida mai non volse durar fatica nissuna a 'iutarlo. Arrivati che
noi fummo poi a quel luogo sopra ditto - noi avevamo fatto una borsa, la quale
era tocca a spendere a me - desinato che noi avemmo, io detti parecchi danari
della borsa della compagnia a quella guida, che aveva aiutato trar colui
dell'acqua; per la qual cosa costui mi diceva, che quei danari io gliene darei
del mio, che non intendeva di dargli altro che quel che noi eramo d'accordo,
d'aver fatto l'uffizio della guida. A questo, io gli dissi molte ingiuriose
parole. Allora mi si fece incontro l'altra guida, qual non aveva durato fatica,
e voleva pure che io pagassi anche lui; e perché io dissi: - Ancora costui
merita il premio per aver portato la croce, - mi rispose, che presto mi
mostrerebbe una croce, alla quale io piagnerei. Allui dissi che io accenderei
un moccolo a quella croce, per il quale io speravo che allui toccherebbe il
primo a piagnere. E perché questo è luogo di confini infra i Veniziani e
Tedeschi, costui corse per populi, e veniva con essi con un grande ispiede inanzi.
Io, che ero in sul mio buon cavallo, abbassai il fucile in sul mio archibuso:
voltomi a' compagni, dissi: - Al primo ammazzo colui; e voi altri fate il
debito vostro, perché quelli sono assassini di strada, e hanno preso questo
poco dell'occasione solo per assassinarci -. Quell'oste, dove noi avevamo
mangiato, chiamò un di quei caporali, ch'era vecchione, e lo
pregò che rimediasse a tanto inconveniente, dicendogli: - Questo
è un giovine bravissimo, e se bene voi lo taglierete a pezzi, e ne
ammazzerà tanti di voi altri, e forse potria scaparvi delle mani, da poi
fatto il male che gli arà -. La cosa si quietò, e quel vecchio
capo di loro mi disse: - Va in pace, che tu non faresti una insalata, se tu
avessi ben cento uomini teco -. Io che conoscevo che lui diceva la
verità e mi ero risoluto di già e fattomi morto, non mi sentendo
dire altre parole ingiuriose, scotendo il capo, dissi: - Io arei fatto tutto il
mio potere, mostrando essere animal vivo e uomo - e preso il viaggio, la sera
al primo alloggiamento, facemmo conto della borsa, e mi divisi da quel
francioso bestiale, restando molto amico di quell'altro che era gentiluomo; e
con i mia tre cavalli, soli ce ne venimmo a Ferrara. Scavalcato che io fui, me
ne andai in Corte del Duca per far reverenzia a Sua Eccellenzia, per potermi
partir la mattina alla volta di Santa Maria dal Loreto. Avevo aspettato insino
a dua ore di notte, e allora comparse il Duca: io gli baciai le mane; mi fece
grande accoglienze, e commisse che mi fussi dato l'acqua alle mane. Per la qual
cosa io piacevolmente dissi: - Eccellentissimo signore, egli è piú di
quattro mesi che io non ho mangiato tanto, che sia da credere che con
tanto poco si viva; però, cognosciutomi che io non mi potrei
confortare de' reali cibi della sua tavola, mi starò cosí ragionando con
quella, in mentre che Vostra Eccellenzia cena, e lei e io a un tratto medesimo
aremo piú piacere, che se io cenassi seco -. Cosí appiccammo ragionamento, e
passammo insino alle cinque ore. Alle cinque ore poi io presi licenzia, e
andatomene alla mia osteria, trovai apparecchiato maravigliosamente, perché il
Duca mi aveva mandato a presentare le regaglie del suo piatto con molto buon
vino; e per esser a quel modo soprastato piú di dua ore fuor della mia ora del
mangiare, mangiai con grandissimo appetito, che fu la prima volta che di poi e'
quattro mesi io avevo potuto mangiare.
C. Partitomi
la mattina, me ne andai a Santa Maria dal Loreto, e di quivi, fatto le mie
orazione, ne andai a Roma; dove io trovai il mio fidelissimo Felice, al quale
io lasciai la bottega con tutte le masserizie e ornamenti sua, e ne apersi
un'altra a canto al Sugherello profumiere, molto piú grande e piú spaziosa; e
mi pensavo che quel gran Re Francesco non si avessi a ricordar di me. Per la
qual cosa io presi molte opere da diversi signori, e intanto lavoravo
quel boccale e bacino che io avevo preso da fare dal cardinal di Ferrara. Avevo
di molti lavoranti e molte gran faccende d'oro e di argento. Avevo pattuito con
quel mio lavorante perugino, che da per sé s'era iscritto tutti i danari che
per la parte sua si erano ispesi, li quai danari s'erano ispesi in suo vestire
e in molte altre cose; con le spese del viaggio erano in circa a settanta
scudi: delli quali noi c'eramo accordati che lui ne scontassi tre scudi il
mese; ché piú di otto iscudi io gli facevo guadagnare. In capo di dua mesi
questo ribaldo si andò con Dio di bottega mia, e lasciommi impedito da
molte faccende, e disse che non mi voleva dar altro. Per questa cagione io fui
consigliato di prevalermene per la via della iustizia, perché m'ero messo in
animo di tagliargli un braccio; e sicurissimamente lo facevo, ma li amici mia
mi dicevano che non era bene che io facessi una tal cosa, avvenga che io
perdevo li mia danari e forse un'altra volta Roma, perché i colpi non si danno
a patti; e che io potevo con quella scritta, che io avevo di sua mano, subito
farlo pigliare. Io mi attenni al consiglio, ma volsi piú liberamente agitare
tal cosa. Mossi la lite all'auditore della Camera realmente, e
quella convinsi; e per virtú di essa, che v'andò parecchi mesi, io da
poi lo feci mettere in carcere. Mi trovavo carica la bottega di grandissime
faccende, e in fra l'altre tutti gli ornamenti d'oro e di gioie della moglie
del signor Gerolimo Orsino, padre del signor Paulo oggi genero del nostro duca
Cosimo. Queste opere erano molto vicine alla fine, e tuttavia me ne cresceva
delle importantissime. Avevo otto lavoranti, e con essi insieme, e per onore e
per utile, lavoravo il giorno e la notte.
CI. In mentre
che cosí vigorosamente io seguitavo le mie imprese, mi venne una lettera
mandatami con diligenza dal Cardinale di Ferrara, la quale diceva in questo
tenore: “Benvenuto caro amico nostro. Alli giorni passati questo gran Re
Cristianissimo si ricordò di te, dicendo che desiderava averti al suo
servizio. Al quale io risposi, che tu m'avevi promesso, che ogni volta che io
mandavo per te per servizio di Sua Maestà, subito tu verresti. A queste
parole Sua Maestà disse: - Io voglio che si gli mandi la comodità
da poter venire, sicondo che merita un suo pari - e subito comandò al
suo Amiraglio, che mi facessi pagare mille scudi d'oro da il tesauriere de'
risparmi. Alla presenza di questo ragionamento si era il cardinale de' Gaddi,
il quale subito si fece innanzi e disse a Sua Maestà, che non accadeva
che Sua Maestà dessi quella commessione, perché lui disse averti mandato
danari a bastanza, e che tu eri per il cammino. Ora se per caso egli è
il contrario, sí come io credo, di quel che ha detto il cardinal de' Gaddi,
aùto questa mia lettera, rispondi subito, perché io rappiccherò
il filo, e farotti dare li promessi danari da questo magnanimo Re”.
Ora avvertisca il mondo e chi vive in esso,
quanto possono le maligne istelle coll'avversa fortuna in noi umani! Io non
avevo parlato due volte a' mie' dí a questo pazzerellino di questo
cardinaluccio de' Gaddi; e questa sua saccenteria lui non la fece per farmi un
male al mondo, ma solo la fece per cervellinaggine e per dappocaggine sua,
mostrandosi di avere ancora lui cura alle faccende degli uomini virtuosi che
desiderava avere il Re, sí come faceva il cardinal di Ferrara. Ma fu tanto
iscimunito da poi, che lui non mi avvisò nulla; che certo io per non
vituperare uno sciocco fantoccino, per amor della patria, arei trovato qualche
scusa per rattoppare quella sua sciocca saccenteria. Subito aùto la
lettera del reverendissimo cardinale di Ferrara, risposi, come del cardinal de'
Gaddi io non sapevo nulla al mondo, e che se pure lui mi avessi tentato di tal
cosa, io non mi sarei mosso di Italia senza saputa di Sua Signoria
reverendissima, e maggiormente che io avevo in Roma una maggior quantità
di faccende che mai per l'adietro io avessi aute; ma che a un motto di Sua
Maestà cristianissima, dettomi da un tanto Signore, come era Sua
Signoria reverendissima, io mi leverei subito, gittando ogni altra cosa a
traverso. Mandato le mie lettere, quel traditore del mio lavorante perugino
pensò a una malizia, la quale subito gli venne ben fatta rispetto alla
avarizia di papa Pagolo da Farnese, ma piú del suo bastardo figliuolo, allora
chiamato duca di Castro. Questo ditto lavorante fece intendere a un di que'
segretari del signor Pierluigi ditto, che, essendo stato meco per lavorante
parecchi anni, sapeva tutte le mie faccende; per le quale lui faceva fede al
ditto signor Pierluigi, che io ero uomo di piú di ottanta mila ducati di
valsente, e che questi dinari io gli avevo la maggior parte in gioie; le qual
gioie erano della Chiesa, e che io l'avevo rubate nel tempo del sacco di Roma in
castel Sant'Agnolo, e che vedessino di farmi pigliare subito e segretamente. Io
avevo, una mattina infra l'altre, lavorato piú di tre ore innanzi giorno in
sull'opere della sopra ditta isposa, e in mentre che la mia bottega si apriva e
spazzava, io m'ero messo la cappa addosso per dare un poco di volta; e preso il
cammino per istrada Iulia, isboccai in sul canto della Chiavica; dove Crespino
bargello con tutto la sua sbirreria mi si fece in contro, e mi disse: - Tu se'
prigion del Papa -. Al quale io dissi: - Crespino, tu m'hai preso in iscambio.
- No - disse Crespino - tu se' il virtuoso Benvenuto, e benissimo ti cognosco,
e ti ho a menare in castel Sant'Agnolo, dove vanno li signori e li uomini
virtuosi pari tua -. E perché quattro di quelli caporali sua mi si gittorno
addosso e con violenza mi volevan levare una daga che io avevo a canto e certe
anella che io avevo in dito, il ditto Crespino a loro disse: - Non sia nessun
di voi che lo tocchi: basta bene che voi facciate l'uffizio vostro, che egli
non mi fugga -. Dipoi accostatomisi, con cortese parole mi chiese l'arme. In
mentre che io gli davo l'arme, mi venne considerato che in quel luogo appunto
io avevo ammazzato Pompeo. Di quivi mi menorno in Castello, e in una camera su
di sopra, innel mastio, mi serrorno prigione. Questa fu la prima volta che mai
io gustai prigione, insino a quella mia età de' trentasette anni.
cii. Considerato il signor Pierluigi, figliuol del Papa, la gran
quantità de' danari, che era quella di che io era accusato, subito ne
chiese grazia a quel suo padre Papa, che di questa somma de' danari gliene
facessi una donagione. Per la qual cosa il Papa volentieri gliene concesse, e
di piú gli disse che ancora gliene aiuterebbe riscuotere: di modo che, tenutomi
prigione otto giorni interi, in capo degli otto giorni, per dar qualche termine
a questa cosa, mi mandorno a esaminare. Di che io fu' chiamato in
una di quelle sale, che sono in Castello, del Papa, luogo molto onorato; e gli
esaminatori erano il Governator di Roma, qual si domandava messer Benedetto
Conversini pistolese, che fu da poi vescovo de Iesi; l'altro si era il
Proccurator fiscale, che del nome suo non mi ricordo; l'altro, ch'era il terzo,
si era il giudice de' malificii, qual si domandava messer Benedetto da Cagli.
Questi tre uomini mi cominciorno a esaminare, prima con amorevole parole, da
poi con asprissime e paventose parole, causate perché io dissi loro: - Signori
mia, egli è piú d'una mezz'ora, che voi non restate di domandarmi di
favole e di cose, che veramente si può dire che voi cicalate, o che voi
favellate. Modo di dire, cicalare, che non ha tuono, o favellare,
che non vol dir nulla; sí che io vi priego che voi mi diciate quel che voi
volete da me, e che io senta uscir delle bocche vostre ragionamenti, e non
favole e cicalerie -. A queste mie parole il Governatore, ch'era pistoiese, e
non potendo piú palliare la sua arrovellata natura mi disse: - Tu parli molto
sicuramente, anzi troppo altiero; di modo che cotesta tua alterigia io te la
farò diventare piú umile che un canino a li ragionamenti che tu mi
udirai dirti; e' quali non saranno né cicalerie né favole, come tu di', ma
saranno una proposta di ragionamenti, ai quali e' bisognerà bene che tu
ci metti del buono a dirci la ragione di essi -. E cosí cominciò: - Noi
sappiamo certissimo che tu eri in Roma al tempo del Sacco, che fu fatto in
questa isfortunata città di Roma; e in questo tempo tu ti trovasti in
questo Castel Sant'Agnolo, e ci fusti adoperato per bombardiere; e perché
l'arte tua si è aurifice e gioielliere, papa Clemente per averti
conosciuto in prima, e per non essere qui altri di cotai professione, ti
chiamò innel suo secreto e ti fece isciorre tutte le gioie dei sua regni
e mitrie e anella; e di poi fidandosi di te, volse che tu gnene cucissi adosso:
per la qual cosa tu ne serbasti per te di nascosto da Sua Santità per il
valore di ottanta mila scudi. Questo ce l'ha detto un tuo lavorante, con il
quale tu ti se' confidato e vantatone. Ora noi ti diciamo liberamente che tu
truovi le gioie o il valore di esse gioie: di poi ti lasceremo andare in tua
libertà.
CIII. Quando
io senti' queste parole io non mi possetti tenere di non mi muovere a
grandissime risa; di poi riso alquanto, io dissi: - Molto ringrazio Idio, che
per questa prima volta che gli è piaciuto a Sua Maestà che io sia
carcerato, pur beato che io non son carcerato per qualche debol cosa, come il
piú delle volte par che avvenga ai giovani. Se questo che voi dite fussi il
vero, qui non c'è pericolo nissuno per me che io dovessi essere
gastigato da pena corporale, avendo le legge in quel tempo perso tutte le sue
autorità; dove che io mi potria scusare, dicendo, che come ministro, cotesto
tesoro io lo avessi guardato per la sacra e santa Chiesa appostolica,
aspettando di rimetterlo a buon Papa, o sí veramente da quello che e' mi fussi
richiesto, quale ora saresti voi, se la stessi cosí -. A queste parole quello
arrabbiato Governatore pistoiese non mi lasciò finir di dire le mie
ragione, che lui furiosamente disse: - Acconciala in quel modo che tu vuoi,
Benvenuto, che annoi ci basta avere ritrovato il nostro; e fa' pur presto, se
tu non vuoi che noi facciamo altro che con parole -. E volendosi rizzare e
andarsene, io dissi loro: - Signori, io non son finito di esaminare, sicché
finite di esaminarmi, e poi andate dove a voi piace -. Subito si rimissono
assedere, assai bene in còllora, quasi mostrando di non voler piú udire
parola nissuna che io allor dicessi, e mezzo sollevati, parendo loro di aver
trovato tutto quello che loro desideravono di sapere. Per la qual cosa io
cominciai in questo tenore: - Sappiate, Signori, che e' sono in circa a venti
anni che io abito Roma, e mai né qui né altrove fui carcerato -. A queste
parole quel birro di quel Governatore disse: - Tu ci hai pure ammazzati degli
uomini -. Allora io dissi: - Voi lo dite, e non io; ma se uno venissi per
ammazzar voi, cosí prete, voi vi difenderesti, e ammazzando lui le sante legge
ve lo comportano: sí che lasciatemi dire le mie ragione, volendo potere
riferire al Papa e volendo giustamente potermi giudicare. Io di nuovo vi dico,
ch'e' son vicino a venti anni che io abito questa maravigliosa Roma, e in essa
ho fatto grandissime faccende della mia professione: e perché io so che questa
è la sieda di Cristo, e' mi sarei promesso sicuramente, che se un
principe temporale mi avessi voluto fare qualche assassinamento, io sarei
ricorso a questa santa Cattedra e a questo Vicario di Cristo, che difendessi le
mie ragione. Oimè! dove ho io a 'ndare adunque? e a chi principe che mi
difenda da un tanto iscellerato assassinamento? Non dovevi voi, prima che voi
mi pigliassi, intendere dove io giravo questi ottanta mila ducati? Ancora non
dovevi voi vedere la nota delle gioie che ha questa Camera appostolica iscritte
diligentemente da cinquecento anni in qua? Di poi che voi avessi trovato
mancamento, allora voi dovevi pigliare tutti i miei libri, insieme con esso
meco. Io vi fo intendere che e' libri, dove sono iscritte tutte le gioie del
Papa e de' regni, sono tutti in piè, e non troverrete manco nulla di
quello che aveva papa Clemente, che non sia iscritto diligentemente. Solo
potria essere, che quando quel povero uomo di papa Clemente si volse accordare
con quei ladroni di quelli imperiali, che gli avevano rubato Roma e vituperata
la Chiesa, veniva a negoziare questo accordo uno che si domandava Cesare
Iscatinaro, se ben mi ricordo; il quale, avendo quasi che concluso l'accordo
con quello assassinato Papa, per fargli un poco di carezze, si lasciò
cadere di dito un diamante, che valeva in circa quattromila scudi: e perché il
ditto Iscatinaro si chinò a ricorlo, il Papa gli disse che lo tenessi
per amor suo. Alla presenza di queste cose io mi trovai in fatto: e se questo
ditto diamante vi fussi manco, io vi dico dove gli è ito; ma io penso
sicurissimamente che ancora questo troverrete iscritto. Di poi a vostra posta
vi potrete vergognare di avere assassinato un par mio, che ho fatto tante
onorate imprese per questa Sieda appostolica. Sappiate che se io non ero io, la
mattina che gli imperiali entrorno in Borgo, sanza impedimento nessuno
entravano in Castello; e io, sanza esser premiato per quel conto, mi gittai
vigorosamente alle artiglierie, che i bombardieri e' soldati di munizione
avevano abbandonato, e messi animo a un mio compagnuzzo, che si domandava
Raffaello da Montelupo, iscultore, che ancora lui abbandonato s'era messo innun
canto tutto ispaventato, e non facendo nulla: io lo risvegliai; e lui e io soli
amazzammo tanti de' nemici, che i soldati presono altra via. Io fui quello che
detti una archibusata allo Scatinaro, per vederlo parlare con papa Clemente
sanza una reverenza, ma con ischerno bruttissimo, come luteriano e impio che
gli era. Papa Clemente a questo fece cercare in Castello chi quel tale fussi
stato per impiccarlo. Io fui quello che ferí il principe d'Orangio d'una
archibusata nella testa, qui sotto le trincee del castello. Appresso ho fatto
alla santa Chiesa tanti ornamenti d'argento, d'oro e di gioie, tante medaglie e
monete sí belle e sí onorate. è
questa adunche la temeraria pretesca remunerazione, che si usa a uno uomo che
vi ha con tanta fede e con tanta virtú servito e amato? O andate a ridire tutto
quanto io v'ho detto al Papa, dicendogli, che le sue gioie e' l'ha tutte, e che
io non ebbi mai dalla Chiesa nulla altro che certe ferite e sassate in cotesto
tempo del Sacco; e che io non facevo capitale d'altro che di un poco di
remunerazione da papa Pagolo, quale lui mi aveva promesso. Ora io son chiaro e
di Sua Santità e di voi ministri -. Mentre che io dicevo queste parole
egli stavano attoniti a udirmi; e guardandosi in viso l'un l'altro, in atto di
maraviglia si partirno da me. Andorno tutti a tre d'accordo a riferire al Papa
tutto quello che io avevo detto. Il Papa, vergognandosi, commesse con
grandissima diligenza che si dovessi rivedere tutti e' conti delle gioie. Di
poi che ebbon veduto che nulla vi mancava, mi lasciavono stare in Castello
senza dir altro: il signor Pierluigi, ancora allui parendogli aver mal fatto,
cercavon con diligenza di farmi morire.
civ. In questo poco de l'agitazion del
tempo il re Francesco aveva di già inteso minutamente come il Papa mi
teneva prigione e a cosí gran torto: avendo mandato per imbasciadore al Papa un
certo suo gentiluomo, il quale si domandava monsignor di Morluc, iscrisse a
questo che mi domandasse al Papa, come uomo di Sua Maestà. Il Papa, che
era valentissimo e maraviglioso uomo, ma in questa cosa mia si portò
come da poco e sciocco, e' rispose al ditto nunzio del Re, che Sua
Maestà non si curasse di me, perché io ero uomo molto fastidioso con
l'arme, e per questo faceva avvertito Sua Maestà che mi lasciassi stare,
perché lui mi teneva prigione per omicidii e per altre mie diavolerie cosí
fatte. Il Re di nuovo rispose, che innel suo regno si teneva bonissima iustizia;
e sí come Sua Maestà premiava e favoriva maravigliosamente gli uomini
virtuosi, cosí per il contrario gastigava i fastidiosi; e perché Sua
Santità mi avea lasciato andare, non si curando del servizio di detto
Benvenuto, e vedendolo innel suo regno volentieri l'aveva preso al suo
servizio; e come uomo suo lo domandava. Queste cose mi furno di grandissima
noia e danno, con tutto che e' fussino e' piú onorati favori che si possa
desiderare per un mio pari. Il Papa era venuto in tanto furore per la gelosia
che gli aveva che io non andassi a dire quella iscellerata ribalderia usatami,
che e' pensava tutti e' modi che poteva con suo onore di farmi morire. Il
Castellano di Castel Sant'Agnolo si era un nostro fiorentino, il quale si
domandava messer Giorgio cavaliere, degli Ugolini. Questo uomo da bene mi
usò le maggior cortesie che si possa usare al mondo, lasciandomi andare
libero per il Castello a fede mia sola; e perché gl'intendeva il gran torto che
m'era fatto, volendogli io dare sicurtà per andarmi a spasso
per il Castello, lui mi disse che non la poteva pigliare, avvenga che il Papa
istimava troppo questa cosa mia; ma che si fiderebbe liberamente della fede
mia, perché da ugniuno intendeva quanto io ero uomo da bene: e io gli detti la
fede mia, e cosí lui mi dette comodità che io potessi lavoracchiare
qualche cosa. A questo, pensando che questa indegnazione del Papa, sí per la
mia innocenzia, ancora per i favori del Re, si dovessi terminare, tenendo pure
la mia bottega aperta, veniva Ascanio mio garzone in Castello, e portavami
alcune cose da lavorare. Benché poco io potessi lavorare, vedendomi a quel modo
carcerato a cosí gran torto; pure facevo della necessità virtú:
lietamente il meglio che io potevo mi comportavo questa mia perversa fortuna.
Avevomi fatto amicissimi tutte quelle guardie e molti soldati del Castello. E
perché il Papa veniva qualche volta a cena in Castello, e in questo tempo che
c'era il Papa il Castello non teneva guardie, ma stava liberamente aperto come
un palazzo ordinario; e perché in questo tempo che il Papa stava cosí, tutti e'
prigioni si usavono con maggior diligenza riserrare; onde a me non
era fatto nessuna di queste cotal cose, ma liberamente in tutti questi tempi io
me ne andavo per il Castello; e piú volte alcuni di quei soldati mi consigliavano
che io mi dovessi fuggire, e che loro mi arieno fatte spalle, conosciuto
il gran torto che m'era fatto: ai quali io rispondevo che io avevo dato la fede
mia al Castellano, il quale era uomo tanto dabbene, e che mi aveva fatto cosí
gran piaceri. Eraci un soldato molto bravo e molto ingegnoso; e' mi diceva: -
Benvenuto mio, sappi che chi è prigione non è ubrigato né
si può ubrigare a osservar fede, sí come nessuna altra cosa; fa' quel
che io ti dico; fúggiti da questo ribaldo di questo Papa e da questo bastardo
suo figliuolo, i quali ti torranno la vita a ogni modo -. Io che m'ero proposto
piú volentieri perder la vita, che mancare a quello uomo da bene del Castellano
della mia promessa fede, mi comportavo questo inistimabil dispiacere, insieme con
un frate di casa Palavisina grandissimo predicatore.
CV. Questo
era preso per luteriano: era bonissimo domestico compagno, ma quanto a frate
egli era il maggior ribaldo che fussi al mondo, e s'accomodava a tutte le sorte
de' vizii. Le belle virtú sua io le ammiravo, e' brutti vizii sua grandemente
aborrivo, e liberamente ne lo riprendevo. Questo frate non faceva mai altro che
ricordarmi come io non ero ubrigato a osservar fede al Castellano, per esser io
in prigione. Alla qual cosa io rispondevo, che sí bene come frate lui diceva il
vero, ma come uomo e' non diceva il vero, perché un che fussi uomo e non frate,
aveva da osservare la fede sua in ogni sorte d'accidente, in che lui si fussi
trovato: però io che ero uomo e non frate, non ero mai per mancare di
quella mia simplice e virtuosa fede. Veduto il ditto frate che non potette
ottenere il conrompermi per via delle sue argutissime e virtuose ragioni tanto
maravigliosamente dette dallui, pensò tentarmi per un'altra via; e
lasciato cosí passare di molti giorni, in mentre mi leggeva le prediche di fra
Ierolimo Savonarolo, e' dava loro un comento tanto mirabile, che era piú bello
che esse prediche; per il quale io restavo invaghito, e non saria stata cosa al
mondo che io non avessi fatta per lui, da mancare della fede mia in fuora, sí
come io ho detto. Vedutomi il frate istupito delle virtú sue, pensò
un'altra via; che con un bel modo mi cominciò a domandare che via io
arei tenuto se e' mi fussi venuto voglia, quando loro mi avessino riserrato, a
aprire quelle prigione per fuggirmi. Ancora io, volendo mostrare qualche
sottigliezza di mio ingegno a questo virtuoso frate, gli dissi, che ogni
serratura difficilissima io sicuramente aprirrei, e maggiormente quelle di
quelle prigione, le quale mi sarebbono state come mangiare un poco di cacio
fresco. Il ditto frate, per farmi dire il mio segreto, mi sviliva, dicendo che
le son molte cose quelle che dicon gli uomini che son venuti in qualche credito
di persone ingegnose; che se gli avessino poi a mettere in opera le cose di che
loro si vantavano, perderebbon tanto di credito, che guai a loro: però
sentiva dire a me cose tanto discoste al vero, che se io ne fossi ricerco,
penserebbe ch'io n'uscissi con poco onore. A questo, sentendomi io pugnere da
questo diavolo di questo frate, gli dissi che io osavo sempre prometter di me
con parole molto manco di quello che io sapevo fare, e che cotesta cosa, che io
avevo promessa, delle chiave, era la piú debole; e con breve parole io lo farei
capacissimo che l'era sí come io dicevo; e inconsideratamente, sí come io
dissi, gli mostrai con facilità tutto quel che io avevo detto. Il frate,
facendo vista di non se ne curare, subito benissimo apprese ingegnosissimamente
il tutto. E sí come di sopra io ho detto, quello uomo da bene del Castellano mi
lasciava andare liberamente per tutto il Castello; e manco la notte non mi
serrava, sí come attutti gli altri e' faceva; ancora mi lasciava lavorare di
tutto quello che io volevo, sí d'oro e d'argento e di cera; e se bene io avevo
lavorato parecchi settimane in un certo bacino che io facevo al cardinal di
Ferrara, trovandomi affastidito dalla prigione, m'era venuto annoia il lavorare
quelle tale opere; e solo mi lavoravo, per manco dispiacere, di cera alcune mie
figurette: la qual cera il detto frate me ne buscò un pezzo, e
con detto pezzo messe in opera quel modo delle chiave, che io
inconsideratamente gli avevo insegnato. Avevasi preso per compagno e per aiuto
un cancelliere che stava col ditto Castellano. Questo cancelliere si domandava
Luigi, ed era padovano. Volendo far fare le ditte chiave, il magnano li
scoperse; e perché il Castellano mi veniva alcune volte a vedere alla mia
stanza, e vedutomi che io lavoravo di quelle cere, subito ricognobbe la ditta
cera e disse: - Se bene a questo povero uomo di Benvenuto è fatto un de'
maggior torti che si facessi mai, meco non dovev'egli far queste tale
operazione, che gli facevo quel piacere che io non potevo fargli. Ora io lo
terrò istrettissimo serrato e non gli farò mai piú un piacere al
mondo -. Cosí mi fece riserrare con qualche dispiacevolezza, massimo di parole
dittemi da certi sua affezionati servitori, e' quali mi volevano bene
oltramodo, e ora per ora mi dicevano tutte le buone opere che faceva per me
questo signor Castellano; talmente che in questo accidente mi chiamavano uomo
ingrato, vano e sanza fede. E perché un di quelli servitori piú aldacemente che
non si gli conveniva mi diceva queste ingiurie, onde io sentendomi innocente,
arditamente risposi, dicendo che mai io non mancai di fede, e che tal parole io
terrei a sostenere con virtú della vita mia, e che se piú e' mi diceva o lui o
altri tale ingiuste parole, io direi che ogniuno che tal cosa dicessi, se ne
mentirebbe per la gola. Non possendo sopportare la ingiuria, corse in camera del
Castellano e portommi la cera con quel model fatto della chiave. Subito che io
viddi la cera, io gli dissi che lui e io avevamo ragione; ma che mi facessi
parlare al signor Castellano perché io gli direi liberamente il caso come gli
stava, il quale era di molto piú importanza che loro non pensavano. Subito il
Castellano mi fece chiamare, e io gli dissi tutto il seguito; per la qual cosa
lui ristrinse il frate, il quale iscoperse quel cancelliere, che fu per essere
impiccato. Il detto Castellano quietò la cosa, la quale era di
già venuta agli orecchi del Papa; campò il suo cancelliere dalle
forche, e me allargò innel medesimo modo che io mi stavo in prima.
cvi. Quando io veddi seguire questa cosa con tanto rigore,
cominciai a pensare ai fatti mia, dicendo: - Se un'altra volta venissi un di
questi furori, e che questo uomo non si fidassi di me, io non gli verrei a
essere piú ubbrigato, e vorrei adoperare un poco li mia ingegni, li quali io
sono certo che mi riuscirieno altrimenti che quei di quel frataccio - e
cominciai a farmi portare delle lenzuola nuove e grosse, e le sudice io non le
rimandavo. Li mia servitori chiedendomele, io dicevo loro che si stessin cheti,
perché io l'avevo donate a certi di quei poveri soldati; che se tal cosa si
sapessi, quelli poveretti portavano pericolo della galera: di modo che li mia
giovani e servitori fidelissimamente, massimo Felice, mi teneva tal cosa
benissimo segreto, le ditte lenzuola. Io attendevo a votare un pagliericcio, e
ardevo la paglia, perché nella mia prigione v'era un cammino da
poter far fuoco. Cominciai di queste lenzuola e farne fascie larghe un terzo di
braccio: quando io ebbi fatto quella quantità che mi pareva che fussi a
bastanza a discendere da quella grande altura di quel mastio di castel
Sant'Agnolo, io dissi ai miei servitori, che avevo donato quelle che io volevo,
e che m'attendessino a portare delle sottile, e che sempre io renderei loro le
sudice. Questa tal cosa si dimenticò. A quelli mia lavoranti e servitori
il cardinale Santiquattro e Cornaro mi feciono serrare la bottega, dicendomi
liberamente, che il Papa non voleva intender nulla di lasciarmi andare, e che
quei gran favori del Re mi avevano molto piú nociuto che giovato; perché
l'ultime parole che aveva dette monsignor di Morluc da parte del Re, si erano
istate che monsigno' di Morluc disse al Papa che mi dovessi dare in mano a'
giudici ordinari della corte; e che, se io avevo errato, mi poteva gastigare,
ma non avendo errato, la ragion voleva che lui mi lasciassi andare. Queste
parole avevan dato tanto fastidio al Papa, che aveva voglia di non mi lasciare
mai piú. Questo Castellano certissimamente mi aiutava quanto e' poteva. Veduto
in questo tempo quelli nimici mia che la mia bottega s'era serrata, con
ischerno dicevano ogni dí qualche parola ingiuriosa a quelli mia servitori e
amici, che mi venivano a visitare alla prigione. Accadde un giorno in fra gli
altri che Ascanio, il quale ogni dí veniva dua volte da me, mi richiese che io
gli facessi una certa vestetta per sé d'una mia vesta azzurra di raso, la quale
io non portavo mai: solo mi aveva servito quella volta, che con essa andai in
processione: però io gli dissi che quelli non eran tempi, né io in luogo
da portare cotai veste. Il giovane ebbe tanto per male che io non gli detti questa
meschina vesta, che lui mi disse che se ne voleva andare a Tagliacozze a casa
sua. Io tutto appassionato gli dissi, che mi faceva piacere e levarmisi
dinanzi; e lui giurò con grandissima passione di non mai piú capitarmi
innanzi. Quando noi dicevamo questo, noi passeggiavamo intorno al mastio del
Castello. Avvenne che il Castellano ancora lui passeggiava: incontrandoci
appunto in Sua Signoria, e Ascanio disse: - Io me ne vo, e addio per sempre -.
A questo io dissi: - E per sempre voglio che sia, e cosí sia il vero: io
commetterò alle guardie che mai piú ti lascin passare - e voltomi al
Castellano, con tutto il cuore lo pregai, che commettessi alle guardie che non
lasciassino mai piú passare Ascanio, dicendo a Sua Signoria: - Questo
villanello mi viene a crescere male al mio gran male; sí che io vi priego,
Signor mio, che mai piú voi lasciate entrar costui -. Il Castellano li
incresceva assai, perché lo conosceva di maraviglioso ingegno: a presso a
questo egli era di tanta bella forma di corpo, che pareva che ogniuno, vedutolo
una sol volta, gli fossi espressamente affezionato. Il ditto giovane se ne
andava lacrimando, e portavane una sua stortetta, che alcune volte lui
segretamente si portava sotto. Uscendo del Castello e avendo il viso cosí
lacrimoso, si incontrò in dua di quei mia maggior nimici, che l'uno era
quel Ieronimo perugino sopra ditto, e l'altro era un certo Michele, orefici
tutt'a dua. Questo Michele, per essere amico di quel ribaldo di quel Perugino e
nimico d'Ascanio, disse: - Che vuol dir che Ascanio piagne? Forse gli è
morto il padre? dico quel padre di Castello -. Ascanio disse a questo: - Lui
è vivo, ma tu sarai or morto - e alzato la mana, con quella sua istorta
gli tirò dua colpi, in sul capo tutt'a dua, che col primo lo misse in
terra, e col sicondo poi gli tagliò tre dita della man ritta, dandogli
pure in sul capo. Quivi restò come morto. Subito fu riferito al Papa; e
il Papa in gran còllora disse queste parole: - Da poi che il Re vuole
che sia giudicato, andategli a dare tre dí di tempo per difendere la sua
ragione -. Subito vennono, e feciono il detto uflizio che aveva lor commesso il
Papa. Quello uomo da bene del Castellano subito andò dal Papa, e fecelo
chiaro come io non ero consapevole di tal cosa, e che io l'avevo cacciato via.
Tanto mirabilmente mi difese, che mi campò la vita da quel gran furore.
Ascanio se ne fuggí a Tagliacozze a casa sua, e di là mi scrisse
chiedendomi mille volte perdonanza, che cognosceva avere auto torto a
aggiugnermi dispiaceri ai mia gran mali; ma se Dio mi dava grazia che io
uscissi di quel carcere, che non mi vorrebbe mai piú abbandonare. Io gli feci
intendere che attendessi a 'mparare, e che se Dio mi dava libertà, io lo
chiamerei a ogni modo.
cvii. Questo Castellano aveva ogni anno certe infermità che
lo traevano del cervello a fatto; e quando questa cosa gli cominciava a venire,
e' parlava assai: modo che cicalare; e questi umori sua erano ogni anno
diversi, perché una volta gli parve essere uno orcio da olio; un'altra volta
gli parve essere un ranocchio, e saltava come il ranocchio; un'altra volta gli
parve esser morto, e bisognò sotterrarlo: cosí ogni anno veniva in
qualcun di questi cotai umori diversi. Questa volta si cominciò a
immaginare d'essere un pipistrello e, in mentre che gli andava a spasso, istrideva
qualche volta cosí sordamente come fanno i pipistrelli; ancora dava un po'
d'atto alle mane e al corpo, come se volare avessi voluto. Li medici sua, che
se ne erano avveduti, cosí li sua servitori vecchi, li davano tutti i piaceri
che immaginar potevano: e perché e' pareva loro che pigliassi gran piacere di
sentirmi ragionare, a ogni poco e' venivano per me e menavanmi da lui. Per la
qual cosa questo povero uomo talvolta mi tenne quattro e cinque ore intere, che
mai avevo restato di ragionar seco. Mi teneva alla tavola sua a mangiare al
dirimpetto a sé, e mai restava di ragionare o di farmi ragionare; ma io in quei
ragionamenti mangiavo pure assai bene. Lui, povero uomo, non mangiava e non
dormiva, di modo che me aveva istracco, che io non potevo piú; e guardandolo
alcune volte in viso, vedevo che le luce degli occhi erano ispaventate, perché
una guardava innun verso, e l'altra in un altro. Mi cominciò a domandare
se io avevo mai aùto fantasia di volare: al quale io dissi, che tutte
quelle cose che piú difficile agli uomini erano state, io piú volentieri avevo
cerco di fare e fatte; e questa del volare, per avermi presentato lo Idio della
natura un corpo molto atto e disposto a correre e a saltare molto piú che
ordinario, con quel poco dello ingegno poi, che manualmente io
adopererei, a me dava il cuore di volare al sicuro. Questo uomo mi
cominciò a dimandare che modi io terrei: al quale io dissi che,
considerato gli animali che volano, volendogl'imitare con l'arte quello che
loro avevano dalla natura, non c'era nissuno che si potessi imitare, se none il
pipistrello. Come questo povero uomo sentí quel nome di pipistrello, che era
l'umore in quel che peccava quel anno, messe una voce grandissima, dicendo: -
E' dice il vero, e' dice il vero; questa è essa, questa è essa -
e poi si volse a me e dissemi: - Benvenuto, chi ti dessi le comodità, e'
ti darebbe pure il cuore di volare? - Al quale io dissi, che se lui mi voleva
dar libertà da poi, che mi bastava la vista di volare insino in Prati,
faccendomi un paio d'alie di tela di rensa incerate. Allora e' disse: - E anche
a me ne basterebbe la vista; ma perché il Papa m'ha comandato che io tenga cura
di te come degli occhi suoi; io cognosco che tu sei un diavolo ingegnoso che ti
fuggiresti; però io ti vo' fare rinchiudere con cento chiave,
acciò che tu non mi fugga -. Io mi messi a pregarlo, ricordandogli che
io m'ero potuto fuggire e, per amor della fede che io gli avevo data, io non
gli arei mai mancato; però lo pregavo per l'amor de Dio, e per tanti
piaceri quanti mi aveva fatto, che lui non volessi arrogere un maggior male al
gran male che io avevo. In mentre che io gli dicevo queste parole, lui
comandava espressamente che mi legassimo, e che mi menassimo in prigione
serrato bene. Quando io viddi che non v'era altro rimedio, io gli dissi,
presenti tutti e' sua: - Serratemi bene e guardatemi bene, perché io mi
fuggirò a ogni modo -. Cosí mi menorno, e chiusonmi con maravigliosa
diligenza.
cviii. Allora io cominciai a pensate il modo che io avevo a tenere a
fuggirmi. Subito che io mi veddi chiuso, andai esaminando come stava la
prigione dove io ero rinchiuso; e parendomi aver trovato sicuramente il modo di
uscirne, cominciai a pensare in che modo io dovevo iscendere da quella grande
altezza di quel mastio, ché cosí si domandava quel alto torrione: e preso
quelle mie lenzuole nuove, che già dissi che io ne avevo fatte istrisce
e benissimo cucite, andai esaminando quanto vilume mi bastava a potere
iscendere. Giudicato quello che mi potria servire, e di tutto messomi in
ordine, trovai un paio di tanaglie, che io avevo tolto a un Savoino il quale
era delle guardie del Castello. Questo aveva cura alle botte e alle citerne;
ancora si dilettava di lavorare di legname; e perché aveva parecchi paia di
tanaglie, infra queste ve n'era un paio molto grosse e grande: pensando che le
fussino il fatto mio, io gliene tolsi e le nascosi drento in quel pagliericcio.
Venuto poi il tempo che io me ne volsi servire, io cominciai con esse a tentare
di quei chiodi che sostenevano le bandelle; e perché l'uscio era doppio, la
ribaditura delli detti chiodi non si poteva vedere; di modo che provatomi a
cavarne uno, durai grandissima fatica; pure di poi alla fine mi riuscí. Cavato
che io ebbi questo primo chiodo, andai immaginando che modo io dovevo tenere
che loro non se ne fussino avveduti. Subito mi acconciai con un poco di
rastiatura di ferro rugginoso un poco di cera, la quale era del medesimo colore
appunto di quelli cappelli d'aguti che io avevo cavati; e con essa cera
diligentemente cominciai a contrafare quei capei d'aguti in sulle lor bandelle:
e di mano in mano tanti quanti io ne cavavo, tanti ne contrafacevo di cera.
Lasciai le bandelle attaccate ciascuna da capo e da piè con certi delli
medesimi aguti che io avevo cavati, di poi gli avevo rimessi; ma erano
tagliati, di poi rimessi leggermente, tanto che e' mi tenevano le bandelle.
Questa cosa io la feci con grandissima difficultà, perché il Castellano
sognava ogni notte che io m'ero fuggito, e però lui mandava a vedere di
ora in ora la prigione; e quello che veniva a vederla aveva nome e fatti di
birro. Questo si domandava il Bozza, e sempre menava seco un altro, che si
domandava Giovanni, per sopranome Pedignone; questo era soldato, e 'l Bozza era
servitore. Questo Giovanni non veniva mai volta a quella mia prigione, che lui
non mi dicessi qualche ingiuria. Costui era di quel di Prato ed era stato in
Prato allo speziale: guardava diligentemente ogni sera quelle bandelle e tutta
la prigione, e io gli dicevo: - Guardatemi bene, perché io mi voglio fuggire a
ogni modo -. Queste parole feciono generare una nimicizia grandissima infra lui
e me; in modo che io con grandissima diligenza tutti quei mia ferruzzi, come se
dire tanaglie, e un pugnale assai ben grande e altre cose appartenente,
diligentemente tutti riponevo innel mio pagliericcio; cosí quelle fascie
che io avevo fatte, ancora queste tenevo in questo pagliericcio; e come gli era
giorno, subito da me ispazzavo: e se bene per natura io mi diletto della pulitezza,
allora io stavo pulitissimo. Ispazzato che io avevo, io rifacevo il mio letto
tanto gentilmente e con alcuni fiori, che quasi ogni mattina io mi facevo
portare da un certo Savoino. Questo Savoino teneva cura della citerna e delle
botte; e anche si dilettava di lavorar di legname; e a lui io rubai le
tanaglie, con che io sconficcai li chiodi di queste bandelle.
CIX. Per
tornare al mio letto, quando il Bozza e il Pedignione venivano, mai dicevo loro
altro, se non che stessin discosto dal mio letto, acciò che e' non me lo
inbrattassino e non me lo guastassino; dicendo loro, per qualche occasione che
pure per ischerno qualche volta che cosí leggermente mi toccavano un poco il
letto, per che io dicevo: - Ah i sudici poltroni! io metterò mano a una
di coteste vostre spade, e farovvi tal dispiacere, che io vi farò
maravigliare. Parv'egli esser degni di toccare il letto d'un mio pari? A questo
io non arò rispetto alla vita mia, perché io son certo che io vi
torrò la vostra; sí che lasciatemi stare colli mia dispiaceri e colle
mia tribulazione, e non mi date piú affanno di quello che io mi abbia; se non
che io vi farò vedere che cosa sa fare un disperato -. Queste
parole costoro le ridissono al Castellano, il quale comandò loro
ispressamente che mai non s'accostassino a quel mio letto, e che, quando e'
venivano da me, venissino sanza spade, e che m'avessino benissimo cura del
resto. Essendomi io assicurato del letto, mi parve aver fatto ogni cosa: perché
quivi era la importanza di tutta la mia faccenda. Una sera di festa in fra
l'altre, sentendosi il Castellano molto mal disposto e quelli sua omori
cresciuti, non dicendo mai altro se non che era pipistrello, e che se lor
sentissino che Benvenuto fossi volato via, lasciassino andar lui, che mi
raggiugnerebbe, poiché e' volerebbe di notte ancora lui certamente piú forte di
me, dicendo: - Benvenuto è un pipistrello contrafatto, e io sono un
pipistrello dadovero; e perché e' m'è stato dato in guardia, lasciate
pur fare a me, che io lo giugnerò ben io -. Essendo stato piú notti in
questo umore, gli aveva stracco tutti i sua servitori; e io per diverse vie
intendevo ogni cosa, massimo da quel Savoino che mi voleva bene. Resolutomi
questa sera di festa a fuggirmi a ogni modo, in prima divotissimamente a Dio
feci orazione, pregando Sua divina Maestà, che mi dovessi difendere e
aiutare in quella tanta pericolosa inpresa; di poi messi mano a tutte le cose
che io volevo operare, e lavorai tutta quella notte. Come io fu' a dua ore
innanzi il giorno, io cavai quelle bandelle con grandissima fatica, perché il
battente del legno della porta, e anche il chiavistello facevano un contrasto,
il perché io non potevo aprire: ebbi a smozzicare il legno; pure alla fine io
apersi, e messomi adosso quelle fascie, quale io avevo avvolte a modo di fusi
di accia in su dua legnetti, uscito fuora, me ne andai dalli destri del mastio;
e scoperto per di drento dua tegoli del tetto, subito facilmente vi saltai
sopra. Io mi trovavo in giubbone bianco e un paio di calze bianche e simile un
paio di borzachini, inne' quali avevo misso quel mio pugnalotto già
ditto. Di poi presi un capo di quelle mie fascie e l'accomandai a un pezzo di
tegola antica ch'era murata innel ditto mastio: a caso questa usciva fuori a
pena quattro dita. Era la fascia acconcia a modo d'una staffa. Appiccata che io
l'ebbi a quel pezzo della tegola, voltomi a Dio, dissi: - Signore Idio, aiuta
la mia ragione, perché io l'ho, come tu sai, e perché io mi aiuto -.
Lasciatomi andare pian piano, sostenendomi per forza di braccia, arrivai in
sino in terra. Non era lume di luna, ma era un bel chiarore. Quando io fui in
terra, guardai la grande altezza che io avevo isceso cosí animosamente, e lieto
me ne andai via, pensando d'essere isciolto. Per la qual cosa non fu vero,
perché il Castellano da quella banda aveva fatto fare dua muri assai bene alti,
e se ne serviva per istalla e per pollaio: questo luogo era chiuso con grossi
chiavistelli per di fuora. Veduto che io non potevo uscir di quivi, mi dava
grandissimo dispiacere. In mentre che io andavo innanzi e indietro pensando ai
fatti mia, detti dei piedi in una gran pertica, la quale era coperta dalla
paglia. Questa con gran difficultà dirizzai a quel muro; di poi a forza
di braccia la salsi insino in cima del muro. E perché quel muro era tagliente,
io non potevo aver forza da tirar sú la ditta pertica; però mi risolsi a
'piccare un pezzo di quelle fascie, che era l'altro fuso, perché uno de' dua
fusi io l'avevo lasciato attaccato al mastio del Castello: cosí presi un pezzo
di quest'altra fascia, come ho detto, e legatala a quel corrente, iscesi questo
muro, il qual mi dette grandissima fatica e mi aveva molto istracco, e di piú
avevo iscorticato le mane per di drento, che sanguinavano; per la qual cosa io
m'ero messo a riposare, e mi avevo bagnato le mane con la mia orina
medesima. Stando cosí, quando e' mi parve che le mie forze fussino ritornate,
salsi all'ultimo procinto delle mura, che guarda in verso Prati; e
avendo posato quel mio fuso di fascie, col quale io volevo abbracciare un merlo,
e in quel modo che io avevo fatto innella maggior altezza, fare in questa
minore; avendo, come io dico, posato la mia fascia, mi si scoperse adosso una
di quelle sentinelle che facevano la guardia. Veduto impedito il mio disegno, e
vedutomi in pericolo della vita, mi disposi di affrontare quella guardia; la
quale, veduto l'animo mio diliberato e che andavo alla volta sua con armata
mano, sollecitava il passo, mostrando di scansarmi. Alquanto iscostatomi dalle
mie fascie, prestissimo mi rivolsi indietro; e se bene io viddi un'altra
guardia, tal volta quella non volse veder me. Giunto alle mie fascie, legatole
al merlo, mi lasciai andare; per la qual cosa, o sí veramente parendomi essere
presso a terra, avendo aperto le mane per saltare, o pure erano le mane
istracche, non possendo resistere a quella fatica, io caddi, e in questo cader
mio percossi la memoria e stetti isvenuto piú d'un'ora e mezzo, per quanto io
posso giudicare. Di poi, volendosi far chiaro il giorno, quel poco del fresco
che viene un'ora innanzi al sole, quello mi fece risentire; ma sí bene stavo
ancora fuor della memoria, perché mi pareva che mi fussi stato tagliato il
capo, e mi pareva d'essere innel purgatorio. Stando cosí, a poco a poco mi
ritornorno le virtú innell'esser loro, e m'avviddi che io ero fuora del
Castello, e subito mi ricordai di tutto quello che io avevo fatto. E perché la
percossa della memoria io la senti' prima che io m'avvedessi della rottura
della gamba, mettendomi le mane al capo ne le levai tutte sanguinose: di poi cercatomi
bene, cognobbi e giudicai di non aver male che d'importanza fussi; però,
volendomi rizzare di terra, mi trovai tronca la mia gamba ritta sopra il
tallone tre dita. Né anche questo mi sbigottí: cavai il mio pugnalotto insieme
con la guaina; che per avere questo un puntale con una pallottola assai grossa
in cima del puntale, questo era stato la causa dell'avermi rotto la gamba;
perché contrastando l'ossa con quella grossezza di quella pallottola, non
possendo l'ossa piegarsi, fu causa che in quel luogo si roppe: di modo che io
gittai via il fodero del pugnale, e con il pugnale tagliai un pezzo di quella
fascia che m'era avanzata, e il meglio che io possetti rimissi la gamba
insieme, di poi carpone con il detto pugnale in mano andavo inverso la porta. Per
la qual cosa giunto alla porta, io la trovai chiusa; e veduto una certa pietra
sotto la porta a punto, la quale, giudicando che la non fussi molto forte, mi
provai a scalzarla; di poi vi messi le mane, e sentendola dimenare, quella
facilmente mi ubbidí, e trassila fuora; e per quivi entrai.
cx. Era stato piú di cinquecento passi andanti da il luogo dove io
caddi alla porta dove io entrai. Entrato che io fui drento in Roma, certi cani
maschini mi si gittorno addosso e malamente mi morsono; ai quali,
rimettendosi piú volte a fragellarmi, io tirai con quel mio pugnale e ne punsi
uno tanto gagliardamente, che quello guaiva forte, di modo che gli altri cani,
come è lor natura, corsono a quel cane: e io sollecitai andandomene
inverso la chiesa della Trespontina cosí carpone. Quando io fui arrivato alla
bocca della strada che volta in verso Sant'Agnolo, di quivi presi il cammino
per andarmene alla volta di San Piero, per modo che faccendomisi dí chiaro
addosso, considerai che io portavo pericolo; e scontrato uno acqueruolo che
aveva carico il suo asino e pieno le sue coppelle d'acqua, chiamatolo a me, lo
pregai che lui mi levassi di peso e mi portassi in su il rialto delle scalee di
San Piero, dicendogli: - Io sono un povero giovane, che per casi d'amore sono voluto
iscendere da una finestra; cosí son caduto, e rottomi una gamba. E perché il
luogo dove io sono uscito è di grande importanza, e porterei pericolo di
non essere tagliato a pezzi, però ti priego che tu mi lievi presto, e io
ti donerò uno scudo d'oro - e messi mano alla mia borsa, dove io ve ne
avevo una buona quantità. Subito costui mi prese, e volentieri me si
misse a dosso, e portommi in sul ditto rialto delle scalee di San Piero; e
quivi mi feci lasciare, e dissi che correndo ritornassi al suo asino. Subito
presi il cammino cosí carpone, e me andavo in casa la Duchessa, moglie
del duca Ottavio e figliuola dello Imperadore, naturale, non legittima, istata
moglie del duca Lessandro, duca di Firenze; e perché io sapevo certissimo che
appresso a questa gran principessa c'era di molti mia amici, che con essa eran
venuti di Firenze; ancora perché lei ne aveva fatto favore mediante il
Castellano; che volendomi aiutare disse al Papa, quando la Duchessa fece
l'entrata in Roma, che io fu' causa di salvare per piú di mille scudi di danno,
che faceva loro una grossa pioggia: per la qual cosa lui disse ch'era
disperato, e che io gli messi cuore, e disse come io avevo acconcio parecchi
pezzi grossi di artiglieria inverso quella parte dove i nugoli erano piú
istretti, e di già cominciati a piovere un'acqua grossissima; per la
qual cosa cominciato a sparare queste artiglierie si fermò la pioggia,
e alle quattro volte si mostrò il sole; e che io ero stato intera
causa che quella festa era passata benissimo; per la qual cosa, quando la
Duchessa lo intese, aveva ditto: - Quel Benvenuto è un di quei virtuosi
che stavano con la buona memoria del duca Lessandro mio marito, e sempre io ne
terrò conto di quei tali, venendo la occasione di far loro piacere - e
ancora aveva parlato di me al duca Ottavio suo marito. Per queste cause io me
ne andavo diritto a casa di Sua Eccellenzia, la quale istava in Borgo Vecchio
in un bellissimo palazzo che v'è; quivi io sarei stato sicurissimo che
il Papa non m'arebbe tocco; ma perché la cosa che io avevo fatta insin quivi
era istata troppo maravigliosa a un corpo umano, non volendo Idio che io
entrassi in tanta vanagloria, per il mio meglio mi volse dare ancora una
maggior disciplina, che non era istata la passata; e la causa si fu, che
in mentre che io me ne andavo cosí carpone su per quelle scalee, mi ricognobbe
subito un servitore che stava con il cardinal Cornaro; il qual cardinale era
alloggiato in Palazzo. Questo servitore corse alla camera del Cardinale, e
isvegliatolo, disse: - Monsignor reverendissimo, gli è giú il vostro
Benvenuto, il quale s'è fuggito di Castello, e vassene carponi tutto
sanguinoso: per quanto e' mostra, gli ha rotto una gamba, e non sappiamo dove
lui si vada -. Il Cardinale disse subito: - Correte, e portatemelo di peso qui
in camera mia -. Giunto a lui, mi disse che io non dubitassi di nulla; e subito
mandò per i primi medici di Roma; e da quelli io fui medicato: e questo
fu un maestro Iacomo da Perugia, molto eccellentissimo cerusico. Questo
mirabilmente mi ricongiunse l'osso, poi fasciommi, e di sua mano mi cavò
sangue; che essendomi gonfiato le vene molto piú che l'ordinario, ancora perché
lui volse fare la ferita alquanto aperta, uscí sí grande il furor di sangue,
che gli dette nel viso, e di tanta abbundanzia lo coperse, che lui non si
poteva prevalere a medicarmi: e avendo preso questa cosa per molto male
aúrio, con gran difficoltà mi medicava; e piú volte mi volse lasciare,
ricordandosi che ancora a lui ne andava non poca pena a avermi medicato o pure
finito di medicarmi. Il Cardinale mi fece mettere in una camera segreta, e
subito andatosene a Palazzo con intenzione di chiedermi al Papa.
CXI. In questo mezzo s'era levato un romore
grandissimo in Roma: che di già s'era vedute le fascie attaccate al gran
torrione del mastio di Castello, e tutta Roma correva a vedere questa
inistimabil cosa. Intanto il Castellano era venuto inne' sua maggiori umori
della pazzia, e voleva a forza di tutti e' sua servitori volare ancora
lui da quel mastio, dicendo che nessuno mi poteva ripigliare se non lui, con il
volarmi drieto. In questo messer Roberto Pucci, padre di messer Pandolfo,
avendo inteso questa gran cosa, andò in persona per vederla; di poi se
ne venne a Palazzo, dove si incontrò nel cardinal Cornaro, il quale
disse tutto il seguíto, e sí come io ero in una delle sue camere di già
medicato. Questi dua uomini da bene d'accordo si andorno a gittare
inginocchioni dinanzi al Papa, il quale, innanzi che e' lasciassi lor dir
nulla, lui disse: - Io so tutto quel che voi volete da me -. Messer Roberto
Pucci disse: - Beatissimo Padre, noi vi domandiamo per grazia quel povero uomo,
che per le virtú sue merita avergli qualche discrezione, e appresso a quelle,
gli ha mostro una tanta bravuria insieme con tanto ingegno, che non è
parsa cosa umana. Noi non sappiamo per qual peccati Vostra Santità l'ha
tenuto tanto in prigione; però, se quei peccati fussino troppo
disorbitanti, Vostra Santità è santa e savia, e facciane alto e
basso la voluntà sua; ma se le son cose da potersi concedere, la preghiamo
che a noi ne faccia grazia -. Il Papa a questo vergognandosi disse che m'aveva
tenuto in prigione a riquisizione di certi sua - per essere lui un poco troppo
ardito; ma che cognosciuto le virtú sue e volendocelo tenere appresso a di noi,
avevamo ordinato di dargli tanto bene, che lui non avessi aùto causa di
ritornare in Francia. Assai m'incresce del suo gran male; ditegli che attenda a
guarire; e de' sua affanni, guarito che e' sarà, noi lo ristoreremo -.
Venne questi dua omaccioni, e dettonmi questa buona nuova da parte del Papa. In
questo mezzo mi venne a visitare la nobiltà di Roma, e giovani e vecchi
e d'ogni sorte. Il Castellano, cosí fuor di sé, si fece portare al Papa; e
quando fu dinanzi a Sua Santità cominciò a gridare dicendo, che
se lui non me gli rendeva in prigione, che gli faceva un gran torto, dicendo: -
E' m'è fuggito sotto la fede che m'aveva data; oimè, che e'
m'è volato via, e mi promesse di non volar via! - Il Papa ridendo disse:
- Andate, andate, che io ve lo renderò a ogni modo -. Aggiunse il
Castellano, dicendo al Papa: - Mandate a lui il Governatore, il quale intenda
chi l'ha aiutato fuggire, perché se gli è de' mia uomini, io lo voglio
impiccare per la gola a quel merlo dove Benvenuto è fuggito -. Partito
il Castellano, il Papa chiamò il Governatore sorridendo, e disse: -
Questo è un bravo uomo, e questa è una maravigliosa cosa; con
tutto che, quando io ero giovane, ancora io iscesi di quel luogo proprio -. A
questo il Papa diceva il vero, perché gli era stato prigione in Castello per
avere falsificato un breve, essendo lui abbreviatore di Parco Maioris: papa
Lessandro l'aveva tenuto prigione assai; di poi, per esser la cosa troppo
brutta, si era risoluto tagliargli il capo; ma volendo passare le feste del Corpus
Domini, sapendo il tutto il Farnese, fece venire Pietro Chiavelluzzi con
parecchi cavalli, e in Castello corroppe con danari certe di quelle guardie; di
modo che il giorno del Corpus Domini, in mentre che il Papa era in
processione, Farnese fu messo in un corbello e con una corda fu collato insino
a terra. Non era ancor fatto il procinto delle mura al Castello, ma era
solamente il torrione, di modo che lui non ebbe quelle gran difficultà a
fuggirne, sí come ebbi io: ancora, lui era preso a ragione e io a torto. Basta,
ch'e' si volse vantare col Governatore d'essere istato ancora lui nella sua
giovanezza animoso e bravo, e non s'avvedde che gli scopriva le sue gran
ribalderie. Disse: - Andate e ditegli liberamente vi dica chi gli ha aiutato:
cosí sie stato chi e' vuole, basta che allui è perdonato, e
prometteteglielo liberamente voi.
CXII. Venne a me questo Governatore, il
quale era stato fatto di dua giorni innanzi vescovo de Iesi: giunto a me, mi
disse: - Benvenuto mio, se bene il mio uffizio è quello che spaventa gli
uomini, io vengo a te per assicurarti; e cosí ho autorità di prometterti
per commessione espressa di Sua Santità, il quale m'ha ditto che anche
lui ne fuggí, ma che ebbe molti aiuti e molta compagnia, ché altrimenti non
l'aria potuto fare. Io ti giuro per i Sacramenti che io ho addosso - che son
fatto Vescovo da dua dí in qua - che il Papa t'ha libero e perdonato, e gli
rincresce assai del tuo gran male; ma attendi a guarire, e piglia ogni cosa per
il meglio, ché questa prigione, che certamente innocentissima tu hai
aùto, la sarà istata la salute tua per sempre, perché tu
calpesterai la povertà, e non ti accadrà ritornare in Francia,
andando a tribulare la vita tua in questa parte e in quella. Sí che dimmi
liberamente il caso come gli è stato, e chi t'ha dato aiuto; di poi
confòrtati e ripòsati e guarisci -. Io mi feci da un capo e gli
contai tutta la cosa come l'era istata appunto, e gli detti grandissimi
contrasegni, insino a dell'acquerolo che m'aveva portato a dosso. Sentito
ch'ebbe il Governatore il tutto, disse: - Veramente queste son troppe gran cose
da uno uomo solo: le non son degne d'altro uomo che di te -. Cosí fattomi cavar
fuora la mana, disse: - Istà di buona voglia e confòrtati, che
per questa mana che io ti tocco tu se' libero e, vivendo, sarai felice -.
Partitosi da me, che aveva tenuto a disagio un monte di gran
gentiluomini e signori, che mi venivano a visitare, dicendo in fra loro: -
Andiamo a vedere quello uomo che fa miracoli - questi restorno meco; e chi di
loro mi offeriva e chi mi presentava. Intanto il Governatore giunto al Papa,
cominciò a contar la cosa che io gli avevo ditta; e appunto s'abbatté a
esservi alla presenza il signor Pierluigi suo figliuolo; e tutti facevano
grandissima maraviglia. Il Papa disse: - Certamente questa è troppo gran
cosa -. Il signor Pierluigi allora aggiunse dicendo: - Beatissimo Padre, se voi
lo liberate, egli ve ne farà delle maggiori, perché questo è uno
animo d'uomo troppo aldacissimo. Io ve ne voglio contare un'altra, che voi non
sapete. Avendo parole questo vostro Benvenuto, innanzi che lui fussi
prigione, con un gentiluomo del cardinal Santa Fiore; le qual
parole vennono da una piccola cosa che questo gentiluomo aveva detto a
Benvenuto, di modo che lui bravissimamente e con tanto ardire rispose, insino a
voler far segno di far quistione; il detto gentiluomo referito al cardinale
Santa Fiore, il qual disse, che se vi metteva le mani lui, che gli caverebbe il
pazzo del capo; Benvenuto, inteso questo, teneva un suo scoppietto in ordine,
con il quale lui dà continuamente in un quattrino: e un giorno,
affacciandosi il Cardinale alla finestra, per essere la bottega del ditto
Benvenuto sotto il palazzo del Cardinale, preso il suo scoppietto si era messo
in ordine per tirare al Cardinale. E perché il Cardinale ne fu avvertito, si
levò subito. Benvenuto, perché e' non si paressi tal cosa,
tirò a un colombo terraiuolo che covava in una buca su alto del palazzo,
e dette al ditto colombo innel capo: cosa impossibile da poterlo credere. Ora
Vostra Santità faccia tutto quel che la vuole di lui; io non voglio
mancare di non ve lo aver detto. E' gli potrebbe anche venir voglia, parendogli
essere stato prigione a torto, di tirare una volta a Vostra Santità.
Questo è uno animo troppo afferato e troppo sicuro. Quando gli ammazzò
Pompeo, gli dette dua pugnalate innella gola in mezzo a dieci uomini che lo
guardavano, e poi si salvò, con biasimo non piccolo di coloro, li quali
eran pure uomini da bene e di conto.
cxiii. Alla presenza di queste parole si era quel gentiluomo di Santa
Fiore con il quale io avevo aùto parole, e affermò al Papa tutto
quel che il suo figliuolo aveva detto. Il Papa stava gonfiato e non
parlava nulla. Io non voglio mancare che io non dica le mie ragione giustamente
e santamente. Questo gentiluomo di Santa Fiore venne un giorno a me e mi porse
un piccolo anellino d'oro, il quale era tutto imbrattato d'ariento vivo,
dicendo: - Isvivami questo anelluzzo e fa presto -. Io che avevo innanzi molte
opere d'oro con gioie importantissime, e anche sentendomi cosí sicuramente
comandare da uno a il quale io non avevo mai né parlato né veduto, gli dissi
che io non avevo per allora isvivatoio, e che andassi a un altro. Costui, sanza
un proposito al mondo, mi disse che io ero uno asino. Alle qual parole io
risposi, ch'e' non diceva la verità, e che io era uno uomo in ogni conto
da piú di lui; ma che se lui mi stuzzicava, io gli darei ben calci piú forte
che uno asino. Costui riferí al Cardinale e li dipinse uno inferno. Ivi a dua
giorni io tirai drieto al palazzo in una buca altissima a un colombo salvatico,
che covava in quella buca; e a quel medesimo colombo io avevo visto tirare piú
volte da uno orefice che si domandava Giovan Francesco della Tacca, milanese, e
mai l'aveva colto. Questo giorno che io tirai, il colombo mostrava appunto il
capo, stando in sospetto per l'altre volte che gli era stato tirato; e perché
questo Giovan Francesco e io eravamo rivali alle caccie dello stioppo, essendo
certi gentiluomini e mia amici in su la mia bottega, mi mostrorno dicendo: - Ecco
lassú il colombo di Giovan Francesco della Tacca, a il quale gli ha tante volte
tirato: or vedi, quel povero animale sta in sospetto; a pena che e' mostri il
capo -. Alzando gli occhi, io dissi: - Quel poco del capo solo basterebbe a me
a ammazzarlo, se m'aspettassi solo che io mi ponessi a viso il mio stioppo -.
Quelli gentiluomini dissono, che e' non gli darebbe quello che fu inventore
dello stioppo. Al quale io dissi: - Vadine un boccale di grego di quel buono di
Palombo oste, e che se m'aspetta che io mi metta a viso il mio mirabile
Broccardo (che cosí chiamavo il mio stioppo) io lo investirò in quel
poco del capolino che mi mostra -. Subito postomi a viso, a braccia, senza
appoggiare o altro, feci quanto promesso avevo, non pensando né al Cardinale né
a persona altri; anzi mi tenevo il Cardinale per molto mio patrone. Sí che
vegga il mondo, quando la fortuna vuol torre a 'ssassinare uno uomo, quante
diverse vie la piglia. Il Papa gonfiato e ingrognato, stava considerando quel
che gli aveva detto il suo figliuolo.
cxiv. Dua giorni apresso andò il cardinal Cornaro a dimandare
un vescovado al Papa per un suo gentiluomo, che si domandava messer Andrea
Centano. Il Papa è vero che gli aveva promesso un vescovado: essendo
cosí vacato, ricordando il Cardinale al Papa sí come tal cosa lui gli aveva
promesso, il Papa affermò esser la verità e che cosí gliene
voleva dare; ma che voleva un piacere da Sua Signoria reverendissima, e questo
si era che voleva che gli rendessi nelle mane Benvenuto. Allora il Cardinale disse:
- Oh se Vostra Santità gli ha perdonato e datomelo libero, che
dirà il mondo e di Vostra Santità e di me? - Il Papa
replicò: - Io voglio Benvenuto, e ogniun dica quel che vuole,
volendo voi il vescovado -. Il buon Cardinale disse che Sua Santità gli dessi
il vescovado, e che del resto pensassi da sé e facessi da poi tutto quel che
Sua Santità e voleva e poteva. Disse il Papa, pure alquanto
vergognandosi della iscellerata già data fede sua: - Io manderò
per Benvenuto, e per un poco di mia sadisfazione lo metterò giú in
quelle camere del giardino segreto, dove lui potrà attendere a guarire,
e non si gli vieterà che tutti gli amici sua lo vadino a vedere, e anche
li farò dar le spese, insin che ci passi questo poco della fantasia -.
