HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Carlo Cattaneo
Scritti vari
INDICE
1.
PSICOLOGIA DELLE
MENTI ASSOCIATE
3.
DEL PENSIERO COME
PRINCIPIO D'ECONOMIA PUBLICA
4.
NOTIZIE NATURALI E
CIVILI SU LA LOMBARDIA
5.
SULLA LEGGE
COMUNALE E PROVINCIALE
Carlo Cattaneo
Idea d'una Psicologia delle scienze.
1. La Psicologia è lo studio delle
facultà del pensiero.
La più adulta e perfetta forma del nostro
pensiero è la contemplazione scientifica, - la contemplazione
dell'ordine universale, - dell'ordine nella natura e nell'umanità.
Or bene, molti sono gli uomini, molte anzi sono
le nazioni, le cui menti non toccarono mai queste sublimi altezze. Mentre il
nome d'alcuni popoli si trova scritto con note gloriose sul vestibolo d'ogni
scienza, innumerevoli nazioni si sono estinte senza lasciar di loro al mondo
una sola idea. Oggi ancora le selve dell'America, le lande dell'Africa, e
dell'Australia, ampie regioni dell'Asia, alcune estremità dell'Europa,
sono seminate di genti dal cui sterile intelletto il corso dei secoli non vide
mai spuntare germoglio di scienza.
Mancò forse ad essi alcuna necessaria
facultà? La loro impotenza scientifica è forse una condanna
fatalmente inflitta dalla natura? - La nature de l'esprit humain est
la même chez tous les hommes, rispondono le scôle francesi. Quando la
psicologia annovera e descrive le facultà dell'animo, le considera tutte
come un retaggio commune degli uomini, come un segno caratteristico del genere.
Come dunque si spiega codesto splendido privilegio
del pensiero scientifico? S'è un produtto spontaneo e immediato
delle facultà umane, perchè non si offre egualmente in tutti i
popoli? Quali sono le condizioni necessarie affinchè le facultà
che si affermano eguali in tutto il genere umano, si esaltino fino a questo
ápice della loro potenza? Come nascono in seno ai popoli le scienze? V'è
una Psicologia delle scienze?
Tale è l'argumento ch'io propongo non
tanto a me medesimo quanto a chiunque ha fede che questi oscuri studii possano
aspirare con tutti li altri e come li altri ad un graduale progresso, per
potere esser poi ministri di pratico progresso ai popoli.
Signori, le ricerche della Psicologia non sono
vano pascolo di menti oziose. Il principio psicologico della sostituzione
reciproca dei sensi ha insegnato ai nostri padri un'arte ignota al mondo
antico, ha insegnato l'educazione ragionata dei ciechi nati e dei sordi muti.
Or v'è nelle nazioni un ordine, cento e cento volte più numeroso,
di ciechi nati ai quali la luce del vero non è luce, - un ordine, cento
e cento volte più numeroso, di sordi muti ai quali la voce del vero
percuote indarno li orecchi. Ma mentre in altri tempi le scienze furono giurate
al silenzio, celate misticamente al vulgo profano, ora lo spirito del secolo
vuole che diventino libero patrimonio di tutti i popoli. I propagatori delle
scienze devono dunque investigare per quali modi il massimo numero delle menti
possa venire eccitato e sussidiato a intraprendere tutto quell'ulteriore lavoro
mentale che supera i limiti dell'infimo senso commune.
Nel secolo scorso, per autorità
principalmente di Montesquieu e di Herder, si attribuì somma influenza
ai climi nella genesi della civiltà e perciò anche della
dottrina. Ma l'istoria delle scienze fa troppo contraria testimonianza. Se
l'India ci diede le cifre decimali, se li Arabi ci diedero il concetto o almeno
il nome dell'algebra, e della chimica; il logaritmo fu ideato nell'estrema
Scozia; Newton, l'interprete delle leggi delli astri, visse nel più
nebuloso dei climi; e Linneo, che unificò nell'idea del fiore tutto il
regno vegetale, visse tra le nevi della Svezia. A parte dunque i climi!
Più accetta, ancora ai nostri giorni,
è la dottrina che reputa il genio scientifico un distintivo di certe
stirpi. È chiaro che, ciò pensando, ogni popolo tende ad adular
sè stesso. È una forma della boria delle nazioni (Vico).
Questa naturale e antica ipotesi dei popoli
eletti acquistò nuova forza dalle due novelle scienze che sursero
dall'applicazione della botanica e della zoologia alla geografia. Come ad ogni
regione del globo fu data una propria flora e una propria fauna, come certe
specie, indigene ad una terra, rappresentano altre specie dello stesso genere,
negate a quella regione e concesse ad un'altra, così pure, a complemento
di tali varietà della creazione, una più ardita ipotesi assegna
in origine ad ogni terra una diversa specie del genere umano. Certe
varietà, o certe miscele di più varietà, sarebbero
riescite più valide di corpo o d'intendimento e atte ad espandersi
più poderose sulla terra, distruggendo o confondendo seco o in ambo i
modi obliterando le altre stirpi primeve. E così si sarebbero costituite
quelle stirpi che sole si potrebbero designare col nome di specie pensante: Homo
sapiens.
Signori, non è del mio argomento
d'accettar questa ipotesi o d'impugnarla. Io non ho dunque a dire come si dovessero
in tal caso evitare quelle odiose illazioni che parrebbero dover quindi
scaturire a danno delle stirpi più deboli, e a conforto di coscienza ad
ogni sorta di conquistatori e d'oppressori. È noto quali conseguenze
traessero i fautori della schiavitù dei Negri dalla scoperta d'una
costante differenza nell'angolo faciale tra i Negri e i Bianchi, onde
aver argumento che quella stirpe fosse inetta ad ogni alto pensiero e
predestinata a vegetare in perpetua puerizia e in tutela necessaria de' suoi
nemici. Voi vedete, Signori, che se l'ipotesi fosse dimostrata,
l'iniquità delle conseguenze non ci esimerebbe dal dovere d'accettare
una dura verità.
Vorrei piuttosto prescindere da questa ipotesi
nel nostro argomento. Piuttosto direi che se con essa si verrebbe assai
facilmente a sciogliere il quesito della primitiva disparità
d'intelligenza fra i popoli, ancora non si spiegherebbe come una progenie
gentile e sagace, una progenie per molti secoli gloriosa nelle scienze, possa
ad un tratto ricadere nella più profonda impotenza mentale. Non si
spiegherebbe come la stirpe greca, già feconda d'ogni frutto
scientifico, ombreggiasse poi per mille anni, infecondo plàtano, la
terra di Costantino. Non fu la spada dei Turchi che troncò nel secolo XV
in Grecia la vita della scienza; essa era già da mille anni inaridita.
Non furono neppure, come alcuno pensò, le controversie teologiche che
preoccupando le menti le avessero chiuse ad ogni altro pensiero.
Perocchè voi sapete che tra le dispute pur teologiche della Sorbona s'agitava
negli stessi secoli la nuova vita del pensiero in Occidente. Infine noi vediamo
oggidì nell'Asia cinquecento millioni d'uomini, metà del genere
umano, appartenente a nazioni ingegnose ed educate in una tradizione
scientifica assai più antica della nostra, giacer quasi mentalmente
petrificati, simili ai depositi fossili che fanno testimonio d'una vita che non
è più.
Pur troppo in forza di cause che stanno
certamente nel dominio della psicologia, un popolo, il cui pensiero rifulse sul
mondo per una serie di generazioni, perviene ad una generazione che cessa di
pensare, che depone quasi in sepolcro le facultà ch'erano sì
operose ne' suoi padri, che smarrisce perfino la coscienza di possederle,
ripudia come una colpa ogni novello pensamento, ogni novella opera delle sue
facultà. Fra le gare del progresso, Signori, la scienza non deve obliar
nemmeno la dolorosa teoria della decadenza e del regresso, il quale è
pure un fatto che si avvera e apporta talora non solo una lunga degradazione
dei popoli ma la loro estinzione. Ma forseché tutta una posterità nasce
priva di quella dote d'ingegno che distinse i suoi padri? E se ha le medesime
attitudini naturali e non se ne vale, qual è il principio che le venne
subitamente mancando? Qual è codesto principio che infonde lo spirito
della vita nell'intelletto delle nazioni, e poi di repente può
abbandonarle ad un sopore di morte?
E viceversa l'ipotesi della disparità
delle stirpi non può spiegare come le genìe sì lungamente
barbare degli Scandinavi, dei Germani, degli Slavi, dei Magiari, quasi
d'improviso, mentre l'Europa meridionale imbarbarita anch'essa non poteva
communicar loro un impulso scientifico ch'essa medesima più non aveva,
poterono determinarsi alla vita nuova del pensiero, e per l'intermedio di lingue
straniere e morte, iniziarsi nelle scienze tanto spregiate dai loro padri. A
risolvere il problema dell'improviso trapasso dei primitivi selvaggi
dall'errare ferino alla vita agricola, Vico ricorse alla imaginaria ipotesi del
primo fulmine e dell'improviso culto di Giove Tonante. Ma forseché quelle tante
tribù che rimasero tuttavia selvagge e che vivono nude e canibali ancora
oggidì, non hanno udito mai lo scoppio del tuono? Vico aveva ben
avvisato, primo fra tutti, che il mondo delle nazioni si doveva spiegare colle
leggi dell'intelletto; ma sul bel principio sottoponeva poi le leggi
dell'intelletto al caso delle meteore, e lasciava intentato all'analisi il
problema iniziale.
Vi sono entro di noi
certe forze alle quali noi non abbiamo assegnato parte veruna nell'origine
delle nostre idee, e le quali anzi si considerano come estranie all'intelletto;
e tuttavia, se scrutiamo i fatti, troviamo essere state coefficienti
potentissimi d'ogni nostro lavoro scientifico.
Considerate l'istinto. L'istinto è
la facultà di compiere certi atti senza previa cognizione. L'istinto
è l'azione senza l'idea. È una facultà che per ciò
appunto può dirsi estrania all'intelletto. Eppure molti degli istinti
nostri non possono dirsi superflui ed indifferenti alla complessiva
elaborazione del nostro sapere.
Colui che trovò il primo teorema della
geometria, avrebbe potuto inventare anche il secondo e il terzo, avrebbe potuto
compiere tutta la scienza. Ma la vita dell'uomo ha un limite; il breve suo
lavoro vien troncato dalla morte. Bisognò dunque che ad un geometra
succedesse un altro e un altro, raccogliendo ciascuno l'eredità del suo
predecessore, sicché alla fine tutta la catena delle verità ch'erano a
dimostrarsi rimanesse compiuta. Fu dunque necessario che la scienza divenisse
una tradizione in seno ad una stabile società.
Talete vide nell'acqua l'elemento per eccellenza.
Noi vediamo nell'aqua una combinazione; noi ne siamo certi, perché possiamo
disfarla e rifarla: il vero è il fatto, dice Vico. Avrebbe potuto
Talete ne' tempi suoi pervenire a tanto? Da Talete a Lavoisier corsero ventiquattro
secoli, seco portando tutto il lavoro della scienza degli antichi Greci, delli
Arabi e dei moderni. La scoperta dei componenti dell'aqua era un ultimo gradino
in una lunga scala di pensieri, a edificar la quale avevano collaborato molte
generazioni. Essa non era l'opera delle facultà solitarie d'un
uomo, bensì quella delle facultà associate di più
individui e di più nazioni.
È dunque una necessità della
costruzione scientifica ch'essa surga nel seno d'una società, anzi di molte
società, dimodoché al mancar dell'una per qualche avversità
l'opera possa venir continuata da un'altra.
All'elaborazione della scienza non basterebbero
dunque tutte le facultà dell'intelletto, se l'uomo non fosse già
per istinto di natura un essere socievole, s'egli avesse, non l'istinto
del castoro, ma quello dell'aragno il quale abita solitario nel centro della
sua tela. Ecco dunque l'istinto entrare nell'opera scientifica come un
necessario coefficiente.
E v'entrano altri istinti. V'entra quel bisogno
di communicare altrui i proprii sentimenti e pensieri, che vediamo nella
più inculta feminetta. Quindi lo spontaneo sforzo d'imparar la parola e
di formarla; lavoro che noi andiamo proseguendo coll'imporre un nuovo vocabolo
ad ogni nuova scoperta, all'ossigene, al silicio, alla locomotiva. E se
analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le voci scientifiche più
astratte sono traslati o derivati d'umili vocaboli d'ordine concreto e
sensuale. E se spingiamo l'analisi più avanti e riduciamo i derivati
alle radici, troviamo residuare al fondo d'ogni più dotta lingua un capo
morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo. E qui ci si
affaccia un altro degli istinti umani, quello dell'imitazione; che se si
eccettua qualche specie d'augelli e di scimie, è uno dei più caratteristici
della specie umana; ed è di supremo momento non solo alla formazione
della parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo,
combinato ad altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e della
tradizione scientifica, onde proviene l'associazione delli avi ai posteri,
dei maestri agli allievi, e la perpetua successione nell'immortale opera del
sapere.
E vi sono altri istinti che possono svolgersi
solamente in seno alla società. E son quelli che la scôla scozzese
chiama istinti morali e che altre scôle preferiscono di chiamar
piuttosto col nome di sentimenti. Tale è la credulità,
l'adesione all'amicizia e all'autorità, l'amor della lode, il terror
dell'infamia.
Signori, io non vi leggo un trattato; io vi
propongo l'idea d'uno studio. La psicologia delle scienze come quella delle
lingue, come quella delle leggi e delle religioni e delle istituzioni tutte
è un ramo d'una psicologia delle menti associate, ch'io vorrei
non contraporre, ma bensì sovraporre alla psicologia della mente
individuale e solitaria. Tutti i pensatori sentirono che dall'intelletto
dell'individuo non si poteva salire alle alte astrazioni e alle sublimi
verità. Epperò furono astretti a supplire con ipotesi più
o meno infelici, come l'anamnesi di Platone, che considerava l'idea come
una fioca reminiscenza d'una vita anteriore; - come le idee innate, - come la
visione di Malebranche, - come le categorie del pensiero anteriori ad ogni
pensiero, - come l'idea dell'essere anteriore ad ogni idea. E con tutto ciò
non davano ragione della differenza che stava tra Polifemo e Archimede.
Perocché la reminiscenza platonica, e le idee innate, e la visione divina e le
categorie e l'idea dell'essere, com'erano in Archimede, scienziato, così
erano anche in Polifemo, idiota e canibale.
Signori, il lievito che fa fermentare le idee non
si svolge in una mente sola; il genio si tien per mano alla catena de' suoi
precursori. Perché si destino le idee, devono attuarsi i più generosi
istinti, devono infervorarsi gli animi. La corrente del pensiero vuole una pila
elettrica di più cuori e di più intelletti.
Io devo scorrere a volo su queste idee. Lascio
l'istinto; e tocco per un istante la sensazione.
4. La sensazione pare a primo aspetto il dominio
nel quale è grande e forte la vita selvaggia. Quante volte non si
leggono meraviglie della vista acuta del selvaggio che discerne nella sabbia le
pedate della tribù nemica! Come paragonarle la fioca vista nutante che
si logorò alla lampada notturna e che Galileo spense nei cristalli del
telescopio? Signori, questa è un'illusione. Confrontiamo la somma intera
delle sensazioni che si schierano innanzi alla mente del selvaggio e alla mente
dello scienziato.
È vero che il selvaggio vive assorto nei
sensi; è vero che l'esercizio assiduo e la dura necessità glieli
rendono vigili e acuti. Ma s'egli avesse pure la vista dell'aquila e l'odorato
del cane, sempre è vero che le sue sensazioni non hanno varietà.
Sono le sensazioni che si possono raccogliere entro quell'orizzonte di selve in
cui si chiudono le sue consuetudini, i suoi timori. Poche specie di piante, la
più parte neglette e inosservate a lui perché inutili a' pochi suoi
bisogni; pochi animali; una riva di fiume, o di lago; gli antri e i tugurii che
ricettano la nuda tribù; le vestigia dei nemici o il loro terribil
grido. Quando noi pensiamo alle selve primeve, la nostra imaginazione
può affollar quasi in un punto tutte le più varie e molteplici
apparenze. Ma non è così. Ogni terra ha un aspetto suo; climi
piovosi o aridi; le vaste arene dell'Australia o le vaste paludi dell'Orenoco;
òasi sparse di palmizii; o alpi uniformemente annegrite dagli abeti;
praterie su cui regna tale o tal famiglia d'erbe, con aspetto nuovo e grato a
chi arriva, uniforme e tedioso a chi rimane. Nella nostra patria, più di
cinquecento specie vegetanti, un quinto incirca delle piante fiorifere,
appartengono alle due sole famiglie delle graminee e delle composite, le
più delle quali si possono appena fra loro con attentissimo studio
discernere.
Ma il regno della sensazione scientifica
abbraccia tutte le terre e tutti i mari; i vulcani e i ghiacciai, le pianure e
i monti, gli arcipelaghi dispersi nell'Oceano e il deserto senz'aque. Li
animali delle varie zone e dei singoli continenti, il camelo e il renne,
l'elefante e il cangaroo passano a rassegna inanzi a lui, vivono nelle sue
stalle o nei suoi serragli; stanno ordinati ne' suoi musei, disegnati e
coloriti sulle pareti delle sue case. Qual Samoiedo vide mai le piante o li
animali o li uomini della Nigrizia? Il selvaggio può veder solo le cose
della sua patria; la sensazione scientifica abbraccia tutta la terra. L'uomo
civile non solamente riceve le sensazioni; ma le fa. Egli si àncora
inanzi alle isole dell'Oceano e assorda i selvaggi col tuono e col lampo delle
sue armi. La luce delle sue notti festive eclissa il chiarore delle stelle. I
colori di tutti i metalli, il fulgore di tutte le gemme; i fiori e i frutti
raccolti d'ogni parte e modificati dall'arte in varietà infinite che la
natura non conosce; le innumerevoli combinazioni dei suoni e dei tempi, tutta
la creazione della musica di cui nel seno della natura troviamo appena la prima
intonazione, sono tutti nuovi fenomeni che la facultà motoria attuata da
altre più sublimi facultà fornisce alla facultà sensitiva.
Anche le sensazioni più connesse all'appetito animale, si vanno variando
e moltiplicando colla civiltà. Noi non badiamo, ma pure sono oggetti
ignoti alla vita selvaggia il vino, il pane, e tutte le mille combinazioni dei
sapori e di profumi.
V'è un mondo invisibile all'occhio nudo,
rivelato alla scienza dal telescopio e dal microscopio. Noi possiamo discernere
i monti della luna, le fasi di Venere, le agitazioni della superficie solare, i
punti lucenti della via lattea e delle nebulose. Noi discerniamo li infinitamente
piccoli che vissero in un grano di tripolo, che vivono in una goccia d'aqua,
che nuotano nelli umori della nostra pupilla. Tutta la chimica è una
rivelazione di fenomeni naturalmente inaccessibili ai sensi. Qual selvaggio
potrebbe veder sollevarsi dalle feccie d'una fonte salmastra i vapori verdastri
del cloro o i vapori violacei dell'iodio? È questo un ordine nuovo di
sensazioni che la scienza crea a sè stessa.
E li apparati elettrici sono come nuovi sensi; poiché
con essi possiamo apprender fenomeni che sfuggono a quei sensi che abbiamo da
natura; possiamo entrare in commercio con poteri della cui presenza
nell'universo il selvaggio non ha percezione. È lecito imaginare che
come da natura ebbimo un senso che avverte le vibrazioni luminose e un senso
che avverte le ondulazioni sonore, così avremmo potuto nascer muniti
d'altro organo che indicasse come fa la bussola le oscillazioni magnetiche.
Forse è qualche interno sensorio di tal fatta che dirige certe specie di
rosicanti nelle loro migrazioni dal levante al ponente della Siberia. Ebbene
chi ci diede a scorta l'ago calamitato tra le nebbie dei mari, tra il polverio
del deserto, tra i labirinti delle miniere, chi tese un telegrafo elettrico
dall'uno all'altro declivio d'una montagna, dall'uno all'altro lido d'un mare
ci fornì dunque un equivalente ad un nuovo senso, utile e reale quanto i
sensi della vista e dell'udito. Nulla poi rileva all'effetto se sia un organo
corporalmente inserto nel nostro encefalo, o se i nuovi fenomeni
rappresentandosi nello spazio colle vibrazioni d'un ago o d'un manubrio si traducano
nel senso della vista. Per esso la mente nostra venne iniziata a un ordine
d'idee che la vista per sè non poteva donarci, e che più delli
altri s'interna negli arcani dell'universo.
Le poche sensazioni del selvaggio sono sterili
all'intelligenza, perché vaghe, incerte, incommensurabili. Il selvaggio non
può paragonare il calor di due estati, il gelo di due inverni. Noi
sì, col mezzo degli strumenti, precisiamo quanto varia il freddo da neve
a neve, quanto varia l'ardore da fornace a fornace. Noi sappiamo a quale calore
precisamente si liquefà il piombo, a quale il ferro, quante calorie
devonsi accumulare in una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva.
L'apparato di Melloni accusa l'aggiunta infinitesima di calore che ci apporta
una persona che si affaccia all'opposta estremità d'una camera. Fin qui
vediamo moltiplicarsi sotto la mano della scienza i fenomeni della sensazione;
ma tuttavia ciascuno di essi rimane oggetto d'una percezione individuale. Or
bene, vi sono fenomeni che un individuo solo non potrebbe mai percepire nella
loro pienezza, nemmeno col ministerio degli strumenti, se non vi si associano i
sensi di molti. Li uomini che videro il ritorno della cometa di Halley non sono
più quelli che ne osservarono, settantacinque anni prima, l'altro
arrivo. Per determinare lo spazio su cui vibra un terremoto, bisogna che
più uomini si avvertano fra loro d'averne percepito la scossa ai limiti
estremi. Li osservatori che sparsi in diverse stazioni esplorano la tensione
magnetica del globo sono come le parti d'un commune sensorio delle
nazioni pensanti.
Signori, lo splendido imperio della sensazione
non è nei sensi dei selvaggi; esso è nella scienza esperimentale,
cinta di tutti i suoi mirabili strumenti, accampata sulle mobili cupole degli
osservatorii. E il poter della scienza si svolge nel giro di tutte le
facultà e tocca il sommo nello sviluppo delle facultà riflessive.
A questo chiamerò l'attenzione vostra in
altra lettura.
Della formazione dei sistemi.
Lo studio che mi pregio di parteciparvi è
la continuazione d'un lavoro del quale vi diedi già ragguaglio altra
volta. Ma per non riescirvi troppo indiscreto lettore, trapasso molti capitoli
intermedii, sperando poter nondimeno esporvi colla desiderata evidenza il mio
pensiero.
Mi basta ricordarvi che il generale mio proposito
è quello d'investigare fino a qual ordine d'idee possano pervenire le
facultà mentali considerate puramente e strettamente nell'individuo
solitario, al che da Cartesio fino a noi si circoscrisse per due secoli la
psicologia; e prendendo le mosse da questo punto investigare, come, per
ascendere a ulteriori ordini d'idee, sia necessaria la reciproca azione di
più menti associate; il che verrebbe ad essere oggetto d'un altro ramo
di psicologia.
Oggi intendo additarvi brevemente questo distinto
lavoro della mente solitaria e delle menti associate nella successiva
formazione dei sistemi. Il quale studio non vorrete riputare inutile, quando
vogliate considerare che codesta successione di sistemi costituisce il
progresso continuo e indefinito, nella fede al quale il nostro secolo si
distingue da tutti i secoli antecedenti. Perocché i nostri padri, anche quando
di tutto proposito abbracciavano le più remote utopie, sempre credevano
che almeno colà fosse il punto nel quale la natura umana potesse
perpetuamente acquietarsi. Ma pur troppo quella quiete, anche trasferita a
qualsiasi più lontano termine, sarebbe sempre l'assopimento delle nostre
facultà più attive, e la mutilazione della nostra vita
intellettuale e morale.
È superfluo premettere che per sistema
intendo una serie d'idee fra loro intimamente connesse per mezzo d'un'idea
principale o principio, cosicché la mente, partendo da questa, perviene per
forza d'associazione e di deduzione a tutte le altre; e dalle altre tutte
ritorna spontaneamente e abitualmente ad essa, provando in tale atto un intimo
senso di sodisfazione e di riposo.
La tendenza a coordinare le idee intorno ad un
principio è connaturale al nostro intelletto.
In primo luogo, tutti li objetti delle nostre
percezioni fanno già parte d'un medesimo universo; e perciò
queste sono già per origine loro collegate in sistema. L'idea d'unire in
mazzo più fiori vien destata dalla naturale similitudine che vi è
tra fiore e fiore; con ciò la mente solitaria è giunta solamente
all'idea del genere; ma questa a distanza comunque immensa accennava già
a quel principio intorno al quale, nella maturità dei tempi, Linneo
doveva ordinare tutto il sistema delle piante. Tutti li oggetti che destano in
noi le idee, facendo parte d'un ordine naturale, tendono a far sistema in noi,
perché fanno già sistema fuori di noi. Ciò non dipende dalla
nostra mente, ma dal mondo esteriore.
In secondo luogo, siccome l'uomo, per la limitata
natura della sua mente, non può rappresentarsi in un tratto molte cose
distinte, è costretto a compendiare molte idee in un solo concetto; e
perciò tende necessariamente a stringere le cose in generi, i
fatti in leggi, e i generi e le leggi in ordini e sistemi sempre
più comprensivi, aspirando sempre all'unità pur quando non ha la
forza d'afferrarla.
In terzo luogo, le singole facultà
mentali, la sensazione, la memoria, l'attenzione, la riflessione non sono
esseri separati, ma un unico essere pensante ch'esercita diversi atti. Di tutti
questi atti esso ha un'unica coscienza, nella quale anche le idee più
disparate vengono a darsi ricapito, e ad associarsi in varj modi sia per
simiglianza intrinseca sia per diretta opposizione, sia per circostanze
estrinseche di luogo e di tempo, sicché la presenza dell'una apporta
inevitabilmente nello spirito la presenza dell'altra.
In quarto luogo le idee universali come lo
spazio, il tempo, il numero, l'essere, la sostanza, l'azione, ripetendosi per
tutti i generi servono a collegarli sotto un aspetto commune. Dagli universali
si passa per deduzione ad altri universali; e questi rimangono legati con
quelli; e con essi si collegano tutti gli oggetti in cui li ravvisiamo.
In quinto luogo, molte operazioni riflessive,
come la sintesi, la classificazione, la deduzione, consistono già nel
ravvicinare le idee e nell'ordinarle e nel connetterle in diversi modi; il che
prepara, per così dire, i fili da tessere poscia in sistemi.
L'uomo dunque e perché vive in presenza ad un unico
universo: e per la limitata natura del suo intelletto: e
per l'unità della sua coscienza: e per l'identità
degli universali: e pel complessivo effetto di tutte le
operazioni riflessive, tende a far sistema delle sue nozioni anche se lo
imaginiamo onninamente isolato, a guisa della statua pensante di Condillac e di
Bonnet.
Ma consideriamo l'uomo al sito vero, che gli
spetta nella catena dei viventi, consideriamolo come un genere naturalmente e
spontaneamente gregario come l'antilope, sociale come il castoro, famiglievole
come il colombo. Anche nella vita spontanea e primitiva, l'intelletto,
quantunque appena galleggiante sopra gli istinti della natura animale,
già tende al sistema. Il selvaggio conosce appena il clima del suo cielo,
le selve e le sabbie della sua terra; è rinchiuso in un'isola in mezzo
all'interminato oceano; eppure egli sospinto da quelle interne potenze che sono
indivisibili dal suo essere, fa già sistema di quanto gli sta intorno.
Egli ha già qualche cosa da aggiungere a ciò che i suoi sensi gli
dicono del sole e della luna, del vento e della pioggia, delle erbe e degli
animali.
E dove rinviene il selvaggio l'idea-principio
intorno alla quale unificare tutte le altre? Il selvaggio, flagellato
assiduamente dalle necessità della vita, non si cura se non di
ciò ch'è necessario alla vita. Tutto ciò che non è
cibo e bevanda, tutto ciò che non è caccia o battaglia, tutto
ciò che non può nuocere al suo nemico, né giovare a quel gruppo
di viventi col quale egli è immedesimato, è nulla per esso; esso
non lo vede e non l'ode. Tutti i viaggiatori hanno notato codesta incuria del
selvaggio per tutto ciò che non entra nel rigido circolo de' suoi
pensieri. La fame, la sete, la stanchezza, come lo spavento, l'amore, la
vendetta lo richiamano sempre a sè e a' suoi. V'è una voce che
suona unica e assidua nella sua coscienza, la voce dell'egoismo, ciò che
la scienza chiama l'io; intorno al qual io si avvolge la
famiglia; e insieme ad essa ed alla tribù amica, si avviticchia come
fascio di spine la tribù nemica. La passione predomina all'intelletto;
l'idea non germina se non in quanto la passione la cova. Il primo sistema, nel
punto medesimo in cui scaturisce dall'io, è già un sistema
sociale.
Con questo principio, di sentimento e non di
ragione, di mera associazione d'idee e non di lavoro riflessivo, l'uomo spiega
a sè stesso, tutti i fenomeni dei quali si cura e dei quali si accorge;
tutti li altri restano ripulsi dal suo sistema. Io lo chiamo un sistema chiuso.
Un sistema, non turbato da estrania influenza, potrebbe restar chiuso in
eterno. E vaglia il vero; dopo migliaja d'anni dacché cominciò sul globo
l'epoca dell'uomo, vi sono ancora oggidì tribù dell'Australia e
dell'America equinoziale, che non hanno ancora trovato i numeri per contar le
dita d'una mano. Molti popoli sono periti senza uscire dalla prima barbarie.
Questa filosofia del selvaggio interpreta la
natura per mezzo della volontà; perché la volontà è un
principio affine all'istinto e del quale anche la vita selvaggia è conscia
a sè. Ogni cosa che si move appar cosa viva; l'animale, la pianta stessa
appajono trasformazioni dell'uomo. Nella morale d'Esopo li animali
sentono e pensano come li uomini. E dove la favola d'Esopo può valer di
morale; la metempsicosi può divenire la teologia.
Dico può divenire; ma quando? E come? Qual
è l'occasione che può svolgere nell'intelletto barbaro questo o
qualsiasi altro nuovo corso di pensieri? Qual è il principio intorno a
cui può costituirsi un nuovo sistema?
Il principio è ancora il sentimento.
Presso le più misere tribù, vi è sempre negli individui o
nelle famiglie qualche grado maggiore di forza o di coraggio o di sagacia, o
anche solo d'ambizione e di ferocità. V'è dunque alcuno che guida
quando li altri camminano, che riposa quando li altri vegliano, che giudica
quando li altri contendono, che riceve una più larga parte della caccia
e della preda. La sua vita meno aspra può adagiarsi alquanto, può
comprendere anche ciò che non interessa solo la fame e la sete. Il suo
io, conscio di quei barbari onori e di quei barbari poteri, concepisce
già l'idea d'un ordine di cui sente d'esser principio in seno alla sua
tribù; ed attribuisce un simile ordine anche alle volontà che
crede regnanti in seno alla natura.
In questo nuovo uomo che si sovrapone alla
società, i sensi meno assediati dal bisogno lasciano un più largo
respiro alla imaginazione. L'imaginazione riempie tutti li spazii che la
sensazione non preoccupa. La fantasia compie sempre i sistemi; anche nelle età
più tarde essa fornisce le ipotesi che spesso fanno funzione di
principio. Il disco del sole e della luna eccitò nella mente una vaga
idea di volto umano; la pittrice fantasia lo compì; tracciò
vagamente due corpi, l'uno virile, l'altro femineo; ecco il sole e la luna
fratello e sorella; tutti i casi della barbara tribù si tradussero negli
astri; l'eclissi parve una lutta mortale con qualche mostro invisibile; quando
la luna non risplendeva, fu creduta discendere in terra, costretta da voce
potente o da furtivo amore. Le società umane, nelle ubertose valli lungo
i grandi fiumi e i laghi si vennero associando e moltiplicando, si sparsero in
altre regioni, trovarono altri frutti, scopersero i grani, domarono il cavallo
e il toro, inventarono il carro; e la fantasia prosegue mano mano il suo
lavoro; donò i cavalli e il carro anche al sole, alla luna, all'aurora,
alla notte.
Così colle conquiste del senso e della
ragione crebbe anche l'eredità dei sogni. La scoperta non poteva luttare
colla tradizione dell'errore nel cui seno veniva insensibilmente e quasi
secretamente nascendo. Sempre la fantasia tenne la più larga parte del
sistema sociale in tutto ciò che non cade rettamente sotto il criterio
del senso; è la verità che apparve alle moltitudini come un
sogno. Non è vero che anche oggidì la chiamiamo spesso utopia? Il
padre Caccino poté deridere Galileo in faccia a' suoi cittadini: Viri
Galilei quid statis adspicientes in cælum? E Democrito, l'uomo di
genio che primo vide nella Via Lattea una miriade d'astri lontani, parve
l'uomo che parlasse solo per deridere chi l'ascoltava. Verità pareva
alle moltitudini che la Via Lattea fosse traccia di latte sparso dalla Dea
dell'aere; ovvero che fosse un solco della campagna celeste riarso dal carro
vagabondo del figlio del sole; e ai sagaci e gravi Romani, Ovidio poté ripetere
ancora ch'era la gran via che conduce i celesti alla reggia di Giove
Hac iter est
superis ad magni tecta Tonantis.
E noi pure, noi, nel ripetere questi eleganti
sogni sentiamo nella mente non so quale voluttà.
I varj sistemi primitivi che i popoli si andarono
foggiando, consuonano sempre fra loro in alcune parti. Ciò avviene
perché la natura anche nelle più diverse contrade offre molte leggi
identiche e molte circostanze simili; e perché il genere umano, anche fra le
stirpi più inegualmente dotate dalla natura, ha simili facultà
percettive e riflessive. È ciò che Vico chiamò la commune
natura delle nazioni; in virtù della quale si riscontrano le
medesime idee fra i popoli che non hanno potuto farsene communicazione.
Ognuno di codesti sistemi sociali contiene
qualche parte di vero, contiene la cognizione di qualche fatto naturale utile
all'uomo. Un popolo avrà trovato il frumento; un altro avrà
trovato il ferro. Uno avrà osservato li astri per guidarsi sul mare,
l'altro per nutrire le sue superstizioni o farsi animo nelle sventure. Se due
popoli vengono a communicare per effetto di conquiste, di schiavitù, di
commercii, di parentele, di studii, le scoperte fatte dall'uno si aggiungono
alle verità scoperte dall'altro. Le nuove parti di vero scacciano quelle
idee posticcie e imaginarie che tenevano il loro luogo nelle menti. Le altre
fantasie rimangono. Le parti conciliabili dei due sistemi, vere o imaginarie,
vanno a poco a poco raccozzandosi in nuovo sistema. Questo trapassa nella
tradizione; e se altra innovazione tosto non sopraviene, il sistema si compie e
si chiude, e la ragione publica vi si acquieta. Il nuovo sistema è
progressivo; cioè corrisponde più fedelmente all'ordine della
natura e della morale, se il nuovo elemento è una verità. Ma
se il nuovo elemento è un nuovo sogno, s'è la fantastica
asserzione d'un Maometto, s'è il despotismo che si pone in luogo della
libertà, s'è l'autorità che si pone in luogo della
ragione, il sistema è regressivo. Vi è nelle nazioni il
progresso, ma v'è anche il regresso e il decadimento; non si può
negare che molte terre fiorenti or sono desolate; e molti popoli sono periti.
Ma se i nostri padri non credevano al progresso, noi non crediamo quasi
più al decadimento. Il progresso prevale perché col corso del tempo
cresce naturalmente il numero delle verità. In generale un sistema
posteriore ad un altro abbraccia maggior copia di scoperte. Talora anche per la
via di grandi calamità un popolo viene spinto quasi per forza sotto i
raggi di nuove verità. Concepisce quindi un principio di maggior
potenza, poiché l'uomo tanto può quanto sa.
Roma ne' suoi primordii trovossi al confine di tre lingue,
la latina, la sabina, l'etrusca, ciascuna delle quali rappresentava un proprio
sistema d'idee. Roma adunque riunendo nel suo recinto famiglie di quei tre
popoli, riunì tre sistemi che divennero un solo; poté valersi delle idee
di tre popoli; a queste aggiunse poi le idee d'altri popoli più lontani,
come dei Cartaginesi e dei Greci. A senno e valore eguale, i suoi consigli
dovevano preponderare; questo costante vantaggio doveva condurla infine a
soggiogare e assorbire le forze rivali.
Costituita così da origine, Roma rimase
sempre accessibile alle idee degli altri popoli; essa le accoglieva, non le
rifiutava come fece la China o l'India, che erano costituite fin da origine con
sistemi esclusivi. La China impose le sue tradizioni anche a' suoi
conquistatori.
Poche miglia lontano da Roma, erano sparse su
tutti i lidi d'Italia le città greche; ed ecco la missione attribuita ai
Decemviri, d'aprire le leggi romane all'esperienza greca. Alle foci del Tevere
s'arena una nave punica; e Roma se ne fa immantinente un modello. Perché i
Chinesi oggidì non fanno altretanto, perché affrontano colle inette loro
giunche le navi animate dal vapore?