Il Cardinale tornò a casa e mandommi subito a dire per quello che
aspettava il vescovado, come il Papa mi rivoleva nelle mane; ma che mi terrebbe
in una camera bassa innel giardin segreto; dove io starei visitato da ugniuno
siccome io era in casa sua. Allora io pregai questo messer Andrea, che fussi
contento di dire al Cardinale che non mi dessi al Papa e che lasciassi fare a
me; per che io mi farei rinvoltare in un materasso e mi farei porre fuor di
Roma in luogo sicuro; perché se lui mi dava al Papa, certissimo mi dava alla morte.
Il Cardinale, quando e' le intese, si crede che lui l'arebbe volute fare, ma
quel messer Andrea, a chi toccava il vescovado, scoperse la cosa. Intanto il
Papa mandò per me subito e fecemi mettere, sí come e' disse, in una
camera bassa innel suo giardin segreto. Il Cardinale mi mandò a dire che
io non mangiassi nulla di quelle vivande che mi mandava il Papa, e che lui mi
manderebbe da mangiare; e che quello che gli aveva fatto non aveva potuto far
di manco, e che io stessi di buona voglia, che m'aiuterebbe tanto, che io sarei
libero. Standomi cosí, ero ogni dí visitato e offertomi da molti gran
gentiluomini molte gran cose. Dal Papa veniva la vivanda, la quale io non
toccavo, anzi mi mangiavo quella che veniva dal cardinal Cornaro, e cosí mi
stavo. Io avevo in fra gli altri mia amici un giovane greco di età di
venticinque anni: questo era gagliardissimo oltramodo e giucava di spada meglio
che ogni altro uomo che fussi in Roma: era pusillo d'animo, ma era fidelissimo
uomo da bene e molto facile al credere. Aveva sentito dire che il Papa aveva
detto che mi voleva remunerare de' miei disagi. Questo era il vero, che il Papa
aveva detto tal cose da principio, ma innell'ultimo da poi diceva altrimenti.
Per la qual cosa io mi confidavo con questo giovane greco e gli dicevo: -
Fratello carissimo, costoro mi vogliono assassinare, sí che ora è tempo
aiutarmi: che pensano che io non me ne avvegga, facendomi questi favori
istrasordinari, gli quali son tutti fatti per tradirmi -. Questo giovane da
bene diceva: - Benvenuto mio, per Roma si dice che il Papa t'ha dato uno
uffizio di cinquecento scudi di entrata; sí che io ti priego di grazia, che tu
non faccia che questo tuo sospetto ti tolga un tanto bene -. E io pure lo
pregavo con le braccia in croce che mi levassi di quivi, perché io sapevo bene
che un Papa simile a quello mi poteva fare di molto bene, ma che io sapevo
certissimo che lui studiava in farmi segretamente, per suo onore, di molto
male; però facessi presto e cercassi di camparmi la vita di costui: che
se lui mi cavava di quivi, innel modo che io gli arei detto, io sempre arei
riconosciuta la vita mia dallui; venendo il bisogno, la ispenderei. Questo
povero giovane piangendo mi diceva: - O caro mio fratello, tu ti vuoi pure
rovinare, e io non ti posso mancare a quanto tu mi comandi; sí che dimmi il
modo e io farò tutto quello che tu dirai, se bene e' fia contra mia
voglia -. Cosí eramo risoluti e io gli avevo dato tutto l'ordine, che
facilissimo ci riusciva. Credendomi che lui venissi per mettere in opera quanto
io gli avevo ordinato, mi venne a dire che per la salute mia mi voleva
disubbidire, e che sapeva bene quello che gli aveva inteso da uomini che
stavano appresso a il Papa e che sapevano tutta la verità de' casi mia.
Io che non mi potevo aiutare in altro modo, ne restai malcontento e disperato.
Questo fu il dí del Corpus Domini nel mille cinquecento trenta nove.
cxv. Passatomi tempo da poi questa disputa, tutto quel giorno sino
alla notte, dalla cucina del Papa venne una abbundante vivanda: ancora dalla cucina
del cardinale Cornaro venne bonissima provvisione: abbattendosi a
questo parecchi mia amici, gli feci restare a cena meco; onde io, tenendo la
mia gamba isteccata innel letto, feci lieta cera con esso loro; cosí
soprastettono meco. Passato un'ora di notte di poi si partirno; e dua mia
servitori m'assettorno da dormire, di poi si messono nell'anticamera. Io avevo
un cane nero quant'una mora, di questi pelosi, e mi serviva mirabilmente alla
caccia dello stioppo, e mai non istava lontan da me un passo. La notte,
essendomi sotto il letto, ben tre volte chiamai il mio servitore, che me lo
levassi di sotto il letto, perché e' mugliava paventosamente. Quando i
servitori venivano, questo cane si gittava loro adosso per mordergli. Gli erano
ispaventati e avevan paura che il cane non fossi arrabbiato, perché
continuamente urlava. Cosí passammo insino alle quattro ore di notte. Al tocco
delle quattro ore di notte entrò il bargello con molta famiglia drento
nella mia camera: allora il cane uscí fuora e gittossi adosso a questi con
tanto furore, stracciando loro le cappe e le calze, e gli aveva missi in tanta
paura, che lor pensavano che fossi arrabbiato. Per la qual cosa il bargello,
come persona pratica, disse: - La natura de' buoni cani è questa, che
sempre s’indovinano e predicono il male che de' venire a' lor
padroni: pigliate dua bastoncelli e difendetevi dal cane, e gli altri leghino
Benvenuto in su questa sieda, e menatelo dove voi sapete -. Sí come io ho detto
era il giorno passato del Corpus Domini, ed era in circa a quattro ore
di notte. Questi mi portavano turato e coperto, e quattro di loro
andavano innanzi, faccendo iscansare quelli pochi uomini che ancora si
ritrovavano per la strada. Cosí mi portorno a Torre di Nona, luogo detto cosí,
e messomi innella prigione della vita, posatomi in sun un poco di materasso e
datomi uno di quelle guardie, il quale tutta la notte si condoleva della mia
cattiva fortuna, dicendomi: - Oimè! povero Benvenuto, che hai tu fatto a
costoro? - Onde io benissimo mi avvisai quel che mi aveva a 'ntervenire, sí per
essere il luogo cotal' e anche perché colui me lo aveva avvisato. Istetti un
pezzo di quella notte col pensiero a tribularmi qual fussi la causa che a Dio
piaceva darmi cotal penitenzia; e perché io non la ritrovavo, forte mi
dibattevo. Quella guardia s'era messa poi il meglio che sapeva a confortarmi;
per la qual cosa io lo scongiurai per l'amor de Dio che non mi dicessi nulla e
non mi parlassi, avvenga che da me medesimo io farei piú presto e meglio una
cotale resoluzione. Cosí mi promesse. Allora io volsi tutto il cuore a Dio; e
divotissimamente lo pregavo, che gli piacessi di accettarmi innel suo regno; e
che se bene io m'ero dolto, parendomi questa tal partita in questo modo molto
innocente, per quanto prommettevano gli ordini delle legge, e se bene io avevo
fatto degli omicidi, quel suo Vicario mi aveva dalla patria mia chiamato e
perdonato coll'autorità delle legge e sua; e quello che io avevo fatto,
tutto s'era fatto per difensione di questo corpo che Sua Maestà mi aveva
prestato: di modo che io non conoscevo, sicondo gli ordini con che si vive
innel mondo, di meritare quella morte; ma che a me mi pareva che m'intervenissi
quello che avviene a certe isfortunate persone, le quale, andando per la strada,
casca loro un sasso da qualche grande altezza in su la testa e gli ammazza:
qual si vede ispresso esser potenzia delle stelle: non già che quelle
sieno congiurate contro a di noi per farci bene o male, ma vien fatto innelle
loro congionzione, alle quale noi siamo sottoposti; se bene io cognosco d'avere
il libero albitrio: e se la mia fede fussi santamente esercitata, io sono
certissimo che gli angeli del Cielo mi porterieno fuor di quel carcere e mi
salverieno sicuramente d'ogni mio affanno; ma perché e' non mi pare d'esser
fatto degno da Dio d'una tal cosa, però è forza che questi
influssi celesti adempieno sopra di me la loro malignità. E con questo
dibattutomi un pezzo, da poi mi risolsi e subito appiccai sonno.
cxvi. Fattosi l'alba, la guardia mi destò e disse: - O
sventurato uomo da bene, ora non è piú tempo a dormire, perché gli
è venuto quello che t'ha a dare una cattiva nuova -. Allora io dissi: -
Quanto piú presto io esca di questo carcer mondano, piú mi sarà grato,
maggiormente essendo sicuro che l'anima mia è salva, e che io muoio
attorto. Cristo glorioso e divino mi fa compagno alli sua discepoli e amici, i
quali, e Lui e loro, furno fatti morire attorto: cosí attorto son io fatto
morire, e santamente ne ringrazio Idio. Perché non viene innanzi colui che m'ha
da sentenziare? - Disse la guardia allora: - Troppo gl'incresce di te e piange
-. Allora io lo chiamai per nome, il quale aveva nome messer Benedetto da
Cagli. Dissi: - Venite innanzi, messer Benedetto mio, ora che io son benissimo
disposto e resoluto; molto piú gloria mia è che io muoia attorto, che se
io morissi a ragione: venite innanzi, vi priego, e datemi un sacerdote, che io
possa ragionar con seco quattro parole; con tutto che non bisogni, perché la
mia santa confessione io l'ho fatta col mio Signore Idio; ma solo per osservare
quello che ci ha ordinato la santa madre Chiesa; che se bene e' la mi fa questo
iscellerato torto, io liberamente le perdono. Sí che venite, messer Benedetto
mio, e speditemi prima che 'l senso mi cominciassi a offendere -. Ditte queste
parole, questo uomo da bene disse alla guardia che serrassi la porta, perché
sanza lui non si poteva far quello uffizio. Andossene a casa della
moglie del signor Pierluigi, la quale era insieme con la Duchessa sopraditta; e
fattosi innanzi a loro, questo uomo disse: - Illustrissima mia patrona, siate
contenta, vi priego per l'amor de Dio, di mandare a dire al Papa, che mandi un
altro a dar quella sentenzia a Benvenuto e fare questo mio uffizio, perché io
lo rinunzio e mai piú lo voglio fare - e con grandissimo cordoglio
sospirando si partí. La Duchessa, che era lí alla presenza, torcendo il viso
disse: - Questa è la bella iustizia che si tiene in Roma da il Vicario
de Dio! il Duca già mio marito voleva un gran bene a questo uomo per le
sue bontà e per le sue virtú, e non voleva che lui ritornassi a Roma,
tenendolo molto caro appresso a di sé - e andatasene in là borbottando
con molte parole dispiacevole. La moglie del signor Pierluigi, si chiamava la
signora Ieronima, se ne andò dal Papa, e gittandosi ginocchioni - era
alla presenza parecchi Cardinali - questa donna disse tante gran cose, che la
fece arrossire il Papa, il quale disse: - Per vostro amore noi lo lascieremo
istare, se bene noi non avemmo mai cattivo animo inverso di lui -. Queste
parole le disse il Papa per essere alla presenza di quei Cardinali, i quali
avevano sentito le parole che aveva detto quella maravigliosa e ardita donna.
Io mi stetti con grandissimo disagio, battendomi il cuore
continuamente. Ancora stette a disagio tutti quelli uomini che erano destinati
a tale cattivo uffizio, insino che era tardi all'ora del desinare; alla quale
ora ogni uomo andò ad altre sue faccende, per modo che a me fu portato
da desinare: onde che maravigliato, io dissi: - Qui ha potuto piú la
verità che la malignità degli influssi celesti; cosí priego Idio,
che se gli è in suo piacere, mi scampi da questo furore -. Cominciai a
mangiare, e sí bene come io avevo fatto prima la resoluzione al mio gran male,
ancora la feci alla speranza del mio gran bene. Desinai di buona voglia. Cosí
mi stetti sanza vedere o sentire altri insino a una ora di notte. A quell'ora
venne il bargello con buona parte della sua famiglia, il quale mi rimesse in su
quella sieda, che la sera dinanzi lui m'aveva in quel luogo portato, e di quivi
con molte amorevol parole a me, che io non dubitassi, e a' sua birri
comandò che avessin cura di non mi percuotere quella gamba che io avevo
rotta, quanto agli occhi sua. Cosí facevano, e mi portorno in Castello, di
donde io ero uscito; e quando noi fummo su da alto innel mastio, dov'è
un cortiletto, quivi mi fermorno per alquanto.
cxvii. In questo mezzo il Castellano sopraditto si fece portare in
quel luogo dove io ero, e cosí ammalato e afflitto disse: - Ve' che ti ripresi?
- Sí - dissi io - ma ve' che io mi fuggi', come io ti dissi? e se io non fussi
stato venduto, sotto la fede papale, un vescovado da un veniziano cardinale e
un romano da Farnese, e' quali l'uno e l'altro ha graffiato il viso alle
sacre sante legge, tu mai non mi ripigliavi. Ma da poi che ora da loro
s'è messa questa male usanza, fa' ancora tu il peggio che tu puoi, ché
di nulla mi curo al mondo -. Questo povero uomo cominciò molto forte a
gridare, dicendo: - Oimè! oimè! costui non si cura né di vivere
né di morire, ed è piú ardito che quando egli era sano: mettetelo
là sotto il giardino, e non mi parlate mai piú di lui, che costui
è causa della morte mia -. Io fui portato sotto un giardino in una
stanza oscurissima, dove era dell'acqua assai, piena di tarantole e di molti
vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra, e per la
sera non mi fu dato da cena, e fui serrato a quattro porte: cosí istetti insino
alle dicianove ore il giorno seguente. Allora mi fu portato da mangiare: ai
quali io domandai che mi dessino alcuni di quei miei libri da leggere. Da
nessuno di questi non mi fu parlato, ma riferirno a quel povero uomo del
Castellano, il quale aveva domandato quello che io dicevo. L'altra mattina poi
mi fu portato un mio libro di Bibbia vulgare, e un certo altro libro dove eran
le Cronache di Giovan Villani. Chiedendo io certi altri mia libri, mi fu
detto che io non arei altro e che io avevo troppo di quelli. Cosí infelicemente
mi vivevo in su quel materasso tutto fradicio, ché in tre giorni era acqua ogni
cosa; onde io stavo continuamente senza potermi muovere, perché io avevo la
gamba rotta; e volendo andare pur fuor del letto per la necessità de'
miei escrimenti, andavo carpone con grandissimo affanno per non fare lordure in
quel luogo dove io dormiva. Avevo un'ora e mezzo del dí di un poco di riflesso
di lume il quale m'entrava in quella infelice caverna per una piccolissima
buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e 'l resto del giorno e della
notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de' pensieri de Dio e di
questa nostra fragilità umana; e mi pareva esser certo in brevi giorni
di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita. Pure, il meglio
che io potevo da me istesso mi confortavo, considerando quanto maggior dispiacere
e' mi saria istato innel passare della vita mia, sentire quella inistimabil
passione del coltello, dove istando a quel modo io la passavo con un sonnifero,
il quale mi s'era fatto molto piú piacevole che quello di prima: e a poco a
poco mi sentivo spegnere, insino a tanto che la mia buona complessione si fu
accomodata a quel purgatorio. Di poi che io senti' essersi lei accomodata
e assuefatta, presi animo di comportarmi quello inistimabil dispiacere in sino
a tanto quanto lei stessa me lo comportava.
cxviii. Cominciai da principio la Bibbia, e divotamente la leggevo e
consideravo, ed ero tanto invaghito in essa, che se io avessi potuto non arei
mai fatto altro che leggere: ma, come e' mi mancava el lume, subito mi saltava
addosso tutti i miei dispiaceri e davanmi tanto travaglio, che piú volte io
m'ero resoluto in qualche modo di spegnermi da me medesimo; ma perché e' non mi
tenevono coltello, io avevo male il modo a poter far tal cosa. Però una
volta infra l'altre avevo acconcio un grosso legno che vi era e puntellato in
modo d'una stiaccia; e volevo farlo iscoccare sopra il mio capo; il quale me lo
arebbe istiacciato al primo: di modo che, acconcio che io ebbi tutto questo
edifizio, movendomi risoluto per iscoccarlo, quando io volsi dar drento colla
mana, io fui preso da cosa invisibile e gittato quattro braccia lontano da quel
luogo, e tanto ispaventato, che io restai tramortito: e cosí mi stetti da
l'alba del giorno insino alle dicianove ore che e' mi portorno il mio desinare.
I quali vi dovettono venire piú volte, che io non gli avevo sentiti;
perché quando io gli senti' entrò drento il capitan Sandrino Monaldi, e
senti' che disse: - Oh! infelice uomo, ve' che fine ha aùto una cosí
rara virtú! - Sentite queste parole apersi gli occhi: per la qual cosa viddi
preti colle toghe indosso, i quali dissono: - O voi, dicesti che gli era morto!
- Il Bozza disse: - Morto lo trovai, e però lo dissi -. Subito mi
levorno di quivi donde io ero, e levato il materasso, il quale era tutto
fradicio diventato come maccheroni, lo gittorno fuori di quella stanza: e
riditte queste tal cose al Castellano, mi fece dare un altro materasso. E cosí
ricordatomi che cosa poteva essere stata quella che m'avessi stòlto da
quella cotale inpresa, pensai che fussi stato cosa divina e mia difensitrice.
cxix. Di poi la notte mi apparve in sogno una maravigliosa criatura
in forma d'un bellissimo giovane, e a modo di sgridarmi diceva: - Sa' tu chi
è quello che t'ha prestato quel corpo, che tu volevi guastare innanzi al
tempo suo? - Mi pareva rispondergli che il tutto riconoscevo dallo Idio della
natura. - Addunche - mi disse - tu dispregi l'opere sue, volendole guastare?
Làsciati guidare a lui e non perdere la speranza della virtú sua - con
molte altre parole tanto mirabile, che io non mi ricordo della millesima parte.
Cominciai a considerare che questa forma d'angelo mi aveva ditto li vero; e
gittato gli occhi per la prigione, viddi un poco di mattone fracido; cosí lo
strofinai l'uno coll'altro e feci a modo che un poco di savore: di poi cosí
carpone mi accostai a un taglio di quella porta della prigione e co' denti
tanto feci, che io ne spiccai un poco di scheggiuzza; e fatto che io ebbi
questo, aspettai quella ora del lume che mi veniva alla prigione, la quale era
dalle venti ore e mezzo insino alle ventuna e mezzo. Allora cominciai a
scrivere il meglio che io poteva in su certe carte che avanzavano innel libro
della Bibbia; e riprendevo gli spiriti mia dello intelletto, isdegnati di non
voler piú istare in vita; i quali rispondevano a il corpo mio, iscusandosi
della loro disgrazia: e il corpo dava loro isperanza di bene: cosí in dialogo
iscrissi:
- Afflitti
spirti miei,
oimè
crudeli, che vi rincresce vita!
- Se contra
il Ciel tu sei,
chi fia per
noi? chi ne porgerà aita?
Lassa, lassaci
andare a miglior vita.
- Deh non
partite ancora,
che piú
felici e lieti
promette il
Ciel, che voi fussi già mai.
- Noi
resterèn qualche ora,
purché del
magno Idio concesso sieti
grazia, che
non si torni a maggior guai.
Ripreso di
nuovo il vigore, da poi che da per me medesimo io mi fui confortato, seguitando
di legger la mia Bibbia, e' mi ero di sorte assuefatto gli occhi in quella
oscurità, che dove prima io solevo leggere una ora e mezzo, io ne
leggevo tre intere. E tanto maravigliosamente consideravo la forza della virtú
de Dio in quei semplicissimi uomini, che con tanto fervore si credevano, che
Idio compiaceva loro tutto quello che quei s'inmaginavano: promettendomi ancora
io de l'aiuto de Dio, sí per la sua divinità e misericordia, e ancora
per la mia innocenzia; e continuamente, quando con orazione e quando con
ragionamenti volti a Dio, sempre istavo in questi alti pensieri in Dio; di modo
che e' mi cominciò a venire una dilettazione tanto grande di questi
pensieri in Dio, che io non mi ricordavo piú di nessuno dispiacere che mai io
per l'addietro avessi aùto, anzi cantavo tutto il giorno salmi e molte
altre mie composizione tutte diritte a Dio. Solo mi dava grande affanno le ugna
che mi crescevano; perché io non potevo toccarmi che con esse io non mi
ferissi: non mi potevo vestire, perché o le mi si arrovesciavano in drento o in
fuora, dandomi assai dolore. Ancora mi si moriva e' denti in bocca; e di questo
io m'avvedevo, perché sospinti i denti morti da quei ch'erano vivi, a poco a
poco sofforavano le gengie, e le punte delle barbe venivano a trapassare il
fondo delle lor casse. Quando me ne avvedevo gli tiravo, come cavargli d'una
guaina, sanza altro dolore o sangue: cosí me n'era usciti assai bene. Pure
accordatomi anche con quest'altri nuovi dispiaceri, quando cantavo, quando
oravo, e quando scrivevo con quel matton pesto sopraditto; e cominciai un
capitolo in lode della prigione, e in esso dicevo tutti quelli accidenti che da
quella io avevo aúti; qual capitolo si scriverà poi al suo luogo.
cxx. Il buon Castellano mandava ispesso segretamente a sentire
quello che io facevo: e perché l'ultimo dí di luglio io mi rallegrai da me
medesimo assai, ricordandomi della gran festa che si usa di fare in Roma
in quel primo dí d'agosto, da me dicevo: - Tutti questi anni passati questa
piacevol festa io l'ho fatta con le fragilità del mondo; questo anno io
la farò oramai con la divinità de Dio - e da me dicevo: - Oh
quanto piú lieto sono io di questa che di quelle! - Quelli che mi udirno dire
queste parole, il tutto riferirno al Castellano; il quale con maraviglioso
dispiacere disse: - Oh Dio! colui trionfa e vive, in tanto male; e io istento
in tante comodità, e muoio solo per causa sua! Andate presto e mettetelo
in quella piú sotterrania caverna, dove fu fatto morire il predicatore Foiano
di fame: forse che vedendosi in tanta cattività, gli potria
uscire il ruzzo del capo -. Subito venne dalla mia prigione il capitano
Sandrino Monaldi con circa venti di quei servitori del Castellano; e mi
trovorno che io ero ginocchioni, e non mi volgevo alloro, anzi adoravo un Dio
Padre addorno di Angeli e un Cristo risuscitante vittorioso, che io mi avevo
disegnati innel muro con un poco di carbone, che io avevo trovato ricoperto
dalla terra, di poi quattro mesi che io ero stato rovescio innel letto con la
mia gamba rotta; e tante volte sognai che gli Angeli mi venivano a medicarmela,
che di poi quattro mesi ero divenuto gagliardo come se mai rotta la non fussi
stata. Però vennono a me tanto armati, quasi che paurosi che io non
fussi un velenoso dragone. Il ditto capitano disse: - Tu senti pure che noi
siamo assai, e che con gran romore noi vegniamo a te; e tu a noi non ti volgi
-. A queste parole, immaginatomi benissimo quel peggio che mi poteva intervenire,
e fattomi pratico e costante al male, dissi loro: - A questo Idio che mi porta
a quello de' cieli ho volto l'anima mia e le mie contemplazione e tutti i mia
spiriti vitali; e a voi ha volto appunto quello che vi si appartiene, perché
quello che è di buono in me voi non sete degni di guardarlo, né potete
toccarlo: sí che fate, a quello che è vostro, tutto quello che voi
potete -. Questo duro capitano, pauroso, non sapendo quello che io mi volessi
fare, disse a quattro di quelli piú gagliardi: - Levatevi l'arme tutte da canto
-. Levate che se l'ebbono, disse: - Presto presto saltategli a dosso e
pigliatelo. Non fussi costui il diavolo, che tanti noi doviamo aver paura di
lui? Tenetelo or forte che non vi scappi -. Io, sforzato e bistrattato da loro,
inmaginandomi molto peggio di quello che poi m'intervenne, alzando gli occhi a
Cristo dissi: - O giusto Idio, tu pagasti pure in su quello alto legno tutti e'
debiti nostri: perché addunche ha a pagare la mia innocenzia i debiti di chi io
non conosco? oh! pure sia fatta la tua voluntà -. Intanto costoro mi
portavano via con un torchiaccio acceso; pensavo io che mi volessino gittare
innel trabocchetto del Sammalò: cosí chiamato un luogo paventoso, il
quale n'ha inghiottiti assai cosí vivi, perché vengono a cascare inne'
fondamenti del Castello giú innun pozzo. Questo non m'intervenne: per la qual
cosa me ne parve avere un bonissimo mercato; perché loro mi posono in
quella bruttissima caverna sopra detta, dove era morto il Foiano di fame, e ivi
mi lasciorno istare, non mi faccendo altro male. Lasciato che e' m'ebbono,
cominciai a cantare un De profundis clamavit, un Miserere, e In
te Domine speravi. Tutto quel giorno primo d'agosto festeggiai con
Dio, e sempre mi iubbilava il cuore di speranza e di fede. Il sicondo giorno mi
trassono di quella buca e mi riportorno dove era quei miei primi disegni di
quelle inmagini de Idio. Alle quali giunto che io fui, alla presenza di esse di
dolcezza e di letizia io assai piansi. Da poi il Castellano ogni dí voleva
sapere quello che io facevo e quello che io dicevo. Il Papa, che aveva inteso
tutto il seguíto, e di già li medici avevano isfidato a morte il ditto
Castellano, disse: - Innanzi che il mio Castellano muoia, io voglio che e'
faccia morire a suo modo quel Benvenuto, ch'è causa della morte sua,
acciò che lui non muoia invendicato -. Sentendo queste parole il
Castellano per bocca del duca Pierluigi, disse al ditto: - Addunche il Papa mi
dona Benvenuto, e vuole che io ne faccia le mie vendette? Non pensi addunque ad
altro e lasci fare a me -. Sí come il cuor del Papa fu cattivo inverso di me,
pessimo e doloroso fu innel primo aspetto quello del Castellano; e in questo
punto quello Invisibile, che mi aveva divertito dal volermi ammazzare, venne a
me pure invisibilmente ma con voce chiare; e mi scosse e levommi da iacere e
disse: - Oimè! Benvenuto mio, presto presto ricorri a Dio con le tue
solite orazione, e grida forte forte -. Subito spaventato mi posi
inginocchioni, e dissi molte mie orazioni ad alta voce: di poi tutte, un Qui
habitat in ajutorium; di poi questo, ragionai con Idio un pezzo: e
in uno istante la voce medesima aperta e chiara mi disse: - Vatti a riposa, e
non aver piú paura -. E questo fu che il Castellano, avendo dato commessione
bruttissima per la mia morte, subito la tolse e disse: - Non è egli
Benvenuto quello che io ho tanto difeso, e quello che io so certissimo che
è innocente, e che tutto questo male se gli è fatto attorto? O
come Idio arà mai misericordia di me e dei mia peccati, se io non
perdono a quelli che m'hanno fatto grandissime offese? O perché ho io a
offendere un uomo da bene, innocente, che m'ha fatto servizio e onore? Vadia,
che in cambio di farlo morire, io gli do vita e libertà; e lascio per
testamento che nissuno gli domandi nulla del debito della grossa ispesa che qui
gli arebbe a pagare -. Questo intese il Papa e l'ebbe molto per male.
CXXI. Io istavo intanto colle mie solite orazione e scrivevo il
mio Capitolo, e cominciai a fare ogni notte i piú lieti e i piú piacevoli sogni
che mai immaginar si possa; e sempre mi pareva essere insieme visibilmente con
quello che invisibile avevo sentito e sentivo bene ispesso, a il quale io non
domandavo altra grazia se none lo pregavo, e strettamente, che mi menassi dove
io potessi vedere il sole, dicendogli che era quanto desiderio io avevo; e che
se io una sola volta lo potessi vedere, da poi io morrei contento. Di tutte le
cose io avevo in questa prigione dispiacevoli, tutte mi erano diventate amiche
e compagne, e nulla mi disturbava. Se bene quei divoti del Castellano,
che aspettavano che il Castellano m'impiccassi a quel merlo dove io ero sceso,
sí come lui aveva detto, veduto poi che il detto Castellano aveva fatta
un'altra resoluzione tutta contraria da quella; costoro, che non la potevano
patire, sempre mi facevano qualche diversa paura, per la quale io dovessi
pigliare spavento per la perdita della vita. Sí come io dico, a tutte queste
cose io m'ero tanto addimesticato, che di nulla io non avevo piú paura e nulla
piú mi moveva; solo questo desiderio, che il sognare di vedere la spera del
sole. Di modo che seguitando innanzi colle mie grandi orazioni, tutte volte
collo affetto a Cristo, sempre dicendo: - O vero figliuol de Dio, io ti priego
per la tua nascita, per la tua morte in croce e per la tua gloriosa
resurressione, che tu mi facci degno che io vegga il sole, se none altrimenti,
almanco in sogno; ma se tu mi facessi degno che io lo vedessi con questi mia
occhi mortali, io ti prometto di venirti a visitare al tuo santo Sepulcro -.
Questa resoluzione e queste mie maggior preci a Dio le feci a' dí dua d'ottobre
nel mille cinquecento trentanove. Venuto poi la mattina seguente, che fu a' dí
tre di ottobre detto, io m'ero risentito alla punta del giorno, innanzi il
levar del sole, quasi un'ora; e sollevatomi da quel mio infelice covile, mi
messi a dosso un poco di vestaccia che io avevo, perché e' s'era cominciato a
far fresco: e stando cosí sollevato, facevo orazione piú divote che mai io
avessi fatte per il passato; ché in dette orazione dicevo con gran prieghi a
Cristo, che mi concedessi almanco tanto di grazia, che io sapessi per
ispirazion divina per qual mio peccato io facevo cosí gran penitenzia; e da poi
che Sua Maestà divina non mi aveva voluto far degno della vista del sole
almanco in sogno, lo pregavo per tutta la sua potenzia e virtú, che mi facessi
degno che io sapessi quale era la causa di quella penitenzia.
cxxii. Dette queste parole, da
quello Invisibile, a modo che un vento io fui preso e portato via, e fui menato
in una stanza dove quel mio Invisibile allora visibilmente mi si mostrava in
forma umana, in modo d'un giovane di prima barba; con faccia maravigliosissima,
bella, ma austera, non lasciva; e mi mostrava innella ditta stanza, dicendomi:
- Quelli tanti uomini che tu vedi, sono tutti quei che insino a qui son nati e
poi son morti -. Il perché io lo domandavo per che causa lui mi menava quivi:
il qual mi disse: - Vieni innanzi meco e presto lo vedrai -. Mi trovavo in mano
un pugnaletto e indosso un giaco di maglia; e cosí mi menava per quella grande
stanza, mostrandomi coloro che a infinite migliaia or per un verso or
per un altro camminavano. Menatomi innanzi, uscí innanzi a me per una piccola
porticella in un luogo come in una strada istretta; e quando egli mi
tirò drieto a sé innella detta istrada, all'uscire di quella stanza mi
trovai disarmato, ed ero in camicia bianca sanza nulla in testa, ed ero a man
ritta del ditto mio compagno. Vedutomi a modo, io mi maravigliavo, perché non
ricognoscevo quella istrada; e alzato gli occhi, viddi che il chiarore del sole
batteva in una pariete di muro, modo che una facciata di casa, sopra il mio
capo. Allora io dissi: - O amico mio, come ho io da fare, che io mi potessi
alzare tanto che io vedessi la propia spera del sole? - Lui mi mostrò
parecchi scaglioni che erano quivi alla mia man ritta, e mi disse: - Va
quivi da te -. Io spiccatomi un poco da lui, salivo con le calcagna allo
indietro su per quei parecchi scaglioni, e cominciavo a poco a poco a scoprire
la vicinità del sole. M'affrettavo di salire; e tanto andai in su in
quel modo ditto che io scopersi tutta la spera del sole. E perché la forza de'
suoi razzi, al solito loro, mi fece chiudere gli occhi, avvedutomi dell'error
mio, apersi gli occhi e guardando fiso il sole, dissi: - O sole mio, che t'ho
tanto desiderato, io voglio non mai piú vedere altra cosa, se bene i tuoi razzi
mi acciecano -. Cosí mi stavo con gli occhi fermi in lui; e stato che io fui un
pochetto in quel modo, viddi in un tratto tutta quella forza di quei gran razzi
gittarsi in sulla banda manca del ditto sole; e restato il sole netto, sanza i
suoi razzi, con grandissimo piacere io lo vedevo; e mi pareva cosa maravigliosa
che quei razzi si fussino levati in quel modo. Stavo a considerare che divina
grazia era stata questa, che io avevo quella mattina da Dio, e dicevo forte: -
Oh mirabil tua potenzia! oh gloriosa tua virtú! Quanto maggior grazia mi fai
tu, di quello che io non m'aspettavo! - Mi pareva questo sole sanza i razzi
sua, né piú né manco un bagno di purissimo oro istrutto. In mentre che io
consideravo questa gran cosa, viddi in mezzo a detto sole cominciare a
gonfiare; e crescere questa forma di questo gonfio, e in un tratto si fece un
Cristo in croce della medesima cosa che era il sole; ed era di tanta bella grazia
in benignissimo aspetto, quale ingegno umano non potria inmaginare una
millesima parte; e in mentre che io consideravo tal cosa, dicevo forte: -
Miracoli, miracoli! O Idio, o clemenzia tua, o virtú tua infinita, di che cosa
mi fai tu degno questa mattina! - E in mentre che io consideravo e che io
dicevo queste parole, questo Cristo si moveva inverso quella parte dove erano
andati i suoi razzi, e innel mezzo del sole di nuovo gonfiava, sí come aveva
fatto prima; e cresciuto il gonfio, subito si convertí innuna forma d'una
bellissima Madonna, qual mostrava di essere a sedere in modo molto alto con il
ditto figliuolo in braccio in atto piacevolissimo, quasi ridente; di qua e di
là era messa in mezzo da duoi Angeli bellissimi tanto quanto lo
immaginare non arriva. Ancora vedevo in esso sole, alla mana ritta, una figura
vestita a modo di sacerdote: questa mi volgeva le stiene e 'l viso teneva
vòlto inverso quella Madonna e quel Cristo. Tutte queste cose io vedevo
vere, chiare e vive, e continuamente ringraziavo la gloria di Dio con
grandissima voce. Quando questa mirabil cosa mi fu stata innanzi agli occhi
poco piú d'uno ottavo d'ora, da me si partí, e io fui riportato in quel mio
covile. Subito cominciai a gridare forte, ad alta voce dicendo: - La virtú de
Dio m'ha fatto degno di mostrarmi tutta la gloria sua, quale non ha forse mai
visto altro occhio mortale: onde per questo io mi cognosco di essere libero e
felice e in grazia a Dio; e voi ribaldi, ribaldi resterete, infelici e nella
disgrazia de Dio. Sappiate che io sono certissimo, che il dí di tutti e Santi,
quale fu quello che io venni al mondo nel mille cinquecento a punto, il primo
dí di novembre, la notte seguente a quattro ore, quel dí che verrà, voi
sarete forzati a cavarmi di questo carcere tenebroso; e non potrete far di
manco, perché io l'ho visto con gli occhi mia e in quel trono di Dio. Quel
sacerdote, qual era vòlto inverso Idio e che a me mostrava le stiene,
quello era il santo Pietro, il quale avocava per me, vergognandosi che innella
casa sua si faccia ai cristiani cosí brutti torti. Sí che ditelo a chi volete,
che nissuno non ha potenzia di farmi piú male; e dite al quel Signor che mi
tien qui, che se lui mi dà o cera o carta, e modo che io gli possa
sprimere questa gloria de Dio, che mi s'è mostra, certissimo io lo
farò chiaro di quel che forse lui sta in dubbio.
CXXIII. Il
Castellano, con tutto che i medici non avessino punto di speranza della sua
salute, ancora era restato in lui spirito saldo e si era partito quelli umori
della pazzia, che gli solevano dar noia ogni anno: e datosi in tutto e per
tutto all'anima, la coscienza lo rimordeva, e gli pareva pure che io avessi
ricevuto e ricevessi un grandissimo torto; e faccendo intendere al Papa quelle
gran cose che io diceva, il Papa gli mandava a dire, come quello che non
credeva nulla, né in Dio né in altri, dicendo che io ero impazzato, e che
attendessi il piú che lui poteva alla sua salute. Sentendo il Castellano queste
risposte, mi mandò a confortare e mi mandò da scrivere e della
cera e certi fuscelletti fatti per lavorar di cera, con molte cortese parole,
che me le disse un certo di quei sua servitori che mi voleva bene. Questo tale
era tutto contrario di quella setta di quegli altri ribaldi, che mi arebbon
voluto veder morto. Io presi quelle carte e quelle cere, e cominciai a
lavorare: e 'n mentre che io lavoravo scrissi questo sonetto indiritto al
Castellano:
S'i' potessi, Signor,
mostrarvi il vero
del lume
eterno, in questa bassa vita,
qual'ho da
Dio, in voi vie piú gradita
saria mia fede,
che d'ogni alto impero.
Ahi! se 'l credessi il gran Pastor del
chiero,
che Dio s'e
mostro in sua gloria infinita,
qual mai vide
alma, prima che partita
da questo
basso regno, aspro e sincero;
e porte di Iustizia sacre e sante
sbarrar vedresti,
e 'l tristo impio furore
cader legato,
e al ciel mandar le voce.
S'i' avessi luce, ahi lasso, almen le
piante
sculpir del
Ciel potessi il gran valore!
Non saria il
mio gran mal sí greve croce.
cxxIv. Venuto l'altro giorno a portarmi il mio mangiare quel
servitore del Castellano, il quale mi voleva bene, io gli detti questo sonetto
iscritto; il quale, segretamente da quelli altri maligni servitori, che mi
volevano male, lo dette al Castellano: il quale volentieri m'arebbe lasciato
andar via, perché gli pareva che quel torto che m'era istato fatto, fossi gran
causa della morte sua. Prese il sonetto, e lettolo piú d'una volta, disse: -
Queste non sono né parole né concetti da pazzo; ma sí bene d'uomo buono e da
bene - e subito comandò a un suo secretario che lo portassi al Papa, e
che lo dessi in propia mano, pregandolo che mi lasciassi andare. Mentre che il
detto segretario portò il sonetto al Papa, il Castellano mi mandò
lume per il dí e per la notte, con tutte le comodità che in quel luoco
si poteva desiderare; per la qual cosa io cominciai a migliorare della
indisposizione della mia vita, quale era divenuta grandissima. Il Papa lesse il
sonetto piú volte; di poi mandò a dire al Castellano, che farebbe ben
presto cosa che gli sarebbe grata. E certamente che il Papa m'arebbe poi
volentieri lasciato andare; ma il signor Pierluigi ditto, suo figliuolo, quasi
contra la voglia del Papa, per forza mi vi teneva. Avvicinandosi la morte del
Castellano, in mentre che io avevo disegnato e scolpito quel maraviglioso
miracolo, la mattina d'Ogni Santi mi mandò per Piero Ugolini, suo
nipote, a mostrare certe gioie; le quali quando io le viddi, subito dissi: -
Questo è il contrasegno della mia liberazione -. Allora questo giovane,
che era persona di pochissimo discorso, disse: - A cotesto non pensar tu mai,
Benvenuto -. Allora io dissi: - Porta via le tue gioie, perché io son condotto
di sorte, che io non veggo lume se none in questa caverna buia, innella quale
non si può discernere la qualità delle gioie; ma quanto
all'uscire di questo carcere, e' non finirà questo giorno intero, che
voi me ne verrete a cavare: e questo è forza che cosí sia, e non potete
far di manco. - Costui si partí e mi fece riserrare; e andatosene, soprastette
piú di dua ore di oriuolo; di poi venne per me senza armati, con dua ragazzi
che mi aiutassino sostenere, e cosí mi menò in quelle stanze larghe che
io avevo prima (questo fu 'l 1538), dandomi tutte le comodità che io
domandavo.
cxxv. Ivi a pochi giorni il Castellano, che pensava che io fussi
fuora e libero, stretto dal suo gran male passò di questa presente vita,
e in cambio suo restò messer Antonio Ugolini suo fratello il quale aveva
dato ad intendere al Castellano passato, suo fratello, che mi aveva lasciato
andare. Questo messer Antonio, per quanto io intesi, ebbe commessione dal Papa
di lasciarmi stare in quella prigione larga, per insino a tanto che lui gli
direbbe quel che s'avessi a fare di me. Quel messer Durante bresciano
già sopra ditto si convenne con quel soldato, speziale pratese, di darmi
a mangiare qualche licore in fra i miei cibi, che fussi mortifero, ma non
subito; facessi in termine di quattro o di cinque mesi. Andorno inmaginando di
mettere in fra il cibo del diamante pesto; il quale non ha veleno in sé di
sorte alcuna, ma per la sua inistimabil durezza resta con i canti acutissimi, e
non fa come l'altre pietre; ché quella sottilissima acutezza a tutte le pietre,
pestandole, non resta, anzi restano come tonde; e il diamante solo resta con
quella acutezza; di modo che entrando innello stomaco insieme con gli altri
cibi, in quel girare che e' fanno e' cibi per fare la digestione, questo
diamante s'appicca ai cartilaggini dello stomaco e delle budella, e di mano in
mano che 'l nuovo cibo viene pignendo sempre innanzi, quel diamante appiccato a
esse con non molto ispazio di tempo le fora; e per tal causa si muore; dove che
ogni altra sorte di pietre o vetri mescolata col cibo non ha forza
d'appiccarsi, e cosí ne va col cibo. Però questo messer Durante
sopraditto dette un diamante di qualche poco di valore a una di queste guardie.
Si disse che questa cura l'aveva aúta un certo Lione aretino orefice, mio gran
nimico. Questo Lione ebbe il diamante per pestarlo; e perché Lione era
poverissimo e 'l diamante poteva valere parecchi decine di scudi, costui dette
ad intendere a quella guardia, che quella polvere che lui gli dette fossi quel
diamante pesto che s'era ordinato per darmi; e quella mattina che io l'ebbi, me
lo messono in tutte le vivande; che fu un venerdí: io l'ebbi in insalata e in
intingoli e in minestra. Attesi di buona voglia a mangiare, perché la sera io
avevo digiunato. Questo giorno era di festa. è
ben vero che io mi sentivo scrosciare la vivanda sotto i denti, ma non
pensavo mai a tal ribalderie. Finito che io ebbi di desinare, essendo restato
un poco d'insalata innel piattello, mi venne diritto gli occhi a certe stiezze
sottilissime, le quali m'erano avanzate. Subito io le presi, e accostatomi al
lume della finestra, che era molto luminosa, parte che io le guardavo, mi venne
ricordato di quello iscrosciare che m'aveva fatto la mattina il cibo piú che il
solito: e riconsideratole bene, per quanto gli occhi potevan giudicare, mi
credetti resolutamente che quello fussi diamante pesto. Subito mi feci morto
resolutissimamente, e cosí cordoglioso corsi divotamente alle sante orazioni; e
come resoluto, mi pareva esser certo di essere ispacciato e morto: e per una
ora intera feci grandissime orazione a Dio, ringraziandolo di quella cosí
piacevol morte. Da poi che le mie stelle mi avevano cosí destinato, mi pareva
averne aùto un buon mercato a uscirne per quella agevol via; e mi ero
contento, e avevo benedetto il mondo e quel tempo che sopra di lui ero stato.
Ora me ne tornavo a miglior regno con la grazia de Dio, che me la pareva avere
sicurissimamente acquistata: e in quello che io stavo con questi pensieri,
tenevo in mano certi sottilissimi granelluzzi di quello creduto diamante, quale
per certissimo giudicavo esser tale. Ora, perché la speranza mai non muore, mi
parve essere sobbillato da un poco di vana speranza; qual fu causa che io presi
un poco di coltellino, e presi di quelle ditte granelline, e le missi in su 'n
un ferro della prigione; dipoi appoggiatovi la punta del coltello per piano,
agravando forte, senti' disfare la ditta pietra; e guardato bene con gli occhi,
viddi che cosí era il vero. Subito mi vesti' di nuova isperanza e dissi: -
Questo non è il mio nimico messer Durante, ma è una pietraccia
tenera la quale non è per farmi un male al mondo -. E sí come io m'ero risoluto
di starmi cheto e di morirmi in pace a quel modo, feci nuovo proposito, ma in
prima ringraziando Idio e benedicendo la povertà, che sí come molte
volte è la causa della morte degli uomini, quella volta ell'era stata
causa istessa della vita mia; perché avendo dato quel messer Durante mio
nimico, o chi fussi stato, un diamante a Lione, che me lo pestassi, di valore
di piú di cento scudi, costui per povertà lo prese per sé, e a me
pestò un berillo cetrino di valore di dua carlini, pensando forse, per
essere ancora esso pietra, che egli facesse el medesimo effetto del diamante.
CXXVI. In
questo tempo il vescovo di Pavia, fratel del conte di San Sicondo,
domandato monsignor de' Rossi di Parma, questo vescovo era prigione in Castello
per certe brighe già fatte a Pavia; e per esser molto mio amico, io mi
feci fuora, alla buca della mia prigione, e lo chiamai ad alta voce, dicendogli
che per uccidermi quei ladroni m'avevan dato un diamante pesto: e gli feci
mostrare da un suo servitore alcune di quelle polveruzze avanzatemi; ma io non
gli dissi che io avevo conosciuto che quello non era diamante; ma gli dicevo
che loro certissimo mi avevano avelenato da poi la morte di quell'uomo da bene
del Castellano; e quel poco che io vivessi, lo pregavo che mi dessi de' sua
pani uno il dí, perché io non volevo mai piú mangiare cosa nissuna che venissi
da loro. Cosí mi promise mandarmi della sua vivanda. Quel messer Antonio, che
certo di tal cosa non era consapevole, fece molto gran romore e volse vedere
quella pietra pesta, ancora lui pensando che diamante egli fussi; e pensando
che tale impresa venissi dal Papa, se la passò cosí di leggieri,
considerato che gli ebbe il caso. Io m'attendevo a mangiare della vivanda che
mi mandava il Vescovo, e scrivevo continuamente quel mio Capitolo della
prigione, mettendovi giornalmente tutti quelli accidenti che di nuovo mi
venivano, di punto in punto. Ancora il ditto messer Antonio mi mandava da
mangiare per un certo sopra ditto Giovanni speziale, di quel di Prato, e quivi
soldato. Questo, che m'era nimicissimo e che era istato lui quello che m'aveva
portato quel diamante pesto, io gli dissi che nulla io volevo mangiare di
quello che egli mi portava, se prima egli non me ne faceva la credenza: per la
qual cosa lui mi disse che a' Papi si fanno le credenze. Al quale io risposi,
che sí come i gentili uomini sono ubrigati a far la credenza al Papa; cosí lui,
soldato, spezial, villan da Prato, era ubrigato a far la credenza a un
Fiorentino par mio. Questo disse di gran parole, e io allui. Quel messer
Antonio, vergognandosi alquanto, e ancora disegnato di farmi pagare
quelle spese che il povero Castellano morto mi aveva donate, trovò un
altro di quei sua servitori, il quale era mio amico; e mi mandava la mia
vivanda, alla quale piacevolmente il sopra ditto mi faceva la credenza sanza
altra disputa. Questo servitore mi diceva come il Papa era ogni dí molestato da
quel monsignor di Morluc, il quale da parte del Re continuamente mi chiedeva; e
che il Papa ci aveva poca fantasia a rendermi; e che il cardinale Farnese,
già tanto mio patrone e amico, aveva aùto a dire che io non
disegnassi uscire di quella prigione di quel pezzo: al quale io dicevo, che io
n'uscirei a dispetto di tutti. Questo giovane dabbene mi pregava che io stessi
cheto, e che tal cosa io non fussi sentito dire, perché molto mi nocerebbe; e
che quella fidanza, che io avevo in Dio, dovessi aspettare la grazia sua,
standomi cheto. A lui dicevo che le virtú de Dio non hanno aver paura delle
malignità della ingiustizia.
CXXVII. Cosí passando
pochi giorni innanzi, comparse a Roma il cardinale di Ferrara; il quale,
andando a fare reverenzia al Papa, il Papa lo trattenne tanto, che venne l'ora
della cena. E perché il Papa era valentissimo uomo, volse avere assai agio a
ragionare col Cardinale di quelle francioserie. E perché innel pasteggiare vien
detto di quelle cose, che fuora di tale atto tal volta non si
dirieno; per modo che, essendo quel gran re Francesco in ogni cosa sua
liberalissimo, e il Cardinale, che sapeva bene il gusto del Re, ancora lui a
pieno compiacque al Papa molto piú di quello che il Papa non si immaginava; di
modo che il Papa era venuto in tanta letizia, sí per questo e ancora perché gli
usava una volta la settimana di fare una crapula assai gagliarda, perché dappoi
la gomitava. Quando il Cardinale vidde la disposizione del Papa, atta a
compiacer grazie, mi chiese da parte del Re con grande istanzia, mostrando che
il Re aveva gran desiderio di tal cosa. Allora il Papa, sentendosi appressare
all'ora del suo vomito, e perché la troppa abbundanzia del vino ancora faceva
l'uffizio suo, disse al Cardinale con gran risa: - Ora ora voglio che ve lo
meniate a casa - e date le ispresse commessione, si levò da tavola; e il
Cardinale subito mandò per me, prima che il signior Pierluigi lo
sapessi, perché non m'arebbe lasciato in modo alcuno uscire di prigione. Venne
il mandato del Papa insieme con dua gran gentiluomini del ditto cardinale di
Ferrara, e alle quattro ore di notte passate mi cavorno del ditto carcere e mi
menorno dinanzi al Cardinale; il quale mi fece innistimabile accoglienze; e
quivi bene alloggiato mi restai a godere. Messer Antonio, fratello del
Castellano e in luogo suo, volse che io gli pagassi tutte le spese, con tutti
que' vantaggi che usano volere e' bargelli e gente simile, né volse osservare
nulla di quello che il Castellano passato aveva lasciato che per me si facessi.
Questa cosa mi costò di molte decine di scudi, e perché il Cardinale mi
disse di poi, che io stessi a buona guardia s'i' volevo bene alla vita mia, e
che se la sera lui non mi cavava di quel carcere, io non ero mai per uscire;
che di già avevo inteso dire che il Papa si condoleva molto di
avermi lasciato.
cxxviii. M'è di necessità tornare un passo
indietro, perché innel mio capitolo s'interviene tutte queste cose che io dico.
Quando io stetti quei parecchi giorni in camera del Cardinale e di poi innel
giardin segreto del Papa, infra gli altri mia cari amici mi venne a trovare un
cassiere di messer Bindo Altoviti, il quale per nome era chiamato Bernardo
Galluzzi; a il quale io aveva fidato il valore di parecchi centinaia di scudi;
e questo giovane innel giardin segreto del Papa mi venne a trovare e mi volse
rendere ogni cosa; onde io gli dissi che non sapevo dare la roba mia né a 'mico
piú caro né in luogo dove io avessi pensato che ella fussi piú sicura; il quale
amico mio pareva che si scontorcessi di non la volere, e io quasi che per forza
gnele feci serbare. Essendo l'ultima volta uscito del Castello, trovai che quel
povero giovane di questo Bernardo Galluzzi detto si era rovinato; per la
qualcosa io persi la roba mia. Ancora: nel tempo che io ero in carcere, un
terribil sogno mi fu fatto, modo che con un calamo iscrittomi innella fronte
parole di grandissima importanza; e quello che me le fece mi replicò ben
tre volte, che io tacessi e non le riferissi ad altri. Quando io mi svegliai,
mi senti' la fronte contaminata. Però innel mio Capitolo della prigione
s'interviene moltissime di queste cotal cose. Ancora: mi venne detto, non sapendo
quello che io mi dicevo, tutto quello che di poi intervenne al signor Pier
Luigi, tanto chiare e tanto appunto, che da me medesimo ho considerato che
propio uno Angel del Cielo me le dittassi. Ancora: non voglio lasciare indrieto
una cosa, la maggiore che sia intervenuto a un altro uomo; qual è per
iustificazione della divinità de Dio e dei segreti sua, quale si
degnò farmene degno: che d'allora in qua, che io tal cosa vidi, mi
restò uno isplendore, cosa maravigliosa!, sopra il capo mio; il quale si
è evidente a ogni sorta di uomo a chi io l'ho voluto mostrare, qual sono
stati pochissimi. Questo si vede sopra l'ombra mia la mattina innel levar del
sole insino a dua ore di sole, e molto meglio si vede quando l'erbetta ha
addosso quella molle rugiada; ancora si vede la sera al tramontar del sole. Io
me ne avveddi in Francia in Parigi, perché l'aria in quella parte di là
è tanto piú netta dalle nebbie, che là si vedeva espressa molto
meglio che in Italia, perché le nebbie ci sono molto piú frequente; ma non
resta che a ogni modo io non la vegga; e la posso mostrare ad altri, ma non sí
bene come in quella parte ditta. Voglio descrivere il mio Capitolo fatto
in prigione e in lode di detta prigione; di poi seguiterò i beni e' mali
accadutimi di tempo in tempo, e quelli ancora che mi accadranno innella vita
mia.
Questo
capitolo scrivo a Luca Martini chiamandolo in esso come qui si sente.
Chi vuol saper quant'è il valor
de Dio,
e quant'un
uomo a quel Ben si assomiglia,
convien che
stie 'n prigione, al parer mio;
sie carco di pensieri e di
famiglia,
e qualche
doglia per la sua persona,
e lunge esser
venuto mille miglia.
Or se tu vuoi poter far cosa buona,
sie preso a
torto, e poi istarvi assai,
e non avere
aiuto da persona;
ancor ti rubin quel po' che tu hai:
pericol della
vita; ebbistrattato,
senza
speranza di salute mai.
E sforzinti gittare al disperato,
rompere il
carcer, saltare il Castello:
poi sie
rimesso in piú cattivo lato.
Ascolta, Luca, or che ne viene il
bello:
aver rotto
una gamba, esser giuntato,
la prigion
molle e non aver mantello.
Né mai da nissuno ti sie parlato,
e ti porti il
mangiar con trista nuova
un soldato,
spezial, villan da Prato.
Or senti ben dove la gloria pruova:
non v'esser
da seder, se non sul cesso;
pur sempre
desto a far qualcosa nuova.
Al servitor comandamento spresso
che non ti
oda parlar, né dièti nulla;
e la porta
apra un picciol picciol fesso.
Or quest'è dove un bel cervel
trastulla:
né carta,
penna, inchiostro, ferro o fuoco,
e pien di bei
pensier fin dalla culla.
La gran pietà, che se n'è
detto poco,
ma per
ogniuna immàginane cento,
ché a tutte
ho riservato parte e loco.
Or, per tornar al nostro primo entento,
e dir lode
che merta la prigione:
non basteria
del Ciel chiunche v'è drento.
Qua non si mette mai buone persone,
se non vien
da ministri, o mal governo,
invidie,
isdegno o per qualche quistione.
Per dir il ver di quel ch'io ne
discerno,
qua si
cognosce e sempre Idio si chiama,
sentendo
ognor le pene dello Inferno.
Sie tristo un, quant'e' può al mondo, in fama,
e stie 'n prigione in circa a
dua mal'anni,
e' n'esce santo e savio, ed
ogniun l'ama.
Qua s'affinisce l'alma, e 'l corpo, e'
panni;
ed ogni
omaccio grosso si assottiglia,
e vedesi del
Ciel fino agli scanni.
Ti vo' contar una gran maraviglia:
venendomi di
scrivere un capriccio,
che cose in
un bisogno un uomo piglia.
Vo per la stanza, e' cigli e 'l capo
arriccio,
poi mi drizzo
a un taglio della porta,
e co' denti
un pezzuol di legno spiccio;
e presi
un pezzo di matton per sorta,
e rotto in polver ne ridussi un poco;
poi ne feci
un savor coll'acqua morta.
Allora allor della poesia il fuoco
m'entrò
nel corpo, e credo per la via
ond'esce il
pan; ché non v'era altro loco.
Per tornare a mia prima fantasia,
convien, chi
vuol saper che cosa è 'l bene,
prima che
sappia il mal, che Dio gli dia.
D'ogn'arte la prigion sa fare e tiene:
se tu volessi
ben dello speziale,
ti fa sudare
il sangue per le vene.
Poi l'ha in sé un certo naturale,
ti fa loquente,
animoso e audace,
carco di bei
pensieri in bene e in male.
Buon per colui che lungo tempo iace
'n una scura
prigion, e po' alfin n'esca:
sa ragionar di guerra, triegua e pace.
Gli
è forza che ogni cosa gli riesca;
ché quella fa
l'uom sí di virtú pieno,
che 'l cervel
non gli fa poi la moresca.
Tu mi potresti dir: - Quelli
anni hai meno –:
E' non
è 'l ver, ché la t'insegna un modo
ch'empier te
ne puo' poi 'l petto e 'l seno.
In quanto a me, per quanto io
so, la lodo;
ma vorrei ben
ch'e' s'usassi una legge:
chi piú la
merta non andassi in frodo.
Ogni uom, ch'è dato in cura al
pover gregge,
addottorar
vorries' in la prigione,
perché sapria
ben poi come si regge.
Faria le cose come le
persone,
e non
s'uscirai mai del seminato,
né si vedria
sí gran confusione.
In questo tempo ch'io ci sono
stato,
io ci ho
veduti frati, preti e gente,
e starci men
chi piú l'ha meritato.
Se tu sapessi il gran duol
che si sente,
se 'nanzi a
te se ne va un di loro!
Quasi che
d'esser nato l'uom si pente.
Non vo' dir piú: son
diventato d'oro,
qual non si
spende cosí facilmente,
né se ne
faria troppo buon lavoro.
E' m'è venuto un'altra
cosa a mente,
ch'io non
t'ho detto, Luca: ov'io lo scrissi,
fu in su'n un
libro d'un nostro parente,
che in sulle margin per lo
lungo missi
questo gran
duol che m'ha le membra istorte,
e che il
savor non correva, ti dissi;
che a far un O bisognava tre
volte
'ntigner lo
stecco; che altro duol non stimo
sia nello
Inferno fra l'anime avolte.
Or poi che attorto qui no
sono 'l primo,
di questo
taccio; e torno alla prigione,
dove il
cervel e 'l cuor pel duol mi limo.
Io piú la lodo che l'altre
persone;
e volendo far
dotto un che non sa,
sanza essa
non si può far cose buone.
Oh fusse, come io lessi poco
fa,
un che
dicessi come alla Piscina:
- Piglia i tua panni, Benvenuto, e va'! –
canteria 'l Credo
e la Salveregina,
il
Paternostro, e poi daria la mancia
a ciechi,
pover, zoppi ogni mattina.
Oh quante volte m'han fatto
la guancia
pallida e
smorta questi gigli, a tale
ch'io non vo'
piú né Firenze né Francia!
E se m'avien ch'io vada allo
spedale,
e dipinto vi
sia la Nunziata,
fuggirò,
ch'io parrò uno animale.
Non dico già per Lei,
degna e sagrata,
né de' suoi
gigli glorïosi e santi,
che hanno il
cielo e la terra inluminata;
ma, perché ognior ne veggo su pe' canti
di quei che
hanno le lor foglie a uncini,
arò paur che non sien di quei tanti.
Oh quanti come me
vanno tapini,
qual nati,
qual serviti a questa impresa,
spirti chiari,
leggiadri, alti e divini!
Vidi cader la
mortifer'impresa
dal ciel
veloce, fra la gente vana,
poi nella
pietra nuova lampa accesa;
del Castel prima romper la
campana,
che io
n'uscissi; e me l'aveva detto
Colui che in
Cielo e in terra il vero spiana;
di bruno, appresso a questo,
un cataletto
di gigli
rotti ornato; pianti e croce,
e molti
afflitti per dolor nel letto.
Viddi colei che l'alme
affligge e cuoce,
che
spaventava or questo, or quel; poi disse:
- Portar ne vo' nel sen chiunche a te nuoce -.
Quel Degno poi
nella mia fronte scrisse
col calamo di
Pietro a me parole,
e ch'io
tacessi ben tre volte disse.
Vidi Colui che caccia e
affrena il sole,
vestito
d'esso in mezzo alla sua Corte,
qual occhio
mortal mai veder non suole.
Cantava un passer solitario
forte
sopra la
ròcca; ond'io - Per certo - dissi,
- Quel mi predice vita, e a voi morte -.
E le mie gran
ragion cantai e scrissi,
chiedendo
solo a Dio perdon, soccorso,
ché sentia
spegner gli occhi a morte fissi.
Non fu mai lupo, leon, tigre, e orso
piú setoso
di quel, del sangue umano,
né vipra mai
piú venenoso morso;
quest'era un crudel ladro
capitano,
'l maggior
ribaldo, con certi altri tristi;
ma perché
ogniun nol sappia il dirò piano.
Se avete birri affamati mai
visti,
ch'entrino
appegnorar un poveretto,
gittar per
terra Nostredonne e Cristi,
il
dí d'agosto vennon per dispetto
a tramutarmi una piú trista tomba:
- Novembre:
ciascun sperso e maladetto -.
Ave'
agli orecchi una tal vera tromba,
che 'l tutto mi diceva, ed io a loro,
sanza pensar, perché 'l dolor si sgombra.
E
quando privi di speranza foro,
mi detton, per uccidermi, un diamante
pesto a mangiare, e non legato in oro.
Chiesi
credenza a quel villan furfante,
che 'l cibo mi portava; e da me dissi:
- Non fu quel già 'l nimico mio durante -.
Ma
prima i mie' pensieri a Dio remissi,
pregandol perdonassi 'l mio peccato;
e Miserere lacrimando dissi.
Del
gran dolore alquanto un po' quietato,
rendendo volentieri a Dio quest'alma,
contento a miglior regno e d'altro stato,
scender
dal Ciel con gloriosa palma
un Angel vidi; e poi con lieto volto
promisse al viver mio piú lunga salma,
dicendo
a me: - Per Dio, prima fie tolto
ogni avversario tuo con aspra guerra,
restando tu filice, lieto e sciolto,
in
grazia a Quel ch'è Padre in cielo e 'n terra.
LIBRO SECONDO
I. Standomi innel palazzo del
sopraditto cardinal di Ferrara, molto ben veduto universalmente da ogniuno, e molto
maggiormente visitato che prima non ero fatto, maravigliandosi ogni uomo piú
dello essere uscito e vivuto infra tanti ismisurati affanni; in mentre che io
ripigliavo il fiato, ingegnandomi di ricordarmi dell'arte mia, presi
grandissimo piacere di riscrivere questo soprascritto capitolo. Di poi, per
meglio ripigliar le forze, presi per partito di andarmi a spasso all'aria qualche
giorno, e con licenzia e cavagli del mio buon Cardinale, insieme con dua
giovani romani, che uno era lavorante dell'arte mia; l'altro suo compagno non
era de l'arte, ma venne per tenermi compagnia. Uscito di Roma, me ne andai alla
volta di Tagliacozze, pensando trovarvi Ascanio, allevato mio sopraditto; e
giunto in Tagliacozze, trovai Ascanio ditto insieme con suo padre e frategli e
sorelle e matrigna. Dalloro per dua giorni fu' carezzato, che impossibile saria
il dirlo: partimmi per alla volta di Roma, e meco ne menai Ascanio. Per la
strada cominciammo a ragionare dell'arte, di modo che io mi struggevo di
ritornare a Roma, per ricominciare le opere mie. Giunti che noi fummo a Roma,
subito mi accomodai da lavorare; e ritrovato un bacino d'argento, il quale
avevo cominciato per il Cardinale innanzi che io fussi carcerato: insieme col
ditto bacino si era cominciato un bellissimo boccaletto: questo mi fu rubato
con molta quantità di altre cose di molto valore. Innel detto bacino
facevo lavorare Pagolo sopraditto. Ancora ricominciai il boccale, il quale era
composto di figurine tonde e di basso rilievo; e similmente era composto di figure
tonde e di pesci di basso rilievo il detto bacino, tanto ricco e tanto bene
accomodato, che ogniuno che lo vedeva restava maravigliato, sí per la forza del
disegno e per la invenzione e per la pulizia che usavono quei giovani in su
dette opere. Veniva il Cardinale ogni giorno almanco dua volte a starsi meco,
insieme con messer Luigi Alamanni e con messer Gabbriel Cesano, e quivi per
qualche ora si passava lietamente tempo. Non istante che io avessi assai da
fare, ancora mi abbundava di nuove opere; e mi dette a fare il suo suggello
pontificale, il quale fu di grandezza quanto una mana d'un fanciullo di dodici
anni; e in esso suggello intagliai dua istoriette in cavo; che l'una fu quando
san Giovanni predicava nel diserto, l'altra quando sant'Ambruogio scacciava
quelli Ariani, figurato in su'n un cavallo con una sferza in mano, con tanto
ardire e buon disegno, e tanto pulitamente lavorato, che ogniuno diceva che io
avevo passato quel gran Lautizio il quale faceva solo questa professione; e il
Cardinale lo paragonava per propria boria con gli altri suggelli dei cardinali
di Roma, quali erano quasi tutti di mano del sopraditto Lautizio.
II. Ancora m'aggiunse il Cardinale, insieme con
quei dua sopra ditti, che io gli dovessi fare un modello d'una saliera; ma che
arebbe voluto uscir dell'ordinario di quei che avean fatte saliere. Messer
Luigi, sopra questo, approposito di questo sale, disse molte mirabil
cose; messer Gabbriello Cesano ancora lui in questo proposito disse cose
bellissime. Il Cardinale, molto benigno ascoltatore e saddisfatto oltramodo
delli disegni, che con parole aveano fatto questi dua gran virtuosi,
voltosi a me disse: - Benvenuto mio, il disegno di messer Luigi e quello di
messer Gabbriello mi piacciono tanto, che io non saprei qual mi tòrre
l'un de' dua; però a te rimetto, che l'hai a mettere in opera -. Allora
io dissi: - Vedete, Signori, di quanta importanza sono i figliuoli de' re e
degli imperatori, e quel maraviglioso splendore e divinità che in loro
apparisce. Niente di manco se voi dimandate un povero umile pastorello, a chi
gli ha piú amore e piú affezione, o a quei detti figliuoli o ai sua,
per cosa certa dirà d'avere piú amore ai sua figliuoli. Però
ancora io ho grande amore ai miei figliuoli, che di questa mia professione
partorisco: sí che 'l primo che io vi mostrerrò, Monsignor
reverendissimo mio patrone, sarà mia opera e mia invenzione; perché
molte cose son belle da dire, che faccendole poi non s'accompagnano bene in
opera -. E voltomi a que' dua gran virtuosi, dissi: - Voi avete detto e io
farò -. Messer Luigi Alamanni allora ridendo, con grandissima
piacevolezza, in mio favore aggiunse molte virtuose parole: e allui
s'avvenivano, perché gli era bello d'aspetto e di proporzion di corpo, e con
suave voce. Messer Gabbriello Cesano era tutto il rovescio, tanto brutto e
tanto dispiacevole; e cosí sicondo la sua forma parlò. Aveva messer
Luigi con le parole disegnato che io facessi una Venere con un Cupido, insieme
con molte galanterie, tutte a proposito; messer Gabbriello aveva disegnato che
io facessi una Amfitrite moglie di Nettunno, insieme con di quei Tritoni di
Nettunno e molte altre cose assai belle da dire, ma non da fare. Io feci una
forma ovata di grandezza di piú d'un mezzo braccio assai bene, quasi dua
terzi, e sopra detta forma, sicondo che mostra il Mare abbracciarsi con la
Terra, feci dua figure grande piú d'un palmo assai bene, le quale stavano a
sedere entrando colle gambe l'una nell'altra, sí come si vede certi rami di
mare lunghi che entran nella terra; e in mano al mastio Mare messi una
nave ricchissimamente lavorata: innessa nave accomodatamente e bene stava di
molto sale; sotto al detto avevo accomodato quei quattro cavalli
marittimi: innella destra del ditto Mare avevo messo il suo tridente. La Terra
avevo fatta una femmina tanto di bella forma quanto io avevo potuto e saputo,
bella e graziata; e in mano alla ditta avevo posto un tempio ricco e adorno,
posato in terra; e lei in sun esso appoggiava con la ditta mano; questo avevo
fatto per tenere il pepe. Nell'altra mano posto un corno di dovizia, addorno
con tutte le bellezze che io sapevo al mondo. Sotto questa Iddea, e in
quella parte che si mostrava esser terra, avevo accomodato tutti quei piú bei
animali che produce la terra. Sotto la parte del Mare avevo figurato tutta la
bella sorte di pesci e chiocciolette, che comportar poteva quel poco ispazio:
quel resto de l'ovato, nella grossezza sua, feci molti ricchissimi ornamenti.
Poi aspettato il Cardinale, qual venne con quelli dua virtuosi, trassi fuora
questa mia opera di cera: alla quale con molto romore fu il primo messer
Gabbriel Cesano, e disse: - Questa è un'opera da non si finire innella
vita di dieci uomini; e voi, Monsignore reverendissimo, che la vorresti, a vita
vostra non l'aresti mai; però Benvenuto v'ha voluto mostrare de' sua
figliuoli, ma non dare, come facevàno noi, i quali dicevamo di quelle
cose che si potevano fare; e lui v'ha mostro di quelle che non si posson fare
-. A questo, messer Luigi Alamanni prese la parte mia. [Il Cardinale disse] che
non voleva entrare in sí grande inpresa. Allora io mi volsi a loro, e dissi: -
Monsignore reverendissimo, e a voi pien di virtú, dico, che questa opera io
spero di farla a chi l'arà avere, e ciascun di voi la vedrete finita piú
ricca l'un cento che 'l modello; e spero che ci avanzi ancora assai
tempo da farne di quelle molto maggiori di questa -. Il Cardinale disse
isdegnato: - Non la faccendo al Re, dove io ti meno, non credo che ad altri la
possa fare - e mostratomi le lettere, dove il Re in un capitolo iscriveva che
presto tornassi menando seco Benvenuto, io alzai le mane al cielo dicendo: - Oh
quando verrà questo presto? - Il Cardinale disse che io dessi
ordine e spedissi le faccende mie, che io avevo in Roma, in fra dieci giorni.
iii. Venuto il tempo della partita, mi donò un cavallo bello e
buono; e lo domandava Tornon, perché il cardinal Tornon l'aveva donato a lui.
Ancora Pagolo e Ascanio, mia allevati, furno provisti di cavalcature. Il
Cardinale divise la sua Corte, la quale era grandissima: una parte piú nobile
ne menò seco: con essa fece la via della Romagna, per andare a visitare
la Madonna del Loreto, e di quivi poi a Ferrara, casa sua; l'altra parte
dirizzò per la volta di Firenze. Questa era la maggior parte; ed era una
gran quantità, con la bellezza della sua cavalleria. A me disse che se
io volevo andar sicuro, che io andassi seco: quando che no, che io portavo
pericolo della vita. Io detti intenzione a Sua Signoria reverendissima di
andarmene seco; e cosí come quel ch'è ordinato dai Cieli convien che
sia, piacque a Dio che mi tornò in memoria la mia povera sorella
carnale, la quale aveva auto tanti gran dispiaceri de' miei gran mali. Ancora
mi tornò in memoria le mie sorelle cugine, le quali erano a Viterbo
monache, una badessa e l'altra camarlinga, tanto che l'eran governatrice di
quel ricco monisterio; e avendo aùto per me tanti grevi affanni e per me
fatto tante orazione, che io mi tenevo certissimo per le orazioni di quelle
povere verginelle d'avere impetrato la grazia da Dio della mia salute.
Però venutemi tutte queste cose in memoria, mi volsi per la volta di
Firenze; e dove io sarei andato franco di spese o col Cardinale o coll'altro
suo traino, io me ne volsi andare da per me; e m'accompagnai con un maestro di
oriuoli eccellentissimo, che si domandava maestro Cherubino, molto mio amico.
Trovandoci a caso, facevamo quel viaggio molto piacevole insieme. Essendomi
partito el lunedí santo di Roma, ce ne venimmo soli noi tre, e a
Monteruosi trovai la ditta compagnia; e perché io avevo dato intenzione di
andarmene col Cardinale, non pensavo che nissuno di quei miei nimici m'avessino
aùto a vigilare altrimenti. Certo che io capitavo male a Monteruosi,
perché innanzi a noi era istato mandato una frotta di uomini bene armati, per
farmi dispiacere; e volse Idio che in mentre che noi desinavamo, loro, che
avevano aùto indizio che io me ne venivo sanza il traino del Cardinale,
erano messisi innordine per farmi male. In questo appunto sopraggiunse
il detto traino del Cardinale, e con esso lietamente salvo me ne andai insino a
Viterbo; ché da quivi in là io non vi conoscevo poi pericolo, e
maggiormente andavo innanzi sempre parecchi miglia; e quegli uomini migliori
che erano in quel traino, tenevano molto conto di me. Arrivai lo Iddio grazia
sano e salvo a Viterbo, e quivi mi fu fatto grandissime carezze da quelle mie
sorelle e da tutto il monisterio.
iv. Partitomi di Viterbo con i sopraddetti, venimmo via
cavalcando, quando innanzi e quando indietro al ditto traino del Cardinale, di
modo che il giovedí santo a ventidua ore ci trovammo presso Siena a una posta;
e veduto io che v'era alcune cavalle di ritorno, e che quei delle poste
aspettavano di darle a qualche passeggiere, per qualche poco guadagno, che alla
posta di Siena le rimenassi; veduto questo, io dismontai del mio cavallo
Tornon, e messi in su quella cavalla il mio cucino e le staffe, e detti
un giulio a un di quei garzoni delle poste. Lasciato il mio cavallo a' mie'
giovani che me lo conducessino, subito innanzi m'avviai per giugnere in Siena
una mezz'ora prima, sí per vicitare alcuno mio amico, e per fare qualche altra
mia faccenda: però, se bene io venni presto, io non corsi la detta
cavalla. Giunto che io fui in Siena, presi le camere all'osteria, buone che ci
faceva di bisogno per cinque persone, e per il garzon de l'oste rimandai la
detta cavalla alla posta, che stava fuori della porta a Camollía; e in su detta
cavalla m'avevo isdementicato le mie staffe e il mio cucino. Passammo la
sera del giovedí santo molto lietamente: la mattina poi, che fu il venerdí
santo, io mi ricordai delle mie staffe e del mio cucino. Mandato per esso, quel
maestro delle poste disse che non me lo voleva rendere, perché io avevo corso
la sua cavalla. Piú volte si mandò innanzi e indietro e il detto sempre
diceva di non me le voler rendere, con molte ingiuriose e insopportabil parole;
e l'oste, dove io ero alloggiato, mi disse: - Voi n'andate bene se egli non vi
fa altro che non vi rendere il cucino e le staffe - e aggiunse dicendo: -
Sappiate che quello è il piú bestial uomo che avessi mai questa
città; e ha quivi duoi figliuoli uomini, soldati bravissimi, piú
bestiali di lui; sí che ricomperate quel che vi bisogna, e passate via sanza
dirgli niente -. Ricomperai un paio di staffe, pur pensando con amorevol parole
di riavere il mio buon cucino: e perché io ero molto bene a cavallo, e bene
armato di giaco e maniche, e con un mirabile archibuso all'arcione, non mi
faceva spavento quelle gran bestialità che colui diceva che aveva quella
pazza bestia. Ancora avevo avezzo quei mia giovani a portare giaco e maniche, e
molto mi fidavo di quel giovane romano che mi pareva che non se lo cavassi mai,
mentre che noi stavamo in Roma. Ancora Ascanio, ch'era pur giovanetto, ancora
lui lo portava: e per essere il venerdí santo, mi pensavo che la pazzia de'
pazzi dovesse pure avere qualche poco di feria. Giugnemmo alla ditta porta a
Camollía; per la qual cosa io viddi e cognobbi, per i contrasegni che m'eran
dati, per esser cieco de l'occhio manco, questo maestro delle poste. Fattomigli
incontro, e lasciato da banda quei mia giovani e quei compagni, piacevolmente
dissi: - Maestro delle poste, se io vi fo sicuro che io non ho corso la vostra
cavalla, perché non sarete voi contento di rendermi il mio cucino e le mie
staffe? - A questo lui rispose veramente in quel modo pazzo, bestiale che m'era
stato detto. Per la qual cosa io gli dissi: - Come non siate voi cristiano? O
volete voi 'n un venerdí santo scandalizzare e voi e me? - Disse che non gli
dava noia o venerdí santo o venerdí diavolo, e che, se io non mi gli levavo
d'inanzi, con uno spuntone che gli aveva preso, mi traboccherebbe in
terra insieme con quell'archibuso che io avevo in mano. A queste rigorose
parole s'accostò un gentiluomo vecchio, sanese, vestito alla civile, il
qual tornava da far di quelle divozione che si usano in un cotal giorno; e
avendo sentito di lontano benissimo tutte le mie ragione, arditamente
s'accostò a riprendere il detto maestro delle poste, pigliando la parte
mia, e garriva li sua dua figliuoli perché e' non facevano il dovere ai
forestieri che passavano, e che a quel modo e' facevano contro a Dio, e davano
biasimo alla città di Siena. Quei dua giovani suoi figliuoli, scrollato
il capo sanza dir nulla, se ne andorno in là, nel drento della
lor casa. Lo arrabbiato padre invelenito dalle parole di quello onorato
gentiluomo, subito con vituperose bestemmie abbassò lo spuntone,
giurando che con esso mi voleva ammazzare a ogni modo. Veduto questa bestial
resoluzione, per tenerlo alquanto indietro, feci segno di mostrargli la bocca
del mio archibuso. Costui piú furioso gittandomisi addosso, l'archibuso che io
avevo in mano, se bene in ordine per la mia difesa, non l'avevo abbassato
ancora tanto, che fussi arrincontro di lui, anzi era colla bocca alta; e da per
sé dette fuoco. La palla percosse nell'arco della porta, e sbattuta indietro,
colse nella canna della gola del detto, il quale cadde in terra morto. Corsono
i dua figliuoli velocemente, e preso l'arme da un rastrello uno, l'altro prese
lo spuntone del padre; e gittatisi addosso a quei mia giovani, quel figliuolo
che aveva lo spuntone investí il primo Pagolo romano sopra la poppa manca;
l'altro corse addosso a un milanese, che era in nostra compagnia, il quale
aveva viso di pazzo: e non valse raccomandarsi dicendo che non aveva che far
meco, e difendendosi dalla punta d'una partigiana con un bastoncello che
gli aveva in mano: con il quale non possette tanto ischermire che fu investito
un poco nella bocca. Quel messer Cherubino era vestito da prete, e se bene egli
era maestro di oriuoli eccellentissimo, come io dissi, aveva aùto
benefizii dal Papa con buone entrate. Ascanio, se bene egli era armato
benissimo, non fece segno di fuggire, come aveva fatto quel milanese; di modo
che questi dua non furno tocchi. Io, che avevo dato di piè al cavallo e
in mentre che lui galoppava, prestamente avevo rimesso in ordine e carico il
mio archibuso e tornavo arrovellato indietro, parendomi aver
fatto da motteggio, per voler fare daddovero, e pensavo che quei mia
giovani fussino stati ammazzati, resoluto andavo per morire anch'io. Non molti
passi corse il cavallo indietro, che io riscontrai che inverso me venivano, ai
quali io domandai se gli avevano male. Rispose Ascanio, che Pagolo era ferito
d'uno spuntone a morte. Allora io dissi: - O Pagolo figliuol mio! Addunche
lo spuntone ha sfondato il giaco? - No - disse - ché il giaco avevo messo
nella bisaccia questa mattina -. Addunche e' giachi si portano per Roma per
mostrarsi bello alle dame? e inne' luoghi pericolosi, dove fa mestiero avergli,
si tengono alla bisaccia? Tutti e' mali che tu hai, ti stanno molto bene e se'
causa che io voglio andare a morire quivi anch'io or ora - e in mentre che io
dicevo queste parole, sempre tornavo indietro gagliardamente. Ascanio e lui mi
pregavono che io fussi contento per l'amor de Dio salvarmi e salvargli, perché
sicuro s'andava alla morte. In questo scontrai quel messer Cherubino, insieme
con quel milanese ferito: subito mi sgridò, dicendo che nissuno non
aveva male, e che il colpo di Pagolo era ito tanto ritto, che non
era isfondato; e che quel vecchio delle poste era restato in terra morto, e che
i figliuoli, con altre persone assai, s'erano messi in ordine, e che al sicuro
ci arebbon tagliati tutti a pezzi: - Sicché, Benvenuto, poiché la fortuna ci ha
salvati da quella prima furia, non la tentar piú, ché la non ci salverebbe -.
Allora io dissi: - Da poi che voi sete contenti cosí, ancora io son contento -
e voltomi a Pagolo e Ascanio, dissi loro: - Date di piè a' vostri
cavalli, e galoppiamo insino a Staggia sanza mai fermarci, e quivi
saremo sicuri -. Quel milanese ferito disse: - Che venga il canchero ai
peccati! ché questo male che io ho, fu solo per il peccato d'un po' di minestra
di carne che io mangiai ieri, non avendo altro che desinare -. Con tutte queste
gran tribulazioni che noi avevamo, fummo forzati a fare un poco di segno di
ridere di quella bestia e di quelle sciocche parole che lui aveva detto. Demmo
di piedi a' cavagli, e lasciammo messer Cherubino e 'l milanese, che a loro
agio se ne venissino.
V. Intanto e' figliuoli del morto
corsono al Duca di Melfi, che dessi loro parecchi cavagli leggieri, per
raggiugnerci e pigliarci. Il detto Duca, saputo che noi eramo degli uomini del
cardinale di Ferrara, non volse dare né cavagli né licenzia. Intanto noi
giugnemmo a Staggia, dove ivi noi fummo sicuri. Giunti in Istaggia,
cercammo d'un medico, il meglio che in quel luogo si poteva avere: e fatto
vedere il detto Pagolo, la ferita andava pelle pelle, e cognobbi che non arebbe
male. Facemmo mettere in ordine da desinare. Intanto comparse messer Cherubino
e quel pazzo di quel milanese, che continuamente mandava il canchero alle
quistione, e diceva d'essere iscomunicato, perché non aveva potuto dire in
quella santa mattina un sol Paternostro. Per essere costui brutto di viso, e la
bocca aveva grande per natura; da poi per la ferita che in essa
aveva auta gli era cresciuta la bocca piú di tre dita; e con quel suo giulío
parlar milanese, e con essa lingua isciocca, quelle parole che lui diceva ci
davano tanta occasione di ridere, che in cambio di condolerci della fortuna,
non possevamo fare di non ridere a ogni parola che costui diceva.
Volendogli il medico cucire quella ferita della bocca, avendo fitto di
già tre punti, disse al medico che sostenessi alquanto, ché
non arebbe voluto che per qualche nimicizia e' gliene avessi cucita tutta: e
messe mano a un cucchiaio, e diceva che voleva che lui gnene lasciassi tanto
aperta, che quel cucchiaio v'entrassi, acciò che potessi tornar vivo
alle sue brigate. Queste parole che costui diceva con certi scrollamenti di
testa, davano sí grande occasione di ridere, che in cambio di condolerci della
nostra mala fortuna, noi non restammo mai di ridere; e cosí sempre ridendo ci
conducemmo a Firenze. Andammo a scavalcare a casa della mia povera sorella,
dove noi fummo dal mio cognato e dallei molto maravigliosamente carezzati. Quel
messer Cherubino e 'l milanese andorno ai fatti loro. Noi restammo in Firenze
per quattro giorni, inne' quali si guarí Pagolo; ma era ben gran cosa, che
continuamente che e' si parlava di quella bestia del milanese, ci moveva a
tante risa, quanto ci moveva a pianto l'altre disgrazie avvenute; di modo che
continuamente in un tempo medesimo si rideva e piagneva. Facilmente guarí
Pagolo: di poi ce ne andammo alla volta di Ferrara, e il nostro Cardinale
trovammo che ancora non era arrivato a Ferrara, e aveva inteso tutti e' nostri
accidenti; e condolendosi disse: - Io priego Idio che mi dia tanta grazia che
io ti conduca vivo a quel Re che io t'ho promesso -. Il ditto Cardinale mi
consegnò in Ferrara un suo palazzo, luogo bellissimo, dimandato
Belfiore: confina con le mura della città: quivi mi fece acconciare da
lavorare. Di poi dette ordine di partirsi sanza me alla volta di Francia; e
veduto che io restavo molto mal contento, mi disse: - Benvenuto, tutto quello
che io fo si è per la salute tua; perché innanzi che io ti levi della
Italia, io voglio che tu sappia benissimo in prima quel che tu vieni a fare in
Francia: in questo mezzo sollecita il piú che tu puoi questo mio bacino e
boccaletto; e tutto quel che tu hai di bisogno lascerò ordine a un mio
fattore che te lo dia -. E partitosi, io rimasi molto mal contento, e piú volte
ebbi voglia di andarmi con Dio: ma sol mi teneva quell'avermi libero da papa
Pagolo, perché del resto io stavo mal contento e con mio gran danno. Pure,
vestitomi di quella gratitudine che meritava il benifizio ricevuto, mi disposi
aver pazienzia e vedere che fine aveva da 'vere questa faccenda; e messomi a
lavorare con quei dua mia giovani, tirai molto maravigliosamente innanzi quel
boccale e quel bacino. Dove noi eramo alloggiati era l'aria cattiva, e per
venire verso la state, tutti ci ammalammo un poco. In queste nostre
indisposizione andavamo guardando il luogo dove noi eramo, il quale era
grandissimo, e lasciato salvatico quasi un miglio di terreno scoperto, innel
quale era tanti pagoni nostrali, che come uccei salvatici ivi covavano.
Avvedutomi di questo, acconciai il mio scoppietto con certa polvere senza far
romore; di poi appostavo di quei pagoni giovani, e ogni dua giorni io ne
ammazzavo uno, il quale larghissimamente ci nutriva, ma di tanta virtú che
tutte le malattie da noi si partirno: e attendemmo quei parecchi mesi
lietissimamente a lavorare, e tirammo innanzi quel boccale e quel bacino, quale
era opera che portava molto gran tempo.
vi. In questo
tempo il Duca di Ferrara s'accordò con papa Pagolo romano certe lor
differenze antiche, che gli avevano di Modana e di certe altre
città; le quali, per averci ragione la Chiesa, il Duca fece questa pace
col ditto Papa con forza di danari: la qual quantità fu grande: credo
che la passassi piú di trecento mila ducati di Camera. Aveva il Duca in questo
tempo un suo tesauriere vecchio, allievo del duca Alfonso suo padre, il quale
si domandava messer Girolamo Giliolo. Non poteva questo vecchio sopportare
questa ingiuria di questi tanti danari che andavano al Papa, e
andava gridando per le strade, dicendo: - Il Duca Alfonso suo padre con questi
danari gli arebbe piú presto con essi tolto Roma, che mostratigliele - e non
v'era ordine che gli volessi pagare. All'ultimo poi sforzato il Duca a fargnene
pagare, venne a questo vecchio un flusso sí grande di corpo, che lo condusse
vicino alla morte. In questo mezzo che lui stava ammalato, mi chiamò il
ditto Duca e volse che io lo ritraessi, la qual cosa io feci innun tondo di
pietra nera, grande quanto un taglieretto da tavola. Piaceva al Duca quelle mie
fatiche insieme con molti piacevoli ragionamenti; le qual dua cose ispesso causavano
che quattro e cinque ore il manco istava attento a lasciarsi ritrarre, e alcune
volte mi faceva cenare alla sua tavola. In ispazio d'otto giorni io gli fini'
questo ritratto della sua testa: di poi mi comandò che io facessi il
rovescio; il quale si era figurata per la Pace una femmina con una
faccellina in mano, che ardeva un trufeo d'arme: la quale io feci, questa ditta
femmina, in istatura lieta, con panni sottilissimi, di bellissima
grazia; e sotto i piedi di lei figurai afflitto e mesto, e legato con molte
catene, il disperato Furore. Questa opera io la feci con molto istudio, e la
detta mi fece grandissimo onore. Il Duca non si poteva saziare di chiamarsi
sattisfatto, e mi dette le lettere per la testa di Sua Eccellenzia e per il
rovescio. Quelle del rovescio dicevano “Pretiosa in conspectu Domini”.
Mostrava che quella pace s'era venduta per prezzo di danari.
VII.
In questo tempo, che io messi a fare questo ditto rovescio, il Cardinale
m'aveva scritto dicendomi che io mi mettessi in ordine, perché il Re m'aveva
domandato: e che alle prime lettere sue s'arebbe l'ordine di tutto quello che
lui m'aveva promesso. Io feci incassare il mio bacino e 'l mio boccale bene
acconcio; e l'avevo di già mostro al Duca. Faceva le faccende del
Cardinale un gentiluomo ferrarese, il qual si chiamava per nome messer Alberto
Bendedio. Questo uomo era stato in casa dodici anni sanza uscirne mai, causa
d'una sua infirmità. Un giorno con grandissima prestezza mandò
per me, dicendomi che io dovessi montare in poste subito per andare a trovare
il Re, il quale con grand'istanzia m'aveva domandato, pensando che io fussi in
Francia. Il Cardinale per iscusa sua aveva detto che io ero restato a una sua
badia in Lione, un poco ammalato, ma che farebbe che io sarei presto da Sua
Maestà; però faceva questa diligenza che io corressi in
poste. Questo messer Alberto era grande uomo da bene, ma era superbo, e per la
malattia superbo insopportabile; e sí come io dico, mi disse che io mi mettessi
in ordine presto, per correre in poste. Al quale io dissi che l'arte mia non si
faceva in poste, e che se io vi avevo da 'ndare, volevo andarvi a piacevol
giornate e menar meco Ascanio e Pagolo, mia lavoranti, i quali avevo levati di
Roma; e di piú volevo un servitore con esso noi a cavallo, per mio servizio, e
tanti danari che bastassino a condurmivi. Questo vecchio infermo con
superbissime parole mi rispose, che in quel modo che io dicevo, e non
altrimenti, andavano i figliuoli del Duca. Allui subito risposi che i figliuoli
de l'arte mia andavano in quel modo che io avevo detto; e per non essere stato
mai figliuol di duca, quelli non sapevo come s'andassino; e che se gli usava
meco quelle istratte parole ai mia orecchi, che io non v'andrei in modo
nessuno, sí per avermi mancato il Cardinale della fede sua e, arrotomi poi
queste villane parole, io mi risolverei sicuramente di non mi voler impacciare
con ferraresi; e voltogli le stiene, io brontolando e lui bravando, mi parti'.
Andai a trovare il sopraditto Duca con la sua medaglia finita; il quale mi fece
le piú onorate carezze che mai si facessino a uomo del mondo: e aveva commesso
a quel suo messer Girolamo Giliolo, che per quelle mie fatiche trovassi uno
anello d'un diamante di valore di ducento scudi, e che lo dessi al Fiaschino
suo cameriere, il quale me lo dessi. Cosí fu fatto. Il ditto Fiaschino, la sera
che il giorno gli avevo dato la medaglia, a un'ora di notte mi porse uno anello
drentovi un diamante, il quale aveva gran mostra; e disse queste parole da
parte del suo Duca: che quella unica virtuosa mano, che tanto bene aveva
operato, per memoria di Sua Eccellenzia con quel diamante si adornassi la ditta
mano. Venuto il giorno, io guardai il ditto anello, il quale era un
diamantaccio sottile, il valore d'un dieci scudi in circa. E perché quelle
tante meravigliose parole, che quel Duca m'aveva fatto usare, io, che non volsi
che le fussino vestite di un cosí poco premio, pensando il Duca d'avermi ben
sattisfatto; e io che m'immaginai che la venissi da quel suo furfante
tesauriere, detti l'anello a un mio amico, che lo rendessi al cameriere
Fiaschino, in ogni modo che egli poteva. Questo fu Bernardo Saliti, che fece
questo uffizio mirabilmente. Il detto Fiaschino subito mi venne a trovare con
grandissime sclamazioni, dicendomi che se il Duca sapeva che io gli rimandassi
un presente in quel modo, che lui cosí benignamente m'aveva donato, che egli
l'arebbe molto per male, e forse me ne potrei pentire. Al ditto risposi, che
l'anello che Sua Eccellenzia m'avea donato, era di valore d'un dieci scudi in
circa, e che l'opera che io avevo fatta a Sua Eccellenzia valeva piú di
ducento; ma per mostrare a Sua Eccellenzia che io stimavo l'atto della sua
gentilezza, che solo mi mandassi uno anello del granchio, di quelli che vengon
d'Inghilterra che vagliono un carlino in circa; quello io lo terrei per memoria
di Sua Eccellenzia in sin che io vivessi, insieme con quelle onorate parole che
Sua Eccellenzia m'aveva fatto porgere; perché io facevo conto che lo splendore
di Sua Eccellenzia avessi largamente pagato le mie fatiche, dove quella bassa
gioia me le vituperava. Queste parole furno di tanto dispiacere al Duca, che
egli chiamò quel suo detto tesauriere, e gli disse villania, la maggiore
che mai pel passato lui gli avessi detto; e a me fe' comandare, sotto pena
della disgrazia sua, che io non partissi di Ferrara se lui non me lo faceva
intendere; e al suo tesauriere comandò che mi dessi un diamante che
arrivassi a trecento scudi. L'avaro tesauriere ne trovò uno che passava
di poco sessanta scudi, e dette ad intendere che il ditto diamante valeva molto
piú di dugento.
VIII. Intanto
il sopra ditto messer Alberto aveva ripreso la buona via, e m'aveva provisto di
tutto quello che io avevo domandato. Eromi quel dí disposto di partirmi di
Ferrara a ogni modo; ma quel diligente cameriere del Duca aveva ordinato col
ditto messer Alberto, che per quel dí io non avessi cavalli. Avevo carico un
mulo di molte mia bagaglie, e con esse avevo incassato quel bacino e quel
boccale che fatto avevo per il Cardinale. In questo sopraggiunse un gentiluomo
ferrarese, il quale si domandava per nome messer Alfonso de' Trotti. Questo
gentiluomo era molto vecchio e era persona affettatissima, e si dilettava delle
virtú grandemente; ma era una di quelle persone che sono difficilissime a
contentare; e se per aventura elle s'abbattono mai a vedere qualche cosa che
piaccia loro, se la dipingono tanto eccellente nel cervello, che mai piú
pensono di rivedere altra cosa che piaccia loro. Giunse questo messer Alfonso;
per la qual cosa messer Alberto gli disse: - A me sa male che voi sete venuto
tardi: perché di già s'è incassato e fermo quel boccale e
quel bacino che noi mandiamo al Cardinale di Francia -. Questo messer Alfonso
disse che non se ne curava; e accennato a un suo servitore, lo mandò a
casa sua: il quale portò un boccale di terra bianca, di quelle terre di
Faenza, molto dilicatamente lavorato. In mentre che il servitore andò e
tornò, questo messer Alfonso diceva al ditto messer Alberto: - Io vi
voglio dire per quel che io non mi curo di vedere mai piú vasi:
questo si è che una volta io ne vidi uno d'argento, antico, tanto bello
e tanto maraviglioso, che la immaginazione umana non arriverebbe a pensare a
tanta eccellenzia; e però io non mi curo di vedere altra cosa tale,
acciò che la non mi guasti quella maravigliosa inmaginazione di quello.
Questo si fu un gran gentiluomo virtuoso, che andò a Roma per alcune sue
faccende e segretamente gli fu mostro questo vaso antico; il quale per vigore
d'una gran quantità di scudi corroppe quello che l'aveva, e seco ne lo
portò in queste nostre parti; ma lo tien ben segreto, che 'l Duca non lo
sappia; perché arebbe paura di perderlo a ogni modo -. Questo messer Alfonso,
in mentre che diceva queste sue lunghe novellate, egli non si guardava da me,
che ero alla presenza, perché non mi conosceva. Intanto, comparso questo
benedetto modello di terra, iscoperto con una tanta boriosità,
ciurma e sicumera, che veduto che io l'ebbi, voltomi a messer Alberto, dissi: -
Pur beato che io l'ho veduto! - Messer Alfonso adirato, con qualche parola
ingiuriosa, disse: - O chi se' tu, che non sai quel che tu di'? - A questo io
dissi: - Ora ascoltatemi, e poi vedrete chi di noi saprà meglio quello
che e' si dice -. Voltomi a messer Alberto, persona molto grave e ingegnosa,
dissi: - Questo è un boccaletto d'argento di tanto peso, il quale io lo
feci innel tal tempo a quel ciurmadore di maestro Iacopo cerusico da Carpi, il
quale venne a Roma e vi stette sei mesi; e con una sua unzione imbrattò
di molte decine di signori e poveri gentiluomini, da i quali lui trasse di
molte migliara di ducati. In quel tempo io gli feci questo vaso e un altro
diverso da questo; e lui me lo pagò, l'uno e l'altro, molto male, e ora
sono in Roma tutti quelli sventurati che gli unse, storpiati e malcondotti. A
me è gloria grandissima che l'opere mie sieno di tanto nome appresso a
voi altri Signori ricchi; ma io vi dico bene, che da quei tanti anni in qua io
ho atteso quanto io ho potuto a 'mparare; di modo che io mi penso, che quel
vaso ch'io porto in Francia, sia altrimenti degno del Cardinale e del Re, che
non fu quello di quel vostro mediconzolo -. Ditte che io ebbi queste mie
parole, quel messer Alfonso pareva proprio che si struggessi di desiderio di
vedere quel bacino e boccale, il quale io continuamente gli negavo. Quando un
pezzo fummo stati in questo, disse che se andrebbe al Duca e per mezzo di Sua
Eccellenzia lo vedrebbe. Allora messer Alberto Bendidio ch'era, come ho detto,
superbissimo, disse: - Innanzi che voi partiate di qui, messer Alfonso, voi lo
vedrete, sanza adoperare i favori del Duca -. A queste parole io mi parti' e
lasciai Ascanio e Pagolo che lo mostrassi loro; qual disse poi che egli
avean ditto cose grandissime in mia lode. Volse poi messer Alfonso che io mi
addomesticassi seco, onde a me parve mill'anni di uscir di Ferrara e levarmi
lor dinanzi. Quanto io v'avevo aùto di buono si era stata la pratica del
cardinal Salviati e quella del cardinal di Ravenna, e di qualcuno altro di
quelli virtuosi musici, e non d'altri; perché i Ferraresi son gente avarissime
e piace loro la roba d'altrui in tutti e' modi che la possino avere; cosí son
tutti. Comparse alle ventidua ore il sopra ditto Fiaschino, e mi porse il ditto
diamante di valore di sessanta scudi in circa; dicendomi con faccia malinconica
e con breve parole che io portassi quello per amore di Sua Eccellenzia. Al
quale io risposi: - E io cosí farò -. Mettendo i piedi innella staffa in
sua presenza, presi il viaggio per andarmi con Dio. Notò l'atto e le
parole; e riferito al Duca, in còllora ebbe voglia grandissima di farmi
tornare indietro.
IX. Andai la
sera innanzi piú di dieci miglia, sempre trottando; e quando l'altro giorno io
fu' fuora dal ferrarese, n'ebbi grandissimo piacere, perché da quei pagoncelli,
che io vi mangiai, causa della mia sanità, in fuora, altro non vi
cognobbi di buono. Facemmo il viaggio per il Monsanese, non toccando la
città di Milano per il sospetto sopraditto; in modo che sani e salvi
arrivammo a Lione. Insieme con Pagolo e Ascanio e un servitore, eramo in
quattro con quattro cavalcature assai buone. Giunti a Lione ci fermammo
parecchi giorni per aspettare il mulattiere, il quale aveva quel bacino e
boccale d'argento insieme con le altre nostre bagaglie: fummo alloggiati in una
badia, che era del Cardinale. Giunto che fu il mulattiere, mettemmo tutte le
nostre cose in una carretta e l'avviammo alla volta di Parigi: cosí noi andammo
in verso Parigi, e avemmo per la strada qualche disturbo, ma non fu molto
notabile. Trovammo la corte del Re a Fontana Beleò: facemmoci
vedere al Cardinale, il quale subito ci fece consegnare alloggiamenti, e per
quella sera stemmo bene. L'altra giornata comparse la carretta; e preso le
nostre cose, intesolo il Cardinale, lo disse al Re, il quale subito mi volse
vedere. Andai da Sua Maestà con il ditto bacino e boccale, e giunto alla
presenza sua, gli baciai il ginocchio e lui gratissimamente mi raccolse.
Intanto che io ringraziavo Sua Maestà dell'avermi libero del carcere,
dicendo che gli era ubrigato, ogni principe buono e unico al mondo, come era
Sua Maestà, a liberare uomini buoni a qualcosa, e maggiormente innocenti
come ero io; che quei benifizii eran prima iscritti in su' libri de Dio, che
ogni altro che far si potessi al mondo; questo buon Re mi stette a 'scoltare
finché io dissi, con tanta gratitudine e con qualche parola, sola degna di lui.
Finito che io ebbi, prese il vaso e il bacino, e poi disse: - Veramente che
tanto bel modo d'opera non credo mai che degli antichi se ne vedessi: perché
ben mi sovviene di aver veduto tutte le miglior opere e dai miglior maestri
fatte, di tutta la Italia; ma io non viddi mai cosa che mi movessi piú
grandemente che questa -. Queste parole il ditto Re le parlava in franzese al
cardinale di Ferrara, con molte altre maggior che queste. Di poi voltosi a me
mi parlò in taliano, e disse: - Benvenuto, passatevi tempo lietamente
qualche giorno, e confortatevi il cuore e attendete a far buona cera; e
intanto noi penseremo di darvi buone comodità al poterci far qualche
bell'opera.
x. Il cardinal di Ferrara sopra ditto veduto che il Re aveva preso
grandissimo piacere del mio arrivo; ancora lui veduto che con quel poco
dell'opere il Re s'era promesso di potersi cavar la voglia di fare certe
grandissime opere, che lui aveva in animo; però in questo tempo, che noi
andavamo drieto alla Corte, puossi dire tribulando (il perché si
è che il traino del Re si strascica continuamente drieto dodici mila
cavalli; e questo è il manco: perché quando la Corte in e' tempi di pace
è intera, e' sono diciotto mila, di modo che sempre vengono da essere
piú di dodici mila; per la qual cosa noi andavamo seguitando la ditta Corte in
tai luoghi, alcuna volta, dove non era dua case a pena; e sí come fanno i
zingani, si faceva delle trabacche di tele, e molte volte si pativa assai): io
pure sollecitavo il Cardinale che incitassi il Re a mandarmi a lavorare; il
Cardinale mi diceva che il meglio di questo caso si era d'aspettare che il Re
da sé se ne ricordassi; e che io mi lasciassi alcuna volta vedere a Sua
Maestà, in mentre ch'egli mangiava. Cosí faccendo, una mattina al suo
desinare mi chiamò il Re: cominciò a parlar meco in taliano, e
disse che aveva animo di fare molte opere grande, e che presto mi darebbe
ordine dove io avessi a lavorare, con provvedermi di tutto quello che mi faceva
bisogno; con molti altri ragionamenti di piacevoli e diverse cose. Il cardinal
di Ferrara era alla presenza, perché quasi di continuo mangiava la mattina al
tavolino del Re; e sentito tutti questi ragionamenti, levatosi il Re dalla
mensa, il cardinal di Ferrara in mio favore disse, per quanto mi fu riferito: -
Sacra Maestà, questo Benvenuto ha molto gran voglia di lavorare; quasi
che si potria dire l'esser peccato a far perder tempo a un simile virtuoso -.
Il Re aggiunse che gli aveva ben detto, e che meco istabilissi tutto quello che
io volevo per la mia provvisione. Il qual Cardinale la sera seguente che la
mattina aveva aùto la commessione, dipoi la cena fattomi domandare, mi
disse da parte di Sua Maestà come Sua Maestà s'era risoluta che
io mettessi mano a lavorare; ma prima voleva che io sapessi qual dovessi essere
la mia provvisione. A questo disse il Cardinale: - A me pare, che se Sua
Maestà vi dà di provvisione trecento scudi l'anno, che voi
benissimo vi possiate salvare; appresso vi dico che voi lasciate la cura a me,
perché ogni giorno, viene occasione di poter far bene in questo gran regno e io
sempre vi aiuterò mirabilmente -. Allora io dissi: - Sanza che io
ricercassi Vostra Signoria reverendissima, quando quella mi lasciò in
Ferrara, mi promise di non mi cavar mai di Italia, se prima io non sapevo tutto
il modo che con Sua Maestà io dovevo stare; Vostra Signoria
reverendissima, in cambio di mandarmi a dire il modo che io dovevo stare,
mandò espressa commessione che io dovessi venire in poste, come se tale
arte in poste si facessi: che se voi mi avessi mandato a dire di trecento
scudi, come voi mi dite ora, io non mi sarei mosso per sei. Ma di tutto
ringrazio Idio e Vostra Signoria reverendissima ancora, perché Idio l'ha
adoperata per istrumento a un sí gran bene, quale è stato la mia
liberazione del carcere. Per tanto dico a Vostra Signoria, che tutti e' gran
mali che ora io avessi da quella, non possono aggiungere alla millesima parte
del gran bene che da lei ho ricevuto, e con tutto il cuore ne la ringrazio, e
mi piglio buona licenzia, e dove io sarò, sempre infin che io viva,
pregherò Idio per lei -. Il Cardinale adirato disse in còllora: -
Va' dove tu vuoi, perché a forza non si può far bene a persona -. Certi
di quei sua cortigiani scannapagnotte dicevano: - A costui gli par essere
qualche gran cosa, perché e' rifiuta trecento ducati di entrata -. Altri, di
quei virtuosi, dicevano: - Il Re non troverrà mai un par di costui; e
questo nostro Cardinale lo vuole mercatare, come se ei fusse una soma di legne
-. Questo fu messer Luigi Alamanni, che cosí mi fu ridetto che lui disse.
Questo fu innel Delfinato, a un castello che non mi sovviene il nome: e fu
l'ultimo dí d'ottobre.
xi. Partitomi
dal Cardinale, me ne andai al mio alloggiamento tre miglia lontano di quivi,
insieme con un segretario del Cardinale che al medesimo alloggiamento ancora
lui veniva. Tutto quel viaggio quel segretario mai restò di domandarmi
quel che io volevo far di me, e quel che saria stato la mia fantasia di volere
di provvisione. Io non gli risposi mai se none una parola, dicendo: - Tutto mi
sapevo -. Di poi giunto allo alloggiamento, trovai Pagolo e Ascanio che quivi
vi stavano; e vedendomi turbatissimo, mi sforzorno a dir loro quello che io
aveva; e veduto isbigottiti i poveri giovani, dissi loro: - Domattina io vi
darò tanti danari che largamente voi potrete tornare alle case vostre; e
io andrò a una mia faccenda inportantissima, sanza di voi; che gran pezzo
è che io ho aùto in animo di fare -. Era la camera nostra a muro
a muro accanto a quella del ditto segretario, e talvolta è possibile che
lui lo scrivessi al Cardinale tutto quello che io avevo in animo di fare; se
bene io non ne seppi mai nulla. Passossi la notte sanza mai dormire: a me
pareva mill'anni che si facessi giorno, per seguitare la resoluzione che di me
fatto avevo. Venuto l'alba del giorno, dato ordine ai cavagli e io prestamente
messomi in ordine, donai a quei dua giovani tutto quello che io avevo portato
meco, e di piú cinquanta ducati d'oro: e altre tanta ne salvai per me, di piú
quel diamante che mi aveva donato il Duca; solo due camicie ne portavo e certi
non troppi boni panni da cavalcare, che io avevo addosso. Non potevo ispiccarmi
dalli dua giovani, che se ne volevano venire con esso meco a ogni modo;
per la qual cosa io molto gli svili' dicendo loro: - Uno è di
prima barba e l'altro a mano a mano comincia a 'verla, e avete da me imparato
tanto di questa povera virtú che io v'ho potuto insegnare, che voi siete oggi i
primi giovani di Italia; e non vi vergognate che non vi basti l'animo a uscire
del carruccio del babbo, qual sempre vi porti? Questa è pure
una vil cosa! O se vi lasciassi andare sanza danari, che diresti voi? Ora
levatevimi d'inanzi, che Dio vi benedica mille volte: a Dio -. Volsi il
cavallo, e lascia' li piangendo. Presi la strada bellissima per un bosco, per
discostarmi quella giornata quaranta miglia il manco, in luogo piú incognito
che pensar potevo. E di già m'ero discostato incirca a dua miglia; e in
quel poco viaggio io m'ero risoluto di non mai piú praticare in parte dove io
fussi conosciuto, né mai piú volevo lavorare altra opera, che un Cristo grande
di tre braccia, appressandomi piú che potevo a quella infinita bellezza che
dallui stesso m'era stata mostra. Essendomi già resoluto affatto, me
n'andavo alla volta del Sepulcro. Pensando essermi tanto iscostato che nessuno
piú trovar non mi potessi, in questo io mi senti' correr dietro cavagli; e mi
feciono alquanto sospetto, perché in quelle parte v'è una certa razza di
brigate, li quali si domandan venturieri, che volentieri assassinano alla
strada; e se bene ogni 'n dí assai se ne impicca, quasi pare che non se ne
curino. Appressatimisi piú costoro, cognobbi che gli erano un mandato del Re,
insieme con quel mio giovane Ascanio; e giunto a me disse: - Da parte del Re vi
dico che prestamente voi vegniate a lui -. Al quale uomo io dissi: - Tu vieni
da parte del Cardinale; per la qual cosa io non voglio venire -. L'uomo disse
che da poi che io non volevo andare amorevolmente, aveva autorità di
comandare a' populi, i quali mi merrebbono legato come prigione. Ancora
Ascanio, quant'egli poteva, mi pregava, ricordandomi che quando il Re metteva
un prigione, stava dappoi cinque anni per lo manco a risolversi di cavarlo.
Questa parola della prigione, sovvenendomi di quella di Roma, mi porse tanto
ispavento, che prestamente volsi il cavallo dove il mandato del Re mi disse. Il
quale, sempre borbottando in franzese, non restò mai in tutto quel
viaggio, insinché m'ebbe condutto alla Corte: or mi bravava, or mi diceva una
cosa, ora un'altra, da farmi rinnegare il mondo.
xII. Quando noi fummo giunti agli alloggiamenti del Re, noi
passammo dinanzi a quelli del cardinale di Ferrara. Essendo il Cardinale in su
la porta, mi chiamò a sé e disse: - Il nostro Re Cristianissimo da per
sé stesso v'ha fatto la medesima provvisione, che sua Maestà dava a
Lionardo da Vinci pittore: qual sono settecento scudi l'anno; e di piú vi paga
tutte l'opere che voi gli farete; ancora per la vostra venuta vi dona
cinquecento scudi d'oro, i quali vuol che vi sien pagati prima che voi vi
partiate di qui -. Finito che ebbe di dire il Cardinale, io risposi che quelle
erono offerte da quel Re che gli era. Quel mandato del Re, non sapendo chi io
mi fussi, vedutomi fare quelle grande offerte da parte del Re, mi chiese molte
volte perdono. Pagolo e Ascanio dissono: - Idio ci ha aiutati ritornare in cosí
onorato carruccio -. Di poi l'altro giorno io andai a ringraziare il Re, il
quale m'impose che io gli facessi i modelli di dodici statue d'argento, le
quali voleva che servissino per dodici candelieri intorno alla sua tavola: e
voleva che fussi figurato sei Iddei e sei Iddee, della grandezza appunto di Sua
Maestà, quale era poco cosa manco di quattro braccia alto. Dato che egli
m'ebbe questa commessione, si volse al tesauriere de' risparmi e lo
domandò se lui mi aveva pagato li cinquecento scudi. Disse che non gli
era stato detto nulla. El Re l'ebbe molto per male, ché aveva commesso al
Cardinale che gnene dicessi. Ancora mi disse che io andassi a Parigi, e
cercassi che stanza fussi a proposito per far tale opere, perché me la farebbe
dare. Io presi li cinquecento scudi d'oro e me ne andai a Parigi in una stanza
del cardinale di Ferrara; e quivi cominciai innel nome di Dio a lavorare, e
feci quattro modelli piccoli di dua terzi di braccio l'uno, di cera: Giove,
Iunone, Appollo, Vulgano. In questo mezzo il Re venne a Parigi; per la qual
cosa io subito lo andai a trovare, e portai i detti modelli con esso meco,
insieme con quei mia dua giovani, cioè Ascanio e Pagolo. Veduto che io
ebbi che il Re era sadisfatto delli detti modelli, e' m'impose per il primo che
io gli facessi il Giove d'argento della ditta altezza. Mostrai a Sua
Maestà che quelli dua giovani ditti io gli avevo menati di Italia per
servizio di Sua Maestà; e perché io me gli avevo allevati, molto meglio
per questi principii avrei tratto aiuto da loro, che da quelli della
città di Parigi. A questo il Re disse, che io facessi alli ditti dua
giovani un salario qual mi paressi a me, che fussi recipiente a potersi
trattenere. Dissi che cento scudi d'oro per ciascuno stava bene, e che io farei
benissimo guadagnar loro tal salario. Cosí restammo d'accordo. Ancora dissi, che
io aveva trovato un luogo il quale mi pareva molto a proposito da fare in
esso tali opere; el ditto luogo si era di Sua Maestà particulare,
domandato il Piccol Nello, e che allora lo teneva il provosto di Parigi, a chi
Sua Maestà l'aveva dato; ma perché questo provosto non se ne serviva,
Sua Maestà poteva darlo a me, che l'adoperrei per suo servizio. Il Re
subito disse: - Cotesto luogo è casa mia; e io so bene che quello a chi
io lo detti non lo abita, e non se ne serve; però ve ne servirete voi
per le faccende nostre - e subito comandò al suo luogotenente, che mi
mettessi in detto Nello. Il quale fece alquanto di resistenza, dicendo al Re
che non lo poteva fare. A questo il Re rispose in còllora che voleva dar
le cose sue a chi piaceva allui e a uomo che lo servissi, perché di cotestui
non si serviva niente: però non gli parlassi piú di tal cosa. Ancora
aggiunse il luogotenente, che saria di necessità di usare un poco di
forza. Al quale il Re disse: - Andate adesso, e se la piccola forza non
è assai, mettetevi della grande -. Subito mi menò al luogo ed
ebbe a usar forza a mettermi in possessione: di poi mi disse che io m'avessi
benissimo cura di non v'essere ammazzato. Entrai drento, e subito presi de'
servitori, e comperai parecchi gran pezzi d'arme in aste, e parecchi giorni mi
stetti con grandissimo dispiacere; perché questo era gran gentiluomo pariciano,
e gli altri gentiluomini m'erano tutti nimici, di modo che mi facevano tanti
insulti, che io non potevo resistere. Non voglio lasciare indietro, che in
questo tempo che io m'acconciai con Sua Maestà correva appunto il
millesimo del 1540, che appunto era l'età mia de' quaranta anni.
xiii. Per questi grandi insulti io
ritornai al Re, pregando Sua Maestà che mi accomodassi altrove: alle
qual parole mi disse il Re: - Chi siate voi, e come avete voi nome? - Io restai
molto ismarrito e non sapevo quello che il Re si volessi dire; e standomi cosí
cheto, il Re replicò un'altra volta le medesime parole quasi adirato.
Allora io risposi che aveva nome Benvenuto. Disse il Re: - Addunche se voi
siete quel Benvenuto che io ho inteso, fate sicondo il costume vostro, che io
ve ne dò piena licenza -. Dissi a Sua Maestà che mi bastava solo
mantenermi nella grazia sua, del resto io non conoscevo cosa nessuna che mi
potessi nuocere. Il Re, ghignato un pochetto, disse: - Andate addunche, e la
grazia mia non vi mancherà mai -. Subito mi ordinò un
suo primo segretario, il quale si domandava monsignor di Villurois, che dessi
ordine a farmi provvedere e acconciare per tutti i miei bisogni. Questo
Villurois era molto grande amico di quel gentiluomo chiamato il provosto, di
chi era il ditto luogo di Nello. Questo luogo era in forma triangulare, ed era
appiccato con le mura della città ed era castello antico, ma non si
teneva guardie: era di buona grandezza. Questo detto Monsignor di Villurois mi
consigliava che io cercassi di qualche altra cosa, e che io lo lasciassi a ogni
modo; perché quello di che gli era, era uomo di grandissima possanza, e che
certissimo lui mi arebbe fatto ammazzare. Al quale io risposi, che ero andato
di Italia in Francia solo per servire quel maraviglioso Re, e quanto al morire,
io sapevo certo che a morire avevo; che un poco prima o un poco dappoi non mi
dava una noia al mondo. Questo Villurois era uomo di grandissimo ispirito, e
mirabile in ogni cosa sua, grandissimamente ricco: non è al mondo cosa
che lui non avessi fatto per farmi dispiacere, ma non lo dimostrava niente; era
persona grave, di bello aspetto, parlava adagio. Commesse a un altro gentiluomo,
che si domandava Monsignor di Marmagnia, quale era tesauriere di Lingua d'oca.
Questo uomo, la prima cosa che e' fece, cercato le migliore stanze di quel
luogo, le faceva acconciare per sé: al quale io dissi che quel luogo me lo
aveva dato il Re perché io lo servissi, e che quivi non volevo che abitassi
altri che me e li mia servitori. Questo uomo era superbo, aldace, animoso; e mi
disse che voleva fare quanto gli piaceva, e che io davo della testa nel muro a
voler contrastare contro a di lui; e che tutto quel che lui faceva, ne aveva
aùto commessione da Villurois di poter farlo. Allora io dissi che io
avevo aùto commessione dal Re, che né lui né Villurois tal cosa non
potrebbe fare. Quando io dissi questa parola, questo superbo uomo mi disse in
sua lingua franzese molte brutte parole, alle quali io risposi in lingua mia,
che lui mentiva. Mosso dall'ira, fece segni di metter mano a una sua daghetta;
per la qual cosa io messi la mano in sun una mia daga grande, che continuamente
io portavo accanto per mia difesa, e li dissi: - Se tu sei tanto ardito di
sfoderar quell'arme, io subito ti ammazzerò -. Gli aveva seco dua
servitori, e io avevo li mia dua giovani: e in mentre che il ditto Marmagnia
stava cosí sopra di sé, non sapendo che farsi, piú presto vòlto al male,
e' diceva borbottando: - Già mai non comporterò tal cosa -. Io
vedevo la cosa andar per la mala via; subito mi risolsi e dissi a Pagolo e
Ascanio: - Come voi vedete che io sfodero la mia daga, gittatevi addosso ai dua
servitori e ammazzategli, se voi potete: perché costui io lo ammazzerò
al primo; poi ci andren con Dio d'accordo subito -. Sentito Marmagnia
questa resoluzione, gli parve fare assai a uscir di quel luogo vivo. Tutte
queste cose, alquanto un poco piú modeste, io le scrissi al cardinale di Ferrara,
il quale subito le disse al Re. Il Re crucciato mi dette in custode a un altro
di quei suoi ribaldi, il quale si domandava monsignor lo iscontro
d'Orbech. Questo uomo con tanta piacevolezza, quanto inmaginar si possa, mi
provvedde di tutti li mia bisogni.
xiv. Fatto ch'io ebbi tutti gli acconci
della casa e della bottega, accomodatissimi a poter servire, e
onoratissimamente, per li mia servizii della casa, subito messi mano a far tre
modelli, della grandezza appunto che gli avevano da essere d'argento: questi
furno Giove e Vulgano e Marte. Gli feci di terra, benissimo armati di ferro, di
poi me ne andai dal Re, il quale mi fece dare, se ben mi ricordo, trecento
libbre d'argento, acciò che io cominciassi a lavorare. In mentre che io
davo ordine a queste cose, si finiva il vasetto e il bacino ovato, i quali ne
portorno parecchi mesi. Finiti che io gli ebbi, gli feci benissimo
dorare. Questa parve la piú bell'opera che mai si fosse veduta in Francia.
Subito lo portai al cardinal di Ferrara, il quale mi ringraziò assai; di
poi sanza me lo portò al Re e gnene fece un presente. Il Re l'ebbe molto
caro, e mi lodò piú smisuratamente che mai si lodassi uomo par mio; e
per questo presente donò al cardinal di Ferrara una badia di sette mila
scudi d'entrata; e a me volse far presente. Per la qual cosa il Cardinale lo
inpedí, dicendo a Sua Maestà che quella faceva troppo presto, non gli
avendo ancora dato opera nessuna. E il Re, che era liberalissimo, disse: -
Però gli vo' io dar coraggio che me ne possa dare -. Il Cardinale, a
questo vergognatosi, disse: - Sire, io vi priego che voi lasciate fare a me;
perché io gli farò una pensione di trecento scudi il manco,
subito che io abbia preso il possesso della badia -. Io non gli ebbi mai, e
troppo lungo sarebbe a voler dire la diavoleria di questo Cardinale; ma mi
voglio riserbare a' cose di maggiore importanza.
xv. Mi tornai a Parigi. Con tanto favore
fattomi dal Re io era ammirato da ugniuno. Ebbi l'argento, e cominciai la ditta
statua di Giove. Presi di molti lavoranti, e con grandissima sollecitudine
giorno e notte non restavo mai di lavorare; di modo che, avendo finito di terra
Giove, Vulcano e Marte, di già cominciato d'argento a tirare innanzi
assai bene il Giove, si mostrava la bottega di già molto ricca. In
questo conparse el Re a Parigi: io l'andai a visitare; e subito che Sua
Maestà mi vedde, lietamente mi chiamò e mi domandava se alla mia
magione era qualcosa da mostrargli di bello, perché verrebbe insin quivi. Al
quale io contai tutto quel che io avevo fatto. Subito gli venne voluntà
grandissima di venire; e di poi il suo desinare, dette ordine con madama de
Tampes, col cardinal di Loreno, e certi altri di quei signori, qual fu il re di
Navarra, cognato del re Francesco, e la Regina, sorella del ditto re Francesco;
venne il Dalfino e la Dalfina; tanto si è, che quel dí venne tutta la
nobiltà della Corte. Io m'ero avviato a casa, e m'ero misso a lavorare.
Quando il Re comparse alla porta del mio castello, sentendo picchiare a
parecchi martella, comandò a ugniuno che stessi cheto: in casa mia
ogniuno era innopera; di modo che io mi trovai sopraggiunto dal Re, che io non
lo aspettavo. Entrò nel mio salone: e 'l primo che vedde, vedde me con
una gran piastra d'argento in mano, qual serviva per il corpo del Giove: un
altro faceva la testa, un altro le gambe, in modo che il romore era
grandissimo. In mentre che io lavoravo, avendo un mio ragazzetto franzese
intorno, il quale m'aveva fatto non so che poco di dispiacere, per la qual cosa
io gli avevo menato un calcio, e per mia buona sorte, entrato col piè
nella inforcatura delle gambe, l'avevo spinto innanzi piú di quattro braccia,
di modo che all'entrare del Re questo putto s'attenne addosso al Re: il perché
il Re grandemente se ne rise, e io restai molto smarrito. Cominciò il Re
a dimandarmi quello che io facevo, e volse che io lavorassi; di poi mi disse
che io gli farei molto piú piacere a non mi affaticare mai, sí bene
tòrre quanti uomini io volessi, e quelli far lavorare: perché voleva che
io mi conservassi sano per poterlo servir piú lungamente. Risposi a Sua
Maestà, che subito io mi ammalerei se io non lavorassi, né manco l'opere
non sarebbono di quella sorte - che io desidero fare per Sua Maestà -.
Pensando il Re che quello che io dicevo fussi detto per millantarsi, e non
perché cosí fussi la verità, me lo fece ridire dal cardinal de Loreno,
al quali io mostrai tanto larghe le mie ragione e aperte, che lui ne
restò capacissimo: però confortò il Re che mi lasciassi
lavorare poco e assai, secondo la mia voluntà.
xvi. Restato sadisfatto il Re delle
opere mie, se ne tornò al suo palazzo, e mi lasciò pieno di tanti
favori, che saria lungo a dirgli. L'altro giorno appresso, al suo desinare, mi
mandò a chiamare. V'era alla presenza il cardinal di Ferrara, che
desinava seco. Quando io giunsi, ancora il Re era alla siconda vivanda:
accostatomi a Sua Maestà, subito cominciò a ragionar meco,
dicendo che da poi che gli aveva cosí bel bacino e cosí bel boccale di mia
mano, che per compagnia di quelle tal cose richiedeva una bella saliera, e che
voleva che io gnene facessi un disegno; ma ben l'arebbe voluto veder presto.
Allora io aggiunsi dicendo: - Vostra Maestà vedrà molto piú
presto un tal disegno, che la mi domanda; perché in mentre che io facevo il
bacino pensavo che per sua compagnia si gli dovessi far la saliera - e che tal
cosa era di già fatta; e che se gli piaceva, io gliene mostrerrei
subito. El Re si risentí con molta baldanza, e voltosi a quei Signori, qual era
il re di Navarra, el cardinal di Loreno e 'l cardinal di Ferrara, e' disse: -
Questo veramente è un uomo da farsi amare e desiderare da ogni uomo che
non lo cognosca -; di poi disse a me, che volentieri vedrebbe quel disegno che
io avevo fatto sopra tal cosa. Messimi in via, e prestamente andai e tornai, perché
avevo solo a passare la fiumara, cioè la Sena: portai meco un modello di
cera, il quale io avevo fatto già a richiesta del cardinal di Ferrara in
Roma. Giunto che io fui dal Re, scopertogli il modello, il Re maravigliatosi
disse: - Questa è cosa molto piú divina l'un cento, che io non arei mai
pensato. Questa è gran cosa di quest'uomo! Egli non debbe mai posarsi -.
Di poi si volse a me con faccia molto lieta, e mi disse che quella era un'opera
che gli piaceva molto, e che desiderava che io gliene facessi d'oro. Il
cardinal di Ferrara, che era alla presenza mi guardò in viso e mi
accennò, come quello che la ricognobbe che quello era il modello che io
avevo fatto per lui in Roma. A questo io dissi che quell'opera già avevo
detto che io la farei a chi l'aveva avere. Il Cardinale, ricordatosi di quelle
medesime parole, quasi che isdegnato, parutogli che io mi fussi voluto
vendicare, disse al Re: - Sire, questa è una grandissima opera, e
però io non sospetterei d'altro, se none che io non crederrei mai vederla
finita; perché questi valenti uomini, che hanno quei gran concetti di
quest'arte, volentieri danno lor principio, non considerando bene quando
ell'hanno aver la fine. Per tanto, faccendo fare di queste cotale grande opere,
io vorrei sapere quando io l'avessi avere -. A questo rispose il Re dicendo che
chi cercassi cosí sottilmente la fine dell'opere, non ne comincerebbe mai
nessuna; e lo disse in un certo modo, mostrando che quelle cotali opere non
fussino materia da uomini di poco animo. Allora io dissi: - Tutti e' principi
che danno animo ai servitori loro, in quel modo che fa e che dice Sua
Maestà, tutte le grande imprese si vengono a facificare; e poi che Dio
m'ha dato un cosí maraviglioso padrone, io spero di dargli finite di molte
grande e meravigliose opere. - E io lo credo - disse il Re; e levossi da
tavola. Chiamommi nella sua camera e mi domandò quanto oro bisognava per
quella saliera: - Mille scudi, - dissi io. Subito il Re chiamò un suo
tesauriere, che si domandava Monsignor lo risconte di Orbeche, e gli
domandò che allora allora mi provvedessi mille scudi vecchi di buon
peso, d'oro. Partitici da Sua Maestà, mandai a chiamare quelli dua
notati che m'avevan fatto dare l'argento per il Giove e molte altre cose, e
passato la Sena, presi una piccolissima sportellina che m'aveva donato una mia
sorella cugina, monaca, innel passare per Firenze, e per mia buona aúria tolsi
quella sportellina, e none un sacchetto: e pensando di spedire tal
faccenda di giorno, perché ancora era buon'otta, e non volendo isviare i
lavoranti; e manco non mi curai di menare servitore meco. Giunsi a casa il
tesauriere, il quale di già aveva innanzi li danari, e gli sceglieva sí
come gli aveva detto il Re. Per quanto a me parve vedere, quel ladrone
tesauriere fece con arte il tardare insino a tre ore di notte a contarmi li
detti dinari. Io, che non mancai di diligenza, mandai a chiamare parecchi di
quei mia lavoranti, che venissino a farmi compagnia, perché era cosa di molta
importanza. Veduto che li detti non venivano, io domandai a quel mandato, se
gli aveva fatto l'anbasciata mia. Un certo ladroncello servitore disse che
l'aveva fatta, e che loro avevan detto non poter venire; ma che lui di buona
voglia mi porterebbe quelli dinari: al quale io dissi, che li dinari volevo
portar da me. Intanto era spedito il contratto, contato li dinari e tutto.
Messomili nella sportellina ditta, di poi messi il braccio nelle dua manichi; e
perché entrava molto per forza, erano ben chiusi, e con piú mia comodità
gli portavo che se fussi stato un sacchetto. Ero bene armato di giaco e
maniche, e con la mia spadetta e 'l pugnale accanto prestamente mi messi la via
fra gambe.
xvii. In quello stante viddi certi servitori, che, bisbigliando,
presto ancora loro si partirno di casa, mostrando andare per altra via che
quella dove io andavo. Io che sollecitamente camminavo, passato il ponte al
Cambio, venivo su per un muricciuolo della fiumara, il quale mi conduceva a
casa mia a Nello. Quando io fui appunto dagli Austini, luogo pericolosissimo se
ben vicino a casa mia cinquecento passi; per essere l'abitazione del castello a
drento quasi che altretanto, non si sarebbe sentito la voce, se io mi fussi
messo a chiamare, ma resolutomi in un tratto che io mi veddi scoperto a dosso
quattro con quattro spade, prestamente copersi quella sportellina con la cappa,
e messo mano in su la mia spada, veduto che costoro con sollecitudine mi
serravano, dissi: - Dai soldati non si può guadagnare altro che la cappa
e la spada; e questa, prima che io ve la dia, spero l'arete con poco vostro
guadagno -. E pugnando contro a di loro animosamente, piú volte m'apersi,
acciò che, se e' fussino stati di quelli indettati da quei
servitori, che m'avevan visto pigliare i danari, con qualche ragione
iudicassino che io non avevo tal somma di danari addosso. La pugna durò
poco, perché a poco a poco si ritiravono; e da lor dicevano in
lingua loro: - Questo è un bravo italiano, e certo non è quello
che noi cercavamo; o sí veramente, se gli è lui, e' non ha nulla addosso
-. Io parlavo italiano, e continuamente a colpi di stoccate e imbroccate
talvolta molto a presso gl'investi' alla vita; e perché io ho benissimo
maneggiato l'arme, piú giudicavono che io fussi soldato che altro; e
ristrettisi insieme, a poco a poco si scostavano da me, sempre borbottando
sotto voce in lor lingua; e ancora io sempre dicevo, modestamente pure, che chi
voleva la mia arme e la mia cappa, non l'arebbe senza fatica. Cominciai a
sollecitare il passo, e lor sempre venivano a lento passo drietomi; per la qual
cosa a me crebbe la paura, pensando di non dare in qualche imboscata di
parecchi altri simili, che m'avessino messo in mezzo; di modo che, quando io
fui presso a cento passi, mi messi a tutta corsa e ad alta voce gridavo: - Arme
arme, fuora fuora, ché io sono assassinato -. Subito corse quattro giovani con
quattro pezzi d'arme in aste: e volendo seguitar drieto a coloro, che ancor gli
vedevano, gli fermai, dicendo pur forte: - Quei quattro poltroni non hanno
saputo fare, contro a uno uomo solo, un bottino di mille scudi d'oro in oro, i
quali m'hanno rotto un braccio; sí che andiangli prima a riporre, e di poi io
vi farò compagnia col mio spadone a dua mane dove voi vorrete -. Andammo
a riporre li dinari; e quelli mia giovani, condolendosi molto del gran pericolo
che io avevo portato, modo che isgridarmi, dicevano: - Voi vi fidate troppo di
voi stesso, e una volta ci avete a far piagner tutti -. Io dissi di molte cose;
e lor mi risposono anche; fuggirno gli aversari mia; e noi tutti allegri e
lieti cenammo, ridendoci di quei gran pressi che fa la fortuna, tanto in
bene quanto in male; e non cogliendo, è come se nulla non fussi stato.
Gli è ben vero che si dice: “Tu imparerai per un'altra volta”. Questo
non vale, perché la vien sempre con modi diversi e non mai immaginati.
xviii. La mattina
seguente subito detti principio alla gran saliera, e con sollecitudine quella
con l'altre opere facevo tirare innanzi. Di già avevo preso di molti
lavoranti, sí per l'arte della scultura, come per l'arte della oreficeria.
Erano, questi lavoranti, italiani, franzesi, todeschi, e talvolta n'avevo buona
quantità, sicondo che io trovavo de' buoni; perché di giorno in giorno
mutavo, pigliando di quelli che sapevano piú, e quelli io gli sollecitavo di
sorte che per il continuo affaticarsi (vedendo fare a me, che mi serviva
un poco meglio la complessione che a loro, non possendo resistere alle gran
fatiche, pensando ristorarsi col bere e col mangiare assai), alcuni di quei
todeschi, che meglio sapevano che gli altri, volendo seguitarmi, non sopportò
da loro la natura tale ingiurie, che quegli ammazzò. In mentre che io
tiravo innanzi il Giove d'argento, vedutomi avanzare assai bene dell'argento,
messi mano sanza saputa del Re a fare un vaso grande con dua manichi,
dell'altezza d'un braccio e mezzo in circa. Ancora mi venne voglia di gittare
di bronzo quel modello grande che io avevo fatto per il Giove
d'argento; messo mano a tal nuova impresa, quale io non avevo mai piú fatta, e
conferitomi con certi vecchioni di quei maestri di Parigi, dissi loro tutti e'
modi che noi nella Italia usavono fare tal impresa. Questi a me dissono che per
quella via non erano mai camminati, ma se io lasciavo fare sicondo i lor modi,
me lo darebbon fatto e gittato tanto netto e bello, quant'era quello di terra.
Io volsi fare mercato, dando quest'opera sopra di loro: e sopra la domanda che
quei m'avevan fatta, promessi loro parecchi scudi di piú. Messon mano a tale
impresa; e veduto io che loro non pigliavono la buona via, prestamente
cominciai una testa di Iulio Cesare, col suo petto, armata, grande molto piú
del naturale, qual ritraevo da un modello piccolo che io m'avevo portato di
Roma, ritratto da una testa maravigliosissima antica. Ancora messi mano in
un'altra testa della medesima grandezza, quale io ritraevo da una bellissima
fanciulla, che per mio diletto carnale a presso a me tenevo. A questa posi nome
Fontana Beliò, che era quel sito che aveva eletto il Re per sua propria
dilettazione. Fatto la fornacetta bellissima per fondere il bronzo, e messo in
ordine e cotto le nostre forme, quegli el Giove e io le mia dua teste, dissi a
loro: - Io non credo che il vostro Giove venga, perché voi non gli avete dati
tanti spiriti da basso, che el vento possa girare; però voi perdete il
tempo -. Questi dissono a me, che quando la loro opera non fossi venuta, mi
renderebbono tutti li dinari che io avevo dati loro a buon conto, e mi
rifarebbono tutta la perduta ispesa; ma che io guardassi bene, che quelle mie
belle teste, che io volevo gittare al mio modo della Italia, mai non mi verrebbono.