Più tardi la filosofia stoica si
versò a rivi nella giurisprudenza romana. Un sistema perpetuamente
aperto poté continuare per più secoli ad accumulare presso di sè
tutti quei vantaggi che presso le altre nazioni rimanevano disgiunti e
incompleti. Infine quanto v'era nelle armi, nella politica, nell'agricultura,
nel commercio, nella filosofia, nella città degli Etruschi, nei collegii
dei Druidi, nelli arsenali dei Cartaginesi, nelle sette della Grecia, tutto
divenne eredità d'un popolo che fu più grande di tutti, perché
abbracciò in sè quanto faceva grandi li altri popoli.
Ma qualunque
sia la copia d'idee che una nazione venga a combinare nel suo sistema, quando
essa ha compiuto l'opera e ha potuto conciliare e coordinare tutte le sue idee,
allora tende a fermarsi e riposarsi in quella pace mentale. E può
rimanervi inoperosa per molte generazioni, finché qualche nuovo principio non
la provochi a sconnettere e riformare l'antico sistema.
Intanto, al luogo di chi muore della generazione
esercitata e operosa, sopravengono mano mano altre generazioni, che raccolgono
per eredità e per passiva imitazione le idee già elaborate. Le
facultà mentali e morali dei posteri non hanno occasione di fermento e
di travaglio; sono come piante nella stagione invernale; non hanno fronde, non
fiori, non frutti; né poesia, né sapienza, né valore, né virtù. Eccovi
la grande unità bizantina; ecco ciò che in China divenne la scôla
di Confucio ventiquattro secoli dopo Confucio. Tutte le questioni appaiono
già sciolte dalla sapienza dei maggiori; miseri i figli che temono
d'esser migliori dei loro padri; le dottrine più audaci sono ridutte dal
tempo ad aride regole, a formule viete, a consuetudini stupide e servili. Epperò
un medesimo ordine d'idee che dapprima fu progresso divien poscia
decadimento. Hanno bisogno i popoli di sempre nuovo lavoro per tenere
vivaci e sveglie le loro facultà. I sistemi devono tenersi sempre aperti,
un sistema compiuto e chiuso diviene il sepolcro dell'intelligenza e della
virtù che lo ha tessuto. In tale torpore sono caduti li Asiatici per
effetto di quella stessa precoce sapienza che si ammira nei loro antichi
sistemi. In tale stato giacque per mille anni la Grecia, dopoché all'instancabile
agitazione delle rivali republiche si sovrapose la conquista macedonica e
l'unità imperiale. Il sommo pregio della scienza esperimentale non
è solamente nei prodigii della fisica, della chimica, in quanto sono
benèfici veri alla parte materiale del nostro vivere, ma è in
quanto agitando e rinnovando i sistemi tengono in assidua tensione le nostre
facultà e pongono le nazioni barbare o stazionarie nella dura
alternativa o d'associarsi al progresso o di soccumbere; e ancora in codesta
loro apparente ruina d'associarsi a noi e al nostro avvenire.
Laonde un popolo ch'esca appena dalla barbarie ed
abbia scarso apparato d'idee; ma si volga con generosa fede alle idee nuove e
adoperi ed esalti intorno ad esse tutte le sue facultà, può in
breve prevalere ad altro popolo più antico e più addottrinato, le
facultà del quale siano compresse dall'autorità del passato. Un
sistema aperto può assimigliarsi a una gioventù perpetua, come
appunto è ogni scienza esperimentale. Pertanto i popoli antichi nelle
colonie ringiovaniscono, in ragione appunto dei sistemi in parte nuovi che sono
costretti ad effettuare. Nell'istoria greca i Dori, ch'erano quasi barbari
nell'alpestre loro patria, svolsero un alto genio politico nella colonia di
Sparta; e non giunsero a piena vita mentale se non nelle colonie transmarine
d'Alicarnasso, di Rodi, di Taranto, di Siracusa.
In certe combinazioni d'idee, portate dalle
mescolanze politiche e commerciali delle nazioni, vengono sovente a involgersi
principj fra loro contrarii. Allora divien perpetuamente vano lo sforzo di
conciliarli in sistemi stabili e tranquilli.
Nel patrimonio ideale che l'Europa moderna
ereditò da tutti i popoli dell'antichità e del medio evo e vie
più accrebbe colle sue scoperte, vi sono molti di tali principii
più o meno fra loro discordi. Tali sono la giurisprudenza romana e la
feudale; le filosofie dei Greci e la teocrazia degli Ebrei; la matematica e la
poesia; la fisica e la metafisica; le necessità dello stato e
l'infallibilità della chiesa; il disprezzo delle cose mondane e il culto
della ricchezza. Inoltre, il processo esperimentale, fecondo di scoperte, e la
rivalità politica, avida di profittarne, spronano continuamente anche le
nazioni più torpide e i governi più ritrosi ad abbracciar una
serie d'innovazioni sempre rinascente e inesauribile; la quale penetra ed apre
i sistemi più compatti.
Fin dal risurgimento delle scienze, le menti
costrette a combinare tanti discordanti pensieri, si resero in questo continuo
sforzo sottili, audaci, libere. Acquistarono potenza d'emanciparsi da ogni
sistema chiuso e di scuotere ogni giogo d'autorità, seguendo
risolutamente e impavidamente l'unico lume dell'esperienza e della ragione.
Dall'esperienza e dalla ragione sempre nuove scoperte; continua mobilità
e incertezza di sistemi, se non in quanto per la loro verace utilità
possano giustificarsi; quindi continua necessità di nuove elaborazioni e
scoperte.
E perciò nell'Europa una forza espansiva
preme e incalza i sistemi tradizionali, tanto delle nazioni barbare le cui
facultà non furono peranco esercitate, quanto delle nazioni vetuste
le cui facultà erano già ricadute nel sonno. L'opposizione
inconciliabile dei principii confusamente in Europa abbracciati,
l'inesauribilità del processo esperimentale, e la ragione dei popoli,
sciolta omai da ogni vincolo di tradizione, preparano al genere umano
un'indefinita carriera e gli promettono una perpetua gioventù.
Il progresso nella proporzione medesima con cui
fornisce nuove idee, fornisce anche nuova occupazione all'intelletto, tiene in
esercizio forzoso le nostre facultà morali e le spinge a continuo
perfezionamento.
In questa fausta prospettiva sospendo la omai
troppo prolissa deduzione de' miei pensieri.
Dell'antitesi come metodo di psicologia sociale.
Proseguo a leggere un lavoro del quale ho
già sottoposti altri frammenti all'attenzione dei benevoli colleghi. Ma
è necessario ch'io perciò richiami alla memoria loro il mio
fondamentale pensiero.
Tre campi ha la filosofia esperimentale: la natura,
l'individuo, la società.
La filosofia della natura era stata per
gli antichi solamente un preludio d'imaginazione. Il nuovo metodo
esperimentale, con una tale felicità e continuità di scoperte che
già costituì una famiglia di scienze tutte nuove, apre un campo
di filosofiche generalità sempre più vasto e sicuro.
Altra gloria dei tempi è la filosofia
della società, dacché le lingue, le legislazioni, le religioni,
le scienze, le poesie, le arti, divennero nuovo campo d'osservazione morale e
mentale.
Non così la filosofia dell'individuo.
Anche in questa il principio esperimentale, che aveva già fondato colla
reciproca sostituzione dei sensi l'educazione dei sordomuti e dei ciechi, ora
tenta nuovi modi d'indagine nelle carceri, nei manicomii, nello studio
comparato delle stirpi umane; ma sembra ad alcuni che per questa via si scruti
l'uomo piuttosto nelle eccezioni che non nel suo essere normale e generico.
Pare ad essi che un profondo pensatore non debba ingerirsi di siffatte
varietà; che debba relegarle tra i fenomeni fortuiti e irrazionali; che
debba contemplare nella propria coscienza l'individuo tipo; anzi, in un
individuo qualsiasi anche selvaggio, debba additare tutte le libere e solitarie
fonti dell'umanità e della scienza.
Cartesio, infatti,
esimendosi, in nome del puro e nudo spirito, dalla tradizione e dalla
società diceva: - «Ma non sapete voi dunque che parlate ad uno spirito
talmente sciolto dalle cose corporee che non sa nemmeno se vi fu altro uomo
prima di lui?» - Cartesio stimava poco i sensi, né molto stimava
l'attività dell'intelletto; attribuiva loro solamente le nozioni infime;
tutte le idee più sublimi erano agli occhi suoi gratuite e secrete doti
dell'anima nascente. Dio dava le idee; Dio poteva mutarle, come poteva mutare
l'universo. Se la vita era una creazione continua, il pensiero era una continua
ispirazione. La solitudine di Cartesio era il vestibolo d'una teologia.
Trent'anni dopo la morte di lui, Locke
rivendicò i diritti della filosofia sulla filosofia. Negò le idee
innate; tentò supplirvi dimostrando come la riflessione bastasse
all'individuo per ascendere dai sensi a qualunque più eccelso ordine
d'idee. Fece ancor più: - dimostrò come la riflessione ne' suoi
più alti sforzi ricevesse sussidio dal linguaggio.
Or voi mi concederete, signori, che il linguaggio
è la società.
Adunque Locke, avrebbe veramente attinto la sua
dottrina a tre fonti: il senso, la riflessione, il linguaggio,
cioè la natura, l'individuo, la società.
Ma la
società poi coopera al pensiero dell'individuo in molti altri modi,
oltre il linguaggio.
A ciò Locke non aveva mirato; in questo
campo non entrò; né vi entrarono quelli che sono detti suoi successori:
né quelli che sono detti oppositori suoi. Condillac e Tracy si circoscrissero
alla sensazione e al linguaggio. Per amore di semplicità, si sforzarono
di far senza la riflessione; senonché introdussero un equivalente: o in quella
interna facoltà che, secondo Condillac, trasforma le sensazioni; o nel
giudizio che, secondo Tracy, percepisce i rapporti. Per converso, Kant e Fichte
si circoscrissero alla riflessione e rigidamente isolandola anche dal senso
intimo, la contemplarono sotto il concetto di ragione pura; ma poi l'uno colle
forme a priori e colle categorie, e l'altro colle rivelazioni continue,
ritornarono verso Cartesio.
Il pensiero sociale non venne contraposto in
tutta la sua pienezza al pensiero individuale se non da Vico, contemporaneo
della vecchiaja di Locke. Egli studiò l'uomo nelle nazioni; ciascuna di
esse gli sembrò ripetere nei diversi luoghi e tempi un medesimo corso
d'idee. A distanza d'un secolo, Hegel ripigliò l'ideologia dell'uomo
popolo; sciogliendo il circolo di Vico, vi sostituì la moderna idea del
progresso; e di più, s'inoltrò coll'analisi a distinguere le
singole nazioni, tentando assegnare a ciascuna la speciale attuazione d'una di
quelle idee, la cui serie costituisse il progresso perpetuo.
Per opera di questi due pensatori, si
manifestò come l'umanità fosse fonte a sè medesima di quei
più alti ordini d'idee che indarno i popoli e le scuole avevano dimandato
alle muse, alle sibille, ai genii domestici, all'estasi socratica, alla
intuizione, all'anamnesi, alla gnosi, alle idee innate, alle armonie
prestabilite. Signori, tutte le più alte prove della scienza e della
virtù si svolgono negli accordi e disaccordi degli uomini posti fra loro
in intima relazione. L'umanità è come la pila elettrica, in cui
la corrente non move dall'elemento positivo né dal negativo, ma da certi modi
del loro contatto. L'umanità è la sfera nativa di tutto
ciò che nel pensiero delle nazioni appare sovrumano. Codesto concetto si
vede con tutta semplicità simboleggiato in un detto evangelico: «Poiché
ove sono due o tre congregati nel mio nome, ivi in mezzo di loro son io».
Vico ed Hegel intrapresero l'istoria delle idee
nei popoli, intrapresero l'Ideologia della società. Ma non
risalirono a descrivere i nuovi modi d'azione in cui la società
poneva le facoltà dell'individuo; lasciarono intatta la Psicologia
della società. Rimase ad indagarsi per quali altri modi, oltre al
linguaggio, le menti associate nelle famiglie, nelle classi, nei popoli, nel
genere umano, potessero collaborare alla commune intelligenza, ovvero
contrariarla; e come venissero ad operare con metodi ed effetti che sarebbero
impossibili alle menti solitarie.
Questa Psicologia delle menti associate è
un necessario anello tra l'Ideologia dell'individuo e l'Ideologia
della società. A questa nuova carriera di ricerche, a questa scienza
negletta, che può fornire nuovi sussidii alla cultura delle nazioni, io
invito gli studiosi. E anticipo intanto altra porzione del mio tributo.
Ed ora, dall'argomento generale venendo ad uno
dei suoi capitoli, traccerò in breve la reciproca azione che hanno
più menti, poste fra loro in antitesi, attuate cioè da
contrarie idee.
Fichte vide l'antitesi nell'individuo, quando,
raccogliendosi nell'intimo della coscienza, viene a discernere l'io dal non
io. Ma, nel suo punto di mira, non ebbe a rilevare che in quel non io stavano
confuse la bruta natura e la società umana; non osservò che in
quel non io poteva opporsi al pensiero nostro il pensiero altrui.
Ciò ch'egli chiamò antitesi, era
solamente la distinzione: era un atto di analisi nella coscienza; era
solamente la presenza, non era l'opposizione. E siccome la prima
intuizione era una, l'antitesi, scoperta in essa per forza d'analisi, poteva
congiungersi di nuovo alla tesi; e riescire con questa ad una sintesi:
cioè, ad una seconda intuizione, nella quale la coscienza del complesso
abbracciasse anche la coscienza delle parti.
Antitesi delle menti associate è, a mente
mia, quell'atto col quale uno o più individui, nello sforzarsi a negare
un'idea, vengono a percepire una nuova idea; - ovvero quell'atto col quale uno
o più individui, nel percepire una nuova idea, vengono, anche
inconsciamente, a negare un'altra idea.
Nel primo caso, ciò che distingue la nuova
idea si è ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le
menti concordi, o in una mente solitaria, non sarebbe nata. Per esempio, in un
giudizio criminale, il conflitto dell'accusa colla difesa può condurre
alla scoperta d'un colpevole ignoto. Nessuno può prevedere qual
sarà l'ultima conseguenza a cui potrà pervenire la negazione
d'una idea filosofica, teologica o politica. Senza la negazione di Locke, senza
la negazione di Vico, l'idea di Cartesio non avrebbe avuto anche la gloria
d'essere il momento vitale da cui partirono due filosofie nuove, poste fuori
dei termini ch'egli si era prefisso. Nessuno avrebbe antiveduto nella negazione
di Lutero la guerra dei trent'anni, né lo stabilimento in Germania di quella
perenne dualità, che le aperse tre secoli di agitazione scientifica,
dopo tanti secoli di mentale sterilità.
Nel secondo caso, la nuova idea non nasce in
forma d'opposizione; essa può vivere lungo tempo senza palesare la sua
forza negativa. In chimica, la scoperta dell'ossigene doveva inevitabilmente
togliere all'aria, all'aqua, alla terra il nome d'elementi. Ma nel pensiero di
Cavendish o di Priestley o di Lavoisier questo proposito non v'era.
Anche dopo quella scoperta, Priestley, che vi ebbe tanta parte, non poté mai
darsi pace che l'ossigene fosse la dura negazione di quell'imaginario flogisto
nella fede al quale egli era vissuto. E parimenti quando Lavoisier introdusse
nell'armamentario chimico la bilancia e accoppiò all'analisi qualitativa
la quantitativa, egli predestinò sè stesso e tutti a porre in
luce sempre più evidente che la natura procede per proporzioni numeriche
assolute. Dimostrato che la chimica è un ordine perenne nel vortice
perenne delle trasformazioni, doveva a maturo tempo apparir contradittoria e
irrazionale l'idea d'una materia caos.
Epperò fin da quell'istante era data
vittoria finale ai numeri dei Pitagorici, contro le metafisiche degli Eleati,
dei Platonici, dei Manichei, dei Bramisti, dei Buddisti, pei quali in tutto
ciò che soggiace ai sensi, nulla vi è di durevole, di fisso, di
certo, di vero; tutto è illusione e delirio. - E oggidì vediamo
la dottrina dinamica del calore, quasi ignota ancora nelle scuole, ignota
certamente in quelle ove crebbimo noi, svelare la reciproca
commutabilità del calore e del moto; escludere l'ipotesi del calorico
latente, l'ipotesi d'un fluido calorico e di qualunque sostanza calorica:
dissolvere tutta la fisica dei fluidi imponderabili; stringere in un nodo
supremo le idee del moto, dell'elasticità, della coesione,
dell'affinità, dell'elettricità, del magnetismo, del calore,
della luce, dello stimolo, della vita; sostituire al principio dell'emanazione
il principio della vibrazione; sostituire alla metafisica della materia, tormento
antico delle scuole e terrore dei teologi, la metafisica delle forze: Elohim!
Talora l'antitesi è solo apparente; le
idee rivali sopravivono; dividono tra loro un dominio ch'entrambe aspiravano a
conquistare, spargono una luce commune sopra altre verità. - In
medicina, la opposizione dello stimolo e del contro-stimolo condusse a misurare
dalla tolleranza dei rimedi la forza dei mali, ad accertare mutuamente le
opposte diatesi, a discernere le varietà specifiche d'entrambe. In
geologia, il nettunismo e il plutonismo sono talmente conciliati, che nelle
rocce trasformate, nei massi erratici, nelle inclinazioni e direzioni degli
strati, nelle grandi montagne divise fra loro dal Baltico e dal Mediterraneo,
pur nondimeno correlative in tutta la loro direzione e costruzione, nessuno
più nega l'opera simultanea dei due poteri.
Talvolta l'antitesi cancella interamente l'idea
opposta. In fisica la scoperta della pressione atmosferica cancella la poetica
idea dell'orrore del vacuo. In questo caso non v'è conciliazione; la
sintesi di Fichte non è possibile. Anzi per lo più l'antitesi
vittoriosa varca il confine della tesi; trapassa, come incendio, d'errore in
errore; distrugge interi sistemi.
Poi talvolta un'antitesi affatto imprevista
assale l'antitesi vittoriosa. In astronomia, l'idea del moto della terra toglie
il sole dal novero dei pianeti. Ma la recente idea che il sole, con tutta la
sua famiglia, tenda esso medesimo verso un punto del firmamento, modifica
l'asserzione dell'assoluta immobilità del sole; nega l'idea del ritorno
della terra per un'orbita identica; desta l'idea d'un'orbita spirale, che
simile, direi quasi, all'idea del progresso, percorra spazi perpetuamente
nuovi; allude all'idea sublime che tutte le forze fisiche e morali
dell'universo siano in eterna evoluzione.
L'immobilità del sole relativamente alla
terra era dunque un primordio di verità; ma traeva seco una nuova forma
d'errore. Questa forma transitoria d'un'idea viene da alcuni chiamata
verità relativa; Fichte chiama verità istoriche quelle idee che
in altri tempi dovevano necessariamente apparir vere. Ma siccome questi nomi
destano l'insidioso concetto d'una verità volubile, d'una verità
che può non essere, così conviene attenersi al più austero
concetto di verità parziale e incompleta. E per questa prudenza la
chimica si astenne dal chiamare elementi i corpi indecomposti; poiché rimane
sempre possibile un ulteriore passo d'analisi, ovvero l'ipotesi che la
diversità dei corpi sia solo una varietà di tessuto o di
densità.
Talvolta ciò che un'antitesi acquista per
sempre alla scienza non è una verità, ma un metodo, un'arte, un
abito che conduce a scoprirla. Cartesio s'illudeva allorché disse che
l'evidenza è criterio di verità. No, pur troppo; l'evidenza
inganna il genere umano quando gli dice che la terra è ferma. Ma questa
è solo una evidenza prima. Il criterio sta nel complesso delle evidenze.
Cartesio intanto, col metodo dell'evidenza geometrica sostituito alle insidie
della dialettica, mutò tutto l'abito della scienza; l'aperse a tutti;
restituì a tutti il diritto d'intendere e di giudicare, come ai tempi
della libera Grecia. E così pure Condillac esagerò, quando disse
che la scienza è una lingua ben fatta. No, pur troppo; la chimica, prima
d'essere una lingua, aveva dovuto condurre un lavoro ciclopico fra le tenebre e
i sogni, alla cerca dell'oro e della lunga vita. Ma parecchi anni dopo la morte
di Condillac, per la viva influenza della sua filosofia, sola presente allora
all'intelletto francese, la rivoluzione impose alla chimica nascente quella
nomenclatura in cui le scoperte future della scienza tralucevano già nei
nomi delle cose. Poiché chi primamente chiamò solfuri le composizioni
binarie del zolfo, aveva già predestinato che, scoperto e denominato il
cloro o l'iodio, i loro binarii dovessero chiamarsi ioduri e cloruri; dati i
quali nomi è già data in parte l'idea. E così avessimo
saputo, e sapessimo, volgere a profitto d'altre scienze quelle due sublimi
esagerazioni di Cartesio e di Condillac.
A fecondare validamente l'antitesi è
necessaria la deliberata opera di più menti. Un individuo solo
può ben oscillare debolmente nel dubio fra due idee non ancora ben
certe; ma perciò appunto il conflitto vitale non può esser mai
così risoluto e potente come quando si scontrano due individui, due sette,
due popoli, mossi da contrarie persuasioni, da vanaglorie, da offese, da odii
che un uomo non può mai concepire contro sè stesso. Poiché le
antitesi entrano spesso nell'intelletto quasi di furto, ispirate dalli
interessi e dalle passioni. Ah, pur troppo, in ogni consiglio di legislatori
v'è quasi sempre una generale e ostinata antitesi che precede tutti i
ragionamenti, anzi tutte le quistioni, dettate piuttosto dagli interessi che
dalle coscienze. Nei conflitti della vita, il ragionamento è l'arte
reciproca di tutte le passioni; la ragione pura è un atto d'analisi,
è un'astrazione.
Un piacevole esempio leggiamo in un notissimo
coetaneo di Macchiavello, di due avversarj che sedevano in consiglio a Firenze:
«L'uno d'essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e quello che gli sedeva
vicino, per ridere, benché il suo avversario, che era di casa Alamanni, non
parlasse, né avesse parlato, toccandolo col cubito lo risvegliò e disse:
Non odi tu ciò che il tale dice? rispondi, che i signori domandano del
parer tuo. - Allor l'Altoviti tutto sonnacchioso, e senza pensar altro, si
levò in piedi, e disse: Signori, io dico tutto il contrario di quello
che ha detto l'Alamanni. - Rispose l'Alamanni: Oh io non ho detto nulla. -
Subito disse l'Altoviti: Di quello che tu dirai».
Ecco un uomo determinato dalla mera presenza di
un avversario a impugnare una idea già prima d'averla percepita. Una
setta ha già negato in suo proposito tutto ciò che il partito
avverso sta per produrre. Ma non può dare alla sua negativa una forma razionale
senza trar fuori tutte le sue forze dormenti e svolgere un pensiero al quale
altrimenti non sarebbe giunta; e questi, viceversa, diviene il primo motore
d'un successivo sforzo dell'avversario. Ogni obiezione comanda una risposta;
ogni ragionamento comanda un ragionamento logicamente correlativo, che stringe
in amplesso inseparabile le opposte idee. I ragionatori, al cospetto della
passione, sono combattenti; al cospetto dell'idea, sono fabbri che martellano
uno stesso ferro; sono ciechi strumenti d'un'opera commune. Ogni nuovo sforzo
aggiunge un anello alla catena che trascina ambe parti nel vortice della
verità.
Ad un pensatore, che sudò primamente a
raccogliere la scienza de' suoi padri, poscia a disvilupparsi da quella, basta
appena la vita a poter poi trar dalla sua mente una favilla di suo pensiero; e
con fedele amore e con oblio della fortuna alimentarla; e raccomandare a quella
luce il suo nome e morire. La vita publica di Cartesio dura solamente tredici
anni; Locke e Kant erano già quasi sessagenarj quando posero in luce il
loro immortale pensiero. E se ognuno di essi fosse vissuto qualche anno ancora,
avrebb'egli potuto porsi in guerra contro sè stesso? condannar come un
sogno l'idea che aveva per tanti anni contemplata? spezzar la lapide del suo
sepolcro? No: a quell'opera di nemico era necessario un altro intelletto,
un'altra volontà, un'altra vita. È perciò che i grandi
pensatori, i quali ruppero il circolo della tradizione e fecero fare all'idea
un gran viaggio, si mostrano quasi sempre accinti con tutte le forze loro come
ad un'impresa di guerra.
Solamente dopo il corso di più generazioni
scientifiche, i posteri s'avvedono come ognuno di quei pensatori avesse
studiato da un nuovo aspetto un medesimo problema; che quella catena d'antitesi
era una serie di analisi parziali; che le diverse scuole, senza volerlo e senza
saperlo, si erano divise le parti dell'analisi commune tutte aspirando a
conquistare d'un primo abbraccio tutto il circuito della sintesi universale.
L'antitesi non è solamente un metodo di
progresso scientifico; essa diviene un principio sociale nelle leggi, nei
governi, nelle religioni. Ognuno sa oggidì che il diritto civile, il
quale governa le nostre famiglie, è una moderna forma del diritto
romano; il quale fu la lunga opera d'un'ereditaria opposizione. Il pretore, che
aspirava ad esser console, adescava il voto della maggioranza, facendosi
riformatore, e sottomettendo nell'editto pretorio il suo privilegio di patrizio
al suo diritto di cittadino.
La politica riverbera le sue antitesi sulla
filosofia. Rousseau, generoso e povero e inonorato, non lodò la vita
selvaggia se non per fare onta ad una società diseguale e inumana. De
Maistre e quanti altri s'imaginarono di conquidere la filosofia, combattevano
il codice civile che aboliva le due servitù della gleba.
L'antitesi penetra nelle nazioni coll'arte della
guerra, perché le costringe mutuamente a proporzionare le difese alle offese: e
le incalza ad una serie infinita di sforzi mentali e morali. Chi foggiò
la prima spada, costrinse il nemico a darsi un'altra spada e ad apprendere la
scherma; chi foggiò il primo cannone, comandò agli architetti di
trasformare le eccelse mura in bastioni obliqui e affondati, comandò ai
geometri ed ai fisici tutti i calcoli della balistica. Ogni scoperta
dell'artiglieria sconvolge l'architettura navale; ogni progresso nella
costruzione delle navi costringe a nuovi prodigj l'artiglieria.
Né ancora è ciò che più
importa nell'ordine delle idee. La guerra comanda all'Asia antiquata lo studio
della nuova milizia. Questa trae seco tutta una legione di scienze nuove, che
con intimi nodi s'intrecciano ad altri ordini d'idee, più potenti ancora
nelle future sorti dei popoli. Mentre un barbaro istinto di vanagloria e
d'avarizia spinge diverse nazioni ad abusare le armi della civiltà
contro gli imbelli, dall'antitesi di quelle cupidigie rivali esce un nuovo
diritto delle genti. All'ombra di cui quelle moltitudini, vissute sempre serve,
si troveranno involontariamente a noi consociate nella libera vita del commercio
e del pensiero.
Ora ancella, ora maestra, ora nemica, la
filosofia s'intesse in modo inestricabile a tutte le deduzioni della teologia.
L'istoria del cristianesimo è una continua disputa fra le innumerevoli
sette, le quali derivano dalle antiche filosofie dell'Oriente e della Grecia. Patriarchae
haeresiarum philosophi; lo troviamo già scritto, appena si
chiudeva il secondo secolo. E così la filosofia dettava i programmi dei
concilii; additava colle sue antitesi dove la teologia dovesse porre i termini delle
singole sue dottrine.
Nel seno delle sette odierne, molti studj di
lingue orientali, d'istorie, di monumenti non sarebbero mai nati, se le chiese
rivali non avessero sperato di poter con esse confondere li avversarj. Quanto
maggiore fu in Roma la cura di riservare e limitare la lettura dei testi sacri,
tanto maggiore doveva essere altrove lo zelo di propagarla. E così, per
effetto di quei divieti e di quella opposizione, non v'è libro al mondo
che sia diffuso in tal numero di lingue viventi. In molte barbare favelle
è ancora il primo ed unico libro. Viceversa il Corano, perché non
interdetto al popolo, si legge docilmente in una sola lingua.
Una nazione, dal momento che la letteratura le
dà la coscienza di sè stessa, si pone in antitesi con tutti i poteri
che aspirano a dominarla. Questi allora si armano di qualche altra idea;
tentano darle un'altra coscienza. Allora l'austriaco dice all'Italia ch'essa
è un'idea geografica; che è una forma impressa ad una striscia di
terra dai monti e dai mari: un lusus naturae. Allora il francese le dice
ch'essa è una gente latina, la quale deve tenersi saggiamente
abbracciata al grande imperio, che afferrando i due istmi, salverà il
globo terraqueo dall'ambizione degli Angli e degli Slavi. Allora il papa le
dice ch'è una prebenda del genere umano. I singoli interessi si
traducono in altrettante dottrine; le quali sono discordi, fuorché in questo
che si risponde a tutte quante con una sola verità. Posta adunque a
fronte di tutte codeste antitesi, ecco la combattuta nazione, dover dopo i vani
indugj, ricorrere come ad arme di guerra a quell'unica verità.
Voi vedete, signori, l'ampiezza dell'argomento:
io non posso esaurirlo qui; ad altri potrebbe dettare un'opera; a me detta
solamente un breve capitolo; io mi ristringo a indicare un principio.
L'antitesi sarà dunque uno dei più
necessari argomenti di una Psicologia delle menti associate, la
quale dovrebbe precedere all'Ideologia della società.
Della sensazione nelle menti associate.
1. Tutte le scôle che contemplano la sensazione
nell'individuo solitario, fanno un atto d'analisi. Esse prescindono dal
fatto integrale; ripetono nell'individuo, e pel complesso delle sue sensazioni,
uno studio non meno astratto e non meno ipotetico di quello che venne tentato
pei singoli sensi nella statua di Condillac.
2. Per fatto di natura, l'uomo nascente viene
raccolto al seno d'una madre. Già nei primi albori della vita, l'istinto
materno s'associa agli istinti dell'infante, s'insinua fra quella confusa
agitazione di tutti i sensi, la quale non può divenire d'un sol tratto
una sensazione chiara e distinta, perché questa ne suppone altre da cui debba
distinguersi. Fra queste deve a grado a grado farsi chiara e distinta
primamente quella che più assiduamente ritorna. Fra gli insoliti
contatti dell'aria e dei corpi, la presenza materna è forse l'unica
sensazione che non sia molesta; e forse per questa opposizione costante a tutte
le sensazioni moleste, è la prima che fra tutte le altre chiaramente si
discerna e si affermi.
3. Né le altre sensazioni
sono del tutto fortuite, quando vi è già un intelletto e un amore
che veglia a sviare le più dolorose e raccogliere le più
gradevoli. Il complesso delle sensazioni d'un infante decide già de'
suoi conforti e de' suoi dolori, sovente della sua vita e della sua morte.
La statistica e la medicina dicono quanto sia
maggiore nei parti della madre selvaggia e della madre indigente la
probabilità del dolore, del pianto e della morte.
4. Il complesso delle prime sensazioni è
già l'opera di più esseri associati. Oltre agli istinti
dell'infante e della madre, v'entrano le affezioni e consuetudini della
famiglia, e pertanto le istituzioni della società. V'entra sopratutto la
voce umana la quale accompagnando assiduamente le singole sensazioni, le associa
ad un suono che diviene un segno indelebilmente distintivo, ultimo
compimento della chiara e distinta percezione.
La sensazione nell'essere umano non è
dunque un nudo scontro del soggetto cogli oggetti, non è un fatto puro;
fin da' suoi primordii è un fatto sociale. Nel cieco nato che
legge la parola colle dita, nel sordomuto che legge la parola sui moti delle
labbra, una sensazione artificiale, ch'è già una tarda invenzione
della società, supplisce all'incompleta sensazione naturale. Anche la
statua di Condillac si suppone ricca d'una sensazione sociale.
5. Sovente l'individuo non vede né ascolta
ciò che un altro individuo nel medesimo luogo ascolta e vede.
L'età, il esso, gli istinti, le attitudini, le abitudini sono i
coefficienti senza i quali la sola presenza degli oggetti non compie la
sensazione. E se questa precede all'idea, l'idea acquisita determina poi
nuovi ordini di sensazione.
6. Supponiamo che un selvaggio pervenisse ad
avere una distinta percezione di tutti gli oggetti che lo circondano. Sempre le
sue sensazioni sarebbero limitate dall'orizonte del suo paese nativo: poche
specie di piante alimentari, o medicinali, o venefiche; pochi animali; una riva
di fiume o di solitario mare; i tugurii che ricettano la nuda tribù.
Quando pensiamo alle parti più remote della terra, la nostra
imaginazione affolla, quasi in un orto botanico e zoologico, tutto ciò
ch'è straniero e insolito per noi. Ma ogni regione ha un aspetto suo
proprio: l'una ha un clima arido; l'altra ha un clima piovoso; ha le basse
paludi o le alpi nevose; poche famiglie di piante coprono centinaia di miglia
con aspetto mirabile a chi primamente vi arriva, uniforme e tedioso a chi vi
rimane. Nella regione in cui viviamo, la quale è pure una delle
più amene e adorne, un buon quinto delle piante fiorifere, più di
cinquecento specie, appartengono alle due sole famiglie delle composite
e delle graminacee; molte di esse si possono appena con attento studio
discernere fra loro. Ben quaranta specie di trifoglio daranno al botanico
quaranta sensazioni distinte; ma per l'ignaro figlio della natura, tutto
ciò lascia appena un'unica sensazione. Innanzi al figlio della
società civile s'aprono tutte le terre e tutti i mari, i deserti, i
vulcani, i ghiacciai. Gli animali degli opposti emisferii stanno disegnati e
coloriti ne' suoi libri, conservati ne' suoi musei, viventi e semoventi ne'
suoi serragli. Questo tesoro di sensazioni è un dono che la natura
ci porge per mano della società.
7. E la società non solo vede le
cose, ma essa le fa. Essa estrae dalle terre i metalli, colora le lane e
le sete, prepara il pane e il vino; crea colle sue cure innumerevoli
varietà di fiori, di frutti, di animali domestici; muta le selve in
campi, erge sublimi architetture. E fra gli strumenti musicali e le
infinite combinazioni dei suoni e dei tempi e le forti e soavi emozioni, il
genio della società può ben superbire al paragone delle rare e
povere armonie della selvaggia natura.
8. V'è un mondo invisibile rivelato a noi
dal telescopio e dal microscopio. Tutta la chimica è una rivelazione di
fenomeni invisibili. Nessuno avrebbe imaginato che dall'aqua si potesse trarre
una sostanza invisibile che abbrucia il ferro e il diamante. Gli apparati
elettrici sono per noi come nuovi sensi, coi quali possiamo percepire sensazioni
inaccessibili all'uomo con quegli apparati che ci diede la natura. È ben
lecito imaginare che come da natura abbiamo un senso che avverte le vibrazioni
della luce, e un senso che avverte le oscillazioni sonore, così avremmo
potuto nascere muniti d'altro apparato che indicasse, come fa la bussola, le
influenze magnetiche. Quella società che ci diede a scorta l'ago
calamitato nella vastità dei mari e nei labirinti delle miniere e
che conversa col telegrafo, ci diede l'equivalente di nuovi sensi.
9. Le poche sensazioni del selvaggio sono vaghe,
incerte, incommensurabili. Solo col mezzo degli istrumenti possiamo paragonare
il calore di due estati, il freddo di due inverni; determinare a quale ardore
precisamente si liquefà il piombo, a quale il ferro; quante calorie devonsi
accumulare nel corso d'una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva.
10. Fin qui ognuno di questi fenomeni può
essere ancora oggetto d'una percezione individuale. Ma vi sono fenomeni
che un individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza, nemmeno
col ministero degli strumenti, ma è duopo associare i sensi di molti.
Gli osservatori che sparsi in diverse stazioni esplorano il corso dei venti e
delle piogge, la varietà delle temperature, la tensione magnetica del
globo, i fenomeni dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche, sono come le parti
d'un commune sensorio delle genti incivilite.
11. Così dalla vaga, incerta, spesso
contradittoria sensazione individuale, sorge a poco a poco la sensazione
sociale e scientifica che rappresenta l'ordine dell'universo.
Dell'analisi come operazione di più menti
associate.
1.
Per analisi delle menti associate, intendo dire
quelle grandi analisi le quali si vennero continuando per collaborazione,
talora mutuamente ignota, di più pensatori, in diversi luoghi e tempi e
modi e con diversi fini e diverse condizioni e preparazioni. - Valga un
esempio.
Fin da' selvaggi suoi primordii l'uomo non poteva
non avvedersi del sole, della luna, delle stelle. Egli aveva dunque fatto per
inconscia necessità di natura un primo passo nell'osservazione del
cielo. Un altro facil passo era quello d'avvertire le continue variazioni
dell'astro ch'era notturna sua guida. Ebbene, ancora oggidì, fra li
orgogli della civiltà e le assidue scoperte della scienza, l'individuo,
per sua propria forza d'analisi, ben poco oltrepassa nell'osservazione del
cielo quei primi rudimenti. Egli vive e muore, senza curarsi di saper oltre; e
se ode parlare dell'immensità dell'universo, ammira; e più
sovente sorride, quasi udisse d'una favola; - e in breve oblìa. Tali
sono i termini dell'attività mentale nell'individuo, poco importa se
civile o selvaggio.