A questa disputa fu presente quei tesaurieri e altri gentiluomini, che per
commession del Re mi venivano a vedere; e tutto quello che si diceva e faceva,
ogni cosa riferivano al Re. Feciono questi dua vecchioni, che volevan gittare
il Giove, soprastare alquanto il dare ordine del getto; perché dicevano che
arebbon voluto acconciare quelle dua forme delle mie teste; perché quel modo
che io facevo, non era possibile che le venissimo, ed era gran peccato a perder
cosí bell'opere. Fattolo intendere al Re, rispose Sua Maestà che gli
attendessino a 'mparare e non cercassino di volere insegnare al maestro. Questi
con gran risa messono in fossa l'opera loro; e io saldo, sanza nissuna
dimostrazione né di risa né di stizza - che l'avevo - messi con le mie dua forme
in mezzo il Giove: e quando il nostro metallo fu benissimo fonduto, con
grandissimo piacere demmo la via al ditto metallo, e benissimo s'empié la forma
del Giove; innel medesimo tempo s'empié la forma delle mie due teste: di modo
che loro erano lieti e io contento; perché avevo caro d'aver detto le bugie
della loro opera, e loro mostravano d'aver molto caro d'aver detto le bugie
della mia. Domandorno pure alla franciosa con gran letizia da bere: io molto
volentieri feci far loro una ricca colezione. Da poi mi chiesono li dinari che
gli avevano da avere, e quegli di piú che io avevo promessi loro. A questo io
dissi: - Voi vi siate risi di quello, che io ho ben paura che voi non abbiate a
piangere; perché io ho considerato che in quella vostra forma è entrato
molto piú roba che 'l suo dovere; però io non vi voglio dare piú
dinari, di quelli che voi avete auti, insino a domattina -. Cominciorno a
considerare questi poveri uomini quello che io avevo detto loro, e sanza dir
niente se ne andorno a casa. Venuti la mattina, cheti cheti cominciorno a
cavare di fossa; e perché loro non potevano iscoprire la loro gran forma, se
prima egli non cavavano quelle mie due teste, le quali cavorno e stavono
benissimo, e le avevano messe in piede, che benissimo si vedevano.
Cominciato da poi a scoprire il Giove, non furno dua braccia in giú, che loro
con quattro lor lavoranti messono sí grande il grido, che io li sentii.
Pensando che fussi grido di letizia, mi cacciai a correre, che ero nella mia
camera lontano piú di cinquecento passi. Giunsi a loro e li trovai in quel modo
che si figura quelli che guardavano il sepulcro di Cristo, afflitti
e spaventati. Percossi gli occhi nelle mie due teste, e veduto che stavan bene,
accomoda' mi il piacere col dispiacere: e loro si scusavano, dicendo: -
La nostra mala fortuna! - Alle qual parole io dissi: - La vostra fortuna
è stata bonissima, ma gli è bene stato cattivo il vostro
poco sapere. Se io avessi veduto mettervi innella forma l'anima, con una sola
parola io v'arei insegnato che la figura sarebbe venuta benissimo; per la qual
cosa a me ne risultava molto grande onore e a voi molto utile: ma io del mio
onore mi scuserò, ma voi né de l'onore né de l'utile non avete iscampo:
però un'altra volta imparate a lavorare e non imparate a uccellare -.
Pur mi si raccomandavono, dicendomi che io avevo ragione, e che se io non gli
aiutavo, che avendo a pagare quella grossa spesa e quel danno, loro andrebbono
accattando insieme con le lor famiglie. A questo io dissi, che quando gli
tesaurieri del Re volessin lor far pagare quello a che loro s'erano ubrigati,
io prommettevo loro di pagargli del mio, perché io avevo veduto veramente che
loro avevan fatto di buon cuore tutto quello che loro sapevano. Queste cose
m'accrebbono tanta benivolenzia con quei tesaurieri e con quei ministri del Re,
che fu inistimabile. Tutto si scrisse al Re, il quale unico liberalissimo,
comandò che si facessi tutto quello che io dicevo.
XIX. Era in questo giunto il maravigliosissimo bravo Piero
Strozzi; e ricordato al Re le sue lettere di naturalità, il Re
subito comandò che fussino fatte. - E insieme con esse - disse - fate
ancora quelle di Benvenuto, mon ami, e le portate subito da parte
mia a sua magione, e dategnene senza nessuna spesa -. Quelle del gran Piero
Strozzi gli costorno molte centinaia di ducati; le mie me le portò un di
quei primi sua segretari, il quale si domandava messer Antonio Massone. Questo
gentiluomo mi porse le lettere con maravigliosa dimostrazione, da parte di Sua
Maestà, dicendo: Di queste vi fa presente il Re, acciò che con
maggior coraggio voi lo possiate servire. Queste son lettere di
naturalità - e contonmi come molto tempo e con molti favori
l'aveva date a richiesta di Piero Istrozzi a esso, e che queste da per sé
istesso me le mandava a presentare: che un tal favore non s'era mai piú fatto
in quel regno. A queste parole io con gran dimostrazione ringraziai il Re; di
poi pregai il ditto segretario, che di grazia mi dicessi quel che voleva dire
quelle “lettere di naturalità”. Questo segretario era molto virtuoso e
gentile, e parlava benissimo italiano: mossosi prima a gran risa, di poi
ripreso la gravità, mi disse innella lingua mia, cioè in
italiano, quello che voleva dire “lettere di naturalità” quale era una
delle maggior degnità che si dessi a un forestiero; e disse: - Questa
è altra maggiore cosa che esser fatto gentiluomo veniziano -. Partitosi
da me, tornato al Re, tutto riferí a Sua Maestà, il quale rise un pezzo,
di poi disse: - Or voglio che sappia per quel che io gli ho mandato
lettere di naturalità. Andate, e fatelo signore del castello del Piccolo
Nello che lui abita, il quale è mio di patrimonio. Questo saprà
egli che cosa egli è, molto piú facilmente che lui non ha saputo che
cosa fussino le lettere di naturalità -. Venne a me un mandato con il
detto presente, per la qual cosa io volsi usargli cortesia: non volse accettar
nulla, dicendo che cosí era commessione di Sua Maestà. Le ditte lettere
di naturalità, insieme con quelle del dono del castello, quando io venni
in Italia le portai meco; e dovunque io vada, e dove io finisca la vita mia,
quivi m'ingegnerò d'averle.
xx. Or sèguito innanzi il
cominciato discorso della vita mia. Avendo infra le mane le sopra ditte opere,
cioè il Giove d'argento, già cominciato, la ditta saliera d'oro,
il gran vaso ditto d'argento, le due teste di bronzo, sollecitamente innesse
opere si lavorava. Ancora detti ordine a gittare la basa del ditto Giove, qual
feci di bronzo ricchissimamente, piena di ornamenti, infra i quali ornamenti
iscolpi' in basso rilievo il ratto di Ganimede; da l'altra banda poi Leda e 'l
cigno: questa gittai di bronzo, e venne benissimo. Ancora ne feci un'altra
simile per porvi sopra la statua di Iunone, aspettando di cominciare questa
ancora, se il Re mi dava l'argento da poter fare tal cosa. Lavorando
sollecitamente, avevo messo di già insieme il Giove d'argento; ancora
avevo misso insieme la saliera d'oro; il vaso era molto innanzi; le due teste
di bronzo erano di già finite. Ancora avevo fatto parecchi operette al
cardinale di Ferrara; di piú un vasetto d'argento, riccamente lavorato, avevo
fatto per donarlo a madama de Tampes; a molti Signori italiani, cioè il
signor Piero Strozzi, il conte dell'Anguillara, il conte di Pitigliano, il
conte della Mirandola e a molti altri avevo fatto di molte opere. Tornando al
mio gran Re, sí come io ho detto, avendo tirato innanzi benissimo queste sue
opere, in questo tempo lui ritornò a Parigi, e il terzo giorno venne a
casa mia con molta quantità della maggior nobiltà della sua
Corte, e molto si maravigliò delle tante opere che io avevo innanzi e a
cosí buon porto tirate; e perché e' v'era seco la sua madama di Tampes,
cominciorno a ragionare di Fontana Beliò. Madama di Tampes disse a Sua
Maestà che egli doverrebbe farmi fare qualcosa di bello per ornamento
della sua Fontana Beliò. Subito il Re disse: - Gli è ben fatto
quel che voi dite, e adesso adesso mi voglio risolvere che là si faccia
qualcosa di bello - e voltosi a me, mi cominciò a domandare quello che
mi pareva da fare per quella bella fonte. A questo io proposi alcune mie
fantasie: ancora Sua Maestà disse il parer suo; dipoi mi disse che
voleva andare a spasso per quindici o venti giornate a San Germano dell'Aia,
quale era dodici leghe discosto di Parigi; e che in questo tanto io facessi un modello
per questa sua bella fonte con piú ricche invenzione che io sapevo, perché quel
luogo era la maggior recreazione che lui avessi nel suo regno; però mi
comandava e pregava, che mi sforzassi di fare qualcosa di bello: e io tanto gli
promessi. Veduto il Re tante opere innanzi, disse a madama de Tampes: - Io non
ho mai aùto uomo di questa professione che piú mi piaccia, né che meriti
piú d'esser premiato di questo; però bisogna pensare di fermarlo. Perché
gli spende assai, ed è buon compagnone e lavora assai, è di
necessità che da per noi ci ricordiamo di lui: il perché si è,
considerate, Madama, tante volte quante gli è venuto da me, e
quanto io son venuto qui, non ha mai domandato niente: il cuor suo si vede
essere tutto intento all'opere; e bisogna fargli qualche bene presto,
acciò che noi non lo perdiamo -. Madama de Tampes disse: - Io ve lo
ricorderò -. Partirnosi: io messi con gran sollecitudine intorno
all'opere mie cominciate, e di piú messi mano al modello della fonte e con
sollecitudine lo tiravo innanzi.
xxi. In termine d'un mese e mezzo il Re ritornò a Parigi; e
io, che avevo lavorato giorno e notte, l'andai a trovare, e portai meco il mio
modello, di tanta bella bozza che chiaramente s'intendeva. Di già era
cominciato a rinnovare le diavolerie della guerra in fra lo Imperadore e
lui, di modo che io lo trovai molto confuso; pure parlai col cardinale di
Ferrara, dicendogli che io avevo meco certi modelli, i quali m'aveva commesso
Sua Maestà: cosí lo pregai che se e' vedeva tempo da commettere qualche
parola per causa che questi modegli si potessin mostrare, - io credo che il Re
ne piglierebbe molto piacere -. Tanto fece il Cardinale; propose al Re detti
modelli; subito il Re venne dove io avevo i modelli. Imprima avevo fatto la
porta del palazzo di Fontana Beliò: per non alterare il manco che io
potevo, l'ordine della porta che era fatta a ditto palazzo, qual era grande e
nana, di quella lor mala maniera franciosa; la quale era l'apritura poco piú
d'un quadro, e sopra esso quadro un mezzo tondo istiacciato a uso d'un manico
di canestro: in questo mezzo tondo il Re desiderava d'averci una figura, che
figurassi Fontana Beliò. Io detti bellissima proporzione al vano ditto;
di poi posi sopra il ditto vano un mezzo tondo giusto; e dalle bande feci certi
piacevoli risalti, sotto i quali nella parte da basso, che veniva a
conrispondenza di quella di sopra, posi un zocco; e altanto di sopra; e
in cambio di due colonne, che mostrava che si richiedessi sicondo le modanature
fatte di sotto e di sopra, avevo fatto un satiro in ciascuno de' siti delle
colonne. Questo era piú che di mezzo rilievo, e con un de' bracci mostrava di
reggere quella parte che tocca alle colonne: innell'altro braccio aveva un
grosso bastone, con la sua testa ardito e fiero, qual mostrava spavento a'
riguardanti. L'altra figura era simile di positura, ma era diversa e varia di
testa e d'alcune altre tali cose: aveva in mano una sferza con tre palle
accomodate con certe catene. Se bene io dico satiri, questi non avevano altro
di satiro che certe piccole cornetta e la testa caprina; tutto il resto era
umana forma. Innel mezzo tondo avevo fatto una femmina in bella attitudine a
diacere: questa teneva il braccio manco sopra al collo d'un cervio, quale era
una de l'imprese del Re: da una banda avevo fatto di mezzo rilievo
caprioletti, e certi porci cignali e altre salvaticine di piú basso rilievo; da
l'altra banda cani bracchi e livrieri di piú sorte, perché cosí produce quel bellissimo
bosco, dove nasce la fontana. Avevo di poi tutta quest'opera ristretta innun
quadro oblungo, e innegli anguli del quadro di sopra, in ciascuno, avevo
fatto una Vittoria in basso rilievo, con quelle faccelline in mano, come hanno
usato gli antichi. Di sopra al ditto quadro avevo fatto la salamandra, propia
impresa del Re, con molti gratissimi altri ornamenti a proposito della ditta
opera, qual dimostrava di essere di ordine ionico.
xxii. Veduto il Re questo modello, subito lo fece rallegrare, e lo
divertí da quei ragionamenti fastidiosi in che gli era stato piú di dua ore.
Vedutolo io lieto a mio modo, gli scopersi l'altro modello, quale lui punto non
aspettava, parendogli d'aver veduto assai opera in quello. Questo modello era
grande piú di due braccia, nel quale avevo fatto una fontana in forma d'un
quadro perfetto, con bellissime iscalee intorno, quale s'intrasegavano l'una
nell'altra: cosa che mai piú s'era vista in quelle parti, e rarissima in
queste. In mezzo a detta fontana avevo fatto un sodo, il quale si dimostrava un
poco piú alto che 'l ditto vaso della fontana: sopra questo sodo avevo fatto, a
conrispondenza, una figura ignuda di molta bella grazia. Questa teneva una
lancia rotta nella man destra elevata innalto, e la sinistra teneva in sul
manico d'una sua storta fatta di bellissima forma: posava in sul
piè manco e il ritto teneva in su un cimiere tanto riccamente lavorato,
quanto immaginar si possa; e in su e' quattro canti della fontana avevo fatto,
in su ciascuno, una figura assedere elevata, con molte sue vaghe imprese per
ciascuna. Comincionmi a dimandare il Re che io gli dicessi che bella fantasia
era quella che io avevo fatta, dicendomi che tutto quello che io avevo fatto
alla porta, sanza dimandarmi di nulla lui l'aveva inteso, ma che questo della
fonte, sebbene gli pareva bellissimo, nulla non n'intendeva; e ben sapeva che
io non avevo fatto come gli altri sciocchi, che se bene e' facevano cose con
qualche poco di grazia, le facevano senza significato nissuno. A questo io mi
messi in ordine; ché essendo piaciuto col fare, volevo bene che altretanto
piacessi il mio dire. - Sappiate, sacra Maestà, che tutta quest'opera
piccola è benissimo misurata a piedi piccoli, qual mettendola poi in
opera, verrà di questa medesima grazia che voi vedete. Quella figura di
mezzo si è cinquantaquattro piedi - (questa parola il Re fe' grandissimo
segno di maravigliarsi); - appresso, è fatta figurando lo Idio Marte.
Quest'altre quattro figure son fatte per le Virtú, di che si diletta e
favorisce tanto Vostra Maestà: questa a man destra è figurata per
la scienza di tutte le Lettere: vedete che l'ha i sua contra segni, qual
dimostra la Filosofia con tutte le sue virtú compagne. Quest'altra dimostra essere
tutta l'Arte del disegno, cioè Scultura, Pittura e Architettura.
Quest'altra è figurata per la Musica, qual si conviene per compagnia a
tutte queste iscienzie. Quest'altra, che si dimostra tanto grata e benigna,
è figurata per la Liberalità; che sanza lei non si può dimostrare
nessuna di queste mirabil Virtú che Idio ci mostra. Questa istatua di mezzo,
grande, è figurata per Vostra Maestà istessa, quale è un
dio Marte, che voi siete sol bravo al mondo; e questa bravuria voi l'adoperate
iustamente e santamente in difensione della gloria vostra -. Appena che gli
ebbe tanta pazienza che mi lasciassi finir di dire, che levato gran voce,
disse: - Veramente io ho trovato uno uomo sicondo il cuor mio - e chiamò
li tesaurieri ordinatimi, e disse che mi provvedessino tutto quel che mi faceva
di bisogno, e fussi grande ispesa quanto si volessi: poi a me dette in su la
spalla con la mana, dicendomi: - Mon ami (che vuol dire “amico
mio”), io non so qual s'è maggior piacere, o quello d'un principe l'aver
trovato un uomo sicondo il suo cuore, o quello di quel virtuoso l'aver trovato
un principe che gli dia tanta comodità, che lui possa esprimere i sua
gran virtuosi concetti -. Io risposi, che se io ero quello che diceva Sua
Maestà, gli era stato molto maggior ventura la mia. Rispose ridendo: -
Diciamo che la sia eguale -. Partimmi con grande allegrezza, e
tornai alle mie opere.
xxiii. Volse la mia mala fortuna che io non fui avvertito di fare
altretanta commedia con madama de Tampes, che saputo la sera tutte queste cose,
che erano corse, dalla propia bocca del Re, gli generò tanta rabbia
velenosa innel petto che con isdegno la disse: - Se Benvenuto m'avessi mostro
le belle opere sue, m'arebbe dato causa di ricordarmi di lui al tempo -. Il Re
mi volse iscusare, e nulla s'appiccò. Io che tal cosa intesi, ivi a
quindici giorni - ché, girato per la Normandia a Roano e a Diepa, dipoi eran
ritornati a San Germano de l'Aia sopra ditto - presi quel bel vasetto che io
avevo fatto a riquisizione della ditta madama di Tampes, pensando che, donandoglielo,
dovere riguadagnare la sua grazia. Cosí lo portai meco; e fattogli intendere
per una sua nutrice, e mòstrogli alla ditta il bel vaso che io avevo
fatto per la sua Signora, e come io gliene volevo donare, la ditta nutrice mi
fece carezze ismisurate, e mi disse che direbbe una parola a Madama, qual non
era ancor vestita, e che subito dittogliene, mi metterebbe drento. La nutrice
disse il tutto a Madama, la qual rispose isdegnosamente: - Ditegli che aspetti
-. Io inteso questo, mi vesti' di pazienzia, la qual cosa mi è
difficilissima; pure ebbi pazienzia insin doppo il suo desinare: e veduto poi
l'ora tarda, la fame mi causò tanta ira, che non potendo piú resistere,
mandatole divotamente il canchero nel cuore, di quivi mi parti' e me n'andai a
trovare il cardinale di Loreno, e li feci presente del ditto vaso,
raccomandatomi solo che mi tenessi in buona grazia del Re. Disse che non
bisognava, e quando fussi bisogno, che lo farebbe volentieri: di poi chiamato
un suo tesauriere, gli parlò nello orecchio. Il ditto tesauriere
aspettò che io mi partissi dalla presenza del Cardinale; di poi mi
disse: - Benvenuto, venite meco, che io vi darò da bere un bicchier di
buon vino - al quale io dissi, non sapendo quel che lui si volessi dire: - Di
grazia, Monsignore tesauriere, fatemi donare un sol bicchier di vino e un
boccon di pane, perché veramente io mi vengo manco, perché sono stato da questa
mattina a buon'otta insino a quest'ora, che voi vedete, digiuno, alla porta di
madama di Tampes, per donargli quel bel vasetto d'argento dorato, e tutto gli
ho fatto intendere, e lei, per istraziarmi sempre, m'ha fatto dire che io
aspettassi. Ora m'era sopraggiunto la fame, e mi sentivo mancare; e, sí come
Idio ha voluto, ho donato la roba e le fatiche mie a chi molto meglio le meritava,
e non vi chieggo altro che un poco da bere, che per essere alquanto troppo
colleroso, mi offende il digiuno di sorte che mi faria cader in terra isvenuto
-. Tanto quanto io penai a dire queste parole, era comparso di mirabil vino e
altre piacevolezze di far colezione, tanto che io mi recreai molto bene: e
riaúto gli spiriti vitali, m'era uscita la stizza. Il buon tesauriere mi porse
cento scudi d'oro; ai quali io feci resistenza, di non gli volere in modo
nissuno. Andollo a riferire al Cardinale; il quale, dettogli una gran villania,
gli comandò che me gli facessi pigliar per forza, e che non gli andassi
piú inanzi altrimenti. Il tesauriere venne a me crucciato, dicendo che mai piú
era stato gridato per l'addietro dal Cardinale; e volendomegli dare, io che
feci un poco di resistenza, molto crucciato mi disse che me gli farebbe pigliar
per forza. Io presi li dinari. Volendo andare a ringraziare il Cardinale, mi
fece intendere per un suo segretario, che sempre che lui mi poteva far piacere,
che me ne farebbe di buon cuore: io me ne tornai a Parigi la medesima sera. Il
Re seppe ogni cosa. Dettono la baia a madama de Tampes, qual fu causa di farla
maggiormente invelenire a far contro a di me, dove io portai gran pericolo
della vita mia, qual si dirà al suo luogo.
xxiv. Se bene molto prima io mi dovevo ricordare della guadagnata
amicizia del piú virtuoso, del piú amorevole e del piú domestico uomo dabbene
che mai io conoscessi al mondo: questo si fu messer Guido Guidi, eccellente
medico e dottore e nobil cittadin fiorentino; per gli infiniti travagli postimi
innanzi dalla perversa fortuna, l'avevo alquanto lasciato un poco indietro.
Benché questo non importi molto, io mi pensavo, per averlo di continuo innel
cuore, che bastassi; ma avvedutomi poi che la mia Vita non istà
bene senza lui, l'ho commesso infra questi mia maggior travagli, acciò
che sí come la e' m'era conforto e aiuto, qui mi faccia memoria di quel bene.
Capitò il ditto messer Guido in Parigi; e avendolo cominciato a
cognoscere, lo menai al mio castello, e quivi gli detti una stanza libera da
per sé; cosí ci godemmo insieme parecchi anni. Ancora capitò il vescovo
di Pavia, cioè monsignor de' Rossi, fratello del conte di San Sicondo.
Questo Signore io levai d'in su l'osteria e lo missi innel mio castello, dando
ancora a lui una istanza libera, dove benissimo istette accomodato con sua
servitori e cavalcature per di molti mesi. Ancora altra volta accomodai messer
Luigi Alamanni con i figliuoli per qualche mese; pure mi dette grazia Idio che
io potetti far qualche piacere, ancora io, agli uomini e grandi e virtuosi. Con
il sopraditto messer Guido godemmo l'amicizia tanti anni, quanto io là
soprastetti, gloriandoci spesso insieme che noi imparavamo qualche virtú alle
spese di quello cosí grande e maraviglioso principe, ogniun di noi innella sua
professione. Io posso dire veramente che quello che io sia, e quanto
di buono e bello io m'abbia operato, tutto è stato per causa di quel
maraviglioso Re: però rappicco il filo a ragionare di lui e
delle mie grande opere fattegli.
xxv. Avevo in questo mio castello un giuoco di palla da giucare
alla corda, del quale io traevo assai utile mentre che io lo facevo esercitare.
Era in detto luogo alcune piccole stanzette dove abitava diversa sorte di
uomini, in fra i quali era uno stampatore molto valente di libri: questo teneva
quasi tutta la sua bottega drento innel mio castello, e fu quello che
stampò quel primo bel libro di medicina a messer Guido. Volendomi io
servire di quelle stanze, lo mandai via, pur con qualche difficultà non
piccola. Vi stava ancora un maestro di salnitri; e perché io volevo servirmi di
queste piccole istanzette per certi mia buoni lavoranti todeschi, questo ditto
maestro di salnitri non voleva diloggiare; e io piacevolmente piú volte gli avevo
detto che lui m'accomodassi delle mie stanze, perché me ne volevo servire per
abituro de' mia lavoranti per il servizio del Re. Quanto piú umile parlavo,
questa bestia tanto piú superbo mi rispondeva: all'utimo poi io gli detti per
termine tre giorni. Il quale se ne rise, e mi disse che in capo di tre anni
comincierebbe a pensarvi. Io non sapevo che costui era domestico servitore di
madama di Tampes: e se e' non fussi stato che quella causa di madama di Tampes
mi faceva un po' piú pensare alle cose, che prima io non facevo, lo arei subito
mandato via; ma volsi aver pazienzia quei tre giorni; i quali passati che e'
furno, sanza dire altro, presi todeschi, italiani e franciosi, con l'arme in
mano, e molti manovali che io avevo; e in breve tempo sfasciai tutta la casa, e
le sue robe gittai fuor del mio castello. E questo atto alquanto rigoroso feci,
perché lui aveva dettomi, che non conosceva possanza di italiano tanto ardita
che gli avessi mosso una maglia del suo luogo. Però, di poi il fatto,
questo arrivò; al quale io dissi: - Io sono il minimo italiano della
Italia, e non t'ho fatto nulla appetto a quello che mi basterebbe l'animo di
farti, e che io ti farò, se tu parli un motto solo - con altre parole
ingiuriose che io gli dissi. Quest'uomo, attonito e spaventato, dette ordine
alle sue robe il meglio che potette; di poi corse a madama de Tampes, e dipinse
uno inferno; e quella mia gran nimica, tanto maggiore, quanto lei era piú
eloquente e piú d'assai, lo dipinse al Re; il quale due volte, mi fu detto, si volse
crucciar meco e dare male commessione contro a di me; ma perché Arrigo Dalfino
suo figliuolo, oggi re di Francia, aveva ricevuto alcuni dispiaceri da quella
troppo ardita donna, insieme con la regina di Navarra, sorella del re
Francesco, con tanta virtú mi favorirno, che il Re convertí in riso ogni cosa:
per la qual cosa, con il vero aiuto de Dio io passai una gran fortuna.
xxvi. Ancora ebbi a fare il medesimo a un altro simile a questo, ma
non rovinai la casa; ben gli gittai tutte le sue robe fuori. Per la quale cosa
madama de Tampes ebbe ardire tanto, che la disse al Re: - Io credo
che questo diavolo una volta vi saccheggerà Parigi -. A queste parole il
Re adirato rispose a madama de Tampes dicendole che io facevo troppo bene a
difendermi da quella canaglia, che mi volevano inpedire il suo servizio.
Cresceva ogniora maggior rabbia a questa crudel donna: chiamò a sé un
pittore, il quale istava per istanza a Fontana Beliò, dove il re stava
quasi di continuo. Questo pittore era italiano e bolognese, e per il Bologna
era conosciuto: per il nome suo proprio si chiamava Francesco Primaticcio.
Madama di Tampes gli disse, che lui doverrebbe domandare a il Re quell'opera
della Fonte, che Sua Maestà aveva resoluta a me, e che lei con tutta la
sua possanza ne lo aiuterebbe: cosí rimasono d'accordo. Ebbe questo Bologna la
maggiore allegrezza che gli avessi mai, e tal cosa si promesse sicura, con
tutto che la non fussi sua professione; ma perché gli aveva assai buon disegno,
e era messo in ordine con certi lavoranti, i quali erano fattisi sotto la
disciplina de il Rosso, pittore nostro fiorentino, veramente maravigliosissimo
valentuomo: e ciò che costui faceva di buono, l'aveva preso dalla
mirabil maniera del ditto Rosso, il quale era di già morto. Potettono
tanto quelle argute ragione, con il grande aiuto di madama di Tampes e con il
continuo martellare giorno e notte, or Madama, ora il Bologna, agli orecchi di
quel gran Re. E quello che fu potente causa a farlo cedere, che lei e il
Bologna d'accordo dissono: - Come è 'gli possibile, sacra Maestà,
che, volendo quella che Benvenuto gli faccia dodici statue d'argento, per la
qual cosa non n'ha ancora finito una? O se voi lo impiegate in una tanta grande
impresa, è di necessità che di queste altre, che tanto voi
desiderate, per certo voi ve ne priviate; perché cento valentissimi uomini non
potrebbono finire tante grande opere, quante questo valente uomo ha ordite. Si
vede espresso che lui ha gran voluntà di fare; la qual cosa sarà
causa che a un tratto Vostra Maestà perda e lui e l'opere -. Queste con
molt'altre simile parole, trovato il Re in tempera, compiacque tutto quello che
dimandato e' gli avevano: e per ancora non s'era mai mostro né disegni né
modegli di nulla di mano del detto Bologna.
XXVII. In
questo medesimo tempo in Parigi s'era mosso contro a di me quel sicondo
abitante che io avevo cacciato del mio castello, e avevami mosso una lite,
dicendo che io gli avevo rubato gran quantità della sua roba, quando
l'avevo iscasato. Questa lite mi dava grandissimo affanno e toglievami tanto
tempo, che piú volte mi volsi mettere al disperato per andarmi con Dio. Hanno
per usanza in Francia di fare grandissimo capitale d'una lite che lor
cominciano con un forestiero o con altra persona che 'e veggano che sia
alquanto istraccurato allitigare; e subito che lor cominciano a vedersi qualche
vantaggio innella ditta lite, truovano da venderla; e alcuni l'hanno data per
dote a certi, che fanno totalmente quest'arte di comperar lite. Hanno un'altra
brutta cosa, che gli uomini di Normandia, quasi la maggior parte, hanno per
arte loro il fare il testimonio falso; di modo che questi che comprano la lite,
subito instruiscono quattro di questi testimoni o sei, sicondo il bisogno, e
per via di questi, chi non è avvertito, a produrne tanti in contrario,
un che non sappia l'usanza, subito ha la sentenzia contro. E a me intravenne
questi ditti accidenti: e parendomi cosa molto disonesta, comparsi alla gran
sala di Parigi per difender le mie ragione; dove io viddi un giudice,
luogotenente del Re, del civile, elevato in sun un gran tribunale. Questo uomo
era grande, grosso e grasso, e d'aspetto austerissimo: aveva all'intorno di sé
da una banda e da l'altra molti proccuratori e avvocati, tutti messi per ordine
da destra e da sinistra: altri venivano, un per volta; e proponevano al ditto
giudice una causa. Quelli avvocati, che erano da canto, io gli viddi talvolta
parlar tutti a un tratto; dove io stetti maravigliato che quel mirabile uomo,
vero aspetto di Plutone, con attitudine evidente porgeva l'orecchio ora a
questo ora a quello, e virtuosamente a tutti rispondeva. E perché a me sempre
è dilettato il vedere e gustare ogni sorte di virtú, mi parve questa
tanto mirabile, che io non arei voluto per gran cosa non l'aver veduta.
Accadde, per essere quella sala grandissima e piena di gran quantità di
gente, ancora usavano diligenza che quivi non entrassi chi non v'aveva che
fare, e tenevano la porta serrata e una guardia a detta porta; la qual guardia
alcune volte, per far resistenza a chi lui non voleva ch'entrassi, impediva con
quel gran romore quel maraviglioso giudice, il quale adirato diceva villania
alla ditta guardia. E io piú volte mi abbatte', e considerai l'accidente; e le
formate parole, quale io senti', furno queste, che disse il propio giudice, il
quale iscòrse dua gentiluomini che venivano per vedere; e faccendo
questo portiere grandissima resistenza, il ditto giudice disse gridando ad alta
voce: - Sta' cheto, sta' cheto, Satanasso, levati di costí, e sta' cheto -.
Queste parole innella lingua franzese suonano in questo modo: “Phe phe Satan
phe phe Satan alè phe”. Io che benissimo avevo imparata la lingua
franzese, sentendo questo motto, mi venne in memoria quel che Dante volse dire
quando lui entrò con Vergilio suo maestro drento alle porte dello
Inferno. Perché Dante a tempo di Giotto dipintore furno insieme in Francia e
maggiormente in Parigi, dove per le ditte cause si può dire quel luogo
dove si litiga essere uno Inferno: però ancora Dante, intendendo bene la
lingua franzese, si serví di quel motto; e m'è parso gran cosa che mai
non sia stato inteso per tale; di modo che io dico e credo che questi
comentatori gli fanno dir cose le quale lui non pensò mai.
xxviii. Ritornando ai fatti mia, quando io mi viddi dar certe sentenzie
per mano di questi avvocati, non vedendo modo alcuno di potermi aiutare,
ricorsi per mio aiuto a una gran daga che io avevo, perché sempre mi son
dilettato di tener belle armi; e il primo che io cominciai a intaccare si fu
quel principale che m'aveva mosso la ingiusta lite; e una sera gli detti tanti
colpi, pur guardando di non lo ammazzare, innelle gambe e innelle braccia, che
di tutt'a due le gambe io lo privai. Di poi ritrovai quell'altro che aveva
compro la lite, e anche lui toccai di sorte che tal lite si fermò.
Ringraziando di questo e d'ogni altra cosa sempre Idio, pensando per allora di
stare un pezzo sanza esser molestato, dissi ai mia giovani di casa, massimo a
l'italiani, per amor de Dio ogniuno attendesse alle faccende sua, e
m'aiutassino qualche tempo, tanto che io potessi finire quell'opere cominciate,
perché presto le finirei; di poi me volevo ritornare innItalia, non mi potendo
comportare con le ribalderie di quei Franciosi; e che se quel buon Re s'adirava
una volta meco, m'arebbe fatto capitar male, per avere io fatto per mia difesa
di molte di quelle cotal cose. Questi italiani ditti si erano, il primo e 'l
piú caro, Ascanio, del regno di Napoli, luogo ditto Tagliacozze; l'altro si era
Pagolo, romano, persona nata molto umile e non si cognosceva suo padre: questi
dua erano quelli che io avevo menato di Roma, li quali in detta Roma stavano
meco. Un altro romano, che era venuto ancora lui a trovarmi di Roma apposta,
ancora questo si domandava per nome Pagolo ed era figliuolo d'un povero
gentiluomo romano della casata de' Macaroni: questo giovane non sapeva molto de
l'arte, ma era bravissimo con l'arme. Un altro n'avevo, il quale era ferrarese,
e per nome Bartolomeo Chioccia. Ancora un altro n'avevo: questo era fiorentino
e aveva nome Pagolo Miccieri. E perché il suo fratello, ch'era chiamato per
sopra nome il Gatta, questo era valente in su le scritture, ma aveva speso
troppo innel maneggiare la roba di Tommaso Guadagni ricchissimo mercatante,
questo Gatta mi dette ordine a certi libri, dove io tenevo i conti del gran Re
Cristianissimo e d'altri; questo Pagolo Miccieri, avendo preso il modo dal suo
fratello di questi mia libri, lui me gli seguitava, e io gli davo bonissima
provvisione. E perché e' mi pareva molto buon giovane, perché lo vedevo divoto,
sentendolo continuamente quando borbottar salmi, quando con la corona in mano,
assai mi promettevo, della sua finta bontà. Chiamato lui solo da parte,
gli dissi: - Pagolo, fratello carissimo; tu vedi come tu stai meco bene, e sai
che tu non avevi nissuno avviamento, e di piú ancora tu se' fiorentino; per la
qual cosa io mi fido piú di te, per vederti molto divoto con gli atti della
religione, quale è cosa che molto mi piace. Io ti priego che tu mi
aiuti, perché io non mi fido tanto di nessuno di quest'altri: pertanto
ti priego che tu m'abbia cura a queste due prime cose, che molto mi darieno
fastidio: l'una si è che tu guardi benissimo la roba mia, che la non mi
sia tolta, e cosí tu non me la toccare; ancora, tu vedi quella povera
fanciulletta della Caterina, la quale io tengo principalmente per servizio de
l'arte mia, che senza non potrei fare: ancora, perché io sono uomo, me ne son
servito ai mia piaceri carnali, e potria essere che la mi farebbe un figliuolo;
e perché io non vo' dar le spese ai figliuoli d'altri, né manco sopporterei che
mi fossi fatto una tale ingiuria. Se nissuno di questa casa fussi tanto
ardito di far tal cosa, e io me ne avvedessi, per certo credo che io ammazzerei
l'una e l'altro. Però ti priego, caro fratello, che tu m'aiuti; e se tu
vedi nulla, subito dimmelo, perché io manderò alle forche lei e
la madre e chi a tal cosa attendessi: però sia il primo a guardartene -.
Questo ribaldo si fece un segno di croce, che arrivò dal capo ai piedi,
e disse: - O Iesu benedetto! Dio me ne guardi, che mai io pensassi a tal cosa!
prima, per non esser dedito a coteste cosaccie; di poi, non credete voi che io
cognosca il gran bene che io ho da voi? - A queste parole, vedutemele dire in
atto simplice e amorevole in verso di me, credetti che la stessi appunto come
lui diceva.
XXIX. Di poi
dua giorni appresso, venendo la festa, messer Mattia del Nazaro, ancora lui
italiano e servitor del Re, della medesima professione valentissimo uomo,
m'aveva invitato con quelli mia giovani a godere a un giardino. Per la qual
cosa io mi messi in ordine, e dissi ancora a Pagolo che lui dovessi venire a
spasso a rallegrarsi, parendomi d'avere alquanto quietato un poco quella ditta
fastidiosa lite. Questo giovane mi rispose dicendomi: - Veramente che sarebbe
grande errore a lasciare la casa cosí sola: vedete quant'oro, argenti e gioie
voi ci avete. Essendo a questo modo in città di ladri, bisogna guardarsi
di dí come di notte: io mi attenderò a dire certe mie orazioni, in
mentre che io guarderò la casa; andate con l'animo posato a darvi
piacere e buon tempo: un'altra volta farà un altro questo uflizio -.
Parendomi di andare con l'animo riposato, insieme con Pagolo, Ascanio e il
Chioccia al ditto giardino andammo a godere, e quella giornata gran pezzo
d'essa passammo lietamente. Cominciatosi a 'pressare piú inverso la sera, sopra
il mezzo giorno mi toccò l'umore, e cominciai a pensare a quelle parole
che con finta semplicità m'aveva detto quello isciagurato; montai in sul
mio cavallo e con dua mia servitori tornai al mio castello; dove io trovai
Pagolo e quella Caterinaccia quasi in sul peccato; perché giunto che io fui, la
franciosa ruffiana madre con gran voce disse: - Pagolo, Caterina, gli è
qui il padrone -. Veduto venire l'uno e l'altro ispaventati e sopragiunti a me
tutti scompigliati, non sapendo né quello che lor si dicevano, né, come
istupidi, dove loro andavano, evidentemente si cognobbe il commesso
lor peccato. Per la qual cosa sopra fatta la ragione dall'ira, messi mano alla
spada, resolutomi per ammazzargli tutt'a dua. Uno si fuggí, l'altra si
gittò in terra ginocchioni, e gridava tutte le misericordie del cielo.
Io, che arei prima voluto dare al mastio, non lo potendo cosí giugnere al
primo, quando da poi l'ebbi raggiunto intanto m'ero consigliato: il mio meglio si
era di cacciargli via tutt'a dua; perché con tante altre cose fattesi vicine a
questa, io con difficultà arei campato la vita. Però dissi a
Pagolo: - Se gli occhi mia avessino veduto quello che tu, ribaldo, mi fai
credere, io ti passerei dieci volte la trippa con questa spada: or lievamiti
dinanzi, che se tu dicesti mai il Pater nostro, sappi che gli è quel di
san Giuliano -. Di poi cacciai via la madre e la figliuola a colpi di pinte,
calci e pugna. Pensorno vendicarsi di questa ingiuria, e conferito con uno
avvocato normando, insegnò loro che lei dicessi che io avessi usato seco
al modo italiano; qual modo s'intendeva contro natura, cioè in soddomia;
dicendo: - Per lo manco, come questo italiano sente questa tal cosa, e saputo
quanto e' l'è di gran pericolo, subito vi donerà parecchi
centinaia di ducati, acciò che voi non ne parliate, considerando la gran
penitenzia che si fa in Francia di questo tal peccato -. Cosí
rimasino d'accordo: mi posono l'accusa, e io fui richiesto.
XXX. Quanto
piú cercavo di riposo, tanto piú mi si mostrava le tribulazione. Offeso dalla
fortuna ogni dí in diversi modi, cominciai a pensare qual cosa delle dua io
dovevo fare; o andarmi con Dio e lasciare la Francia nella sua malora; o sí
veramente combattere anche questa pugna e vedere a che fine m'aveva creato
Idio. Un gran pezzo m'ero tribolato sopra questa cosa; all'utimo poi, preso per
resoluzione d'andarmi con Dio, per non voler tentare tanto la mia perversa
fortuna, che lei m'avessi fatto rompere il collo, quando io fui disposto in tutto
e per tutto, e mosso i passi per dar presto luogo a quelle robe che io non
potevo portar meco, e quell'altre sottile, il meglio che io potevo, accomodarle
a dosso a me e miei servitori, pur con molto mio grave dispiacere faceva tal
partita. Era rimasto solo innun mio studiolo; perché quei mia giovani, che
m'avevano confortato che io mi dovessi andar con Dio, dissi loro, che gli era
bene che io mi consigliassi un poco da per me medesimo; con tutto ciò
che io conoscevo bene che loro dicevano in gran parte il vero; perché da poi
che io fussi fuor di prigione e avessi dato un poco di luogo a questa furia,
molto meglio mi potrei scusare con il Re, dicendo con lettere questo tale
assassinamento fattomi sol per invidia. E sí come ho detto, m'ero risoluto a far
cosí; e mossomi, fui preso per una spalla e volto, e una voce che
disse animosamente: - Benvenuto, come tu suoi, e non aver paura -. Subito
presomi contrario consiglio da quel che avevo fatto, i' dissi a quei mia
giovani taliani: - Pigliate le buone arme e venite meco, e ubbidite a quanto io
vi dico, e non pensate ad altro, perché io voglio comparire. Se io mi partissi,
voi andresti l'altro dí tutti in fumo; sí che ubbidite e venite meco -. Tutti
d'accordo quelli giovani dissono: - Da poi che noi siamo qui e viviamo del suo,
noi doviamo andar seco e aiutarlo insinché c'è vita a ciò che lui
proporrà; perché gli ha detto piú il vero che noi non pensavamo. Subito
che e' fossi fuora di questo luogo, e' nemici sua ci farebbon tutti mandar via.
Consideriamo bene le grande opere, che son qui cominciate, e di quanta grande
inportanza le sono: a noi non ci basterebbe la vista di finirle sanza lui, e li
nimici sua direbbono che e' se ne fussi ito per non gli bastar la vista di
fluire queste cotale imprese -. Dissono di molte parole, oltre a queste,
d'importanza. Quel giovane romano de' Macaroni fu il primo a metter animo agli
altri: ancora chiamò parecchi di quei tedeschi e franciosi che mi
volevan bene. Eramo dieci infra tutti: io presi il cammino dispostomi resoluto di
non mi lasciare carcerare vivo. Giunto alla presenza dei giudici cherminali,
trovai la ditta Caterina e sua madre. Sopragiunsi loro addosso che le ridevano
con un loro avvocato: entrai drento e animosamente domandai il giudice, che
gonfiato, grosso e grasso, stava elevato sopra gli altri in su 'n un tribunale.
Vedutomi quest'uomo, minaccioso con la testa, disse con sommissa voce: - Se
bene tu hai nome Benvenuto, questa volta tu sarai il mal venuto -. Io intesi, e
replicai un'altra volta dicendo: - Presto ispacciatemi: ditemi quel che io son
venuto a far qui -. Allora il ditto giudice si volse a Caterina e le disse: -
Caterina, di' tutto quel che t'è occorso d'avere a fare con Benvenuto -.
La Caterina disse che io avevo usato seco al modo della Italia. Il giudice
voltosi a me, disse: - Tu senti quel che la Caterina dice, Benvenuto -. Allora
io dissi: - Se io avessi usato seco al modo italiano, l'arei fatto solo per
desiderio d'avere un figliuolo, sí come fate voi altri -. Allora il giudice
replicò, dicendo: - Ella vuol dire che tu hai usato seco fuora del vaso
dove si fa figliuoli -. A questo io dissi che quello non era il modo italiano;
anzi che doveva essere il modo franzese, da poi che lei lo sapeva e io no; e
che io volevo che lei dicessi a punto innel modo che io avevo aùto a far
seco. Questa ribaldella puttana iscelleratamente disse iscoperto e chiaro il
brutto modo che la voleva dire. Io gnene feci raffermare tre volte l'uno
appresso a l'altro; e ditto che l'ebbe, io dissi ad alta voce: - Signor giudice,
luogotenente del Re Cristianissimo, io vi domando giustizia; perché io so che
le legge del Cristianissimo Re a tal peccato promettono il fuoco a l'agente e
al paziente; però costei confessa il peccato: io non la cognosco in modo
nessuno: la ruffiana madre è qui che per l'un delitto e l'altro merita
il fuoco; io vi domando iustizia -. E queste parole replicavo tanto frequente e
ad alta voce, sempre chiedendo il fuoco per lei e per la madre: dicendo al
giudice, che se non la metteva prigione alla presenza mia, che io correrei al
Re, e direi la ingiustizia che mi faceva un suo luogotenente cherminale.
Costoro a questo mio gran romore cominciorno a 'bassar le voci; allora io
l'alzavo piú: la puttanella a piagnere insieme con la madre, e io al giudice
gridavo: - Fuoco, fuoco -. Quel poltroncione, veduto che la cosa non era
passata in quel modo che lui aveva disegnato, cominciò con piú dolce
parole a iscusare il debole sesso femminile. A questo, io considerai che mi
pareva pure d'aver vinto una gran pugna, e borbottando e minacciando,
volentieri m'andai con Dio; che certo arei pagato cinquecento scudi a non
v'esser mai comparso. Uscito di quel pelago, con tutto il cuore ringraziai
Idio, e lieto me ne tornai con i mia giovani al mio castello.
XXXI. Quando
la perversa fortuna, o sí veramente vogliam dire quella nostra contraria
istella, toglie a perseguitare uno uomo, non gli manca mai modi nuovi da
mettere in campo contro a di lui. Parendomi d'esser uscito di uno inistimabil
pelago, pensando pure che per qualche poco di tempo questa mia perversa istella
mi dovessi lasciare istare, non avendo ancora ripreso il fiato da quello
inistimabil pericolo, che lei me ne dette dua a un tratto innanzi. In termine
di tre giorni mi occorre dua casi; a ciascuno dei dua la vita mia è in
sul bilico della bilancia. Questo si fu che, andando io a Fontana Beliò
a ragionare con il Re, che m'aveva iscritto una lettera, per la quale lui
voleva che io facessi le stampe delle monete di tutto il suo regno, e con essa
lettera m'aveva mandato alcuni disegnetti per mostrarmi parte della voglia sua;
ma ben mi dava licenzia che io facessi tutto quel che a me piaceva: io avevo
fatto nuovi disegni, sicondo il mio parere e sicondo la bellezza de l'arte.
Cosí giunto a Fontana Beliò, uno di quei tesaurieri, che avevano
commessione dal Re di provvedermi, - questo si chiamava monsignor della Fa - il
quale subito mi disse: - Benvenuto, il Bologna pittore ha aùto dal Re
commessione di fare il vostro gran colosso e tutte le commessione che 'l nostro
Re ci aveva dato per voi, tutte ce l'ha levate, e datecele per lui. A noi
c'è saputo grandemente male, e c'è parso che questo vostro
italiano molto temerariamente si sia portato inverso di voi; perché voi avevi
di già aùto l'opera per virtú de' vostri modelli e delle vostre
fatiche; costui ve la toglie solo per il favore di madama di Tampes: e sono
oramai di molti mesi, che gli ha aùto tal commessione, e ancora non
s'è visto che dia ordine a nulla -. Io, maravigliato, dissi: - Come
è egli possibile che io non abbia mai saputo nulla di questo? - Allora
mi disse che costui l'aveva tenuta segretissima, e che l'aveva aúta con
grandissima difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma le
sollecitudine di madama di Tampes solo gnene avevan fatto avere. Io
sentitomi a questo modo offeso e a cosí gran torto, e veduto tormi un'opera la
quale io m'avevo guadagnata con le mia gran fatiche, dispostomi di fare qualche
gran cosa di momento con l'arme, difilato me n'andai a trovare il Bologna.
Trava'lo in camera sua, e inne' sua studii: fecemi chiamare drento, e con certe
sue lombardesche raccoglienze mi disse qual buona faccenda mi aveva condotto
quivi. Allora io dissi: - Una faccenda bonissima e grande -. Quest'uomo
commesse ai sua servitori che portassino da bere, e disse: - Prima che noi
ragioniamo di nulla, voglio che noi beviamo insieme; che cosí è il
costume di Francia -. Allora io dissi: - Misser Francesco, sappiate che quei
ragionamenti che noi abbiamo da fare insieme non richieggono il bere imprima:
forse dappoi si potria bere -. Cominciai a ragionar seco dicendo: - Tutti gli
uomini che fanno professione di uomo dabbene, fanno le opere loro che per
quelle si cognosce quelli essere uomini dabbene; e faccendo il contrario, non
hanno piú il nome di uomo da bene. Io so che voi sapevi che il Re m'aveva dato
da fare quel gran colosso, del quale s'era ragionato diciotto mesi, e né voi né
altri mai s'era fatto innanzi a dir nulla sopracciò; per la qual cosa
con le mie gran fatiche io m'ero mostro al gran Re, il quale, piaciutogli i mia
modelli, questa grande opera aveva dato a fare a me; e son tanti mesi che non
ho sentito altro: solo questa mattina ho inteso che voi l'avete aúta e toltola
a me; la quale opera io me la guadagnai con i mia maravigliosi fatti, e voi me
la togliete solo con le vostre vane parole.
XXXII. A questo il Bologna rispose e
disse: - O Benvenuto, ogniun cerca di fare il fatto suo in tutt'i modi che si
può: se il Re vuol cosí, che volete voi replicare altro? ché getteresti
via il tempo, perché io l'ho aúta ispedita, ed è mia. Or dite voi
ciò che voi volete, e io v'ascolterò -. Dissi cosí: - Sappiate,
messer Francesco, che io v'arei da dire molte parole, per le quale con ragion
mirabile e vera io vi farei confessare che tal modi non si usano, qual son
cotesti che voi avete fatto e ditto, in fra gli animali razionali; però
verrò con breve parole presto al punto della conclusione ma aprite gli
orecchi e intendetemi bene, perché la importa -. Costui si volse muovere da
sedere, perché mi vidde tinto in viso e grandemente cambiato: io dissi che non
era ancor tempo a muoversi: che stessi a sedere e che m'ascoltassi. Allora io
cominciai, dicendo cosí: - Messer Francesco, voi sapete che l'opera era prima
mia, e che, a ragion di mondo, gli era passato il tempo che nessuno non ne
doveva piú parlare: ora io vi dico, che io mi contento che voi facciate un
modello, e io, oltra a quello che io ho fatto, ne farò un altro;
di poi cheti cheti lo porteremo al nostro gran Re; e chi guadagnerà per
quella via il vanto d'avere operato meglio, quello meritamente sarà
degno del colosso; e se a voi toccherà a farlo, io diporrò tutta
questa grande ingiuria che voi m'avete fatto, e benedirovvi le mane, come piú
degne delle mia d'una tanta gloria. Sí che rimagnamo cosí, e saremo amici; altrimenti
noi saremo nimici; e Dio che aiuta sempre la ragione, e io che le fo la strada,
vi mostrerrei in quanto grande error voi fussi -. Disse messer Francesco: -
L'opera è mia, e da poi che la m'è stata data, io non voglio
mettere il mio in compromesso -. A cotesto io rispondo: - Messer Francesco, che
da poi che voi non volete pigliare il buon verso, quale è giusto e
ragionevole, io vi mostrerrò quest'altro, il quale sarà come il
vostro, che è brutto e dispiacevole. Vi dico cosí, che se io sento mai
in modo nessuno che poi parliate di questa mia opera, io subito vi
ammazzerò come un cane: e perché noi non siamo né in Roma, né in
Bologna, né in Firenze - qua si vive in un altro modo - se io so mai che voi ne
parliate al Re o ad altri, io vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via
voi volete pigliare: o quella prima buona, che io dissi, o questa ultima
cattiva, che io dico -. Quest'uomo non sapeva né che si dire, né che si fare, e
io ero in ordine per fare piú volentieri quello effetto allora che mettere altro
tempo in mezzo. Non disse altre parole che queste, il ditto Bologna: - Quando
io farò le cose che debbe fare uno uomo da bene, io non arò una
paura al mondo -. A questo dissi: - Bene avete detto; ma faccendo il contrario
abbiate paura, perché la v'importa - e subito mi parti' dallui, e anda'mene dal
Re, e con Sua Maestà disputai un gran pezzo la faccenda delle monete; la
quale noi non fummo molto d'accordo; perché essendo quivi il suo Consiglio, lo
persuadevano che le monete si dovessin fare in quella maniera di Francia, sí
come le s'eran fatte insino a quel tempo. Ai quali risposi che Sua
Maestà m'aveva fatto venire della Italia perché io gli facessi
dell'opere che stessin bene; e se Sua Maestà mi comandassi al contrario,
a me non comporteria l'animo mai di farle. A questo si dette spazio per
ragionarne un'altra volta: subito io me ne tornai a Parigi.
xxxiii. Non fui sí tosto iscavalcato, che una buona persona, di quelli
che hanno piacere di vedere del male, mi venne a dire che Pagolo Miccieri aveva
preso una casa per quella puttanella della Caterina e per sua madre, e che
continuamente lui si tornava quivi, e che parlando di me, sempre con ischerno
diceva: - Benvenuto aveva dato a guardia la lattuga ai paperi, e pensava che io
non me la mangiassi; basta che ora e' va bravando e crede che io abbia
paura di lui: io mi son messo questa spada e questo pugnale a canto per dargli
a divedere che anche la mia spada taglia e son fiorentino come lui, de'
Miccieri, molto meglio casata che non sono i sua Cellini -. Questo ribaldo, che
mi portò tale imbasciata, me la disse con tanta efficacia, io mi senti'
subito balzare la febbre addosso, dico la febbre sanza dire per comparazione. E
perché forse di tale bestiale passione io mi sarei morto, presi per rimedio di
dar quell'esito, che m'aveva dato tale occasione, sicondo il modo che in me
sentivo. Dissi a quel mio lavorante ferrarese, che si chiamava il Chioccia, che
venissi meco, e mi feci menar dietro dal servitore el mio cavallo; e giunto a
casa, dove era questo isciagurato, trovato la porta socchiusa, entrai dentro:
viddilo che gli aveva accanto la spada e 'l pugnale, ed era assedere in su 'n
un cassone, e teneva il braccio al collo a la Caterina: appunto arrivato,
senti' che lui con la madre di lei motteggiava de' casi mia. Spinta la porta
innun medesimo tempo messo la mana alla spada, gli posi la punta d'essa alla
gola, non gli avendo dato tempo a poter pensare che ancora lui aveva la spada,
dissi a un tratto: - Vil poltrone, raccomandati a Dio, che tu se' morto -. Costui,
fermo, disse tre volte: - O mamma mia, aiutatemi -. Io che avevo voglia
d'ammazzarlo a ogni modo, sentito che ebbi quelle parole tanto sciocche, mi
passò la metà della stizza. Intanto aveva detto a quel mio
lavorante Chioccia, che non lasciassi uscire né lei né la madre, perché se io
davo allui, altretanto male volevo fare a quelle dua puttane. Tenendo
continuamente la punta della spada alla gola, e alquanto un pochetto lo
pugnevo, sempre con paventose parole; veduto poi che lui non faceva una difesa
al mondo, e io non sapevo piú che mi fare, e quella bravata fatta non mi pareva
che l'avessi fine nessuna, mi venne in fantasia, per il manco male, di fargnene
isposare, con disegno di far da poi le mie vendette. Cosí resolutomi, dissi: -
Càvati quello anello che tu hai in dito, poltrone, e sposala,
acciò che poi io possa fare le vendette che tu meriti -. Costui subito
disse: - Purché voi non mi ammazziate, io farò ogni cosa. - Adunche -
diss'io - mettigli l'anello -. Scostatogli un poco la spada dalla gola, costui
le misse l'anello. Allora io dissi: - Questo non basta, perché io voglio che si
vadia per dua notari, che tal cosa passi per contratto -. Ditto al Chioccia che
andassi per e' notari, subito mi volsi allei e alla madre. Parlando in franzese
dissi: - Qui verrà i notari e altri testimoni: la prima che io sento di
voi che parli nulla di tal cosa, subito l'ammazzerò, e
v'ammazzerò tutt'a tre; sí che state in cervello -. A lui dissi in
italiano: - Se tu replichi nulla a tutto quel che io proporrò, ogni minima
parola che tu dica, io ti darò tante pugnalate, che io ti faro votare
ciò che tu hai nelle budella -. A questo lui rispose: - A me basta che
voi non mi ammazziate; e io farò ciò che voi volete -. Giunse i
notari e li testimoni, fecesi il contratto altentico e, mirabile!, passommi la
stizza e la febbre. Pagai li notari, e anda' mene. L'altro giorno venne a
Parigi il Bologna a posta, e mi fece chiamare da Mattio del Nasaro: andai e
trovai il detto Bologna, il quale con lieta faccia mi si fece incontro, pregandomi
che io lo volessi per buon fratello, e che mai piú parlerebbe di tale opera,
perché conosceva benissimo che io avevo ragione.
XXIV. Se io
non dicessi, in qualcuno di questi mia accidenti, cognoscere d'aver fatto male,
quell'altri, dove io cognosco aver fatto bene, non sarebbono passati per veri;
però io cognosco d'aver fatto errore a volermi vendicare tanto
istranamente con Pagolo Miccieri. Benché, se io avessi pensato che lui fussi
stato uomo di tanta debolezza, non mai mi sarie venuta in animo una tanto
vituperosa vendetta, qual io feci; ché non tanto mi bastò l'avergli
fatto pigliar per moglie una cosí iscellerata puttanella; che ancora di poi,
per voler finire il restante della mia vendetta, la facevo chiamare, e la
ritraevo: ognindí le davo trenta soldi; e faccendola stare ignuda,
voleva la prima cosa che io li dessi li sua dinari innanzi; la siconda voleva
molto bene da far colezione; la terza io per vendetta usavo seco, rimproverando
allei e al marito le diverse corna che io gli facevo; la quarta si era che io
la facevo stare con gran disagio parecchi e parecchi ore; e stando in questo
disagio a lei veniva molto affastidio, tanto quanto a me dilettava, perché lei
era di bellissima forma e mi faceva grandissimo onore. E perché e' non le pareva
che io l'avessi quella discrezione che prima io avevo innanzi che lei fossi
maritata, venendole grandemente a noia, cominciava a brontolare; e in quel modo
suo francioso con parole bravava, allegando il suo marito, il quale era ito a
stare col priore di Capua, fratello di Piero Strozzi. E sí come i' ho detto, la
allegava questo suo marito; e come io sentivo parlar di lui, subito mi veniva
una stizza inistimabile; pure me la sopportavo, mal volentieri, il meglio che
io potevo, considerando che per l'arte mia io non potevo trovare cosa piú a
proposito di costei; e da me dicevo: - Io fo qui dua diverse vendette: l'una
per esser moglie: queste non son corna vane, come eran le sua quando lei era a
me puttana; però se io fo questa vendetta sí rilevata inverso di lui e
inverso di lei ancora tanta istranezza, faccendola stare qui con tanto disagio,
il quale, oltra al piacere, mi resulta tanto onore e tanto utile, che poss'io
piú desiderare? - In mentre che io facevo questo mio conto, questa ribalda
moltipricava con quelle parole ingiuriose, parlando pure del suo
marito; e tanto faceva e diceva, che lei mi cavava de' termini della ragione;
e datomi in preda all'ira, la pigliavo pe' capegli e la strascicavo per la
stanza, dandogli tanti calci e tante pugna insino che io ero stracco. E quivi
non poteva entrare persona al suo soccorso. Avendola molto ben pesta, lei
giurava di non mai piú voler tornar da me; per la qual cosa la prima volta mi
parve molto aver mal fatto, perché mi pareva perdere una mirabile occasione al farmi
onore. Ancora vedevo lei esser tutta lacerata, livida e enfiata, pensando che,
se pure lei tornassi, essere di necessità di farla medicare per quindici
giorni, innanzi che io me ne potessi servire.
xxxv. Tornando allei, mandavo una mia serva che l'aiutassi vestire, la
qual serva era una donna vecchia che si domandava Ruberta, amorevolissima; e
giunta a questa ribaldella, le portava di nuovo da bere e da mangiare; di poi
l'ugneva con un poco di grasso di carnesecca arrostito quelle male percosse che
io le avevo date, e 'l resto del grasso che avanzava se lo mangiavano insieme.
Vestita, poi si partiva bestemmiando e maladicendo tutti li taliani e il Re che
ve gli teneva: cosí se ne andava piagnendo e borbottando insino a casa. Certo
che a me questa prima volta parve molto aver mal fatto; e la mia Ruberta mi
riprendeva, e pur mi diceva: - Voi sete ben crudele a dare tanto aspramente a
una cosí bella figlietta -. Volendomi scusare con questa mia Ruberta, dicendole
le ribalderie che l'aveva fatte, e lei e la madre, quando la stava meco, a
questo la Ruberta mi sgridava, dicendo che quel non era nulla, perché gli era
il costume di Francia, e che sapeva certo che in Francia non era marito che non
avessi le sue cornetta. A queste parole io mi movevo a risa, e poi dicevo alla
Ruberta che andassi a vedere come la Caterina istava, perché io arei
aùto a piacere di poter finire quella mia opera, servendomi di lei. La
mia Ruberta mi riprendeva, dicendomi che io non sapevo vivere; perché - a pena
sarà egli giorno, che lei verrà qui da per sé, dove che, se voi
la mandassi a domandare o a visitare, la farebbe il grande e non ci vorrebbe
venire -. Venuto il giorno seguente, questa ditta Caterina venne alla porta
mia, e con gran furore picchiava la ditta porta, di modo che, per essere io
abbasso, corsi a vedere se questo era pazzo o di casa. Aprendo la porta, questa
bestia ridendo mi si gittò al collo, abbracciommi e baciommi, e mi
dimandò se io era piú crucciato con essa. Io dissi che no. Lei disse: -
Datemi ben d'asciolvere addunche -. Io le detti ben d'asciolvere, e con essa
mangiai per segno di pace. Di poi mi messi a ritrarla, e in quel mezzo vi
occorse le piacevolezze carnali, e di poi a quell'ora medesima del passato
giorno, tanto lei mi stuzzicò, che io l'ebbi a dare le medesime busse; e
cosí durammo parecchi giorni, faccendo ogni dí tutte queste medesime cose, come
che a stampa: poco variava dal piú al manco. Intanto io, che m'avevo fatto
grandissimo onore e finito la mia figura, detti ordine di gittarla di bronzo;
innella quale io ebbi qualche difficultà, che sarebbe bellissimo
per gli accidenti dell'arte a narrare tal cosa; ma perché io me ne andrei
troppo in lunga, me la passerò. Basta che la mia figura venne benissimo,
e fu cosí bel getto come mai si facessi.
xxxvi. In mentre che questa opera si tirava innanzi, io compartivo
certe ore del giorno e lavoravo in su la saliera, e quando in sul Giove. Per
essere la saliera lavorata da molte piú persone che io non avevo tanto di
comodità per lavorare in sul Giove, di già a questo tempo io
l'avevo finita di tutto punto. Era ritornato il Re a Parigi, e io l'andai a
trovare, portandogli la ditta saliera finita; la quale, sí come io ho detto di
sopra, era in forma ovata ed era di grandezza di dua terzi di braccio in circa,
tutta d'oro, lavorata per virtú di cesello. E sí come io dissi quando io
ragionai del modello, avevo figurato il Mare e la Terra assedere l'uno e
l'altro, e s'intramettevano le gambe, sí come entra certi rami del mare infra
la tetra, e la terra infra del detto mare: cosí propiamente avevo dato loro
quella grazia. A il Mare avevo posto in mano un tridente innella destra; e
innella sinistra avevo posto una barca sottilmente lavorata, innella quale si
metteva la salina. Era sotto a questa detta figura i sua quattro cavalli
marittimi, che insino al petto e le zampe dinanzi erano di cavallo; tutta la
parte dal mezzo indietro era di pesce: queste code di pesce con piacevol modo
s'intrecciavano insieme; in sul qual gruppo sedeva con fierissima attitudine il
detto Mare: aveva all'intorno molta sorte di pesci e altri animali marittimi.
L'acqua era figurata con le sue onde; di poi era benissimo smaltata del suo
propio colore. Per la Terra avevo figurato una bellissima donna, con il corno
della sua dovizia in mano, tutta ignuda come il mastio appunto; nell'altra sua
sinistra mana avevo fatto un tempietto di ordine ionico, sottilissimamente
lavorato; e in questo avevo accomodato il pepe. Sotto a questa femina avevo
fatto i piú belli animali che produca la terra; e i sua scogli terrestri avevo
parte ismaltati e parte lasciati d'oro. Avevo da poi posata questa ditta opera
e investita in una basa d'ebano nero: era di una certa accomodata grossezza,
e aveva un poco di goletta, nella quale io aveva cumpartito quattro figure
d'oro, fatte di piú che mezzo rilievo: questi si erano figurato la Notte, il
Giorno, il Graprusco e l'Aurora. Ancora v'era quattro altre figure
della medesima grandezza, fatte per i quattro venti principali, con tanta
puletezza lavorate e parte ismaltate, quanto immaginar si possa. Quando questa
opera io posi agli occhi del Re, messe una voce di stupore, e non si poteva
saziare di guardarla: di poi mi disse che io la riportassi a casa mia, e che mi
direbbe a tempo quello che io ne dovessi fare. Porta'nela a casa, e subito
invitai parecchi mia cari amici, e con essi con grandissima lietitudine
desinai, mettendo la saliera in mezzo alla tavola; e fummo i primi a
'doperarla. Di poi seguitavo di finire il Giove d'argento, e un gran vaso,
già ditto, lavorato tutto con molti ornamenti piacevolissimi e con assai
figure.
xxxvii. In questo tempo il Bologna pittore sopra ditto dette ad
intendere al Re, che gli era bene che Sua Maestà lo lasciassi andare
insino a Roma, e gli facessi lettere di favori, per le quali lui potessi formare
di quelle prime belle anticaglie, cioè il Leoconte, la Cleopatra, la
Venere, il Comodo, la Zingana e Appollo. Queste veramente sono le piú belle
cose che sieno in Roma. E diceva al Re, che quando Sua Maestà avessi
dappoi veduto quelle meravigliose opere, allora saprebbe ragionare dell'arte
del disegno; perché tutto quello che gli aveva veduto di noi moderni era molto
discosto dal ben fare di quelli antichi. Il Re fu contento, e fecegli tutti i
favori che lui domandò. Cosí andò nella sua malora questa bestia.
Non gli essendo bastato la vista di fare con le sue mane a gara meco, prese
quell'altro lombardesco ispediente, cercando di svilire l'opere mie facendosi
formatore di antichi. E con tutto che lui benissimo l'avessi fatte formare,
gliene riuscí tutto contrario effetto da quello che lui era immaginato; qual
cosa si dirà da poi al suo luogo. Avendo a fatto cacciato via la ditta
Caterinaccia, e quel povero giovane isgraziato del marito andatosi con Dio di
Parigi, volendo finire di nettare la mia Fontana Beliò, qual'era di
già fatta di bronzo, ancora per fare bene quelle due Vittorie, che
andavano negli anguli da canto nel mezzo tondo della porta, presi una povera
fanciulletta de l'età di quindici anni in circa. Questa era molto bella
di forma di corpo ed era alquanto brunetta; e per essere salvatichella e di
pochissime parole, veloce nel suo andare, accigliata negli occhi, queste tali
cose causorno ch'io le posi nome Scorzone: il nome suo proprio si era Gianna.