Or quando nei libri d'astronomia vediamo
pervenuta oggi la scienza fino a distinguere in una romita stella uno stuolo di
fulgidi soli, dobbiamo tuttavia riconoscere che chi verifica col telescopio
siffatta meraviglia, compie un semplice atto d'analisi, come quando
colla pupilla nuda li mirava confusi in un'unica luce. Sia la pupilla armata o
non sia, l'atto proprio dell'intelletto è in quell'istante il medesimo,
benché il senso, in tali nuove condizioni, gli annunci in quell'astro la
presenza di più punti luminosi, anziché d'uno solo. L'analisi è
sempre analisi; è sempre un atto con cui la mente distingue le
parti d'un tutto. Ma l'occhio non poteva trovarsi armato e guidato, se non
in virtù d'una lenta preparazione della vita sociale. Quell'atto
è l'ultima risultanza del lavoro degli avi e dei posteri; esso è
l'opera di più generazioni associate.
L'alternare del sole e della luna deve destare a
tutta prima nell'imaginativa l'illusione che siano due corpi di grandezza e
lontananza poco diseguale, lucenti ciascuno di sua propria luce, a servigio
dell'immobile piano della terra, fra una moltitudine di minute stelle,
sparse in una volta azzurra, poggiata sui più eccelsi monti. Ma nella
perenne continuazione dell'analisi sociale, quella volta azzurra diviene uno
spazio senza limite: quelle minute scintille divengono un popolo innumerevole
di soli; intorno al più vicino dei quali si move l'umile globo
della terra, traendo seco, per forza di più vicina attrazione, il
globo ancor più esiguo della luna, che riverbera una luce non sua.
Qui l'analisi primitiva, sempre accessibile ad
ogni individuo, sembra in conflitto colle analisi successive, compiute
nel corso dei secoli or presso certe nazioni or presso altre, per lavoro sociale,
rallentato sovente presso quelle nazioni medesime e talora derelitto.
Le leggi della forza analitica non sono dunque a
cercarsi solo nelle leggi dell'intelletto. La percezione del vero è
una parte del destino delle nazioni.
Pur troppo, nel seno delle genti, l'esercizio
dell'analisi è preordinato e fatale. Esse, ancora oggidì,
vivono in cospetto ad innumerevoli fenomeni della natura e della
società, senza aver mai potuto determinare l'attenzione loro ad
osservarli e quasi senza vederli: anzi sovente senza volerli vedere.
Non è ancora tre secoli dacché al lume
dell'analisi anatomica, l'uomo finalmente s'accorse che il sangue circola nelle
sue vene. Non è ancora un secolo, dacché al lume dell'analisi chimica,
primamente seppe qual fosse l'elemento vitale dell'aria ch'egli respira. Solo
ai nostri giorni, nell'analisi delle lingue, egli distinse le obliate
mescolanze delle nazioni; e nell'analisi delle reliquie fossili, finalmente
intravide le indelebili cronologie della terra e dell'uomo.
Altro è spiegare come non si fossero
fatte, molti secoli prima, quelle scoperte; altro è spiegare come
non si fossero fatte, molti secoli prima, quelle ricerche. Esse non erano
libere; l'intelletto nulla vi poteva. Molte cose erano inaccessibili; molte
parvero lungamente inutili a sapersi; molte parvero funeste ed empie; furono
interdette dai potenti ed anche dai sapienti. Nelle più sublimi
evoluzioni dell'intelletto, la volontà esercita maggior dominio che non
lo stesso intelletto.
Il modo d'operare dell'analisi, negletto e quasi
ignoto alla filosofia antica, venne studiato di proposito dalla moderna
psicologia; ma solo nell'ipotesi cartesiana dell'individuo. Or questa
non considera che il genere umano è, per sua primitiva e spontanea
necessità, gregario e sociale, e che l'atto più sociale degli
uomini è il pensiero, poiché congiunge sovente in un'idea molte
genti eziandio fra loro ignote e molte generazioni. Né considera come e d'onde,
in seno a quella istintiva e spontanea associazione delle menti, possa
l'analisi attingere una più eccelsa iniziativa, - né come ora espanda,
ora costringa, la sua libera attività. Ma dacché questa facultà
deve considerarsi come essenziale all'intelletto, giova studiare come, ciò
non ostante, la libera analisi non abbia potuto ancora attuarsi in tutto
il genere umano. Giova studiare come, presso molti popoli, le forze
analitiche, dopo una rapida emancipazione, abbiano potuto ricadere in lunga servitù;
- come nessuna nazione abbia saputo sinora serbar continuamente vivo e libero
il corso de' suoi pensieri; - come molte nazioni siano sparite, quasi meteore,
senza lasciare l'eredità d'un'idea; - come ogni società, senza
avvedersi, prefigga a sè stessa i limiti della sua sfera d'analisi; -
come noi medesimi, che qui ci aduniamo in nome della scienza viva, non tutti
ancora possiamo, sciolti da ogni precedente nostro od altrui, stendere
egualmente la mano a tutti i rami dell'arbore scientifico. La libera analisi
è uno dei più grandi interessi morali e materiali del genere
umano.
La filosofia deve proporsi uno studio
fondamentale: - l'analisi della libera analisi.
Consideriamo brevemente l'analisi per sè,
come essa procede tanto nell'individuo quanto nelle menti associate.
Li antichi Messicani, all'arrivo di Fernando
Cortez, soprafatti e atterrati dalla cavalleria, tra il tumulto e lo stupore e
lo spavento confusero in un solo essere l'uomo e il cavallo. È l'antica
favola dei centauri; è la sensazione repentina e indistinta, esagerata
dall'imaginazione. E a primo tratto, anche la tranquilla vista d'una selva o
d'un ciel sereno arreca la percezione quasi d'un unico oggetto, -
un'ampia verdura, - un azzurro scintillante. Ma chi poi fermi l'attenzione in
alcuna delle piante e delle stelle, acquista altre evidenze che chiariscono via
via quel primo concetto.
L'analisi continuata tende adunque a perlustrare,
anche a più ritorni, il tutto d'ogni cosa; e non a disunire, né a
dissolvere o «risolvere», come la voce d'analisi indusse molti
pensatori a supporre. «Armé de l'analyse, il
désunira» disse Pierre Leroux. Ma il numerare le dita della mano o
le parti distintive d'un fiore, non è disunirle; bensì unirle per
sempre nel concetto del numero. Coll'analisi numerica di Linneo, la botanica
divenne primamente una scienza. L'anatomia, pur separando (per materiale
necessità di vedere) le ossa, le articolazioni, i muscoli, i nervi, le
arterie, le vene, le contempla quali cose fra loro congiunte e in quanto e come
stanno fra loro congiunte; anzi mette in luce gli ignoti loro legami. Quando
osserva che le quattro dita minori s'inflettono ponendosi alla base del
pollice, discerne per qual modo la mano abbia la capacità di prendere e
stringere. L'inattesa scoperta della tromba d'Eustachio, ossia d'un
passaggio tra l'intima cavità della bocca e la cavità
dell'orecchio, rivela in qual modo chi ascolta a bocca aperta, aumenti senza
saperlo l'efficacia dell'udito.
Lo stesso avviene quando l'analisi ha quella
veste astratta e universale che le danno le formule algebriche. Poiché quella
veste commune rende comparabili fra loro e commutabili anche quei concetti che
a prima vista potevano apparir privi d'ogni intima relazione. E così
nella confusione del superficiale e del vario, la mente può discernere
l'identico, il costante, l'essenziale, il certo.
Un'analisi ordinata procede dalle cose più
ovvie ed evidenti alle più astruse; nel che sta il principio d'ogni
dimostrazione e d'ogni insegnamento.
Un'analisi può dirsi intera, quando con
certa equabile profondità si estende a tutto un certo campo
d'osservazione; cioè ad un dato essere o fenomeno o complesso
di esseri o fenomeni e a tutte le loro parti, qualità e relazioni,
entro quella misura e secondo quel fine che l'osservatore si prefigge. Un'analisi
di terre che basta ad un fabricatore di tegole, non basta ad un fabricatore di
porcellane. E l'analisi può tornare all'opera; può raccogliere
nello stesso campo altra serie di percezioni. Essa non ha limiti assegnabili in
modo assoluto e universale. Ma eziandio nel più augusto cerchio, in
quanto l'analisi tutto non lo abbracci con eguale profondità, le parti
osservate restano confuse colle neglette o inaccesse. A supplir questa
interviene allora coi mille suoi spettri l'imaginazione. Da quel momento in
tutte le successive elaborazioni dell'intelletto il vero s'intesse col falso,
finché l'opera d'un'analisi interna e fedele non venga ripresa dalla
posterità. È per tal modo che nella scienza primitiva li audaci
voli dell'imaginazione soverchiano il lento passo dell'osservazione.
Or bene, un'analisi evidente, distinta nelle
sue parti, ordinata, intera, adempie le quattro regole del metodo di
Cartesio. Il qual metodo adunque è null'altro che l'analisi. Pure i
nuovi cartesiani si sforzano d'immedesimarlo piuttosto colla sintesi. E B.
Saint-Hilaire si dispensò al tutto di parlar della sintesi, e
rimandò i lettori al metodo. Ma sintesi o analisi che si voglia,
l'osservanza delle quattro regole non poteva dare l'indiscutable certitude. Poiché
quando Cartesio (nel 1637), pochi anni prima della morte di Galileo,
publicò il Discorso del Metodo, era stato già per tutta la
vita testimonio come nella fallace evidenza dell'immobilità della terra
tutti provassero l'indiscutable certitude e la prodigieuse clarté. Ma
quell'immobilità era un'illusione; e causa dell'universale illusione era
appunto quell'evidenza! L'analisi chimica non tende solo a
distinguere per le loro attive proprietà le sostanze che si manifestano
spontanee; né tende solo a riconoscere nei corpi le sostanze cognite che vi si
celano; ma perviene fino a scoprire l'ignota esistenza di quelle che la natura
non pone mai a scoperto, come l'ossigene, il calcio, il cloro e altri principii
largamente profusi in aria, in terra, in mare.
Non diremo tuttavia con Leroux che l'uomo «armato
d'analisi, disunirà». La chimica compie con somma evidenza la
dimostrazione di molte analisi eziandio per atti di composizione o di
ricomposizione, scevri affatto d'ogni scomposizione. Un filo di magnesio, posto
sulla bilancia in contatto colla viva fiamma, arde, indicando col rapido
aumento del peso l'invisibile ossigene che assorbe dall'atmosfera. Qui la
ricomposizione dei due principii, è la dimostrazione inversa e la
controprova di ciò che il genio analitico scoperse in via diretta;
è un mezzo e non è un fine; non v'è nuova scoperta; non
v'è nuova idea. In senso operativo si può chiamar sintesi; ma in
senso logico è la distinzione; è l'ultimo complemento
della distinzione.
Per lo più le sostanze chimiche non escono
da una combinazione se non entrando in un'altra; i più complicati
procedimenti si riducono ad una serie di siffatte trasposizioni e sostituzioni.
- Le sostanze mutano proprietà, pur solamente variando proporzione; il
mercurio dolce, mite medicina infantile, con l'apposizione d'altro equivalente
di cloro si muta in sublimato corrosivo. - Innumerevoli combinazioni organiche
di carbonio e d'aqua, variano proprietà solamente col disporsi in
diversa ordinanza, - come l'essenza di rose e l'essenza di terebintina, costituite
appunto entrambe di carbonio e d'aqua in proporzioni identiche, - eppure dotate
di sì diverse apparenze e proprietà. - Certe sostanze latenti si
manifestano anche solo coll'essere esposte a certe variazioni di temperatura,
d'umidità, d'elettricità; il colore accusa i vapori dell'iodio;
l'odore accusa i vapori dell'arsenico. - Ma in qualunque siffatto procedimento
di scomposizione o composizione o ricomposizione o trasposizione o sostituzione
o apposizione o disposizione o esposizione, rimane sempre intatto l'officio
supremo dell'analisi, che è la distinzione!
Pensatori di mente imaginosa e fervida odiano le
lentezze dell'analisi e i suoi rigori e i suoi freni; la dicono facoltà
pedestre e materiale: ingenium in dorso. È l'antica condanna
braminica, buddistica, eleatica, platonica; sempre un cieco disdegno; talvolta
la maledizione. Ma vero è che ogni più sottile astrazione
è sempre opera d'analisi. Dalle astrazioni dei numeri senza oggetto,
delle linee senza superficie, delle superficie senza profondità, delle
forme senza corpo, delle forze senza sostanza, surge la matematica. Dalle
astrazioni del pieno e del vuoto, dell'identico e del diverso, dell'io e del
non io, dell'essere e del non essere, dell'infinito e dell'assoluto, surgono la
logica, l'ontologia, la metafisica. Tuttociò che v'ha di più
sublime nell'intelletto comincia dall'atto analitico dell'astrazione.
L'astrazione diviene il vincolo commune di tutti i fenomeni della scienza e
della coscienza. L'analisi è la piramide di cui la sintesi è la
sommità.
2.
Quando Cartesio, con un atto d'analisi libera e
pura, distinse nella coscienza del pensiero la coscienza dell'essere, egli
volle con quella affermazione dell'io, disciogliersi dalla natura e
dalla società. Ma la natura era già passata d'innanzi al
suo intelletto; ma la società gli aveva dato la tradizione scientifica.
Quella voce che gli pareva surgere solitaria dalla sua coscienza, era la prima
parola d'un problema già maturato nel corso dei secoli e nella successione
delle filosofie: - problema che l'io solitario non avrebbe nemmen potuto
proporsi.
Così è. Alle evoluzioni della
potenza analitica hanno parte la natura e la società. E
come sono esse le cause che la destano, così sono parimenti le cause che
possono renderla perpetuamente inerte. Dissi perpetuamente inerte; poiché, a
prossima nostra memoria, alcune genti si estinsero o si confusero con altre e
si sommersero in esse, prima d'avere, in migliaia d'anni, superato colla
propria mente quell'infinito limite il quale è concesso anche al
discernimento istintivo degli animali.
La natura aveva già stabilito fra
una gente e l'altra una disparità di condizioni, secondo la
disparità delle cose utili o nocive e dei luoghi e dei climi. Le singole
genti nelle singole loro patrie non potevano avvedersi se non di ciò
ch'ella vi avesse posto.
La presenza di certi frutti ovviamente alimentari
e di certi animali o più mansueti o più feroci, il complesso
d'una terra e d'un clima, d'una flora e d'una fauna, dettavano adunque agli
aborigeni una serie d'atti d'attenzione, coordinata alla serie delle
più immediate necessità; e tanto quivi inevitabile quanto
impossibile altrove.
E così li aborigeni dovevano costituire
nelle singole regioni native le singole parti d'una superficiale analisi,
dispersa a frammenti su tutta la terra abitata. La rimanente natura giacque
inosservata e indistinta. Era pel genere umano come s'ella non fosse.
Quanto alla società, comunque
isolata e misera, questi singoli frammenti d'osservazione dovevano nel suo seno
sopravivere all'individuo. Ciò che l'infante, per
necessità di convivenza e per cieca imitazione, apprendeva, dovevagli
apparire come l'ordine necessario, ed unico possibile, della vita. Così
nasceva la tradizione, - involontaria, spontanea, irriflessiva, - ma imperiosa
già fin d'allora com'essa è tuttavia per noi. - L'analisi non
era libera.
Ogni individuo non era più costretto a
cominciar da sè tutta la serie di quelle scoperte. Ma ogni mente entrava
nella carriera del pensiero già improntata dal pensiero altrui.
L'analisi, nata serva della natura, crebbe serva della società.
La tradizione era un filo tenace che associava le
menti, non da gente a gente, ma da generazione a generazione. Era
la società perpetua dei posteri cogli antenati. Anche nell'intimo
recesso delle menti, ogni generazione era figlia non solo della sua terra ma
de' suoi padri. Era un indirizzo dato, e un vincolo imposto,
all'intelletto dei nascituri, in distanza di secoli. Erano già
determinate nelle viscere della famiglia selvaggia certe nozioni che dovevano
sopravivere in seno ad una tarda civiltà. Molte osservanze e molte
avversioni nei cibi e in altri usi della famiglia, che durano tuttavia qua e
là fra i popoli, sono tradizioni di tempo immemorabile; forse furono in
origine mere ammissioni od omissioni di quelle analisi primitive.
I Latini, per chiarire i fatti delle istorie,
solevano risalire a ciò ch'essi chiamavano le origini, benché allora
intessute già di poetiche fantasie. E parimenti solo dalle origini si
possono spiegare alcuni fatti del mondo moderno. Valga un esempio: - ancora nel
secolo decimosesto, nella splendida città del Messico, edificata con
arte idraulica fra due laghi, con grandi vie rettilinee e rettangole, si
praticava tuttavia sulla sommità d'eccelse piramidi una continuazione
rituale della vita canibale, oramai probabilmente, a solo terrore delle genti
suddite e ad arte di stato. Ma le origini di questa atroce idea, in una nazione
ricca già di molte arti e addottrinata in collegi sacerdotali, erano le
tradizioni, non interrotte mai, della vita selvaggia.
Il vincolo intimo e commune di tutte queste
analisi primitive è la lingua. Il discorso è una continua
analisi. È d'uopo analizzare il pensiero per tradurlo in parola;
è d'uopo analizzare viceversa la parola per estrarre il pensiero.
Costretto l'uomo sin dall'infanzia a percorrere l'assiduo andirivieni in quella
trafila analitica che modula nella prescritta forma sociale ogni suo ed ogni
altrui concetto, non può cancellar poi del tutto le vestigia di quella
perenne disciplina, sicché non sopravivano indelebili, nei successivi
incrementi delle lingue e nelle loro miscele e trasformazioni.
Per un esempio: - nella numerazione, la lingua
dei succitati Aztechi del Messico, procede, non per decine, ma per quintine.
È manifesto ch'ella deve aver preso le mosse dalla primitiva analisi d'una
sola mano. E sopravivono pur troppo in questo secolo altre genti oceaniche
e americane e africane, le quali non giunsero a compire i loro numerali,
nemmeno per potersi contare tutte le dita d'una mano. Esse, fin dall'infanzia,
si avvezzano a far senza dei numeri, come fecero i loro avi per migliaia
d'anni. Perciò tutti i loro concetti, non solo di numero, ma di
spazio, di tempo, di misure, di distanze, di altezze, di valori, di forze, sono
indeterminati; sono irreparabilmente vaghi e vani. Tutta la loro
potenza mentale e materiale ne rimane snervata. Io credo ch'essi, nella pratica
del commercio, dovranno inevitabilmente completare la loro numerazione. Ma
credo che non potrebbero più dedurre i nuovi numeri dal medesimo
principio dal quale dedussero anticamente i primi; ma bensì dovranno
appropriarsi a dirittura i numeri europei, tali e quali sogliono udirli al
mercato. Così fecero li Europei medesimi quando presero a prestito il
nome di millione dalla nostra lingua; nella quale era organicamente
nato, in forma di mero accrescitivo, forma inflessiva ch'essi nelle loro lingue
non avevano.
Quando le singole genti nelle singole regioni
ebbero costituito colle varie analisi iniziali altretante tradizioni
iniziali, espresse con altretanti rudimenti di lingue, potevano aumentare
in varii modi quel primo patrimonio. - Potevano intorno a sé avvertire altre
cose utili o dannose, dapprima inosservate. - Potevano, sia per attenzione
ripetuta, sia per associazione d'idee, sia per lampo di genio individuale,
discernere negli oggetti già noti nuove proprietà e nuove
corrispondenze ai communi bisogni. Avvenne, per esempio, che fra quei barbari
alcuno più sagace, trovandosi armato già istintivamente d'un
pezzo di legno, così come poteva fare eziandio l'orangotango o il
gorrilla, potesse, per forza propria dell'intelletto umano, oltrepassare quel
limite istintivo, intravedere in una selce tagliente o in una resta di pesce di
che farne un coltello, una scure, una lancia, una saetta. - Avvenne che alcuno,
nella terribile esperienza d'un veleno, intravedesse il modo d'inasprire vie
più quelle povere armi e avventare una morte certa contro le fiere e i
nemici. - Avvenne che alcuno, cadendo in un fiume, si salvasse afferrandosi per
mero istinto ad un tronco galleggiante; e che continuando e rinovando
quell'atto, vi percepisse l'idea madre dell'arte nautica. In questi
nuovi avvedimenti, comincia l'azione analitica dell'individuo oltre la
tradizione e contro la tradizione. Questi furono i primi conati di
libera analisi. Codesta potenza dell'individuo che vede nelle cose
ciò che li altri non videro, quando si esalti a sommo grado e trovi
un'idea madre, cioè il caposaldo d'una nuova serie d'idee,
costituisce il genio; perché si considera come opera
d'un'intelligenza superiore alla natura umana e quasi come d'uno spirito
tutelare. Gli antichi considerarono veramente tutte codeste idee madri
d'un'arte o d'una scienza come doni fatti all'umanità dalli dei o semidei.
Ma in queste nuove analisi ebbe parte grande il caso.
- Si narra che i Fenici, abbruciando una congerie d'erbe marine sulle arene
silicee del lido, vedessero scorrere per la prima volta il vetro liquefatto. Si
narra che gli Spagnuoli scopersero per simil modo un copioso letto di cloruro
d'argento.
Quando interviene l'azione individuale o quella
del caso fortuito, facilmente si spiega come le nazioni abbiano potuto
raggiungere un'idea forse più astrusa, senza averne potuto percepire
un'altra forse più ovvia. Così vediamo li eroi dell'Iliade
combattere sui carri e non ancora sul dorso dei cavalli. Così appare
già diffuso nel Perù l'uso del guano, in un tempo quando
colà l'agricultura si esercitava con istrumenti di legno. Così
nell'Australia, nessuno per migliaia d'anni concepì la più rozza
forma di casa o di nave; eppure vi fu chi divisò d'ostruire con pietre e
legni le aque nei passi più angusti per imprigionarvi il pesce.
Qui mi sia permesso di notare come molti credono
oramai dimostrato che nella cronologia delle nazioni primitive si seguano in
ordine fisso le successive età del legno, della pietra, del rame, del
ferro. La tradizione classica faceva precedere l'età dell'oro; e
ciò forse poteva rappresentare la credenza ad una legge piuttosto di
decadimento che non di progresso. È certo però che in America, al
tempo della conquista, unicamente diffuso e antico era l'uso dell'oro, mentre
colà il rame e il ferro erano affatto ignoti. E fu l'oro che a memoria
nostra attrasse il torrente dell'emigrazione in California e in Australia, dove
li aborigeni non avevano scoperto alcun altro metallo. La scienza deve tener
conto di queste varietà e non essere troppo sollecita di chiudete il
ruolo dei fatti, affinché le ulteriori analisi rimangano più libere e le
scoperte compiute e annunciate con unanimi testimonianze non sembrino
contradette dalle scoperte successive.
Fin qui mi sono rinchiuso nell'ipotesi delle
tradizioni universalmente isolate. Ma già dai primordii, le
scoperte possono propagarsi da tribù a tribù, almeno a
brevi distanze.
Fu osservato che intorno alle palafitte lacustri
sulle quali posero dimora i selvaggi della prisca Europa, si raccolgono in
alcuni luoghi certe pietre taglienti delle quali essi formavano coltelli e
lance, quando era ignoto l'uso dei metalli. Ma siccome i geologi rilevarono che
quelle pietre non si trovano naturalmente sparse in quelle vicinanze, fecero
induzione che fossero colà recate per un primordio di communicazione
vicinale con altri selvaggi amici o nemici che avessero potuto rinvenirle
altrove o averle da altri.
Perloché queste umili pietruzze sarebbero il
più antico documento non solo d'un commercio da gente a gente, ma
della prima propagazione d'un'idea. Le menti associate già
solamente nelle tradizioni del passato avevano adunque già
incominciato a communicarsi fra loro da tribù a tribù le idee del
presente. Alla tradizione ereditaria si aggiungeva già la propaganda
vicinale.
Parimenti quando in quelle terre sepolcrali si
dissotterrano le ceneri e i carboni di quei focolari selvaggi, si ha un
documento antichissimo della propagazione contemporanea del fuoco; - altra
idea-madre, più feconda di tutte, e più varia nelle sue
applicazioni alla scoperta d'altre idee-madri. Quella nuova fonte di calore e
di luce fu anche in età successive trasmessa come cosa sacra. Nel
Zendavesta la fondazione delle città e delle colonie è chiamata la
propagazione dei fuochi. Anche in più lontani secoli, i re persiani
solevano mandare inanzi al loro esercito fochi sacri, accesi sopra altari
d'argento, come se volessero con quel dono allettare i popoli ad accettare i
beni della loro signoria: - Ignis, quem ipsi sacrum et aeternum vocabant,
argenteis altaribus praeferebatur (Curt. 3.3. Forc. Ignis).
Il foco sacro era custodito nei templi; spento
veniva riacceso con mistiche solennità, la cui tradizione vive
tuttavia fra le mutate nostre credenze. La partecipazione del foco rimase per
sempre un diritto della famiglia, un diritto delle genti; l'esclusione era
un'ingiuria, una pena, un esilio, una guerra, una maledizione: - Hostes
judicemur; aquâ et igni nobis interdicatur (D. Br. Forc. Interdicere).
Signori, l'umanità è ben giovine.
L'invenzione del foco appena ha compiuto il giro del globo. Ho letto ne' miei primi
anni, se ben mi ricordo nella collezione del Laharpe o nei viaggi di Cook, che
in qualche isola del grande Oceano, quando li aborigeni videro ardere per la
prima volta il foco, lo stimarono una cosa viva, e avendo osato toccarlo, si
credettero morsi da un animal feroce. Qui la propaganda vicinale si dilata in propaganda
delle nazioni. Le osservazioni d'una tribù divengono cognizioni del
genere umano.
Ogni arte nuova diviene un nuovo campo
d'analisi. Chi ha scoperto l'uso del fuoco ha fatto strada alla scoperta dei
metalli. Chi ha intraveduto in un tronco natante una nave, ha preordinato per
sè e suoi come per gli stranieri, per i viventi come per i posteri, una
serie di successive scoperte, che senza limite di materia e di forma, sempre
crescendo, giunse fino a noi e crescerà fin che duri il genere umano. Ma
queste successive analisi che svolgono dal seno d'un'idea madre le nuove arti
consistono nell'osservare le leggi della natura, per conformarsi ad
essa: - «Natura parendo vincitur», - disse Bacone. E riescono più
facili o difficili, secondo che corrispondono alle tradizioni e disposizioni
delle società. Le menti associate in questa analisi ereditaria e
progressiva oscillano dunque perpetuamente tra un ordine ideale che rappresenta
le leggi invariabili della natura - e un altro ordine ideale che
rappresenta, in dati tempi e luoghi e popoli, le condizioni della società.
Tutto questo progresso delle idee rimane posto
fuori dall'ipotesi dell'individuo pensante; oltrepassa tanto la solitudine
metafisica di Cartesio quanto la statua sensitiva di Condillac, la solitudine
poetica di Rousseau e la commune natura delle nazioni di Vico. A
compimento della dottrina di Vico resta di chiarire come, la natura delle genti
essendo commune, le colonie delle nazioni progressive debbano in molte parti
della terra trovarsi a fronte di tutte le gradazioni d'una barbara inerzia.
Questo è il più grande problema dell'umanità. Perché venga
studiato è d'uopo che venga proposto.
Ricorrendo tutta quella
serie d'idee che fin qui abbiamo percorso, non si offerse alla nostra mente
dove collocare l'idea poetica del selvaggio solitario, felice co' suoi pensieri
nel seno della madre natura, quale Rousseau lo dipinse a sè medesimo e
ai nostri padri: - «Je le vois se rassaisiant sous un chêne, se
désalterant au premier ruisseau, trouvant son lit au pied du même arbre
qui lui a fourni son repas».
Ma questo placido regno del pensiero è
impossibile nel perenne bisogno e nella perenne agitazione della vita selvaggia.
Rousseau aveva accolto la tradizione, verisimile purtroppo, che li aborigeni in
Italia avessero vissuto di ghiande; e infatti l'analisi della nostra flora
nativa non disdice molto notevolmente questa poco allettevole tradizione. Anzi
la tradizione stessa popolava le selve dell'Italia e della Grecia colle truci
sembianze dei Lestrigoni, dei Ciclopi, di Caco, di Licaone, di Tieste. Erano le
memorie confuse del passato che abbracciavano i fantasmi della vita canibale. E
questa era inevitabile fintantoché l'aborigene nudo, nelle deserte selve di
roveri e d'elci, con un vivere senza casa e una pesca senza reti e una caccia
senz'armi, doveva avere di che sfamarsi regolarmente ogni dì dell'anno,
senza saper preservare dalle ingiurie degli elementi e dalle insidie degli
animali diurni e notturni le incerte prede e i caduchi frutti. Oggi satollo e
oppresso di cibo, per rodere dimani i fetidi avanzi - o cader di fame, - o
tenersi in vita divorando il cadavere del suo simile. È perciò
che in alcuni paesi dell'Africa meridionale, quando alcuno atterra un grosso
animale, tutta la tribù accorre per prisca tradizione a dividerlo
secolui; e chi alla sua volta tradisce il ricambio, vien maledetto con formule
sacre, alla cui giustizia si attribuisce ogni seguente calamità.
Laonde se l'uomo selvaggio da Hobbes fu detto puer
robustus, più giustamente potrebbe dirsi puer famelicus; perché
s'indicherebbe nel tempo stesso come quell'ansietà perpetua del vivere
sia causa di quella perpetua puerizia della mente.
Vi parrà forse, Signori, ch'io mi sia
troppo divagato ricercando in seno all'estrema barbarie i più intimi
secreti della vita scientifica. Ma questa analisi della vita del pensiero nella
sua iniziale semplicità torna utile, perché chiarite una volta le sue
leggi si può seguirle poi nelle sue più difficili evoluzioni.
Le tradizioni delle singole tribù
ingrossando inegualmente nel corso dei secoli le loro correnti, dovevano ad
ogni modo incontrarsi fra loro e confluire. Le tribù vicine, o perché
amiche o tanto più perché nemiche, dovevano ammaestrarsi coll'esempio e
colla forza prevalente delle offese. L'arco e la fionda furono a quei tempi
ciò ch'è in questi giorni il fucile prussiano. O perire o
imitare; o perire o accettare un'idea!
Siffatte communicazioni primitive dovevano essere
più agevoli e immediate lungo le convalli dei grandi fiumi nelle regioni
più temperate; poiché offrono una lunga sequela di luoghi ubertosi ove
piante e animali trovano alimento nella terra e nelle aque; epperò le
tribù possono trovare vita meno incerta e faticosa; moltiplicarsi ed
assicurarsi col numero; coordinare i frammenti delle tradizioni iniziali nel
seno di prevalenti lingue mediatrici; appropriarle con nuove inflessioni
e composizioni e con traslati ad esprimere ordini d'analisi sempre più
elevati; a tentare le prime astrazioni del numero, del tempo, dello spazio,
delle forme. I poteri dell'osservazione non sono più angustiati dalle
inesorabili necessità d'una perpetua carestia. Sono ognor più
liberi li atti dell'attenzione; ognor più largo il suo campo. Le genti,
potendo anche più facilmente moversi da luogo a luogo, possono
raccogliere maggior numero di scoperte locali. Ciò accresce vie
più la facilità del vivere, l'addensarsi delle società.
Ricomincia il lavoro sociale; ma non è più quello della
tribù solitaria; è la tradizione d'un popolo nel seno d'un vivere
migliore. Si comincia ad aver tempo. È ciò che i Latini
chiamano ozio; l'ozio per lo studio; otium studio, come scrive Cicerone;
cioè riposo e pensiero. Ozio in greco si dice scholê, ed
è una delle voci più sapienti di quella lingua sapiente. La scola
ossia l'ozio d'Atene è il portico, è l'orto, è la
selva d'Academo. È il libero e amabile corso della mente alla ricerca
del vero:
atque inter silvas Academi quaerere verum. Hor.
Le più grandi aggregazioni di popoli
avvennero in Oriente lungo i grandi fiumi ove le flore e le faune native
comprendevano fin da principio alcuno dei principali elementi dell'agricultura
e della pastorizia. Tale era la bassa valle inondata così regolarmente dal
Nilo; tali erano i due fiumi della Mesopotamia; i due fiumi della Battria; i
due fiumi dell'India; i due fiumi della China. Sotto la zona torrida le grandi
associazioni dei popoli si svolsero sui vasti altipiani dell'Etiopia, del
Perù, del Messico, perché quivi l'altitudine fra nevosi monti mitigava i
calori della latitudine. La terra meno propizia fu l'Australia, perché
la natura le negò i grandi fiumi, i fecondi altipiani, e vi sparse una
flora e una fauna egualmente ingrate. Mancando l'opera della natura, mancò
anche l'opera della società. La vita del pensiero fu impossibile.
E così avvenne che ammessa pure anche per quei miseri abbozzi d'uomo
l'ipotesi della commune natura delle nazioni e il principio
incontestabile della commune natura dell'intelletto, resta facilmente
spiegato come quella gente non sia mai giunta ad afferrare l'idea madre né
dell'agricultura, né della pastorizia, né della navigazione, né della
metallurgia, e non mostri tampoco l'istinto costruttivo del castoro, e sia
molto probabilmente destinata a perire in questa cadaverica inerzia d'un
intelletto nato morto.
Signori, ho tentato dimostrare come l'origine
delle idee non sia così semplice come la natura dell'intelletto, né si
possa spiegare colla sola natura dell'intelletto. Essa mi pare come un arbore
che vive bensì di vita sua propria, ma che per vivere deve tenere le
radici nella terra e stendere i rami sovra un consorzio sociale.
Non mi sembra probabile l'idea generalmente
diffusa che l'idea madre della pastorizia dovesse regolarmente precedere l'idea
madre dell'agricultura; il che implica che dovessero nascere distinte e
separate. Una tribù poteva tanto trovare nella sua patria la palma o il
frumento o il riso, se la natura gliene aveva fatto il dono, come poteva
trovarvi la pecora o il bove. Una sola di codeste utili specie animali o
vegetabili bastava per inaugurarvi la vita pastorale o l'agricola o entrambe.
L'uomo che avesse incontrato in qualche romita valle un gregge vagante nella
primitiva libertà, aveva solo a pensare: quel gregge è mio;
difenderlo dalle fiere e dai nemici, soccorso dal vigile cane che lo
seguiva per godere le reliquie del macello. Ma ciò non impediva di
continuare a raccogliere come prima i frutti selvaggi o alcun grano o legume. E
ad iniziare con alcuno di questi la vita agricola, bastava che nella secolare
esperienza della sua tribù fosse giunto a discernere in quella pianta il
seme, che caduto nel fango risurgeva in novella pianta.
Ma l'elemento pastorale era più efficace
alla propagazione delle scoperte perché più mobile. I mansueti e
gregarii animali erano disposti da natura a seguir l'uomo da luogo a luogo e
anche a trasportarlo.
Ecco quindi le genti dell'Asia predestinate a
moversi vastamente sulla terra e raccogliere ogni dove gli sparsi frammenti
dell'analisi selvaggia. Il gran deserto dell'Africa rimase impraticabile finché
il camelo dell'Arabia e della Battria non approdò alle isole palmifere
del mare d'arena.
Oramai nella certezza e continuità del
vivere, il pensiero poté levarsi finalmente al cielo; distinguere non
più solamente il sole e la luna; ma suddividere le stelle fisse in
costellazioni, e distinguere i pianeti che s'accompagnano or all'una or
all'altra costellazione. Oramai la natura e la società schierano inanzi
al pensiero i tesori di molte regioni e le tradizioni di molti popoli. Ma pur
troppo il pensiero dai faticosi e lenti passi dell'analisi trapassa ai rapidi
voli della sintesi. L'imaginazione si sveglia; anticipa e presume ciò
che non sa; precorre alla cognizione, esagera un'idea per compirla; scambia
l'astronomia con l'astrologia, la medicina con la magia, la contemplazione con
la visione e con l'estasi. Non appena la misurazione dei campi ha dato
occasione alla prima geometria; e già la scienza del matematico si
confonde coll'arte dell'indovino: «Mathematici... genus hominum...
sperantibus fallax». Tacito.
Mentre per tal modo le caste dotte mutano la dura
e fedele osservazione in vaga poesia, le moltitudini passano dalla miseria del
selvaggio alla miseria dello schiavo. Il commercio inizia lo scambio delle
cose; e perciò ciascuno si raccoglie in un'arte sola, fugge dagli
oppressori della patria in cerca di libertà; fugge ad esercitarla presso
altre genti; ogni arte diviene un secreto e una nuova casta; ecco nascere ciò
che li economisti chiamano la divisione del lavoro; ma che al
cospetto della psicologia è solamente un nuovo ordine d'analisi il
quale penetra sempre più profondamente negli arcani della natura.
Intento solamente all'arte sua, il plebeo riceve passivamente tutte le idee generali
che gli vengono imposte dalle classi dotte. Quindi fomentato quell'ordine
d'idee che s'accorda ai voleri del potente, e repressa e maledetta ogni ricerca
che può rivocare in dubbio le credenze ch'egli ha dettato. L'analisi si
estende e fra i signori e fra i servi; ma non è libera; i potenti
segnano un limite agli altri; segnano un limite a sè stessi; l'analisi
diviene nuovamente preordinata e fatale. La potenza dunque, senza
avvedersi, segna un limite alla potenza. È il fatto odierno della
Russia, dell'Austria, della Francia stessa e dell'Italia.
V'è un momento in cui l'analisi officiale
rompe le sue catene nelle libere città della Grecia; ma sopraviene
l'unità macedonica e l'enciclopedia d'Aristotele, poi la conquista
romana e l'unità bizantina; il pensiero greco si sommerge nella memoria
del passato; in tutto il medio evo l'analisi è preordinata e fatale.
Io non mi trattengo a descrivervi il fatto del
quale molti di voi sono più intimi testimonii ch'io non sia.