Con questa ditta figliuola io fini' benissimo di bronzo la ditta Fontana
Beliò, e quelle due Vittorie ditte per la ditta porta. Questa giovanetta
era pura e vergine, e io la 'ngravidai; la quale mi partorí una figliuola a' dí
sette di giugno, a ore tredici di giorno, 1544, quale era il corso dell'età
mia appunto de' 44 anni. La detta figliuola io le posi nome Constanza; e mi fu
battezzata da messer Guido Guidi, medico del Re, amicissimo mio, siccome di
sopra ho scritto. Fu lui solo compare, perché in Francia cosí è il
costume d'un solo compare e dua comare, che una fu la signora Maddalena, moglie
di messer Luigi Alamanni, gentiluomo fiorentino e poeta maraviglioso; l'altra
comare si fu la moglie di messer Ricciardo del Bene nostro cittadin fiorentino
e là gran mercante; lei gran gentildonna franzese. Questo fu il primo
figliuolo che io avessi mai, per quanto io mi ricordo. Consegnai alla detta
fanciulla tanti dinari per dota, quanti si contentò una sua zia, a chi
io la resi; e mai piú da poi la cognobbi.
xxxviii. Sollecitavo
l'opere mie, e l'avevo molto tirate innanzi: il Giove era quasi che alla sua
fine, il vaso similmente; la porta cominciava a mostrare le sue bellezze. In
questo tempo capitò il Re a Parigi; e se bene io ho detto per la nascita
della mia figliuola 1544, noi non eramo ancora passati il 1543; ma perché
m'è venuto in proposito il parlar di questa mia figliuola ora, per non
mi avere a impedire in quest'altre cose di piú importanza, non ne
dirò altro per insino al suo luogo. Venne il Re a Parigi, come ho detto,
e subito se ne venne a casa mia, e trovato quelle tante opere innanzi, tale che
gli occhi si potevan benissimo sattisfare; sí come fecero quegli di quel
maraviglioso Re, al quale sattisfece tanto le ditte opere quanto desiderar
possa uno che duri fatica come avevo fatto io; subito da per sé si
ricordò, che il sopra ditto cardinale di Ferrara non m'aveva dato nulla,
né pensione né altro, di quello che lui m'aveva promesso; e borbottando con il
suo Amiraglia, disse che il cardinale di Ferrara s'era portato molto male a non
mi dar niente; ma che voleva rimediare a questo tale inconveniente, perché
vedeva che io ero uomo da far poche parole; e, da vedere a non vedere, una
volta io mi sarei ito con Dio sanza dirgli altro. Andatisene a casa, di poi il
desinare di Sua Maestà, disse al Cardinale, che con la sua parola
dicessi al tesauriere de' risparmi che mi pagassi il piú presto che poteva
settemila scudi d'oro, in tre o in quattro paghe, secondo la comodità
che a lui veniva, purché di questo non mancassi; e piú gli replicò,
dicendo: - Io vi detti Benvenuto in custode, e voi ve l'avete dimenticato -. Il
Cardinale disse che farebbe volentieri tutto quello che diceva Sua
Maestà. Il ditto Cardinale per sua mala natura lasciò passare a il
Re questa voluntà. Intanto le guerre crescevano; e fu nel tempo che lo
Imperadore con il suo grandissimo esercito veniva alla volta di Parigi. Veduto
il Cardinale che la Francia era in gran penuria di danari, entrato un giorno in
proposito a parlar di me, disse: - Sacra Maestà, per far meglio, io non
ho fatto dare danari a Benvenuto; l'una si è perché ora ce n'è
troppo bisogno; l'altra causa si è perché una cosí grossa partita di
danari piú presto v'arebbe fatto perdere Benvenuto; perché parendogli esser
ricco, lui se ne arebbe compro de' beni nella Italia, e una volta che gli fussi
tocco la bizzaria, piú volentieri si sarebbe partito da Voi; sí che io ho
considerato che il meglio sia che Vostra Maestà gli dia qualcosa innel
suo regno, avendo voluntà che lui resti per piú lungo tempo al suo
servizio -. Il Re fece buone queste ragioni, per essere in penuria di
danari; niente di manco, come animo nobilissimo, veramente degno di quel Re che
gli era, considerò che il detto Cardinale aveva fatto cotesta cosa piú
per gratificarsi che per necessità, che lui immaginare avessi possuto
tanto innanzi le necessità di un sí gran regno.
XXXIX. E con
tutto che, sí come io ho detto, il Re dimostrassi di avergli fatte buone queste
ditte ragione, innel segreto suo lui non la intendeva cosí; perché, sí come io
ho detto di sopra, egli rivenne a Parigi, e l'altro giorno, senza che io
l'andassi a incitate, da per sé venne accasa mia: dove, fattomigli incontro, lo
menai per diverse stanze, dove erano diverse sorte d'opere, e cominciando alle
cose piú basse, gli mostrai molta quantità d'opere di bronzo, le quali
lui non aveva vedute tante di gran pezzo. Di poi lo menai a vedere il Giove
d'argento, e gnene mostrai come finito, con tutti i sua bellissimi ornamenti:
qual gli parve cosa molto piú mirabile che non saria parsa ad altro uomo,
rispetto a una certa terribile occasione che allui era avvenuta certi
pochi anni innanzi: che passando, di poi la presa di Tunizi, lo Imperadore per
Parigi d'accordo con il suo cognato re Francesco, il detto Re, volendo fare un
presente degno d'un cosí grande Imperadore, gli fece fare uno Ercole d'argento,
della grandezza appunto che io avevo fatto il Giove; il quale Ercole il Re
confessava essere la piú brutta opera che lui mai avessi vista; e cosí avendola
accusata per tale a quelli valenti uomini di Parigi i quali si
pretendevano essere li piú valenti uomini del mondo di tal professione, avendo
dato ad intendere a il Re che quello era tutto quello che si poteva fare in
argento e nondimanco volsono dumila ducati di quel lor porco lavoro; per questa
cagione avendo veduto il Re quella mia opera, vidde in essa tanta pulitezza,
quale lui non arebbe mai creduto. Cosí fece buon giudizio, e volse che la mia opera
del Giove fossi valutata ancora essa dumila ducati, dicendo: - A quelli io non
davo salario nessuno: a questo, che io do mille scudi incirca di salario, certo
egli me la può fare per il prezzo di dumila scudi d'oro, avendo il ditto
vantaggio del suo salario -. Appresso io lo menai a vedere altre opere
d'argento e d'oro, e molti altri modegli per inventare opere nuove. Di poi
all'utimo della sua partita, innel mio prato del castello scopersi quel gran
gigante, a il quale il Re fece una maggior maraviglia che mai gli avessi fatto
a nessuna altra cosa; e voltosi all'Amiraglio, qual si chiamava Monsignor
Aniballe, disse: - Da poi che dal Cardinale costui di nulla è stato
provisto, gli è forza che per essere ancor lui pigro a domandare, sanza
dire altro voglio che lui sia provisto: sí che questi uomini, che non usano
dimandar nulla, par lor dovere che le fatiche loro dimandino assai: però
provedetelo della prima badia che vaca, qual sia insino al valore di dumila
scudi d'entrata; e quando ella non venga in una pezza sola, fate che la sia in
dua e tre pezzi, perché a lui gli sarà il medesimo -. Io, essendo alla
presenza, senti' ogni cosa e subito lo ringraziai, come se aúta io l'avessi,
dicendo a Sua Maestà che io volevo, quando questa cosa fossi venuta,
lavorare per Sua Maestà sanza altro premio né di salario né d'altra
valuta d'opere, infino a tanto che costretto dalla vecchiaia, non possendo piú
lavorare, io potessi in pace riposare la istanca vita mia, vivendo con essa
entrata onoratamente, ricordandomi d'aver servito un cosí gran Re, quant'era
Sua Maestà. A queste mie parole il Re con molta baldanza lietissimo
inverso di me disse: - E cosí si facci - e contento Sua Maestà da me si
partí, e io restai.
XL. Madama
di Tampes, saputo queste mie faccende, piú grandemente inverso di me
inveleniva, dicendo da per sé: - Io governo oggi il mondo, e un piccolo uomo,
simile a questo, nulla mi stima! - Si messe in tutto e per tutto a bottega per
fare contra di me. E capitandogli uno certo uomo alle mani, il quale era
grande istillatore - questo gli dette alcune acque odorifere e mirabile, le
quali gli facevan tirare la pelle, cosa per l'addietro non mai usata in Francia
- lei lo misse innanzi al Re: il quale uomo propose alcune di queste
istillazione, le quali molto dilettorno al Re; e in questi piaceri fece, che
lui domandò a Sua Maestà un giuoco di palla che io avevo nel mio
castello, con certe piccole istanzette, le quale lui diceva che io non me ne
servivo. Quel buon Re, che cognosceva la cosa onde la veniva, non dava risposta
alcuna. Madama di Tampes si messe a sollecitare per quelle vie che possono le
donne innegli uomini, tanto che facilmente gli riuscí questo suo disegno, che
trovando il Re in una amorosa tempera, alla quale lui era molto sottoposto,
conpiacque a Madama tanto quanto lei desiderava. Venne questo ditto uomo
insieme con il tesauriere Grolier, grandissimo gentiluomo di Francia; e perché
questo tesauriere parlava benissimo italiano, venne al mio castello, e
entrò in esso alla presenza mia parlando meco in italiano, in modo di
motteggiare. Quando e' vidde il bello, disse: - Io metto in tenuta da parte del
Re questo uomo qui di quel giuoco di palla insieme con quelle casette che a il
detto giuoco appartengono -. A questo io dissi: - Del sacro Re è ogni
cosa; però piú liberamente voi potevi entrare qua drento; perché in
questo modo, fatto per via di notai e della corte, mostra piú essere una via
d'inganno, che una istietta commessione di un sí gran Re; e vi protesto
che prima che io mi vadia a dolere al Re, io mi difenderò in quel modo
che Sua Maestà l'altr'ieri mi commisse che io facessi; e vi
sbalzerò quest'uomo, che voi m'avete messo qui, per le finestre, se
altra spressa commessione io non veggo per la propia mana del Re -. A queste
mie parole il detto tesauriere se n'andò minacciando e borbottando, e io
faccendo il simile mi restai, né volsi per allora fare altra dimostrazione: di
poi me n'andai a trovare quelli notari, che avevano messo colui in possessione.
Questi erano molto mia conoscenti, e mi dissono che quella era una cerimonia
fatta bene con commessione del Re, ma che la non importava molto; e che se io
gli avessi fatto qualche poco di resistenza, lui non arebbe preso la
possessione, come egli fece; e che quelli erano atti e costumi della corte, i
quali non toccavano punto l'ubbidienza del Re; di modo che, quando a me venissi
bene il cavarlo di possessione in quel modo che v'era entrato, saria ben fatto,
e non ne saria altro. A me bastò essere accennato, che l'altro giorno
cominciai a mettere mano all'arme; e se bene io ebbi qualche diflicultà,
me l'avevo presa per piacere. Ogni dí un tratto facevo uno assalto con sassi,
con picche, con archibusi, pure sparando sanza palla; ma mettevo loro tanto
ispavento, che nissuno non voleva piú venire a 'iutarlo. Per la qual cosa,
trovando un giorno la sua battaglia debole, entrai per forza in casa, e lui ne
cacciai, gittandogli fuori tutto tutto quello che lui v'aveva portato. Di poi
ricorsi al Re, e li dissi che io avevo fatto tutto tutto che Sua Maestà
m'aveva commisso, difendendomi da tutti quelli che mi volevano inpedire il
servizio di Sua Maestà. A questo il Re se ne rise, e mi spedí nuove
lettere, per le quale io non avessi piú da esser molestato.
XLI. Intanto
con gran sollecitudine io fini' il bel Giove d'argento, insieme con la sua basa
dorata, la quale io avevo posta sopra uno zocco di legno, che appariva poco; e
in detto zocco di legno avevo commesso quattro pallottole di legno forte, le
quali istavano piú che mezze nascoste nelle lor casse, in foggia di noce
di balestre. Eran queste cose tanto gentilmente ordinate, che un piccol
fanciullo facilmente per tutti i versi sanza una fatica al mondo, mandava
innanzi e indietro e volgeva la ditta statua di Giove. Avendola assettata a mio
modo, me ne andai con essa a Fontana Beliò, dove era il Re. In questo
tempo il sopra ditto Bologna aveva portato di Roma le sopra ditte statue, e
l'aveva con gran sollecitudine fatte gittare di bronzo. Io che non sapevo nulla
di questo, sí perché lui aveva fatto questa sua faccenda molto segretamente, e
perché Fontana Beliò è discosto da Parigi piú di quaranta miglia;
però non avevo potuto sapere niente. Faccendo intendere al Re dove
voleva che io ponessi il Giove, essendo alla presenza Madama di Tampes, disse al
Re che non v'era luogo piú a proposito dove metterlo che nella sua bella
galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana, una loggia, o sí
veramente uno androne: piú presto androne si potria chiamare, perché loggia noi
chiamiamo quelle stanze che sono aperte da una parte. Era questa stanza lunga
molto piú di cento passi andanti, ed era ornata e ricchissima di pitture
di mano di quel mirabile Rosso, nostro fiorentino; e infra le pitture era
accomodato moltissime parte di scultura, alcune tonde, altre di basso rilievo:
era di larghezza di passi andanti dodici in circa. Il sopra ditto Bologna aveva
condotto in questa ditta galleria tutte le sopra ditte opere antiche, fatte di
bronzo e benissimo condotte, e l'aveva poste con bellissimo ordine, elevate in
su le sue base; e sí come di sopra ho ditto, queste erano le piú belle cose
tratte da quelle antiche di Roma. In questa ditta istanza io condussi il mio
Giove; e quando viddi quel grande apparecchio, tutto fatto a arte, io da per me
dissi: - Questo si è come passare in fra le picche. Ora Idio mi aiuti -.
Messolo al suo luogo e, quanto io potetti, benissimo acconcio, aspettai quel
gran Re che venissi. Aveva il ditto Giove innella sua mano destra accomodato il
suo fúlgore in attitudine di volerlo trarre, e nella sinistra gli avevo
accomodato il Mondo. Infra le fiamme avevo con molta destrezza commisso un
pezzo d'una torcia bianca. E perché Madama di Tampes aveva trattenuto il Re
insino a notte per fare uno de' duo mali, o che lui non venissi o sí veramente
che l'opera mia, causa della notte, si mostrassi manco bella; e come Idio
promette a quelle creature che hanno fede in lui, ne avvenne tutto
il contrario; perché veduto fattosi notte, io accesi la ditta torcia che era in
mano al Giove; e per essere alquanto elevata sopra la testa del ditto Giove,
cadevano i lumi di sopra e facevano molto piú bel vedere, che di dí non arien
fatto. Comparse il ditto Re insieme con la sua Madama di Tampes, col Dalfino
suo figliuolo e con la Dalfina, oggi re, con il re di Navarra suo cognato, con
madama Margherita sua figliuola, e parecchi altri gran signori, i quali
erano instruiti a posta da Madama di Tampes per dire contro a di me. Veduto
entrare il Re, feci ispignere innanzi da quel mio garzone già ditto,
Ascanio, che pianamente moveva il bel Giove incontro al Re: e perché ancora io
fatto con un poco d'arte, quel poco del moto che si dava alla ditta figura, per
essere assai ben fatta, la faceva parer viva; e lasciatomi alquanto le ditte
figure antiche indietro, detti prima gran piacere, agli occhi, della opera mia.
Subito disse il Re: - Questa è molto piú bella cosa che mai per nessuno
uomo si sia veduta, e io, che pur me ne diletto e 'ntendo, non n'arei
immaginato la centesima parte -. Quei Signori, che avevano a dire contr'a di
me, pareva che non si potessino saziare di lodare la ditta opera. Madama di
Tampes arditamente disse: - Ben pare che voi non abbiate occhi. Non vedete voi
quante belle figure di bronzo antiche son poste piú là, innelle quali
consiste la vera virtú di quest'arte, e non in queste baiate moderne? -
Allora il Re si mosse, e gli altri seco; e dato una occhiata alle ditte figure,
e quelle, per esser lor porto i lumi inferiori, non si mostravano punto bene; a
questo il Re disse: - Chi ha voluto disfavorire questo uomo, gli ha fatto un
gran favore; perché mediante queste mirabile figure si vede e cognosce questa
sua da gran lunga esser piú bella e piú maravigliosa di quelle. Però
è da fare un gran conto di Benvenuto, che non tanto che l'opere sue
restino al paragone dell'antiche, ancora quelle superano -. A questo Madama di
Tampes disse che vedendo di dí tale opera, la non parrebbe l'un mille bella di
quel che lei par di notte; ancora v'era da considerare, che io avevo messo un
velo addosso alla ditta figura, per coprire gli errori. Questo si era un velo
sottilissimo, che io avevo messo con bella grazia addosso al ditto Giove,
perché gli accrescessi maestà: il quale a quelle parole io lo
presi, alzandolo per di sotto, scoprendo quei bei membri genitali, e con un
poco di dimostrata istizza tutto lo stracciai. Lei pensò che io gli
avessi scoperto quella parte per proprio ischerno. Avvedutosi il Re di quello
isdegno e io vinto dalla passione, volsi cominciare a parlare: subito il savio
Re disse queste formate parole in sua lingua: - Benvenuto, io ti taglio la
parola; sí che sta cheto, e arai piú tesoro che tu non desideri, l'un mille -.
Non possendo io parlare, con gran passione mi scontorcevo: causa che lei piú
sdegnosa brontolava; e il Re, piú presto assai di quel che gli arebbe fatto, si
partí, dicendo forte, per darmi animo, aver cavato di Italia il
maggior uomo che nascessi mai, pieno di tante professione.
XLII.
Lasciato il Giove quivi, volendomi partire la mattina, mi fece dare mille scudi
d'oro: parte erano di mia salari, e parte di conti, che io mostravo avere speso
di mio. Preso li dinari, lieto e contento me ne tornai a Parigi; e subito
giunto, rallegratomi in casa, di poi il desinare feci portare tutti li miei
vestimenti, quali erano molta quantità di seta, di finissime pelle e
similmente di panni sottilissimi. Questi io feci a tutti quei mia lavoranti un
presente, donandogli sicondo i meriti d'essi servitori, insino alle
serve e i ragazzi di stalla, dando a tutti animo che m'aiutassino di buon
cuore. Ripreso il vigore, con grandissimo istudio e sollecitudine mi missi
intorno a finire quella grande statua del Marte, quale avevo fatto di legni
benissimo tessuti per armadura; e di sopra, la sua carne si era una crosta,
grossa uno ottavo di braccio, fatta di gesso e diligentemente lavorata; dipoi
avevo ordinato di formare di molti pezzi la ditta figura, e commetterla da poi
a coda di rondine, si come l'arte promette; che molto facilmente mi veniva
fatto. Non voglio mancare di dare un contra segno di questa grande
opera, cosa veramente degna di riso: perché io avevo comandato a tutti quelli a
chi io davo le spese, che nella casa mia e innel mio castello non vi
conducessino meretrice; e a questo io ne facevo molta diligenza che tal cosa
non vi venissi. Era quel mio giovane Ascanio innamorato d'una bellissima
giovine, e lei di lui: per la qual cosa fuggitasi questa ditta giovine da sua
madre, essendo venuta una notte a trovare Ascanio, non se ne volendo poi
andare, e lui non sapendo dove se la nascondere, per utimo rimedio, come
persona ingegnosa, la mise drento nella figura del ditto Marte, e innella
propia testa ve l'accomodò da dormire; e quivi soprastette, assai, e la
notte lui chetamente alcune volte la cavava. Per avere lasciato quella testa
molto vicino alla sua fine, e per un poco di mia boria, lasciavo iscoperto la
ditta testa, la quale si vedeva per la maggior parte della città di
Parigi: avevano cominciato quei piú vicini a salire su per i tetti, e andavavi
assai popoli a posta per vederla. E perché era un nome per Parigi, che in quel mio
castello ab antico abitassi uno spirito, della qual cosa io ne vidi
alcuno contra segno da credere che cosí fussi il vero - il detto spirito
universalmente per la plebe di Parigi lo chiamavano per nome Lemmonio
Boreò - e perché questa fanciulletta, che abitava innella ditta testa,
alcune volte non poteva fare che non si vedessi per gli occhi un certo poco di
muovere; dove alcuni di quei sciocchi popoli dicevano che quel ditto spirito
era entrato in quel corpo di quella gran figura, e che e' faceva muovere gli
occhi a quella testa, e la bocca, come se ella volessi parlare; e molti
ispaventati si partivano, e alcuni astuti, venuti a vedere e non si potendo
discredere di quel balenamento degli occhi che faceva la ditta figura, ancora
loro affermavano che ivi fussi spirito, non sapendo che v'era spirito e buona
carne di piú.
XLIII. In quel mentre io m'attendevo a mettere
insieme la mia bella porta, con tutte le infrascritte cose. E perché io non mi
voglio curare di scrivere in questa mia Vita cose che s'appartengono a quelli
che scrivono le cronache, però ho lasciato indietro la venuta dello
Imperadore con il suo grande esercito, e il Re con tutto il suo sforzo armato.
E in questi tempi cercò del mio consiglio, per affortificare
prestamente Parigi: venne a posta per me a casa, e menommi intorno a tutta
la città di Parigi; e sentito con che buona ragione io prestamente gli
affortificavo Parigi, mi dette ispressa commessione, che quanto io avevo detto
subitamente facessi; e comandò al suo Amiraglio che comandassi a quei
populi che mi ubbidissino, sotto 'l poter della disgrazia sua. L'Amiraglio, che
era fatto tale per il favore di Madama di Tampes e non per le sue buone opere,
per essere uomo di poco ingegno e per essere il nome suo monsignore
d'Anguebò, se bene in nostra lingua e' vol dire monsignor d'Aniballe, in
quella loro lingua e' suona in modo, che quei populi i piú lo chiamavano
monsignore Asino Bue; questa bestia, conferito il tutto a Madama di Tampes, lei
gli comandò che prestamente egli facessi venire Girolimo Bellarmato.
Questo era uno ingegnere sanese ed era a Diepa, poco piú d'una giornata
discosto da Parigi. Venne subito, e messo in opera la piú lunga via da
forzificare, io mi ritirai da tale impresa; e se lo Imperadore spigneva
innanzi, con gran facilità si pigliava Parigi. Ben si disse che in
quello accordo fatto da poi, Madama di Tampes, che piú che altra persona vi
s'era intermessa, aveva tradito il Re. Altro non mi occorre dire di questo,
perché non fa al mio proposito. Mi missi con gran sollecitudine a mettere
insieme la mia porta di bronzo, e a finire quel gran vaso, e du' altri mezzani
fatti di mio argento. Dipoi queste tribulazioni venne il buon Re a riposarsi
alquanto a Parigi. Essendo nata questa maledetta donna quasi per la rovina del
mondo, mi par pure esser da qualcosa, da poi che l'ebbe me per suo nimico
capitale. Caduta in proposito con quel buon Re de' casi mia, gli
disse tanto mal di me, che quel buono uomo per compiacerle, si misse a giurare
che mai piú terrebbe un conto di me al mondo, come se cognosciuto mai non mi
avessi. Queste parole me le venne a dir subito un paggio del cardinal di
Ferrara, che si chiamava il Villa, e mi disse lui medesimo averle udite della
bocca del Re. Questa cosa mi messe in tanta còllora, che gittato a traverso
tutti i miei ferri, e tutte l'opera ancora, mi missi in ordine per andarmi con
Dio, e subito andai a trovare il Re. Dipoi il suo desinare, entrai in una
camera dove era Sua Maestà con pochissime persone; e quando e' mi vidde
entrare, fattogli io quella debita reverenza che s'appartiene a un Re, subito
con lieta faccia m'inchinò il capo. Per la qual cosa presi isperanza, e
a poco a poco accostatomi a Sua Maestà, perché si mostrava alcune cose
della mia professione, quando si fu ragionato un pezzetto sopra le ditte cose,
Sua Maestà mi domandò se io avevo da mostrargli a casa mia
qualche cosa di bello, di poi disse quando io volevo che venissi a vederle.
Allora io dissi che io stavo in ordine da mostrargli qualcosa, se gli avessi
ben voluto, allora. Subito disse che io mi avviassi a casa, e che allora voleva
venire.
xLiv. Io mi avviai, aspettando questo buon Re, il quale era ito per
tor licenza di Madama di Tampes. Volendo ella saper dove gli andava, perché
disse che gli terrebbe compagnia, quando il Re gli ebbe ditto dove gli andava,
lei disse a Sua Maestà che non voleva andar seco, e che lo pregava che
gli facessi tanto di grazia per quel dí di non andare manco lui. Ebbe a
rimettersi piú di due volte, volendo svolgere il Re da quella impresa: per quel
dí non venne a casa mia. L'altro giorno da poi tornai dal Re in su quella
medesima ora: subito vedutomi, giurò di voler venir subito a casa mia.
Andato al suo solito per licenzia dalla sua Madama di Tampes, veduto con tutto
il suo potere di non aver potuto distorre il Re, si misse con la sua mordace
lingua a dir tanto male di me, quanto dir si possa d'uno uomo, che fussi nimico
mortale di quella degna Corona. A questo quel buon Re disse, che voleva venire
a casa mia, solo per gridarmi di sorte, che m'arebbe ispaventato; e cosí dette
la fede a Madama di Tampes di fare. E subito venne a casa, dove io
lo guidai in certe grande stanze basse, nelle quale io avevo messo insieme
tutta quella mia gran porta; e giunto a essa il Re rimase tanto stupefatto, che
egli non ritrovava la via per dirmi quella gran villania che lui aveva promesso
a Madama di Tampes. Né anche per questo non volse mancare di non trovare
l'occasione per dirmi quella promessa villania, e cominciò dicendo: -
Gli è pure grandissima cosa, Benvenuto, che voi altri, se
bene voi sete virtuosi, doverresti cognoscere che quelle tal virtú da per voi
non le potete mostrare; e solo vi dimostrate grandi mediante le occasione
che voi ricevete da noi. Ora voi doverresti essere un poco piú ubbidienti, e
non tanto superbi e di vostro capo. Io mi ricordo avervi comandato
espressamente che voi mi facessi dodici statue d'argento; e quello era tutto il
mio desiderio. Voi mi avete voluta fare una saliera, e vasi e teste e porte, e
tante altre cose, che io sono molto smarrito, veduto lasciato indrieto tutti i
desideri delle mie voglie, e atteso a compiacere a tutte le voglie vostre: sí
che pensando di fare di questa sorte, io vi darò poi a divedere come
io uso di fare, quando io voglio che si faccia a mio modo. Pertanto vi dico:
attendete a ubbidire a quanto v'è detto, perché stando ostinato a queste
vostre fantasie, voi darete del capo nel muro -. E in mentre che egli diceva
queste parole, tutti quei Signori stavano attenti, veduto che lui scoteva il
capo, aggrottava gli occhi, or con una mana or con l'altra faceva cenni;
talmente che tutti quelli uomini che erano quivi alla presenza, tremavono di
paura per me, perché io m'ero risoluto di non avere una paura al mondo.
xLv. E subito finito che gli ebbe di farmi quella bravata, che gli
aveva promesso alla sua Madama di Tampes, io missi un ginocchio in terra, e
baciatogli la vesta in sul suo ginocchio, dissi: - Sacra Maestà, io
affermo tutto quello che voi dite che sia vero; solo dico a Quella, che il mio
cuore è stato continuamente giorno e notte con tutti li mia vitali
spiriti intenti solo per ubbidirla e per servirla; e tutto quello che a Vostra
Maestà paressi che fussi in contrario da quel che io dico, sappi Vostra
Maestà che quello non è stato Benvenuto, ma può essere
stato un mio cattivo fato o ria fortuna, la quale m'ha voluto fare indegno di
servire il piú maraviglioso principe che avessi mai la terra: pertanto la
priego che mi perdoni. Solo mi parve che Vostra Maestà mi dessi argento
per una istatua sola: e non avendo da me, io none possetti fare piú che quella;
e di quel poco dello argento che della detta figura m'avanzò, io ne feci
quel vaso, per mostrare a Vostra Maestà quella bella maniera degli
antichi; qual forse prima lei di tal sorte non aveva vedute. Quanto alla saliera,
mi parve, se ben mi ricordo, che Vostra Maestà da per sé me ne
richiedessi un giorno, entrato in proposito d'una che ve ne fu portata innanzi;
per la qual cosa mostratogli un modello, quale io avevo fatto già in
Italia, solo a vostra requisizione voi mi facesti dare subito mille ducati
d'oro, perché io la facessi, dicendo che mi sapevi il buon grado di
tal cosa: e maggiormente mi parve che molto mi ringraziassi quando io ve la
detti finita. Quanto alla porta, mi parve che, ragionandone a caso, Vostra
Maestà dessi le commessione a monsignor di Villurois suo primo
segretario, il quale commesse a monsignor di Marmagnia e monsignor della Fa che
tale opera mi sollecitassino, e mi provvedessino; e sanza queste commessione,
da per me io non arei mai potuto tirare innanzi cosí grande imprese. Quanto
alle teste di bronzo e la base del Giove e d'altro, le teste io le feci
veramente da per me, per isperimentare queste terre di Francia, le quali io,
come forestiero, punto non conoscevo; e sanza far esperienza delle ditte terre
io non mi sarei messo a gettare queste grande opere. Quanto alle base, io le
feci, parendomi che tal cosa benissimo si convenissi per compagnia di quelle
tal figure; però tutto quello che io ho fatto, ho pensato di fare il
meglio, e non mai discostarmi dal volere di Vostra Maestà. Gli è
bene il vero, che quel gran colosso io l'ho fatto tutto, insino al termine che
gli è, con le spese della mia borsa; solo parendomi che voi sí gran Re e
io quel poco artista che io sono, dovessi fare per vostra gloria e mia una
statua, quale gli antichi non ebbon mai. Conosciuto ora che a Dio non è
piaciuto di farmi degno d'un tanto onorato servizio, la priego che, cambio di
quello onorato premio che vostra Maestà alle opere mie aveva destinato,
solo mi dia un poco della sua buona grazia e con essa buona licenzia; perché in
questo punto, faccendomi degno di tal cose, mi partirò tornandomi in
Italia, sempre ringraziando Idio e Vostra Maestà di quell'ore felice che
io sono stato al suo servizio.
xLvi. Mi prese con le sue mane, e levommi con gran piacevolezza di
ginocchioni; di poi mi disse che io dovessi contentarmi di servirlo, e che
tutto quello che io avevo fatto era buono, e gli era gratissimo. E voltosi a
quei Signori disse queste formate parole: - Io credo certamente che, se il
Paradiso avessi d'aver porte, che piú bella di questa già mai non
l'arebbe -. Quando io viddi fermato un poco la baldanza di quelle parole, quale
erano tutte in mio favore, di nuovo con grandissima reverenza io lo ringraziai,
replicando pure di volere licenza; perché a me non era passata ancora la
stizza. Quando quel gran Re s'avvidde che io non aveva fatto quel capitale che
meritavono quelle sue inusitate e gran carezze, mi comandò con una
grande e paventosa voce che io non parlassi piú parola, ché guai a me; e poi
aggiunse che mi affogherebbe nell'oro, e che mi dava licenzia, che, dipoi
l'opere commessemi da Sua Maestà, tutto quel che io facevo in mezzo
da per me era contentissimo, e che non mai piú io arei
diferenza seco, perché m'aveva conosciuto; e che ancora io m'ingegnassi di
cognoscere Sua Maestà, sí come voleva il dovere. Io dissi che
ringraziavo Idio e Sua Maestà di tutto, di poi lo pregai che venissi a
vedere la gran figura, come io l'avevo tirata innanzi: cosí venne appresso di
me. Io la feci scoprire: la qual cosa gli dette tanta maraviglia, che immaginar
mai si potria; e subito commesse a un suo segretario, che incontinente mi
rendessi tutti li danari che di mio io avevo spesi, e fussi che somma la
volessi, bastando che io la dessi scritta di mia mano. Da poi si partí, e mi
disse: - Addio, mon ami -: qual gran parola a un re non si usa.
xLvii. Ritornato al suo palazzo, venne a replicare le gran parole
tanto maravigliosamente umile e tanto altamente superbe, che io avevo usato con
Sua Maestà, le qual parole l'avevano molto fatto crucciare; e contando
alcuni de' particulari di tal parole alla presenza di Madama di Tampes, dove
era Monsignor di San Polo, gran barone di Francia. Questo tale aveva fatto per
il passato molta gran professione d'essere amico mio; e certamente che a questa
volta molto virtuosamente, alla franciosa, lui lo dimostrò. Perché,
dipoi molti ragionamenti, il Re si dolse del cardinal di Ferrara, che
avendomigli dato in custode, non aveva mai piú pensato a' fatti mia, e che non
era mancato per causa sua che io non mi fussi andato con Dio del suo regno, e
che veramente penserebbe di darmi in custode a qualche persona che mi
conoscessi meglio, che non aveva fatto il cardinale di Ferrara, perché non mi voleva
dar piú occasione di perdermi. A queste parole subito si offerse Monsignor di
San Polo, dicendo al Re che mi dessi in guardia allui, e che farebbe ben cosa
che io non arei mai piú causa di partirmi del suo regno. A questo il Re disse
che molto era contento, se San Polo gli voleva dire il modo che voleva tenere
perché io non mi partissi. Madama, che era alla presenza, stava molto
ingrognata, e San Polo stava in su l'onorevole, non volendo dire al Re il modo
che lui voleva tenere. Dimandatolo di nuovo il Re, e lui, per piacere a Madama
di Tampes, disse: - Io lo impiccherei per la gola, questo vostro Benvenuto; e a
questo modo voi non lo perderesti del vostro regno -. Subito Madama di Tampes
levò una gran risa, dicendo che io lo meritavo bene. A questo il Re per
conpagnia si messe a ridere, e disse che era molto contento che San Polo
m'impiccassi, se prima lui trovava un altro par mio; ché, con tutto che io non
l'avessi mai meritata, gliene dava piena licenzia. Innel modo ditto fu finita
questa giornata, e io restai sano e salvo; che Dio ne sia laudato e
ringraziato.
xLviii. Aveva in
questo tempo il Re quietata la guerra con lo Imperadore, ma non con gli
Inghilesi, di modo che questi diavoli ci tenevano in molta tribulazione.
Avendo il capo ad altro il Re che ai piaceri, aveva commesso a Piero Strozzi
che conducessi certe galee in quei mari d'Inghilterra; qual fu cosa grandissima
e difficile a condurvele, pure a quel mirabil soldato, unico ne' tempi sua in
tal professione, e altanto unico disavventurato. Era passato parecchi mesi che
io non avevo aùto danari né ordine nessuno di lavorare; di modo che io
avevo mandato via tutti i mia lavoranti, da quei dua in fuora italiani, ai
quali io feci lor fare dua vasotti di mio argento, perché loro non sapevan
lavorare in sul bronzo. Finito che gli ebbono i dua vasi, io con essi me
n'andai a una città, che era della regina di Navarra: questa si domanda
Argentana, ed è discosto da Parigi di molte giornate. Giunsi al ditto
luogo e trovai il Re che era indisposto; el cardinal di Ferrara disse a Sua
Maestà come io ero arrivato in quel luogo. A questo il Re non rispose
nulla, qual fu causa che io ebbi a stare di molti giorni a disagio. E veramente
che io non ebbi mai il maggior dispiacere: pure in capo di parecchi giorni io me
gli feci una sera innanzi, e appresenta'gli agli occhi quei dua bei vasi: e'
quali oltramodo gli piacquono. Quando io veddi benissimo disposto il Re, io
pregai Sua Maestà che fussi contento di farmi tanto di grazia, che io
potessi andare a spasso infino in Italia, e che io lascierei sette mesi di
salario che io ero creditore, i quali danari Sua Maestà si degnerebbe
farmegli da poi pagare, se mi facessino di mestiero per il mio ritorno. Pregavo
Sua Maestà che mi compiacessi questa cotal grazia, avvenga che allora
era veramente tempo da militare, e non da statuare ancora, perché Sua
Maestà aveva compiaciuto tal cosa al suo Bologna pittore, però
divotissimamente lo pregavo che fussi contento farne degno ancora me. Il Re,
mentre che io gli dicevo queste parole, guardava con grandissima attenzione
quei dua vasi, e alcune volte mi feriva con un suo sguardo terribile; io pure,
il meglio che io potevo e sapevo, lo pregavo che mi concedessi questa tal
grazia. A un tratto lo viddi isdegnato, e rizzossi da sedere e a me disse in
lingua italiana: - Benvenuto, voi sete un gran matto; portatene questi vasi a
Parigi, perché io gli voglio dorati - e non mi data altra risposta, si partí.
Io mi accostai al Cardinal di Ferrara, che era alla presenza, e lo pregai, che
da poi che m'aveva fatto tanto bene innel cavarmi del carcere di Roma, insieme
con tanti altri benifizi ancora mi compiacessi questo, che io potessi andare
insino in Italia. Il ditto Cardinle mi disse che molto volentieri arebbe fatto
tutto quel che potessi per farmi quel piacere, e che liberamente io ne
lasciassi la cura a lui; e anche, se io volevo, potevo andare liberamente,
perché lui mi tratterrebbe benissimo con il Re. Io dissi al ditto Cardinale, sí
come io sapevo che Sua Maestà m'aveva dato in custode a Sua Signoria
reverendissima, e che se quella mi dava licenzia, io volentieri mi partirei,
per tornare a un sol minimo cenno di Sua Signoria reverendissima. Allora il
Cardinale mi disse, che io me n'andassi a Parigi, e quivi sopra stessi otto
giorni, e in questo tempo lui otterrebbe grazia dal Re che io potrei andare: e
in caso che il Re non si contentassi che io partissi, sanza manco nessuno me
ne darebbe avviso; il perché, non mi scrivendo altro, saria segno che io
potrei liberamente andare.
XLiX. Andatomene a Parigi, sí come m'aveva detto il Cardinale, feci di
mirabil casse per quei tre vasi d'argento. Passato che fu venti giorni, mi
messi in ordine, e li tre vasi messi in su 'n una soma di mulo, il quale mi
aveva prestato per insino in Lione il vescovo di Pavia, il quale io avevo
alloggiato di nuovo innel mio castello. Partimmi innella mia malora, insieme
col signore Ipolito Gonzaga, il qual signore stava al soldo del Re e trattenuto
dal conte Galeotto della Mirandola, e con certi altri gentiluomini del detto
conte. Ancora s'accompagnò con esso noi Lionardo Tedaldi nostro
fiorentino. Lasciai Ascanio e Pagolo in custode del mio castello e di tutta la
mia roba, infra la quale era certi vasetti cominciati, i quali io lasciavo,
perché quei dua giovani non si stessino. Ancora c'era molto mobile di casa di
gran valore, perché io stavo molto onoratamente: era il valore di queste mie
dette robe di piú di mille cinquecento scudi. Dissi a Ascanio, che si
ricordassi quanti gran benifizi lui aveva aúti da me, e che per insino allora
lui era stato fanciullo di poco cervello: che gli era tempo omai d'aver
cervello da uomo; però io gli volevo lasciare in guardia tutta la mia
roba, insieme con tutto l'onor mio; che se lui sentiva piú una cosa che
un'altra da quelle bestie di quei Franciosi, subito me l'avvisassi, perché io
monterei in poste e volerei d'onde io mi fussi, sí per il grande obrigo che io
avevo a quel buon Re, e sí per lo onor mio. Il ditto Ascanio con finte e
ladronesche lacrime mi disse: - Io non cognobbi mai altro miglior padre di voi,
e tutto quello che debbe fare un buon figliuolo inverso del suo buon padre, io
sempre lo farò inverso di voi -. Cosí d'accordo mi parti' con un
servitore e con un piccolo ragazzetto franzese. Quando fu passato mezzo giorno,
venne al mio castello certi di quei tesaurieri, i quali non erano punto mia
amici. Questa canaglia ribalda subito dissono che io m'ero partito con
l'argento del Re, e dissono a messer Guido e al Vescovo di Pavia che
rimandassimo prestamente per i vasi del Re; se non che loro manderebbon per
essi drietomi con molto mio gran dispiacere. Il Vescovo e messer Guido ebbon
molto piú paura che non faceva mestiero, e prestamente mi mandorno drieto in
poste quel traditore d'Ascanio, il quale comparse in su la mezza notte. E io
che non dormivo, da per me stesso mi condolevo, dicendo: - A chi lascio la roba
mia, il mio castello? Oh che destino mio è questo, che mi sforza a far
questo viaggio? Pur che il Cardinale non sia d'accordo con Madama di Tampes, la
quale non desidera altra cosa al mondo, se non che io perda la grazia di quel
buon Re!
L. In mentre
che meco medesimo io facevo questo contrasto, mi senti' chiamare da Ascanio; e
al primo mi sollevai dal letto, e li domandai se lui mi portava buone o triste
nuove. Disse il ladrone: - Buone nuove porto; ma sol bisogna che voi rimandiate
indietro li tre vasi, perché quei ribaldi di quei tesaurieri gridano
accorruomo, di modo che il Vescovo e messer Guido dicono che voi gli rimandiate
a ogni modo: e del resto non vi dia noia nulla, e andate a godervi questo
viaggio felicemente -. Subitamente io gli resi i vasi, che ve n'era dua mia,
con l'argento e ogni cosa. Io gli portavo alla badia del Cardinale di
Ferrara in Lione; perché se bene e' mi detton nome che io me ne gli volevo
portare in Italia, questo si sa bene per ugniuno che non si
può cavare né danari, né oro, né argento, sanza gran licenzia. Or ben si
debbe considerare se io potevo cavare quei tre gran vasi, i quali occupavono
con le loro casse un mulo. Bene è vero che, per essere quelli cosa molto
bella e di gran valore, io sospettavo della morte del Re, perché certamente io
l'avevo lasciato molto indisposto; e da me dicevo: - Se tal cosa avenissi,
avendogli io in mano al Cardinale, io non gli posso perdere -. Ora, in
conclusione, io rimandai il detto mulo con i vasi e altre cose d'importanza; e
con la ditta compagnia la mattina seguente attesi a camminare innanzi, né mai
per tutto il viaggio mi potetti difendere di sospirare e piagnere. Pure alcune
volte con Idio mi confortavo, dicendo: - Signore Idio, tu che sai la
verità, cognosci che questa mia gita è solo per portare una
elimosina a sei povere meschine verginelle e alla madre loro, mia sorella
carnale; che se bene quelle hanno il lor padre, gli è tanto vecchio e
l'arte sua non guadagna nulla; che quelle facilmente potrieno andare per la
mala via; dove faccendo io questo opera pia, spero da Tua Maestà aiuto e
consiglio -. Questo si era quanta recreazione io mi pigliavo camminando
innanzi. Trovandoci un giorno presso a Lione a una giornata, era vicino alle
ventidua ore, cominciò il cielo a fare certi tuoni secchi, e l'aria era
bianchissima: io ero innanzi una balestrata dalli mia compagni; doppo i tuoni
faceva il cielo un romore tanto grande e tanto paventoso, che io da per me giudicavo
che fussi il dí del Giudizio; e fermatomi alquanto, cominciò a cadere
una gragnuola senza gocciola d'acqua. Questa era grossa piú che pallottole di
cerbottana, e, dandomi addosso, mi faceva gran male: a poco a poco questa
cominciò a ringrossare di modo che l'era come pallottole d'una balestra.
Veduto che 'l mio cavallo forte ispaventava, lo volsi addietro con grandissima
furia a corso, tanto che io ritrovai li mia compagni, li quali per la medesima
paura s'erano fermi drento in una pineta. La gragnuola ringrossava come grossi
limoni: io cantavo un Miserere; e in mentre che cosí dicevo divotamente
a Dio, venne un di quei grani tanto grosso che gli scavezzò un
ramo grossissimo di quel pino, dove mi pareva esser salvo. Un'altra parte di
quei grani dette in sul capo al mio cavallo, qual fe' segno di cadere in terra;
a me ne colse uno, ma non in piena, perché m'aria morto. Similmente ne colse
uno a quel povero vecchio di Lionardo Tedaldi, di sorte che lui, che stava come
me ginocchioni, gli fe' dare delle mane in terra. Allora io prestamente, veduto
che quel gran ramo non mi poteva piú difendere e che col Miserere bisognava
far qualche opera, cominciai a raddoppiarmi e' panni in capo: e cosí dissi a
Lionardo, che accorruomo gridava: - Giesú, Giesú - che quello lo aiuterebbe se
lui si aiutava. Ebbi una gran fatica piú a campar lui che me medesimo. Questa
cosa durò un pezzo, pur poi cessò e noi, ch'eràmo tutti
pesti, il meglio che noi potemmo ci rimettemmo a cavallo; e in mentre che noi andavamo
inverso l'alloggiamento, mostrandoci l'un l'altro gli scalfitti e le percosse,
trovammo un miglio innanzi tanta maggior mina della nostra, che pare
impossibile a dirlo. Erano tutti gli arbori mondi e scavezzati, con tanto
bestiame morto, quanto la n'aveva trovati; e molti pastori ancora morti:
vedemmo quantità assai di quelle granella le quali non si sarebbon cinte
con dua mani. Ce ne parve avere un buon mercato, e cognoscemmo allora che il
chiamare Idio e quei nostri Misereri ci avevano piú servito che da per
noi non aremmo potuto fare. Cosí ringraziando Idio, ce ne andammo in Lione
l'altra giornata appresso, e quivi ci posammo per otto giorni. Passati gli otto
giorni, essendoci molto bene ricreati, ripigliammo il viaggio, e molto
felicemente passammo i monti. Ivi io comperai un piccol cavallino, perché certe
poche bagaglie avevano alquanto istracco i mia cavalli.
Li. Di poi che noi fummo una giornata in Italia, ci raggiunse il
conte Galeotto della Mirandola, il quale passava in poste, e fermatosi con esso
noi, mi disse che io avevo fatto errore a partirmi, e che io dovessi non andare
piú innanzi, perché le cose mie, tornando subito, passerebbono meglio
che mai; ma se io andavo innanzi, che io davo campo ai mia nimici e
comodità di potermi far male; dove che, se io tornavo subito, arei loro
impedita la via a quello che avevano ordinato contro a di me; e quelli tali, in
chi io avevo piú fede, erano quelli che m'ingannavano. Non mi volse dire altro,
che lui benissimo lo sapeva: e 'l cardinal di Ferrara era accordato con quei
dua mia ribaldi che io avevo lasciato in guardia d'ogni cosa mia. Il ditto
contino mi repricò piú volte che io dovessi tornare a ogni
modo. Montato in su le poste passò innanzi, e io, per la compagnia sopra
ditta, ancora mi risolsi a passare innanzi. Avevo uno istruggimento al cuore,
ora di arrivare prestissimo a Firenze, e ora di ritornarmene in Francia. Istavo
in tanta passione, a quel modo inresoluto, che io per utimo mi risolsi voler
montare in poste per arrivare presto a Firenze. Non fu' d'accordo con la prima
posta; per questo fermai il mio proposito assoluto di venire a tribulare
in Firenze. Avendo lasciato la compagnia del signore Ipolito Gonzaga, il quale
aveva preso la via per andare alla Mirandola e io quella di Parma e Piacenza,
arrivato che io fui a Piacenza iscontrai per una strada il duca Pierluigi, il
quale mi squadrò e mi cognobbe. E io che sapevo che tutto il male che io
avevo aùto nel Castel Sant'Agnolo di Roma, n'era stato lui la intera
causa, mi dette passione assai il vederlo; e non conoscendo nessun rimedio a
uscirgli delle mane, mi risolsi di andarlo a visitare; e giunsi appunto che
s'era levata la vivanda, ed era seco quelli uomini della casata de' Landi, qual
da poi furno quelli che lo ammazzorno. Giunto a Sua Eccellenzia, questo
uomo mi fece le piú smisurate carezze che mai immaginar si possa: e infra esse
carezze da sé cadde in proposito, dicendo a quelli ch'erano alla presenza, che
io era il primo uomo del mondo della mia professione e che io ero stato gran
tempo in carcere in Roma. E voltosi a me disse: - Benvenuto mio, quel che voi
avesti, a me ne 'ncrebbe assai; e sapevo che voi eri innocente, e non vi
potetti aiutare altrimenti, perché mio padre per soddisfare a certi
vostri nimici, i quali gli avevano ancora dato addintendere che voi avevi
sparlato di lui: la qual cosa io so certissima che non fu mai vera; e a me ne
increbbe assai del vostro - e con queste parole egli multipricò in tante
altre simile, che pareva quasi che mi chiedessi perdonanza. Appresso mi domandò
di tutte l'opere che io aveva fatte al Re Cristianissimo; e dicendogliele io,
istava attento, dandomi la piú grata audienza che sia possibile al mondo. Di
poi mi ricercò se io lo volevo servire: a questo io risposi che
con mio onore io non lo potevo fare; che se io avessi lasciato finite quelle
tante grand'opere che io avevo cominciate per quel gran Re, io lascerei ogni
gran signore, solo per servire Sua Eccellenzia. Or qui si cognosce quanto la
gran virtú de Dio non lascia mai impunito di qualsivoglia sorta di uomini, che
fanno torti e ingiustizie agli innocenti. Questo uomo come perdonanza mi chiese
alla presenza di quelli, che poco da poi feciono le mie vendette, insieme con
quelle di molti altri ch'erano istati assassinati da lui; però nessun
Signore, per grande che e' sia, non si faccia beffe della giustizia de Dio, sí
come fanno alcuni di quei che io cognosco, che sí bruttamente m'hanno
assassinato, dove al suo luogo io lo dirò. E queste mie cose io non le
scrivo per boria mondana, ma solo per ringraziare Idio, che m'ha campato da
tanti gran travagli. Ancora di quelli che mi s'appresentano innanzi alla
giornata, di tutti allui mi querelo, e per mio propio difensore chiamo e mi
raccomando. E sempre, oltra che io m'aiuti quanto io posso, da poi avvilitomi
dove le debile forze mie non arrivano, subito mi si mostra quella gran
bravuria de Dio, la quale viene inaspettata a quelli che altrui
offendono a torto, e a quelli che hanno poco cura della grande e onorata
carica, che Idio ha dato loro.
Lii. Torna'mene all'osteria e trovai che il sopra detto Duca m'aveva
mandato abbundantissimamente presenti da mangiare e da bere, molto onorati:
presi di buona voglia il mio cibo; da poi, montato a cavallo, me ne venni alla
volta di Fiorenze; dove giunto che io fui, trovai la mia sorella carnale con
sei figliolette, che una ve n'era da marito e una ancora a balia: trovai il
marito suo, il quale per vari accidenti della città non lavorava piú
dell'arte sua. Avevo mandato piú d'uno anno innanzi gioie e dorure franzese per
il valore di piú di dumila ducati, e meco ne avevo portate per li valore di
circa mille scudi. Trovai che, se bene io davo loro continuamente quattro scudi
d'oro il mese, ancora continuamente pigliavano di gran danari di quelle mie
dorure che alla giornata loro vendevano. Quel mio cognato era tanto uomo da
bene che, per paura che io non mi avessi a sdegnar seco, non gli bastando i
dinari che io gli mandavo per le sue provvisione, dandogliene per limosina,
aveva inpegnato quasi ciò che gli aveva al mondo, lasciandosi mangiare
dagli interessi, solo per non toccare di quelli dinari che non erano ordinati
per lui. A questo io cognobbi che gli era molto uomo da bene e mi crebbe voglia
di fargli piú limosina: e prima che io partissi di Firenze volevo dare ordine a
tutte le sue figlioline.
Liii. Il nostro Duca di Firenze in questo tempo, che eramo del mese
d'agosto nel 1545, essendo al Poggio a Caiano, luogo dieci miglia discosto di
Firenze, io l'andai a trovare, solo per fare il debito mio, per essere anch'io
cittadino fiorentino e perché i mia antichi erano stati molto amici della casa
de' Medici, e io piú che nessuno di loro amavo questo duca Cosimo. Sí come io
dico, andai al detto Poggio solo per fargli reverenza e non mai con nessuna
intenzione di fermarmi seco, sí come Dio, che fa bene ogni cosa, a lui piacque:
ché veggendomi il detto Duca, dipoi fattomi molte infinite carezze, e lui e la
Duchessa mi dimandorno dell'opere che io avevo fatte al Re; alla qual cosa
volentieri, e tutte per ordine, io raccontai. Udito che egli m'ebbe, disse che
tanto aveva inteso che cosí era il vero; e da poi aggiunse in atto di
compassione, e disse: - O poco premio a tante belle e gran fatiche! Benvenuto
mio, se tu mi volessi fare qualche cosa a me, io ti pagherei bene altrimenti
che non ha fatto quel tuo Re, di chi per tua buona natura tanto ti
lodi -. A queste parole io aggiunsi li grandi obrighi che io avevo con Sua
Maestà, avendomi tratto d'un cosí ingiusto carcere, di poi datomi
l'occasione di fare le piú mirabile opere che ad altro artefice mio pari che
nascessi mai. In mentre che io dicevo cosí il mio Duca si scontorceva e pareva
che non mi potessi stare a udire. Da poi finito che io ebbi, mi disse: - Se tu
vuoi far qualcosa per me, io ti farò carezze tali, che forse tu resterai
maravigliato, purché l'opere tue mi piacciano; della qual cosa io punto non
dubito -. Io poverello isventurato, desideroso di mostrare in questa mirabile
Iscuola, che di poi che io ero fuor d'essa, m'ero affaticato in altra
professione di quello che la ditta iscuola non istimava, risposi al mio Duca
che volentieri, o di marmo o di bronzo, io gli farei una statua grande in su
quella sua bella piazza. A questo mi rispose, che arebbe voluto da me, per una
prima opera, solo un Perseo. Questo era quanto lui aveva di già
desiderato un pezzo; e mi pregò che io gnene facessi un modelletto.
Volentieri mi messi a fate il detto modello, e in breve settimane finito
l'ebbi, della altezza d'un braccio in circa: questo era di cera gialla,
assai accomodatamente finito: bene era fatto con grandissimo istudio e arte.
Venne il Duca a Firenze e innanzi che io gli potessi mostrare questo ditto
modello, passò parecchi dí; che propio pareva che lui non mi avessi mai
veduto né conosciuto, di modo che io feci un mal giudizio de' fatti mia con Sua
Eccellenzia. Pur da poi, un dí doppo desinare, avendolo io condotto nella sua
guardaroba, lo venne a vedere insieme con la Duchessa e con pochi altri
Signori. Subito vedutolo gli piacque e lodollo oltramodo: per la qual cosa mi
dette un poco di speranza che lui alquanto se ne 'ntendessi. Da poi che l'ebbe
considerato assai, crescendogli grandemente di piacere, disse queste parole: -
Se tu conducessi, Benvenuto mio, cosí in opera grande questo piccol modellino,
questa sarebbe la piú bella opera di piazza -. Allora io dissi: -
Eccellentissimo mio Signore, in piazza sono l'opere del gran Donatello e del
maraviglioso Michelagnolo, qual sono istati dua li maggior uomini dagli
antichi in qua. Per tanto Vostra Eccellenzia illustrissima dà un grand'animo
al mio modello, perché a me basta la vista di far meglio l'opera, che il
modello, piú di tre volte -. A questo fu non piccola contesa, perché il Duca
sempre diceva che se ne intendeva benissimo e che sapeva appunto quello che si
poteva fare. A questo io gli dissi che l'opere mie deciderebbono quella
quistione e quel suo dubbio, e che certissimo io atterrei a Sua Eccellenzia
molto piú di quel che io gli promettevo, e che mi dessi pur le comodità
che io potessi fare tal cosa, perché sanza quelle comodità io non gli
potrei attenere la gran cosa che io gli promettevo. A questo Sua Eccellenzia mi
disse che io facessi una supplica di quanto io gli dimandavo, e in essa
contenessi tutti i mia bisogni, ché a quella amplissimamente darebbe ordine. Certamente
che se io fussi stato astuto a legare per contratto tutto quello che io avevo
di bisogno in queste mia opere, io non arei aùto e' gran travagli, che
per mia causa mi son venuti: perché la voluntà sua si vedeva grandissima
sí in voler fare delle opere e sí nel dar buon ordine a esse. Però non
conoscendo io che questo Signore aveva piú modo di mercatante che di duca,
liberalissimamente procedevo con Sua Eccellenzia come duca e non come
mercatante. Fecigli le suppliche, alle quale Sua Eccellenzia liberalissimamente
rispose. Dove io dissi: - Singularissimo mio patrone, le vere suppliche e i
veri nostri patti non consistono in queste parole né in questi scritti, ma sí
bene il tutto consiste che io riesca con l'opere mie a quanto io l'ho promesse;
e riuscendo, allora io mi prometto che Vostra Eccellenzia illustrissima
benissimo si ricorderà di quanto la promette a me -. A queste parole
invaghito Sua Eccellenzia e del mio fare e del mio dire, lui e la Duchessa mi
facevano i piú isterminati favori che si possa immaginare al mondo.
Liv. Avendo io grandissimo desiderio di cominciare a lavorare, dissi
a Sua Eccellenzia che io avevo bisogno d'una casa, la quale fussi tale che io
mi vi potessi accomodare con le mie fornaciette, e da lavorarvi l'opere di
terra e di bronzo, e poi, appartatamente, d'oro e d'argento; perché io so che
lui sapeva quanto io ero bene atto a servirlo di queste tale professione; e mi
bisognava stanze comode da poter far tal cosa. E perché Sua Eccellenzia vedessi
quanto io avevo voglia di servirla, di già io avevo trovato la casa, la
quale era a mio proposito, ed era in luogo che molto mi piaceva. E perché io
non volevo prima intaccare Sua Eccellenzia a danari o nulla, che egli vedessi
l'opere mie, avevo portato di Francia dua gioielli, coi quali io pregavo Sua
Eccellenzia che mi comperassi la ditta casa, e quelli salvassi insino attanto
che con l'opere e con le mie fatiche io me la guadagnassi. Gli detti gioielli
erano benissimo lavorati di mano di mia lavoranti, sotto i mia disegni.
Guardati che gli ebbe assai, disse queste animose parole, le quali mi vestirno
di falsa isperanza: - Togliti, Benvenuto, i tua gioielli, perché io voglio te e
non loro; e tu abbi la casa tua libera -. Appresso a questo me ne fece uno
rescritto sotto una mia supplica, la quale ho sempre tenuta. Il detto rescritto
diceva cosí: “Veggasi la detta casa, e a chi sta a venderla, e il pregio che se
ne domanda; perché ne vogliamo compiacere Benvenuto”. Parendomi per questo
rescritto esser sicuro della casa; perché sicuramente io mi promettevo che le
opere mie sarebbono molto piú piaciute di quello che io avevo promesso;
appresso a questo Sua Eccellenzia aveva dato espressa commessione a un certo
suo maiordomo il quale si domandava ser Pier Francesco Riccio. Era da Prato, ed
era stato pedantuzzo del ditto Duca. Io parlai a questa bestia, e dissigli
tutte le cose di quello che io avevo di bisogno, perché dove era orto in detta
casa io volevo fare una bottega. Subito questo uomo dette la commessione a un
certo pagatore secco e sottile, il quale si chiamava Lattanzio Gorini. Questo
omiciattolo con certe sue manine di ragnatelo e con una vociolina di zanzara,
presto come una lumacuzza, pure in malora mi fe' condurre a casa sassi, rena e
calcina tanto, che arebbe servito per fare un chiusino da colombi
malvolentieri. Veduto andar le cose tanto malamente fredde, io mi cominciai a
sbigottire; o pure da me dicevo: - I piccoli principii alcune volte hanno gran
fine - e anche mi dava qualche poco di speranza di vedere quante migliaia di
ducati il Duca aveva gittato via in certe brutte operaccie di scultura, fatte
di mano di quel bestial Buaccio Bandinello. Fattomi da per me medesimo animo,
soffiavo in culo a quel Lattanzio Gurini per farlo muovere; gridavo a
certi asini zoppi e a uno cecolino che gli guidava; e con queste
difficultà, poi con mia danari, avevo segnato il sito della bottega, e
sbarbato alberi e vite: pure, al mio solito, arditamente, con qualche poco di
furore, andavo faccendo. D'altra banda, ero alle man del Tasso legnaiuolo,
amicissimo mio, e allui facevo fare certe armadure di legno per cominciare il
Perseo grande. Questo Tasso era eccellentissimo valente uomo, credo il maggiore
che fussi mai di sua professione: dall'altra banda era piacevole e lieto, e
ogni volta che io andavo dallui, mi si faceva incontro ridendo, con un
canzoncino in quílio. E io, che ero di già piú che mezzo disperato, sí
perché cominciavo a sentire le cose di Francia che andavano male, e di queste
mi promettevo poco per la loro freddezza, mi sforzava a farmi udire sempre
la metà per lo manco di quel suo canzoncino: pure all'utimo alquanto mi
rallegravo seco, sforzandomi di smarrire quel piú che io potevo, quattro di
quei mia disperati pensieri.
Lv. Avendo dato ordine a tutte le sopra ditte cose, e cominciando a
tirare innanzi per apparecchiarmi piú presto a questa sopra ditta impresa - di
già era spento parte della calcina - innun tratto io fui chiamato dal
sopra ditto maiodomo; e io, andando a lui, lo trovai dopo il desinare di Sua
Eccellenzia in sulla sala detta dell'Oriuolo; e fattomigli innanzi, io allui
con grandissima riverenza, e lui a me con grandissima rigidità, mi
domandò chi era quello che m'aveva messo in quella casa, e con che
autorità io v'avevo cominciato drento a murare; e che molto si
maravigliava di me, che io fussi cosí ardito prosuntuoso. A questo io risposi
che innella casa m'aveva misso Sua Eccellenzia, e in nome di Sua Eccellenzia
Sua Signoria, la quale aveva dato le commessione a Lattanzio Gurini; e il detto
Lattanzio aveva condotto pietra, rena, calcina, e dato ordine alle cose che io
avevo domandato - e di tanto diceva avere aùto commessione da Vostra
Signoria -. Ditto queste parole, quella ditta bestia mi si volse con maggiore
agrezza che prima, e mi disse che né io né nessuno di quelli che io
avevo allegato, non dicevano la verità. Allora io mi risenti' e gli
dissi: - O maiordomo, insino a tanto che Vostra Signoria parlerà sicondo
quel nobilissimo grado in che quella è involta, io la riverirò e
parlerò allei con quella sommissione che io fo al Duca; ma faccendo
altrimenti, io le parlerò come a un ser Pier Francesco Riccio. -. Questo
uomo venne in tanta còllora, che io credetti che volesse impazzare
allora, per avanzar tempo da quello che i cieli determinato gli aveano; e mi
disse, insieme con alcune ingiuriose parole, che si maravigliava molto di
avermi fatto degno che io parlassi a un suo pari. A queste parole io mi mossi e
dissi: - Ora ascoltatemi, ser Pier Francesco Riccio, che io vi dirò chi
sono i mia pari, e chi sono i pari vostri, maestri d'insegnar leggere a'
fanciulli -. Ditto queste parole, quest'uomo con arroncigliato viso alzò
la voce, replicando piú temerariamente quelle medesime parole. Alle quali
ancora io acconciomi con 'l viso de l'arme, mi vesti' per causa sua d'un poco
di presunzione, e dissi che li pari mia eran degni di parlare a papi e a
imperatori e a gran re; e che delli pari mia n'andava forse un per mondo, ma
delli sua pari n'andava dieci per uscio. Quando e' sentí queste parole, salí in
su 'n muricciuolo di finestra, che è in su quella sala; da poi mi disse
che io replicassi un'altra volta le parole che io gli avevo dette; le quale piú
arditamente che fatto non avevo replicai, e di piú dissi che io non mi curavo
piú di servire il Duca, e che io me ne tornerei nella Francia, dove io
liberamente potevo ritornare. Questa bestia restò istupido e di color di
terra, e io arrovellato mi parti' con intenzione di andarmi con Dio; che
volessi Idio che io l'avessi eseguita. Dovette l'Eccellenzia del Duca non saper
cosí al primo questa diavoleria occorsa, perché io mi stetti certi pochi giorni
avendo dimesso tutti i pensieri di Firenze, salvo che quelli della mia sorella
e delle mie nipotine, i quali io andavo accomodando; ché con quel poco che io
avevo portato le volevo lasciare acconcie il meglio che io potevo, e quanto piú
presto da poi mi volevo ritornare in Francia, per non mai piú curarmi di
rivedere la Italia. Essendomi resoluto di spedirmi il piú presto che io potevo,
e andarmene sanza licenzia del Duca o d'altro, una mattina quel sopra ditto
maiordomo da per se medesimo molto umilmente mi chiamò, e messe mano a
una certa sua pedantesca orazione, innella quale io non vi senti' mai né modo
né grazia, né virtú, né principio, né fine: solo v'intesi che disse che faceva
professione di buon cristiano, e che non voleva tenere odio con persona, e mi
domandava da parte del Duca che salario io volevo per mio trattenimento. A
questo io stetti un poco sopra di me e non rispondevo, con pura intenzione di
non mi voler fermare. Vedendomi soprastare sanza risposta, ebbe pur tanta virtú
che egli disse: - O Benvenuto, ai duchi si risponde; e quello che io ti dico te
lo dico da parte di Sua Eccellenzia -. Allora io dissi che dicendomelo da parte
di Sua Eccellenzia, molto volentieri io volevo rispondere; e gli dissi che
dicessi a Sua Eccellenzia come io non volevo esser fatto secondo a nessuno di
quelli che lui teneva della mia professione. Disse il maiordomo: - Al
Bandinello si dà dugento scudi per suo trattenimento, sicché, se tu ti
contenti di questo, il tuo salario è fatto -. Risposi che ero contento,
e che quel che io meritassi di piú, mi fussi dato da poi vedute l'opere mie, e
rimesso tutto nel buon giudizio di Sua Eccellenzia illustrissima: cosí contra
mia voglia rappiccai il filo e mi messi a lavorare, faccendomi di continuo il
Duca i piú smisurati favori che si potessi al mondo immaginare.
LVI. Avevo aùto molto ispesso lettere di
Francia da quel mio fidelissimo amico messer Guido Guidi: queste lettere per
ancora non mi dicevano se non bene; quel mio Ascanio ancora lui m'avvisava
dicendomi che io attendessi a darmi buon tempo, e che, se nulla occorressi, me
l'arebbe avvisato. Fu riferito al Re come io m'ero messo a lavorare per il duca
di Firenze; e perché questo uomo era il miglior del mondo, molte volte disse: -
Perché non torna Benvenuto? - E dimandatone particularmente quelli mia giovani,
tutti a dua gli dissono che io scrivevo loro che stavo cosí bene, e che
pensavano che io non avessi piú voglia di tornare a servire Sua Maestà.
Trovato il Re in còllora, e sentendo queste temerarie parole, le quale
non vennono mai da me, disse: - Da poi che s'è partito da noi sanza
causa nessuna, io non lo dimanderò mai piú; sí che stiesi dove gli
è -. Questi ladroni assassini avendo condutta la cosa a quel termine che
loro desideravono, perché ogni volta che io fossi ritornato in Francia loro si
ritornavano lavoranti sotto a di me come gli erano in prima, per il che, non
ritornando, loro restavano liberi e in mio scambio, per questo e' facevano
tutto il loro sforzo perché io non ritornassi.
LVII. In
mentre che io facevo murare la bottega per cominciarvi drento il Perseo, io
lavoravo in una camera terrena, innella quale io facevo il Perseo di gesso,
della grandezza che gli aveva da essere, con pensiero di formarlo da quel di
gesso. Quando io viddi che il farlo per questa via mi riusciva un po' lungo,
presi un altro espediente, perché di già era posto sú, di mattone sopra
mattone, un poco di bottegaccia, fatta con tanta miseria, che troppo mi offende
il ricordarmene. Cominciai la figura della Medusa, e feci una ossatura di
ferro; di poi la cominciai a far di terra, e fatta che io l'ebbi di terra, io
la cossi. Ero solo con certi fattoruzzi, infra i quali ce ne era uno molto
bello: questo si era figliuolo d'una meretrice, chiamata la Gambetta. Servivomi
di questo fanciullo per ritrarlo, perché noi non abbiamo altri libri [che ci
insegnin l'arte, altro che il naturale]. Cercavo di pigliar de' lavoranti per
ispedir presto questa mia opera, e non ne potevo trovare, e da per me solo io
non potevo fare ogni cosa. Eracene qualcuno in Firenze che volentieri sarebbe
venuto, ma il Bandinello subito m'impediva che non venissino; e faccendomi
stentare cosí un pezzo, diceva al Duca che io andavo cercando dei sua
lavoranti, perché da per me non era mai possibile che io sapessi mettere
insieme una figura grande. Io mi dolsi col Duca della gran noia che mi dava
questa bestia, e lo pregai che mi facessi avere qualcun di quei lavoranti dell'Opera.
Queste mie parole furno causa di far credere al Duca quello che gli diceva il
Bandinello. Avvedutomi di questo, io mi disposi di far da me quanto io potevo.
E messomi giú con le piú estreme fatiche che immaginar si possa, in questo che
io giorno e notte m'affaticavo, si ammalò il marito della mia sorella, e
in brevi giorni si morí. Lasciòmi la mia sorella, giovane, con sei
figliuole fra piccole e grande: questo fu il primo gran travaglio che io ebbi
in Firenze: restar padre e guida d'una tale isconfitta.