Io non mi trattengo a rammentarvi come avvenne
che nella moderna Europa e nelle sue colonie, in rapporto sempre alle
tradizioni più o meno libere e audaci ch'esse avevano recato seco dalla
madre patria, la potenza dell'analisi si esaltò ad un grado che non ha
esempio nel corso de' secoli.
Voi sapete come l'analisi universale cominciasse
ad armare sè stessa coll'opera d'innumerevoli ordini d'analisi speciali.
Altro che non sapersi numerare le dita d'una mano! - altro che numerare per
quintine! - altro che dire due paja ed uno per significar cinque, tre paja per
significar sei, tre paja ed uno per significar sette e poi non saper più
andare avanti, e per disperazione afferrarsi con ambe le mani i capelli e
gridar cuma! ciò che vuol dire molti! - nella povera
lingua delle tribù visitate dal nostro commune amico Osculati, nelle
selve appiè dell'eccelso altipiano del Perù! L'analisi
universale si armò coll'analisi matematica; si armò di tutti
li strumenti della fisica, misurò tutte le variazioni del calore,
dissipò la favola di Dedalo; trasmutò gli ardori della sfera del
foco in una sfera di gelo, invano penetrata dai raggi della fotosfera solare;
pesò l'aria; calcolò le cadute dei gravi; alzò in faccia a
Giove Tonante il parafulmine, tese sui gioghi delle Alpi e negli abissi dell'Oceano
i fili parlanti. Si armò di tutti li artificii della chimica; trovò
i numeri degli equivalenti, il gran gioco di carte della natura, le poche carte
che fanno una serie infinita di giochi; disfece e rifece tutte le combinazioni
di quel caleidoscopio e calcolò altre combinazioni a cui forse la madre
natura non aveva peranco avuto occasione; scoperse che tutte le potenze letali
e vitali del mondo vegetabile non piovevano sulla terra per magico influsso
degli astri, ma erano poco più che numeriche proporzioni d'aqua e di
carbonio. La medicina si armò dell'analisi anatomica, oppose
veleni a veleni, cogli strumenti della morte salvò la vita; era il senso
della sapiente parola di farmaco che la sapienza anticipata dell'Oriente
aveva consegnato alla Grecia.
Volgendosi al mondo delle tradizioni l'analisi
universale interrogò tutte le lingue, dissepellì le loro
radici, le radici delle loro radici; narrò ad esse colle loro proprie
parole com'erano nate e come da lingue di canibali più brutali
dell'orangotango e del gorrilla fossero giunte a dare un nome ordinatore a
tutte le piante e a tutti li animali dell'orbe terraqueo, - a tutte le pietre e
a tutte le creazioni petrificate che avevano vissuto in quelle pietre nei
secoli dei secoli dei secoli. Trasse dall'umile basalto di Rosetta i misterii
dell'antico Egitto; lesse diecimila anni di date sepolte sulle
pareti dei templi e nelle viscere delle piramidi. Penetrò il senso del
sapiente aggettivo dato alla volta celeste da Virgilio, l'allievo dei Druidi,
il maestro di Dante:
Terrasque, tractusque maris coelumque profundum!
L'analisi antica, libera tratto tratto, ma sempre
inerme, divenne libera e armata; divenne irresistibile; essa è ancora
preordinata e fatale, ma il suo ordine è l'ordine di Dio; il suo fato
è la verità.
Libertà e verità! Signori,
scrivete queste parole sulle porte di tutte le università.
Intanto sugli immani regni dell'Asia si aggreva
l'ineluttabile dominio delle tradizioni, la scienza delle sintesi premature e
anticipate.
Oggi nell'Europa e nelle colonie, oramai
propagate alle estremità della terra, ma non pervenute ancora a
penetrarne tutte le parti, non pervenute ancora a riconoscere in tutto il suo
circuito il patrimonio del genere umano si commisura alla libertà
dell'analisi la ricchezza e la potenza delle nazioni: - Scienza è
forza!
Non si considera fra noi più nemmeno come
scienziato chi vive parasita delle tradizioni, chi non abbia dato alla scienza
un'idea la quale egli possa chiamar sua. L'arte di fare le scoperte prevista e
descritta anzi tempo dal profeta Bacone è divulgata a tutti. Vi sono
società d'uomini la cui vita consiste nell'attendere a fare scoperte; e
d'altri uomini la cui vita consiste nell'attendere ad annunciarle. È
l'analisi per l'analisi!
Noi fummo testimoni degli eventi che sottomisero
all'Europa e alle sue colonie le sorti dell'Asia e dell'Africa. Ora si affaccia
a noi la più grande di tutte le rivoluzioni che sottomette tutte le
discordi sintesi d'una scienza fantastica all'urto dell'analisi libera e armata
delle opere sue; che inaugura finalmente la concorde libertà del
pensiero per tutto il genere umano.
Oramai non dobbiamo curarci di rinvenire tra le
reliquie del mondo fossile l'unità primordiale del genere umano. Da
dovunque egli sia venuto il genere umano procede alla libera unità
del pensiero.
Signori, questo è per me un breve
capitolo; ma potrebbe essere ad altri un'opera di lunga lena.
Io aveva
già presenti alla mente queste idee, quando (in gennaio 1862) risposi
publicamente nel Politecnico ad una cortese inchiesta che l'onorevole
Matteucci, allora ministro, mi faceva sulla riforma da lui proposta per gli
studi scientifici in Italia.
Io gli proposi allora per sommo principio da
seguirsi nel complesso delle università la divisione del lavoro, ossia
la libera analisi, in quanto che non si riproducesse mai in una
università l'identico programma d'un'altra; ma le sole scienze generali
e necessarie, le sole scienze preliminari e accompagnatorie fossero uniformi in
più facultà; ma gli altri studii costituissero corsi affatto speciali,
proprii ciascuno di ciascuna università. E così per esempio,
supposto che avessimo in Italia dieci uniformi facultà per gli
ingegneri, ciascuna delle quali avesse dieci catedre, io intendeva che si
ponesse la mira a disporre a poco a poco le cose in modo che una metà
incirca di quelle catedre avesse un programma uniforme di scienze generali
egualmente necessarie per tutte le varietà dell'insegnamento; ma l'altra
metà delle catedre fosse intesa ad un insegnamento speciale, proprio di
quella sola università. Una delle dieci facultà d'ingegneri
dovrebbe fornire un insegnamento speciale d'alta matematica, destinato a
preparare forti professori di questa famiglia di scienze, anche per le altre
facultà, per i licei e le scuole tecniche e militari. Questa facultà
matematica, per conservare una certa tradizione locale si potrebbe istituire in
Modena. Un corso speciale d'ingegneri agronomi sarebbe da istituirsi in Pavia.
E così sarebbe ad assegnarsi ad altra opportuna città un corso
d'ingegneri idraulici, censuarii, maremmani, navali, ferroviarii, meccanici
senza obliare un ramo di bella architettura. E ora aggiungerei un ramo di buona
e provida architettura campestre e urbana nelle sue più modeste e utili
e salubri forme.
Dato che in ogni università questi corsi avessero
cinque catedre generali, epperò uniformi, e cinque catedre speciali,
epperò diverse in ogni università, si avrebbero con una
equivalente spesa nelle dieci università cinque rami d'insegnamento
uniformi in tutte e cinquanta rami speciali e tutti variati. Perloché codesto
studio degli ingegneri che ora nelle dieci università colla spesa di
cento catedre darebbe soli dieci rami d'insegnamento, allora, pur con cento
catedre, darebbe cinquantacinque rami, dei quali cinque soli sarebbero uniformi
da per tutto.
Applicato il medesimo principio alla
facultà medica, alla legale, all'amministrativa, all'industriale, si
avrebbero più centinaja di rami speciali d'insegnamento; e dal complesso
di tutte le facultà così sviluppate, surgerebbe una sola e grande
e vera universitas studiorum, come s'intese quando le università
furono primamente instituite coi poveri materiali che il medio evo poteva
offrire. E in luogo d'una misera e servile e sterile uniformità,
l'Italia darebbe l'esempio d'una splendida enciclopedia nazionale.
Per aumentare vie più la divisione del
lavoro e la intensità dell'insegnamento, si dovrebbero ammettere
in ciascuna università corsi liberi e occasionali da chi potesse
apportarvi qualche ordine nuovo d'idee. Con questi corsi liberi e originali li
aspiranti alle catedre si farebbero conoscere in ben altro modo che colla
usanza delle terne, consegnate ai favori di amministratori non sempre
competenti.
Parimenti i veterani delle facultà che
attendessero notoriamente a studii di scoperta e ne dessero annuo saggio,
potrebbero cedere una parte della quotidiana fatica ed esporre poi le loro
dottrine in lezioni volontarie aperte a tutti.
Anzi io proposi che una facultà di Scienze
Nuove si aprisse in Roma; e che a questi giochi olimpici dell'Italia pensante,
fossero invitati con alta ospitalità i più gloriosi campioni
della scienza straniera. Sarebbe una festa del genere umano, la festa del
libero pensiero: Libertà e Verità.
Io conchiudeva allora dicendo: «che ad ogni ramo
speciale di scienza si potrebbe aggiungere una relativa appendice militare;
perché ad ogni più alto pensiero la gioventù deve sempre
intessere un pensiero di guerra, come il popolo che rialzando dalle ruine la
sacra sua città: unâ manu faciebat opus et alterâ tenebat gladium (Esdra,
XI, 4)».
CARLO
CATTANEO
Nota: La publicazione che l'antico nostro collaboratore
Biondelli fece d'un manoscritto del P. Sahagun, corredandolo d'una prefazione latina
e d'un glossario azteco, ci porge occasione di communicare agli amatori parte
d'un nostro studio su quel popolo, i cui primordii possono in parte spiegare le
rernote e inaccessibili origini d'altre civiltà. Sepolta da tre secoli
nelle tenebre anche questa con tutte le altre opere del venerabile filantropo
Sahagun, fu scoperta nel Messico e apportata in Italia dall'insigne viaggiatore
e scrittore bergamasco Giulio C. Beltrami. Il signor Biondelli, coltivando
codesti peregrini studii, continua in Italia l'onorata tradizione scientifica
che rese illustri e cari in America i nomi di Pietro Martire d'Angera, di
Clavigero, di Butturini Benaducci, di Gemelli Carreri, d'Orazio Carochi, di
Beltrami stesso e d'Agostino Aglio al quale dobbiamo i sette splendidi volumi
delle Antichità Messicane, publicate a spese di Lord
Kingsborough.
Se fosse vero che la natura dei luoghi determina
la natura dei popoli e il loro destino, il Messico, per la sua posizione unica
al mondo, dovrebbe essere il convegno universale del commercio e
dell'incivilimento.
Ampio triangolo, chiuso a settentrione da lande
inospite, ma lambito a oriente e occidente dai due Oceani, esso può da'
suoi porti communicare senza alcun circuito, da un lato direttamente
coll'Europa, coll'Africa, coll'Asia Minore fino agli intimi recessi del Mar
Nero; dall'altro colla grande Asia, coll'Australia, colla Polinesia, mentre
può con facile costeggio raggiungere qualunque punto d'ambo i littorali
d'ambo le Americhe fino alle zone polari. E inoltre un breve passaggio
terrestre congiunge i due mari sia per la terra di Tehuantepec, ch'è
sgombra di monti, sia per la via quasi tutta navigabile di Nicaragua, sia
finalmente per l'istmo di Panàma; fino al quale può tuttavia
geograficamente estendersi il nome del Messico, come già si estendeva
politicamente. E infine alcuno direbbe che la natura, col corso spontaneo dei
venti e dei mari, abbia voluto guidare le navi dall'Africa al Messico, dal
Messico agli Stati Uniti e all'Inghilterra; e sull'altro Oceano, dal Messico al
Giapone, alla China, all'India.
Senonchè, nulla valgono i favori della
natura, come nulla vale l'ingegno, finchè non si compia nei popoli una
certa evoluzione d'idee, di cui la filosofia non ha peranco indagate le cause
moventi e le leggi fatali. I popoli sono guidati dai loro pensieri; e nelle
regioni del pensiero giace il secreto dei loro destini.
Quando un'idea maturata nel seno alle republiche
della Liguria, della Toscana, della Venezia, e personificata in Marco Polo, in Paolo
Toscanelli, in Colombo, in Americo, in Caboto, ebbe spinto i semibarbari
vassalli di Carlo V alla conquista della terra dell'oro, essi approdando alle
maremme della zona torrida, videro con meraviglia estollersi a breve distanza
una catena d'alpi nevose. E a misura che salivano, videro con meraviglia la
vegetazione tropicale della tierra caliente a poco a poco rifarsi simile
a quella delle terre temperate della Spagna e infine delle regioni più
aspre del settentrione. E con più stupore udirono che dietro al dorso di
quei monti, ma sempre a enorme altezza, giacevano valli e pianure, che
colassù godevano un clima invariabilmente mite; ed erano coperte di
campi ben coltivati, con città popolose e belle.
Ma nel primo incontrarsi con esseri umani, subito
seppero che là pure, come nel mondo antico, i popoli combattevano, li
uni pel dominio, li altri per la libertà. La nazione dei Totonachi, che
abitava quelle prime terre, invocò immantinenti contro un lontano
oppressore le armi di ferro e di foco e i non mai visti cavalli di Fernando
Cortês. E questi, guidato e scortato da tali inaspettati amici,
potè varcare quelle alpi, alle quali, pel fiammeggiare notturno d'un
altissimo vulcano, si dava il nome di monti della stella (Citlal Tepetl).
E al di là trovò altri popoli, non oppressi ma liberi, e non meno
nemici al potente regnatore. E dopo breve prova d'armi, venuto con loro in
amicizia, ed accolto entro le forti difese dei loro monti e nella loro
città di Tlaxcala, vi ravvisò con sua meraviglia una republica di
patrizii, non dispersi per castella e ville come presso le genti celtiche,
teutoniche e slave; ma radunati in palazzi entro le mura d'una città
come in Italia. E scrisse a Carlo V: “ Secondo che ho potuto comprendere,
questa gente seguita il governo de' Veneziani, de' Genovesi e dei Pisani;
perciocchè non hanno signore particolare; ma sono molti signori, che tutti
dimorano nella medesima città; li abitatori del paese sono
lavoratori; e sono sudditi a questi signori, ciascuno dei quali ha le sue
proprie città. E secondo le facende e le guerre che nascono, si radunano
tutti insieme e deliberano - Giudico che di circuito sia maggiore della
città di Granata e più forte e di edificii tanto belli e forse
più ricchi e più pieni di popolo che non era Granata in quel tempo
che i nostri la tolsero dalle mani dei Mori. In questa città è
una piazza nella quale ogni giorno si veggono più di trentamila persone
a vendere e comprare, oltre l'altre piazze. - Quivi sono luoghi ordinati per
vendere oro, argento e gioje e altre sorte d'ornamenti e penne tanto bene
acconce, che in niun altro mercato o piazza di tutto il mondo si potriano
trovare le più belle. Vi sono anche bagni; e finalmente tra di loro
apparisce una vista d'ogni buon ordine e regola. - In questa provincia, secondo
il conto ch'io feci far diligentemente, sono più di centocinquantamila
case”[1].
Varcata altra catena d'alpi nevose fra i due
vulcani del monte Fumo (Popoco Tepetl) e della Bianca Donna (Iztac
Cihuatl), ad un tratto gli si aperse dinanzi un vasto anfiteatro: mille e
cinquecento miglia quadre, tutte ricinte in giro di maestosi monti; e
chiudevano in seno una catena di laghi, lunga più di cinquanta miglia.
Entro ai quali, a guisa d'isole, come in una Venezia mediterranea, surgevano
parecchie città, facendo corona a Messico, superba sede del gran
regnante la cui tetra potenza faceva gemere i popoli di trentacinque linguaggi.
Onde Cortês, che con malpagata sollecitudine si affaticava a procacciare
quello strano imperio a Carlo V oppressore già dell'Italia e dell'Olanda
e della Germania e delle communi di Spagna, gli scriveva: “E forse che questo
titolo non è d'essere riputato minore di quello d'Allemagna” (p. 225).
In verità per ampiezza e ricchezza di terre era maggiore.
La città di Messico, nutrita delle spoglie
e dei tributi di tanti fertili regni, aveva allora trecentomila abitanti; il
suo circuito era di dieci miglia. Fondata tra due laghi, uno dei quali d'aque
salse, non aveva accesso se non per due larghi argini, che conducevano a due
porte, difese da ponti di travi che si potevano d'un tratto levare. Era di
pianta esattamente quadra, orientata ai quattro venti, e divisa come una
scacchiera da canali e da rette e larghe vie, che ogni dì venivano
spazzate e lavate. Un aquedutto vi conduceva le aque dai gelidi monti, le quali
si diramavano per tutte le case. In mezzo alla città era la piazza del
mercato, cinta di logge; e intorno si aprivano le contrade assegnate alle varie
mercanzie; in una loggia nel mezzo stanziavano i magistrati e vigilavano sui
pesi e le misure. Le torri, i palazzi, le piramidi erano di pietra e per lo
più di basalto o di porfiro; e i tetti erano fatti a terrazze
praticabili e atte alla difesa. In uno dei palazzi del re, Cortês
potè accommodarsi con tutto il seguito che aveva di seimila e più
alleati, oltre a' suoi.
La reggia di Motezuma aveva venti porte che fronteggiavano diverse vie.
Ampii cortili erano adorni di fontane zampillanti; le aule erano fregiate con
musaici di smeraldi e turchesi e ametiste e ambra e lamine d'oro e madreperla,
ovvero con piume di splendidi colori tessute in disegni di piante e d'animali.
V'erano nel recinto stesso separate dimore per i principi tributarii, venuti in
visita o tenuti in ostaggio; e ad ostentazione della imperiale misericordia,
v'erano entro la reggia stessa ospizii di mendici e d'infermi.
In un giardino si coltivavano piante medicinali e
i più bei fiori; un serraglio rinchiudeva tigri, aquile, serpenti;
stagni d'aque dolci e d'aque salse erano popolati di pesci marini e fluviali; e
in ampie uccelliere si nutrivano volatili delle più preziose piume, onde
si facevano cimieri e spalline e delicati ricami. Codesti vivai, de' quali
l'Europa allora non poteva dare l'esempio, erano in cura di trecento esperti
dei costumi e delle malattie degli animali. V'era nella reggia stessa una
grande armeria, con fabriche d'armi, nonchè officine d'intagliatori,
intarsiatori e giojellieri; e infine una scôla di danze, le quali erano
primaria parte delle cerimonie sacre.
Sui laghi, sparsi di migliaja di navicelle che
recavano alimento alle molte città, la più mirabil cosa erano i
giardini galleggianti (cinampe), larghe zattere, coperte di terra, sulle
quali crescevano legumi e piante fiorite, sopratutto dalie d'ogni colore.
Principali alimenti erano: il maìz, che di
là venne poi portato ai nostri contadini; nonchè il cacao, che si
macinava anche “mezclandose con granos de maìz cocidos y lavados”
(Sahagun, Historia, ecc., Lib., X 26); e il nome del cacao, come quello
della tazza in cui si prende (xicara) e il nome del tomate (tomatl)
e parecchi altri, è di lingua messicana. Ad uso di pane valeva anche la
radice della cassava (jatropha maniot) e della cacomite (tigridia
pavonia) e l'arachis hypogea; e già in uso popolare erano
molti potenti medicinali, nonchè il tabacco, la vaniglia, l'ananas, il
nopale, specie d'opunzia o fico d'India su cui vive l'insetto che dà il
carmino; infine l'agàve americana onde si traeva un filo, un
papiro finissimo e un liquore inebriante. Ma li agricultori messicani non
avevano idea d'altri grani, nè avevano pensato a valersi della vite
indigena delle loro selve, e nemmeno della patata, che già nutriva altri
popoli americani. Il che prova che le loro emigrazioni e peregrinazioni s'erano
circoscritte entro certi limiti, e non erano nemmeno pervenute a parti assai
vicine di quel continente, mentre molti le vanno imaginando protese fin alle
sue estremità. Nè avevano ancora alcun'idea dell'aratro,
nè d'alcun animale da lavoro o da pastorizia, non avendo
altri animali domestici che alcune specie di conigli e di polli e di cagnolini
che mangiavano. E ciò quando i loro vicini Peruviani, ch'essi non
conoscevano, avevano addomesticato il lama, l'alpaco e la vigugna. Lavorando
squisitamente l'oro e alcune gemme, e valendosi alcun poco del rame per li
strumenti d'agricultura, ma non mai per le armi, pare quasi nulla si
curassero dell'argento e del piombo: antes que veniesen los españoles
à Nueva España, nadie se curaba de la plata ni del plomo
(Sahagun XI, 9). Ma più decisivo per certe preoccupazioni antistoriche
di molti scrittori è il fatto, che non avevano ancora l'idea del ferro,
che la tradizione asiatica fa risalire, al pari della pastorizia, fin oltre
Noè. Il non avere idea di pastorizia e il non potere perciò trar
seco di che vivere come i barbari dell'Asia, fu cagione e della lentezza delle
loro emigrazioni, e della pertinacia con che serbarono l'orrida usanza
dell'antropofagia, finchè poi divenne parte irreformabile di loro
religione e politica.
Con ciò è curioso che avessero
già visto nel sale uno strumento di finanza; poichè Cortês
dice: “Qui si fa gran mercanzia di sale, che lo soglion fare dell'aqua del
detto lago e del fiore della terra dal lago inondata, che, come è
bollita, la riducono in masse in forma di pane e lo vendono, così ai
paesani come ai forestieri” (p. 234). - Ma i liberi Tlaxcaltechi,
anzichè pagare quel tributo al tiranno, si negavano l'uso del sale. “E
sempre si erano difesi; e non li aveva mai potuto far soggetti, sebbene erano
da ogni banda circondati, e non avessero uscita alcuna dalla patria. E non
usavano punto di sale, non se ne facendo nella loro provincia, nè
permettendo che si vada fuor della provincia a comperarne” (p. 229).
Se nel regno degli Aztechi non si sapeva ancora
domar li animali, ben si era saputo domar gli uomini, incominciando dai
più bellicosi e superbi. “Vennero qua, scrive Cortês, a
incontrarmi e salutarmi da mille baroni della città, con abito
d'una stessa livrea, secondo il lor costume e usanza; e mentre
s'appressavano, ciascuno di loro usava la cerimonia della patria, che è
tale: ciascuno, secondo che si trovava nell'ordine, quando veniva a salutarmi,
toccava la terra con mano; e di poi se la baciava per seguo di grandissima
riverenza; e quasi consumammo un'ora, prima che ciascuno finisse la cerimonia.
- Poich'ebbi passato il ponte, mi venne incontro quel potente signor Motezuma
per ricevermi; e con esso lui duecento signori coi piedi nudi e con
altro più ricco abito di livrea. - Il signor Motezuma portava le
scarpe e li altri andavano a piè nudi, benchè tutti
li abitatori usino scarpe. E quando parlai al signor Motezuma, mi cavai una
collana ch'io portava al collo di gioje e diamanti di vetro; e la gettai
al collo al signor Motezuma; e avendo camminato alquanto, venne un suo
famigliare, portando due collane lavorate in modo di piccoli gamberi marini. -
E da ciascuna collana pendevano otto gamberi d'oro, di meravigliosa perfezione,
di lunghezza d'un palmo; e subito me la gettò al collo” (p. 234). Aveva
il privilegio di non comparire scalzo inanzi all'imperatore azteco il solo
principe del ricco regno di Mechoàcan; a ponente di Messico; e
perciò s'intitolava il re calzato.
Qui si desta desiderio d'indagare su quali
fondamenta si fosse edificato codesto imperio, il cui sovrano poteva mostrarsi
con sì fastoso corteggio allo straniero.
È ben certo che nel 1519, quando
Cortês entrava ospite imperioso in quella città, non era compiuto
il secondo secolo dalla fondazione di essa. Solamente nel 1325, li Aztechi,
gente selvaggia venuta dall'Aztlan, ossia, per quanto pare, dalle regioni del
fiume Gila sulle frontiere della California e del Texas, ove anche
oggidì vivono i fieri Comanchi e Apachi, dopo avere errato e combattuto
nei deserti per sette generazioni erano giunti nell'altipiano
dell'Anahùac; e avevano fatto nelle isole della laguna le prime capanne
e un tempio di legno. E in meno di due secoli, avevano potuto, col terrore
delle armi e dei crudeli costumi e colle spoglie di trentacinque popoli, costruirsi
quella meravigliosa città.
E già prima di loro, un'altra gente dello
stesso linguaggio nahùa, era uscita da quelle medesime lande
nell'anno 667 dell'era nostra; e pervenuta in cinquantadue anni appiè
dei monti, fra i quali ha un unico sfogo (desaguadero) verso
settentrione la valle di Messico, vi avevano edificato la città di Tula.
E vi avevano stabilito un impero, che durò quattro secoli e
propagò colonie di quella lingua sino presso il lago di Nicaragua, dove
li Aztechi poscia non giunsero mai. E nella decadenza dell'imperio tulteco,
desolato da guerre e pestilenze, altre tribù dello stesso stipite e
linguaggio, i Chichimechi e i Tepanechi e li Acolhui ed altri, mescolandosi
cogli Otomiti, barbari d'altro linguaggio, avevano fondato Tacuba e Cholula e
Tepeaca e la libera Tlaxcala in un claustro di monti, e sul margine orientale
dei laghi la città di Tezcoco, solerte custode delle memorie di tutto
l'Anahùac. Onde pare che quei sagaci figli del deserto avessero il
commune avvedimento di valersi d'una prima vittoria per farsi colle mani dei
vinti un forte nido in mezzo alle rupi o in mezzo alle aque; e di là
imporre tributo di ricchezze e di Sangue ai popoli circostanti, mettendosi in
luogo dei loro antchi principi e capitani. E così, di selvaggi erranti,
tramutati in caste patrizie, offrivano in seno alle suntuose loro metropoli
quello spettacolo d'improvisa, malcompiuta, e per così dire, barbara
civiltà.
Codesti patrizii che, come sempre avviene, erano
nel paese meno antichi della plebe, apportavano dalla vita selvaggia un'indole
magnanima e gloriosa. Conquistando città forti e belle, non si curavano
abitarle; desolate le lasciavano alla devastatrice natura e alle fiere; e
piuttosto amavano adornare le povere sedi ov'era nata la loro potenza. Quindi
altri palagi, altre torri, altre piramidi, nuovi simulacri, nuove insegne,
nuovi simboli; onde infine l'imperio tutto doveva divenire un informe panteon
di tutte le fantasie dei popoli; e il sacerdozio dei dominatori, anzichè
logorarsi a spegnerle, doveva sforzarsi d'abbracciarle tutte e interpretarle
con qualche idea commune, che diveniva un principio d'insegnamento e
d'unità ideale. Quindi fallace e disperato ogni studio che presuppone
un'unica origine in alcuna grande mitologia.
Li edificii che inalzarono li Aztechi sembrano
distinti per la forma e pel significato da quelli che nei medesimi luoghi
avevano inalzato nei cinque o sei precedenti secoli i Tultechi. Quelli, per
quanto si può ricavare dal Sahagun, diligentissimo interrogatore, in
origine non rendevano culto agli astri; questi, per quanto pare, avevano
inalzato essi nella valle di Otumba quell'eccelsa piramide che ora si chiama casa
del sole; e accanto, altra minore, detta casa della luna; e intorno,
centinaja di piccole piramidi, alte però bene una decina di metri, che
si dicono consacrate alle stelle, sebbene alcuni le credano piuttosto sepolcri.
Più a levante, entro le oscure selve di Papantlan, fu da pochi anni scoperta,
sotto l'ingombro della vegetazione silvestre una piramide di pietra a sei piani,
coperta di figure. Ma più mirabile è ciò che dicesi il
monte fatto a mano; sulla pianura di Cholula, immenso cumulo di mattoni
e pietre, il quale, essendo nel maggior lato della sua base lungo più di
quattrocento metri, è forse il più grande di tutti i templi del
mondo, come forse, lassù collocato, è a massima altezza di tutti.
Sulla sua sommità, che ha quasi un mezzo ettaro di spazio, surgeva una
volta un teocalli agli Dei dell'aere; e ora vi surge la Madonna dei Remedios;
e li aborigeni vi vengono a celebrare, con balli e canti, feste troppo simili a
quelle dei loro antenati. Onde il buon missionario Sahagun si lagnava, che,
quando già da molt'anni il santuario della Madonna di Guadalupe era
surto sulle ruine d'un tempio della dea Tonàntzin, i nativi continuassero
a invocar questo nome che veramente significa nostra madre signora; e
accorressero da lontane terre piuttosto a quel santuario che ad altro. E gli
pareva “invenzione satanica per palliar l'idolatria; poichè in altre
parti vi sono molte chiese della Madonna; e non vanno ad esse, ma vengono da
lontane terre a codesta Tonàntzin come anticamente” (XI, 12). - E di
tali successioni di più culti sopra un medesimo luogo, non senza qualche
innesto dell'antico, i dotti non fecero ancora quel conto che si dovrebbe; e
così videro sovente un'idea semplice nella congerie di difformi idee.
Or qui si noti che mentre codesto. nome di
piramidi, da noi dato ai teocalli messicani, fa pensare all'Egitto, la forrna
quadrilunga delle loro basi, la linea degli spigoli convessa di basso in alto,
le piccole scale praticate per ascendervi, facilmente li distinguono affatto
dalle piramidi egizie; e più ancora l'aver essi un così largo
spazio, anzi una vasta campagna, sulla sommità. Onde un teocalli non
è una vera piramide, in forma di fiamma, come il nome
greco suona; nè un edificio per sè, come le piramidi sono; ma
è un gigantesco basamento d'uno o più templi di mediocre
ampiezza. L'idea di fare un gran cumulo di sassi poteva ben venire in capo
tanto ad un Americano quanto ad un Egizio; ma nè l'intenzione nè
la maniera, furono. le medesime. Era un'altra idea, nata in altra terra da
altre menti per occasione d'altre idee. Tanto può altri quant'altri,
dice il proverbio fiorentino.
Le imaginazioni, commosse da una qualunque simiglianza,
vedono tra questi monumenti l'identico e non vedono il diverso; vedono il
genere e non vedono la specie. È ciò che a prima giunta avviene
in ogni altra cosa. Ai Romani i primi elefanti parvero buoi; e il nome stesso
d'elephas derivò da aleph che nelle lingue arabiche vuol dire un
grosso bue, bos dux gregis; e così gli Spagnuoli chiamarono
pecore le vigugne del Perù; e la foca potè parere un vitello, e
l'ippopòtamo un cavallo. E anche la scienza dà il nome commune di
felis al gatto, al tigre, al leone; ma poi soggiunge al nome generico
anche la distinzione specifica di felis catus, felis tigris, felis
leo. È tempo d'applicare il principio della classificazione
scientifica anche ai monumenti. Abbiamo troppe e troppo precipitose sintesi e troppo
poche e troppo tarde analisi.
Un monumento, nel quale all'identico predomina il
diverso, è la piramide naturale detta Xochicalco (casa fiorita),
appiè dei monti che chiudono il bacino di Messico a mezzodì.
È una rupe alta
Ma i più ammirabili monumenti sono
all'estremità meridionale dell'imperio azteco, o ben piuttosto
dell'imperio tulteco, presso Palenque, presso Merida, in un'isola del lago
Itza, a Capan, a Utatlan, a Mixco e in altri luoghi che si vanno ogni tratto
scoprendo. Pare che il distintivo generico, in paragone ai templi e ai palazzi
dell'Egitto, sia la mancanza delle colonne. Nella maggior parte delle sculture
le forme sono studiosamente terrifiche e orride, ma non mai come in Egitto e in
Assiria miste d'uomo e di belva, nè di diverse belve. E in altre, o per
maggior libertà concessa agli artefici dai sacerdoti sottomessi dai
despoti, o per maggior attitudine imitativa e per indole più geniale dei
popoli, vi sono forme umane che anche li ammiratori dell'arte antica non
possono non lodare. In paragone a questi, i monumenti e i papiri degli Aztechi
sembrano opere di un'arte imbarbarita, come le sculture della lega di Pontida
in paragone alla colonna trajana.
L'istoria di codesto popolo porge in tempi assai
recenti e istorici l'esempio d'un'idea che in tempi remotissimi può aver
presieduto alla fondazione d'alcuno di quei grandi imperii coi quali comincia
d'improviso ciò che si chiama l'istoria universale. Onde codeste istorie
di barbari, così vicine a noi, o anche presenti, dovrebbero essere per
noi come il vestibolo dell'istoria antica.
Qui non abbiamo, come nel Perù, i figli
del sole; non abbiamo una famiglia di Dei legislatori; non una teocrazia immediata;
non vediamo l'intelligenza impadronirsi della forza. Ma è la forza
barbara che irrompe nell'antico dominio d'una intelligenza assopita. È
un popolo guerriero, che ha fede d'esser legitimo possessore d'una terra che non
sa peranco ove sia e di cui va in cerca, mandato dagli Dei che gliel'hanno
promessa, e guidato dagli oracoli dei loro sacerdoti. È una teocrazia mediata,
una jerocrazia; non un governo per mano d'esseri divini, ma in loro nome.
Le otto tribù degli Aztechi vagavano nei
deserti, “essendo guidate dal sacerdote che recava seco il loro Dio, col quale
sempre si consigliava intorno a ciò che avesse a fare: llevaba con
sigo su Dios de ellos con quien siempre se aconsejaba” (L. X, 19). Qui
vediamo una religione ancora allo stato di feticismo. Pare che uno di quei
sacerdoti ancora selvaggi, chiamato Mexi, avesse co' suoi oracoli acquistato
sulle tribù soverchia autorità: “Favellava personalmente col
demonio,” dice il buon padre Sahagun, il quale credeva che quelli Dei fossero
ben cosa diabolica ma viva e potente: “hablaba personalmente con el demonio.
- Era tenido en mucho, muy respetado y obedecido de sus vasallos” (L. X,
19). Pare che con ciò provocasse l'odio geloso de' suoi colleghi,
sicchè questi lo spensero secretamente, in un modo che ricorda la morte
di Romolo. Poichè uno di essi, convocate le tribù, disse loro che
Mexi gli era apparso in sogno; e gli aveva detto che il dio Tezcalipòca,
sentendosi invecchiare, lo aveva chiamato presso di sè, e fattolo sedere
alla sua sinistra. Ma egli aveva voluto che le sue spoglie mortali restassero
perpetuamente in seno al suo popolo; e lo guidassero in tutte le sue
peregrinazioni e le sue battaglie, sino alla terra promessa, ove in riva ad un
lago avrebbe veduto un'aquila posata sovra un'opunzia con una serpe fra li
artigli. Egli indicò la selva ove avrebbero trovato le sue ceneri. E
andati colà, le trovarono chiuse in un'urna d'argilla; e d'allora in poi
le recarono sempre seco in una lettiga di canne portata da quattro sacerdoti.
Li Aztechi, nei papiri ove son disegnate
rozzamente le loro migrazioni, si vedono passare una grande aqua, forse il
golfo di California o qualche laguna del Texas. Soggiornarono lungamente presso
i laghi del regno di Mechoàcan, a ponente del Messico; poscia a levante,
presso il lago di Tezcoco; e quivi stettero per cinquant'anni, quasi schiavi
del re degli Acolhui, vivendo miseramente di radici, di pesci, di rettili,
infinoachè un giorno videro fra i due laghi posata l'aquila fatale
sull'opunzia col serpe fra li artigli. Questo simbolo il lettore avrà
più volte veduto sulle monete che ancora oggidì si vanno coniando
nel Messico. I sacerdoti le posero dunque il nome sacro di terra dell'opunzia; Tenochti
Tlan. Ma i popoli, fedeli alle loro memorie, la vollero chiamata col nome
di Mexi. Siffatte cose, simili a tante che si leggono nelle nostre istorie
antiche, hanno potuto compiersi in America l'anno dell'era nostra 1525; tanto
il mondo è ancora vicino all'infanzia.
Ma nel Messico, egualmente come nel Perù e
nel Giapone e nell'antico Egitto e nell'Asia maomettana, la milizia
soverchiò il sacerdozio. Il capitano del popolo, 41 anni dopo la
fondazione della città, si fece re. Non per questo si sciolse la
teocrazia; l'antico terrore dei sacrificii umani divenne strumento di politica
militare; l'odio dei popoli vicini si esacerbò, covando funesta
vendetta. Quando l'ottavo di quei re consacrò il gran tempio, si dice
sacrificasse sessantamila prigionieri; Gama ricavò da memorie certe che il
primo Motezuma ne sacrificò in una volta 12,210 (Descripcion de dos
piedras, ecc., p. 90). Così chiunque resisteva a quei tremendi
tiranni, doveva perire o sul campo o sull'altare.
In seno alla vittoria e all'opulenza, li
autocrati copersero di teocalli e di delubri l'imperio; si dice che ve ne
fossero più di quarantamila. Moltiplicarono essi i conventi e collegi di
sacerdoti e di sacerdotesse; i figli del deserto rinchiusi nei chiostri vi
crebbero in austera disciplina, in aspri digiuni, in continue preci, in crudeli
castighi, in vili fatiche, spazzando i templi e apportando legna al piè
dei santuarj che stillavano sangue umano. Tutto il calendario messicano era una
serie d'atroci feste. Credevano farsi grati alli Dei, pungendo per lo meno la
fronte o le orecchie o le braccia o i piedi colle sacre spine
dell'agàve, a sè, agli altri, alle persone più care, ai
teneri lattanti; strappando per lo meno il capo ad una cotornice, tanto che il
sangue scorresse.