LVIII. Desideroso
pure che nulla non andassi male, essendo carico il mio orto di molte brutture,
chiamai due manovali, e' quali mi furno menati dal Ponte Vecchio: di questi ce
n'era uno vecchio di sessant'anni, l'altro si era giovane di diciotto. Avendogli
tenuti circa tre giornate, quel giovane mi disse che quel vecchio non voleva
lavorare e che io facevo meglio a mandarlo via, perché non tanto che lui non
voleva lavorare, impediva il giovane che non lavorassi: e mi disse che quel
poco che v'era da fare, lui se lo poteva fare da sé, sanza gittar via e' denari
in altre persone: questo aveva nome Bernardino Manellini di Mugello. Vedendolo
io tanto volentieri affaticarsi, lo domandai se lui si voleva acconciar meco
per servidore: al primo noi fummo d'accordo. Questo giovane mi governava un
cavallo, lavorava l'orto, di poi s'ingegnava d'aiutarmi in bottega, tanto che a
poco a poco e' cominciò a 'nparare l'arte con tanta gentilezza che io
non ebbi mai migliore aiuto di quello. E risolvendomi di far con costui ogni
cosa, cominciai a mostrare al Duca che 'l Bandinello direbbe le bugie, e che io
farei benissimo sanza i lavoranti del Bandinello. Vennemi in questo tempo un
poco di male alle rene; e perché io non potevo lavorare, volentieri mi stavo in
guardaroba del Duca con certi giovani orefici, che si domandavano Gianpagolo e
Domenico Poggini, ai quali io facevo fare uno vasetto d'oro, tutto lavorato di
basso rilievo, con figure e altri belli ornamenti: questo era per la Duchessa,
il quale Sua Eccellenzia faceva fare per bere dell'acqua. Ancora mi richiese
che io le facesse una cintura d'oro; e anche quest'opera ricchissimamente, con
gioie e con molte piacevole invenzione di mascherette e d'altro: questa se le
fece. Veniva a ogni poco il Duca in questa guardaroba, e pigliavasi piacere
grandissimo di veder lavorare, e di ragionare con esso meco. Cominciato un poco
a migliorare delle mie rene, mi feci portar della terra, e in mentre che 'l
Duca si stava quivi a passar tempo, io lo ritrassi, faccendo una testa assai
maggiore del vivo. Di questa opera Sua Eccellenzia ne prese grandissimo piacere
e mi pose tanto amore, che lui mi disse che gli sarebbe stato grandissimo
appiacere che io mi fussi accomodato a lavorare in Palazzo, cercandomi in esso
palazzo di stanze capace, le quale io mi dovessi fare acconciare con le
fornacie e con ciò che io avessi di bisogno; perché pigliava piacere di
tal cose grandissimo. A questo io dissi a Sua Eccellenzia, che non era
possibile, perché io non arei finito l'opere mia in cento anni.
LIX. La
Duchessa mi faceva favori inistimabili, e arebbe voluto che io avessi atteso a
lavorare per lei, e non mi fussi curato né di Perseo né di altro. Io, che mi
vedevo in questi vani favori, sapevo certo che la mia perversa e mordace
fortuna non poteva soprastare a farmi qualche nuovo assassinamento; perché
ogniora mi s'appresentava innanzi el gran male che io avevo fatto, cercando di
fare un sí gran bene: dico quanto alle cose di Francia. Il Re non poteva
inghiottire quel gran dispiacere che gli aveva della mia partita, e pure arebbe
voluto che io fussi ritornato, ma con ispresso suo onore: a me pareva avere
molte gran ragione, e non mi volevo dichinare; perché pensavo, se io mi fussi
dichinato a scrivere umilmente, quelli uomini alla franciosa arebbono detto che
io fussi stato peccatore e che e' fussi stato il vero certe magagne, che a
torto m'erano aposte. Per questo io stavo in su l'onorevole, e, come uomo che
ha ragione, iscrivevo rigorosamente, quale era il maggior piacere che potevano
avere quei dua traditori mia allevati: perché io mi vantavo, scrivendo loro,
delle gran carezze che m'era fatte nella patria mia da un Signore e da una
Signora, assoluti patroni della città di Firenze, mia patria. Come
eglino avevano una di queste cotal lettere, andavano dal Re e strignevano Sua
Maestà a dar loro il mio castello, in quel modo che l'aveva dato a me.
Il Re, qual era persona buona e mirabile, mai volse acconsentire alle temerarie
dimande di questi gran ladroncelli, perché si era cominciato a 'vedere a quel
che loro malignamente espiravano: e per dar loro un poco di speranza e a me
occasione di tornar subito, mi fece iscrivere alquanto in còllora da un
suo tesauriere, che si dimandava messer Giuliano Buonaccorsi, cittadino
fiorentino. La lettera conteneva questo: che, se io volevo mantenere quel nome
de l'uomo da bene che io v'avevo portato, da poi che io me n'ero partito sanza
nessuna causa, ero veramente ubrigato a render conto di tutto quello che io
avevo maneggiato e fatto per Sua Maestà. Quando io ebbi questa lettera,
mi dette tanto piacere, che a chiedere a lingua, io non arei domandato né piú
né manco. Messomi a scrivere, empie' nove fogli di carta ordinaria; e in quegli
narrai tritamente tutte l'opere che io avevo fatte e tutti gli accidenti che io
avevo aúti in esse, e tutta la quantità de' denari che s'erano ispesi in
dette opere, i quali tutti s'erano dati per mano di dua notari e d'un suo
tesauriere, e sottoscritti da tutti quelli proprii uomini che gli avevano aúti,
i quali alcuno aveva dato delle robe sue e gli altri le sue fatiche; e che di
essi danari io non m'ero messo un sol quattrino in borsa, e che delle opere mie
finite io non avevo aùto nulla al mondo; solo me ne avevo portato in
Italia alcuni favori e promesse realissime, degne veramente di Sua
Maestà. E se bene io non mi potevo vantare d'aver tratto nulla altro
delle mie opere, che certi salari ordinatimi da Sua Maestà per mio
trattenimento, e di quelli anche restavo d'avere piú di settecento
scudi d'oro, i quali apposta io lasciai, perché mi fussino mandati per il mio
buon ritorno; - però, conosciuto che alcuni maligni per propia invidia
hanno fatto qualche malo uffizio, la verità ha a star sempre di sopra:
io mi glorio di Sua Maestà cristianissima, e non mi muove
l'avarizia. Se bene io cognosco d'avere attenuto molto piú a Sua Maestà
di quello che io mi offersi di fare: e se bene a me non è conseguito il
cambio promissomi, d'altro non mi curo al mondo, se non di restare, nel
concetto di Sua Maestà, uomo da bene e netto, tal quale io fui sempre. E
se nessun dubbio di questo fussi in Vostra Maestà, a un minimo cenno
verrò volando a render conto di me, con la propia vita: ma vedendo tener
cosí poco conto di me, non son voluto tornare a offerirmi, saputo che a me
sempre avanzerà del pane dovunche io vada: e quando io sia chiamato,
sempre risponderò -. Era in detta lettera molti altri particulari degni
di quel maraviglioso Re e della salvazione dell'onor mio. Questa lettera,
innanzi che io la mandassi, la portai al mio Duca, il quale ebbe molto piacere
di vederla; di poi subito la mandai in Francia, diritta al cardinal di Ferrara.
LX. In questo tempo Bernardone Baldini, sensale
di gioie di Sua Eccellenzia, aveva portato di Vinezia un diamante grande, di
piú di trentacinque carati di peso: eraci Antonio di Vittorio Landi ancora lui
interessato per farlo comperare al Duca. Questo diamante era stato già
una punta, ma perché e' non riusciva con quella limpidità fulgente, che
a tal gioia si doveva desiderare, li padroni di esso diamante avevano ischericato
questa ditta punta, la quale veramente non faceva bene né per tavola né per
punta. Il nostro Duca, che si dilettava grandemente di gioie, ma però
non se ne intendeva, dette sicura isperanza a questo ribaldone di Bernardaccio
di volere comperare questo ditto diamante. E perché questo Bernardo cercava di
averne l'onore lui solo, di questo inganno che voleva fare al Duca di Firenze,
mai non conferiva nulla con il suo compagno, il ditto Antonio Landi. Questo
ditto Antonio era molto mio amico per insino da puerizia, e perché lui vedeva
che io ero tanto domestico con il mio Duca, un giorno infra gli altri mi
chiamò da canto - era presso a mezzodí, e fu in sul canto di Mercato
Nuovo - e mi disse cosí: - Benvenuto, io son certo che 'l Duca vi mostrerrà
un diamante, il quale e' dimostra aver voglia di comperarlo: voi vedrete un
gran diamante. Aiutate la vendita; e io vi dico che io lo posso dare per
diciasette mila scudi: io son certo che il Duca vorrà il vostro
consiglio; se voi lo vedete inclinato bene al volerlo, e' si farà cosa
che lo potrà pigliare -. Questo Antonio mostrava di avere una gran
sicurtà nel poter far partito di questa gioia. Io li promessi
che, essendomi mostra e di poi domandato del mio parere, io arei detto tutto
quello che io intendessi, senza danneggiare la gioia. Sí come io ho detto di
sopra, il Duca veniva ogni giorno in quella oreficeria per parecchi ore; e dal
dí che m'aveva parlato Antonio Landi piú di otto giorni dappoi, il Duca mi
mostrò un giorno doppo desinare questo ditto diamante, il quale io
ricognobbi per quei contra segni che m'aveva detto Antonio Landi e della forma
e del peso. E perché questo ditto diamante era d'un'acqua, sí come io dissi di
sopra, torbidiccia e per quella causa avevano ischericato quella punta,
vedendolo io di quella sorte, certo l'arei isconsigliato a far tale ispesa;
però, quando e' me lo mostrò, io domandai Sua Eccellenzia quello
che quella voleva che io dicessi, perché gli era divario a' gioiellieri a il
pregiare una gioia, di poi che un Signore l'aveva compera, o al porgli pregio
perché quello la comperassi. Allora Sua Eccellenzia mi disse che l'aveva compro
e che io dicessi solo il mio parere. Io non volsi mancare di non gli accennare
modestamente quel poco che di quella gioia io intendevo. Mi disse che io
considerassi la bellezza di quei gran filetti che l'aveva. Allora io dissi che
quella non era quella gran bellezza che Sua Eccellenzia s'immaginava e che
quella era una punta ischericata. A queste parole il mio Signore, che s'avvedde
che io dicevo il vero, fece un mal grugno e mi disse che io attendessi a stimar
la gioia e giudicare quello che mi pareva che la valessi. Io che pensavo che,
avendomelo Antonio Landi offerto per diciasette mila scudi, mi credevo che il
Duca l'avessi aùto per quindici mila il piú, e per questo io, che
vedevo che lui aveva per male che io gli dicessi il vero, pensai di mantenerlo
nella sua falsa oppinione, e pòrtogli il diamante, dissi: - Diciotto
mila scudi avete ispeso -. A queste parole il Duca levò un rumore, faccendo
uno O piú grande che una bocca di pozzo, e disse: - Or cred'io che tu
non te ne intendi -. Dissi allui: - Certo, Signor mio, che voi credete male:
attendete a tenere la vostra gioia in riputazione e io attenderò a
intendermene. Ditemi almanco quello che voi vi avete speso drento, acciò
che io impari a intendermene sicondo i modi di Vostra Eccellenzia -. Rizzatosi
il Duca con un poco di sdegnoso ghigno, disse: - Venticinque mila iscudi e da
vantaggio, Benvenuto, mi costa - e andato via. A queste parole
era alla presenza Gianpagolo e Domenico Poggini, orefici; e il Bachiacca ricamatore,
ancora lui, che lavorava in una stanza vicina alla nostra, corse a quel rimore;
dove io dissi: - Io non l'arei mai consigliato che egli lo comperassi; ma
se pure egli n'avessi aùto voglia, Antonio Landi otto giorni fa me lo
offerse per diciasette mila scudi; io credo che io l'arei aùto per
quindici o manco. Ma il Duca vuol tenere la sua gioia in riputazione; perché
avendomela offerta Antonio Landi per un cotal prezzo, diavol che Bernardone
avessi fatto al Duca una cosí vituperosa giunteria! - E non credendo mai che
tal cosa fussi vera, come l'era, ridendo ci passammo quella
simplicità del Duca.
LXI. Avendo
di già condotto la figura della gran Medusa, sí come io dissi, avevo
fatto la sua ossatura di ferro: di poi fattala di terra, come di notomia, e
magretta un mezzo dito, io la cossi benissimo; di poi vi messi sopra la cera e
fini'la innel modo che io volevo che la stessi. Il Duca, che piú volte l'era
venuta a vedere, aveva tanta gelosia che la non mi venissi di bronzo, che egli
arebbe voluto che io avessi chiamato qualche maestro che me la gittassi. E
perché Sua Eccellenzia parlava continuamente e con grandissimo favore delle mie
saccenterie, il suo maiordomo, che continuamente cercava di qualche lacciuolo
per farmi rompere il collo, e perché gli aveva l'autorità di comandare
a' bargelli e a tutti gli uffizi della povera isventurata città di
Firenze, che un pratese, nimico nostro, figliuol d'un bottaio, ignorantissimo,
per essere stato pedante fradicio di Cosimo de' Medici innanzi che fussi duca,
fussi venuto in tanta grande autorità, sí come ho detto, stando
vigilante quanto egli poteva per farmi male, veduto che per verso nessuno lui
non mi poteva appiccare ferro addosso, pensò un modo di far qualcosa. E
andato a trovare la madre di quel mio fattorino, che aveva nome Cencio, e lei
la Gambetta, dettono uno ordine, quel briccon pedante e quella furfante
puttana, di farmi uno spavento, acciò che per quello, io mi fussi andato
con Dio. La Gambetta, tirando all'arte sua, uscí, di commessione di quel pazzo
ribaldo pedante maiordomo: e perché gli avevano ancora indettato il bargello,
il quale era un certo bolognese, che per far di queste cose il Duca lo
cacciò poi via; venendo un sabato sera, alle tre ore di notte mi venne a
trovare la ditta Gambetta con il suo figliuolo, e mi disse che ella l'aveva
tenuto parecchi dí rinchiuso per la salute mia. Alla quale io risposi che per
mio conto lei non lo tenessi rinchiuso: e ridendomi della sua puttanesca arte,
mi volsi al figliuolo in sua presenza e gli dissi: - Tu lo sai, Cencio, se io
ho peccato teco - il qual piagnendo disse che no. Allora la madre, scotendo il
capo, disse al figliuolo: - Ahi ribaldello, forse che io non so come si fa? -
poi si volse a me, dicendomi che io lo tenessi nascosto in casa, perché il
bargello ne cercava, e che l'arebbe preso ad ogni modo fuor di casa mia; ma che
in casa mia non l'arebbon tocco. A questo io le dissi che in casa mia io
aveva la sorella vedova con sei sante figlioline, e che io non volevo, in casa
mia, persona. Allora lei disse che 'l maiordomo aveva dato le commessione al
bargello e che io sarei preso a ogni modo; ma poiché io non volevo pigliare il
figliuolo in casa, se io le davo cento scudi potevo non dubitar piú di nulla,
perché essendo il maiordomo tanto grandissimo suo amico, io potevo star sicuro
che lei gli arebbe fatto fare tutto quel che allei piaceva, purché io le dessi
li cento scudi. Io ero venuto in tanto furore, col quale io le dissi: - Levamiti
d'innanzi, vituperosa puttana, che se non fussi per onor di mondo e per la
innocenzia di quello infelice figliuolo che tu hai quivi, io ti arei di
già iscannata con questo pugnaletto, che dua o tre volte ci ho messo su
le mane -. E con queste parole, con molte villane urtate, lei e 'l
figliuolo pinsi fuor di casa.
LXII. Considerato
poi da me la ribalderia e possanza di quel mal pedante, giudicai che il mio
meglio fussi di dare un poco di luogo a quella diavoleria, e la mattina di
buon'ora, consegnato alla mia sorella gioie e cose per vicino a dumila scudi,
montai a cavallo e me ne andai alla volta di Vinezia, e menai meco quel mio
Bernardino di Mugello. E giunto che io fui a Ferrara, io scrissi alla
Eccellenzia del Duca che se bene io me n'ero ito sanza esserne mandato, io
ritornerei sanza esser chiamato. Di poi, giunto a Vinezia, considerato con
quanti diversi modi la mia crudel fortuna mi straziava, niente di manco
trovandomi sano e gagliardo mi risolsi di schermigliar con essa al mio solito.
E in mentre andavo cosí pensando a' fatti miei, passandomi tempo per quella
bella e ricchissima città, avendo salutato quel maraviglioso Tiziano
pittore e Iacopo del Sansovino, valente scultore e architetto nostro fiorentino
molto ben trattenuto dalla Signoria di Venezia, e per esserci conosciuti nella
giovanezza in Roma e in Firenze come nostro fiorentino, questi duoi virtuosi mi
feciono molte carezze. L'altro giorno a presso io mi scontrai in messer Lorenzo
de' Medici, il quale subito mi prese per mano con la maggior raccoglienzia che
si possa veder al mondo, perché ci eràmo cognosciuti in Firenze quando
io facevo le monete al duca Lessandro, e di poi in Parigi, quando io ero al
servizio del Re. Egli si tratteneva in casa di messer Giuliano Buonacorsi, e per
non aver dove andarsi a passar tempo altrove sanza grandissimo suo pericolo,
egli si stava piú del tempo in casa mia, vedendomi lavorare quelle grand'opere.
E sí come io dico, per questa passtata conoscenzia, egli mi prese per mano e
menòmi a casa sua, dov'era il signor Priore delli Strozzi, fratello del
signor Pietro, e rallegrandosi, mi domandorno quanto io volevo soprastare in
Venezia, credendosi che io me ne volessi ritornare in Francia. A' quali Signori
io dissi che io mi ero partito di Fiorenze per una tale occasione sopra detta,
e che fra dua o tre giorni io mi volevo ritornare a Fiorenze a servire il mio
gran Duca. Quando io dissi queste parole, il signor Priore e messer Lorenzo mi
si volsono con tanta rigidità, che io ebbi paura grandissima, e mi dissono:
- Tu faresti il meglio a tornartene in Francia, dove tu sei ricco e conosciuto;
che se tu torni a Firenze, tu perderai tutto quello che avevi guadagnato in
Francia, e di Firenze non trarrai altro che dispiaceri -. Io non risposi alle
parole loro, e partitomi l'altro giorno piú secretamente che io possetti, me ne
tornai alla volta di Fiorenze, e intanto era maturato le diavolerie, perché io
avevo scritto al mio gran Duca tutta l'occasione che mi aveva traportato a
Venezia. E con la sua solita prudenzia e severità, io lo visitai senza
alcuna cerimonia; stato alquanto con la detta severità, di poi
piacevolmente mi si volse e mi domandò dove io ero stato. Al quale io
risposi che il cuor mio mai non si era scostato un dito da Sua Eccellenzia
illustrissima, se bene per qualche giuste occasioni e' mi era stato di
necessità di menare un poco il mio corpo a zonzo. Allora faccendosi piú
piacevole, mi cominciò a domandar di Vinezia e cosí ragionammo un pezzo;
poi ultimamente mi disse che io attendessi a lavorare e che io gli finissi il
suo Perseo. Cosí mi tornai a casa lieto e allegro, e rallegrai la mia famiglia,
cioè la mia sorella con le sue sei figliuole, e ripreso l'opere mie, con
quanta sollecitudine io potevo le tiravo innanzi.
Lxiii. E la prima opera che io gittai di bronzo fu quella testa grande,
ritratto di Sua Eccellenzia, che io avevo fatta di terra nell'oreficerie,
mentre che io avevo male alle stiene. Questa fu un'opera che piacque e io non
la feci per altra causa se non per fare sperienzia delle terre da gittare il
bronzo. E se bene io vedevo che quel mirabil Donatello aveva fatto le sue opere
di bronzo, quale aveva gittate con la terra di Firenze, e' mi pareva
che l'avessi condutte con grandissima difficultà; e pensando che venissi
dal difetto della terra, innanzi che io mi mettessi a gittare il mio Perseo, io
volsi fare queste prime diligenzie; per le quali trovai esser buona la terra,
se bene non era stata bene intesa da quel mirabil Donatello, perché con
grandissima difficultà vedevo condotte le sue opere. Cosí, come io dico
di sopra, per virtú d'arte io composi la terra, la quale mi serví benissimo; e,
sí come io dico, con essa gittai la detta testa; ma perché io non avevo ancora
fatto la fornace, mi servi' della fornace di maestro Zanobi di Pagno,
campanaio. E veduto che la testa era ben venuta netta, subito mi messi a fare
una fornacetta nella bottega che mi aveva fatta il Duca, con mio ordine e
disegno, nella propria casa che mi aveva donata; e subito fatto la fornace, con
quanta piú sollecitudine io potevo, mi messi in ordine per gittare la statua
della Medusa, la quale si è quella femmina scontorta che è sotto
i piedi del Perseo. E per essere questo getto cosa difficilissima, io non volsi
mancare di tutte quelle diligenzie che avevo imparato, acciò che non mi
venissi fatto qualche errore; e cosí il primo getto ch'io feci in detta mia
fornacina venne bene superlativo grado, ed era tanto netto ch'e' non pareva
alli amici mia il dovere che io altrimenti la dovessi rinettare; la qualcosa
hanno trovato certi Todeschi e Franciosi, quali dicono e si vantano di
bellissimi secreti di gittare i bronzi senza rinettare; cosa veramente da
pazzi; perché il bronzo, di poi che gli è gittato, bisogna riserarlo con
i martelli e con i ceselli, sí come i maravigliosissimi antichi, e come hanno
ancor fatto i moderni, dico quei moderni ch'hanno saputo lavorare il bronzo.
Questo getto piacque assai a Sua Eccellenzia illustrissima, che piú volte lo
venne a vedere sino a casa mia, dandomi grandissimo animo al ben fare. Ma
possette tanto quella rabbiosa invidia del Bandinello, che, con tanta
sollecitudine intorno alli orecchi di Sua Eccellenzia illustrissima, che gli
fece pensare, che se bene io gittavo qualcuna di queste statue, che mai io non
le metterei insieme, perché l'era in me arte nuova; e che Sua Eccellenzia
doveva ben guardare a non gittare via i sua denari. Possetton tanto queste
parole in quei gloriosi orecchi, che mi fu allentato alcuna spesa di lavoranti;
di modo che io fui necessitato a risentirmi arditamente con Sua Eccellenzia:
dove una mattina, aspettando quella nella via de' Servi, le dissi: - Signor
mio, io non son soccorso d'i miei bisogni, di modo che io sospetto che Vostra
Eccellenzia non diffidi di me; il perché di nuovo le dico che a me basta la
vista di condur tre volte meglio quest'opera, che non fu il modello, sí come io
vi ho promesso.
Lxiv. Avendo detto queste parole a Sua Eccellenzia, e conosciuto che
le non facevan frutto nissuno, perché non ne ritraevo risposta, subito mi crebbe
una stizza, insieme con una passione intollerabile, e di nuovo cominciai a
riparlare al Duca e gli dissi: - Signor mio, questa città veramente
è stata sempre la scuola delle maggior virtute; ma cognosciuto che uno
s'è, avendo imparato qualche cosa, volendo accrescer gloria alla sua
città e al suo glorioso Principe, gli è bene andare a operare
altrove. E che questo, Signor mio, sia il vero, io so che l'Eccellenzia Vostra
ha saputo chi fu Donatello, e chi fu il gran Leonardo da Vinci, e chi è
ora il mirabil Michelagnol Buonarroti. Questi accrescono la gloria per le lor
virtú all'Eccellenzia Vostra; per la qualcosa io ancora spero di far la parte
mia; sí che, Signor mio, lasciatemi andare. Ma Vostra Eccellenzia avvertisca
bene a non lasciare andare il Bandinello, anzi dateli sempre piú che lui non vi
domanda; perché se costui va fuora, gli è tanto la ignoranzia sua
prosuntuosa, che gli è atto a vituperare questa nobilissima Scuola. Or
dàtimi licenzia, Signore, né domando altro delle mie fatiche sino a qui
che la grazia di Vostra Eccellenzia illustrissima -. Vedutomi Sua Eccellenzia a
quel modo resoluto, con un poco di sdegno mi si volse, dicendo: - Benvenuto, se
tu hai voglia di finir l'opera, e' non si mancherà di nulla -. Allora io
lo ringraziai, e dissi che altro desiderio non era il mio, se non di mostrare a
quelli invidiosi che a me bastava la vista di condurre l'opera promessa. Cosí
spiccatomi da Sua Eccellenzia, mi fu dato qualche poco di aiuto; per la qual
cosa fui necessitato a metter mano alla borsa mia, volendo che la mia opera
andassi un poco piú che di passo. E perché la sera io sempre me ne andavo a
veglia nella guardaroba di Sua Eccellenzia, dove era Domenico e Gianpavolo
Poggini, suo fratello, quali lavoravano un vaso di oro, che addietro s'è
detto, per la Duchessa e una cintura d'oro; ancora Sua Eccellenzia m'aveva
fatto fare un modellino d'un pendente, dove andava legato dentro quel diamante
grande che li aveva fatto comperare Bernardone e Antonio Landi. E con tutto che
io fuggissi di non voler far tal cosa, il Duca con tante belle piacevolezze mi
vi faceva lavorare ogni sera in sino alle quattro ore. Ancora mi strigneva con
piacevolissimi modi a far che io vi lavorassi ancora di giorno; alla qual cosa
non volsi mai acconsentire; e per questo io credetti per cosa certa che Sua
Eccellenzia si adirassi meco. E una sera in fra le altre, essendo giunto
alquanto piú tardi che al mio solito, il Duca mi disse: - Tu sia il malvenuto
-. Alle quali parole io dissi: - Signor mio, cotesto non è il mio nome,
perché io ho nome Benvenuto; e perché io penso che l'Eccellenzia Vostra
motteggi meco, io non entrerò in altro -. A questo il Duca disse che
diceva da maledetto senno e non motteggiava e che io avvertissi bene quel che
io facevo, perché gli era venuto alli orecchi che, prevalendomi del suo favore,
io facevo fare or questo or quello. A queste parole io pregai Sua Eccellenzia
illustrissima di farmi degno di dirmi solo un omo che io avevo mai fatto fare
al mondo. Subito mi si volse in collera e mi disse: - Va' e rendi quello che tu
hai di Bernardone: eccotene uno -. A questo io dissi: - Signor mio, io vi
ringrazio, e vi priego mi facciate degno d'ascoltarmi quattro parole: egli
è il vero che e' mi prestò un paio di bilance vecchie e dua ancudine
e tre martelletti piccoli, le qual masserizie oggi son passati quindici giorni
che io dissi al suo Giorgio da Cortona che mandassi per esse; il perché il
detto Giorgio venne per esse lui stesso; e se mai Vostra Eccellenzia
illustrissima truova, che dal di' che io nacqui in qua, io abbia mai nulla di
quello di persona in cotesto modo, se bene in Roma o in Francia, faccia
intender da quelli che li hanno riferite quelle cose o da altri; e trovando il
vero, mi castighi a misura di carboni -. Vedutomi il Duca in grandissima
passione, come Signor discretissimo e amorevole mi si volse e disse: - E' non
si dice a quelli che non fanno li errori; sí che, se l'è come tu di', io
ti vedrò sempre volentieri, come ho fatto per il passato -. A questo io
dissi: - Sappi l'Eccellenzia Vostra che le ribalderie di Bernardone mi
sforzano a domandarla e pregarla, che quella mi dica quel che la spese
nel diamante grande, punta schericata: perché io spero mostrarle perché questo
male omaccio cerca mettermivi in disgrazia -. Allora Sua Eccellenzia mi disse:
- Il diamante mi costò 25 mila ducati: perché me ne domandi tu? -
Perché, Signor mio, il tal dí, alle tal'ore, in sul canto di Mercato nuovo,
Antonio di Vettorio Landi mi disse che io cercassi di far mercato con Vostra
Eccellenzia illustrissima, e di prima domanda ne chiese sedici mila ducati: ora
Vostra Eccellenzia sa quel che la l'ha comperato. E che questo sia il
vero, domandate ser Domenico Poggini e Giampavolo suo fratello, che son qui;
che io lo dissi loro subito, e da poi non ho mai piú parlato, perché
l'Eccellenzia Vostra disse che io non me ne intendevo; onde io pensavo che
quella lo volessi tenere in riputazione. Sappiate, Signor mio, che io me ne
intendo; e quanto all'altra parte fo professione d'esser uomo da bene quanto
altro che sia nato al mondo, e sia chi vuole. Io non cercherò di rubarvi
otto o dieci mila ducati per volta, anzi mi ingegnerò guadagnarli con le
mie fatiche: e mi fermai a servir Vostra Eccellenzia per iscultore, orefice e
maestro di monete; e di riferirle delle cose d'altrui, mai. E questa che io le
dico adesso, la dico per difesa mia, e non ne voglio il quarto: e gnene dico
presente tanti uomini dabbene che son qui, acciò Vostra Eccellenzia
illustrissima non creda a Bernardone ciò che dice -. Subito il Duca si
levò in collera e mandò per Bernardone, il qual fu necessitato a
correre sino a Vinezia, lui e Antonio Landi; quale Antonio mi diceva che non
aveva volsuto dir quel diamante. Gli andorno e tornorno da Vinezia, e
io trovai il Duca, e dissi: - Signore, quel che io vi dissi è vero, e
quel vi disse delle masserizie Bernardone non fu vero; e faresti bene a
farne la pruova, e io mi avviarò al bargello -. A queste parole il Duca
mi si volse, dicendomi: - Benvenuto, attendi a esser omo da bene, come hai
fatto per il passato, e non dubitar mai di nulla -. La cosa andò in fumo
e io non ne senti' mai piú parlare. Attesi a finire il suo gioiello; e
portatolo un giorno finito alla Duchessa, lei stessa mi disse che stimava tanto
la mia fattura quanto il diamante, che li aveva fatto comperar
Bernardaccio, e volse che io gnene appiccassi al petto di mia mano, e mi dette
uno spilletto grossetto in mano, e con quello gnene appiccai, e mi parti' con
molta sua buona grazia. Da poi io intesi che e' l'avevano fatto rilegare a un
tedesco o altro forestiero, salvo 'l vero, perché il detto Bernardone disse che
'l detto diamante mostrerrebbe meglio legato con manco opera.
LXV. Domenico
e Giovanpagolo Poggini, orefici e frategli, lavoravano, sí come io credo d'aver
detto, in guardaroba di Sua Eccellenzia illustrissima cone i miei disegni,
certi vasetti d'oro cesellati, con istorie di figurine di basso rilievo e altre
cose di molta inportanza. E perché io dissi piú volte al Duca: - Signor mio, se
Vostra Eccellenzia illustrissima mi pagassi parecchi lavoranti, io vi farei le
monete della vostra zecca e le medaglie colla testa di Vostra Eccellenzia
illustrissima, le qual farei a gara con gli antichi e arei speranza di
superargli: perché dappoi in qua che io feci le medaglie di papa Clemente io ho
imparato tanto, che io farei molto meglio di quelle: e cosí farei meglio delle
monete che io feci al duca Alessandro, le quale sono ancora tenute belle; e
cosí vi farei de' vasi grandi d'oro e d'argento, sí come io ne ho fatti tanti a
quel mirabil re Francesco di Francia, solo per le gran comodità che ei
m'ha date, né mai s'è perso tempo ai gran colossi né all'altre statue -.
A queste mie parole il Duca mi diceva: - Fa', e io vedrò - né mai mi
dette comodità né aiuto nessuno. Un giorno Sua Eccellenzia illustrissima
mi fece dare parecchi libbre d'argento e mi disse: - Questo è dello
argento delle mie cave, fammi un bel vaso -. E perché io non volevo lasciare in
dietro il mio Perseo e ancora avevo gran volontà di servirlo, io lo
detti da fare, con i miei disegni e modelletti di cera, a un certo ribaldo che
si chiama Piero di Martino, orafo: il quale lo cominciò male e anche non
vi lavorava, di modo che io vi persi piú tempo che se io lo avessi fatto tutto
di mia mano. Cosí avendomi straziato parecchi mesi, e veduto che il detto Piero
non vi lavorava, né manco vi faceva lavorare, io me lo feci rendere, e durai
una gran fatica a riavere, con el corpo del vaso mal cominciato, come io dissi,
il resto dell'argento che io gli avevo dato. Il Duca che intese qualcosa di
questi romori, mandò per il vaso e per i modelli e mai piú mi disse né
perché né per come; basta che con certi mia disegni e' ne fece fare a
diverse persone e a Venezia e in altri luoghi, e fu malissimo servito. La
Duchessa mi diceva spesso che io lavorassi per lei di oreficerie: alla quale io
piú volte dissi, che 'l mondo benissimo sapeva, e tutta la Italia, che io ero
buono orefice; ma che la Italia non aveva mai veduto opere di mia mano di
scultura: - e per l'arte certi scultori arrabbiati, ridendosi di me, mi
chiamano lo scultor nuovo; ai quali io spero di mostrare d'esser scultor
vecchio, se Idio mi darà tanta grazia che io possa mostrar finito 'l mio
Perseo in quella onorata piazza di Sua Eccellenzia illustrissima -. E
ritiratomi a casa, attendevo a lavorare il giorno e la notte, e non mi lasciavo
vedere in Palazzo. E pensando pure di mantenermi nella buona grazia della
Duchessa, io gli feci fare certi piccoli vasetti, grandi come un pentolino di dua
quattrini, d'argento, con belle mascherine in foggia rarissima, all'antica; e
portatole li detti vasetti, lei mi fece la piú grata accoglienza che immaginar
si possa al mondo e mi pagò 'l mio argento e oro che io vi avevo messo.
E io pure mi raccomandavo a Sua Eccellenzia illustrissima pregandola che la
dicessi al Duca, che io avevo poco aiuto a cosí grande opera, e che Sua
Eccellenzia illustrissima doverrebbe dire al Duca, che ei non volessi
tanto credere a quella mala lingua del Bandinello, con la quale e' m'impediva
al finire il mio Perseo. A queste mie lacrimose parole la Duchessa si ristrinse
nelle spalle e pur mi disse: - Per certo che 'l Duca lo doverria pur conoscere,
che questo suo Bandinello non val niente.
LXVI. Io mi stavo in casa, e di rado mi
appresentavo al Palazzo, e con gran sollecitudine lavoravo, per finire la mia
opera; e mi conveniva pagare i lavoranti de il mio; perché, avendomi fatto
pagare certi lavoranti il Duca da Lattanzio Gorini in circa a diciotto mesi ed
essendogli venuto annoia, mi fece levare le commessione, per la qual cosa io
domandai il detto Lattanzio, perché e' non mi pagava. E' mi rispose, menando
certe sue manuzze di ragnatelo, con una vocerellina di zanzara: - Perché
non finisci questa tua opera? E' si crede che tu nolla finirai mai -. Io subito
gli risposi adirato e dissi: - Cosí vi venga il canchero e a voi e attutti
quegli che non credono che io nolla finisca -. E cosí disperato mi ritornai
accasa al mio mal fortunato Perseo, e non senza lacrime, perché mi tornava in
memoria il mio bello stato che io avevo lasciato in Parigi sotto 'l servizio di
quel maraviglioso re Francesco, con el quale mi avanzava ogni cosa, e qui mi
mancava ogni cosa. E parecchi volte mi disposi di gittarmi al disperato: e una
volta infra l'altre io montai in su un mio bel cavalletto, e mi missi cento
scudi accanto, e me n'andai a Fiesole a vedere un mio figliuolino naturale, il
quale tenevo abbalia con una mia comare, moglie di un mio lavorante. E giunto
al mio figliolino lo trovai di buono essere, e io cosí malcontento lo baciai; e
volendomi partire, e' non mi lasciava, perché mi teneva forte colle manine e
con un furore di pianto e strida, che in quell'età di due anni in circa
era cosa piú che maravigliosa. E perché io m'ero resoluto che, se io trovavo 'l
Bandinello, il quale soleva andare ogni sera a quel suo podere sopra
San Domenico, come disperato lo volevo gittare in terra, cosí mi spiccai dal
mio bambino, lasciandolo con quel suo dirotto pianto. E venendomene inverso
Firenze, quando io arrivai alla piazza di San Domenico, appunto il Bandinello
entrava dall'altro lato in su la piazza. Subito resolutomi di fare quella
sanguinosa opera, giunsi allui, e alzato gli occhi, lo vidi senza arme, in su
un muluccio come uno asino e aveva seco un fanciullino dell'età di dieci
anni; e subito che lui mi vidde, divenne di color di morto, e tremava dal capo
ai piedi. Io, conosciuto la vilissima opera, dissi: - Non aver paura, vil
poltrone, che io non ti vo' far degno delle mie busse -. Egli mi guardò
rimesso e non disse nulla. Allora io ripresi la virtú, e ringrazia' Iddio che
per sua vera virtute non aveva voluto che io facessi un tal disordine. Cosí
liberatomi da quel diabolico furore, mi accrebbe animo e meco medesimo dicevo:
- Se Iddio mi dà tanto di grazia che io finisca la mia opera, spero con
quella di ammazzare tutti i mia ribaldi nimici; dove io farò molte
maggiori e piú gloriose le mie vendette, che se io mi fussi sfogato con un solo
- e con questa buona resoluzione mi tornai a casa. In capo di tre giorni io
intesi come quella mia comare mi aveva affogato il mio unico figliolino; il
quale mi dette tanto dolore che mai non senti' il maggiore. Imperò mi
inginocchiai in terra, e non senza lacrime al mio solito ringraziai il mio
Iddio, dicendo: - Signor mio, tu me lo desti, e or tu me t'hai tolto, e di
tutto io con tutto 'l cuor mio ti ringrazio -. E con tutto che 'l gran dolore
mi aveva quasi smarrito, pure, al mio solito, fatto della necessità
virtú, il meglio che io potevo mi andavo accomodando.
LXVII. E'
s'era partito un giovane in questo tempo dal Bandinello, il quale aveva nome
Francesco, figliuolo di Matteo fabbro. Questo detto giovane mi fece domandare
se io gli volevo dare da lavorare; e io fui contento, e lo missi a rinettare la
figura della Medusa, che era di già gittata. Questo giovane, dipoi
quindici giorni, mi disse che aveva parlato con el suo maestro, cioè il
Bandinello, e che lui mi diceva da sua parte che, se io volevo fare una figura
di marmo, che ei mi mandava a offerire di donarmi un bel pezzo di marmo. Subito
io dissi: - Digli che io l'accetto; e potria essere il mal marmo per
lui, perché ei mi va stuzzicando, e non si ricorda il gran pericolo che lui
aveva passato meco in su la piazza di San Domenico: or digli che io lo voglio a
ogni modo. Io non parlo mai di lui e sempre questa bestia mi dà noia: e
mi credo che tu sia venuto a lavorare meco mandato dallui, solo per spiare i
fatti mia. O va, e digli che io vorrò il marmo a suo malgrado; e
ritòrnatene seco.
LXVIII.
Essendo stato di molti giorni che io non m'ero lasciato rivedere in Palazzo,
v'andai una mattina, che mi venne quel capriccio, e il Duca aveva quasi finito
di desinare, e, per quel che io intesi, Sua Eccellenzia aveva la mattina
ragionato e ditto molto bene di me, e infra l'altre cose ei mi aveva molto
lodato in legar gioie; e per questo, come la Duchessa mi vide, la mi fece
chiamare da messer Sforza; e appressatomi a Sua Eccellenzia illustrissima, lei
mi pregò che io le legassi un diamantino in punta innuno anello, e mi
disse che lo voleva portare sempre nel suo dito; e mi dette la misura e 'l
diamante, il quale valeva in circa a cento scudi, e mi pregò che io lo
facessi presto. Subito 'l Duca cominciò a ragionare con la Duchessa e le
disse: - Certo che Benvenuto fu in cotesta arte senza pari; ma ora che lui l'ha
dimessa, io credo che 'l fare uno anellino come voi vorresti, e' gli sarebbe
troppa gran fatica: sí che io vi priego che voi nollo affatichiate in questa
piccola cosa, la quale allui saria grande, per essersi disuso -. A queste
parole io ringraziai el Duca, e poi lo pregai che mi lasciassi fare questo poco
del servizio alla signora Duchessa: e subito messovi le mani, in pochi giorni
lo ebbi finito. L'anello si era per il dito piccolo della mano: cosí feci
quattro puttini tondi con quattro mascherine, le qual cose facevano il detto
anellino: e anche vi accomodai alcune frutte e legaturine smaltate; di modo che
la gioia e l'anello si mostravano molto bene insieme. E subito lo portai alla
Duchessa: la quale con benigne parole mi disse che io gli avevo fatto un lavoro
bellissimo, e che si ricorderebbe di me. Il detto anellino la lo mandò a
donare al re Filippo, e dappoi sempre la mi comandava qualche cosa, ma tanto
amorevolmente, che io sempre mi sforzavo di servirla, con tutto che io vedessi
pochi dinari; e Iddio sa se io ne avevo gran bisogno, perché disideravo di
finire 'l mio Perseo, e avevo trovati certi giovani che mi aiutavano, i quali
io pagavo del mio; e di nuovo cominciai a lasciarmi vedere piú spesso che io
non avevo fatto per il passato.
LXIX. Un giorno di festa in fra gli altri me
n'andai in Palazzo dopo 'l desinare, e giunto in su la sala dell'Oriolo, viddi
aperto l'uscio della guardaroba, e appressatomi un poco, il Duca mi
chiamò, e con piacevole accoglienza mi disse: - Tu sia 'l benvenuto:
guarda quella cassetta, che m'ha mandato a donare 'l signore Stefano di
Pilestina; aprila e guardiamo che cosa l'è -. Subito apertola, dissi al
Duca: - Signor mio, questa è una figura di marmo greco ed è cosa
maravigliosa: dico che per un fanciulletto io non mi ricordo di avere mai
veduto fra le anticaglie una cosí bella opera, né di cosí bella maniera; di
modo che io mi offerisco a Vostra Eccellenzia illustrissima di restaurarvela e
la testa e le braccia, i piedi. E gli farò una aquila, acciò che
e' sia battezzato per un Ganimede. E se bene e' non si conviene a mme il
rattoppare le statue, perché ell'è arte da certi ciabattini, i
quali la fanno assai malamente; imperò l'eccellenzia di questo gran
maestro mi chiama asservirlo -. Piacque al Duca assai che la statua fussi cosí
bella, e mi domandò di assai cose, dicendomi: - Dimmi, Benvenuto mio,
distintamente in che consiste tanta virtú di questo maestro, la quale ti
dà tanta maraviglia -. Allora io mostrai a Sua Eccellenzia illustrissima
con el meglio modo che io seppi, di farlo capace di cotal bellezza e
di virtú di intelligenzia, e di rara maniera; sopra le qual cose io aveva
discorso assai, e molto piú volentieri lo facevo, conosciuto che Sua
Eccellenzia ne pigliava grandissimo piacere.
LXX. In
mentre che io cosí piacevolmente trattenevo 'l Duca, avvenne che un paggio uscí
fuori della guardaroba e che, nell'uscire il detto, entrò il Bandinello.
Vedutolo 'l Duca, mezzo si conturbò, e con cera austera gli disse: - Che
andate voi faccendo? - Il detto Bandinello, sanza rispondere altro, subito
gittò gli occhi a quella cassetta, dove era la detta statua scoperta, e
con un suo mal ghignaccio, scotendo 'l capo, disse volgendosi inverso 'l Duca:
- Signore, queste sono di quelle cose che io ho tante volte dette a Vostra
Eccellenzia illustrissima. Sappiate che questi antichi non intendevano niente
la notomia, e per questo le opere loro sono tutte piene di errori -. Io
mi stavo cheto e non attendevo a nulla di quello che egli diceva, anzi gli
avevo volte le rene. Subito che questa bestia ebbe finita la sua dispiacevol
cicalata, il Duca disse: - O Benvenuto, questo si è tutto 'l contrario
di quello che con tante belle ragioni tu m'hai pure ora sí ben dimostro: sí che
difendila un poco -. A queste ducal parole, portemi con tanta piacevolezza,
subito io risposi e dissi: - Signor mio, vostra Eccellenzia Illustrissima ha da
sapere che Baccio Bandinelli si è composto tutto di male, e cosí ei
è stato sempre; di modo che ciocché lui guarda, subito a' sua
dispiacevoli occhi, se bene le cose sono in sopralativo grado tutto
bene, subito le si convertono innun pessimo male. Ma io, che solo son tirato al
bene, veggo piú santamente 'l vero; di modo che quello che io ho detto di
questa bellissima statua a Vostra Eccellenzia illustrissima si è tutto
il puro vero, e quello che n'ha ditto 'l Bandinello si è tutto quel male
solo, di quel che lui è composto -. Il Duca mi stette a udire con molto
piacere, e in mentre che io dicevo queste cose, il Bandinello si scontorceva e
faceva i piú brutti visi del suo viso, che era bruttissimo, che immaginar si
possa al mondo. Subito 'l Duca si mosse, avviandosi per certe stanze basse, e
il detto Bandinello lo seguitava. I camerieri mi presono per la cappa e me gli
avviorno dietro e cosí seguitammo il Duca, tanto che Sua Eccellenzia
illustrissima, giunto innuna stanza, e' si misse assedere, e il Bandinello e io
stavamo un da destra e un da sinistra di Sua Eccellenzia illustrissima. Io
stavo cheto, e quei che erano all'intorno, parecchi servitori di Sua
Eccellenzia, tutti guardavano fiso 'l Bandinello, alquanto soghignando l'un
coll'altro di quelle parole che io gli avevo detto in quella stanza di sopra.
Cosí il detto Bandinello cominciò a favellare e disse: - Signore, quando
io scopersi il mio Ercole e Cacco, certo che io credo che piú di cento
sonettacci ei mi fu fatti, i quali dicevano il peggio che immaginar si possa al
mondo da questo popolaccio -. Io allora risposi e dissi: - Signore, quando il
nostro Michelagnolo Buonaroti scoperse la sua Sacrestia, dove ei si vidde tante
belle figure, questa mirabile e virtuosa Scuola, amica della verità e
del bene, gli fece piú di cento sonetti, a gara l'un l'altro a chi ne poteva
dir meglio: e cosí come quella del Bandinello meritava quel tanto male che lui
dice che della sua si disse, cosí meritava quel tanto bene quella del
Buonaroti, che di lei si disse -. A queste mie parole il Bandinello venne in
tanta rabbia, che ei crepava, e mi si volse e disse: - E tu che le sapresti
apporre? - Io te lo dirò se tu arai tanta pazienza di sapermi
ascoltare -. Diss'ei: - Or di' su -. Il Duca e gli altri, che erano quivi,
tutti stavano attenti. Io cominciai e in prima dissi: - Sappi ch'ei m 'incresce
di averti a dire e' difetti di quella tua opera, ma none io ti dirò tal
cose, anzi ti dirò tutto quello che dice questa virtuosissima Scuola -.
E perché questo uomaccio or diceva qualcosa dispiacevole e or faceva con le
mani e con i piedi, ei mi fece venire in tanta còllora, che io
cominciai in molto piú dispiacevol modo che, faccendo ei altrimenti, io
nonnarei fatto: - Questa virtuosa Scuola dice che se e' si tosassi i capegli a
Ercole, che e' non vi resterebbe zucca che fussi tanta per riporvi il cervello;
e che quella sua faccia e' non si conosce se l'è di omo o se l'è
di lionbue; e che la non bada a quel che la fa, e che l'è male appiccata
in sul collo, con tanta poca arte e con tanta mala grazia, che e' non si vedde
mai peggio; e che quelle sue spallacce somigliano due arcioni d'un basto d'un
asino; e che le sue poppe e il resto di quei muscoli non son ritratti da un
omo, ma sono ritratti da un saccaccio pieno di poponi, che diritto sia messo,
appoggiato al muro. Cosí le stiene paiono ritratte da un sacco pieno di
zucche lunghe; le due gambe e non si conosce in che modo le si sieno appiccate
a quel torsaccio; perché e' non si conosce in su qual gamba e' posa o in su
quale e' fa qualche dimostrazione di forza; né manco si vede che ei posi in su
tutt'a dua, sí come e' s'è usato alcune volte di fare da quei maestri
che sanno qualche cosa; ben si vede che la cade innanzi piú d'un terzo di
braccio: che questo solo si è 'l maggiore e il piú incomportabile errore
che faccino quei maestracci di dozzina plebe'. Delle braccia dicono che le son
tutt'a dua giú distese senza nessuna grazia, né vi si vede arte, come se mai
voi non avessi visto degl'ignudi vivi, e che la gamba dritta d'Ercole e quella
di Cacco fanno ammezzo delle polpe delle gambe loro; che se un de' dua si
scostassi dall'altro, non tanto l'uno di loro, anzi tutt'a dua resterebbono
senza polpe da quella parte che ei si toccano; e dicono che uno dei piedi di
Ercole si è sotterrato, e che l'altro pare che gli abbia il fuoco sotto.
LXXI. Questo
uomo non potette stare alle mosse d'aver pazienza che io dicessi ancora i gran
difetti di Cacco; l'una si era che io dicevo 'l vero, l'altra si era che io lo
facevo conoscere chiaramente al Duca e agli altri che erano alla presenzia
nostra, che facevano i piú gran segni e atti di dimostrazione di maravigliarsi
e allora conoscere che io dicevo il verissimo. A un tratto quest'uomaccio
disse: - Ahi cattiva linguaccia, o dove lasci tu 'l mio disegno? - Io dissi che
chi disegnava bene e' non poteva operar mai male - imperò io
crederrò che 'l tuo disegno sia come sono le opere -. Or, veduto quei
visi ducali e gli altri, che con gli sguardi e con gli atti lo laceravano, egli
si lasciò vincere troppo dalla sua insolenzia, e voltomisi con quel suo
bruttissimo visaccio, a un tratto mi disse: - Oh sta' cheto, soddomitaccio -. Il
Duca a quella parola serrò le ciglia malamente inverso di lui, e gli
altri serrato le bocche e aggrottato gli occhi inverso di lui. Io, che mi
senti' cosí scelleratamente offendere, sforzato dal furore, e a un tratto,
corsi al rimedio e dissi: - O pazzo, tu esci dei termini: ma Iddio 'l volessi
che io sapessi fare una cosí nobile arte, perché e' si legge ch'e' l'usò
Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e' la usano i maggiori
imperatori e i piú gran re del mondo. Io sono un basso e umile omicciattolo, il
quale né potrei né saprei impacciarmi d'una cosí mirabil cosa -. A questo
nessuno non potette esser tanto continente che 'l Duca e gli altri levorno un
rumore delle maggior risa che immaginar si possa al mondo. E con tutto che io
mi dimostrassi tanto piacevole, sappiate, benigni lettori, che dentro mi
scoppiava 'l cuore, considerato che uno, 'l piú sporco scellerato che mai
nascessi al mondo, fussi tanto ardito, in presenza di un cosí gran principe, a
dirmi una tanta e tale ingiuria; ma sappiate che egli ingiuriò 'l Duca e
non me; perché, se io fussi stato fuor di cosí gran presenza, io l'arei fatto
cader morto. Veduto questo sporco ribaldo goffo che le risa di quei Signori non
cessavano, ei cominciò, per divertirgli da tanta sua beffe, a entrare
innun nuovo proposito, dicendo: - Questo Benvenuto si va vantando che io gli ho
promesso un marmo -. A queste parole io subito dissi: - Come! non m'hai tu
mandato a dire per Francesco di Matteo fabbro, tuo garzone, che se io voglio
lavorar di marmo, che tu mi vuoi donare un marmo? E io l'ho accettato, e vo' lo
-. Allora ei disse: - Oh fa' conto di noll'aver mai -. Subito io, che ero
ripieno di rabbia per le ingiuste ingiurie dettemi in prima, smarrito dalla
ragione e accecato della presenza del Duca, con gran furore dissi: - Io ti dico
espresso che se tu non mi mandi il marmo insino accasa, cèrcati di un
altro mondo, perché in questo io ti sgonfierò a ogni modo -.
Subito avvedutomi che io ero alla presenza d'un sí gran Duca, umilmente mi
volsi a Sua Eccellenzia, e dissi: - Signor mio, un pazzo ne fa cento; le pazzie
di questo omo mi avevano fatto smarrire la gloria di Vostra Eccellenzia
illustrissima e me stesso; sí che perdonatemi -. Allora il Duca disse al
Bandinello: - è egli 'l
vero che tu gli abbia promesso 'l marmo? - Il detto Bandinello disse che gli
era il vero. Il Duca mi disse: - Va all'Opera, e to'tene uno a
tuo modo -. Io dissi che ei me l'aveva promesso di mandarmelo a casa. Le parole
furno terribile; e io innaltro modo nollo volevo. La mattina seguente e' mi fu
portato un marmo accasa; il quale io dimandai chi me lo mandava: e' dissono che
e' me lo mandava 'l Bandinello, e che quello si era 'l marmo che lui mi aveva
promesso.
LXXII. Subito
io me lo feci portare in bottega e cominciai a scarpellarlo; e in mentre che io
lavoravo, io facevo il modello: e gli era tanta la voglia che io avevo di
lavorare di marmo, che io non potevo aspettare di risolvermi a fare un modello
con quel giudizio che si aspetta, a tale arte. E perché io lo sentivo tutto
crocchiare, io mi penti' piú volte di averlo mai cominciato allavorare:
pure ne cavai quel che io potetti, che è l'Appollo e Iacinto, che ancora
si vede imprefetto in bottega mia. E in mentre che io lo lavoravo, il Duca
veniva a casa mia, e molte volte mi disse: - Lascia stare un poco 'l bronzo e
lavora un poco di marmo, che io ti vegga -. Subito io pigliavo i ferri da
marmo, e lavoravo via sicuramente. Il Duca mi domandava del modello che io
avevo fatto per il detto marmo; al quale io dissi: - Signore, questo marmo si è
tutto rotto, ma assuo dispetto io ne caverò qualcosa; imperò io
non mi sono potuto risolvere al modello, ma io andrò cosí faccendo 'l
meglio che io potrò -. Con molta prestezza mi fece venire 'l Duca un
pezzo di marmo greco, di Roma, acciò che io restaurassi il suo Ganimede
antico, qual fu causa della ditta quistione connil Bandinello. Venuto che fu 'l
marmo greco, io considerai che gli era peccato a farne pezzi per farne la testa
e le braccia ell'altre cose per il Ganimede; e mi providdi d'altro marmo, e a
quel pezzo di marmo greco feci un piccol modellino di cera, al quale posi nome
Narciso. E perché questo marmo aveva dua buchi che andavano affondo piú di un
quarto di braccio e larghi dua buone dita, per questo feci l'attitudine che si
vede, per difendermi da quei buchi, di modo che io gli avevo cavati della mia
figura. Ma quelle tante decine d'anni che v'era piovuto sú, perché e' restava
sempre quei buchi pieni d'acqua, la detta aveva penetrato tanto che il detto
marmo si era debilitato; e come marcio in quella parte del buco di sopra; e si
dimostrò dappoi che e' venne quella gran piena d'acqua d'Arno, la quale
alzò in bottega mia piú d'un braccio e mezzo. E perché il detto Narciso
era posato in su un quadro di legno, la detta acqua gli fece dar la volta, per
la quale e' si roppe in su le poppe, e io lo rappiccai; e perché e non si
vedessi quel fesso della appiccatura, io gli feci quella grillanda de'
fiori che si vede che gli ha in sul petto; e me l'andavo finendo accerte ore
innanzi dí, o sí veramente il giorno delle feste, solo per non perdere tempo
dalla mia opera del Perseo. E perché una mattina in fra l'altre io mi
acconciavo certi scarpelletti per lavorarlo, ed e' mi schizzò una verza
d'acciaio sottilissima nell'occhio dritto; ed era tanto entrata dentro
nella pupilla, che in modo nessuno la non si poteva cavare. Io pensavo per
certo di perdere la luce di quell'occhio. Io chiamai in capo di parecchi giorni
maestro Raffaello de' Pilli, cerusico, il quale prese dua pipioni vivi, e
faccendomi stare rovescio in su una tavola, prese i detti pipioni e con un
coltellino forò loro una venuzza che gli hanno nell'alie, di modo che
quel sangue mi colava dentro innel mio occhio; per il qual sangue subito mi
senti' confortare e in ispazio di dua giorni uscí la verza d'acciaio e io
restai libero e migliorato della vista. E venendo la festa di Santa Luscia,
alla quale eravamo presso a tre giorni, io feci uno occhio d'oro di uno scudo
franzese, e gnele feci presentare a una delle sei mie nipotine, figliuole
della Liperata mia sorella, la quale era dell'età di dieci anni in
circa, e con essa io ringraziai Iddio e Santa Luscia; e per un pezzo non volsi
lavorare in sul detto Narciso, ma tiravo innanzi il Perseo colle sopra ditte
difficultà, e m'ero disposto di finirlo e andarmi con Dio.
Lxxiii. Avendo gittata la Medusa, ed era venuta bene, con grande
speranza tiravo il mio Perseo a fine, che lo avevo di cera, e mi promettevo che
cosí bene e' mi verrebbe di bronzo, sí come aveva fatto la detta Medusa. E
perché vedendolo di cera ben finito ei si mostrava tanto bello, che (vedendolo
il Duca aqquel modo e parendogli bello; o che e' fussi stato qualche uno che
avessi dato a credere al Duca che ei non poteva venire cosí di bronzo, o che il
Duca da per sé se lo immaginassi; e venendo piú spesso a casa che ei non
soleva) una volta infra l'altre e' mi disse: - Benvenuto, questa figura non ti
può venire di bronzo, perché l'arte non te lo promette -. A queste
parole di Sua Eccellenzia io mi risenti' grandemente, dicendo: - Signore, io
conosco che Vostra Eccellenzia illustrissima m'ha questa molta poca fede:
e questo io credo che venga perché Vostra Eccellenzia illustrissima crede
troppo a quei che le dicono tanto mal di me, o sí veramente lei non se ne
intende -. Ei non mi lasciò finire appena le parole che disse: - Io fo
professione di intendermene, e me ne intendo benissimo -. Io subito risposi e
dissi: - Sí, come Signore, e non come artista; perché se Vostra Eccellenzia
illustrissima se ne intendessi innel modo che lei crede di intendersene, lei mi
crederrebbe mediante la bella testa di bronzo che io l'ho fatto, cosí grande,
ritratto di Vostra Eccellenzia illustrissima che s'è mandato all'Elba, e
mediante l'avere restauratole il bel Ganimede di marmo con tanta strema
difficultà, dove io ho durato molta maggior fatica che se io lo
avessi fatto tutto di nuovo; e ancora per avere gittata la Medusa, che pur si
vede qui alla presenza di Vostra Eccellenzia: un getto tanto difficile, dove io
ho fatto quello che mai nessuno altro uomo ha fatto innanzi a me, di questa
indiavolata arte. Vedete, Signor mio: io ho fatto la fornace di nuovo, a un
modo diverso dagli altri; perché io, oltre a molte altre diversità e
virtuose iscienze che innessa si vede, io l'ho fatto dua uscite per il bronzo,
perché questa difficile e storta figura innaltro modo nonnera possibile che mai
la venissi: e sol per queste mie intelligenzie l'è cosí ben venuta, la
qual cosa non credette mai nessuno di questi pratici di questa arte. E
sappiate, Signor mio, per certissimo, che tutte le grandi e difficilissime
opere che io ho fatte in Francia sotto quel maravigliosissimo re Francesco,
tutte mi sono benissimo riuscite, solo per il grande animo che sempre quel buon
Re mi dava con quelle gran provvisione, e nel compiacermi di tanti lavoranti
quanto io domandavo; che gli era talvolta che io mi servivo di piú di quaranta
lavoranti, tutti a mia scelta; e per queste cagioni io vi feci tanta
quantità di opere in cosí breve tempo. Or, Signor mio, credetemi e
soccorretemi degli aiuti che mi fanno di bisogno, perché io spero di condurre a
fine una opera che vi piacerà; dove che, se Vostra Eccellenzia
illustrissima mi avvilisce d'animo e non mi dà gli aiuti che mi fanno di
bisogno, gli è impossibile che né io né qualsivoglia uomo mai al mondo
possa fare cosa che bene stia.
Lxxiv. Con gran difficultà stette il Duca a udire queste mie
ragione, che or si volgeva innun verso e or innun altro; e io disperato,
poverello, che mi ero ricordato del mio bello stato che io avevo in Francia,
cosí mi affliggevo. Subito il Duca disse: - Or dimmi, Benvenuto, come è
egli possibile che quella bella testa di Medusa, che è lassú innalto in
quella mano del Perseo, mai possa venire? - Subito io dissi: - Or vedete,
Signor mio, che se Vostra Eccellenzia illustrissima avessi quella cognizione
dell'arte, che lei dice di avere, la non arebbe paura di quella bella testa che
lei dice, che la non venissi; ma sí bene arebbe ad aver paura di questo
piè diritto, il quale si è quaggiú tanto discosto -. A queste mie
parole il Duca mezzo adirato subito si volse a certi Signori che erano con Sua
Eccellenzia illustrissima e disse: - Io credo che questo Benvenuto lo faccia
per saccenteria il contraporsi a ogni cosa - e subito voltomisi con
mezzo scherno, dove tutti quei che erano alla presenza facevano il simile, e'
cominciò a dire: - Io voglio aver teco tanta pazienza di ascoltare che
ragione tu ti saprai immaginare di darmi, che io la creda -. Allora io dissi: -
Io vi darò una tanto vera ragione che Vostra Eccellenzia ne sarà
capacissima - e cominciai: - Sappiate, Signore, che la natura del fuoco si
è di ire all'insú, e per questo le prometto che quella testa di Medusa
verrà benissimo; ma perché la natura del fuoco nonn'è l'andare
all'ingiú, e per avervelo a spignere sei braccia ingiú per forza d'arte, per
questa viva ragione io dico a Vostra Eccellenzia illustrissima che
gli è impossibile che quel piede venga; ma ei mi sarà facile a
rifarlo -. Disse 'l Duca: - O perché non pensavi tu che quel piede venissi
innel modo che tu di' che verrà la testa? - Io dissi: - E' bisognava
fare molto maggiore la fornace, dove io arei potuto fare un ramo di gitto,
grosso quanto io ho la gamba, e con quella gravezza di metallo caldo per forza
ve l'arei fatto andare, dove il mio ramo, che va insino a' piedi quelle sei
braccia che io dico, nonn'è grosso piú che dua dita. Imperò e'
non portava 'l pregio; ché facilmente si racconcerà. Ma quando la mia
forma sarà piú che mezza piena, sí come io spero, da quel mezzo in su,
il fuoco che monta sicondo la natura sua, questa testa di Perseo e quella della
Medusa verranno benissimo: sí che statene certissimo -. Detto che io gli ebbi
queste mie belle ragioni con molte altre infinite, che per nonnessere troppo
lungo io non ne scrivo, il Duca, scotendo il capo, si andò con Dio.
LXXV. Fattomi
da per me stesso sicurtà di buono animo, e scacciato tutti quei pensieri
che di ora innora mi si rappresentavano innanzi (i quali mi facevano spesso
amaramente piangere con el pentirmi della partita mia di Francia, per essere
venuto afFirenze, patria mia dolce, solo per fare una lemosina alle ditte sei
mia nipotine, e per cosí fatto bene vedevo che mi mostrava prencipio
di tanto male), con tutto questo io certamente mi promettevo che, finendo la
mia cominciata opera del Perseo, che tutti i mia travagli si doverriano
convertire in sommo piacere e glorioso bene. E cosí ripreso 'l vigore, con
tutte le mie forze, e del corpo e della borsa, con tutto che pochi dinari e' mi
fussi restati, cominciai a procacciarmi di parecchi cataste di legni di pino,
le quali ebbi dalla pineta de' Seristori, vicino a Monte Lupo; e in mentre che
io l'aspettavo, io vestivo il mio Perseo di quelle terre che io
avevo acconce parecchi mesi in prima, acciò che l'avessino la loro
stagione. E fatto che io ebbi la sua tonaca di terra, che tonaca si dimanda
innell'arte, e benissimo armatola e ricinta con gran diligenzia di ferramenti,
cominciai con lente fuoco a trarne la cera, la quali usciva per molti sfiatatoi
che io avevo fatti, che quanti piú se ne fa, tanto meglio si empie le forme. E
finito che io ebbi di cavar la cera, io feci una manica intorno al mio Perseo,
cioè alla detta forma, di mattoni, tessendo l'uno sopra l'altro, e
lasciavo di molti spazi, dove 'l fuoco potessi meglio esalare: dipoi vi cominciai
a mettere delle legne cosí pianamente, e gli feci fuoco dua giorni e dua notte
continuamente; tanto che, cavatone tutta la cera, e dappoi s'era benissimo
cotta la detta forma, subito cominciai a votar la fossa per sotterrarvi la mia
forma, con tutti quei bei modi che la bella arte ci comanda. Quand'io ebbi
finito di votar la detta fossa, allora io presi la mia forma, e con virtú
d'argani e di buoni canapi diligentemente la dirizzai; e sospesala un braccio
sopra 'l piano della mia fornace, avendola benissimo dirizzata di sorte che la
si spenzolava appunto nel mezzo della sua fossa, pian piano la feci discendere
in sino nel fondo della fornace, e si posò con tutte quelle diligenzie
che immaginar si possano al mondo. E fatto che io ebbi questa bella fatica,
cominciai a incalzarla con la medesima terra che io ne avevo cavata; e
di mano in mano che io vi alzavo la terra, vi mettevo i sua sfiatatoi, i quali
erano cannoncini di terra cotta che si adoperano per gli acquai e altre simil
cose. Come che io vidi d'averla benissimo ferma e che quel modo di incalzarla
con el metter quei doccioni bene ai sua luoghi, e che quei mia lavoranti
avevano bene inteso il modo mio, il quale si era molto diverso da tutti gli
altri maestri di tal professione; assicuratomi che io mi potevo fidare di loro,
io mi volsi alla mia fornace, la quale avevo fatta empiere di molti masselli di
rame e altri pezzi di bronzi; e accomodatigli l'uno sopra l'altro in quel modo
che l'arte ci mostra, cioè sollevati, faccendo la via alle fiamme del fuoco,
perché piú presto il detto metallo piglia il suo calore e con quello si fonde e
riducesi in bagno, cosí animosamente dissi che dessino fuoco alla detta
fornace. E mettendo di quelle legne di pino, le quali per quella
untuosità della ragia che fa 'l pino, e per essere tanto ben fatta la
mia fornacetta, ella lavorava tanto bene, che io fui necessitato assoccorrere
ora da una parte e ora da un'altra con tanta fatica, che la m'era
insopportabile; e pure io mi sforzavo. E di piú mi sopragiunse ch' e' s'appiccò
fuoco nella bottega, e avevamo paura che 'l tetto non ci cadessi addosso;
dall'altra parte di verso l'orto il cielo mi spigneva tant'acqua e vento, che
e' mi freddava la fornace. Cosí combattendo con questi perversi accidenti
parecchi ore, sforzandomi la fatica tanto di piú che la mia forte valitudine di
complessione non potette resistere, di sorte che e' mi saltò una febbre
efimera addosso, la maggiore che immaginar si possa al mondo, per la qual cosa
io fui sforzato andarmi a gittare nel letto. E cosí molto mal contento,
bisognandomi per forza andare, mi volsi a tutti quegli che mi aiutavano, i
quali erano in circa a dieci o piú, infra maestri di fonder bronzo e manovali e
contadini e mia lavoranti particulari di bottega; infra e' quali si era un
Bernardino Mannellini di Mugello, che io m'avevo allevato parecchi anni; e al
detto dissi, dappoi che mi ero raccomandato a tutti: - Vedi, Bernardino mio
caro, osserva l'ordine che io ti ho mostro, e fa presto quanto tu puoi, perché
il metallo sarà presto in ordino: tu non puoi errare, e questi altri
uomini dabbene faranno presto i canali, e sicuramente potrete con questi dua
mandriani dare nelle due spine, e io son certo che la mia forma si
empierà benissimo. Io mi sento 'l maggior male che io mi sentissi mai da
poi che io venni al mondo, e credo certo che in poche ore questo gran male
m'arà morto -. Cosí molto mal contento mi parti' da loro, e me n'andai
alletto.