Ogni matina offrivano sangue al sole e gli
ardevano l'odorosa gomma del copale; e quattro volte ogni giorno e cinque ogni
notte, gli ardevano codesto incenso: “Quotidie offerebatur sanguis et thus
soli. - Quater quotidie thus illi offerebatur; quinquies vero noctu”.
(Hernandez ap. Gama, p. 19). Ergevano templi all'aere, all'aqua, al foco, alla
pioggia, alle nubi, alle nebbie, avevano una Cerere, una Venere che invocavano
per peccar felicemente e per confessar poscia a' suoi sacerdoti l'adulterio; e
il perdono del sacerdote disarmava la legge, che altrimenti li colpiva di
morte.
Pare che appropriandosi tutte le antiche
superstizioni di quella vasta terra, avessero mutato il primo feticismo in un
molteplice e vago naturalismo. E questo, a poco a poco, li guidava pel culto
degli astri alla scienza; poichè in seno all'astrologia nasce l'astronomia,
e dal giro dei cieli e dal ritorno dei tempi nasce la matematica, e quindi ogni
altra più sublime verità. E così vediamo con meraviglia
presso i sacerdoti d'una scelerata antropofagia esprimersi con linguaggio
scientifico l'idea metafisica d'un Dio senza nome, senza culto, ignoto al
vulgo, anteriore a tutti li Dei, principio di tutti li esseri: ciò
per cui si vive: (nepalnemoani) (Biondelli, Pref. XLI).
E uno dei re di Tezcoco aveva composto, in onore
d'un Dio creatore del cielo e della terra, sessanta cantici; due dei quali
vennero tradutti in lingua spagnuola, verso l'anno 1608, dal suo discendente
Don Hernando Ixtlilxochitl, superstite a quella antica grandezza in somma
povertà. E questi, nella breve istoria che scrisse della conquista spagnuola,
chiama sapientissimo quello ed un altro de' suoi antenati, sovrani di Tezcoco,
perchè avessero ai tempi loro apertamente contradetto l'idolatria e
presagito un secolo meno inumano: “este tiempo dichoso - tanto lo deseasteis
ver, y nos contradigesteis nuestros erores”[2].
E questi re di Tezcoco andavano facendo una raccolta delle figure di tutte le
piante e di tutti i animali. E anche qui spuntava un principio di scienza mite
e innocente; e abbiamo visto che l'esempio di questi umani trattenimenti dall'antica
Tezcoco era penetrata anche nella reggia sanguinosa dell'Azteco.
Ne pare adunque che intorno ai vulcani del
Messico, come già venticinque secoli prima intorno ai vulcani della
Sicilia e delle isole Eolie, stessero per succedere alle nefande tradizioni dei
canibali Ciclopi e Lestrìgoni e di Licaone e di Caco i riti d'Orfeo e le
leggi di Numa e di Solone e la filosofia che colla spada di Gelone siciliano
vieta per sempre all'Africa i sacrificii umani. Tutti i popoli del mondo sono
figli di padri che furono, in un dì più o men lontano, figli di
barbari. La stella dell'umanità splende in faccia a noi; non alle nostre
spalle.
Ma il sacerdozio azteco, anzichè additare
ai popoli quella luce benigna, li teneva sempre intenti alle sanguinose tenebre
del passato. Era una delle lugubri loro tradizioni che il sole si fosse
già spento quattro volte e che questo fosse il quinto sole od una quinta
risurrezione del primo. E anche il genere umano aveva già sofferto
quattro grandi esterminii; desolato la prima volta dalla fame e dalle tigri; la
seconda dai turbini, essendosi salvati pochi che conversi in scimie si
nascosero nelle caverne; la terza dal foco, salvandosi pochi, conversi in
uccelli; la quarta dalle aque, per cui li uomini s'erano tramutati in pesci.[3]
Avevano fede che tali disastri potessero
rinovarsi a certi intervalli di tempo. Quindi con ansiosa osservazione avevano
notato il preciso ritorno degli astri e la precisa durata dell'anno naturale; e
probabilmente continuando su quelle eccelse terre e sotto quel lucido cielo le
tradizioni d'altri sacerdozii più antichi, avevano divisato un ciclo per
coordinare l'anno rituale al celeste.
L'anno non era diviso per lune, ma per ventine
di giorni, suddivise in quattro quintine. Non avevano dunque partecipato
alla grande tradizione asiatica dei sette giorni perennemente consacrati ai
sette pianeti e simboleggiati dai sette metalli; e anche qui ci
torna al pensiero l'inesplicabile lacuna dell'idea del ferro. A codesti
360 giorni, ordinati in diciotto ventine e in settandue quintine, seguivano in
fine d'ogni anno cinque giorni nefasti e inoperosi (nemontemi). Non pare
che questo sistema quinario e vigesimale possa essere derivato da verun popolo
del nostro continente.
Li anni si contavano a quattro a quattro, come
nelle olimpiadi greche; ma, per una recondita ragione ignota al mondo
orientale, ogni anno del quaternario era contrassegnato da uno di questi
quattro simboli: coniglio, canna, sasso e casa, i
quali si ripetevano sempre col medesimo ordine.
Tredici quaternarj (ciascuno dei quali veniva
naturalmente a cominciare e finire con un medesimo segno) costituivano una rota
di cinquantadue anni. Il principio era dunque diverso da quello delle
olimpiadi; poichè si riduceva al ritorno d'un medesimo segno ogni quinto
anno; epperò tornava al principio quinario. E in capo ai cinquantadue
anni s'intercalavano tutti quei giorni che noi inseriamo nelli anni bisestili,
e che risultano dalla somma dei residui di ciascun anno, cioè da ore 5,
minuti 48, secondi 48. Con questa somma si avevano alla fine dei cinquantadue
anni dodici giorni solenni. Ma rimaneva ancora un ultimo residuo di ore 14,
minuti 17, secondi 36; e questo veniva poi sommato coll'altro simile residuo
del successivo circolo di altri anni cinquantadue. E così alla fine del
primo circolo i giorni solenni erano dodici; e alla fine del secondo circolo
erano tredici. E al termine del doppio circolo di 104 anni, o secolo, la
differenza tra l'anno solare e l'anno sacro si riduceva a poco più di
ore quattro (4, 35' 12").
E per tal modo, in quel secolo XVI che noi
chiamiamo un secolo d'oro, i barbari canibali avevano un calendario molto
più perfetto del nostro. Poichè in Europa, non ostante
l'emendazione fatta ai tempi di Cesare, quarantasei anni avanti l'era nostra,
quando, per riordinare il corso dei riti a quello delle loro stagioni, fu
necessario fare un anno di quindici mesi, annus confusionis, v'era
già tra l'anno naturale e l'anno sacro un salto di nove giorni. Questo
venne poscia corretto ai tempi di papa Gregorio XIII, nell'anno 1582. Ma
l'emenda venne per lungo tempo ricusata dagli Inglesi; e non è accettata
ancora oggidì dai Russi e dagli altri cristiani orientali.
Adunque, pervenuto alla fine della rota d'anni
cinquantadue, il popolo stava in somma angoscia, temendo, che, colla fine
dell'ultimo giorno nefasto, dovesse arrestarsi il giro del mondo; e dovesse
spegnersi una quinta volta il sole, e andare in nuova perdizione il genere
umano. Facevano preghiere e digiuni e pianti; spegnevano tutti i fochi e i
lumi; rompevano i vasi domestici e distruggevano i giojelli e le piume e li
altri ornamenti della persona, come cose oramai vane: appropinquante mundi
termino. Sulla sera, il sommo sacerdote si avviava in silenziosa e mesta
processione alla cima d'un monte. E pervenuto colassù verso la
mezzanotte, stava intento a vedere se le stelle proseguissero il loro corso.
Notavano principalmente, non già i moti d'alcun sinistro pianeta, come
avrebbe fatto l'Asia; ma, non sappiamo perchè, osservavano il giro delle
Plejadi, che dopo il solstizio d'inverno, in quell'emisferio occidentale si
trovano nel colmo del cielo a mezzanotte. Tutta la gente delle città,
entro l'ampia cerchia dei monti, stava sui terrazzi delle case e sulle
sommità degli insanguinati teocalli, cogli occhi fissi nelle fatali
stelle, da cui la fantasia loro si era rassegnata a ricevere sentenza di vita e
di morte; perfino i lattanti erano tenuti svegli con gridi e percosse e
sanguinose punture (Gama, p. 56). Appena pareva che le Plejadi, librate sul
meridiano, cominciassero a piegare verso occidente, un prigioniero veniva
afferrato e prosteso supino sulla pietra del sacrificio e tenuto fermo da
quattro sacerdoti per le braccia e le piante, mentre un quinto gli premeva la
gola con un giogo di legno in forma di serpente. Allora il sommo sacerdote, con
un coltello di pietra ossidiana, specie di vetro vulcanico assai tagliente, gli
fendeva a traverso il petto; gli afferrava il cuore; lo strappava; e ancor
palpitante lo offriva al cielo. Poi sul petto della vittima accendeva il foco
nuovo. E quella era la sola vittima che non venisse gettata ai fedeli da
divorare; ma veniva deposta sopra un immenso rogo, che come vampa di vulcano,
potesse esser veduto in tutto il cerchio delle montagne. E tutta l'orda dei
sacerdoti si dispergeva portando a corsa di terra in terra il foco nuovo che
trapassava di mano in mano fin oltre i monti, fino ai due mari, fino alle
estreme solitudini del barbaro imperio, i cui sudditi tremanti pagavano il
tributo di sangue. A quella luce, tutti con una spina d'agàve traevano
sangue a sè ed ai loro infanti; e in ogni città, sull'alto d'ogni
piramide, si facevano sacrificii di prigionieri. Poi col surger del giorno,
s'incominciavano i conviti e le danze; erano i giorni di letizia, dodici in
fine d'un mezzo secolo, tredici alla fine d'ogni secolo. Le carni umane,
consacrate dall'orribile sacrificio, venivano divise a tutte le famiglie,
sicchè tutti i credenti in quella tremenda fede vi partecipassero; e
abbrustolate, venivano poste sopra polente di maìz, e senza miscela di
profani intingoli, ingojate. E si rinnovavano tutte le cose rituali e tutti li
ornamenti delle persone per il nuovo circolo d'anni concesso al genere umano, e
pel nuovo circolo di barbarie imposto dall'inesorabile tradizione della vita
selvaggia a un popolo che già possedeva nella sua conquista tanti
elementi d'una splendida civiltà.
I sacrificii di prigionieri si ripetevano alle
tante divinità più volte in ognuno dei dieciotto mesi dell'anno;
si offrivano anche per voto privato di guerrieri e di mercatanti, al ritorno
dalle loro spedizioni. Letteralmente, il popolo azteco divorava i popoli vinti.
E divorava perfino le sue creature.
In primavera, si sacrificavano alli Dei della
pioggia turbe di bambini. - “I miseri pargoletti (estes tristes niños),
prima che li portassero ove dovevano morire, venivano adornati con gemme, con
piume preziose, con cinture e manti d'elegantissimo lavoro e con bei
calzaretti; e si ponevano loro certe ale di carta come ad angeli (y ponianle
unas alas de papel como à angeles). Poi li adagiavano sopra cune
adorne di penne preziose e di gioje; e le accompagnavano con suoni di flauti e
di certe loro trombe; e dovunque le portavano, la gente piangeva (y por
donde las llevaban, la gente lloraba)”.- Quella terra infelice stillava
dunque perennemente di sangue, non perchè le anime fossero naturalmente
crudeli. Erano crudeli le idee. Quante lacrime, anche ai giorni nostri, e
quanto sangue non fanno versare le idee semibarbare di certi uomini i quali per
sè non saprebbero esser crudeli! Giovani scrittori, combattete
l'inumanità nelle idee che la inspirano! La nostra pena di morte non
è forse un sacrificio umano? Non è forse un sacrificio al Dio
innominato d'una barbara vendetta? Che importa se il sacrificio si compia in
cima a una magnifica piramide di quattrocento metri d'altezza alla vista
d'un'intera nazione, o sovra una sordida forca di legno? con un coltello di
vetro, o con un pezzo di corda o di ferro, ovvero colla machina infame a cui
sta raccomandato in eterno il nome di Radetzky?
E quando un giovine nemico, preso sul campo, era
destinato a morire, il primo dì del quinto mese, a piè del
simulacro di Tezcalipòca, veniva per un intero anno tenuto in lieta
brigata di giovani, i quali, vestito dei più pomposi ornamenti, anzi
colle insegne dello stesso dio davanti a cui doveva morire, lo accompagnavano
con suoni e canti sul lago; ed andava secoloro per le vie della vasta
città danzando ei medesimo e sonando di flauto: e tutta la gente
accorreva a vederlo passare, e gli s'inchinava come fosse un Dio. Veniva
satollato dei cibi e liquori più squisiti; la sua mensa e il suo letto,
tessuto di vaghe piume, venivano sparsi di soavi fiori; e gli davano in canne
di fumo tabacco misto a deliziosi aromi. E quattro nobili giovinette
venivano tratte dal chiostro; e in onore del dio, lo consolavano coi loro
vergini amori. Nell'ultima notte, usciva insieme con esse dalla città;
ma giunto a certo oscuro delubro, vi trovava uno stuolo di sacerdoti, che
avvolti nei foschi lor manti, o coperti il capo con maschere di belve feroci,
lo involavano alle carezze e alle lacrime delle fanciulle, e trattolo pei
capelli sulla piramide ferale, lo rovesciavano sulla pietra, gli strozzavano i
gemiti in gola; e strappatogli il cuore, ungevano del caldo sangue giovanile le
fredde labbra dell'idolo di sasso. Poi gettavano il cadavere, giù per le
scale grondanti di sangue, ai devoti che seduti l'aspettavano e se lo recavano
sulle spalle alle orride cene. È una tragedia che infine move più
la nausea che la pietà.
Una scienza, che per necessità doveva di
parecchie migliaja d'anni aver preceduto le irruzioni di quei barbari,
poichè aveva orientato con mirabile esattezza astronomica le fondamenta
degli edificii nelle tante magnifiche città che quei barbari avevano
distrutte, era pervenuta a costruire grandi meridiane e a rappresentare in
grandi zodiachi il corso del sole. Fa meraviglia che a tal uopo potessero
trarre fin dai monti enormi massi di basalto e di porfiro; e condurli sugli
àrgini artificiali che attraversavano le paludi. Fa meraviglia che
giungessero a tanto, in queste e in altre opere, colla sola forza delle braccia
e col solo uso del cilindro, senza l'uso del ferro e senza aver quell'idea
della rota e del carro e della forza animale, che vediamo antica di migliaja
d'anni in tutta l'Asia. Codesti zodiachi, con somma precisione e non senza
eleganza scolpiti, o rimasero sepolti fra le ruine quando Cortês in
ottanta giorni di continuo combattimento distrusse il popolo e la città;
o vennero nascosti sotterra dai sacerdoti per sottrarli alla mano degli
Spagnuoli, che in otto anni distrussero ventidue mila templi e quanti idoli e
quanti papiri vennero loro alle mani. E ora vennero trovati, e stanno deposti
nel museo di Messico, ove si può ben riconoscere che gli operatori
dovevano possedere qualche esatto principio di gnomonica e di geometria.
E parimenti meravigliosi, come opera mecanica,
sono certi giganteschi simulacri di porfiro, nelle cui truci fattezze domina il
solo intento d'incuter terrore; al qual uopo solevano avvolgerli in una confusa
congerie di fiorami scolpiti, di teschi umani, di serpenti e d'altri simboli;
anzi, perchè l'imaginazione rende più terribile ciò che
non si vede, quelle torve facce di bruna pietra si solevano coprire con
maschere d'oro.
Il sistema dei diciotto mesi vigesimali era da
origine strettamente legato con un sistema numerale, che non sappiamo se fosse
commune a tutte le cinquanta lingue ch'erano comprese nell'antico imperio dei
Tultechi. E perciò siamo ben lontani dal poter dire che appartenesse,
nonchè agli Aztechi, nemmeno ad alcun altra delle nazioni nahùe.
Certamente non pare che possa identificarsi con alcun sistema asiatico.
Il sistema era questo. Avevano un nome
indipendente e proprio per ciascuno dei cinque primi numeri, nonchè pel
dieci, pel quindici e pel venti. I numeri intermedj a questi erano composti, e
relativi ad essi; per esempio, cinque-e-uno, quindici-e-due. Era
pertanto fin qui un'aritmetica, non decimale come la nostra, ma quinaria. Era
per così dire fondata, non sopra le due mani, come le numerazioni
asiatiche, ma sopra una sola.
Ma più oltre diveniva vigesimale; onde si
diceva due-venti, tre-venti; e così via si giungeva fino a
diecinove volte venti, o propriamente fino a quindici-e-quattro venti.
Il quadrato di venti, cioè venti volte venti (quattrocento),
aveva un nome proprio; e prestava alla mente quell'intervallo e quel riposo che
a noi presta il migliajo. Si prendeva una volta, due volte, tre volte; e
così via fino a diecinove volte. Ma il cubo di venti, cioè
venti volte quattrocento (ottomila) aveva pure un nome proprio; era il numero
supremo, come pei Romani il mille, come pei Greci la miriale,
come nel medio evo il millione italiano, come ai nostri tempi il milliardo
francese. Coi composti di questo numero si poteva giungere facilmente fino al
cubo di ottomila, ossia fino a sessantaquattro millioni; il qual numero doveva
oltrepassare per quei popoli ogni pratico bisogno.
Questo sistema numerale, in cui non si vede
primeggiare l'idea del dieci, e manca affatto l'idea del cento e
del mille, non poteva esser derivato da lingue nelle quali fin da tempo
immemorabile quelle tre idee reggono tutta la numerazione.
E anche la scrittura dei numeri sembra affatto
originale; ed è fondata sempre sulle medesime stazioni del venti,
del suo quadrato e del suo cubo (20; 400; 8000). Pei numeri
inferiori si segnava ogni unità con un punto, ovvero con un circoletto;
e i punti o circoletti, aggruppati a cinque a cinque in diverse righe,
giungevano fino al venti. Il venti s'indicava colla figura d'una bandiera
di forma quadra; il quadrato di venti (quattrocento) con una penna; e il
suo cubo (ottomila) con una borsa. Volendosi, per esempio, indicare
quattrocento uomini, si disegnava il capo d'un uomo con una penna al di
sopra. Volendosi indicare 420, si poneva una penna e una bandiera.
Volendosi indicare 8891, si poneva una borsa, che valeva 8000; due penne,
ciascuna delle quali valeva 400; quattro bandiere che valevano ciascuna
20; una mezza bandiera, ossia una bandiera colorita solo per
metà, e infine un punto. È probabile che questi segni
siano derivati dagli ordini militari. Nel qual supposto, sarebbero i segni di
cose particolari, trasferiti a indicare cose generali e astratte. Questo fatto
dà luogo a tentare una congettura sul modo con cui nelle lingue si
giunse a trovare i vocaboli dei numeri.
Per misura dei valori adoperavano polvere d'oro,
pezzi di rame tagliati in forma di T, sacchi di cacao di ventiquattro mila
grani, e anche rotoli di tela.
A scrittura che mirasse ad esprimere il suono
della parola, non erano pervenuti. Disegnavano sui papiri le cose materiali. A
cagion d'esempio, per indicare che nelle loro emigrazioni, passato il monte dei
pini, erano giunti a piè del vulcano, disegnavano, sopra papiro
d'agàve o sopra tela di cotone, più uomini in atto di camminare
verso un monte, cioè verso un informe triangolo, sul vertice del quale
era disegnato un pino, al di là del quale sopra altro monte era
disegnata una fiamma. Per indicare un anno, ponevano il suo segno di coniglio,
di casa e così via. Conservavano con cura i papiri nei quali
erano segnate le tabelle dei tributi e delle milizie, e i cadastri delle terre
dipinti a diversi colori, secondo che appartenevano ai capitani, ai sacerdoti o
ai communi, che li coltivavano in società e se ne dividevano i frutti. E
così rappresentavano in carte geografiche le posizioni e i nomi dei
luoghi, le
battaglie, le genealogie, le pratiche della religione e delle arti. Si nota che
i papiri più antichi, in cui si dipingono le peregrinazioni degli
Aztechi non sono accompagnati da simboli degli anni; il che fa supporre che li
imparassero più tardi, in seno ad alcuna delle terre conquistate, dove
la scrittura fosse giunta a quel primo rudimento degli ieroglifici, cioè
rappresentanti i suoni.
Per tutto ciò, se nelle arti, nelle
religioni o nelle lingue dell'Anahùac si potesse rinvenir mai qualche
vestigio ben certo di popoli stranieri all'America, ciò che finora non
avvenne, questo dovrebbe piuttosto trovarsi nei monumenti e nelle lingue dei
popoli conquistati che non dei conquistatori. I quali, s'erano ancora canibali
ai tempi di Carlo Quinto, non potevano aver avuto origine o educazione da
popoli i quali già fossero civili settemila anni prima, come per
esempio, li Egizii del regno sacerdotale di Tebe, o li Etiopi del regno di
Meroe, ancora più antico.
Come si spiega dunque la simiglianza di qualche
vocabolo della lingua azteca coll'arabo, col sanscrito, col chinese, col
mogolo, con qualsiasi altra lingua, secondo le varie preoccupazioni e fantasie
degli studiosi?
È d'uopo anzi tutto notare che alla lingua
azteca mancano tutti i suoni delle importantissime lettere b, d, f,
g, r, s, v; e sono assai circoscritte le combinazioni
delle poche consonanti e i dittonghi delle poco numerose vocali. Si prendano
due linguaggi più fra loro diversi, e si provi a cancellare da tutti i
loro vocaboli radicali tutte siffatte lettere e combinazioni di lettere, e la
differenza primitiva in gran parte svanirà. Ed essa nel caso nostro per
altra gran parte svanirà, se alle lettere residue ed ai loro nessi si
sostituiscano le lettere mancanti; per esempio, se al distintivo e
frequentissimo nesso il si sostituisca la nostra lettera r o la s,
delle quali esso sembra un imperfetto supplemento.
Inoltre noi sappiamo che le lingue iraniche o
indoeuropee, non ostante il loro sviluppo immenso, si possono richiamare a
poche centinaja di radici monosillabe, di senso materiale e sovente di suono
imitativo. Da queste derivarono, per inflessione, composizione e traslato, le
voci di più alto senso. Così per esempio, le voci astratte ponderazione,
astrazione, contagiosità, rivocate alla loro radice si
riducono alle sillabe pond, trac, tac; le quali imitano il
suono che accompagna la caduta d'un grave, o il suo attrito, o il
suo incontro con un altro corpo.
Adottato una volta (come sarebbe una volta tempo)
il supremo principio di Vico della commune natura dei popoli, dobbiamo
riconoscere che qualche tratto d'originaria simiglianza fra le più
disparate lingue deve sempre riscontrarsi. Da per tutto li uomini primitivi,
con istinti imitativi più o meno simili, e con organi vocali più
o meno simili, imitarono suoni naturalmente simili, che ferivano organi di
più o meno eguale sensibilità. Posto un primo strato di suoni
imitativi di significato materiale, essi dovettero procedere a formare i
traslati per forza delle associazioni naturali che sono fra le cose e quindi
tra le idee che le rappresentano, e per forza delle facoltà imaginative
e riflessive che sono radicalmente simili in tutti i popoli, benchè con
diversi gradi di vigore. Per quanta varietà si possa introdurre in tutto
questo complesso d'elementi, qualche cosa di simile e d'identico può
tuttavia rimanervi, anche dopo tutte le variazioni introdutte nel corso dei
secoli, e nella miscela e alterazione dei linguaggi, più volte ripetuta
e non frenata ancora da scritture permanenti. La chiave di questa simiglianza
primigenia non è a cercarsi nell'Asia o nell'Africa, ma nella natura
umana.
Una voce che nella lingua azteca confusamente
allude al greco e al latino, è la voce composta teocalli, che
indica una piramide e si risolve nelle due voci teotl e calli,
cioè Dio e casa. Ma l'evidenza si annebbia se si prende tutto
il fascio dei vocaboli che si rapportano alla radice teotl. In latino deus,
dius, divus, dis, dives, dies, ditio,
esprimono luce, forza, ricchezza, comando; anche la
voce dirus, per quanto sinistra, può revocarsi alla stessa idea
d'una forza arcana. Ma se, almeno entro i limiti del glossario azteco, del
quale il dotto Biondelli corredò la traduzione di diversi frammenti dei
libri sacri del cristianesimo, tradutti dal missionario Bernardino di Sahagun[4], raccogliamo tutti i
valori del medesimo suono radicale teotl, non troviamo se non teuhtli
(polve), e teutlac (sera). Or questo gruppo teotl, teuhtli,
teutlac, nel suo complesso non corrisponde al gruppo latino, dove la
voce deus sta quasi in numerosa famiglia. La voce teotl nel
gruppo azteco rimane isolata e quasi straniera; ed è ben probabile
ch'essa appartenesse piuttosto a qualche lingua dei popoli conquistati che non
a quella dei conquistatori. Sarebbe mestieri ricercarne l'origine fra le
cinquanta lingue superstiti all'imperio tulteco. E supposto che vi si trovasse,
sarebbe ancora mestieri che il gruppo radicale del quale facesse parte, fosse
identico nella sua idea complessiva al gruppo latino. Perocchè all'alto
e astratto vocabolo che indica la divinità si può giungere per
diverse vie; e la voce Deus non ha il medesimo procedimento ideale che
hanno, per esempio, in inglese le voci God e Lord. È
ancora a notarsi che il padre Sahagun, diversamente da ciò che fecero S.
Geronimo e Ulfila e li altri traduttori delle Scritture, rifiutò di
valersi della voce indigena teotl, e preferì la voce spagnola Dios,
e la fece entrare anche nelle voci derivate e composte.
La simiglianza di pochissime altre voci azteche,
come per esempio icniuh, comanya, alle voci latine amicus,
commoveo, svaniscono quando le riferiamo alle radici am-o, mov-eo.
Per ciò che riguarda le inflessioni,
quando vediamo il verbo latino variar sempre nelle desinenze (per esempio, nu-mer-o,
numer-as, numer-at), e il verbo azteco all'opposto variare a
preferenza nell'iniziativa (nitla-pohua, titla-pohua, tla-pohua),
noi vediamo una diversità e non una simiglianza. È vero che
qualche rara e quasi unica volta, il latino (come in didici, pepigi,
tetigi) ammette nell'iniziale una duplicazione presa dalla radice
stessa, ma non mai un vero prefisso indipendente, come nitla, titla,
tla. Ed è pure vero che nel greco e nel sanscritto la
duplicazione è più frequente, anzi per il tempo passato è
generale e costante; ma non v'è prefisso vero in greco se non l'e
e in sanscritto se non l'a. Per necessità naturale sono poi tanto
circoscritti i modi d'inflettere le radici, che chiunque si ponesse a inventare
di suo capo una nuova lingua, difficilmente potrebbe imaginarne un altro
più ovvio e più commodo.
I discordi tentativi fatti da molti eruditi di
diverse scôle per identificare li Aztechi ora ai Giaponesi, ora ai Chinesi, ora
ai Mogoli, ora agli Indo-europei, ora agli Egizii, ora agli Ebrei, ora per la
lingua, ora per le piramidi e i papiri, ora per le fattezze del volto, ora per
le idee religiose, finiscono a elidersi mutuamente e darsi una generale
negativa. Fu già osservato da varii scrittori come i frati, che andavano
nel Messico a sostituire le tormentose fiamme dell'auto da fè
alla sanguinosa pietra del sacrificio, trovando nella religione azteca una
certa qual forma di conventi, di noviziati, di voti monastici, di battesimo, di
confessione, di communione, l'attribuirono, li uni all'apostolo San Tomaso, li
altri al diavolo; le quali due congetture, avvicinate, si distruggono[5].
L'unico risultamento di tali oramai troppo
numerosi e contrarii e sterili tentativi si è, che, come il mondo degli
antichi popoli non comprende la terra d'America, così non
comprende l'uomo americano.
Fermi nel gran principio della commune natura
dei popoli, noi non possiamo intendere perchè l'uomo potesse trovar
tante cose in Asia, e non potesse trovarne alcuna in America. Noi vogliamo
onorare la natura umana in tutte le sue manifestazioni.
Noi invitiamo eruditi della forza dell'amico
Biondelli e dell'amico Marzolo, a cercare nel complesso delle lingue
dell'imperio messicano le vestigia dell'azione reciproca che quei popoli ebbero
fra loro. Forse in alcuna di quelle lingue si troverà qualche parte
delle molteplici origini di quella indipendente civiltà. Le origini
messicane sono un fonte nuovo e inesplorato della scienza delle nazioni.
I tetri imperii di Motezuma l'Azteco e di Carlo
Quinto l'Austriaco non s'aggravano più sui popoli del Messico. Non
più i sacrificii di sangue, non piu i roghi degli inquisitori; ma i
primi raggi di una filosofia redentrice. Su quella terra, predestinata da
natura a convegno universale del genere umano, il secolo vittorioso ha scritto
in una lingua sorella alla nostra: Libertà e Verità.
CARLO CATTANEO
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2004
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Edizione elettronica
realizzata da Alessio Sfienti
Nel
corso ormai d'un secolo, la nuova scienza dell'economia publica pose
successivamente in evidenza tre fonti di produzione, la natura, il lavoro,
il capitale. Questa è la fisica della ricchezza.
Rimaneva
ad aggiungere, che, supposte eguali presso diverse nazioni quelle tre forze
produttive, le ricchezze potevano inegualmente crescere o scemare anche solo
per certi fatti dell'intelligenza, o per certi fatti della volontà.
Sono fenomeni, che, svolgendosi nell'uomo interiore, soggiaciono alle leggi
proprie del pensiero. Questo può dirsi la psicologia della ricchezza.
La
verità di questo principio è di prima e sommaria evidenza; eppure
esso non fu ancora accolto nei trattati come distinto e integrante anello della
catena scientifica. I pensatori dovrebbero adunque dedicarsi di proposito a
compiere questo nuovo passo nello studio della vita delle nazioni.
Furono
li economisti francesi del secolo scorso, che raccogliendo lo sforzo
dell'attenzione sovra un sol punto, videro nelle ricchezze solamente il dono
della natura. Preoccupati di controversie finanziali, intenti a trarre
in luce quei fatti che inducessero i governanti a non gravare di maggiori
tributi una squallida agricoltura, che, mal redenta dalla barbarie feudale,
cadeva già schiava d'un despotico accentramento, essi miravano con
occhio geloso i favori che i potenti si erano invaghiti di largire alle
seducenti innovazioni dell'industria. E da una parziale analisi vennero ad
un'immatura e vana sintesi che negava l'utilità del lavoro.
Poichè, nelle loro viste, quanto aggiungeva il lavoratore ai produtti
naturali, tanto consumava per sostentarsi; sicchè, mentre la più
povera parte dell'umana specie si moltiplicava, il produtto nitido, riservato
ai proprietarj e rappresentato dall'affitto, a cose finite si limitava sempre
alla primitiva ricchezza naturale. Questa poteva bensì dal proprietario
venir concessa in porzione più o meno larga al lavoratore; ma in
sè non poteva crescere nè scemare.
Gli
scrittori italiani di quel secolo, e più gli inglesi, s'avvidero che l'analisi
aveva preso un campo troppo angusto; la trasferirono sovra altro punto; si
diedero interamente a dimostrare come la ricchezza, ben piuttosto che al fatto
della natura fosse dovuta alle fatiche dell'uomo. Il quale non solo provocava
col ferro e colle seminagioni la dormente potenza della terra; ma svolgeva
coll'arte le attitudini naturali delle cose. Analizzando i lucri del commercio,
dimostrarono che, sebbene sembrassero usurpazioni fatte dall'avidità
d'intermediarj parasiti a carico delle moltitudini, erano parte
d'un'utilità nuova, che le cose acquistavano venendo recate, dai luoghi
e dai tempi in cui giacevano superflue, ad altri luoghi e tempi ove riescivano
rare e desiderate. E videro come questa circolazione provocasse una più
larga produzione di quelle derrate che in ogni singolo luogo si potevano
ottenere con minor fatica più perfette. Onde varii popoli, senza accordo
fra loro, collaboravano inconsciamente ad un complesso commune di produzioni.
Con ciò si dimostrava la crescente potenza del lavoro associato;
e si scopriva quel principio fecondissimo che si chiamò divisione del
lavoro. E siccome l'efficacia di questo deriva in parte dall'attenzione
concentrata e dall'abitudine, potevano dirsi giunti al confine per cui dalla
fisica ricchezza si trapassa alla psicologia; ma quivi si arrestarono;
poichè ogni punto di vista ha il suo limite. Intanto era dai loro studii
provato come il lavoratore non solo accrescesse il reddito lordo, nel quale era
compreso ciò che consumava egli stesso; ma producendo più valori
che non consumava, lasciasse un residuo nitido che si doveva unicamente al lavoro.
Studiando
poi l'uso che facevasi di codesta eccedenza dei frutti in paragone dei consumi,
s'erano avvisti che una parte del consumo era solo apparente. Poiché serviva a
compiere certe operazioni e ad alimentare certi lavoratori ch'erano destinati a
un corso ulteriore di produzione; cosicchè il valore consunto
ripullulava dopo un certo tempo in più larga misura, e accresceva il
reddito vivo della nazione. Codesta eccedenza, risparmiata a posta in serbo per
essere applicata a nuova produzione, costituiva il capitale.
Fin
qui l'analisi, intenta ai fatti materiali, aveva annoverato bensì tra le
forze produttive l'opera dell'uomo, ma mirando alle sole braccia e non badando
all'intelletto. Non aveva considerato che alle braccia poteva ben supplire la
bruta energia dei venti, delle aque, degli animali; ma che l'intelletto umano
era una forza sopra tutte le altre poderosa e impermutabile.
Fa
meraviglia che Genovesi ed Adamo Smith, ch'erano professori di filosofia,
trascorressero colla mente sopra l'economia publica, senza intravedervi il
costante dominio di quelle facultà mentali ch'erano il primo campo dei
loro studj. Genovesi, egli è oramai più d'un secolo (1757), non
riconobbe nell'intelligenza un'efficacia direttamente produttiva; ascrisse
promiscuamente fra i produttori indiretti i soldati e i dotti: - "i quali,
benchè non siano producitori di nessuna rendita immediata, sono
necessarissimi a difendere quelli che lavorano, o a governarli, ad istruirli, a
sollevarli; ond'è ch'essi giovano ad aumentare le rendite della
nazione". - E pertanto egli pensava che convenisse limitare il numero
loro, proponendo, - "come principio generale e fondamentale che la classe
degli uomini producitori di rendita sia la più numerosa ch'è
possibile, - e quelle classi che non rendono immediatamente siano il meno
possibile. - Imperocchè è manifesto che le ricchezze d'una
nazione siano sempre in ragione delle fatiche". (C. XI. XII.)
Vent'anni
più tardi (1776), Adamo Smith fu più assoluto nel suo dire,
affermò che, "le classi dotte non producono valore alcuno, e
che l'opera loro svanisce nell'atto stesso in cui appare (II. 3)".
Dimodochè quel sommo pensatore non toccò l'argomento degli
istituti di publica educazione se non a proposito della spesa.
Quarant'anni
dopo Smith (1815), Gioja, sebbene fosse tacciato da molti di pender troppo al
lato materiale delle cose, sebbene non assegnasse all'intelligenza una propria
e proporzionata parte della scienza economica, mostrò, egli primo,
d'apprezzarne l'efficacia: - "In ogni produtto si riconoscono
distintamente due azioni: l'azione mentale e l'idea direttrice, l'azione
corporale e i moti d'esecuzione. Siccome a ciascun moto del sonatore
corrisponde una nota sulla carta musicale che le disegna, così a ciascun
azione dell'uomo corrisponde nell'animo un'azione che la dirige. - A misura che
crescono li ammassi scientifici, possono le generazioni procacciarsi
maggior numero di piaceri". (N. Prospetto delle Scienze Econ. I.
50.).
Senonchè,
l'idea di Gioja, trascurata da lui medesimo, rimase, come di solito, stagnante
in Italia e ignota agli stranieri; laonde, parecchi anni più tardi
(1828), l'anno, se non erro, dopo la sua morte, Say nel Corso d'economia
(I. 116) additando, pur di volo e non di proposito, "ces comme les bases
des arts industriels et des richesses" - e dicendo aver ciò appreso
dal vecchio Bacone, potè lodarsi di non essere in ciò preceduto
da verun altro scrittore. - "Ils ont tous regardé les savants comme
des travailleurs improductif ".
Intanto
erasi levata in Francia una nuova scôla, che professando d'impugnare tutta la
scienza economica sino a quel tempo trovata e di volerla rifar da capo,
solamente trasferiva l'analisi sovra un nuovo punto, quello cioè del
riparto delle produzioni fra i membri della società.
Al
punto al quale erano giunti Genovesi e Smith e Say, dacchè il reddito
delle nazioni proveniva tanto dalla natura e dal capitale quanto dal lavoro, il
proprietario che concedeva al lavoratore la terra, e che in sementi, arnesi,
animali e viveri gli anticipava il capitale, era parso loro in ambo i modi
necessario e principale agente della produzione. La loro dottrina aveva
magnificato i possidenti, come se avessero creato essi la terra sulla quale
erano nati, e i capitalisti come se avessero creato essi il capitale, ch'era
opera collettiva del lavoro di tutti. Sembrava strano ai socialisti che gli
avari accaparratori di grano e d'oro, mentre erano segnati a dito come
oppressori del popolo, venissero in questa teoria presentati come suoi
cooperatori e benefattori. La maggioranza delle famiglie era diseredata della
terra, che nascendo trovava già occupata, diseredata dei capitali,
dacchè la parte assegnata sul frutto delle fatiche ai lavoratori era
sempre così misera, che il risparmio diveniva impraticabile.