Lxxvi. Messo che io mi fui nel letto, comandai alle mie serve che
portassino in bottega da mangiare e dabbere attutti; e dicevo loro: - Io non
sarò mai vivo domattina -. Loro mi davano pure animo, dicendomi che 'l
mio gran male si passerebbe, e che e' mi era venuto per la troppa fatica. Cosí
soprastato dua ore con questo gran combattimento di febbre; e di continuo io me
la sentivo crescete, e sempre dicendo - Io mi sento morire - la mia serva, che
governava tutta la casa, che aveva nome monna Fiore di Castel del Rio:
questa donna era la piú valente che nascessi mai e altanto la piú amorevole, e
di continuo mi sgridava, che io mi ero sbigottito, e dall'altra banda mi faceva
le maggiore amorevolezze di servitú che mai far si possa al mondo.
Imperò, vedendomi con cosí smisurato male e tanto sbigottito, con tutto
il suo bravo cuore lei non si poteva tenere che qualche quantità di
lacrime non gli cadessi dagli occhi; e pure lei quanto poteva si riguardava che
io non le vedessi. Stando in queste smisurate tribulazione, io mi veggo entrare
in camera un certo omo, il quale nella sua persona ei mostrava d'essere storto
come una esse maiuscola; e cominciò a dire con un certo suon di voce
mesto, afflitto, come coloro che danno il commandamento dell'anima a quei che
hanno a 'ndare a giostizia, e disse: - O Benvenuto! la vostra opera si è
guasta, e non ci è piú un rimedio al mondo -. Subito che io senti' le
parole di quello sciagurato, messi un grido tanto smisurato, che si sarebbe
sentito dal cielo del fuoco; e sollevatomi del letto presi li mia panni e mi
cominciai a vestire; e le serve e 'l mio ragazzo e ognuno che mi si accostava
per aiutarmi, attutti io davo o calci o pugna, e mi lamentavo dicendo: - Ahi
traditori, invidiosi! Questo si è un tradimento fatto a arte; ma io
giuro per Dio che benissimo i' lo conoscerò e innanzi che io muoia
lascerò di me un tal saggio al mondo, che piú d'uno ne resterà
maravigliato -. Essendomi finito di vestire, mi avviai con cattivo animo
inverso bottega, dove io viddi tutte quelle gente, che con tanta baldanza avevo
lasciate, tutti stavano attoniti e sbigottiti. Cominciai, e dissi: - Orsú intendetemi,
e dappoi che voi non avete o saputo o voluto ubbidire al modo che io
v'insegnai, ubbiditemi ora che io sono con voi alla presenza dell'opera mia; e
non sia nessuno che mi si contraponga, perché questi cotai casi hanno bisogno
di aiuto e non consiglio -. A queste mie parole e' mi rispose un certo maestro
Alessandro Lastricati e disse: - Vedete, Benvenuto, voi vi volete mettere a
fare una impresa, la quale mai nollo promette l'arte, né si può fare in
modo nissuno -. A queste parole io mi volsi con tanto furore e resoluto al
male, che ei e tutti gli altri, tutti a una voce dissono: - Sú, comandate, che
tutti vi aiuteremo tanto quanto voi ci potrete comandare, in quanto si
potrà resistere con la vita -. E queste amorevol parole io mi penso che
ei le dicessino pensando che io dovessi poco soprastare a cascar morto. Subito
andai a vedere la fornace, e viddi tutto rappreso il metallo, la qual cosa si
domanda l'essersi fatto un migliaccio. Io dissi a dua manovali, che andassino
al dirimpetto, in casa 'l Capretta beccaio, per una catasta di legne di
quercioli giovani, che erano secchi di piú di uno anno, le quali legne madonna
Ginevra, moglie del detto Capretta, me l'aveva offerte; e venute che furno le
prime bracciate, cominciai a impiere la braciaiuola. E perché la quercia di
quella sorte fa 'l piú vigoroso fuoco che tutte l'altre sorte di legne, avvenga
che e' si adopera legne di ontano o di pino per fondere per
l'artiglierie, perché è fuoco dolce; oh quando quel migliaccio
cominciò a sentire quel terribil fuoco, ei si cominciò a
schiarire, e lampeggiava. Dall'altra banda sollecitavo i canali, e altri avevo
mandato sul tetto arriparare al fuoco, il quale per la maggior forza di quel
fuoco si era maggiormente appiccato; e di verso l'orto avevo fatto rizzare certe
tavole e altri tappeti e pannacci, che mi riparavano all'acqua.
Lxxvii. Di poi che
io ebbi dato il rimedio attutti questi gran furori, con voce grandissima dicevo
ora a questo e ora a quello: - Porta qua, leva là - di modo che, veduto
che 'l detto migliaccio si cominciava a liquefare, tutta quella brigata con
tanta voglia mi ubbidiva che ogniuno faceva per tre. Allora io feci pigliare un
mezzo pane di stagno, il quale pesava in circa a 6o libbre, e lo gittai in sul
migliaccio dentro alla fornace, il quale, cone gli altri aiuti e di legne e di
stuzzicare or co' ferri e or cone stanghe, in poco spazio di tempo e' divenne
liquido. Or veduto di avere risuscitato un morto, contro al credere di tutti
quegli ignoranti, e' mi tornò tanto vigore che io non mi avvedevo se io
avevo piú febbre o piú paura di morte. Innun tratto ei si sente un romore con
un lampo di fuoco grandissimo, che parve propio che una saetta si fussi creata
quivi alla presenza nostra; per la quale insolita spaventosa paura ogniuno
s'era sbigottito, e io piú degli altri. Passato che fu quel grande romore e
splendore, noi ci cominciammo a rivedere in viso l'un l'altro; e veduto che 'l
coperchio della fornace si era scoppiato e si era sollevato di modo che 'l
bronzo si versava, subito feci aprire le bocche della mia forma e nel
medesimo tempo feci dare alle due spine. E veduto che 'l metallo non correva
con quella prestezza ch'ei soleva fare, conosciuto che la causa forse era per
essersi consumata la lega per virtú di quel terribil fuoco, io feci pigliare
tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a
dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci
gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che 'l mio bronzo
s'era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti
animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là
comandavo, aiutavo e dicevo: - O Dio, che con le tue immense virtú risuscitasti
da e' morti, e glorioso te ne salisti al cielo! - di modo che innun tratto e'
s'empié la mia forma; per la qual cosa io m'inginochiai e con tutto 'l cuore ne
ringraziai Iddio; dipoi mi volsi a un piatto d'insalata che era quivi in sur un
banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi insieme con tutta quella
brigata; dipoi me n'andai nel letto sano ellieto, perché gli era due ore
innanzi il giorno; e come se mai io non avessi aùto un male al mondo,
cosí dolcemente mi riposavo. Quella mia buona serva, senza che io le dicessi
nulla, mi aveva provvisto d'un grasso capponcello; di modo che, quando io mi
levai del letto, che era vicino all'ora del desinare, la mi si fece incontro
lietamente, dicendo: - Oh, è questo uomo quello che si sentiva morire?
Io credo che quelle pugna e calci che voi davi annoi stanotte passata, quando
voi eri cosí infuriato, che con quel diabolico furore che voi mostravi d'avere,
quella vostra tanto smisurata febbre, forse spaventata che voi non dessi ancora
allei, si cacciò a fuggire -. E cosí tutta la mia povera famigliuola,
rimossa da tanto spavento e da tante smisurate fatiche, innun tratto si
mandò a ricomperare, in cambio di quei piatti e scodelle di stagno,
tante stoviglie di terra, e tutti lietamente desinammo, che mai non mi ricordo
in tempo di mia vita né desinare con maggior letizia né con migliore appetito.
Dopo 'l desinare mi vennono a trovare tutti quegli che mi avevano aiutato, i
quali lietamente si rallegravano, ringraziando Iddio di tutto quel che era
occorso, e dicevano che avevano imparato e veduto fare cose, le quali era dagli
altri maestri tenute impossibili. Ancora io, alquanto baldanzoso, parendomi
d'essere un poco saccente, me ne gloriavo; e messomi mano alla mia borsa, tutti
pagai e contentai. Quel mal uomo, nimico mio mortale, di messer Pierfrancesco
Ricci, maiordomo del Duca, con gran diligenzia cercava di intendere come la
cosa si era passata; di modo che quei dua, di chi io avevo aùto sospetto
che mi avessino fatto fare quel migliaccio, gli dissono che io nonnero uno
uomo, anzi ero uno spresso gran diavolo, perché io avevo fatto quello che
l'arte nollo poteva fare; con tante altre gran cose, le quali sarieno state
troppe a un diavolo. Sí come lor dicevano molto piú di quello che era seguito,
forse per loro scusa, il detto maiordomo lo scrisse subito al Duca, il quale
era a Pisa, ancora piú terribilmente e piene di maggior maraviglie che coloro
non gli avevano detto.
LXXVIII.
Lasciato che io ebbi dua giorni freddare la mia gittata opera, cominciai a
scoprirla pian piano; e trovai, la prima cosa, la testa della Medusa, che era
venuta benissimo per virtú degli sfiatatoi, sí come io dissi al Duca che la
natura del fuoco si era l'andare all'insú; di poi seguitai di scoprire il
resto, e trovai l'altra testa, cioè quella del Perseo, che era venuta
similmente benissimo; e questa mi dette molto piú di meraviglia, perché sí come
e' si vede, l'è piú bassa assai bene di quella della Medusa. E perché le
bocche di detta opera si erano poste nel disopra della testa del Perseo e per
le spalle, io trovai che alla fine della detta testa del Perseo si era appunto
finito tutto 'l bronzo che era nella mia fornace. E fu cosa maravigliosa, che
e' non avanzò punto di bocca di getto, né manco non mancò nulla;
che questo mi dette tanta maraviglia, che e' parve propio che la fussi cosa
miracolosa, veramente guidata e maneggiata da Iddio. Tiravo felicemente innanzi
di finire di scoprirla, e sempre trovavo ogni cosa venuto benissimo, in sino a
tanto che e s'arivò al piede della gamba diritta che posa, dove io
trovai venuto il calcagno; e andando innanzi, vedevol essere tutto pieno, di
modo che io da una banda molto mi ralegravo e da un'altra parte mezzo e' m'era
discaro, solo perché io avevo detto al Duca, che e' non poteva venire. Di modo
che finendolo di scoprire, trovai che le dita non erano venute, di detto piede,
e non tanto le dita, ma e' mancava sopra le dita un pochetto, attale che gli
era quasi manco mezzo; e se bene e' mi crebbe quel poco di fatica, io l'ebbi
molto caro, solo per mostrare al Duca che io intendevo quello che io facevo. E
se bene gli era venuto molto piú di quel piede che io non credevo, e' n'era
stato causa che per i detti tanti diversi accidenti il metallo si era piú
caldo, che non promette l'ordine dell'arte; e ancora per averlo aùto
assoccorrerlo con la lega in quel modo che s'è detto, con quei piatti di
stagno, cosa che mai per altri non s'è usata. Or veduta l'opera mia
tanto bene venuta, subito me n'andai a Pisa a trovare il mio Duca; il quale mi
fece una tanto gratissima accoglienza, quanto immaginar si possa al mondo; e il
simile mi fece la Duchessa; e se bene quel lor maiordomo gli aveva avvisati del
tutto, ei parve alloro Eccellenzie altra cosa piú stupenda e piú meravigliosa
il sentirla contare a mme in voce; e quando io venni a quel piede del Perseo,
che non era venuto, sí come io ne avevo avvisato in prima Sua Eccellenzia
illustrissima, io lo viddi empiere di meraviglia, e lo contava alla Duchessa,
si come io gnel' avevo detto innanzi. Ora veduto quei mia Signori tanto
piacevoli inverso di me, allora io pregai il Duca, che mi lasciassi andare
insino a Roma. Cosí benignamente mi dette licenzia, e mi disse che io tornassi
presto affinire 'l suo Perseo, e mi fece lettere di favore al suo imbasciadore,
il quale era Averardo Serristori: ed erano li primi anni di papa Iulio de'
Monti.
LXXIX.
Innanzi che io mi partissi, detti ordine ai mia lavoranti che seguitassino
sicondo 'l modo che io avevo lor mostro. E la cagione perché io andai si fu che
avendo fatto a Bindo d'Antonio Altoviti un ritratto della sua testa, grande
quanto 'l propio vivo, di bronzo, e gnel'avevo mandato insino a Roma, questo
suo ritratto egli l'aveva messo innun suo scrittoio, il quale era molto
riccamente ornato di anticaglie e altre belle cose; ma il detto scrittoio
nonnera fatto per sculture, né manco per pitture, perché le finestre venivano
sotto le dette belle opere, di sorte che, per avere quelle sculture e pitture i
lumi al contrario, le non mostravano bene, in quel modo che le arebbono fatto
se le avessino aùto i loro ragionevoli lumi. Un giorno si abbatté 'l
detto Bindo a essere in su la sua porta, e passando Michelagnolo Buonaroti,
scultore, ei lo pregò che si degnassi di entrare in casa sua a vedere un
suo scrittoio; e cosí lo menò. Subito entrato, e veduto, disse: - Chi
è stato questo maestro che v'ha ritratto cosí bene e con sí bella
maniera? E sappiate che quella testa mi piace come, e meglio qualcosa che
si faccino quelle antiche; e pur le sono delle buone che di loro si veggono; e
se queste finestre fussino lor di sopra, come le son lor di sotto, le
mostrerrieno tanto meglio, che quel vostro ritratto infra queste tante belle
opere si farebbe un grande onore -. Subito partito che 'l detto Michelagnolo si
fu di casa 'l detto Bindo, ei mi scrisse una piacevolissima lettera la quale
diceva cosí:“Benvenuto mio, io v'ho conosciuto tanti anni per il maggiore
orefice che mai ci sia stato notizia; e ora vi conoscerò per scultore
simile. Sappiate che messer Bindo Altoviti mi menò a vedere una testa
del suo ritratto, di bronzo, e mi disse che l'era di vostra mano; io n'ebbi
molto piacere; ma e' mi seppe molto male che l'era messa a cattivo lume, che se
l'avessi il suo ragionevol lume, la si mostrerrebbe quella bella opera che
l'è”. Questa lettera si era piena delle piú amorevol parole e delle piú
favorevole inverso di me: che innanzi che io mi partissi per andare a Roma,
l'avevo mostrata al Duca, il quale la lesse con molta affezione, e mi disse: -
Benvenuto, se tu gli scrivi e faccendogli venir voglia di tornarsene a Firenze,
io lo farei de' Quarantotto -. Cosí io gli scrissi una lettera tanta amorevole,
e innessa gli dicevo da parte del Duca piú l'un cento di quello che io avevo
aùto la commessione; e per non voler fare errore, la mostrai al Duca in
prima che io la suggellassi, e dissi a Sua Eccellenzia illustrissima: -
Signore, io ho forse promessogli troppo -. Ei rispose e disse: - E' merita piú
di quello che tu gli hai promesso, e io gliele atterrò da vantaggio -. A
quella mia lettera Michelagnolo non fece mai risposta, per la qual cosa il Duca
mi si mostrò molto sdegnato seco.
LXXX. Ora,
giunto che io fui a Roma, andai alloggiare in casa del detto Bindo Altoviti: ei
subito mi disse come gli aveva mostro 'l suo ritratto di bronzo a Michelagnolo,
e che ei lo aveva tanto lodato; cosí di questo noi ragionammo molto allungo. Ma
perché gli aveva in mano di mio mille dugento scudi d'oro innoro, i quali il
detto Bindo me gli aveva tenuti insieme di cinque mila simili, che lui ne aveva
prestati al Duca, che quattro mila ve n'era de' sua e in nome suo v'era li mia,
e' me ne dava quel utile della parte mia che e' mi si preveniva; qual fu la
causa che io mi messi a fargli il detto ritratto. E perché quando 'l detto
Bindo lo vide di cera, ei mi mandò a donare 50 scudi d'oro
per un suo ser Giuliano Paccalli notai', che stava seco, i quali dinari io non
gli volsi pigliare e per il medesimo gliele rimandai, e di poi dissi al detto
Bindo: - A me basta che quei mia dinari voi me gli tegniate vivi; e che e' mi
guadagnino qualche cosa - io mi avvidi che gli aveva cattivo animo,
perché in cambio di farmi carezze, come gli era solito di farmi, egli mi si
mostrò rigido; e con tutto che ei mi tenessi in casa, mai non mi si
mostrò chiaro, anzi stava ingrognato. Pure con poche parole la risolvemmo:
io mi persi la mia fattura di quel suo ritratto e il bronzo ancora, e ci
convenimmo che quei mia dinari e' gli tenessi a 15 per cento a vita mia durante
naturale.
LXXXI. In
prima ero ito a baciare i piedi al Papa; e in mentre che io ragionavo col Papa,
sopra giunse messer Averardo Serristori, il quale era imbasciadore del nostro
Duca; e perché io avevo mossi certi ragionamenti con el Papa, con e' quali io
credo che facilmente mi sarei convenuto seco e volentieri mi sarei tornato a
Roma per le gran difficultà che io avevo a Firenze; ma 'l detto
imbasciatore io mi avvidi che egli aveva operato in contrario. Andai a trovare
Michelagnolo Buonaroti e gli replicai quella lettera che di Firenze io gli
avevo scritto da parte del Duca. Egli mi rispose che era impiegato nella fabbrica
di San Piero, e che per cotal causa ei non si poteva partire. Allora io gli
dissi, che da poi che e' s'era resoluto al modello di detta fabbrica, che ei
poteva lasciare il suo Urbino, il quale ubbidirebbe benissimo quando lui gli
ordinassi; e aggiunsi molte altre parole di promesse; dicendogliele dapparte
del Duca. Egli subito mi guardò fiso, e sogghignando disse: - E voi come
state contento seco? - Se bene io dissi che stavo contentissimo, e che io ero
molto ben tratto, ei mostrò di sapere la maggior parte dei mia
dispiaceri; e cosí mi rispose ch'egli sarebbe difficile il potersi partire.
Allora io aggiunsi che ci farebbe 'l meglio a tornare alla sua patria, la quale
era governata da un Signore giustissimo e il piú amatore delle virtute che
mai altro Signore che mai nascessi al mondo. Sí come di sopra ho detto, gli
aveva seco un suo garzone, che era da Urbino, il quale era stato seco di molti
anni e lo aveva servito piú di ragazzo e di serva che d'altro: e il perché si
vedeva, che 'l detto non aveva imparato nulla dell'arte; e perché io avevo
stretto Michelagnolo con tante buone ragione, che e' non sapeva che dirsi
subito, ei si volse al suo Urbino con un modo di domandarlo quel che gnele
pareva. Questo suo Urbino subito, con un suo villanesco modo, co' molta gran
voce cosí disse: - Io non mi voglio mai spiccare dal mio messer Michelagnolo,
insino o che io scorticherò lui o che lui scorticherà me -. A
queste sciocche parole io fui sforzato a ridere, e senza dirgli addio, colle
spalle basse mi volsi, e parti' mi.
LXXXii. Da poi che cosí male io avevo
fatto la mia faccenda con Bindo Altoviti, col perdere la mia testa di bronzo e
'l dargli li mia danari a vita mia, io fui chiaro di che sorte si è la fede
dei mercatanti, e cosí malcontento me ne ritornai a Firenze. Subito andai a
Palazzo per visitare il Duca; e Sua Eccellenzia illustrissima si era a
Castello, sopra 'l Ponte a Rifredi. Trovai in Palazzo messer Pierfrancesco
Ricci, maiordomo, e volendomi accostare al detto per fare le usate cerimonie,
subito con una smisurata maraviglia disse: - Oh tu sei tornato! - e colla
medesima maraviglia, battendo le mani, disse: - Il Duca è a Castello - e
voltomi le spalle si partí. Io non potevo né sapere né immaginare il perché
quella bestia si aveva fatto quei cotai atti. Subito me n'andai a Castello, ed
entrato nel giardino, dove era 'l Duca, io lo vidi di discosto, che quando ei
mi vide, fece segno di meravigliarsi, e mi fece intendere che io me n'andassi.
Io che mi ero promesso che Sua Eccellenzia mi facessi le medesime carezze e
maggiore ancora che ei mi fece quando io andai, or vedendo una tanta
stravaganza, molto malcontento mi ritornai a Firenze; e riprese le mie
faccende, sollicitando di tirare a fine la mia opera, non mi potevo immaginare
un tale accidente da quello che e' si potessi procedere: se non che osservando
in che modo mi guardava messer Sforza e certi altri di quei piú stretti al
Duca, e' mi venne voglia di domandare messer Sforza che cosa voleva dire
questo; il quale cosí sorridendo, disse: - Benvenuto, attendete a essere uomo
dabbene, e non vi curate d'altro -. Pochi giorni appresso mi fu dato
comodità che io parlai al Duca, ed ei mi fece certe carezze torbide e mi
domandò quello che si faceva a Roma: cosí 'l meglio che io seppi
appiccai ragionamento, e gli dissi della testa che io avevo fatta di bronzo a
Bindo Altoviti, con tutto quel che era seguito. Io mi avvidi che gli
stava a 'scoltarmi con grande attenzione: e gli dissi similmente di Michelagnolo
Buonaroti il tutto. Il quale mostrò alquanto sdegno; e delle parole del
suo Urbino, di quello 'scorticamento che gli aveva detto, forte se ne rise; poi
disse: - Suo danno - e io mi parti'. Certo che quel ser Pierfrancesco,
maiordomo, doveva aver fatto qualche male uffizio contra di me cone il Duca, il
quale non gli riuscí: che Iddio amatore della verità mi difese, sí come
sempre insino a questa mia età di tanti smisurati pericoli e' m'ha
scampato, e spero che mi scamperà insino al fine di questa mia, se bene
travagliata, vita; pure vo innanzi, sol per sua virtú, animosamente, né mi
spaventa nissun furore di fortuna o di perverse stelle: sol mi mantenga Iddio
nella sua grazia.
LXXXIII. Or senti un terribile accidente,
piacevolissimo lettore. Con quanta sollicitudine io sapevo e potevo, attendevo
a dar fine alla mia opera, e la sera me n'andavo a veglia nella guardaroba del
Duca, aiutando a quegli orefici che vi lavoravano per Sua Eccellenzia
illustrissima; ché la maggior parte di quelle opere che lor facevano si erano
sotto i mia disegni: e perché io vedevo che 'l Duca ne pigliava molto piacere,
sí del vedere lavorare come del confabulare meco, ancora e' mi veniva a
proposito lo andarvi alcune volte di giorno. Essendo un giorno in fra gli altri
nella detta guardaroba, il Duca venne al suo solito e piú volentieri assai,
saputo Sua Eccellenzia illustrissima che io v'ero; e subito giunto
cominciò arragionar meco di molte diverse e piacevolissime cose, e io
gli rispondevo approposito, e lo avevo di modo invaghito, che ei mi si
mostrò piú piacevole che mai ei mi si fussi mostro per il passato. Innun
tratto e' comparve un dei sua segretarii, il quale parlando all'orecchio di Sua
Eccellenzia per esser forse cosa di molta importanza, subito il Duca si rizzò
e andossene innun'altra stanza con el detto segretario. E perché la Duchessa
aveva mandato a vedere quel che faceva Sua Eccellenzia illustrissima, disse il
paggio alla Duchessa: - Il Duca ragiona e ride con Benvenuto, ed è tutto
in buona -. Inteso questo, la Duchessa subito venne in guardaroba e non vi
trovando 'l Duca, si messe a sedere appresso a noi; e veduto che la ci ebbe un
pezzo lavorare, con gran piacevolezza si volse a me e mi mostrò un vezzo
di perle grosse, e veramente rarissime, e domandandomi quello che e' me ne
pareva, io le dissi che gli era cosa molto bella. Allora Sua Eccellenzia
illustrissima mi disse: - Io voglio che il Duca me lo comperi; sí che,
Benvenuto mio, lodalo al Duca quanto tu sai e puoi al mondo -. A queste parole
io, con quanta reverenzia seppi, mi scopersi alla Duchessa, e dissi: - Signora
mia, io mi pensavo che questo vezzo di perle fussi di Vostra Eccellenzia
illustrissima; e perché la ragione non vuole che e' si dica mai nessuna di
quelle cose che saputo el nonnessere di Vostra Eccellenzia illustrissima ei mi
occorre dire, anzi e' m'è di necessità il dirle; sappi Vostra
Eccellenzia illustrissima che, per essere molto mia professione, io conosco in
queste perle di moltissimi difetti, per i quali già mai vi consiglierei
che Vostra Eccellenzia lo comperassi -. A queste mie parole lei disse: - Il
mercatante me lo dà per sei mila scudi: che se e' non avessi qualcuno di
quei difettuzzi, e' ne varrebbe piú di dodici mila -. Allora io dissi, che
quando quel vezzo fussi di tutta infinita bontà, che io non consiglierei
mai persona che aggiugnessi a cinque mila scudi; perché le perle non sono
gioie; le perle sono un osso di pesce e in ispazio di tempo le
vengono manco; ma i diamanti, e i rubini e gli smeraldi nonninvecchiano, e i
zaffiri: queste quattro son gioie, e di queste si vuol comperare. A queste mie
parole, alquanto sdegnosetta la Duchessa mi disse: - Io ho voglia or di queste
perle, e però ti priego che tu le porti al Duca, e lodale quanto tu puoi
e sai al mondo; e se bene e' ti par dire qualche poco di bugie, dille per far
servizio a me; ché buon per te -. Io che son sempre stato amicissimo della
verità e nimico delle bugie, ed essendomi di necessità, volendo
non perdere la grazia di una tanto gran principessa, cosí malcontento presi quelle
maledette perle, e andai con esse in quell'altra stanza, dove s'era ritirato 'l
Duca. Il quale subito che e' mi vide, disse: - O Benvenuto, che vai tu
faccendo? - Scoperto quelle perle, dissi: - Signor mio, io vi vengo a mostrare
un bellissimo vezzo di perle, rarissimo e veramente degno di Vostra Eccellenzia
illustrissima; e per ottanta perle, io non credo che mai e' se ne mettessi
tante insieme, che meglio si mostrassino innun vezzo; sí che comperatele,
Signore, che le sono miracolose -. Subito 'l Duca disse: - Io nolle voglio
comperare, perché le non sono quelle perle né di quella bontà che tu
di', e le ho viste, e non mi piacciono -. Allora io dissi: - Perdonatemi,
Signore, che queste perle avanzano di infinita bellezza tutte le perle che per
vezzo mai fussino ordinate -. La Duchessa si era ritta, e stava dietro a una
porta e sentiva tutto quello che io dicevo; di modo che, quando io ebbi detto
piú di mille cose piú di quel che io scrivo, il Duca mi si volse con benigno
aspetto, e mi disse: - O Benvenuto mio, io so che tu te ne 'ntendi benissimo: e
se coteste perle fussino con quelle virtú tante rare che tu apponi loro, a mme
non parrebbe fatica il comperarle, sí per piacere alla Duchessa, e sí per
averle; perché queste tal cose mi sono di necessità, non tanto per la
Duchessa, quanto per l'altre mia faccende di mia figliuoli e figliuole -. E io
a queste sue parole, dappoi che io avevo cominciato a dir le bugie, ancora con
maggior aldacia seguitavo di dirne, dando loro il maggior colore di verità,
acciò che 'l Duca me le credessi, fidandomi della Duchessa, che attempo
ella mi dovessi aiutare. E perché ei mi si preveniva piú di dugento scudi,
faccendo un cotal mercato, e la Duchessa me n'aveva accennato, io m'ero
resoluto e disposto di non voler pigliare un soldo, solo per mio scampo,
acciò che 'l Duca mai nonnavessi pensato che io lo facessi per avarizia.
Di nuovo 'l Duca con piacevolissime parole mosse addirmi: - Io so che tu te ne
intendi benissimo: imperò se tu se' quell'uomo dabbene, che io mi son
sempre pensato che tu sia, or dimmi 'l vero -. Allora, arrossiti li mia occhi e
alquanto divenuti umidi di lacrime, dissi: - Signor mio, se io dico 'l vero a
Vostra Eccellenzia illustrissima, la Duchessa mi diventa mortalissima inimica,
per la qual cosa io sarò necessitato andarmi con Dio, e l'onor del mio
Perseo, il quale io ho promesso a questa nobilissima Scuola di Vostra
Eccellenzia illustrissima, subito li inimici miei mi vitupereranno; sí
che io mi raccomando a Vostra Eccellenzia illustrissima.
LXXXIV. Il
Duca, avendo conosciuto che tutto quello che io avevo detto e' m'era stato
fatto dire come per forza, disse: - Se tu hai fede in me, non ti dubitare di
nulla al mondo -. Di nuovo io dissi: - Oimè, Signor mio, come
potrà egli essere che la Duchessa nullo sappia? - A queste mie parole 'l
Duca alzò la fede e disse: - Fa conto di averle sepolte innuna
cassettina di diamanti -. A queste onorate parole, subito io dissi il
vero di quanto io intendeva di quelle perle, e che le non valevano troppo piú
di dumila scudi. Avendoci sentiti la Duchessa racchetare, perché
parlavàno quando dir si può piano, ella venne innanzi, e disse: -
Signor mio, Vostra Eccellenzia di grazia mi compri questo vezzo di perle,
perché io ne ho grandissima voglia, e il vostro Benvenuto ha ditto che mai e'
non n'ha veduto il piú bello -. Allora il Duca disse: - Io nollo voglio
comprare. - Perché, Signor mio, non mi vuole Vostra Eccellenzia contentare di
comperare questo vezzo di perle? - Perché e' non mi piace di gittar via i
danari -. La Duchessa di nuovo disse: - Oh come gittar via li dinari, che 'l
vostro Benvenuto, in chi voi avete tanta fede meritamente, m'ha ditto che gli
è buon mercato piú di tremila scudi? - Allora il Duca disse: - Signora,
il mio Benvenuto m'ha detto, che se io lo compro, che io gitterò via li
mia dinari, perché queste perle non sono né tonde né equali, e ce n'è
assai delle vecchie; e che e' sia il vero, or vedete questa e quest'altra, e
vedete qui e qua: si che le non sono 'l caso mio -. A queste parole la Duchessa
mi guardò con malissimo animo, e minacciandomi col capo si partí di
quivi, di modo che io fui tutto tentato di andarmi con Dio e dileguarmi di
Italia; ma perché il mio Perseo si era quasi finito, io non volsi mancare di
nollo trar fuora: ma consideri ogni uomo in che greve travaglio io mi
ritrovavo. Il Duca aveva comandato a' suoi portieri in mia presenza, che mi
lasciassino sempre entrare per le camere e dove Sua Eccellenzia fussi; e la
Duchessa aveva comandato a quei medesimi che tutte le volte che io arrivavo in
quel palazzo, eglino mi cacciassino via; di sorte che come ei mi vedevano,
subito e' si partivano da quelle porte e mi cacciavano via; ma e' si guardavano
che 'l Duca no gli vedessi, di sorte che se 'l Duca mi vedeva in prima che
questi sciagurati, o egli mi chiamava o e' mi faceva cenno che io andassi. La
Duchessa chiamò quel Bernardone sensale, il quale lei s'era meco tanto
doluta della sua poltroneria e vil dappocaggine, e allui si raccomandò,
sí come l'aveva fatto a mme; il quale disse: - Signora mia, lasciate fare a me
-. Questo ribaldone andò innanzi al Duca con questo vezzo in mano. Il
Duca, subito che e' lo vide, gli disse che e' se gli levassi d'inanzi. Allora
il detto ribaldone con quella sua vociaccia, che ei la sonava per il suo nasaccio
d'asino, disse: - Deh! Signor mio, comperate questo vezzo a quella povera
Signora, la quale se ne muor di voglia, e non può vivere sanz'esso -. E
aggiugnendo molte altre sue sciocche parolaccie, ed essendo venuto affastidio
al Duca, gli disse: - O tu mi ti lievi d'inanzi, o tu gonfia un tratto -.
Questo ribaldaccio, che sapeva benissimo quello che lui faceva, perché se o per
via del gonfiare o per cantare La bella Franceschina, ei poteva ottenere
che 'l Duca facessi quella compera, egli si guadagnava la grazia della Duchessa
e di piú la sua senseria, la quale montava parecchi centinaia di scudi: e cosí
egli gonfiò. Il Duca gli dette parecchi ceffatoni in quelle sue
gotaccie, e per levarselo d'inanzi ei gli dette un poco piú forte che e' non
soleva fare. A queste percosse forti in quelle sue gotaccie, non tanto l'esser
diventate troppo rosse, che e' ne venne giú le lacrime. Con quelle ei
cominciò a dire: - Eh! Signore, un vostro fidel servitore, il quale
cerca di far bene e si contenta di comportare ogni sorte di dispiacere, pur che
quella povera Signora sia contenta -. Essendo troppo venuto affastidio al Duca
questo uomaccio, e per le gotate e per amor della Duchessa, la quale Sua
Eccellenzia illustrissima sempre volse contentare, subito disse: - Levamiti d'inanzi
col malanno che Dio ti dia, e va, fanne mercato, che io son contento di far
tutto quello che vuole la signora Duchessa -. Or qui si conosce la rabbia della
mala fortuna inverso d'un povero uomo e la vituperosa fortuna a favorire uno
sciagurato: io mi persi tutta la grazia della Duchessa, che fu buona causa di
tormi ancor quella del Duca; e lui si guadagnò quella grossa senseria e
la grazia loro: sí che e' non basta l'esser uomo dabbene e virtuoso.
LXXXV. In
questo tempo si destò la guerra di Siena; e volendo 'l Duca
afforzificare Firenze, distribuí le porte infra i sua scultori e
architettori; dove a me fu consegnato la Porta al Prato e la Porticciuola
d'Arno, che è in sul prato dove si va alle mulina; al cavalieri
Bandinello la porta a San Friano; apPasqualino d'Ancona, la porta a San
Pier Gattolini; a Giulian di Baccio d'Agnolo, legnaiuolo, la porta a San
Giorgio; al Particino, legnaiuolo, la porta a Santo Niccolò; a Francesco
da Sangallo, scultore, detto il Margolla, fu dato la porta alla Croce; e a Giovanbatista,
chiamato il Tasso, fu data la porta a Pinti: e cosí certi altri bastioni e
porte a diversi ingegneri, i quali non mi soviene né manco fanno al mio
proposito. Il Duca, che veramente è sempre stato di buono ingegno,
dappersé medesimo, se n'andò intorno alla sua città; e quando Sua
Eccellenzia illustrissima ebbe bene esaminato e resolutosi, chiamò
Lattanzio Gorini, il quale si era un suo pagatore: e perché anche questo
Lattanzio si dilettava alquanto di questa professione, Sua Eccellenzia illustrissima
lo fece disegnare tutti i modi che e' voleva che si afforzificassi le dette
porte, e a ciascuno di noi mandò disegnata la sua porta; di modo che
vedendo quella che toccava a me, e parendomi che 'l modo non fussi sicondo la
sua ragione, anzi egli si era scorrettissimo, subito con questo disegno in mano
me n'andai a trovare 'l mio Duca; e volendo mostrare a Sua Eccellenzia i
difetti di quel disegno datomi, non sí tosto che io ebbi cominciato a dire, il
Duca infuriato mi si volse, e disse: - Benvenuto, del far benissimo le figure
io cederò a te, ma di questa professione io voglio che tu ceda a me; sí
che osserva il disegno che io t'ho dato -. A queste brave parole io
risposi quanto benignamente io sapevo al mondo e dissi: - Ancora, Signor mio,
del bel modo di fare le figure io ho imparato da Vostra Eccellenzia
illustrissima; imperò noi l'abbiamo sempre disputata qualche poco
insieme; cosí di questo afforzificare la vostra città, la qual cosa
importa molto piú che 'l far delle figure, priego Vostra Eccellenzia
illustrissima che si degni di ascoltarmi, e cosí ragionando con Vostra
Eccellenzia, quella mi verrà meglio a mostrare il modo che io l'ho asservire
-. Di modo che, con queste mie piacevolissime parole, benignamente ci si messe
a disputarla meco; e mostrando a Sua Eccellenzia illustrissima con vive e
chiare ragione, che in quel modo che ei m'aveva disegnato e' non sarebbe stato
bene, Sua Eccellenzia mi disse: - O va, e fa un disegno tu, e io vedrò
se e' mi piacerà -. Cosí io feci dua disegni sicondo la ragione del vero
modo di afforzificare quelle due porte, e glieli portai, e conosciuto la
verità dal falzo, Sua Eccellenzia piacevolmente mi disse: - O va, e fa
attuo modo, che io sono contento -. Allora con gran sollecitudine io cominciai.
LXXXVI. Egli
era alla guardia della porta al Prato un capitano lombardo: questo si era uno
uomo di terribil forma robusta, e con parole molto villane; ed era prosuntuoso
e ignorantissimo. Questo uomo subito mi cominciò a domandare quel che io
volevo fare; al quale io piacevolmente gli mostrai i mia disegni, e con strema
fatica gli davo addintendere il modo che io volevo tenere. Or questa villana
bestia ora scoteva 'l capo, e ora e' si voggeva in qua e ora in là,
mutando spesso 'l posar delle gambe, artorcigliandosi i mostacci della barba,
che gli aveva grandissimi, e spesso ci si tirava la piega della berretta in su
gli occhi dicendo spesso: - Maidè, cancher! Io nolla intendo questa
tua fazenda -. Di modo che, essendomi questa bestia venuto annoi',
dissi: - Or lasciatela addunche fare a me, che la 'ntendo - e voltandogli le
spalle per andare al fatto mio, questo uomo cominciò minacciando col
capo; e colla man mancina, mettendola in su 'l pomo della sua spada, gli fece
alquanto rizzar la punta, e disse: - Olà, mastro, tu vorrai che io facci
quistion teco al sangue -. Io me gli volsi con grande
còllora, perché e' mi aveva fatto adirare, e dissi: - E' mi parrà
manco fatica il far quistione con esso teco, che il fare questo bastione
a questa porta -. A un tratto tutt'a dua mettemmo le mani in su le nostre
spade, e nolle sfoderammo affatto, che subito si mosse una quantità di
uomini dabbene, sí de' nostri Fiorentini e altri cortigiani; e la maggior parte
sgridorno lui dicendogli che gli aveva 'l torto, e che io ero uomo da rendergli
buon conto, e che se 'l Duca lo sapessi, che guai a lui. Cosí egli andò
al fatto sua: e io cominciai il mio bastione. E come io ebbi dato l'ordine al
detto bastione, andai all'altra porticciuola d'Arno, dove io trovai un capitano
da Cesena, il piú gentil galante uomo che mai io conoscessi di tal professione:
ci dimostrava di essere una gentil donzelletta, e al bisogno egli si era de'
piú bravi uomini e 'l piú miciduale che immaginar si possa. Questo gentile uomo
mi osservava tanto che molte volte ei mi faceva peritare: e' desiderava di
intendere e io piacevolmente gli mostravo: basta che noi facevàno a chi
si faceva maggior carezze l'un l'altro, di sorte che io feci meglio questo
bastione, che quello, assai. Avendo presso e finiti li mia bastioni, per aver
dato una correria certe gente di quelle di Piero Strozzi, e' si era
tanto spaventato 'l contado di Prato, che tutto ci si sgombrava, e per questa
cagione tutte le carra di quel contado venivano cariche, portando
ogniuno le sue robe alla città. E perché le carra si toccavano l'uno
l'altra, le quali erano una infinità grandissima, vedendo un tal
disordine, io dissi alle guardie delle porte che avvertissono che a quella
porta e' nonnaccadessi un disordine come avvenne alle porte di Turino; ché
bisognando l'aversi asservirsi della saracinesca, la non potria fare l'uffizio
suo, perché la resterebbe sospesa in su uno di que' carri. Sentendo quel
bestion di quel capitano queste mia parole, mi si volse con ingiuriose parole,
e io gli risposi altanto; di modo che noi avemmo affar molto peggio che
quella prima volta: imperò noi fummo divisi; e io, avendo finiti i mia
bastioni, toccai parecchi scudi innaspettatamente, che e' me ne
giovò, e volentieri me ne tornai affinire 'l mio Perseo.
Lxxxvii. Essendosi in questi giorni trovato certe anticaglie nel
contado d'Arezzo, in fra le quali si era la Chimera, ch'è quel lione di
bronzo, il quale si vede nelle camere convicino alla gran sala del Palazzo; e
insieme con la detta Chimera si era trovato una quantità di piccole statuette,
pur di bronzo, le quali erano coperte di terra e di ruggine, e a ciascuna di
esse mancava o la testa o le mani o i piedi; il Duca pigliava piacere di
rinettarsele da per sé medesimo con certi cesellini di orefici. Gli avvenne che
e' mi occorse di parlare a Sua Eccellenzia illustrissima; e in mentre che io
ragionavo seco, ei mi porse un piccol martellino con el quale io percotevo quei
cesellini che 'l Duca teneva in mano, e in quel modo le ditte figurine si
scoprivano dalla terra e dalla ruggine. Cosí passando innanzi parecchi sere, il
Duca mi disse innopera, dove io cominciai a rifare quei membri che mancavano
alle dette figurine. E pigliandosi tanto piacere Sua Eccellenzia di quel poco
di quelle coselline, egli mi faceva lavorare ancora di giorno, e se io tardavo
all'andarvi, Sua Eccellenzia illustrissima mandava per me. Piú volte feci
intendere a Sua Eccellenzia che se io mi sviavo il giorno dal Perseo, che e' ne
seguirebbe parecchi inconvenienti; e il primo, che piú mi spaventava, si era
che 'l gran tempo che io vedevo che ne portava la mia opera, non fussi causa di
venire annoia a Sua Eccellenzia illustrissima, sí come poi e' mi avvenne;
l'altro si era, che io avevo parecchi lavoranti, e quando io nonnero alla
presenza, eglino facevano dua notabili inconvenienti. E il primo si era che e'
mi guastavano la mia opera, e l'altro che eglino lavoravano poco al possibile;
di modo che il Duca si era contento che io v'andassi solamente dalle 24 ore in
là. E perché io mi avevo indolcito tanto meravigliosamente Sua
Eccellenzia illustrissima, che la sera che io arrivavo dallui, sempre ei mi
cresceva le carezze. In questi giorni e' si murava quelle stanze nuove di verso
i Leoni; di modo che, volendo Sua Eccellenzia ritirarsi in parte piú secreta,
ei s'era fatto acconciare un certo stanzino in queste stanze fatte nuovamente,
e a mme aveva ordinato che io me n'andassi per la sua guardaroba, dove io
passavo segretamente sopra 'l palco della gran sala, e per certi pugigattoli me
n'andavo al detto stanzino segretissimamente: dove che innispazio di pochi
giorni la Duchessa me ne privò, faccendo serrare tutte quelle mie
comodità; di modo che ogni sera che io arrivavo in Palazzo, io avevo a
'spettare un gran pezzo per amor che la Duchessa si stava in quelle anticamere
dove io avevo da passare, alle sue comodità; e per essere infetta io non
vi arrivavo mai volta che io nolla scomodassi. Or per questa e per altra causa
la mi s'era recata tanto annoia, che per verso nissuno la non poteva patir di
vedermi; e con tutto questo mio gran disagio e infinito dispiacere,
pazientemente io seguitavo d'andarvi; e il Duca aveva di sorte fatto ispressi
comandamenti, che subito che io picchiavo quelle porte, e' m'era aperto, e
senza dirmi nulla e' mi lasciavano entrare per tutto; di modo che e' gli
avvenne talvolta, che entrando chetamente cosí inaspettatamente per quelle
secrete camere, che io trovava la Duchessa alle sue comodità; la quale
subito si scrucciava con tanto arrabbiato furore meco, che io mi spaventavo, e
sempre mi diceva: - Quando arai tu mai finito di racconciare queste piccole
figurine? perché oramai questo tuo venire m'è venuto troppo affastidio
-. Alla quale io benignamente rispondevo: - Signora, mia unica patrona, io non
desidero altro, se none con fede e cone estrema ubbidienza servirla; e perché
queste opere, che mi ha ordinato il Duca dureranno di molti mesi, dicami Vostra
Eccellenzia illustrissima se la non vuole che io ci venga piú; io non ci
verrò in modo alcuno e chiami chi vuole; e se bene e' mi chiamerà
'l Duca, io dirò che mi sento male e in modo nessuno mai non ci
capiterò -. A queste mie parole ella diceva: - Io non dico che tu non ci
venga e non dico che tu non ubbidisca al Duca; ma e' mi pare bene che queste
tue opere nonnabbino mai fine -. O che 'l Duca ne avessi aùto qualche
sentore, o innaltro modo che la si fussi, Sua Eccellenzia ricominciò:
come e' si appressava alle 24 ore, ei mi mandava a chiamare; e quello che
veniva a chiamarmi, sempre mi diceva: - Avvertisci a non mancare di
venire, che 'l Duca ti aspetta - e cosí continuai, con queste medesime
difficultà, parecchi serate. E una sera infra l'altre, entrando al mio
solito, il Duca, che doveva ragionare colla Duchessa di cose forse segrete, mi
si volse con el maggior furore del mondo; e io, alquanto spaventato, volendomi
presto ritirare, innun subito disse: - Entra, Benvenuto mio, e va là
alle tue faccende, e io starò poco a venirmi a star teco -. In mentre
che io passavo, e' mi prese per la cappa il signor don Grazía, fanciullino di
poco tempo, e mi faceva le piú piacevol baiuzze che possa fare un tal
bambino; dove il Duca maravigliandosi, disse: - Oh, che piacevole amicizia
è questa che i mia figliuoli hanno teco!
Lxxxviii. In mentre che io lavoravo in queste baie di poco momento, il
principe e don Giovanni e don Harnando e don Grazía tutta sera mi
stavano addosso, e ascosamente dal Duca ei mi punzecchiavano: dove io gli
pregavo di grazia che gli stessino fermi. Eglino mi rispondevano, dicendo: -
Noi non possiamo -. E io dissi loro: - Quello che non si può non si
vuole; or fate, via -. A un tratto el Duca e la Duchessa si
cacciorno a ridere. Un'altra sera, avendo finite quelle quattro figurette di
bronzo che sono nella basa commesse, qual sono Giove, Mercurio, Minerva, e
Danae madre di Perseo con el suo Perseino a sedere ai sua piedi, avendole io
fatte portare innella detta stanza dove io lavoravo la sera, io le messi in
fila, alquanto levate un poco dalla vista, di sorte che le facevano un
bellissimo vedere. Avendolo inteso il Duca, e' se ne venne alquanto prima che
'l suo solito; e perché quella tal persona, che riferí a Sua Eccellenzia
illustrissima, gnele dovette mettere molto piú di quello che ell'erano, perché
ei gli disse: - Meglio che gli antichi - e cotai simil cose, il mio Duca se ne
veniva insieme con la Duchessa lietamente ragionando pur della mia opera; e io
subito rizzatomi me gli feci incontro. Il quale con quelle sue ducale e belle
accoglienze alzò la man dritta, innella quale egli teneva una pera
bronca, piú grande che si possa vedere e bellissima, e disse: - Toi, Benvenuto
mio, poni questa pera nell'orto della tua casa -. A quelle parole io
piacevolmente risposi, dicendo: - O Signor mio, dice da dovero Vostra
Eccellenzia illustrissima che io la ponga nell'orto della mia casa? - Di nuovo
disse il Duca: - Nell'orto della casa, che è tua; ha' mi tu inteso? -
Allora io ringraziai Sua Eccellenzia, e il simile la Duchessa, con quelle
meglio cerimonie che io sapevo fare al mondo. Dappoi ei si posono assedere
amendua, al rincontro di dette figurine, e per piú di dua ore non ragionorno
mai d'altro che delle belle figurine; di sorte che e' n'era venuta una tanta
smisurata voglia alla Duchessa che la mi disse allora: - Io non voglio che
queste belle figurine si vadino apperdere in quella basa giú in piazza, dove
elle porteriano pericolo di esser guaste; anzi voglio che tu me le acconci
innuna mia stanza, dove le saranno tenute con quella reverenza che merita le
lor rarissime virtute -. A queste parole mi contrapposi con molte infinite
ragioni; e veduto che ella s'era resoluta che io nolle mettessi innella basa
dove le sono, aspettai il giorno seguente, me n'andai in Palazzo alle ventidua
ore; e trovando che 'l Duca e la Duchessa erano cavalcati, avendo di già
messo innordine la mia basa, feci portare giú le dette figurine, e subito le
inpiombai, come l'avevano a stare. Oh! quando la Duchessa lo intese, e' gli
crebbe tanta stizza, che se e' non fussi stato il Duca che virtuosamente
m'aiutò, io l'arei fatta molto male: e per quella stizza del vezzo di
perle e per questa lei operò tanto, che 'l Duca si levò da quel
poco del piacere; la qual cosa fu causa che io non v'ebbi piú a 'ndare, e
subito mi ritornai in quelle medesime difficultà di prima, quanto
all'entrare per il Palazzo.
LXXXIX Torna'
mi alla Loggia, dove io di già avevo condotto il Perseo e me l'andavo
finendo con le difficultà già ditte, cioè senza dinari, e
con altri accidenti, che la metà di quegli arieno fatto sbigottire uno
uomo armato di diamanti. Pure seguitando via al mio solito, una mattina infra
l'altre, avendo udito messa in San Piero Scheraggio, e' mi entrò innanzi
Bernardone, sensale, orafaccio, e per bontà del Duca era provveditore
della zecca; e subito che appena ei fu fuori della porta della chiesa, el
porcaccio lasciò andare quattro coreggie, le quali si dovettono sentir
da San Miniato. Al quale io dissi: - Ahi porco, poltrone, asino, cotesto si
è il suono delle tue sporche virtute? - e corsi per un bastone. Il quale
presto si ritirò nella zecca, e io stetti al fesso della mia porta, e fuori
tenevo un mio fanciullino, il quale mi facessi segno quando questo porco usciva
di zecca. Or veduto d'avere aspettato un gran pezzo, e venendomi annoia, e
avendo preso luogo quel poco della stizza, considerato che i colpi non si danno
a patti, dove e' ne poteva uscire qualche inconveniente, io mi risolsi a fare
le mie vendette innun altro modo. E perché questo caso fu intorno alle feste
del nostro San Giovanni, vigino un dí o dua, io gli feci quattro versi, e gli
appiccai nel cantone della chiesa, dove si pisciava e cacava, e dicevano cosí:
Qui giace Bernardone, asin, porcaccio,
spia, ladro,
sensale, in cui pose
Pandora i
maggior mali, e poi traspose
di lui quel
pecoron mastro Buaccio.
Il caso e i
versi andorno per il palazzo, e il Duca e la Duchessa se ne rise; e innanzi che
lui se ne avvedessi, e' vi si era fermo molta quantità di populi, e
facevano le maggior risa del mondo: e perché e' guardavano inverso la zecca e
affissavano gli occhi a Bernardone, avvedendosene il suo figliuolo mastro
Baccio, subito con gran còllora lo stracciò e si morse un dito
minacciando con quella sua vociaccia, la quale gli esce per il naso: ei fece
una gran bravata.
xc. Quando il Duca intese che tutta la mia opera del Perseo si
poteva mostrare come finita, un giorno la venne a vedere e mostrò per
molti segni evidenti che la gli sattisfaceva grandemente; e voltosi a certi
Signori, che erano con Sua Eccellenzia illustrissima disse: - Con tutto che
questa opera ci paia molto bella, ell'ha anche a piacere ai popoli; sí che,
Benvenuto mio, innanzi che tu gli dia la ultima sua fine io vorrei che per amor
mio tu aprissi un poco questa parte dinanzi, per un mezzo giorno, alla mia
Piazza, per vedere quel che ne dice 'l popolo; perché e' non è dubbio
che da vederla a questo modo ristretta al vederla a campo aperto, la
mosterrà un diverso modo da quello che la si mostra cosí ristretta -. A
queste parole io dissi umilmente a Sua Eccellenzia illustrissimo: - Sappiate,
Signor mio, che la mosterrà meglio la metà. O come non si ricorda
Vostra Eccellenzia illustrissima d'averla veduta nell'orto della casa mia,
innel quale la si mostrava in tanta gran largura tanto bene, che per l'orto
delli Innocenti l'è venuta a vedere 'l Bandinello, e con tutta la sua
mala e pessima natura, la l'ha sforzato ed ei n'ha detto bene, che mai non
disse ben di persona a' sua dí? Io mi avveggo che Vostra Eccellenzia
illustrissima gli crede troppo -. A queste mie parole, sogghignando un poco
isdegnosetto, pur con molte piacevol parole disse: - Fallo, Benvenuto mio, solo
per un poco di mia sattisfazione -. E partitosi, io cominciai a dare ordine di
scoprire; e perché e' mancava certo poco di oro, e certe vernice e altre cotai
coselline, che si appartengono alla fine dell'opera, sdegnosamente borbottavo e
mi dolevo, bestemmiando quel maladetto giorno che fu causa accondurmi a
Firenze; perché di già io vedevo la grandissima e certa perdita che io
avevo fatta alla mia partita di Francia, e non vedevo né conoscevo ancora che modo
io dovevo sperare di bene con questo mio Signore in Firenze; perché dal
prencipio al mezzo, alla fine, sempre tutto quello che io avevo fatto, si era
fatto con molto mio dannoso disavvantaggio; e cosí malcontento il giorno
seguente io la scopersi. Or siccome piacque a Dio, subito che la fu veduta, ei
si levò un grido tanto smisurato in lode della detta opera, la qual cosa
fu causa di consolarmi alquanto. E non restavano i popoli continuamente di
appiccare alle spalle della porta, che teneva un poco di parato, in mentre che
io le davo la sua fine. Io dico che 'l giorno medesimo, che la si tenne
parecchi ore scoperta, e' vi fu appiccati piú di venti sonetti, tutti in lode
smisuratissime della mia opera; dappoi che io la ricopersi, ogni dí mi v'era
appiccati quantità di sonetti e di versi latini e versi greci; perché
gli era vacanza allo Studio di Pisa, tutti quei eccellentissimi dotti e gli
scolari facevano a gara. Ma quello che mi dava maggior contento, con isperanza
di maggior mia salute inverso 'l mio Duca, si era che quegli dell'arte,
cioè scultori e pittori, ancora loro facevano aggara a chi meglio
diceva. E infra gli altri, quale io stimavo piú, si era il valente pittore
Iacopo da Puntorno, e piú di lui il suo eccellente Bronzino, pittore, che non
gli bastò il farvene appiccare parecchi, che egli me ne mandò per
il suo Sandrino insino a casa mia, i quali dicevano tanto bene, con quel suo
bel modo, il quale è rarissimo, che questo fu causa di consolarmi
alquanto. E cosí io la ricopersi, e mi sollicitavo di finirla.
xci. Il mio Duca, con tutto che Sua Eccellenzia avessi sentito questo
favore che m'era stato fatto di quel poco della vista da questa
eccellentissima Scuola, disse: - Io n'ho gran piacere che Benvenuto abbia
aùto questo poco del contento, il quale sarà cagione che piú
presto e con piú diligenzia ei le darà la sua desiderata fine; ma non
pensi che poi, quando la si vedrà tutta scoperta e che la si
potrà vedere tutta all'intorno, che i popoli abbino a dire a questo modo;
anzi gli sarà scoperto tutti i difetti che vi sono, e appostovene di
molti di quei che non vi sono; sí che armisi di pazienza -. Ora queste furno
parole del Bandinello dette al Duca, con le quale egli allegò delle
opere d'Andrea del Verocchio, che fece quel bel Cristo e San Tommaso di bronzo,
che si vede nella facciata di Orsamichele; e allegò molte altre opere,
insino al mirabil Davitte del divino Michelagnolo Buonaroti, dicendo che ei non
si mostrava bene se non per la veduta dinanzi; e dipoi disse del suo Ercole e
Cacco gli infiniti e vituperosi sonetti che ve gli fu appiccati, e diceva male
di questo popolo. Il mio Duca, che gli credeva assai bene, l'aveva mosso addire
quelle parole, e pensava per certo che la dovessi passare in gran parte in quel
modo, perché quello invidioso del Bandinello non restava di dir male; e una
volta infra molte dell'altre, trovandovisi alla presenza quel manigoldo di
Bernardone sensale, per far buone le parole del Bandinello, disse al Duca: -
Sappiate, Signore, che 'l fare le figure grande l'è un'altra minestra
che 'l farle piccoline: io non vo' dire ché le figurine piccole egli l'ha fatte
assai bene; ma voi vedrete che là non vi riuscirà -. E con queste
parolaccie mescolò molte dell'altre, faccendo la sua arte della spia,
innella quale ei mescolava un monte di bugie.
XCII. Or come
piacque al mio glorioso Signore e immortale Iddio, io la fini' del tutto, e un
giovedí mattina io la scopersi tutta. Subito, che e' nonnera ancora chiaro il
giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popoli, che e'
saria impossibile il dirlo, ettutti a una voce facevano a gara a chi meglio ne
diceva. Il Duca stava a una finestra bassa del Palazzo, la quale si è
sopra la porta, e cosí, dentro alla finestra mezzo ascoso, sentiva tutto quello
che di detta opera si diceva: e dappoi che gli ebbe sentito parecchi ore, ei si
levò con tanta baldanza e tanto contento che voltosi al suo messer
Sforza gli disse cosí: - Sforza, va, e truova Benvenuto e digli da mia parte
che e' m'ha contento molto piú di quello che io mi aspettavo, e digli che io
contenterò lui di modo, che io lo farò maravigliare; sí che digli
che stia di buona voglia -. Cosí il detto messer Sforza mi fece la gloriosa
imbasciata, la quale mi confortò, e quel giorno per questa buona nuova,
e perché i popoli mi mostravano con il dito a questo e a quello, come cosa
maravigliosa e nuova. Infra gli altri e' furno dua gentili uomini, i quali
erano mandati dal Vecierè di Sicilia al nostro Duca per lor faccende.
Ora questi dua piacevoli uomini mi affrontorno in piazza, ché io fui
mostro loro cosí passando; di modo che con furia e' mi raggiunsono, e subito,
colle lor berrette in mano, e' mi feciono una la piú cirimoniosa orazione, la
quale saria stata troppa a un papa: io pure, quanto potevo, mi umiliavo; ma e'
mi soprafacevano tanto, che io mi cominciai arraccomandare loro, che di grazia
d'accordo ei s'uscissi di piazza, perché i popoli si fermavano a guardar me piú
fiso, che e' non facevano al mio Perseo. E infra queste cirimonie eglino furno
tanto arditi, che e' mi richiesono all'andare in Sicilia, e che mi farebbono un
tal patto, che io mi contenterei; e mi dissono come frate Giovanagnolo de'
Servi aveva fatto loro una fontana piena e addorna di molte figure, ma che le
non erano di quella eccellenzia ch'ei vedevano in Perseo, e che e' l'avevano
fatto ricco. Io non gli lasciai finir dire tutto quel che eglino arebbono
voluto dite, che io dissi loro:- Molto mi maraviglio di voi, che voi mi
ricerchiate che io lasci un tanto Signore, amatore delle virtute piú che altro
principe che mai nascessi, e di piú trovandomi nella patria mia, scuola di
tutte le maggior virtute. Oh! se io avessi appetito al gran guadagno, io mi
potevo restare in Francia al servizio di quel gran re Francesco, il quale mi
dava mille scudi d'oro per il mio piatto, e di piú mi pagava le fatture di
tutte le mie opere, di sorte che ogni anno io mi avevo avanzato piú di quattro
mila scudi d'oro l'anno; e avevo lasciato in Parigi le mie fatiche di quattro
anni passati -. Con queste e altre parole io tagliai le cerimonie, e gli
ringraziai delle gran lode che eglino mi avevano date, le quale si erano i
maggiori premii che si potessi dare a chi si affaticava virtuosamente; e che
eglino m'avevano tanto fatto crescere la volontà del far bene, che io
speravo in brevi anni avvenire di mostrare un'altra opera, la quale io speravo
di piacere all'ammirabile Scuola fiorentina molto piú di quella. Li dua gentili
uomini arebbono voluto rappiccare il filo alle cerimonie; dove io con una
sberrettata con gran reverenza dissi loro addio.
XCIII. Da poi
che io ebbi lasciato passare dua giorni, e veduto che le gran lodi andavano
sempre crescendo, allora io mi disposi d'andare a mostrarmi al mio signor Duca;
il quale con gran piacevolezza mi disse: - Benvenuto mio, tu m'hai sattisfatto
e contento; ma io ti prometto che io contenterò te di sorte che io ti
farò maravigliare: e piú ti dico, che io non voglio che e' passi il
giorno di domane -. A queste mirabil promesse, subito voltai tutte le mie
maggior virtú e dell'anima e del corpo innun momento a Dio, ringraziandolo in
verità: e nel medesimo stante m'accostai al mio Duca, e, cosí mezzo
lacrimando d'allegrezza, gli baciai la vesta; dipoi aggiunsi dicendo: - O
glorioso mio Signore, vero liberalissimo amatore delle virtute e di quegli
uomini che innesse si affaticano; io priego Vostra Eccellenzia illustrissima
che mi faccia grazia di lasciarmi prima andare per otto giorni a ringraziare
Iddio; perché io so bene la smisurata mia gran fatica, e cognosco che la mia
buona fede ha mosso Iddio al mio aiuto: per questo e per ogni altro miracoloso
soccorso, voglio andare per otto giornate pellegrinando, sempre ringraziando il
mio immortale Iddio, il quale sempre aiuta chi in verità lo chiama -.
Allora mi domandò 'l Duca dove io volevo andare. Al quale io dissi: -
Domattina mi partirò e me n'andrò a Valle Ombrosa, di poi a
Camaldoli e all'Ermo, e me n'andrò insino ai bagni di Santa Maria e
forse insino a Sestile, perché io intendo che e' v'è di belle
anticaglie: dipoi mi tornerò da San Francesco della Vernia, e
ringraziando Iddio sempre, contento mi ritornerò asservirla -. Subito il
Duca lietamente mi disse: - Va, e torna, che tu veramente mi piaci, ma lasciami
due versi di memoria, e lascia fare a mme -. Subito io feci quattro versi,
innei quali io ringraziavo Sua Eccellenzia illustrissima, e gli detti a messer
Sforza, il quale gli dette in mano al Duca da mia parte: il quale gli prese; di
poi gli dette in mano al detto messer Sforza, e gli disse: - Fa che ogni dí tu
me gli metta innanzi, perché se Benvenuto tornassi e trovassi che io
noll'avessi spedito, io credo che e' mi ammazzerebbe - e cosí ridendo, Sua
Eccellenzia disse che gnele ricordassi. Queste formate parole mi disse la sera
messer Sforza, ridendo e anche maravigliandosi del gran favore che mi faceva 'l
Duca: e piacevolmente mi disse: - Va, Benvenuto, e torna, ché io te n'ho
invidia.
xciv. Nel nome di Dio mi parti' di Firenze sempre cantando salmi e
orazione innonore e gloria di Dio per tutto quel viaggio; innel quale io ebbi
grandissimo piacere, perché la stagione si era bellissima, di state, e il
viaggio e il paese dove io nonnero mai piú stato mi parve tanto bello che ne
restai maravigliato e contento. E perché gli era venuto per mia guida un
giovane mio lavorante, il quale era dal Bagno, che si chiamava Cesere, io fui
molto carezzato da suo padre e da tutta la casa sua; infra e' quali si era un
vecchione di piú di settant'anni, piacevolissimo uomo: questo era zio del detto
Cesere, e faceva professione di medico cerusico, e pizzicava alquanto di archimista.
Questo buono uomo mi mostrò come quei Bagni avevano miniera d'oro
e d'argento, e mi fece vedere molte bellissime cose di quel paese; di sorte che
io ebbi de' gran piaceri che io avessi mai. Essendosi domesticato a suo modo
meco, un giorno in fra gli altri mi disse: - Io non voglio mancare di non vi
dire un mio pensiero, al quale se Sua Eccellenzia ci prestassi l'orecchio, io
credo che e' sarebbe cosa molto utile: e questo si è, che intorno a
Camaldoli ci si vede un passo tanto scoperto, che Piero Strozzi potria non
tanto passare sicuramente, ma egli potrebbe rubar Poppi sanza contrasto alcuno
- e con questo, non tanto l'avermelo mostro a parole, ch'egli si cavò un
foglio della scarsella, nel quale questo buon vecchio aveva disegnato tutto
quel paese in tal modo che benissimo si vedeva ed evidentemente si conosceva il
gran pericolo esser vero. Io presi il disegno e subito mi parti' dal Bagno, e
quanto piú presto io potetti, tornandomene per la via di Prato Magno e da San
Francesco della Vernia, mi ritornai a Firenze: e senza fermarmi, sol trattomi
gli stivali, andai a Palazzo. E quando io fui dalla Badia, io mi scontrai nel
mio Duca, che se ne veniva per la via del Palagio del Podestà: il quale,
subito ch'e' mi vide, ei mi fece una gratissima accoglienza insieme con un poco
di maraviglia, dicendomi: - O perché sei tu tornato cosí presto? che io non
t'aspettavo ancora di questi otto giorni -. Al quale io dissi: - Per servizio
di Vostra Eccellenzia illustrissima son tornato, ché volentieri io mi sarei stato
parecchi giorni a spasso per quel bellissimo paese. - E che buone faccende? -
disse 'l Duca. Al quale io dissi: - Signore, gli è di necessità
che io vi dica e mostri cose di grande importanza -. Cosí me n'andai seco a
Palazzo. Giunti a Palazzo e' mi menò in camera segretamente dove noi
eravamo soli. Allora io gli dissi il tutto, e gli mostrai quel poco del
disegno; il quale mostrò di averlo gratissimo. E dicendo a Sua
Eccellenzia che gli era di necessità il rimediare a una cotal cosa
presto, il Duca stette cosí un poco sopra di sé, e poi mi disse: - Sappi, che
no' siamo d'accordo con el Duca d'Urbino, il quale n'ha da 'aver cura lui; ma
stia in te -. E con molta gran dimostrazione di sua buona grazia, io mi
ritornai a casa mia.
xcv. L'altro giorno io mi feci vedere e il Duca, dipoi un poco di
ragionamento, lietamente mi disse: - Domani senza fallo voglio spedire la tua
faccenda; sí che sta di buona voglia -. Io, che me lo tenevo per certissimo,
con gran disiderio aspettavo l'altro giorno. Venuto il desiderato giorno, me
n'andai a Palazzo; e siccome per usanza par che sempre gli avvenga, che le male
nuove si dieno con piú diligenzia che non fanno le buone, messer Iacopo Guidi
segretario di Sua Eccellenzia illustrissima mi chiamò con una sua bocca
ritorta e con voce altiera, e ritiratosi tutto in sé, con la persona tutta
incamatita, come interizzata, cominciò in questo modo a dire: - Dice il
Duca che vuole saper da te quel che tu dimandi del tuo Perseo -. Io restai
ismarrito e maravigliato: e subito risposi come io non ero mai per domandar
prezzo delle mie fatiche, e che questo nonnera quello che mi aveva promesso Sua
Eccellenzia dua giorni sono. Subito questo uomo con maggior voce mi disse che
mi comandava spressamente da parte del Duca, che io dicessi quello che io ne
volevo, sotto la pena della intera disgrazia di Sua Eccellenzia illustrissima.