Perlochè, pensavano essi, il capitale non poteva essere provenuto
in origine da vero risparmio, ma da ineguale distribuzione, che ad
alcuni aveva assegnato un superfluo. Tanto la terra quanto il capitale,
a mente loro, appartenevano dunque a tutta la società, anzi ai soli
lavoratori; poichè questi soli se ne valevano per ottenere la produzione
a universale vantaggio. Tutti quei membri dell'umana famiglia, che con pretesto
di posseder terre o capitali rimanessero inoperosi largamente vivendo, erano
usurpatori delle fatiche altrui. Allora s'udì quell'odioso detto: - «La
propriété c'est le vol». E anche i più miti riclamarono per tutti i
membri operosi della civile azienda il sopravanzo del lavoro commune, ossia il
capitale sotto qualunque sua forma. Dimandarono pertanto il prestito senza
interesse, e l'uso gratuito delle sementi, degli strumenti e della terra, che
dissero il primo e il più necessario di tutti gli strumenti, e
perciò appartenente in perpetuo e inalienabile diritto di tutta la
società. Ad essi non bastò che l'economia fosse, com'era, l'istoria
naturale della ricchezza; vollero che come il suo nome primamente
significava, fosse la regola della casa sociale: - «C'est donc une
renovatio complète de la société que l'économie politique veut» (Pierre
Leroux - Encycl. Nouv. IV. 546). Avevano dunque scambiato l'economia col
diritto; non coll'antico diritto civile, o col moderno diritto publico, ma col
futuro diritto sociale, che non era ancora nato; né poteva nascere se non dopo
l'economia, da cui doveva trarre ogni suo lume. Ben è vero che il
vocabolo d'economia significa legge e diritto. Ma sotto quel nome si era svolta
un'altra scienza, appunto come la geometria, che in origine significava
meramente agrimensura, senza mutar nome si era trasformata nella più
alta e pura contemplazione delle forme e delle grandezze. Ciò era
avvenuto anche della geologia, della fisica, della fisiologia, dell'istoria naturale.
Gli uomini cercando una cosa ne rinvengono un'altra; e lieti di ciò che
hanno trovato, non curano di mutarne i nomi. Chiamare inutile l'economia
perchè non fosse il diritto, era come chiamare inutile la botanica
perchè non fosse l'agricoltura.
L'analisi
che i socialisti avevano voluto portare sulla distribuzione, venne a ricader da
capo sulla produzione; poichè vollero compartire i frutti
secondochè ciascuno avesse contribuito a produrli: «à chacun
selon ses oeuvres». - E così addivennero ad una distribuzione moralmente
giusta, ma materialmente ineguale, che ai meglio parteggiati dava adito
a conseguire un superfluo, e perciò diritto a farsene col
risparmio un capitale. Con che riconsacrarono praticamente il capitale
che teoricamente avevano condannato; e riconobbero una proprietà che
non era punto una rapina.
È
ovvio che nell'ineguale riparto dei frutti tra coloro che avessero contribuito
a produrli, il vantaggio toccava tutto all'intelligenza; ma era l'intelligenza
in quanto potesse presentarsi sul campo stesso del lavoro; era
l'intelligenza dell'artefice del direttore. Or bene v'è un'azione assai
più remota ed elevata, che l'intelligenza spande su tutta la produzione
del genere umano. E non è nemmeno quella che Genovesi aveva attribuito
ai produttori indiretti, e Gioja agli ammassi scientifici.
Gli
atti d'intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza più
vaste e universali, hanno dovuto necessariamente antecedere ad ogni produzione
diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v'è lavoro, non v'è
capitale, che non cominci con un atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro,
prima d'ogni capitale, quando le cose giaciono ancora non curate e ignote in
seno alla natura, è l'intelligenza che comincia l'opera, e imprime in
esse per la prima volta il carattere di ricchezza. "Il valore che hanno le
cose non si rivela da sè; è il senso dell'uomo che la
discopre". - Così scrive uno stimabile nostro contemporaneo
(Rusconi, Prolegom. dell'Ec. P. cap. V). Gli Inglesi e i
Fiamminghi calpestarono non curanti le stratificazioni di carbon fossile
accumulate sotto i loro piedi per tutta la superficie di vaste provincie, anche
alcuni secoli dopo che Marco Polo lo aveva descritto come d'uso antico e
popolare presso i Chinesi. - "Per tutta la provincia del Cataio è una
specie di pietre nere che si cavano dalle montagne come vene
metalliche, ed ardono come legna; queste mantengono il foco meglio della
legna; e se mettete la sera al foco, e fate che ben si apprenda, lo manterranno
tutta la notte; e ne troverete la mattina; in tutto il Cataio non
s'arde che queste pietre (Millione C. XXI)". I Peruviani
ignoravano l'uso del ferro, che i nostri libri sacri fanno più antico di
Noè (Gen. IV. 22); ma viceversa conoscevano l'uso del guano, del quale i
nostri navigatori s'avvidero solamente ai giorni nostri, tre secoli dopo che
avevano preso vano possesso delle isole che ne sono ricoperte.
Miriamo
al fatto più antico e pertinace del genere umano, all'uomo selvaggio,
quale per forza d'inesplicabili destini si mostra ancora in questo secolo nell'Australia,
vagabondo sulle aurifere arene dietro la cieca vicenda delle piogge e della
siccità, senz'arco, senza veste, senza tetto, pago di rannicchiarsi
quà e là sotto una rupe o in un tronco. Il selvaggio è
povero e nudo, soventi famelico, talora canibale, non perchè un nemico
gli contenda le dovizie naturali che da tante migliaja d'anni giaciono intorno
inoccupate; ma perchè non sa farne uso, né cambiarle con altri, ma
perchè non le conosce. Per esso i preziosi legnami che l'ebanista
e il tintore cercano nelle selve del Brasile, sono inutili come le onde del
mare; non prendono valore se non presso nazioni che siano passate per lunga
serie d'atti d'intelligenza.
Come
per gli animali ruminanti non ha la terra altro bene che l'erba dei pascoli e
le aque abbeveranti, come per gli animali feroci altro non ha che le carni dei
più deboli, così per l'uomo non ancora acceso dalla ragione degli
infimi istinti a quella del pensiero, esso non ha se non ciò che
largisce all'orso, onnivoro al pari del selvaggio, ma che almeno non divora il
suo simile. Il selvaggio non è pastore; non sa far vivere seco li
animali per nutrirsi del loro latte, per inseguir sul loro dorso le fiere.
Certe tribù non conoscono metalli; Magellano ne trovò alcuna
ignara tuttavia dell'uso del foco. All'acquisto di tutti i beni che
oltrepassano i limiti del cieco istinto dovevano precedere altretanti atti
della mente.
Prima
che l'uomo ideasse l'uso del foco e quello della lancia, della saetta,
dell'arco, della nave, del remo, della vela, della rete, egli doveva spandere
più assidue fatiche a procacciarsi colla caccia e colla pesca il cibo
quotidiano e difendersi dai nemici. Ognuna di queste invenzioni lo fece men
povero, meno incerto del dimani, meno agitato dalla fame e dalla paura. Or bene,
la capanna, il foco, l'arco, il laccio, la rete, sono doni dell'intelligenza.
L'apprestarli, l'adoperarli, richiede inoltre una fatica; e questa è da
rinovarsi in perpetuo; ma l'idea inventrice, concepita da un uomo, può
valere per tutti e per sempre. L'esempio suo la svela anche al suo nemico; e di
tribù in tribù il beneficio si propaga per le foreste inospite a
conforto di tutto il genere umano.
Ideato
l'arco, ideata la fionda, e la rete, il selvaggio può raggiungere la
fiera senza spossarsi nel corso; gli animali della terra e dell'aqua cadono
nÈ suoi lacci anche quando egli poltrisce nel sonno. È vero che
l'apprestar la scure e l'arco è un lavoro; ma non è un lavoro
perpetuo; non è un lavoro di tutti; e risparmia a tutti un'immensa somma
delle fatiche primitive. In ultimo conto, si ottiene la stessa copia di vitto
con minore sforzo; e a sforzo eguale, se ne ottiene maggior copia. La nuova
ricchezza apporta riposo; ma ricchezza e riposo sono frutti d'intelligenza. Non
era esatto dunque il detto di Genovesi che «le ricchezze d'una nazione siano
sempre in ragione della somma delle fatiche». Esse sono ben più
veramente in ragione composta dell'intelligenza e del lavoro. E ogni
qualvolta un atto del pensiero, abbreviando la fatica, aumenta il frutto, esse
possono crescere in ragione inversa della somma delle fatiche.
Parrebbe
a prima giunta che l'attenzione delle genti barbare dovesse confinarsi alla
ricerca delle cose necessarie alla vita animale. Eppure l'uomo, anche nello
stato più selvaggio, sente prima il bisogno d'ornarsi che non quello di
vestirsi; i viaggiatori lo descrivono nudo, ma screziato a varj colori e
fregiato di penne e collane: animal gloriosum. Fin dai primi rudimenti
delle nazioni, l'intelligenza si rivolge ai bisogni morali, e sopratutto a
quella vanità che con barbari ornamenti prelude al fasto elegante delle
nazioni civili. Anche oggidì, chi s'accinge a far viaggio tra siffatte
tribù, suole a preferenza fornirsi di ciondoli, di campanelli, di
specchi e d'altre simili inezie dai selvaggi pregiate. Ecco adunque fin
d'allora avviato il commercio del superfluo col necessario, il valor delle cose
dipendendo più dalla stima che ne fa la mente che non
dall'utilità che ne riceve la persona. Laonde la misura dei valori,
principio d'ogni cambio e d'ogni commercio, e fondamento di tutta l'economia,
risiede principalmente nella regione del pensiero; e varia con ogni vicenda del
pensiero.
Ecco
adunque con ornamenti e strumenti di guerra e di caccia, e frutti della terra
selvaggia adunarsi un qualche avere, un qualche primo patrimonio della nuda
tribù. Ecco nell'infanzia delle genti atteggiarsi le quattro forze
produttive, intelligenza, natura, lavoro e capitale, in una serie che sempre ed
ogni volta viene aperta dall'intelligenza.
Quando
una nazione è pervenuta ad assicurarsi certa copia costante di cose
bisognevoli, si chiude l'ádito ad un nuovo corso d'atti mentali. Alla vita
ferina e stupida succede certa poetica barbarie, adorna di danze e di canti e
di tradizioni ideali che spesso sopravivono a diletto e meraviglia d'una
posterità pensante. Ma per lo più, quando un qualsiasi sistema di
convivenza sia compiuto la tribù, se la sicurezza dei luoghi la
protegge, e se l'influenza esterna non interviene, lo conserva per abitudine;
gli adulti lo trasmettono per via d'imitazione agli adolescenti;
l'autorità delle tradizioni lo impone; l'orgoglio lo rende caro; pare il
solo modo possibile di vivere: idôla tribus. L'intelletto rimane in
presenza assidua delle idee trovate; poichè le invenzioni in
quell'isolamento sono rari lampi fra l'oscurità dei secoli. Si perpetua
nel selvaggio una povertà contenta e superba. Questa pausa dello
spirito si ripete in tutti i successivi stadj dell'umanità, ogni
qualvolta un circolo d'idee comunque largo pur si chiude. E poichè
apporta un assopimento dell'intelletto, è già perciò solo
un regresso, un decadimento. Nessuna idea va smarrita; ma cessa l'opera
mentale, e si rilasciano nell'inerzia tutte le facultà.
Chiuso
il circolo delle idee, resta chiuso il circolo delle ricchezze.
Si
suol riputare la pastorizia come un secondo corso della vita errante, e quasi
un necessario trapasso dal selvaggio all'agricultore; ma non è un fatto
generale.
In
alcune parti d'America si trovano inizii d'agricultura presso tribù
cacciatrici; ma uso di pastorizia solo nel Perù. Notò Robertson
negli aborigeni americani un abito d'incuria e crudeltà verso li
animali. I Messicani erano pervenuti all'agricultura e ad altre arti molte e ad
un rudimento di scienza, e allevavano solo alcune varietà di gallinacei
e di cani, di cui si cibavano; quindi l'antropofagia durò presso di
loro, ammantata di barbari riti, fino all'arrivo di Cortez. Tracce
d'antropofagia perdurano tuttavia nelle fertili isole della Nuova Zelanda; e se
ne accagionò il difetto di grosse specie animali; ma vestigia ne restano
anche in Australia, ove la fauna primitiva offre animali di una maggior mole.
Nel nostro continente, fin dalle prime ricordanze del genere umano, ci si
affaccia l'idea del pastore. La pecora anzi tutto, la capra, il toro, il cavallo,
il camello; più tardi l'elefante, il renne; non sappiamo quanti secoli
l'uomo spendesse a radunare dalle foreste dell'Asia tutta la famiglia dei
quadrupedi e volatili domestici. Egli ebbe allora sotto mano un alimento certo
ed equabile; non fu costretto a precorrer colla caccia il ritorno della fame
quotidiana; potè tranquillo aspettar nella sua tenda il dimani; mentre
la folla delli animali rendeva ubertosa la terra circostante; e dai semi, dal
caso adunati e sparsi sul suolo, spuntava senz'arte un primo rudimento
d'agricoltura. Non mai, nè prima, nè dopo, accadde che la
ricchezza dell'uomo si addoppiasse in ragione più apertamente inversa
delle fatiche.
Ed
essa diede campo ad altri innumerevoli atti d'intelligenza; poichè, in
compagnia degli animali e per mezzo loro, potendo gli uomini facilmente
trasferirsi di terra in terra, poterono vedere le scoperte fatte presso altri
popoli, e seco propagarle in più lontane regioni. Questi fu beneficio
grande della vita pastorale; e vi parteciparono anche quelle nazioni che
avevano dimore stabili; e che furono invase da pastori. In America le
tribù aborigene non poterono darsi codesto mutuo ammaestramento,
perchè non ebbero li animali adatti alla pastorizia vagante; e
così quelle che cominciarono a incivilirsi, non poterono ajutarsi fra
loro a imparare e pensare, poichè nè tampoco si conobbero.
Avvezzi
per tal maniera nei nostri libri a considerar sempre il pastore come un
antecedente dell'agricultore, noi non sappiamo apprezzare un fatto d'ordine
inverso, che solennemente si ripete ai tempi nostri, Noi non osserviamo
come lo Spagnuolo, varcando l'Atlantico, d'agricultore nelle regioni della
Plata si fece pastore; come l'Olandese placido e sedentario si fece nella Terra
del Capo nomade irrequieto simile al Tartaro; come l'Inglese s'accostumò
a vagar solitario dietro le sue pecore nelle lande dell'Australia. Fu atto
d'intelligenza; poichè il colono potè farsi più agiato
errando dietro innumerevoli bestiami nello spazio immenso, che non crocifiggendo
le sue braccia sovra un angusto campo.
Questi
esempi moderni ricordano un fatto grande e antico; illustrano le origini delle
grandi nazioni europee. I Pelasgi, i Galli, i Britanni, i Teutoni, gli Slavi, i
Lituani esercitarono nell'Europa primitiva la pastorizia insieme ad una vaga
cultura annua, con possesso promiscuo ed incerto. Erano colonie di quelle genti
agricole dell'Irania, il cui stabil vivere in campi e città vediamo
descritto nel Zendavesta; erano tornate a vita pastorale nelle foreste
dell'estremo Occidente, appunto come i moderni Boer in Africa e i Gauchos
in America. E trassero seco in quel barbaro esilio nel mezzo ai selvaggi
aborigeni i frammenti delle religioni e delle lingue, e gli strumenti della
vita agricola e industre dell'Oriente. Vico, venuto prima che l'Asia svelasse
il tesoro di quei venerandi libri, riputò sapienza della colonia italica
ciò che fu eredità d'una madrepatria lontana e nelle perpetue
peregrinazioni obliata. L'economia di quelle nazioni era mista di
civiltà e barbarie come le loro idee.
Quando
l'uomo ebbe trovato in Asia il frumento e l'orzo, come nelle regioni più
orientali il riso, come nel Messico e nel Perù i maìz e la
patata; e quando si fu avvisto come da semi a caso sparsi intorno alla sua
dimora quelle preziose piante si moltiplicassero, egli al lume di quella
semplice idea potè con pochi giorni di cure assicurarsi il vitto
dell'anno. E il lavoro si diminuiva più oltre, a misura che si
moltiplicavano le invenzioni accessorie alla seminagione e alla mietitura, e
sopratutto nel nostro continente quelle, rimase sempre ignote all'uomo
americano, del ferro, del carro, dell'aratro. La ricchezza dei popoli si
aumentò perfino coll'invenzione del riposo delle terre, sancito con
precetto sacro nell'anno sabbatico degli Ebrei. E altri incrementi di frutti
senza incremento di fatica arrecò l'avvicendamento di più
culture, additato già come idea dÈ suoi tempi nei mutatis
foetibus di Virgilio, e divenuto principio eminente dell'agricoltura
moderna. Trovato un principio qualsiasi d'agricoltura, era fatta anche la
scoperta del valore della terra.
Il
selvaggio aveva sostituito alla fatica una forza gratuita, allorchè
aveva imaginato di sospendere al vento su la sua navicella una pelle o una
stuoja o una vela. A poco a poco il navigante notò che i venti
corrispondevano alle stagioni dell'anno ed agli aspetti delle costellazioni; e
che i flussi e riflussi e le correnti dell'alto mare assecondavano il moto dei
venti; potè segnar sulle tavole, al pari delle vie della terra le vie
del mare. E ad ogni nuovo passo della sua mente osservatrice, s'alleggeriva la
fatica e s'agevolava la ricchezza; sempre il principio della nuova sua fortuna
era nel movimento del suo pensiero.
Ogni
qual volta un artefice trovò nuove materie da filare, da tessere, da
fondere, vi fu chi pensò d'andarle cercando presso quei popoli che le
avevano da natura, ma non avevano saputo farsene profitto. Ogni nuova idea
dell'artefice diede una nuova idea al mercatante; generò un nuovo ramo
di commercio. E il beneficio dell'idea nuova arricchì anche la
tribù barbara che dormiva inconscia sull'ignoto tesoro.
Il
possedimento delle nuove arti procacciò largo e tranquillo alimento a
certe famiglie. Esse portarono seco i secreti loro di terra in terra; il loro patrimonio
era la loro idea. Sovente per la straniera origine e la religione diversa,
restarono divise dalla moltitudine; si fecero del sapere loro
un'eredità, un privilegio perpetuo; divennero una casta. Raccolsero
nelle loro peregrinazioni gli sparsi atti d'intelligenza di varie tribù;
li trasmisero ai figli; e per ammaestrarli, strinsero l'arte in regole, in
proverbj, in assiomi, magnificati dall'autorità dei maestri e del
secreto, e involti spesso in superstizioni e magie. Così si costituirono
le prime scienze; e ciò che Gioja più acconciamente chiamò
ammassi scientifici.
Quella
fortuita miscela di fatti e di fantasie, di pratiche cieche e d'audaci
astrazioni, di verità e d'imposture, ad ogni generazione imparata e
insegnata, fusa e rifusa sotto un assiduo lavoro di riflessione si
ordinò; si divise in parti; diede accesso all'analisi; la geometria
potè separarsi dalla medicina, l'astronomia dalla giurisprudenza, la
scienza profana e libera dal ferreo dogma. Ogni ingegno potè scegliere
la sua via; la forza mentale d'un uomo, e d'una classe d'uomini, si
concentrò sopra un solo ordine d'idee; il sapere sempre più si
suddivise; il pensiero penetrò sempre più addentro nelle cose.
L'analisi è nel regno dell'intelligenza ciò che la divisione del
lavoro è nel regno dell'industria.
Costruita
la scienza, l'opera delle scôle si rivolse a fomento universale di produzione.
Le tribù dotte poterono ammaestrare le genti barbare che avevano
soggiogate colle armi o coll'incanto dei riti sacri. Allora l'applicazione di
tutti gli atti d'intelligenza, fino a quel punto compiuti e unificati, si stese
sopra vaste regioni, lungo il Nilo, lungo l'Europa, lungo i fiumi dell'Irania,
dell'India, della China. Ogni sistema d'idee divenne un sistema di lavori e di
commerci, di potenza e di ricchezza.
Il
pensiero di pochi addottrinati era la forza suprema, era il destino, che
reggeva la vita d'innumerevoli generazioni di sudditi e di schiavi. Esso
potè applicarsi agli argini dei fiumi, agli asciugamenti, agli
aquedutti, alle irrigazioni, alle misure della terra, ai ponti, alle vie,
all'educazione degli animali utili, ai rapporti dell'agricoltura e
dell'astronomia. E nel tempo stesso si applicò all'ordine della famiglia
nella poligamia o nella monogamia; e quindi alle eredità ed ai possessi
e a tutta l'economia publica e privata. Ma codesto ordine dei lavori e delle
ricchezze si attemprò alla gelosa conservazione di quel predominio che
le caste dotte avevano preso sulle ignare e servili. Si costituì una
tradizione di recondito sapere in mezzo al diluvio della publica ignoranza. La
casta agricola rimase condannata ad assiduo lavoro e a miserabile e nuda
umiltà. Povera come i selvaggi, e inoltre stupida e vile, serva della
gleba, non ebbe nemmeno la coscienza di poter combattere i suoi oppressori.
Il
superfluo della produzione agricola venne consunto da altre caste, alcune
destinate a servire agli agi e al fasto della classe dominatrice; alcune a
simboleggiare e glorificare le sue idee nelle piramidi, nei templi, nei
colossi, nei sotterranei, nelle altre meraviglie dell'arte egizia, babilonica e
indiana, alcune a conservare e compiere gli asciugamenti, le irrigazioni, i
porti, i ponti e le altre opere riproduttive. Era un immenso capitale che
diveniva utile e stabile patrimonio della nazione sotto una forma
determinata dal suo pensiero.
Si
pongano mutate le idee che stavano nelle menti della casta pensatrice; si ponga
uscita dalla teologia braminica l'eresia del buddismo; si ponga contro il dogma
della divina origine delle caste il dogma dell'eguaglianza degli uomini
nel nulla. Agitati da una nuova influenza gli animi del vulgo inconscio
fin allora del suo diritto e della sua forza, tutto l'ordine di quella
produzione, di quei consumi, di quei cumuli, si trasforma e svanisce.
L'economia
publica d'una nazione non si spiega dunque nè con Montesquieu, né con
Adamo Smith; non si spiega nè con la natura, nè col lavoro,
ma coll'intelligenza, che afferra i fatti della natura; che presiede al
lavoro, al consumo, al cumulo; che li fa essere in uno o in altro modo; che li
fa essere o non essere.
Non
ostante tuttociò, ancora non si può dire che le scoperte le quali
influiscono più direttamente e vastamente sulla produzione universale
del genere umano, fossero di natura scientifica. In tutto l'antico evo e nel medio
e nel moderno, non si possono veramente considerare con Say le scienze "comme
les bases des arts industriels et des richesses". Non fu il più
dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell'Asia il
primo grano di frumento e lo ripose entro la terra col proposito di vederlo
ripullulare; nè quello che saltò pel primo sul dorso al cavallo;
o si trovò d'aver indurato col foco la sottoposta argilla; o d'aver
vetrificato le sabbie del lido colle ceneri dell'erbe marine. L'aratura, il
maggese, la rotazione erano pratiche cieche, eppur da secoli benemerite ai
popoli, quando la tarda chimica venne a spiegar le intime ragioni della loro
utilità. La stessa invenzione della bussola, che ci abilitò a
varcare tutti i mari, era un'osservazione fortuita, sconnessa, solitaria, che
non faceva corpo di scienza. Tutte quelle invenzioni furono atti
d'intelligenza, scaturiti in menti sagacissime dall'immediata osservazione dei
singoli fatti e non da deduzione scientifica.
Il
più solenne atto col quale la scienza invase il regno dell'economia
publica fu la scoperta dell'emisfero occidentale. Il carteggio di Paolo
Toscanelli con Cristoforo Colombo attesta come quella mirabile impresa che
mutò faccia ad ambo i continenti e diede al genere umano un nuovo ordine
d'economia publica e privata, fu dedutta dal principio della forma sferica del
globo, e dalla geometrica certezza che per via dell'occidente si doveva
giungere all'estremo oriente. «E non abbiate meraviglia, scriveva Toscanelli,
che io chiami ponente il paese dove nasce la specieria, la quale
communemente dicesi che nasce in levante; perciocchè coloro che
navigheranno a ponente sempre troveranno detti luoghi in ponente; e quelli che
anderanno per terra a levante sempre troveranno detti luoghi in levante».
Un
altro dono della scienza all'economia del genere umano fu l'invenzione della
macchina a vapore. Da Erone Alessandrino alla prima locomotiva che corse fra
Liverpool e Manchester passarono duemila anni di preparazione scientifica.
Più interamente alla scienza appartiene l'onore d'aver applicato
l'elettricità alla telegrafia, alla tessitura, alla doratura, alla
riduzione delle terre in metalli. Ma passeranno molte generazioni prima che le
applicazioni pratiche di questi pensieri scientifici abbiano una vasta e
profonda influenza sulle ricchezze dei popoli. L'uomo non può ancora
imaginarsi quali trasformazioni la chimica e la legislazione possano operare
sulla superficie della terra.
Intanto
vediamo anche ai nostri giorni grandissime innovazioni esser nate entro i
confini d'una mera sagacità pratica. Tali furono le filature mecaniche
della seta, poi del cotone, della lana, del lino; la costruzione delle rotaje
di pietra, di ferro, la propagazione generale dei pozzi forati, la tubulatura
sotterranea, prima per prosciugar le terre, poi per insinuarvi una ventilazione
fecondatrice, infine l'artificiosa modificazione delle razze animali.
La
scienza oggidì ha intrapreso la gigantesca operazione di descrivere e
ridurre a rigida espressione razionale tutte le pratiche dell'industria,
dell'agricultura, del commercio, della legislazione. La concimatura, la
marnatura, i cementi, la vinificazione, le distillazioni, la metallurgia, le
machine, le tariffe daziarie, le operazioni di credito publico, si vanno
scrutando al lume di tutte le scienze relative. Dai recessi oscuri della
psicologia, dal principio della reciproca sostituzione dei sensi,
scaturì l'arte di educare i sordomuti e i ciechi nati ad essere membri
operosi della società. È ben naturale che le nazioni dell'uno e
dell'altro continente, presso le quali le utili invenzioni divennero un fatto
continuo e quotidiano, fossero quelle che avevano posto maggior cura a svolgere
la publica intelligenza. Ed è naturale che queste siano eziandio le
nazioni presso cui le scienze stanno sotto l'alto influsso di quella filosofia
esperimentale che da Bacone fu detta scientia activa.
Ma
v'è un altro ordine d'idee che mentre sembra condurre li animi lungi
affatto dalla cura delle ricchezze e d'ogni cosa materiale, esercita sovra queste
un imperioso dominio.
I
Romani, avendo trovato l'occidente quasi inculto, lo avevano sparso di colonie
e solcato di magnifiche strade, avevano coperto di vigneti le rive del Rodano e
del Reno. Era il progresso; era l'intelligenza che spandeva un nuovo modo di
vita sovra una semibarbara natura. Dopo due o tre secoli, scese su quelle terre
una nuova notte; le vie giacevano deserte e inselvatichite; l'agricultore
recideva li arbori fruttiferi per sottrarsi all'imposta; gli scrittori
paragonavano le desolate loro città ai cadaveri: semirutarum urbium
cadavera. A compiere la ruina, una milizia barbara, dalle frontiere che non
sapeva difendere, rigurgitava sulle inermi provincie; i Goti fuggivano inanzi
ad Attila, flagello di Dio. Ebbene nel secolo quinto questo decadimento era
visibile e materiale; ma un decadimento invisibile e morale lo aveva precorso.
La futura barbarie della terra romana erasi annunciata non solo col sepolcrale
silenzio dei giureconsulti nella prima metà del secolo terzo; ma col graduale
oscuramento degli ingeni, che si manifesta a qualunque lettore che da Virgilio
e Orazio discenda a Tertulliano e Arnobio. L'ignavia delle menti preludeva
all'ignavia delle braccia. Quando nell'uomo la ragione è vigile e forte,
l'attività sua si spande sopra ogni cosa che lo circonda. Ciò sia
detto a coloro che credono i puri studj letterari e filosofici sterile
divagamento e ostacolo alla publica prosperità.
Interamente
nelle regioni del pensiero si preparano quei destini che danno e tolgono
d'improviso ai popoli e alle classi il possesso della terra e degli altri beni.
Ai fondatori del cristianesimo fu insegnato di non essere solleciti del cibo e
delle vesti, ma di cercare il regno di Dio e la giustizia; poichè ogni
altro bene vi seguirebbe: Et haec omnia adjicientur vobis (Mat. VI, 33).
E così fu. Non erano trascorse molte generazioni, che li eredi di quella
fratellanza di pescatori sedevano signori di vaste eredità. Nell'ottavo
secolo stringevano con Carlomagno il patto che dava a vescovi e abbati la metà
della terra d'occidente coi servi condannati a coltivarla; e fin dalle selve
della Svezia e dell'Islanda si apportò a Roma il denaro del
pontefice.
Nel
secolo settimo un'altra idea teologica, venuta nella fervida fantasia d'un
arabo conduttore di cameli, attraeva un'orda di pastori; e il corso d'un secolo
bastò loro per appropriarsi di tutte le terre, a levante fin oltre il
Gange, a ponente fin oltre il Tago. Perocchè a mente loro tutta la terra
era di Dio; e perciò del suo profeta; e perciò dei fedeli che credevano
in Dio e nel profeta. Ogni anteriore diritto delle famiglie restate infedeli fu
negato e cancellato. L'infedele fu destinato al lavoro; il fedele al godimento.
Fu il contrario del detto: à chacun selon ses œuvres. E
così la proprietà, in massa, va e viene colle idee dei popoli.
Anche qui la ragione del ripartimento e del possesso dei beni non è a
cercarsi nell'economia, ma nelle oscure fonti della teologia. La causa di
quella repentina e mostruosa ricchezza d'un'orda di pastori non era stata
certamente la natura, nè il lavoro, nè il capitale; ma un
fenomeno mentale, un turbine e una tempesta d'idee, che dal pensiero d'un uomo
prorompeva a sconvolgere tutto l'ordine dei beni sovra un'immensa parte della
terra. E ancora in questo secolo decimonono, è forza cercare nelle
nozioni che questo fanatico del secolo settimo aveva del diritto di
proprietà, il principio per cui le belle regioni dell'Asia Minore e
della Siria sono nude e squallide solitudini.
I
Romani contavano li anni dalla fondazione di Roma. Prevalendo sull'imperio il
cristianesimo, prevalse l'uso di datare dalla nascita di Cristo. Avvicinandosi
poi l'anno mille di quest'era, si sparse nei popoli il superstizioso grido: mille
e non più mille; grido che probabilmente si ripeterà quando
sarà prossimo l'anno duemila!
Allora
nei testamenti apparve la fantastica formula: appropinquante mundi termino.
Immense baronie furono legate alla chiesa; furono emancipati molti schiavi,
interi villaggi e città. Gli istorici videro in questo delirio delle
menti il primo impulso al risurgimento delle popolazioni oppresse.
Gli
istorici sono unanimi a vedere altro maggior sovvertimento della ricchezza
feudale nelle crociate. Anzi veramente la prima di siffatte spedizioni, mosse
in nome e autorità del pontefice, fu quella che con una sola battaglia
tolse agli Angli e Sassoni il dominio della Britannia, e divise tra
sessantamila venturieri il godimento d'una superficie di sessantamila miglia.
Ma
veniamo a cose più vicine. Voltaire, il difensore di Calas, di Sirven,
di Lally, di Labarre, di Martin, di Montbally e d'altri innocenti immolati sul
patibolo, rivendica dalla schiavitù della gleba i dodicimila sudditi dei
venti canonici di S. Claude in Franca Contea. Non vince la causa; ma la giusta
e generosa sua parola scuote talmente l'animo del re, che abolisce la
servitù in tutte le terre della corona.
E
l'idea di Voltaire gli sopravive; essa è incarnata nella nazione,
incarnata nel secolo. La notte del 4 agosto 1789, ogni servitù feudale
è abolita. Le menti comprendono la necessità d'un codice civile;
all'ombra del quale, in breve tempo, una vasta parte della terra di Francia
vien divisa tra i figli dei servi della gleba. Mai nell'antica Francia, mai
nelle antiche Gallie, mai sotto i re, nè sotto i druidi, il villano era
stato libero possessore del suo tetto e del suo campo come un cittadino romano.
Questo è ciò che alcuni chiamano con ineffabile sorriso il Voltairismo,
il Voltarianismo!
Sì;
come il volto dell'uomo e il suo braccio e ogni atto suo palesano ciò
che avviene nel suo animo, così nel commercio, nell'industria,
nell'agricultura, nell'aspetto delle città e più in quello delle
campagne, dei ponti, delle strade, nella forma e nella cifra delle publiche
gravezze, nel diseguale incremento delle popolazioni, nei registri delle
nascite e delle morti, delle nascite legittime e delle illegittime, in tutta la statistica, in tutta
l'economia, traluce il pensiero dell'intera nazione, il pensiero dominante,
impresso in lei da pochi possenti intelletti, che sono li arbitri del suo
destino, mossi eglino pure da altre più sublimi necessità. Nulla
accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle
idee.
E
anche in questo momento, noi vediamo in Italia un'idea trionfante, che colla mano
d'uomini che lungamente si vantarono d'essere sprezzatori delle idee, caccia da
vasti e antichi possedimenti le corporazioni ecclesiastiche, e chiama a novella
sorte le moltitudini che per tante generazioni le fecondarono con abjette e
dispregiate fatiche.
L'uomo
interiore possiede due forze: intelligenza e volontà. La
volontà è principio di ricchezza quanto l'intelligenza.
L'uomo
segue dapprima gli istinti, e sopra tutto quelli in lui potentissimi, della
socievolezza e dell'imitazione. Vi aggiunge quindi l'esperienza sua propria; e
può, coll'ajuto della società, svolgere in grado sempre maggiore
la riflessione; sicchè le sue passioni istintive, senza mai veramente
mutar natura, infine assumono forma di volizioni razionali o deliberate. Quegli
impulsi che determinano la volontà all'acquisto dei beni, si chiamano interessi.
L'uomo
comincia a voler direttamente i beni; poi impara a voler quelle cose per cui
mezzo si acquistano. Egli si forma dunque interessi immediati e mediati.
Ogni
uomo avrebbe veramente interesse che nel luogo ov'egli vive, e in tutta la
terra, fosse massima la copia dei beni; affinchè, compiuti gli scambj
tutti quanti, maggiore potesse essere la quota che ne toccasse in particolare a
lui.
Ma
pur troppo egli può anche determinarsi a cercare un aumento della
proporzione sua propria nel minoramento o nello spèrpero delle porzioni
altrui e della massa generale. Tale è l'interesse che move ogni eslege
al pari d'ogni privilegiato. Pertanto quella stessa volontà che tende all'acquisto
dei beni, può divenire un impedimento alla tranquilla e ordinata loro
produzione.
La
natura offre invano i suoi beni, quando l'umana volontà, sotto forma
d'un parziale e prepotente interesse, vi appone un divieto. Affinchè
alcuni privilegiati potessero vendere a prezzo d'oro nelle colonie le
ferramenta di Catalogna e Biscaja, la Spagna aveva vietato che si aprissero in
America miniere di ferro.
Non
vi andava solamente perduto il lucro delle ferriere; ma tutta la produzione
agraria e tutta l'industria d'immense regioni rimanevano prive dei necessarj
strumenti, o dovevano pagarli a prezzo smisurato. Inapprezzabili tesori
dovettero rimaner sepolti per secoli in un suolo troppo avaramente tocco dal
ferro. Il favore della natura fu egualmente inutile all'uomo americano, prima
della conquista, per difetto d'intelligenza, come dopo di quella per
impotenza della sua volontà contro una volontà straniera.
È questo conflitto delle volontà, è questo divergimento
degli interessi, che rende dannoso e malefico qualunque dominio straniero. Il
governo d'una nazione comunque siasi civile assume sempre nÈ suoi
lontani dominj un aspetto di barbarie; egli è già più o
meno barbaro nel fondo delle sue provincie.
Fu
già da molti osservato che quando gli statuti delle nostre città
transpadane riconobbero in qualunque possidente il diritto di condurre le aque
irrigatrici per le terre dÈ suoi vicini, attribuirono alla
volontà dell'uomo intraprendente un predominio sul nudo diritto di
proprietà e sul volere dell'uomo inoperoso. Senza ciò, il tesoro
d'aque estive che le alpi versano nelle nostre pianure, sarebbe rimaso
perpetuamente inutile.
Se
nella Terra del Capo si potè propagandare la cultura della vite, egli
non fu soltanto perchè il suolo e il clima vi fossero naturalmente
propizj. Fu perché quell'estremità dell'Africa pervenne in signoria
degli Olandesi e poi degli Inglesi: due popoli, che non potendo aver vigne in
casa propria, furono contenti di poterne avere in qualsiasi altra parte dei
loro dominj; e a tal uopo chiamarono quivi una colonia di vignajuoli francesi.
Ma se quella contrada fosse caduta in potere della Spagna vinifera, questa non
avrebbe mancato di proibire quivi pure la piantagione delle viti.
I
mari che cingono l'America per ogni parte, e conducono con tragitto rettilineo
a tutte le altre parti del mondo, rimasero inutili e innavigabili agli abitanti
delle colonie spagnuole. Quel governo preoccupato da fallaci interessi, si era
prefisso d'inviarvi d'Europa sue soli convogli annuali, confinando il commercio
d'un mondo in un termine invariabile di quaranta giorni all'anno. Col trattato
dell'Assiento aveva poi concesso al commercio inglese di spedir
colà un'unica nave per anno; non avvedendosi che il commercio di quella
sola nave avrebbe coperto il contrabando di mille. Ecco l'umana volontà,
spronata da un cieco interesse, accingersi a chiuder l'immenso oceano che
abbraccia tutta la terra.
Questa
azione repressiva, nemica del commercio e di tutti i vantaggi che il commercio
apporta, si vide spinta a non più visto eccesso nel sistema
continentale, che sarebbe stato un immenso danno al genere umano e un esempio
eternamente pericoloso, se non fosse stato un'immensa illusione.
Siffatti
dannosi arbitrj non hanno ancora ceduto ai riclami della ragione e della
scienza. Parecchie legislazioni interdicono più o meno anche
oggidì alle colonie il diretto commercio coi varii popoli. Quasi tutte
le nazioni riservano più o meno ai proprii naviganti il costeggio dei
lidi e delle isole e la navigazione dei fiumi. Abbiamo veduto ai nostri giorni
resa quasi impossibile dalle dogane di Modena e di Parma la navigazione del Po.
Abbiamo veduto impedirsi, or dall'Austria, or dalla Russia, la navigazione del
Danubio.
Li
stati maritimi sono gelosi di questi rami di navigazione, non solamente per
falso concetto d'economia, o per timore d'infezione politica, ma perchè
li riservano all'allevamento dÈ marinaj per le navi da guerra. In ogni
modo, il libero uso delle aque navigabili viene ad essere angustiato da veri o
falsi interessi. Nessuno potrebbe fare un calcolo remotamente approssimativo di
tutti i beni che la volontà dell'uomo preclude all'uomo; e che per un
mero mutamento della sua volontà verrebbero quasi tratti dal nulla.
Più
Evidente è ancora l'influenza degli interessi sull'intensità ed
efficacia del lavoro. Annunciò una spendida verità il
poeta quando disse che Giove toglie la metà dell'anima all'uomo, in quel
giorno che lo fa servo. È un fatto che in mano agli schiavi divennero
sterili quelle terre che in altri tempi avevano alimentato copiosamente una
popolazione libera. L'antica Italia aveva in pregio il lavoro dei campi; essa
era mirabilmente coltivata, e mirabilmente popolata, era la terra del Dio delle
sementi:
Salve,
magna parens frugum, Saturnia tellus
Magna
virûm...
i
suoi capitani, i suoi senatori, non vergognavano di mostrarsi agli stranieri
colla mano sull'aratro. Nel medio evo, altri guerrieri, che avevano portato
seco da barbare origini il disprezzo dell'agricoltura, lasciarono per molti
secoli le terre nello squalore, abbandonandole ai servi della gleba; il nome
d'agricultore, di villano, in Italia significò brutalità,
il Francia deformità, in Inghilterra sceleraggine. Ma infine nuovi
padroni, usciti con altro animo dalle città industriali e mercantili,
liberarono col ferro i servi della gleba, come a Milano, o li redensero
coll'oro, come a Bologna; vi suscitarono l'arte agraria soi capitali,
coll'opera, cogli scritti; l'Italia ritornò fertile e popolosa.
Oggidì gli Inglesi, nel possesso d'una terra suntuosamente e dottamente
coltivata, ripongono quella stessa vanità che i patriarchi celti e i
baroni normanni riponevano a vederla sgombra d'uomini, e solo sparsa d'animali
selvaggi. Nessuno rivocherà in dubio che l'emancipazione dei servi della
gleba in Russia non sia per attivare prodigiosamente il lavoro, e accrescere a
più doppii la produzione delle terre e dei mestieri.
Tutto
ciò che può dirsi in favore della coltivazione per livello o per
mezzadria, principalmente per quanto concerne la vite, il gelso, l'olivo, il
cedro e tutte quelle che si potrebbero chiamare culture conservanti, si
riferisce alla volontà. Lo schiavo o il giornaliero, a forze eguali, a
eguale intendimento, non apportano mai la stessa vigilanza, e assiduità
nella cura delle piantagioni, dei terrazzi, dei sostegni. Sulle pendici della
Liguria e della Valtellina, sulle riviere dei laghi cisalpini, vediamo come
l'agricultore, quando impetuose piogge gli rapiscono le poche glebe sospese
sull'erta, vi arreca a spalle la terra; rifà da capo il povero fondo. Lo
straniero ammira l'arte; ma il principio di quegli sforzi e di quelli
avvedimenti è tutto in una artificiale volontà. Poichè se
si muta il titolo del possesso e dell'affitto, anche non mutandosi
l'agricultore, tutto quell'edificio sparisce, sparisce la popolazione; un
latifondo in breve diviene pascolo e selva. Quella forma di vegetazione non ha
radice nella terra, ma nell'uomo; non nei calcoli dell'intendimento, ma nella
forza della volontà.
Il
lavoro del mezzadro, vincolato a certi accordi col padrone, e a certe forme
consuete e quasi ereditarie, ha un limite che non oltrepassa. Ma vien
facilmente superato dall'agricultore suburbano; il quale, per la vicinanza del
mercato e per l'intera libertà del suo contratto a denaro, opera come un
vero industriale.
L'aumento
del reddito, che si avverò in Italia e in Inghilterra nei poderi dati a
lungo affitto, si deve in parte bensì all'ampio capitale, e in parte si
deve a una intelligenza guidata da tutti i lumi del secolo; ma nè quel
capitale né quell'industria si presenterebbero su quel terreno, se una data
forma di contratto non assicurasse all'agricultore per un certo tempo il frutto
d'opere che non possono divenir utili se non dopo un corso d'anni. Il lungo
affitto e il rimborso dei miglioramenti costituiscono in sostanza un contratto
d'assicurazione.
Tutte
quante le assicurazioni sui naufragii, sulle grandini, sugli incendii, sulle
infezioni, sulle morti, sono impulsi e conforti alle incerte e timorose
volontà. E nei futuri trattati d'economia si dovrebbero collocare sotto
questa rubrica. Poiché certamente non derivano dalla natura, nè dal
lavoro; e le assicurazioni mutue, e tutte quelle che risultano dalle condizioni
dell'affitto, non richiedono, nemmeno come strumento, il capitale.
Anche
nel commercio e nella navigazione, da un operatore cointeressato si aspetta un
servigio più sagace e fedele. Negli stabilimenti dei fratelli Moravi, e
dovunque il frutto del lavoro viene assorbito da una communità,
sicchè l'individuo non possa sperare dalla propria diligenza e perizia
un proporzionato vantaggio, si osservò nei lavoratori una certa
indolenza, non scevra d'invidia contro chi mostri maggiore intendimento o zelo
soverchiante. Uno dei più tristi proverbii nostri deplora come fatto a
nessuno e perduto, ogni servizio che si presti al commune. Questo è lo
scoglio a cui ruppero quasi tutte le imprese dei socialisti. I fondatori
avevano compreso in tutta la sua forza il principio del lavori, e in qualche
parte il principio dell'intelligenza; ma non apprezzavano l'efficacia del
lavoro libero, ch'è quanto dire della libera volontà. I
riformatori economici, al pari dei politici, trascurarono troppo la
libertà. Essi non furono paghi d'affacciare all'uomo l'idea;
perchè non erano persuasi che, data l'idea, nell'essere umano si svolge
spontanea la tendenza all'azione, come nella puerpera, dato il parto, si svolge
spontaneo l'amore materno. Non avevano abbracciato nella loro astrazione tutte
le leggi dell'umana natura.
Se
si mira sotto l'aspetto dell'economia la publica difesa, si vede che il soldato
volontario, a pari numero e pari armamento, e perciò a pari spesa,
presta un servigio più efficace che l'uomo costretto, il quale è
privo sovente d'istinto belligero e sostenuto solamente dalle stringhe della
disciplina. Laonde il più economico sistema di difesa, se non per un
governo, certo per una nazione, sarebbe quello che accoppiava il principio
della milizia volontaria dei Romani col principio della milizia universale degli
Svizzeri, tenesse ammaestrati, ordinati, armati e moralmente esaltati gli abili
tutti quanti, serbandosi ad ogni caso di guerra a fare un appello alla
volontà; e l'esperienza dimostra che le volontà rispondono con
una vivacità proporzionata al pericolo. Codesto elaterio delle
volontà non si può fomentare se non con modi attinti nella sfera
dell'affetto. E sarebbe una nuova applicazione della psicologia all'economia
publica; poichè il più grave quesito economico è
oggidì quello d'istituire una publica difesa che non sia d'altra parte
una publica ruina.
Nei
premi e negli onori che i popoli cominciano a tributare a quelli che apportano
alle publiche esposizioni strumenti, manifatture, frutti, animali, e nel valore
solenne attribuito alle invenzioni e alle altre opere dell'ingegno, v'è
una forza che aggiunge efficacia al lavoro e all'intelligenza, perchè
aggiunge stimolo alla volontà.
Consessi
legislativi, per legge o per abuso eletti nelle classi opulente, tendono a
riversare le imposte sull'operosa mediocrità; tassano ogni atto di
commercio, ogni trapasso di beni, perfino la frequenza delle lettere,
ch'è pure un lavoro, e un genere fecondo d'utili combinazioni e
provocatore d'attività. Accrescendo li attriti che stancano l'industria,
rallentano la publica prosperità, in quanto essa scaturisce dalla
volontà.
Grande
incentivo all'industria è la concorrenza, fonte di prodigiosi sforzi di
sagacia, di solerzia, di risparmio; fonte di miseria a chi nella prova
succumbe, ma pur sempre cimento d'emule volontà. Una nazione la evita e
la respinge; si difende dal commercio dei grani esteri e delle estere merci
come da una sventura. Un altro, popolo o una nuova generazione del popolo
stesso, non teme la libertà del commercio e sfida le nazioni rivali.
Solamente sotto il flagello d'una spaventevole carestia, che tolse
all'Inghilterra un quarto della sua popolazione, fu vinta colà la causa
del libero commercio. La perseveranza dei novatori trionfò della
pertinacia dei privilegiati, perchè questa era soprafatta dalla mole dei
publici mali. Dopo il 1848, tutto l'ordine della produzione in Irlanda fu
intervertito con nuovi patti di lavoro e di locazione. Il male prima, il bene
poi, non furono tanto opera della natura, quanto delle leggi, dei contratti; in
una parola, della volontà.
Per
lo stesso modo, la volontà signoreggia sulla accumulazione dei capitali,
ora sospingendo colle gare del lusso a disperderli, ora colle leggi suntuarie a
risparmiarli. La sicurezza li alletta a giro veloce; l'incertezza degli eventi,
le leggi improvide, l'arbitrio dei governanti, le gare delle fazioni tendono a
farli stagnanti e infruttuosi. Dipende affatto dagli ondeggiamenti della
volontà, se i capitali debbano investirsi riproduttivamente nelle
ferrovie, nei canali, nei porti, negli istituti d'insegnamento, ovvero se si
debbano consegnare alle manimorte, propagatrici di pigrizia e di superstizione.
Nelle
guerre ambiziose e aggressive, nella sfrenata emulazione degli armamenti, delle
flotte, delle fortezze, li eccessi a cui s'abbandona un governo divengono una
necessità per li altri tutti. Sotto forma del debito publico, s'ingoja
la rendita netta delle terre; s'ingoja tutto ciò che l'agricultore deve
ai favori della natura e al cumulo dei capitali; la moltitudine dei possidenti
si lascia stupidamente ridurre alla condizione di meri affittuarj; si
trasferisce in fatto vero nel governo ogni proprietà, come nelle
conquiste degli Arabi e dei Normanni.
Chi
fa il proprio volere, chi si determina giusta i motivi suoi proprj e le proprie
idee, si dice libero; la libertà è la volontà nel suo
razionale e pieno esercizio; la libertà è la volontà. Or
bene, tutte le istorie ci attestano come la libertà fu cagione che
immense ricchezze si potessero accumulare sopra paludose o aride o alpestri
liste di terra, in Fenicia, in Liguria, nella Venezia, nell'Olanda, nella
Svizzera. Il primato sui mari appartiene oggidì ad ambo i rami della
stirpe anglobritanna, ch'è quella fra tutte le grandi nazioni che
serbò più fedele e costante il culto alla libertà. Le sue
ricchezze sono maggiori di quelle degli altri popoli per forza di
libertà, cioè per causa che risiede nella sfera della
volontà. Epperò, per nostro conforto, sono accessibili a tutte le
nazioni.
Se
l'intelligenza promove la publica ricchezza, è d'uopo che la
volontà la quale aspira alla ricchezza favorisca lo sviluppo
dell'intelligenza. I popoli civili possono farlo, non solo presso sè
medesimi, e in coloro che contribuiscono ai medesimi lavori, ma benanche presso
gli uomini di lontani paesi, che secoloro commerciano, ovvero producono o
raccolgono cose che per qualunque indiretta via possono pervenire a loro. Ogni
uomo ha interesse alla cultura di tutto il genere umano.
Perlochè
tutti coloro che attendono a qualsiasi ramo di progresso anche puramente
scientifico, concorrono alla cultura universale, all'universale aumento delle
ricchezze. E quanti, per ignobili loro interessi o pregiudizj, interpongono
ritardi alla pronta divulgazione della cultura, sia nella propria nazione, sia
nelle altre, fanno impedimento allo sviluppo di quella ricchezza a cui per la
via dei cambi e del commercio partecipa tutto il genere umano.
Tutti
i governi che aspirano ad imporre l'autorità loro ad altre nazioni,
cadono in fatali interessi che li traggono ad assopire le intelligenze per
poter più facilmente dominare le volontà. Perlochè ogni
stato che tenta acquistare siffatte ingiuste influenze, o che con trattati le
riconosce e le avvalora in altri stati, eleva un ostacolo alla libera
intelligenza ed alla produzione. E chi promuove la libertà della propria
nazione e di qualunque altra parte del genere umano, fa opera indirettamente
vantaggiosa a sè stesso e a' suoi. Giovano anche alla propria floridezza
quegli stati che proteggono intorno a loro l'istituzione di governi civili ed
illuminati, e colle loro legazioni e coi loro amichevoli officj propagano le
mutue relazioni delle società studiose, le grandi esplorazioni delle
terre e dei mari, il reciproco commercio dei libri, i vantaggi delle
invenzioni, della proprietà letteraria e delle altre opere mentali; che
aprono ospitalmente le loro scôle alle nazioni straniere, che mandano per
converso la loro gioventù ad acquistare negli istituti esteri quei lumi
che ad un dato tempo non hanno mai, per tutta la sfera scientifica, lo stesso
grado di splendore presso tutte le nazioni.
Raccogliendo,
diremo che ogni nuovo trattato d'economia publica, dovrebbe formalmente
classificare tra quelle fonti della ricchezza delle nazioni l'intelligenza e la
volontà; l'intelligenza, che scopre i beni, che inventa i metodi e gli
strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso: la
volontà, che determina l'azione e affronta gli ostacoli.
Se
i legislatori non possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i
beni che la natura ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non
possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro,
se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale,
certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e
della libera volontà.
Aggiunga
ogni scrittore a queste nostre una nuova pagina, s'inoltri d'un passo
nell'analisi da noi tentata; e una meno imperfetta sintesi della publica
economia potrà risponder meglio al voto delle nazioni.
CARLO CATTANEO
[da Notizie naturali e civili su
la Lombardia, Tip. G. Bernardoni, Milano 1844, che si pubblicò in
occasione del VI Congresso degli scienziati italiani tenuto a Milano nel 1844.]
AVVISO AL
LETTORE
Gli studiosi delle scienze naturali, convenuti in
Pisa nell'anno 1839, èbbero in dono una descrizione istòrica e
artìsttca di quella città e de' suoi contorni, che per avventura
trovàvasi publicata in quegli anni da un incisore, a corredo d'una sua
raccolta di vedute.
Pel Congresso scientìfico di Torino parve
il caso d'apprestare una sìmile operetta; e forse per darle pure alcun
colore d'opportunità, vi s'introdusse una notarella di fòssili e
un catàlogo di piante, con alcune righe su l'agricultura.
Il ripetuto esempio del volume donato prescrisse
quasi un dovere alle città che dovèvano accògliere le
successive adunanze. – A Firenze, di più, si pose inanzi al volume una
descrizione naturale della valle dell'Arno: nel che si ebbe forse
l'ànimo di far cosa particolarmente intesa a quell'òrdine di
persone che volèvasi onorare. – I Padovani, con più
cortese e savio consiglio, descrìssero agli òspiti le terre e le
aque di tutta la loro provincia, e i vari aspetti che l'agricultura vi prende;
e dièdero loro in appendice la flora dei Colli Euganei. – Lucca
non si curò per verità di piacere agli amatori della
botànica e della geologìa, ma pur descrisse le diverse condizioni
del suo territorio alla marina, alla pianura e al monte.
Se nelle sedi dei futuri Congressi prevalesse
sempre l'esempio di Pàdova a quello di Pisa e di Torino, altri potrebbe
forse pensare che il continuato circùito di queste adunanze potesse
d'anno in anno approssimarci a possedere infine un'accurata descrizione di
tutta l'Italia. – Ma l'Agro Padovano non è vasto; il Lucchese, meno
ancora. il Padovano è forse la 150a parte della terra
d'Italia; il Lucchese, la 300a. E se d'anno in anno
l'ospitalità municipale non ci consente uno spazio di terra alquanto
maggiore, codesta speranza della finale descrizione d'Italia discenderà
in fedecommesso ai figli dei nostri figli.
Inoltre queste divisioni di paese così
anguste e minute invòlgono troppe
simiglianze e infinite ripetizioni. E poche sono poi le provincie che nel loro
giro comprèndano le precipue fonti delle loro condizioni naturali e
civili, in modo che per darne ragionata contezza non si dèbbano
invàdere ad ogni momento i confini delle terre circostanti.
Queste considerazioni destàrono in alcuni
studiosi di Milano il pensiero d'inoltrarsi d'un altro passo, come a Firenze si
fece in paragone di Pisa, e a Padova in paragone di Firenze. In luogo di fare
ogni anno qua e là per l'Italia un volume su la centèsima o la
trecentèsima partìcola del bel paese, parve convenisse
prèndere risolutamente un'intera regione, purchè potesse considerarsi
sotto una certa unità di concetto, la Venezia, a modo d'esempio, o la
Toscana – È il principio da cui mosse il nostro lavoro.
È questa adunque una raccolta di notizie
su quella regione d'Italia, naturalmente e civilmente dalle altre distinta, a
cui per singolari circostanze rimase circoscritto il nome già sì
vasto e variàbile di Lombardìa. E intendemmo adombrarvi, quanto
per noi si poteva, l'aspetto geològico, il clima, le aque, la flora, la
fàuna, lo stato della popolazione e l'ordinamento sanitario, i diversi
òrdini agrarj, il commercio, l'industria, il linguaggio, le
orìgini prime e la successiva cultura. Ciascuna parte dell'òpera
venne conferita da persone specialmente dèdite a quel gènere di
studj. Aggiungeremo inoltre che il nostro libro, qualunque egli sia, non
è fatto coi libri; le notizie geològiche hanno per corredo una
speciale collezione di rocce e di fòssili; le notizie sul clima, e
più ancora quelle sulle aque, compèndiano alcune migliaja d'osservazioni,
continuate per lunga serie d'anni; la nostra flora è tratta dagli erbarj
raccolti di nostra mano dalle paludi del Mincio alla cima delle Alpi
Rètiche; la nostra fàuna annòvera gli animali che ad uno
ad uno possediamo.
Ma siccome codesti studj non èrano
certamente intrapresi nel mero propòsito d'un libro d'occasione,
così non potèvano facilmente accozzarsi in un compiuto e
armònico edificio; ma dovèvano riescire piuttosto come pietre,
che ognuno aveva scavate e dirozzate, e che ora stanno qui deposte l'una
accanto dell'altra, materia prima d'una più vasta costruzione; intorno
alla quale diremo quali sìano i nostri pensieri.
Noi vorremmo che, dietro l'esempio nostro, e con
quei miglioramenti che il fatto venisse additando, in ogni regione d'Italia
s'intraprendesse una sìmile raccolta di Notizie, le
quali incominciate nella pròssima occasione o nella remota aspettazione
d'un Congresso scientifico, venìssero poi proseguite per Supplementi
annui anche di minor mole, in modo che, avviato una volta il lavoro nelle
sìngole parti d'Italia, ogni anno dovesse arrecarci da ciascuna di esse
altretanti manìpoli di studiose fatiche. Le lacune del primo lavoro,
anzichè difetto, sarèbbero quasi addentellato che invita
all'òpera successiva. – Non è un libro, nè
più d'un libro che noi vogliamo aggiùngere alla congerie
scientìfica; – è un'istituzione che vorremmo fondare.
I fini suoi sarèbbero grandi e molti.
Recare alla scienza una perenne dote d'accurati e sicuri fatti – recare
alle sìngole patrie municipali e alla patria commune quell'ìntima
e verace cognizione di sè medèsime, per la quale il
pùblico bene si pensa e si òpera entro i confini del
possìbile e dell'opportuno, e senza mistura di mali; –
aggiùngere a molti un impulso perpetuo al lavoro, coll'allettamento
d'una vasta publicità data al più minuto studio locale –
indurre gli studiosi a rivòlgere le loro fatiche a un oggetto
determinato e arrivàbile, non logorando l'ingegno in vasti e vani sforzi
– risparmiare la ripetizione delle stesse fatiche in diversi luoghi, di
modo che il giòvane, bramoso di farsi mèrito, sappia sempre dove
è un campo da coltivare e una lacuna da rièmpiere –
infòndere agli studj nazionali quell'unità e quell'efficacia che
non deriva da vìncoli importuni o sospetti, ma surge spontanea dalla
natura stessa delle cose di fatto, le quali, essendo parti d'uno stesso
òrdine universale, rièscono spontaneamente coordinate e concordi.
Non è assurdo il pensare che in quel modo
in cui l'istituzione dei Congressi scientìfici venne dalle altre nazioni
alla nostra, così questa istituzione delle Raccolte
perpetue possa da noi propagarsi alle altre nazioni. Se così fosse, e
se in ogni distinta regione della Germania, della Francia, della Scandinavia,
uno stuolo di studiosi intraprendesse una collezione ordinata sopra un
medèsimo disegno, e ognuna di queste nazioni offrisse annualmente il
frutto di venti o trenta raccolte, ciascuna delle quali fosse fatta da venti o
trenta speciali persone, è impossibile a dirsi qual tesoro di studj si
potrebbe in breve tempo accumulare. Mentre nella più parte delle
società scientìfiche gli studiosi vanno a riposare ed oziare,
agli onori di questa vasta ma lìbera collaborazione avrebbe parte solo
chi fosse operoso, e a misura della sua operosità. Migliaja di studiosi,
tranquillamente e senza alcun lontano o malagèvole accordo,
potrèbbero dar mano a un edificio, la cui base sarebbe l'Europa.
Questo pensiero, che nella sua vastità
è pur tanto sèmplice e fàcile, dovrebbe raccomandarsi per
sè medèsimo di promotori e fondatori di codesta bella
consuetùdine delle annue adunanze; i quali non potranno dissimulare a
sè medèsimi che l'opinione publica non se ne mostra peranco
sodisfatta; poichè vede grande e frondoso l'àrbore, e non conosce
i frutti; epperò giustamente sospetta che la nuova istituzione non apra
tanto un campo alle fatiche quanto un teatro alla inoperosa vanità.
Per parte nostra, non ci faremo inanzi a
prèndere il posto dovuto ai migliori; ma procureremo di giustificare
nella mente dei nostri concittadini la nuova istituzione, col provar loro che può
èssere veramente occasione di studj ùtili e laboriosi. Dobbiamo
aggiùngere che il nostro pensiero venne alquanto tardi; che trovò
inaspettate contrarietà, che la cosa essendo nuova e indeterminata anche
nella mente di quelli che pur volèvano condurla a qualche effetto,
doveva produrre molte esitanze; che ci fu necessario pur troppo d'accertar
prima se l'opinione pùblica avrebbe assecondato i nostri sforzi,
poichè non era giusto che alla fatica si aggiungesse anche altro
più materiale nostro sacrificio; e per tutte queste cose, solo alla
metà dello scorso maggio fummo in grado di por mano alla stampa.
Nel coordinare i manoscritti si mirò
principalmente a rimòvere tutte le ripetizioni della medèsima
cosa sotto diversi capitoli, collocàndola a preferenza in quello a cui
la cosa più specialmente apparteneva. Ogni memoria venne ridutta alla
più semplice espressione; e in ciò, i collaboratori
mostràrono la più generosa fiducia e compiacenza all'amico, al
quale avevano commesso questo delicato incàrico, persuasi che
l'òpera dovesse riescire, per quanto si poteva, una concisa e disadorna
collezione di fatti.
Paghi del mèrito d'aver dato l'esempio
d'un'impresa che speriamo non finirà con noi, se i nostri successori con
più bell'òrdine e più profondi studj oscureranno
questo dèbole e frettoloso nostro lavoro, noi ci rallegreremo sempre nel
vedere tanto più feconda la semente che avremo sparsa.
INTRODUZIONE
I.
Le Alpi Rètiche, che divìdono la
nostra valle adriàtica da quelle dell'Inn e del Reno versanti a
più lontani mari, sono un ammasso di rocce serpentinose e
granìtiche, le quali emèrsero squarciando e sollevando con
iterate eruzioni il fondo del primiero ocèano, in quelle remote
età geològiche, che sèmbrano ancora un sogno
dell'imaginazìone. – Fu quello il primo rudimento della terra d'Italia.
Gli antichi sedimenti del mare, parte
s'inabissàrono e confùsero in quelle voràgini roventi,
aggiungendo mole a mole; parte riarsi e trasformati, ma pure serbando traccia
delle native stratificazioni, copèrsero i fianchi e i dorsi delle
emersioni consolidate. Il tòrbido mare accumulò successivamente
altri depòsiti, che si collocàvano in giacitura orizontale presso
ai sedimenti anteriori già sollevati e contorti; e mano mano che la
vasta òpera delle emersioni si andava inoltrando e dilatando, sollevati
e raddrizzati anch'essi, si atteggiàvano in tutte le discordi
inclinazioni, che ci attèstano la successiva serie di quei rivolgimenti.
Nelle masse così deposte dominava, secondo la successiva natura delle aque,
ora la sustanza silicea, ora l'argillosa cementata di poca calce, ora la
calcare.
Così fu costrutta la trìplice
regione dei nostri monti; nella quale i serpentini verdastri e negreggianti
compòsero insieme ai graniti silicei la gran catena delle Alpi
Rètiche; le roccie trasformate e le arenarie rosse, rivestite al piede
dalle ardesie, formàrono, a guisa d'alto antemurale, la catena delle
Prealpi Orobie; nelle cui propàgini più meridionali i sedimenti
calcari e dolòmici costituìrono un altro òrdine di monti,
d'altezza poco meno che alpina.
A perturbarne e rialzarne le estreme falde,
sopravenne in era meno lontana una seconda serie di moti sotterranei,
sìmili a quelli che avèvano sollevato le interne regioni. E
prodùssero quella interrotta zona d'emersioni pirossèniche e
porfìriche che, come più flùide e meno silicee,
sospìnsero a minore altezza le masse delle stratificazioni, fra le quali
si apèrsero il varco.
Nel corso dei sècoli le aque
travòlsero per il declivio dei monti alle pròssime parti del
piano i frammenti delle varie rocce. A poco a poco si colmò il golfo che
aveva deposto lo strato cretaceo, e che in màrgine a quello accumulava i
varj conglomerati e le argille e marne subapennine. Le aque si
ritràssero dall'altopiano; e lungo il cammino dell'ùltimo loro
soggiorno, il tardo osservatore raccolse interi schèletri di balene e
delfini, e gli ossami degli elefanti che vagavano per le circostanti maremme.
Le estreme convulsioni della volta terrestre
sempre più sòlida e potente, nel dar leva alle grandi moli dei
monti calcari, prodùssero le profonde squarciature dei laghi;
torturàrono ed erèssero le stratificazioni degli ìnfimi
colli; e qua e là sollevàrono a miràbili altezze i
frammenti erràtici, sparsi sulle spalle dei minori monti.
Per òpera d'altre emersioni
surgèvano intanto a levante, a ponente, a mezzodì le terre della
Venezia, della Liguria, del Piemonte. Il sublime arco delle Alpi era proteso
fra i due golfi, che l'Apennino aveva poscia divisi, sollevando in più
tarda età le sue pendici ingombre dai sedimenti cretacei. Allora le onde
del Mediterraneo non percòssero più le falde delle nostre
montagne; e la frapposta regione fu un'ampia valle, aperta all'oriente, e cinta
di continui gioghi nelle altre parti.
Così èrano preparati i lontani
destini del pòpolo che doveva abitarla. – Le gèlide Alpi la
dividèvano dalle terre boreali e occidentali; l'ùmile Apennino
ligùstico appena la dipartiva dalle riviere del Mediterraneo; il corso
delle aque confluenti in poderoso fiume la collegava all'Adriàtico; e
ambo i mari la congiungèvano alla bella penìsola che
tèngono in grembo. – Anche la nostra patria era Italia.
II.
Ma nel seno stesso della valle cisalpina, quella
parte che noi descriviamo sortiva forme sue proprie, per le quali si distinse e
dalla parte subapennina, e dalla Venezia, e dal Piemonte. La catena delle Alpi,
partendo dal M. Stelvio, scorre a occidente fino al Gottardo; e quivi con
sùbito àngolo si volge poco meno che a mezzodì fino al M.
Rosa. Con altro simil àngolo si dirama dallo Stelvio un'altra catena,
che si spinge ben avanti nella pianura, separando dalla valle dell'Adige i
nostri fiumi tributarj del Po. Laonde, se a ponente giganteggia il M. Rosa, a
levante sùrgono a pròssima altezza il Cristallo e l'Adamo. Questa
Catena Camonia non è alpe: non circonda l'Italia: solo divide
l'interno e domèstico dominio dei due primieri suoi fiumi: ma nella
maggior sua mole è costrutta delle stesse emersioni serpentinose e
granìtiche; ed è ammantata di larghi ghiacciaj, e così
eccelsi, che, tranne il Monte Bianco e poche altre vette delle Alpi
occidentali, ella oltrepassa tutte le altre sommità dell'Europa. – Per
tal modo, dalle Alpi Pennine alle Prealpi Camonie, un ampio semicerchio chiude
a settentrione, e sèpara dal dominio non solo dell'Inn e del Reno, ma
della Sesia, del Ròdano e dell'Adige, quella parte della regione
cisalpina onde il Ticino, l'Adda, l'Ollio e il Mincio discèndono al Po.
III.
Una zona di grandi e profondi laghi, che forma
corda all'arco delle suddescritte montagne, accoglie alle loro falde le piene precipitose,
che i digeli e le piogge chiàmano dalle riposte valli; e porge le aque
rallentate e chiare ai successivi fiumi; le cui lìmpide correnti, quasi
nulla apportando e sempre togliendo, potèrono incavarsi il letto sotto
al livello della pianura. E il màrgine estremo di questa,
elevàndosi alquanto anche su le pròssime campagne, è
durèvole monumento delle alluvioni che quei fiumi diffondèvano
lungo le loro sponde, allorchè, scendendo da valli ancora senza lago,
scorrèvano tòrbidi e superficiali, come vediamo i fiumi alpini
del Piemonte e i torrenti dell'Apennino, che ingòmbrano di continue
ghiare il letto del Po.
Benchè codeste alluvioni fluviali
ascèndano a enorme congerie, pure da tempo immemoràbile il gran
fiume non elevò il suo letto, come fu sì communemente supposto e
ripetuto. Le tòrbide fiumane dell'Apennino arrìvano in poco d'ora
al Po; solo quando esse vanno già declinando, si fanno minacciose le
piene delle interne aque del Piemonte; ùltimi sopragiùngono il Ticino,
il Mincio e gli altri nostri fiumi, rattenuti e riposati nei laghi; e
corrodendo con aque più gonfie che tòrbide le recenti alluvioni,
le sospìngono a poco a poco per l'alveo del fiume a colmare le sue
marine. – La stessa miràbile successione di movimenti che conserva
stàbile e lìbero il letto del Po, ne mòdera
eziandìo le aque; e anche solo a colmarne il vasto alveo si
spèndono già parecchi giorni di piena impetuosa.
La geografìa dei fiumi, nascente ancora,
si ristringe quasi solo a compararne le lunghezze, e a dir maggiore il fiume le
cui fonti sono più lontane dalle foci e più spazioso il bacino,
mentre anche per essi, come nei regni umani, la vastità non è
misura della potenza. Il corso del Reno è lungo il doppio di quello del
Po, ma il volume d'aqua del fiume itàlico sùpera quello del Reno,
anche dove il fiume germànico, raccolti tutti i suoi tributarj e non per
anco diviso, spiega il sommo della sua pompa. – Ora, questo paragone dei fiumi
simboleggia in breve fòrmula tutte le circostanze fondamentali d'un
paese.
Il corso continuo dell'Adda rappresenta uno
strato aqueo, il quale coprisse a notèvole altezza tutta la superficie
del suo bacino; ma le aque che còlano annualmente nella Senna, diffuse
su tutta la superficie del suo bacino, appena giungerèbbero alla sèttima
parte di quell'altezza. Che avviene dunque delle piogge che discèndono
sotto quel cielo tanto men sereno del nostro? – Nel bacino della Senna cade
veramente men aqua che fra noi; e cade poi dispersa in minute e frequenti
pioggie, che anche nell'estate fanno tetro il cielo e fangosa la tetra,
svaporando largamente prima di giùngere al fiume, il quale appena
riscuote dalla vasta campagna un terzo della pioggia che vi scende. Nella
nostra valle, la stagione più piovosa è l'autunno; men piovosa
è la primavera, meno ancora l'estate; anche nella parte più bassa
e aquidosa della pianura, il sereno regna la metà dei giorni dell'anno;
nella zona media, più della metà; sull'altopiano, più
ancora; e il maggior nùmero di questi lìmpidi giorni è
nell'estate. Le aque scèndono adunque in generose piogge; poca parte si
sperde in vapori; il più scorre impetuoso ai fiumi; onde il Po riceve la
maggior parte delle aque pioventi nel suo bacino, e l'Adda più ancora.
L'Adda non segue col suo deflusso l'andamento
delle piogge, perchè queste prèndono piuttosto forma di nevi,
riservate ad alimentarla solo fra gli ardori della successiva estate;
cosicchè, pòvera nelle due stagioni piovose, si gonfia
costantemente in giugno e luglio. Il Po, che aggiunge allo stillicidio delle
Alpi il tributo meno glaciale degli Apennini, corrisponde all'andamento delle
piogge, gonfiàndosi in primavera e in autunno, e rallentàndosi
fra gli ardori dell'agosto. – Ma la Senna serba un tenore affatto inverso a
quello dei nostri fiumi, poichè s'ingrossa solo nella stagione invernale;
quindi nella Sciampagna e nell'Isola di Francia regna un òrdine
fondamentale ben diverso da quello che vediamo nelle nostre pianure.
Colà
l'agricultura è raccomandata alla frequente e parca aspèrgine
delle piogge estive, e poco potrà mai valersi delle aque fluviali,
poichè vèngono meno a misura che cresce il bisogno delle
irrigazioni. Da noi l'estate è costante e àrida; e la pianura
erràtica e silicea potrebbe per sè inaridirsi, come le steppe del
Volga, che pur giàciono sotto questa medèsima latitùdine,
se nei recessi della regione montana non avèssimo il tesoro dei ghiacci
e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col
crèscere dell'arsura. Ma poi le aque estive sarèbbero un dono
inùtile, se accanto alle loro correnti non giacèssero vaste
campagne, atteggiate a mite e uniforme declivio, non formate di materie
argillose e tenaci, ma sciolte e àvide d'irrigazione; e infine
sarèbbero men preziose ed efficaci, se fòssero più
frequenti e sparse le piogge, e meno assidua la luce del sole estivo.
Finalmente i laghi nostri non hanno solamente uno
specchio di superficie senza profondità, come il vasto Bàlaton;
ma discèndono sino a centinaja di metri sotto il livello del mare; e
giacendo appiè d'alti e continui monti che devìano i venti
boreali, e sull'orlo d'un piano che s'inclina alle tèpide influenze
dell'Adriàtico, non gèlano mai. L'interna circolazione, promossa
d'inverno dalla specìfica gravità degli strati più freddi,
e rallentata nella stagione estiva dalla comparativa leggerezza degli strati
più caldi, mòdera talmente la loro temperie, che a mediocre
profondità si serba perenne e immutàbile. Queste masse d'aqua,
incassate lungo il màrgine superiore d'una landa uniforme di materie
erràtiche e incoerenti, non solo si effòndono in fiumi, ma sèmbrano
penetrare interne e sotterranee, stendendo fra le alterne ghiare quegli strati
aquei, che le annue nevi e piogge rèndono più o meno copiosi, e
che per la successiva inclinazione del piano si fanno sempre più
pròssimi alla superficie. E forse nei primitivi tempi, quando l'arte non
li esauriva avidamente a sussidio dell'agricultura, riempièvano di
limpidi stagni le pianure, non ancora spianate da secolari fatiche. Era questa
dunque in orìgine una larga zona di terre palustri, non per impedimento
recato da suolo argìlloso o còncavo al corso d'aque fluviali, ma
per inesàusto afflusso d'interne vene, che, sgorgando dalla profonda
terra, non risèntono i geli del verno, se non dopo lungo soggiorno sulle
aperte campagne.