Io che m'ero promesso non tanto di aver guadagnato qualche cosa per le gran
carezze fattemi da Sua Eccellenzia illustrissima, anzi maggiormente mi ero
promesso di avere guadagnato tutta la grazia del Duca, perché io nollo
richiedevo mai d'altra maggior cosa che solo della sua buona grazia: ora questo
modo, innaspettato da me, mi fece venire in tanto furore: e maggiormente per
porgermela in quel modo che faceva quel velenoso rospo. Io dissi,
che quando 'l Duca mi dessi dieci mila scudi, e' non me la pagherebbe, e che,
se io avessi mai pensato di venire a questi meriti, io non mi ci sarei mai
fermo. Subito questo dispettoso mi disse una quantità di parole ingiuriose;
e io il simile feci allui. L'altro giorno appresso, faccendo io reverenza al
Duca, Sua Eccellenzia m'accennò; dove io mi accostai; ed egli in
còllora mi disse: - Le città e i gran palazzi si fanno cone i
dieci mila ducati -. Al quale subito risposi come Sua Eccellenzia troverebbe
infiniti uomini che gli saprieno fare delle città e dei palazzi; ma che
dei Persei ei non troverrebbe forse uomo al mondo, che gnele sapessi fare un
tale. E subito mi parti' senza dire o fare altro. Certi pochi giorni appresso,
la Duchessa mandò per me e mi disse che la differenza che io avevo con
el Duca io la rimettessi in lei, perché la si vantava di far cosa che io saria
contento. A queste benigne parole io risposi come io non avevo mai chiesto
altro maggior premio delle mie fatiche che la buona grazia del Duca, e che Sua
Eccellenzia illustrissima me l'aveva promessa; e che e' non faceva bisogno che
io rimettessi in loro Eccellenzie illustrissime quello che, dai primi giorni
che io li cominciai a servire tutto liberamente io avevo rimesso; e di piú
aggiunsi che se Sua Eccellenzia illustrissima mi dessi solo una crazia, che
vale cinque quattrini, delle mie fatiche, io mi chiamerei contento e
sattisfatto, pur che Sua Eccellenzia non mi privassi della sua buona grazia. A
queste mie parole, la Duchessa alquanto sorridendo, disse: - Benvenuto, tu
faresti il tuo meglio a fare quello che io ti dico - e voltami le spalle, si
levò da mme. Io che pensa' di fare il mio meglio per usare quelle cotal
umil parole, avvenne che e' ne risultò il mio peggio, perché, con tutto
che lei avessi aùto meco quel poco di stizza, ell'aveva poi in sé un
certo modo di fare, il quale si era buono.
xcvi. In questo tempo io ero molto domestico di Girolimo degli
Albizi, il quale era commessario delle bande di Sua Eccellenzia; e un giorno
infra gli altri egli mi disse: - O Benvenuto, e' sarebbe pur bene il porre
qualche sesto a questo poco del dispiacere che tu hai con el Duca; e ti dico,
che se tu avessi fede in me, che e' mi darebbe 'l cuore da conciarla; perché io
so quello che io mi dico. Come il Duca s'adira poi da dovero, tu ne farai molto
male: bastiti questo; io non ti posso dire ogni cosa -. E perché e' m'era stato
detto da uno, forse tristerello, dipoi che la Duchessa m'aveva parlato, il
quale disse che aveva sentito dire che 'l Duca, per non so che occasione
datagli, disse: - Per manco di dua quattrini io gitterò via il Perseo e
cosí si finiranno tutte le differenze - ora per questa gelosia io dissi
a Girolimo degli Albizi, che io rimettevo in lui il tutto, e che quello che
egli faceva, io di tutto sarei contentissimo, pure che io restassi in grazia
del Duca. Questo galante uomo, che s'intendeva benissimo dell'arte del soldato,
massimamente di quei delle bande, i quali sono tutti villani, ma dell'arte del fare
la scultura egli non se ne dilettava e però e' non se ne intendeva
punto, di sorte che parlando con el Duca disse: - Signore, Benvenuto
s'è rimesso in me, e m'ha pregato che io lo raccomandi a Vostra
Eccellenzia illustrissima -. Allora il Duca disse: - E ancora io mi rimetto in
voi, e starò contento attutto quello che voi giudicherete -. Di modo che
il detto Girolamo fece una lettera molto ingegnosa e in mio gran favore, e
giudicò che 'l Duca mi dessi tremila cinquecento scudi d'oro innoro, i
quali bastassino non per premio di una cotal bella opera, ma solo per un poco
di mio trattenimento; basta che io mi contentavo; con molte altre parole, le
quali in tutto concludevano il detto prezzo. Il Duca la sottoscrisse molto
volentieri, tanto quanto io ne fu' malcontento. Come la Duchessa lo intese, la
disse: - Gli era molto meglio per quel povero uomo che e' l'avessi rimessa in
me, che gne l'arei fatto dare cinque mila scudi d'oro - e un giorno che io ero
ito in Palazzo, la Duchessa mi disse le medesime parole alla presenzia di
messer Alamanno Salviati, e mi derise, dicendomi che e' mi stava bene tutto 'l
male che io avevo. Il Duca ordinò che e' mi fussi pagato cento scudi
d'oro innoro il mese, insino alla detta somma, e cosí si andò seguitando
qualche mese. Dipoi messer Antonio de' Nobili, che aveva aúta la detta
commessione, cominciò a darmene cinquanta, e di poi quando me ne dava
venticinque e quando non me gli dava; di sorte che, vedutomi cosí prolungare,
amorevolmente dissi al detto messer Antonio, pregandolo che e' mi dicessi la
causa perché e' non mi finiva di pagare. Ancora egli benignamente mi rispose:
innella qual risposta e' mi parve ch'e' s'allargassi un poco troppo, perché -
giudichilo chi intende - in prima mi disse che la causa perché lui non
continuava il mio pagamento si era la troppa strettezza che aveva 'l
Palazzo di danari, ma che egli mi prometteva che come gli venissi danari, che
mi pagherebbe; e aggiunse dicendo: - Oimè! se io non ti pagassi, io
saria un gran ribaldo -. Io mi maravigliai il sentirgli dire una cotal parola,
e per quella mi promissi che quando e' potessi, che e' mi pagherebbe. Per la
qual cosa e' ne seguí tutto 'l contrario, di modo che, vedendomi straziare, io
m'adirai seco e gli dissi molte ardite e collorose parole, e gli ricordai tutto
quello che lui m'aveva detto che sarebbe. Imperò egli si morí, e io
resto ancora a 'vere cinquecento scudi d'oro insino a ora, che siamo
vicini alla fine dell'anno 1566. Ancora io restavo d'avere un resto di mia
salari, il quale mi pareva che e' non si facessi piú conto di pagarmegli, perché
gli eran passati incirca a tre anni; ma gli avvenne una pericolosa
infermità al Duca, che gli stette quarantotto ore senza potere orinare;
e conosciuto che i remedi de' medici non gli giovavano, forse ei ricorse a
Iddio, e per questo e' volse che ogniuno fussi pagato delle sue provvisione
decorse e ancora io fui pagato; ma non fu' pagato già del mio resto del
Perseo.
XCVII. Quasi
che io m'ero mezzo disposto di non dir piú nulla dello isfortunato mio Perseo;
ma per essere una occasione che mi sforza tanta notabile, imperò io
rappiccherò il filo per un poco, tornando alquanto addietro. Io pensai
di fare il mio meglio, quando io dissi alla Duchessa, che io non potevo piú far
compromesso di quello che non era piú in mio potere, perché io avevo ditto al
Duca che io mi contentavo di tutto quello che Sua Eccellenzia illustrissima mi
volessi dare: e questo io lo dissi pensando di gratuirmi alquanto; e con quel
poco de l'umiltà cercavo con ogni opportuno remedio di placare alquanto
il Duca, perché certi pochi giorni in prima che e' si venissi all'accordo
dell'Albizi, il Duca s'era molto dimostro di essersi crucciato meco: e la causa
fu, che dolendomi con Sua Eccellenzia di certi assassinamenti bruttissimi che mi
faceva messer Alfonso Quistello e messer Iacopo Polverino, fiscale, e piú che
tutti ser Giovanbattista Brandini, volterrano; cosí dicendo con qualche
dimostrazione di passione queste mie ragioni, io vidi venire il Duca in tanta
stizza, quanto mai e' si possa immaginare. E poi che Sua Eccellenzia
illustrissima era venuta in questo gran furore, ei mi disse: - Questo caso si
è come quello del tuo Perseo, che tu n'hai chiesto e' dieci mila scudi:
tu ti lasci troppo vincere da il tuo interesso; imperò io lo voglio fare
stimare, e tene darò tutto quello che e' mi fia giudicato -.
A queste parole io subito risposi alquanto un poco troppo ardito e mezzo
adirato - cosa la qual non è conveniente usarla cone i gran Signori - e
dissi: - O come è egli possibile che la mia opera mi sia stimata il suo
prezzo, non essendo oggi uomo in Firenze che la sapessi fare? - Allora il Duca
crebbe in maggiore furore, e disse di molte parole adirate, infra le quale
disse: - In Firenze si è uomo oggi, che ne saprebbe fare un come quello,
e però benissimo e' lo saprà giudicare -. Ei volse dire del
Bandinello, cavalieri di santo Iacopo. Allora io dissi: - Signor mio, Vostra
Eccellenzia illustrissima m'ha dato facultà, che io ho fatto innella
maggiore Scuola del mondo una grande e difficilissima opera, la quale
m'è stata lodata piú che opera che mai si sia scoperta in questa
divinissima Scuola; e quello che piú mi fa baldanzoso si è stato, che
quegli eccellenti uomini, che conoscono e che sono dell'arte, com'è 'l
Bronzino pittore, questo uomo s'è affaticato e m'ha fatto quattro
sonetti, dicendo le piú iscelte e gloriose parole, che sia possibil di dire; e
per questa causa, di questo mirabile uomo, forse s'è mossa tutta la
città a cosí gran romore; e io dico ben che se lui attendessi alla scultura,
sí come ei fa alla pittura, lui sí bene la potria forse saper fare. E piú dico
a Vostra Eccellenzia illustrissima che il mio maestro Michelagnolo Buonaroti,
sí bene e' n'arebbe fatta una cosí, quando egli era piú giovane, e non arebbe
durato manco fatiche che io mi abbia fatto; ma ora che gli è
vecchissimo, egli nolla farebbe per cosa certa; di modo che io non credo
che oggi ci sia notizia di uomo che la sapessi condurre. Sí che la mia opera ha
'uto il maggior premio che io potessi desiderare al mondo: e maggiormente, che
Vostra Eccellenzia illustrissima, non tanto che la si sia chiamata contenta de
l'opera mia, anzi piú di ogni altro uomo quella me l'ha lodata. O che maggiore
e che piú onorato premio si può egli desiderare? Io dico per certissimo
che Vostra Eccellenzia non mi poteva pagare di piú gloriosa moneta: né con
qualsivoglia tesoro certissimo e' non si può agguagliare a questo: sí
che io sono troppo pagato, e ne ringrazio Vostra Eccellenzia illustrissima con
tutto il cuore -. A queste parole rispose il Duca e disse: - Anzi tu non pensi
che io abbia tanto che io te la possa pagare; e io ti dico che io te la
pagherò molto piú che la non vale -. Allora io dissi: - Io non mi
immaginavo di avere altro premio da Vostra Eccellenzia, ma io mi chiamo pagatissimo
di quel primo che m'ha dato la Scuola, e con questo adesso adesso mi voglio ir
con Dio, senza mai piú tornare a quella casa che Vostra Eccellenzia
illustrissima mi donò, né mai piú mi voglio curare di rivedere Firenze
-. Noi eravamo appunto da Santa Felicita e Sua Eccellenzia si ritornava a
Palazzo. A queste mie collorose parole il Duca subito con gran ira si volse e
mi disse: - Non ti partire, e guarda bene che tu non ti parta - di modo che io
mezzo spaventato lo accompagnai a Palazzo. Giunto che Sua Eccellenzia fu a
Palazzo, ei chiamò il vescovo de' Bartolini, che era arcivescovo di
Pisa, e chiamò messer Pandolfo della Stufa, e disse loro che dicessino a
Baccio Bandinelli da sua parte che considerassi bene quella mia opera del Perseo,
e che la stimassi, perché el Duca me la voleva pagare il giusto suo prezzo.
Questi dua uomini dabbene subito trovorno il detto Bandinello, e fattegli la
imbasciata, egli disse loro che quella opera ei l'aveva benissimo considerata,
e che sapeva troppo bene quel che la valeva; ma per essere in discordia meco
per altre faccende passate, egli non voleva impacciarsi de' casi mia in modo
nessuno. Allora questi dua gentili uomini aggiunsono e dissono: - Il Duca ci ha
detto che, sotto pena della disgrazia sua, che vi comanda che voi le diate
prezzo; e se voi volete due o tre dí di tempo a considerarla bene, ve gli
pigliate: dipoi dite annoi quel che e' vi pare che quella fatica meriti -. Il
detto rispose che l'aveva benissimo considerata, e che non poteva mancare a'
comandamenti del Duca, e che quella opera era riuscita molto ricca e bella, di
modo che gli pareva che la meritassi sedici mila scudi d'oro e da vantaggio.
Subito i buoni gentili uomini lo riferirno al Duca, il quale si adirò
malamente; e similmente ei lo ridissino a me. Ai quali io risposi, che in modo
nessuno io non volevo accettare le lode del Bandinello, avvenga che questo male
uomo dice mal di ogniuno. Queste mie parole furno riditte al Duca, e per
questo voleva la Duchessa che io mi rimettessi in lei. Tutto questo si è
la pura verità: basta che io facevo il mio meglio a lasciarmi
giudicare alla Duchessa, perché io sarei stato in breve pagato, e arei
aùto quel piú premio.
xcviii. Il Duca mi fece intendere per messer Lelio Torello, suo
aulditore, che voleva che io facessi certe storie di basso rilievo di bronzo
intorno al coro di santa Maria del Fiore; e per essere il detto coro impresa
del Bandinello, io non volevo arricchire le sue operaccie con le fatiche mie; e
con tutto che 'l detto coro non fussi suo disegno, perché lui non intendeva
nulla al mondo d'architettura (il disegno si era di Giuliano di Baccio
d'Agnolo, legnaiuolo, che guastò la cupola): basta che e' non v'è
virtú nessuna; e per l'una e per l'altra causa io non volevo in modo nessuno
far tal opera, ma umanamente sempre dicevo al Duca, che io farei tutto quello
che mi comandassi Sua Eccellenzia illustrissima, di modo che Sua Eccellenzia
commesse agli Operai di Santa Maria del Fiore che fussino d'accordo meco, e che
Sua Eccellenzia mi darebbe solo la mia provvisione delli dugento scudi l'anno e
che a ogni altra cosa voleva che i detti Operai sopperissino di quello della
ditta Opera. Di modo che io comparsi dinanzi alli detti Operai, i quali mi
dissono tutto l'ordine che loro avevano dal Duca; e perché con loro e' mi
pareva molto piú sicuramente poter dire le mie ragioni, cominciai a mostrar
loro che tante storie di bronzo sariano di una grandissima spesa, la quale si
era tutta gittata via: e dissi tutte le cagioni, per le quali eglino ne furno
capacissimi. La prima si era, che quel ordine di coro era tutto scorretto, ed
era fatto senza nissuna ragione, né vi si vedeva né arte, né comodità,
né grazia, né disegno; l'altra si era che le ditte storie andavano tanto poste
basse, che le venivano troppo inferiore alla vista, e che le sarebbono un
pisciatoi' da cani, e continue starebbono piene d'ogni bruttura; e che per le
ditte cagioni io in modo nessuno nolle volevo fare. Solo per non gittar via il
resto dei mia migliori anni e non servire Sua Eccellenzia illustrissima,
al quale io desideravo tanto di piacere e servire; imperò, se Sua
Eccellenzia si voleva servir delle fatiche mie, quella mi lasciassi fare la
porta di mezzo di Santa Maria del Fiore, la quale sarebbe opera che sarebbe
veduta, e sarebbe molto piú gloria di Sua Eccellenzia illustrissima; e io mi
ubbrigherei per contratto che, se io nolla facessi meglio di quella, che
è piú bella, delle porte di San Giovanni, non volevo nulla delle mie
fatiche; ma se io la conducevo sicondo la mia promessa, io mi contentavo che la
si facessi stimare, e dappoi mi dessino mille scudi di manco di quello che
dagli uomini dell'arte la fussi stimata. A questi Operai molto piacque questo
che io avevo lor proposto, e andorno a parlarne al Duca, che fu, in fra gli
altri, Piero Salviati, pensando di dire al Duca cosa che gli fussi gratissima;
e la gli fu tutto 'l contrario; e disse che io volevo sempre fare tutto 'l
contrario di quello che gli piaceva che io facessi: e sanza altra conclusione
il detto Piero si partí dal Duca. Quando io intesi questo, subito me n'andai a
trovare 'l Duca, il quale mi si mostrò alquanto sdegnato meco; il quali
io pregai che si degnassi di ascoltarmi, ed ei cosí mi promesse: di modo che io
mi cominciai da un capo; e con tante belle ragioni gli detti ad intendere la
verità di tal cosa, mostrando a Sua Eccellenzia che l'era una grande
spesa gittata via: di sorte che io l'avevo molto addolcito con dirgli, che se a
Sua Eccellenzia illustrissima non piaceva che e' si facessi quella porta, che
egli era di necessità il fare a quel coro dua pergami, e che quegli
sarebbono due grande opere e sarebbono gloria di Sua Eccellenzia illustrissima,
e che io vi farei una gran quantità di storie di bronzo, di basso
rilievo, con molti ornamenti: cosí io lo ammorbidai e mi commesse che io
facessi i modegli. Io feci piú modelli e durai grandissime fatiche: e infra gli
altri ne feci uno a otto faccie, con molto maggiore studio che io nonnavevo
fatto gli altri, e mi pareva che e' fussi molto piú comodo al servizio che gli
aveva affare. E perché io gli avevo portati piú volte a Palazzo, Sua
Eccellenzia mi fece intendere per messer Cesere, guardaroba, che io gli
lasciassi. Dappoi che 'l Duca gli aveva veduti, vidi che di quei Sua
Eccellenzia aveva scelto il manco bello. Un giorno Sua Eccellenzia mi fe'
chiamare, e innel ragionare di questi detti modelli io gli dissi e gli mostrai
con molte ragioni, che quello a otto faccie saria stato molto piú comodo a
cotal servizio, e molto piú bello da vedere. Il Duca mi rispose, che voleva che
io lo facessi quadro, perché gli piaceva molto piú in quel modo; e cosí
molto piacevolmente ragionò un gran pezzo meco. Io non mancai di non
dire tutto quello che mi occorreva, in difensione dell'arte. O che il Duca
conoscessi che io dicevo 'l vero, e pur volessi fare a suo modo, e' si stette
di molto tempo che e' non mi fu detto nulla.
XCIX. In
questo tempo il gran marmo del Nettunno si era stato portato per il
fiume d'Arno e poi condotto per la Grieve in sulla strada del Poggio a Caiano,
per poterlo poi meglio condurre afFirenze per quella strada piana, dove io lo
andai a vedere. E se bene io sapevo certissimo che la Duchessa l'aveva per suo
propio favore fatto avere al cavalieri Bandinello; non per invidia che io
portassi al Bandinello, ma sí bene mosso a pietà del povero mal
fortunato marmo (guardisi, che qual cosa e' si sia, la quale sia sottoposta a
mal destino, che un la cerchi scampare da qualche evidente male, gli avviene
che la cade in molto peggio, come fece il detto marmo alle man di Bartolomeo
Ammannato, del quale si dirà 'l vero al suo luogo), veduto che io ebbi
il bellissimo marmo, subito presi la sua altezza e la sua grossezza per tutti i
versi, e tornatomene a Firenze, feci parecchi modellini approposito. Dappoi io
andai al Poggio a Caiano, dove era il Duca e la Duchessa e 'l Principe lor
figliuolo; e trovandogli tutti a tavola, il Duca con la Duchessa mangiava
ritirato, di modo che io mi missi attrattenere il Principe. E avendolo
trattenuto un gran pezzo, il Duca, che era innuna stanza ivi vicino, mi
sentiva, e con molto favore e' mi fece chiamare; e giunto che io fui alle
presenze di loro Eccellenzie, con molte piacevole parole la Duchessa
cominciò a ragionar meco: con el qual ragionamento a poco a poco io
cominciai a ragionar di quel bellissimo marmo, che io avevo veduto; e cominciai
a dire come la lor nobilissima Scuola i loro antichi l'avevano fatta cosí
virtuosissima, solo per far fare aggara tutti i virtuosi nelle lor professione;
e in quel virtuoso modo ei s'era fatto la mirabil cupola, e le bellissime porte
di Santo Giovanni, e tant'altri bei tempii e statue, le quali facevano una
corona di tante virtú a la lor città, la quale dagli antichi in qua la
non aveva mai aùto pari. Subito la Duchessa con istizza mi disse, che
benissimo lei sapeva quello che io volevo dire; e disse che alla presenza sua
io mai piú parlassi di quel marmo, perché io gnele facevo dispiacere. Dissi: -
Addunche vi fo io dispiacere per volere essere proccuratore di Vostre
Eccellenzie, facendo ogni opera perché le sieno servite meglio? Considerate,
Signora mia: se Vostre Eccellenzie illustrissime si contentano, che ogniuno
facci un modello di un Nettunno, se bene voi siate resoluti che l'abbia il
Bandinello, questo sarà causa che 'l Bandinello per onor suo si
metterà con maggiore studio a fare un bel modello, che e' non
farà sapendo di non avere concorrenti: e in questo modo voi, Signori,
sarete molto meglio serviti e non torrete l'animo alla virtuosa Scuola, e
vedrete chi si desta al bene: io dico al bel modo di questa mirabile arte; e
mosterrete voi Signori di dilettarvene e d'intendervene -. La Duchessa con gran
còllora mi disse che io l'avevo fradicia, e che voleva che quel marmo
fussi del Bandinello, e disse: - Dimandane il Duca, che anche Sua Eccellenzia vole
che e' sia del Bandinello -. Detto che ebbe la Duchessa, il Duca, che era
sempre stato cheto, disse: - Gli è venti anni che io feci cavare quel
bel marmo apposta per il Bandinello, e cosí io voglio che il Bandinello
l'abbia, e sia suo -. Subito io mi volsi al Duca, e dissi: - Signor mio, io
priego Vostra Eccellenzia illustrissima che mi faccia grazia che io dica a
Vostra Eccellenzia quattro parole per suo servizio -. Il Duca mi disse che io
dicessi tutto quello che io volevo, e che e' mi ascolterebbe. Allora io dissi:
- Sappiate, Signor mio, che quel marmo, di che 'l Bandinello fece Ercole e
Cacco, e' fu cavato per quel mirabil Michelagnolo Buonaroti, il quale aveva
fatto un modello di un Sensone con quattro figure, il quale saria stato la piú
bella del mondo; e il vostro Bandinello ne cavò dua figure sole, mal
fatte e tutte rattoppate: il perché la virtuosa Scuola ancor grida del gran
torto che si fece a quel bel marmo. Io credo che e' vi fu appiccato piú di
mille sonetti, in vitupero di cotesta operaccia; e io so che Vostra Eccellenzia
illustrissima benissimo se ne ricorda. E però, valoroso mio Signore, se
quegli uomini che avevano cotal cura, furno tanto insapienti, che loro tolsono
quel bel marmo a Michelagnolo, che fu cavato per lui, e lo dettono al Bandinello,
il quale lo guastò, come si vede; oh! comporterete voi mai che questo
ancor molto piú bellissimo marmo, se bene gli è del Bandinello, il quale
lo guasterebbe, di nollo dare ad uno altro valent'uomo che ve lo acconci? Fate,
Signor mio, che ogniuno che vuole faccia un modello e dipoi tutti si scuoprano
alla Scuola, e Vostra Eccellenzia illustrissima sentirà quel che la
Scuola dice; e Vostra Eccellenzia con quel suo buon iudizio saprà scerre
il meglio, e in questo modo voi non gitterete via i vostri dinari, né manco
torrete l'animo virtuoso a una tanto mirabile Scuola, la quale si è oggi
unica al mondo: che è tutta gloria di Vostra Eccellenzia illustrissima
-. Ascoltato che il Duca mi ebbe benignissimamente, subito si levò da
tavola e voltomisi, disse: - Va, Benvenuto mio, e fa un modello, e
guadàgnati quel bel marmo, perché tu mi di' il vero, e io lo conosco -.
La Duchessa, minacciandomi col capo, isdegnata disse borbottando non so che; e
io feci lor reverenza, e me ne tornai a Firenze, che mi pareva mill'anni di
metter mano nel detto modello.
c. Come il Duca venne a Firenze, senza farmi intendere nulla, e'
se ne venne a casa mia, dove io gli mostrai dua modelletti diversi l'uno da
l'altro; e sebbene egli me gli lodò tutt'a dua, e' mi disse che uno
gnele piaceva piú dell'altro, e che io finissi bene quello che gli piaceva, che
buon per me: e perché Sua Eccellenzia aveva veduto quello che aveva fatto il
Bandinello e anche degli altri, Sua Eccellenzia lodò molto piú il mio da
gran lunga, ché cosí mi fu detto da molti dei sua cortigiani, che l'avevano
sentito. Infra l'altre notabile memorie, da farne conto grandissimo, si fu, che
essendo venuto a Firenze il cardinale di Santa Fiore, e menandolo il Duca al
Poggio a Caiano, innel passare, per il viaggio, e vedendo il detto marmo, il
Cardinale lo lodò grandemente, e poi domandò a chi Sua
Eccellenzia lo aveva dedicato che lo lavorassi. Il Duca subito
disse: - Al mio Benvenuto, il quale ne ha fatto un bellissimo modello -. E
questo mi fu ridetto da uomini di fede: e per questo io me n'andai a trovare la
Duchessa e gli portai alcune piacevole cosette dell'arte mia, le quale Sua
Eccellenzia illustrissima l'ebbe molto care; dipoi la mi dimandò quello
che io lavoravo: alla quale io dissi: - Signora mia, io mi sono preso per
piacere di fare una delle piú faticose opere che mai si sia fatte al mondo: e
questo si è un Crocifisso di marmo bianchissimo, in su una croce di
marmo nerissimo, ed è grande quanto un grande uomo vivo -. Subito la mi
dimandò quello che io ne volevo fare. Io le dissi: - Sappiate, Signora
mia, che io nollo darei a chi me ne dessi dumila ducati d'oro in oro; perché
una cotale opera nissuno uomo mai non s'è messo a una cotale estrema
fatica; né manco io non mi sarei ubbrigato affarlo per qualsivoglia Signore,
per paura di non restarne in vergogna. Io mi sono comperato i marmi di mia
danari, e ho tenuto un giovane in circa a dua anni, che m'ha aiutato, e infra
marmi e ferramenti in su che gli è fermo, e salari, e' mi costa piú di
trecento scudi; attale, che io nollo darei per dumila scudi d'oro; ma se Vostra
Eccellenzia illustrissima mi vuol fare una lecitissima grazia, io gnele
farò volentieri un libero presente: solo priego Vostra Eccellenzia
illustrissima che quella non mi sfavorisca, né manco non mi favorisca nelli
modelli che Sua Eccellenzia illustrissima si ha commesso che si faccino
del Nettunno per il gran marmo -. Lei disse con molto sdegno: - Addunche tu non
istimi punto i mia aiuti o mia disaiuti? - Anzi, gli stimo, Signora mia; o
perché vi offero io di donarvi quello che io stimo dumila ducati? Ma io mi fido
tanto delli mia faticosi e disciplinati studii, che io mi prometto di
guadagnarmi la palma, se bene e' ci fussi quel gran Michelagnolo Buonaroti, dal
quale, e non mai da altri, io ho imparato tutto quel che io so: e mi sarebbe
molto piú caro che e' facessi un modello lui, che sa tanto, che questi altri
che sanno poco; perché con quel mio cosí gran maestro io potrei guadagnare
assai, dove con questi altri non si può guadagnare -. Dette le mie
parole, lei mezzo sdegnata si levò, e io ritornai al mio lavoro
sollicitando il mio modello quanto piú potevo. E finito che io lo ebbi, il Duca
lo venne a vedere, ed era seco dua imbasciatori, quello del Duca di Ferrara e
quello della Signoria di Lucca, e cosí ei piacque grandemente, e il Duca disse
i quei Signori: - Benvenuto veramente lo merita -. Allora li detti mi favorirno
grandemente tutt'a dua, e piú lo imbasciatore di Lucca, che era persona
litterata, e dottore. Io, che mi ero scostato alquanto, perché e' potessino
dire tutto quello che pareva loro, sentendomi favorire, subito mi accostai, e
voltomi al Duca, dissi: - Signor mio, Vostra Eccellenzia illustrissima
doverebbe fare ancora un'altra mirabil diligenzia: comandare che chi vole
faccia un altro modello di terra, della grandezza appunto che gli esce di quel
marmo; e aqquel modo Vostra Eccellenzia illustrissima vedrà molto meglio
chi lo merita; e vi dico: che se Vostra Eccellenzia lo darà a chi nollo
merita, quella non farà torto a quel che lo merita, anzi la
farà un gran torto a sé medesima, perché la n'acquisterà danno e
vergogna; dove faccendo il contrario, con il darlo a chi lo merita, in prima
ella ne acquisterà gloria grandissima e spenderà bene il suo
tesoro, e le persone virtuose allora crederranno che quella se ne diletti e se
ne intenda -. Subito che io ebbi ditte queste parole, il Duca si ristrinse
nelle spalle, e avviatosi per andarsene, lo imbasciatore di Lucca disse al
Duca: - Signore, questo vostro Benvenuto si è un terribile uomo -. Il
Duca disse: - Gli è molto piú terribile che voi non dite; e buon per lui
se e' non fussi stato cosí terribile, perché gli arebbe aùto a quest'ora
delle cose che e' non ha aúte -. Queste formate parole me le ridisse il
medesimo imbasciatore, quasi riprendendomi che io non dovessi fare cosí.
Al quale io dissi che io volevo bene al mio Signore, come suo amorevol fidel
servo, e non sapevo fare lo adulatore. Di poi parecchi settimane passate, il
Bandinello si morí; e si credette che, oltre ai sua disordini, che questo
dispiacere, vedutosi perdere il marmo, ne fossi buona causa.
CI. Il detto
Bandinello aveva inteso come io avevo fatto quel Crocifisso che io ho detto di
sopra: egli subito messe mano innun pezzo di marmo, e fece quella Pietà
che si vede nella chiesa della Nunziata. E perché io avevo dedicato il mio
Crocifisso a Santa Maria Novella, e di già vi avevo appiccati gli
arpioni per mettervelo, solo domandai di fare sotto i piedi del mio Crocifisso,
in terra, un poco di cassoncino, per entrarvi dipoi che io sia morto. I detti
frati mi dissono che non mi podevano concedere tal cosa, sanza il dimandarne i
loro Operai; ai quali io dissi: - O frati, perché non domandasti voi in prima
gli Operai nel dar luogo al mio bel Crocifisso, che senza lor licenzia voi mi
avete lasciato mettere gli arpioni e l'altre cose? - E per questa cagione io
non volsi dar piú alla chiesa di Santa Maria Novella le mie tante estreme
fatiche, se bene dappoi e' mi venne a trovare quegli Operai e me ne pregorno.
Subito mi volsi alla chiesa della Nunziata, e ragionando di darlo in quel modo
che io volevo a Santa Maria Novella, quegli virtuosi frati di detta Nunziata
tutti d'accordo mi dissono che io lo mettessi nella lor chiesa, e che io vi
facessi la mia sepoltura in tutti quei modi che a me pareva e piaceva. Avendo
presentito questo il Bandinello, e' si misse con gran sollecitudine a finire la
sua Pietà, e chiese alla Duchessa che gli facessi avere quella cappella
che era de' Pazzi; la quale s'ebbe con difficultà: e subito che egli
l'ebbe, con molta prestezza ei messe sú la su opera, la quale non era finita
del tutto, che egli si morí. La Duchessa disse che ella lo aveva aiutato in
vita e che lo aiuterebbe ancora in morte; e che se bene gli era morto, che io
non facessi mai disegno d'avere quel marmo. Dove Bernardone sensale mi disse un
giorno, incontrandoci in villa, chi la Duchessa aveva dato il marmo; al quale
io dissi: - Oh sventurato marmo! certo che alle mali del Bandinello egli era
capitato male, ma alle mani dell'Ammanato gli è capitato cento volte
peggio! - Io avevo aùto ordine dal Duca di fare il modello di terra,
della grandezza che gli usciva del marmo, e mi aveva fatto provvedere di legni
e terra, e mi fece fare un poco di parata nella loggia, dove è il mio
Perseo, e mi pagò un manovale. Io messi mano con tutta la sollicitudine
che io potevo, e feci l'ossatura di legno con la mia buona regola, e
felicemente lo tiravo al suo fine, non mi curando di farlo di marmo, perché io
conoscevo che la Duchessa si era disposta che io noll'avessi, e per questo io
non me ne curavo: solo mi piaceva di durare quella fatica, colla quale io mi
promettevo che, finito che io lo avessi, la Duchessa, che era pure persona
d'ingegno, avvenga che la l'avessi dipoi veduto, io mi promettevo che e' le
sarebbe incresciuto d'aver fatto al marmo e a sé stessa un tanto smisurato
torto. E' ne faceva uno Giovanni Fiammingo ne' chiostri di Santa Croce, e uno
ne faceva Vincenzio Danti, perugino, in casa messer Ottaviano de' Medici; un
altro ne cominciò il figliuolo del Moschino a Pisa, e un altro lo faceva
Bartolomeo Ammannato nella Loggia, ché ce l'avevano divisa. Quando io l'ebbi
tutto ben bozzato, e volevo cominciare a finire la testa, che di già io
gli avevo dato un poco di prima mana, il Duca era sceso del
Palazzo, e Giorgetto pittore lo aveva menato nella stanza dell'Ammannato, per
fargli vedere il Nettunno, in sul quale il detto Giorgino aveva lavorato di sua
mano di molte giornate insieme co 'l detto Ammannato e con tutti i sua
lavoranti. In mentre che 'l Duca lo vedeva, e' mi fu detto che e' se ne
sattisfaceva molto poco; e se bene il detto Giorgino lo voleva empiere di
quelle sue cicalate, il Duca scoteva 'l capo, e voltosi al suo messer
Gianstefano, disse: - Va e dimanda Benvenuto se il suo gigante è di
sorte innanzi, che ei si contentassi di darmene un poco di vista -. Il detto
messer Gianstefano molto accortamente e benignissimamente mi fece la imbasciata
da parte del Duca; e di piú mi disse che se l'opera mia non mi pareva che la
fussi ancora da mostrarsi, che io liberamente lo dicessi: perché il Duca
conosceva benissimo, che io avevo aùto pochi aiuti a una cosí grande
impresa. Io dissi che e' venissi di grazia, e se bene la mia opera era poco
innanzi, lo ingegno di Sua Eccellenzia illustrissima si era tale che benissimo
lo giudicherebbe quel che ei potessi riuscire finito. Cosí il detto gentile
uomo fece la imbasciata al Duca, il quale venne volentieri: e subito che Sua
Eccellenzia entrò nella stanza, gittato gli occhi alla mia opera, ei
mostrò d'averne molta sattisfazione: di poi gli girò tutto
all'intorno, fermandosi alle quattro vedute, che non altrimenti si arebbe fatto
uno che fussi stato peritissimo dell'arte; di poi fece molti gran segni e atti
di dimostrazione di piacergli, e disse solamente: - Benvenuto, tu gli hai a
dare solamente una ultima pelle -; poi si volse a quei che erano con Sua
Eccellenzia, e disse molto bene della mia opera, dicendo: - Il modello piccolo,
che io vidi in casa sua, mi piacque assai; ma questa sua opera si ha trapassato
la bontà del modello.
CII. Sí come piacque a Iddio, che ogni cosa fa
per il nostro meglio - io dico di quegli che lo ricognoscono e che gli credono,
sempre Iddio gli difende - in questi giorni mi capitò innanzi un certo
ribaldo da Vicchio, chiamato Piermaria d'Anterigoli, e per sopra nome lo
Sbietta: l'arte di costui si è il pecoraio, e perché gli è
parente stretto di messer Guido Guidi, medico e oggi proposto di Pescia, io gli
prestai orecchi. Costui mi offerse di vendermi un suo podere a vita mia naturale,
il qual podere io nollo volsi vedere, perché io avevo desiderio di finire il
mio modello del gigante Nettunno; e ancora perché e' non faceva di bisogno che
io lo vedessi, perché egli me lo vendeva per entrata: la quale il detto mi
aveva dato in nota di tante moggia di grano e di vino, olio e biade e marroni e
vantaggi, i quali io facevo il mio conto che al tempo che noi eravamo, le dette
robe valevano molto piú di cento scudi d'oro innoro, e io gli davo secento
cinquanta scudi contando le gabelle. Di modo che, avendomi lasciato scritto di
sua mano che mi voleva sempre, per tanto quanto io vivevo, mantenere le dette
entrate, io non mi curai d'andare a vedere il detto podere; ma sí bene io, il
meglio che io potetti, mi informai se il detto Sbietta e ser Filippo, suo fratello
carnale erano di modo benestanti che io fussi sicuro. Cosí da molte persone
diverse che gli conoscevano, mi fu detto che io ero sicurissimo. Noi chiamammo
d'accordo ser Pierfrancesco Bertoldi, notaio alla Mercatanzia; e la prima cosa
io gli detti in mano tutto quello che 'l detto Sbietta mi voleva mantenere,
pensando che la detta scritta si avessi a nominare innel contratto: di modo che
'l detto notaio, che lo rogò, attese a' ventidua confini, che gli diceva
il detto Sbietta, e sicondo me ei non si ricordò di includere nel detto
contratto quello che 'l detto venditore mi aveva offerto; e io, in mentre che
'l notaio scriveva, io lavoravo; e perché ei penò parecchi ore a
scrivere, io feci un gran brano della testa del detto Nettunno. Cosí avendo
finito il detto contratto, lo Sbietta mi cominciò affare le
maggior carezze del mondo, e io facevo 'l simile a lui. Egli mi presentava
cavretti, caci, capponi, ricotte e molte frutte, di modo che io mi cominciai
mezzo mezzo a vergognare: e per queste amorevolezze io lo levavo, ogni volta
che lui veniva a Firenze, d'in su la osteria; e molte volte gli era con
qualcuno dei sua parenti, i quali venivano ancora loro; e con piacevoli modi
egli mi cominciò a dire che gli era una vergogna che io avessi compro un
podere, e che oramai gli era passato tante settimane, che io non mi risolvessi
di lasciare per tre dí un poco le mie faccende ai mia lavoranti e andassilo a
vedere. Costui potette tanto cone 'l suo lusingarmi, che io pure in mia mal'ora
l'andai a vedere; e il detto Sbietta mi ricevvé in casa sua con tante carezze e
con tanto onore, che ei non ne poteva far piú a un duca; e la sua moglie mi
faceva piú carezze di lui; e in questo modo noi durammo un pezzo, tanto che e'
gli venne fatto tutto quello che gli avevano disegnato di fare, lui e 'l suo
fratello ser Filippo.
CIII. Io non
mancavo di sollicitare il mio lavoro del Nettunno, e di già l'avevo
tutto bozzato, sí come io dissi di sopra, con bonissima regola, la quale non
l'ha mai usata né saputa nessuno innanzi a me; di modo che, se bene io ero
certo di non avere il marmo per le cause dette di sopra, io mi credevo presto
di aver finito, e subito lasciarlo vedere alla Piazza, solo per mia
sattisfazione. La stagione si era calda e piacevole, di modo che, essendo tanto
carezzato da questi dua ribaldi, io mi mossi un mercoledí, che era dua feste,
di villa mia a Trespiano, e avevo fatto buona colezione, di sorte che gli era
piú di venti ore quando io arrivai a Vicchio; e subito trovai ser Filippo alla
porta di Vicchio, il qual pareva che sapessi come io vi andavo; tante carezze
ei mi fece e menatomi a casa dello Sbietta, dove era la sua impudica moglie,
ancora lei mi fece carezze smisurate; alla quale io donai un cappello di paglia
finissimo; perché ella disse di non aver mai veduto il piú bello. Allora e' non
v'era lo Sbietta. Appressandosi alla sera, noi cenammo tutti insieme molto
piacevolmente: di poi mi fu dato una onorevol camera, dove io mi riposai innun
pulitissimo letto; e a dua mia servitori fu dato loro il simile, secondo il
grado loro. La mattina, quando mi levai, e' mi fu fatto le medesime carezze.
Andai a vedere il mio podere, il quale mi piacque: e mi fu consegnato tanto
grano e altre biade; e di poi, tornatomene a Vicchio, il prete ser Filippo mi
disse: - Benvenuto, non vi dubitate; che se bene voi non vi avessi trovato
tutto lo intero di quello che e' v'è stato promesso, state di buona
voglia, che e' vi sarà attenuto da vantaggio, perché voi vi siete
impacciato con persone dabbene: e sappiate che cotesto lavoratore noi gli
abbiamo dato licenzia, perché gli è un tristo -. Questo lavoratore si
chiamava Mariano Rosegli, il quale piú volte mi disse: - Guardate bene a' fatti
vostri, che alla fine voi conoscerete chi sarà di noi il maggior tristo
-. Questo villano, quando ei mi diceva queste parole, egli sogghignava innun
certo mal modo, dimenando 'l capo, come dire: - Va pur là, che tu te
n'avvedrai -. Io ne feci un poco di mal giudizio, ma io non mi immaginavo nulla
di quello che mi avvenne. Ritornato dal podere, il quale si è due miglia
discoste da Vicchio, inverso l'alpe, trovai il detto prete, che colle sue
solite carezze mi aspettava; cosí andammo a fare colezione tutti insieme:
questo non fu desinare, ma fu una buona colezione. Dipoi andandomi a
spasso per Vicchio, di già egli era cominciato il mercato; io mi vedevo
guardare da tutti quei di Vicchio come cosa disusa da vedersi, e piú che ogni
altri da un uomo dabbene, che si sta, di molti anni sono, in Vicchio, e la sua
moglie fa del pane a vendere. Egli ha quivi presso a un miglio certe sue buone
possessione; però si contenta di stare a quel modo. Questo uomo dabbene
abita una mia casa, la quale si è in Vicchio, che mi fu consegnata con
il detto podere, qual si domanda il podere della Fonte; e mi disse: - Io sono
in casa vostra, e al suo tempo io vi darò la vostra pigione; o vorretela
innanzi, in tutti i modi che vorrete farò: basta che meco voi sarete
sempre d'accordo -. E in mentre che noi ragionavamo, io vedevo che questo uomo
mi affisava gli occhi addosso: di modo che io, sforzato da tal cosa, gli dissi:
- Deh ditemi, Giovanni mio caro, perché voi piú volte mi avete cosí guardato
tanto fiso? - Questo uomo dabbene mi disse: - Io ve lo dirò volentieri,
se voi, da quello uomo che voi siate, mi promettere di non dire che io ve
l'abbia detto -. Io cosí gli promessi. Allora ei mi disse: - Sappiate che quel
pretaccio di ser Filippo, e' non sono troppi giorni, che lui si andava
vantando delle valenterie del suo fratello Sbietta, dicendo come gli aveva
venduto il suo podere a un vecchio a vita sua, il quale e non arriverebbe
all'anno intero. Voi vi siate impacciato con parecchi ribaldi, sí che
ingegnatevi di vivere il piú che voi potete, e aprite gli occhi, perché ci vi
bisogna; io non vi voglio dire altro.
civ. Andando a spasso per il mercato, vi trovai Giovanbatista
Santini, e lui e io fummo menati accena dal detto prete; e, sí come io ho detto
per l'addietro, egli era in circa alle venti ore, e per causa mia e' si
cenò cosí abbuon'otta, perché avevo detto che la sera io mi volevo
ritornare a Trespiano: di modo che prestamente e' si messe in ordine, e la
moglie dello Sbietta si affaticava, e infra gli altri un certo Cecchino Buti,
lor lancia. Fatto che furno le insalate, e cominciando a volere entrare
attavola, quel detto mal prete, faccendo un certo suo cattivo risino, disse: -
E' bisogna che voi mi perdoniate, perché io non posso cenar con esso voi,
perché e' m'è sopragiunto una faccenda di grande inportanza per conto
dello Sbietta, mio fratello: per non ci essere lui, bisogna che io sopperisca
per lui -. Noi tutti lo pregammo e non potemmo mai svoggerlo: egli se
n'andò, e noi cominciammo accenare. Mangiato che noi avemmo le
insalate in certi piattelloni comuni, cominciandoci a dare carne lessa, venne
una scodella per uno. Il Santino, che mi era attavola al dirimpetto, disse: - A
voi e' danno tutte le stoviglie diferente da quest'altre: or vedesti voi mai le
piú belle? - Io gli dissi che di tal cosa io non me n'ero avveduto. Ancora ei
mi disse che io chiamassi a tavola la moglie dello Sbietta, la quale, lei e
quel Cecchino Buti, correvono innanzi e indietro, tutti infaccendati
istrasordinatamente. In fine io pregai tanto quella donna che la venne; la
quale si doleva, dicendomi: - Le mie vivande non vi sono piaciute. Però
voi mangiate cosí poco -. Quando io l'ebbi parecchi volte lodato la cena,
dicendole che io non mangiai mai né piú di voglia né meglio, all'ultimo io
dissi che io mangiavo il mio bisogno appunto. Io non mi sarei mai immaginato
perché quella donna mi faceva tanta ressa che io mangiassi. Finito che noi
avemmo di cenare gli era passato le ventun'ora, e io avevo desiderio di
tornarmene la sera a Trespiano, per potere andare l'altro giorno al mio lavoro
della Loggia: cosí dissi addio attutti, e ringraziato la donna mi parti'. Io
non fui discosto tre miglia, che e' mi pareva che lo stomaco mi ardessi, e mi
sentivo travagliato di sorte che e' mi pareva mill'anni di arrivare al mio
podere di Trespiano. Come a Dio piacque arrivai di notte, con gran fatica, e
subito detti ordine d'andarmene a riposare. La notte io non mi potetti mai
riposare, e di piú mi si mosse 'l corpo, il quale mi sforzò parecchi
volte a 'ndare al destro, tanto che, essendosi fatto dí chiaro, io sentendomi
ardere il sesso, volsi vedere che cosa la fussi: trovai la pezza molto
sanguinosa. Subito io mi immaginai di aver mangiato qualche cosa velenosa, e
piú e piú volte mi andavo esaminando da me stesso, che cosa la potessi essere
stata: e mi tornò in memoria quei piatti e scodelle e scodellini, datimi
differenziati dagli altri la detta moglie dello Sbietta; e perché quel
mal prete, fratello dello Sbietta, ed essendosi tanto affaticato in farmi tanto
onore, e poi non volere restare a cena con esso noi; e ancora mi tornò
in memoria l'aver detto il detto prete come il suo Sbietta aveva fatto un sí
bel colpo con l'aver venduto un podere a un vecchio a vita, il quale non
passerebbe mai l'anno; ché tal parole me l'aveva ridette quell'uomo dabbene di
Giovanni Sardella. Di modo che io mi risolsi, che eglino m'avessino dato innuno
scodellino di salsa, la quale si era fatta molto bene e molto piacevole da
mangiare, una presa di silimato, perché il silimato fa tutti quei mali che io
mi vedevo d'avere; ma perché io uso di mangiare poche salse o savori colle
carne, altro che 'l sale, imperò e mi venne mangiato dua bocconcini di
quella salsa, per essere cosí buona alla bocca. E mi andavo ricordando come
molte volte la detta moglie dello Sbietta mi sollicitava con diversi modi,
dicendomi che io mangiassi quella salsa: di modo che io conobbi per certissimo
che con quella detta salsa eglino mi avevano dato quel poco del silimato.
cv. Trovandomi in quel modo afflitto, a ogni modo andavo
allavorare alla ditta Loggia il mio gigante: tanto che in pochi giorni appresso
il gran male mi sopra fece tanto che ei mi fermò nel letto. Subito che
la Duchessa sentí che io ero ammalato, la fece dare la opera del disgraziato
marmo libera a Bartolomeo dell'Ammannato, il quale mi mandò a dire per
messer… che io facessi quel che io volessi del mio cominciato modello, perché
lui si aveva guadagnato il marmo. Questo messer... si era uno degli innamorati
della moglie del detto Bartolomeo Ammannato; e perché gli era il piú favorito
come gentile e discreto, questo detto Ammannato gli dava tutte le sue
comodità, delle quali ci sarebbe da dire di gran cose. Imperò io
non voglio fare come il Bandinello, suo maestro, che con i ragionamenti uscí
dell'arte; basta che io dissi io me l'ero sempre indovinato; e che dicessi a
Bartolomeo che si affaticassi, acciò che ei dimostrassi di saper buon
grado alla fortuna di quel tanto favore, che cosí immeritamente la gli aveva
fatto. Cosí malcontento mi stavo in letto, e mi facevo medicare da quello
eccellentissimo uomo di maestro Francesco da Monte Varchi, fisico, e insieme
seco mi medicava di cerusía maestro Raffaello de' Pilli; perché quel silimato
mi aveva di sorte arso il budello del sesso, che io non ritenevo punto lo
sterco. E perché il detto maestro Francesco, conosciuto che il veleno aveva
fatto tutto il male che e' poteva, perché e' non era stato tanto che gli avessi
sopra fatta la virtú della valida natura, che lui trovava in me, imperò
mi disse un giorno: - Benvenuto, ringrazia Iddio, perché tu hai vinto; e non
dubitare, che io ti voglio guarire, per far dispetto ai ribaldi che t'hanno
voluto far male -. Allora maestro Raffaellino disse: - Questa sarà una
delle piú belle e delle piú difficil cure, che mai ci sia stato notizia: sappi,
Benvenuto, che tu hai mangiato un boccone di silimato -. A queste parole
maestro Francesco gli dette in su la voce e disse: - Forse fu egli qualche
bruco velenoso -. Io dissi che certissimo sapevo che veleno gli era e chi me
l'aveva dato: e qui ogniuno di noi tacette. Eglino mi attesono a medicare piú
di sei mesi interi; e piú di uno anno stetti, innanzi che io mi potessi
prevalere della vita mia.
cvi. In questo tempo il Duca se n'andò affare l'entrata a
Siena, e l'Ammannato era ito certi mesi innanzi a fare gli archi trionfali. Un
figliuolo bastardo, che aveva l'Ammannato, si era restato nella Loggia, e mi
aveva levato certe tende che erano in sul mio modello del Nettunno, che per non
essere finito io lo tenevo coperto. Subito io mi andai a dolere al signor don
Francesco, figliuolo del Duca, il quale mostrava di volermi bene, e gli dissi
come e' mi avevano scoperto la mia figura, la quale era imprefetta; che se la
fussi stata finita, io non me ne sarei curato. A questo mi rispose il detto
Principe, alquanto minacciando col capo e disse: - Benvenuto, non ve ne curate
che la stia scoperta, perché e' fanno tanto piú contra di loro; e se pure voi
vi contentate che io ve la faccia coprire, subito la farò coprire -. E
con queste parole Sua Eccellenzia illustrissima aggiunse molte altre in mio
gran favore, alla presenza di molti Signori. Allora io gli dissi, che lo
pregavo Sua Eccellenzia mi dessi comodità che io lo potessi finire,
perché ne volevo fare un presente insieme con il piccol modellino a Sua
Eccellenzia. Ei mi rispose che volentieri accettava l'uno e l'altro, e che mi
farebbe dare tutte comodità che io domanderei. Cosí io mi pasce' di
questo poco del favore, che mi fu causa di salute della vita mia; perché,
essendomi venuti tanti smisurati mali e dispiaceri a un tratto, io mi vedevo
mancare: per quel poco del favore mi confortai con qualche speranza di vita.
cvii. Essendo di già passato l'anno che io avevo il podere
della Fonte dallo Sbietta, e oltra tutti i dispiaceri fattimi e di veleni e
d'altre loro ruberie, veduto che 'l detto podere non mi fruttava alla
metà di quello che loro me lo avevano offerto, e ne avevo, oltre a i
contratti, una scritta di mano dello Sbietta, il quale mi si ubbrigava con
testimoni a mantenermi le dette entrate, io me n'andai a' signor Consiglieri;
ché in quel tempo viveva messer Alfonso Quistello ed era fiscale, e si ragunava
con i signori Consiglieri; e de' Consiglieri si era Averardo Serristori e
Federigo de' Ricci: io non mi ricordo del nome di tutti: ancora n'era uno degli
Alessandri: basta che gli era una sorte di uomini di gran conto. Ora avendo
conte le mie ragioni al magistrato, tutti a una voce volevano che 'l detto
Sbietta mi rendessi li mia dinari, salvo che Federigo de' Ricci, il quale si
serviva in quel tempo del detto Sbietta; di sorte che tutti si
condolsono meco che Federigo de' Ricci teneva che loro non me la spedivan; e
infra gli altri Averardo Serristori con tutti gli altri; ben che lui faceva un
rimore strasordinario, e 'l simile quello degli Alessandri: che
avendo il detto Federigo tanto trattenuto la cosa che 'l magistrato aveva
finito l'uffizio, mi trovò il detto gentiluomo una mattina, di poi che
gli erano usciti in su la piazza della Nunziata, e senza un rispetto al mondo
con alta voce disse: - Federigo de' Ricci ha tanto potuto piú di tutti noi
altri, che tu se' stato assassinato contro la voglia nostra -. Io non voglio
dire altro sopra di questo, perché troppo si offenderebbe chi ha la suprema
potestà del governo; basta che io fui assassinato a posta di un
cittadino ricco, solo perché e' si serviva di quel pecoraio.
cviii. Trovandosi
il Duca alLivorno, io lo andai a trovare, solo per chiedergli licenzia.
Sentendomi ritornare le mie forze, e veduto che io non ero adoperato annulla,
e' m'incresceva di far tanto gran torto alli mia studii; di modo che resolutomi
me n'andai alLivorno, e trova' vi il Duca che mi fece gratissima
accoglienza. E perché io vi stetti parecchi giorni, ogni giorno io cavalcavo
con Sua Eccellenzia, e avevo molto agio a poter dire tutto quello che io
volevo, perché il Duca usciva fuor di Livorno e andava quattro miglia rasente
'l mare, dove egli faceva fare un poco di fortezza e per non essere molestato
da troppe persone, e' gli aveva piacere che io ragionassi seco: di modo che un
giorno, vedendomi fare certi favori molto notabili, io entrai con proposito a
ragionare dello Sbietta, cioè di Piermaria d'Anterigoli, e dissi: -
Signore, io voglio contare a Vostra Eccellenzia illustrissima un caso
maraviglioso, per il quale Vostra Eccellenzia saprà la causa che mi
impedí a non potere finire il mio Nettunno di terra, che io lavoravo nella
Loggia. Sappi Vostra Eccellenzia illustrissima come io avevo comperato un
podere a vita mia dallo Sbietta -. Basta che io dissi il tutto minutamente, non
macchiando mai la verità con il falso. Ora quando io fui al veleno, io
dissi che, se io fussi stato mai grato servitore nel cospetto di Sua
Eccellenzia illustrissima, che quella doverrebbe, in cambio di punire lo
Sbietta o quegli che mi dettono il veleno, dar loro qualche cosa di buono;
perché il veleno non fu tanto che egli mi ammazzassi; ma sí bene ei fu appunto
tanto a purgarmi di una mortifera vischiosità, che io avevo dentro nello
stomaco e negli intestini; - il quale ha operato di modo, che dove, standomi
come io mi trovavo, potevo vivere tre o quattro anni, e questo modo di medicina
ha fatto di sorte, che io credo d'aver guadagnato vita per piú di venti anni; e
per questo con maggior voglia che mai, piú ringrazio Iddio; e però
è vero quel che alcune volte io ho inteso dire da certi, che dicono:
“Iddio ci mandi mal, che ben ci metta” -. Il Duca mi stette a udire piú di dua
miglia di viaggio, sempre con grande attenzione; solo disse: - O male persone!
- Io conclusi che ero loro ubbrigato ed entrai in altri piacevoli ragionamenti.
Appostai un giorno approposito, e trovandolo piacevole ammio modo,
io pregai Sua Eccellenzia illustrissima che mi dessi buona licenzia,
acciò che io non gittassi via qualche anno acché io ero ancor buono
affar qualche cosa, e che di quello che io restavo d'avere ancora
del mio Perseo, Sua Eccellenzia illustrissima me lo dessi quando aqquella
piaceva. E con questo ragionamento io mi distesi con molte lunghe cerimonie
arringraziare Sua Eccellenzia illustrissima, la quale non mi rispose nulla al
mondo, anzi mi parve che e' dimostrassi di averlo aùto per male. L'altro
giorno seguente messer Bartolomo Consino, segretario del Duca, de' primi, mi
trovò, e mezzo in braveria, mi disse: - Dice il Duca che se tu
vòi licenzia, egli te la darà; ma se tu vuoi lavorare, che ti
metterà in opera: che tanto potessi voi fare, quanto Sua Eccellenzia vi
darà da fare! - Io gli risposi che non desideravo altro che aver da
lavorare, e maggiormente da Sua Eccellenzia illustrissima piú che da tutto il
resto degli uomini del mondo, e fussino papa o imperatori o re; piú volentieri
io servirei Sua Eccellenzia illustrissima per un soldo che ogni altri per un
ducato. Allora ei mi disse: - Se tu se' di cotesto pensiero, voi siate
d'accordo senza dire altro; sí che ritòrnatene a Firenze e sta di buona
voglia, perché il Duca ti vuol bene -. Cosí io mi ritornai a Firenze.
cix. Subito che io fui a Firenze, e' mi venne a trovare un certo
uomo chiamato Raffaellone Scheggia, tessitore di drappi d'oro, il quale mi
disse cosí: - Benvenuto mio, io vi voglio mettere d'accordo con Piermaria
Sbietta -: al quale io dissi che e' non ci poteva mettere d'accordo altri che
li signori Consiglieri, e che in questa mana di Consiglieri lo
Sbietta non v'arà un Federigo de' Ricci, che per un presente di dua
cavretti grassi, sanza curarsi di Dio né de l'onor suo, voglia tenere una cosí
scellerata pugna e fare un tanto brutto torto alla santa ragione. Avendo detto
queste parole, insieme con molte altre, questo Raffaello sempre amorevolmente
mi diceva che gli era molto meglio un tordo, il poterselo mangiare
in pace, che nonnera un grassissimo cappone, se bene un sia certo d'averlo, e
averlo in tanta guerra: e mi diceva che il modo delle liti alcune volte se ne
vanno tanto in lunga, che in quel tempo io arei fatto meglio a spenderlo in
qualche bella opera, per la quale io ne acquisterei molto maggiore onore e
molto maggiore utile. Io, che conoscevo che lui diceva il vero, cominciai a
prestare orecchi alle sue parole; di modo che in breve egli ci accordò
in questo modo: che lo Sbietta pigliassi il detto podere da me affitto per
settanta scudi d'oro innoro l'anno, per tutto 'l tempo durante la vita mia
naturale. Quando noi fummo affarne il contratto, il quale ne fu rogato ser
Giovanni di ser Matteo da Falgano, lo Sbietta disse che in quel modo che noi
avevamo ragionato, importava la maggior gabella; e che egli non mancherebbe - e
però gli è bene che noi facciamo questo affitto di cinque anni in
cinque anni - e che mi manterrebbe la sua fede, senza rinovare mai piú altre
lite. E cosí mi promesse quel ribaldo di quel suo fratello prete; e in quel
modo detto, de' cinque anni, se ne fece contratto.
cx. Volendo entrare innaltro ragionamento, e lasciare per un pezzo
il favellar di questa smisurata ribalderia, sono necessitato in prima dire 'l
seguito dei cinque anni dell'affitto, passato il quale, non volendo quei dua
ribaldi mantenermi nessuna delle promesse fattemi, anzi mi volevano rendere il
mio podere e nollo volevano piú tenere affitto. Per la qual cosa io mi
cominciai a dolere, e loro mi squadernavano addosso il contratto; di modo che
per via della loro mala fede io non mi potevo aiutare. Veduto questo, io dissi
loro come il Duca e 'l Principe di Firenze non sopporterebbono che nelle lor
città e' si assassinassi gli uomini cosí bruttamente. Or questo spavento
fu di tanto valore che e' mi rimissono addosso quel medesimo Raffaello Scheggia
che fece quel primo accordo; e loro dicevano che no me ne volevano dare li scudi
d'oro innoro, come ei mi avevano dato de' cinque anni passati: a' quali io
rispondevo che io non ne volevo niente manco. Il detto Raffaello mi venne a
trovare, e mi disse: - Benvenuto mio, voi sapete che io sono per la parte
vostra: ora loro l'hanno tutto rimisso in me - e me lo mostrò scritto di
lor mano. Io, che non sapevo che il detto fussi lor parente istretto, me ne
parve star benissimo, e cosí io mi rimissi innel detto in tutto e per tutto.
Questo galante uomo ne venne una sera a mezza ora di notte, ed era del mese
d'agosto, e con tante suo' parole egli mi sforzò a far rogare il contratto,
solo perché egli conosceva che se e' si fussi indugiato alla mattina, quello
inganno che lui mi voleva fare non gli sarebbe riuscito. Cosí e' si fece il
contratto, che e' mi dovessi dare sessantacinque scudi di moneta l'anno di
fitto, in dua paghe ogni anno, durante tutta la mia vita naturale. E con tutto
che io mi scotessi, e per nulla non volevo star paziente, il detto mostrava lo
scritto di mia mano, con il quale moveva ognuno a darmi 'l torto; e il detto
diceva che l'aveva fatto tutto per il mio bene e che era per la parte mia; e
non sapendo né il notaio né gli altri come gli era lor parente, tutti mi davano
il torto: per la qual cosa io cedetti in buon'ora, e mi ingegnerò di
vivere il piú che mi sia possibile. Appresso a questo io feci un altro errore
del mese di dicembre 1566 seguente. Comperai mezzo il podere del Poggio
da loro, cioè dallo Sbietta, per dugento scudi di moneta, il quale
confina con quel primo mio della Fonte, con riservo di tre anni, e lo detti
loro affitto. Feci per far bene. Troppo bisognerebbe che lungamente io mi
dilungassi con lo scrivere, volendo dire le gran crudelità che e'
m'hanno fatto; la voglio rimettere in tutto e per tutto in Dio, qual m'ha
sempre difeso da quegli che mi hanno voluto far male.
cxi. Avendo del tutto finito il mio Crocifisso di marmo, ei mi
parve che dirizzandolo e mettendolo levato da terra alquante braccia, che e'
dovessi mostrare molto meglio che il tenerlo in terra; e con tutto che e'
mostrassi bene, dirizzato che io l'ebbi, e' mostrò assai meglio, attale
che io me ne sattisfacevo assai: e cosí io lo cominciai a mostrare a chi lo
voleva vedere. Come Iddio volse, e' fu detto al Duca e alla Duchessa; di sorte
che venuti che e' furno da Pisa, un giorno innaspettatamente tutt'a dua loro
Eccellenzie illustrissime con tutta la nobiltà della lor Corte, vennero
a casa mia solo per vedere il detto Crocifisso: il quale piacque tanto che il
Duca e la Duchessa non cessavano di darmi lode infinite; e cosí
conseguentemente tutti quei Signori e gentili uomini che erano alla presenza.
Ora quando io viddi ch'e' s'erano molto sattisfatti, cosí piacevolmente
cominciai a ringraziargli, dicendo loro che l'avermi levato la fatica del marmo
del Nettunno si era stato la propia causa dell'avermi fatto condurre una
cotale opera, nella quale non si era mai messo nessuno altro innanzi a me; e se
bene io avevo durato la maggior fatica che io mai durassi al mondo, e' mi
pareva averla bene spesa, e maggiormente poi che loro Eccellenzie illustrissime
tanto me la lodavano; e per non poter mai credere di trovare chi piú vi potessi
essere degno di loro Eccellenzie illustrissime, volontieri io ne facevo loro un
presente; solo gli pregavo che prima che e' se ne andassino, si degnassino di
venire innel mio terreno di casa. A queste mie parole piacevolmente subito
rizzatisi, si partirno di bottega, ed entrati in casa viddono il mio modelletto
del Nettuno e della fonte, il quale nollo aveva mai veduto prima che allora la
Duchessa. E' potette tanto negli occhi della Duchessa, che subito la
levò un romore di maraviglia innistimabile; e voltasi al Duca disse: -
Per vita mia, che io non pensavo delle dieci parti una di tanta bellezza -. A
queste parole piú volte il Duca le diceva: - O non ve lo dicevo io? - E cosí
infra di loro con mio grande onore ne ragionorno un gran pezzo; dipoi la
Duchessa mi chiamò a sé, e dipoi molte lodi datemi in modo di scusarsi,
ché innel comento di esse parole mostrava quasi di chieder perdono, dipoi mi
disse che voleva che io mi cavassi un marmo a mio modo, e voleva che io la
mettessi innopera. A quelle benigne parole io dissi, che se loro Eccellenzie
illustrissime mi davano le comodità, che volentieri per loro amore mi
metterei a una cotal faticosa impresa. A questo subito rispose il Duca e disse:
- Benvenuto, e' ti sarà date tutte le comodità che tu saprai
dimandare, e di piú quello che io ti darò dappermé, le qual saranno di
piú valore da gran lunga - e con queste piacevol parole e' si partirno, e me
lasciorno assai contento.
CXII. Essendo
passato di molte settimane, e di me non si ragionava; di modo che, veduto che
e' non si dava ordine di far nulla, io stavo mezzo disperato. In questo tempo
la Regina di Francia mandò messer Baccio del Bene al nostro Duca
a richiederlo di danari in presto; e 'l Duca benignamente ne lo serví, che cosí
si disse; e perché messer Baccio del Bene e io eramo molto domestichi amici,
riconosciutici in Firenze, molto ci vedemmo volentieri; di modo che 'l detto mi
raccontava tutti quei gran favori che gli faceva Sua Eccellenzia illustrissima;
e innel ragionare e' mi domandò come io avevo grande opere alle mane.
Per la qual cosa io gli dissi, come era seguíto, tutto 'l caso del gran
Nettunno e della fonte, e il gran torto che mi aveva fatto la Duchessa. A
queste parole e' mi disse da parte della Regina, come Sua Maestà aveva
grandissimo disiderio di finire il sipulcro del re Arrigo suo marito, e che
Daniello da Volterra aveva intrapreso affare un gran cavallo di bronzo, e che
gli era trapassato il tempo di quello che lui l'aveva promesso, e che al detto
sipulcro vi andava di grandissimi ornamenti; sí che se io volevo tornarmi in
Francia innel mio castello, ella mi farebbe dare tutte le comodità che
io saprei adomandare, pur che io avessi voglia di servirla. Io dissi al detto
messer Baccio, che mi chiedessi al mio Duca; che essendone contento Sua
Eccellenzia illustrissima, io volentieri mi ritornerei in Francia. Messer
Baccio lietamente disse: - Noi ce ne torneremmo insieme - e la misse per fatta.
Cosí il giorno dipoi, parlando il detto cone 'l Duca, venne in proposito il
ragionar di me; di modo che e' disse al Duca, che se e' fussi con sua buona
grazia, la Regina si servirebbe di me. A questo subito il Duca rispose e disse:
- Benvenuto è quel valente uomo che sa il mondo, ma ora lui non vuole piú
lavorare - ed entrati innaltri ragionamenti, l'altro giorno io andai a trovare
il detto messer Baccio, il quale mi ridisse il tutto. A questo io, che non
potetti stare piú alle mosse, dissi: - Oh se dappoi che Sua Eccellenzia
illustrissima non mi dando da fare, e io dappermé ho fatto una delle piú
difficile opere che mai per altri fussi fatta al mondo, e mi costa piú di
dugento scudi, che gli ho spesi della mia povertà; oh che arei io fatto,
se Sua Eccellenzia illustrissima m'avessi messo innopera! Io vi dico veramente,
che e' m'è fatto un gran torto -. Il buono gentile uomo ridisse al Duca
tutto quello che io avevo risposto. Il Duca gli disse che si motteggiava, e che
mi voleva per sé; di modo che io stuzzicai parecchi volte di andarmi con Dio.
La Regina non ne voleva piú ragionare per non fare dispiacere al Duca, e cosí
mi restai assai ben malcontento.
cxiii. In questo tempo il Duca se n'andò, con tutta la sua
Corte e con tutti i sua figliuoli, dal Principe in fuori il quale era in
Ispagna: andorno per le maremme di Siena; e per quel viaggio si condusse a
Pisa. Prese il veleno di quella cattiva aria il Cardinale prima degli altri:
cosí dipoi pochi giorni l'assalí una febbre pestilenziale e in breve
l'ammazzò. Questo era l'occhio diritto del Duca: questo si era bello e
buono, e ne fu grandissimo danno. Io lasciai passare parecchi giorni, tanto che
io pensai che fussi rasciutte le lacrime: dappoi me n'andai a Pisa.