Per tal modo le alpi eccelse e gli abissi dei
laghi, i fiumi incassati e l'uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee
e le aque tèpide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze
marine, le generose piogge e l'estate lùcida e serena, èrano come
le parti d'una vasta màchina agraria, alla quale mancava solo un
pòpolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi
elementi a un perseverante pensiero. Altre miràbili attitùdini
delle terre, delle aque e del cielo si collegàvano a preparare le riviere
del Benaco a un pòpolo di giardinieri, che le abbellisse d'olivi e di
cedri; e chiamava un pòpolo di vignajuoli a tender di viti le balze su
cui pèndono i ghiacci della Rezia. Il progresso dell'incivilimento
dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo
giàciono così predisposti gli elementi di qualche gran
compàgine, che attende solo il soffio dell'intelligenza nazionale. Da
ben poche generazioni si accorse il pòpolo britànnico di vivere
in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d'aver sotto i
piedi i sotterranei tesori della forza motrice. – Perlochè può
forse avvenire che più d'un pòpolo che largheggia con noi di
superbi vaniloquj, non abbia per avventura inteso ancora il verbo de' suoi
proprj destini.
IV.
I primi uòmini che si spàrsero per
questa terra transpadana, vi si avvènnero in due ben dissìmili
regioni di pari ampiezza, l'una montuosa, l'altra campestre. Le Alpi sublimi,
nevose, inaccesse, abbracciàvano un labirinto d'altre catene di poco
minore altitùdine ed asprezza, entro cui stàvano alte e
recòndite valli, fra loro disparate, chiuse al piede da laghi o da passi
angusti, che nei tempi primitivi, quando non v'era arte di capitani,
opponèvano impenetràbile serraglio alle orde vaganti. – La
regione campestre, àrida e sassosa nella parte superiore, più
sotto era piena di scaturìgini e di ghiare aquidose, interrotta da dorsi
di bosco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiumi, ma in
preda alle lìbere inondazioni nelle basse règone, e fra le
curve dei loro serpeggiamenti.
Come vediamo tuttavìa nelle sparse
reliquie della vegetazione virgìnea, surgèvano nude le vette
alpine, ammantati di pàscoli naturali i larghi dorsi della regione
calcare, irte di selve conìfere le somme pendici, più sotto
frondose di faggi e di betule, poi di quercie, d'àceri e d'olmi, che
ampiamente scendendo unìvano i monti ai colli e all'altipiano, vestito
d'èriche e sparso di rara selva. La campagna uliginosa e le pingui golene
dei fiumi dovèvano esser dense di sàlici e d'alni; lungo le
tèpide scaturìgini delle correnti sotterranee, doveva qua e
là verdeggiare, e fors'anche nel verno, qualche spontaneo lembo di
prato. Ma sui clivi eretti al vivo sole, sulle miti riviere dei laghi ignare
quasi di nebbie e di geli, fra le suavità d'una flora naturalmente
australe, poteva facilmente mitigarsi anche la fiera vita del selvaggio. –
Folte turme di cervi, d'uri e d'alci dovèvano pàscere la pianura,
lungo i plàcidi stagni ai quali il castoro lasciò il nome di Bèvera
e Beverara; le generazioni, ora fra noi quasi estinte, de'
dàini e de' camosci dovèvano animare il silenzio dei recessi
montani. Ma solo l'amor della caccia, o il timore dei nemici, poteva incalzare
le prime tribù di rupe in rupe sino a piè di quegli òrridi
precipizj, ove le vallanghe e la tormenta e il notturno rintrono de' ghiacciaj
atterrìvano le menti superstiziose, e dove il forte alpigiano, che ha
cuore d'inseguir veloce le pedate dell'orso, anche oggidì non sa, in
faccia alla taciturna natura, difèndersi da quella tetra e arcana ansietà
ch'egli chiama il solengo.
V.
Chi fùrono i primi abitatori
dell'Insubria?
È vano il crèdere che l'Europa ne'
suoi sècoli selvaggi fosse altrimenti dalle terre che tali
rimàngono fino ai nostri giorni. L'Europèo trovò
l'Amèrica e l'Australia in quello stato in cui pare che
l'Asiàtico trovasse l'Europa. Qui pure, prima delle grandi nazioni
dovèvano èssere i pìccoli pòpoli, e prima dei
pòpoli le divise tribù. E ogni tribù, che abitava una
valle appartata e una landa cinta di paludi e interrotta di fiumi, ebbe a
vìvere primamente solitaria di lingua e di costume, nell'angusto cerchio
che le segnàvano intorno le tribù nemiche. L'indagare a quale
appartenesse delle grandi nazioni che si svòlsero poi nel seno dei
sècoli e delle lente preparazioni istòriche, è
propòsito falso e inverso; è come investigare da qual fiume
derìvino i ruscelli, che al contrario càdono dai monti a nutrire
i fiumi. Quindi sarebbe tempo ora mai, che non si andasse fantasticando se
provènnero dai Celti, o dagli Illirj, o dai Traci quelle primitive
genti, le quali fùrono lungo tempo avanti che l'incivilimento orientale,
penetrando colle sue colonie, coi sacerdozj, coi commercj, colle armi della
conquista e colle miserie degli esilj e della servitù, propagasse lungo
tutti i mari e i fiumi d'Europa quell'arcana unità linguistica, che con
meraviglia nostra ci annoda all'India e alla Persia; la quale, con inferiori
òrdini d'unità sempre più divergenti, costituì nel
corso del tempo ciò che noi chiamiamo la stirpe cèltica, la
germànica, la slava. Se v'è in Europa un elemento uniforme, il
quale certo ebbe radice nell'Asia, madre antica dei sacerdozj, degli imperj,
delle scritture e delle arti, v'ha pur anco un elemento vario; e costituisce il
principio delle singole nazionalità; e rappresenta ciò che i
pòpoli indìgeni ritènnero di sè medèsimi,
anche nell'aggregarsi e conformarsi ai centri civili, disseminati
dall'asiàtica influenza. Le varie combinazioni fra l'avventizia
unità e la varietà nativa si svòlsero sulla terra
d'Europa; non approdàrono già compiute dall'Asia. Le grandi
lingue si dilàtano in ampiezza sempre maggiore di paese; e danno a
pòpoli di diversa e spesso inimica orìgine il mendace aspetto
d'una discendenza commune. La Francia, terra pur d'unità e di
centralità quant'altra mai, non cancellò ancora nel suo seno le
vestigia delle quattro lingue che Cèsare vi udì tra l'Adour e il
Reno, ciascuna delle quali aveva già forse sommerse e spente più
favelle di primigenie tribù. In Haiti, la favella dei Bianchi e il volto
dei Neri dimòstrano quanto sia grande il moderno errore di classare le
stirpi per lingue. In Germania sono evidenti reliquie di Celti, di Lettj, di
Slavi; la Germania non può spiegare, con ciò ch'ella crede sua
prisca lingua, i nomi de' suoi fiumi, e rare volte quello delle sue più
illustri città. Quanto più si risale la corrente del tempo, ogni
nazionalità si risolve ne' suoi nativi elementi; e rimosso
tuttociò che vi è d'uniforme, cioè di straniero e
fattizio, i fiochi dialetti si ravvìvano in lingue assolute e
indipendenti, quali fùrono nelle native condizioni del genere umano.
VI.
Tutti gli scrittori, mentre pàrlano di
colonie approdate in Italia dall'Oriente, e di tribù venturiere discese
tratto tratto dalle Alpi, dìcono pur sempre che l'Italia ebbe più
antichi abitatori. E per dinotare che parlàvano lingue proprie, e non
riferìvano l'orìgine ad alcuna delle grandi nazioni allora
fiorenti o fiorite prima, li dissero aborìgeni (Italiæ cultores
primi aborigenes fuere. Just.); li dìssero abitatori di monti,
frugali, forti, agresti, duri all'armi, duri come le ròveri delle selve
native (durum in armis genus. Liv.; – duro de robore nati.
Virg.). Nè quelle stirpi fùrono mai spente, nè cacciate
altrove; e più volte ristauràrono la popolazione del paese
aperto, esterminata da ràpide calamità. E tuttavìa le
vediamo discèndere ogni anno ad assìsterla nelle fatiche dei
campi, e tenerla a nùmero nelle arti delle città; – fondamento e
nervo della nazione; – principio sempre redivivo di quella varietà
d'ìndole e d'ingegno, che ammiriamo nei sìngoli pòpoli
d'Italia, e che alcuni vanamente deplòrano. Codesta progenie fu la
materia prima, che l'influenza orientale improntò solo della sua forma.
VII.
Le rive del Po èrano note ai navigatori
fin da quei tempi in cui prèsero forma le poètiche legende della
fàvola greca; e pare che sotto il nome d'Erìdano fosse uno dei
fiumi di quell'angusto orbe che la poesìa popolò de' suoi sogni.
Ivi presso era approdato Antènore, fuggendo l'Asia desolata; qui le Elìadi
si èrano consunte in làcrime; qui la tradita Manto celava il suo
nato nell'ìsola del lago etrusco; qui Cigno regnava sul fiume dei
Lìguri; qui Ercole, il sìmbolo della potenza fenicia, nella sua
via verso occidente, aveva incontrato «nella terra palustre (xÇrow malyakñw) sparsa di sassi caduti dal
cielo, l'esèrcito impertèrrito dei Lìguri, contro cui
gli era vano il valore e l'arco» (Eschilo ap. Str.); questa era la terra
dove i Greci compràvano l'elettro del Bàltico, e i cavalli che
dovèvano vìncere le palme d'Olimpia. – Per tal modo il nome della
nostra patria s'intesse ai primordj dell'arti belle ed ai sìmboli
dell'intelligenza nascente.
Quegli antichi Orobj, Leponti, Isarci, Vennj,
Camuni. Trumplini, che si ascrìvono alle nostre valli, sono ombre senza
persona; gli scrittori nulla aggiùnsero al nudo nome. Dissero solo che
avèvano fondato la città di Barra, madre di Como e Bèrgamo
e da lungo tempo perita. Forse era all'uso itàlico sovra ameni colli,
presso Baravico e Bartesate, appiè del Monte Baro, tra l'Adda e il Lago
Eupili; e la prisca Como era forse intorno al poggio del Baradello; e
Bèrgamo, pur sovra un colle, se non trasse il nome dalla madre patria,
lo trasse forse da quel Dio Bèrgimo, al quale nelle sue valli si
pòsero tante iscrizioni votive. Ma quali pur si fòssero quelle
vetuste genti, giova notare, con quali pòpoli si pòsero in
successiva ìntima connessione, nel trapasso che fècero dallo
stato d'isolate tribù a quella vasta orditura di cose, che le rese
membra d'una gloriosa nazione. Solo dopochè sìasi annoverato
quanto in esse penetrò d'adottivo e straniero, potrà forse per
eliminazione chiarirsi in qualche modo ciò che vi rimase di proprio e di
nativo.
VIII.
Abbiamo già visto come il nome dei lìguri si nasconda nella notte
dei tempi. Quei poggi dell'Apennino lìgure, che noi chiamiamo la Collina,
si strìngono ben presso la riva del Po, contro la foce della nostra
Olona; ambo le rive del Ticino èrano popolate ab antico da un
pòpolo lìgure (antiquam gentem Lævos Ligures incolentes
circa Ticinum amnem. Liv.); antica stirpe lìgure si
dìssero i Taurini e gli altri Piemontesi (In alterâ parte
montanorum... Taurini ligustica gens
aliique Ligures. Strab.); il nome dei Liguri nei Fasti consolari si stende fino
ai pòpoli del lago d'Idro (Liguribus Stonis); si stende nelle
valli del Taro e della Scultenna, lungo il confine toscano; in una parola, pare
diffòndersi dapprima in tutta la valle del Po, il cui più antico
nome (Bodinco) è nella lingua dei Lìguri, e a poco
a poco ristrìngersi all'Apennino, come di popolo che da vaghe conquiste
si raccolga per infortunio di guerra all'asilo nativo. Perciò non diremo
che gli aborìgeni dell'Apennino e delle Alpi fòssero
d'un'ùnica stirpe o d'un'ùnica lingua; questo nome poteva
indicare un nodo posteriore di religione, di conquista o di federazione; poteva
aver cominciato da loro; poteva aver cominciato da noi. Un decreto del Senato
Romano, scritto 117 anni avanti l'era nostra, nel comporre una controversia di
confini nella Liguria, annovera certi fiumi, che sèmbrano nella stessa
lingua in cui sono molti nomi di luoghi del nostro paese: (fluvius Neviasca,
Veraglasca, Tutelasca, Venelasca). Poco sappiamo di quelle antiche
genti, non illustri in arti e in lèttere; ma pare che avèssero
lontane relazioni nell'Iberia e con varj luoghi del Mediterraneo; pare che sin
d'allora coltivàssero a ronchi le pendici dei monti, che
munìssero di mura le loro castella, in ciò mostràndosi al
tutto diversi dai Germani e dai Celti. Erano robusti, onde si diceva che
gràcile Lìgure valeva più che fortìssimo Gallo;
erano valenti frombolieri; portavano scudi di rame; onde alcuni li
giudicàrono Greci (Quia æreis scutis utuntur Græcos eos
esse ratiocinantur. Strab.); onoràvano un Dio Pennino, e gli
intitolàvano i più alti monti; ma questo nume era commune ai popoli
cèltici, come il Dio Camulo e il Dio Bèrgimo, il Dio Tillino e il
Dio Nottulio; commune coi Celti era in alcuni di loro il costume dei lunghi
capelli (Ligures capillati); Walckenaer nota una naturale loro
alleanza con quelle nazioni. E finalmente i dialetti della Liguria vivente
hanno la proprietà commune ai nostri dialetti e ai piemontesi, e a
nessun altro d'Italia, dei due suoni gàllici dell'u e dell'œu.
– Diremo adunque che il più antico vìncolo di lingua e di costumi
fu tra il nostro paese e la Liguria; e che sembra già invòlgere
un più lontano nodo coi Celti.
Se verso il Ticino i nostri aborìgeni si
collegàvano ai Lìguri, verso le valli dell'Ollio e dell'Adige, il
nome degli Orobj trapassava confusamente in quello degli euganei, gente antica (præstantes
genere Euganeos. Plin.), fondatrice di molte pìccole città (quorum
oppida xxxiv enumerat Cato. Plin.),
e aveva tutto il paese che si stende fino al mare.
Lungo il basso Po fiorìvano anche gli umbri, aborìgeni pure, e tenuti
i più antichi d'Italia (Umbrorum gens antiquissima Italiæ.
Plin.); e avevano empito di città (trecenta eorum oppida. Plin.)
le valli del Tebro, e i gioghi dell'Apennino, e la marina ove discende il Po,
sino al Monte Gargano. Èbbero arti e lèttere e monumenti; e
l'ìndole loro era tale che potèrono intrinsecarsi coi
pòpoli d'ambo le estremità d'Italia; onde ad alcuni
pàrvero congèneri ai Latini ed agli Etruschi, ad altri
pàrvero Pelasghi, ad altri Galli, non ostante l'uso non gàllico di
murare le città mìnime; e si volle che ne venisse ai
pòpoli della nostra pianura il nome d'Isombri o di Symbri,
dato dai Greci, non però dagli Italiani, agli Insùbri. Ma questi
scrittori, fra i quali Amedeo Thierry, non conoscèvano quella radicale
differenza di dialetti che distingue l'Umbria Tiberina dalla Marìtima;
nella quale soltanto, e per posteriore influenza dei Senoni, rimàsero
vestigia di Celti. Onde se uno scrittore antico, ripetuto poi da tutti, li
disse propàgine di Galli, dinotò forse solo il nesso loro
coi pòpoli dell'alta Italia.
Ma i veneti
approdati dall'Asia si èrano annidati nei porti della Laguna.
Avèvano lingua propria (sermone diverso utentes. Polyb.); e
questa, nel trasmutarsi in dialetto latino, conservò quella
mìnima varietà e somma dolcezza d'articolazioni, per cui fa quasi
un'isola linguistica fra gli aspri dialetti che si pàrlano lungo il
semicerchio delle Alpi. Il che palesa assurda l'opinione che i Vèneti
fòssero un ramo divelto dall'àrbore slavo (ein abgerissener
Zweig der grossen Volkstammes der Slawen. Mannert); poichè la stirpe
slava, al contrario, spiega in tutte le sue favelle la màssima
attitùdine a moltiplicare e variare i suoi orali, sicchè si
potrebbe ben appellarla, fra tutte, la nazione pronunciatrice.
Una colonia orientale, sotto il nome di pelasghi approdata alle foci del Po, vi
aveva fondato Spina; poi si era insinuata fra gli Umbri; e quindi per tutta
l'Italia meridionale, propagando istituzioni religiose e civili, e stringendo
forse quel nesso linguistico che congiunge il latino al greco, ed entrambo alle
riposte orìgini indo-perse.
IX.
Gli etruschi,
le cui memorie cominciàvano milleducento anni avanti l'era nostra, si
dicèvano venuti dalla Lidia; ma Dionisio, nato in quelle parti, li
giudicò diversi da qualunque altra gente per lingua e costume. Onde,
forse non venne dall'Asia il pòpolo etrusco, ma solo il consorzio
sacerdotale, che ammaestrò le ingegnose tribù aborìgene, e
piegò ad uso loro le forme indubiamente orientali della scrittura
etrusca, lasciando sopravìvere dei costumi nativi tuttociò che
non ripugnava alle grandi iniziazioni sociali. Compiuto l'ordinamento delle
dòdici repùbliche di Toscana, la lega etrusca, progressiva allora
come vediamo oggidì le nazioni che rièmpiono di loro colonie
l'Amèrica e l'Africa, spinse le armi al di qua dell'Apennino fino
all'Adige e alle Alpi, fondando altre dòdici città. – Ma se
ciò è vero, non si può spiegare come la terra toscana
dischiuda tanto tesoro di sculture, di pitture e d'iscrizioni, e nulla di
ciò si scopra fra noi. Forse il dominio etrusco fu qui poco più
che mercantile e fluviale; onde Adria, ìsola delle lagune e città
più marina che terrestre, ha bensì qualche reliquia di vera
città etrusca; ma Màntova e Fèlsina e le altre, per
opposizione degli aborìgeni o per altrui rivalità, non
vènnero a quella cultura ed eleganza onde fiorìrono le interne
sedi della toscana potenza. E in vero, pare istoria di rivalità moderne
quella ove leggiamo: «E se l'un pòpolo (l'etrusco) tentava spedizioni
verso qualche gente, l'altro (l'umbro) si studiava impedirla; onde avvenne che
i Tirreni avendo mandato un esèrcito contro i Bàrbari litorani
del Po, e avendo vinto, e dopo essèndosi nell'abondanza rilassati, gli
Umbri li assalìrono. Dal che avvenne che in quei luoghi si
stabilìrono colonie tirrene ed umbre, delle quali maggiori fùrono
le umbre, per la vicinanza maggiore di questi pòpoli».
Niebuhr, nel derivare il pòpolo toscano
dalle Alpi, non osservò che i monti, su cui la lega etrusca pose le sue
mura suntuose (jugis insedit etruscis, Virg.), hanno mediocre altezza, e
i loro continui gioghi fanno quasi un'alta via tra valle e valle. Al contrario
i nostri monti prealpini hanno cime alte, fredde, inabitàbili, che
divìdono le terre e non le collègano; e le valli appartate,
anguste, non consèntono grandi aggregazioni di pòpoli, e molto
meno in tempi senz'agricultura e commercio. Non sono questi i luoghi ove le
menti potèvano avvicinarsi e scaldarsi, e inventar leggi senza esempio e
arti senza modello, così lungi dal mare e dalle vie degli altri
pòpoli civili. Se anche fosse vero che gli Etruschi fòssero
venuti dai nostri monti, il che non è avvalorato da monumento alcuno,
nè dall'aspetto e dall'ìndole dei pòpoli, nè dal
testimonio delle lingue, ancora sarebbe solo una materiale derivazione dei
corpi, e non delle idèe, delle leggi, della società; ossìa
di ciò appunto che giova sapere.
Ma da qualunque punto si fosse mossa, codesta
lega anseàtica dell'evo antico teneva tutti i punti dell'Italia e delle
ìsole, e involgeva co' suoi commercj, co' suoi riti, col suo diritto
delle genti le tribù aborìgene, in tempi anteriori all'era
ìtalo-greca. Anzi pare che intraprendesse grandi òpere alle foci
del Po, e costruisse i primi àrgini sulle sue rive.
X.
La civiltà era dunque surta per noi tremila
anni sono, fra il commercio dei Liguri, deli Umbri, dei Pelasghi, degli
Etruschi. L'arte di murare, ignota allora oltralpe, la pittura, la modellatura,
l'uso di convìvere nelle città con gentili costumi e pompe
eleganti e spettàcoli ingegnosi, di contrasegnare con monumenti le
vicende della vita pùblica e privata, di decorare con veste religiosa i
provedimenti intesi al progresso dei pòpoli, avrèbbero in poche
generazioni elevato a quasi moderna cultura il nostro paese; e la navigazione
tirrena l'avrebbe congiunto a tutte le genti civili. La cultura del frumento
era diffusa tra noi col culto di Saturno; i colli èrano adorni di viti;
e già il commercio recava ai bàrbari d'oltremonte questi dolci
frutti della civiltà. Ben altra sarebbe l'istoria d'Europa, e tanti
sècoli non sarebbero trascorsi stèrili e ciechi alle genti del
settentrione, se gli Etruschi avèssero propagate sin d'allora lungo il
Reno e il Danubio quel loro vivajo di città, generatrici di
città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perchè
federativo e moltìplice poteva ammansare la barbarie senza
estìnguere l'indipendenza; e non tendeva a ingigantire un'ùnica
città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede
materiale d'un dominio senza nazionalità.
XI.
Èrano già corsi seicento anni dai
primordj dell'era etrusca, e mancàvano ancora altretanti ai primordj
dell'era cristiana, quando una grave e durèvole calamità
fermò il corso del nostro incivilimento, e differì di quattro
sècoli lo sviluppo dell'intelligenza umana fra noi. Prima che la
consuetùdine colle città etrusche avesse terminato d'ingentilire
i circostanti aborìgeni, cominciò ad inoltrarsi fra noi un altro
principio sacerdotale, che dalle arcane sue sedi nell'Armòrica e nelle Isole
Britànniche dominava vastamente una famiglia di nazioni, varie di lingue
e d'orìgine, ma tutte simili nell'inculto costume, e comprese dagli
antichi sotto il nome di Celti.
I
Drùidi non ergèvano, come gli Etruschi, i loro altari in suntuosi
recinti di città consacrate, ma nei recessi di vietate selve; e non
volgèvano la religione a sollievo ed ammaestramento della vita, ma col
terrore di secrete dottrine tramandate da bocca a bocca, e con riti crudeli,
incatenàvano i pòpoli a una prima forma d'improgressiva civiltà.
Immolàvano vìttime umane; ora ardendo vivi i proscritti e i
prigionieri entro masse di fieno e di legna, disposte a qualche forma di
simulacri colossali (fœni colosso... defixo ligno. Strab.), ora
consegnàndoli a furibonde sacerdotesse, che li scannàvano sopra
certe caldaie di rame, e ne raccoglièvano in nefande pàtere il
sangue. Altre maghe, tutte dipinte di nero, scapigliate, nude, con faci in
mano, celebràvano riti notturni; altre, che si chiamavano le Sene,
facèvano vita solitaria sugli scogli del mare, pronunciando nel furore
delle tempeste temuti oràcoli. Le vite si redimèvano col
sacrificio d'altre vite; e i Drùidi ne facèvano mercato coi
guerrieri arricchiti dalla vittoria; onde nelle selve sacre si accumulàvano
grandi tesori, che giacèvano all'aperto custoditi dal terrore del luogo
o sommersi nelle temute aque dei sacri stagni (¤n ßeraÝw lÛmnaiw. Strab.). Tutta la dottrina
druìdica instillava il disprezzo della morte; e teneva le menti
così fisse nel pensiero d'un'altra vita in tutto sìmile alla
terrena, che alcuni dàvano a prèstito, con patto d'èssere
pagati nell'altro mondo. Alla morte dei capitani si abbruciàvano col
cadàvere i cavalli; e talora i seguaci prediletti (servi et clientes
quos ab iis dilectos esse constabat, unâ cremabantur. Cæs.); talora
le spose, per affettato sospetto di veleno. Ne tenèvano anche più
d'una; e avèvano sovr'esse e sulla prole diritto di vita e di morte (In
uxores... in liberos vitæ necisque... potestatem. Cæs.), e
per provare la loro fedeltà, i gelosi e fanàtici guerrieri talora
legàvano l'infante a una tàvola, e lo gettàvano tra i
gorghi d'un fiume; e se periva, lo avèvano per giudizio divino di non
legìtima origine, e pugnalàvano la novella madre; la quale
giaceva, durante la stolta prova, nella più tremenda angoscia. Il padre
non si curava altrimenti dei figli, nè si degnava ammètterli al
suo cospetto, finchè non avèssero età da comparirgli
inanzi armati; onde era quello un vìvere senza alcuna domèstica
dolcezza.
I combattenti decapitàvano sul campo i
nemici caduti, e ne ostentàvano i teschj confitti sulle lance, o appesi
al petto dei cavalli. Ogni casa nòbile li serbava in un'arca, nè
a peso d'oro ne consentiva mai il riscatto (neque si quis auri pondus
offerret. Strab.); e ogni generazione si pregiava di recare altri crani ad
ingrossare quel tesoro di barbara gloria. I teschj più illustri, legati
in oro, stàvano nei templi ad uso delle sacre bevande. Alle porte delle
case s'inchiodàvano teste di lupi e d'altre belve; onde agli Itali e ai
Greci, i quali solèvano rimòvere religiosamente dalle
città ogni avanzo di morte, se ponèvano il piede in un casale di
Celti, pareva d'entrare in uno squàllido ossario.
Vivèvano di pastorizia o
d'instàbile agricultura, senza città, senza privato possesso, in clani,
o communanze di famiglie, ripartite numericamente sulle terre, come un
esèrcito sotto le insegne, col dèbito di conferire certe misure
di grano e di birra e certo nùmero di montoni e di porci alla mensa del brenno,
ossìa prìncipe. Dimoràvano all'aperta, e per lo
più lungo le aque, in tugurj rotondi, costrutti di tàvole e
graticci e terra pesta e con acuto tetto di strame; non si curàvano di
supellèttili, dormìvano sulla paglia; mangiàvano a
tàvole rotonde assài basse, sedendo sopra manìpoli di
fieno, coi loro scudieri seduti in altro cìrcolo dietro ai signori;
bevèvano in giro a pìccole e frequenti riprese, in una sola conca
di terra o di metallo; appena conoscèvano il pane; mangiàvano
molta carne; e ciascuno «ne prendeva a due mani un gran pezzo, e lo addentava
come un leone» (leontvdÇw taÝw xersÜn Žmfot¡raiw aàrontew ÷la m¡lh, kaÜ Žpod‹knontew. Posid. ap.
Ath.); dopo il convito si provàvano in duelli, che spesso èrano
mortali, nè altra pare l'orìgine dei gladiatori che tardi
s'introdùssero fra i Romani. Sulle persone loro facèvano pompa
d'armi dorate, di collane e braccialetti d'oro, di tracolle lavorate in argento
e in corallo, strascinando al fianco destro lunghe sciàbole, talvolta di
rame temprato; portàvano saj vergati di splèndidi colori, e
grandi scudi quadrilunghi con imprese gentilizie, rozzamente dipinte o
intagliate; e sopra gli elmi affiggèvano figure d'augelli o di fiere, o
alte corna di bùfali o di cervi, e grandi pennacchj ondeggianti;
nutrìvano lunghi mustacchi e lunghe chiome tinte in rosso; e alcune
nazioni si dipingèvano d'azzurro le braccia e il petto;
combattèvano più sui carri che sui cavalli. Talora nelle
battaglie, per insultare il nemico, o per brutale audacia, o per disperazione,
gettàvano l'elmo e il sajo, e combattèvano nudi; tanta era
l'esaltazione cavalleresca, nutrita in quelle rozze menti dalle memorie dei
feroci antenati, ripetute dai bardi adulatori, che coll'arpa in collo
erràvano di casale in casale. – Tutte queste usanze di tàvole
rotonde, di scudi blasonati, di cimieri, di trovatori, di duelli, e di prove
dell'aqua e del foco, non estinte nelle Isole Britànniche e non obliate
mai del tutto nelle Gallie, ripullulàrono nella nuova barbarie del medio
evo; e ne scaturì quella poesìa romanzesca, che i freddi poeti
legàrono in rima.
I Drùidi, paghi di tener sotto il terrore
dei loro misterj e delle formidàbili loro maledizioni molte
bàrbare tribù, e di tesoreggiarne le lontane prede, non si
curàrono mai di partecipar loro quella qualunque scienza che
avèvano; nè sapèvano tampoco tenerle in pace, onde tutta
la terra cèltica era un campo di discordia, di rapina e di sangue (In
omni Galliâ factiones. Cæs.). Uscìvano tratto tratto da
quel perpetuo tumulto le tribù più mìsere o le più
audaci, e andàvano altrove in cerca di preda o di terre, ove pasturar
bestiami, o spàrgere le passeggere sèmine d'un'agricultura
vagabonda. Pare che la mano arcana dei Drùidi reggesse quelle lontane
spedizioni; poichè dalla sede dei loro collegj le turbe conquistatrici
si èrano precipitate in Ispagna, in Italia, sul Bàltico, in
Boemia, lungo il Danubio, insultàvano agli Dei della Grecia in Delfi,
s'accampàvano sull'Ellesponto, e preludendo alle crociate dei loro
pòsteri, fondàvano un regno gàllico nell'Asia Minore.
XII.
Ma se i Celti non amàvano chiùdersi
nelle città, non si può dire che le odiàssero e
distruggèssero con quello stolto furore che mille anni più tardi
si vide nei Vàndali e negli Unni Scorrendo velocemente fra città
e città, forse perchè non sapèvano come espugnare quei ricinti
di pietra (Gens ad oppugnandarum urbium artes rudis... segnis intactis
assideret muris. Liv.), andàvano a sorprèndere genti lontane,
e tornàvano onusti di preda. Quando poi le terre giacèvano
desolate e derelitte, allora qualche tribù dimandava di potersi accasare
con patti di pace su quegli spazi, che altri inutilmente possedeva (egentibus
agro quem latius possideant quam colant... partem finium concedant. Liv.).
E così le antiche città itàliche rimanèvano come
ìsole solitarie in mezzo a lande, sparse di bàrbari casali; e
potèvano udir senza spavento dalle mura le strane voci e i
càntici di guerra. Laonde, quando gli Etruschi, dopo aver lungamente
conteso ai Galli le nostre pianure (cum Etruscis... inter Apenninum Alpesque
sæpe exercitus
gallici pugnavere. Liv.), si ritràssero nelle castella
alpine, non solo Màntova, Adria, Ravenna, Arìmino rimàsero
salve, ma forse lìbere, o per noncuranza cavalleresca dei
bàrbari, o per condizione di pace, o per qualche antico nodo di religione
o di sangue che i nostri aborìgeni avèssero già con quelli
dell'altro declivio delle Alpi. Màntova si conservò divisa in tre
stirpi, tra le quali la più potente rimase quella degli Etruschi (Mantua
tres habuit populi tribus, et robur omne de Lucumonibus. Serv.). Melpo fu
distrutta, ma solo due sècoli dopo. E in poca distanza delle antiche
città mercantili, i Galli elèssero le sedi dei loro brenni e
delle loro adunanze militari; cioè Beloveso, poche miglia a ponente di
Melpo, in un casale posto là dove il torrente Sèveso, giunto sul
piano palustre, prendeva forma di continuo e plàcido fiume; e gli diede
il nome di Mediolano, commune a diversi altri luoghi delle Gallie e
della Britannia (Mediolanum, pagus olim; nam per pagos habitabant. Strab.),
e il nome di Breno rimase a una terra presso la città di Bèrgamo,
e ad un'altra presso la città dei Camuni (Cividate), e ad altri
luoghi del nostro paese. – È uno stato di cose che si vede
tuttodì nell'Asia Minore, nell'Armenia, nella Persia, dove le
città dei mercanti o degli artèfici hanno diversa lingua, e
spesso diversa religione dalle orde pastorali dei Turcomanni o dei Beduini, che
si attèndano nelle circostanti campagne. – Così si visse tra noi
per quattrocento anni.
XIII.
Le orde gàlliche, varcato con
zàttere il Po, stabilite le tribù dei Boi e dei Senoni intorno a
Bononia e Sena Gàllica, còrsero lungo l'Adriàtico,
spogliàrono persino le città Italogreche, penetrarono pei monti
in Etruria; colla stranezza delle armi e la furia degli assalti
abbagliàrono le legioni; e accampate nelle vie deserte di Roma e sui
monti d'Alba e di Tìbure, e andando e venendo per la via
gàllica, devastarono il Lazio per diecisette anni. Ma nel calpestare
quell'angusta striscia di terra non sapèvano che vi avesse radice
quell'irresistibile principio, che dilatàndosi avrebbe in poche
generazioni divorato in Europa e in Asia la potenza e la gloria de' Celti.
Roma ben presto si agguerrì a nuovi modi
di vittoria. I Cisalpini, inferociti nei disastri, si collegàrono con
tutti i suoi nemici, Etruschi, Umbri, Sanniti; ma sempre soccumbèvano
alla disciplina delle legioni e alle arti del Senato. Fra le discordie
gàlliche i Romani si apèrsero il varco del Po; coll'aiuto degli
Anàmani tragittárono sulla nostra pianura (
Comparve in quel mezzo Annìbale a
piè dell'Alpi; si vìdero tra le foreste del Ticino le seminegre
tribù del deserto. A quell'annunzio duemila Cisalpini, che costretti
militàvano nel campo de' Romani, si lèvano notturni, ne fanno
strage, pòrtano ad Annìbale i teschj sanguinosi. Su la Trebia,
gl'Insubri combattèvano per Cartàgine; i Cenòmani, per
Roma. Sessantamila guerrieri, accorsi in pochi giorni al grido della vittoria,
sèguono Annìbale in Toscana. Al Trasimeno, l'insubre Ducario getta
di sella e uccide il cònsole Flaminio. A Canne, fra cinquantamila
soldati d'Annìbale, trentamila èrano Galli; e deliberati di far
disperata prova, vènnero nudi sul campo (Galli super umbilicum erant
nudi. Liv.); quattromila vi lasciàrono la vita; ma i cadàveri
dei Romani, in quell'orrenda giornata, fùrono sessantamila. – Quando
Amìlcare venne in Italia, altri Cisalpini lo seguìrono; altri
seguìrono Magone sbarcato a Gènova; altri seguìrono
Annìbale in Africa, e morìrono a Zama. Venuta la pace, ancora un
venturiero africano adunava sul Po quarantamila guerrieri, distruggeva
Piacenza, assediava Cremona, cadeva con tutti i suoi. Un'altra battaglia si
perdeva sul Mincio per nemicizia dei Cenòmani; in un'altra
perìvano più di quarantamila Insubri; restàvano sul campo
centinaja di bandiere, centinaja di carri da battaglia, splèndide
collane d'oro (Liv.); Como era presa con ventotto castella de' suoi monti;
un'altra giornata si combatteva sotto Milano; tre esèrciti romani
insanguinàvano ad un tempo la valle del Po; la resistenza era
indòmita; più volte le legioni vènnero conquise e
trucidate; ma parèvano risurgere dai sepolcri; e omài
rimanèvano agli esàusti Cisalpini solo i vecchj e i fanciulli. Ma
quando Scipione entrò, con insegne spiegate, a mèttere i coloni
romani in possesso delle divise campagne, i supèrstiti delle 112 tribù
de' Boi non rèssero all'amaro cordoglio, si mòssero in turba, e
varcate le Alpi Nòriche, si dispèrsero nelle selve del Danubio.
Fra l'eccidio dei Senoni e la dispersione de' Boi, la stirpe degli Insubri
sopravisse (Senones... deleverunt... Boios ejecerunt... Insubres etiam nunc
existunt. Strab.).
La guerra arse ancora negli Apennini
Lìguri; la conquista di quel palmo di terra costò più di
quella dell'Asia; Roma, non sapendo come mutar l'ànimo di quegli
uòmini indòmiti, ne trasportò quarantamila in Apulia. –
Più lunga arse la guerra nelle nostre valli alpine, sulle quali i
pròfugi Etruschi avèvano diffuso il nome commune dei Reti. Anche
dopo la sommissione della pianura, si difèsero per un sècolo e
mezzo, dalle pòvere montagne scendendo a depredare la pianura (Lepontii,
Tridentini, Stoni et aliæ complures exiguæ gentes latrociniis
deditæ et pauperes. Strab.). Nel 164 (a. C.) un Tiberio
penetrò in Val-Camònica; nel 128 un Marzio vinse gli Stoni;
nell'85 i Reti incendiàrono la colonia romana di Como; nel 42
fùrono sconfitti da Planco; nel 16 Silio domò del tutto i Camuni
e i Vennj; i Trumplini furono venduti all'asta e dispersi in catena; l'anno
seguente i due fratelli Nerone e Druso compìrono il loro trionfo sui
Reti. La via dei laghi e delle alpi era aperta per sempre (Iter supra
montes... otim superatu difficile... nunc tutum et expeditum... latronum
excidio, viarum structurâ. Strab.).
Fino a quel tempo le invasioni cèltiche e
anche quella dei Cimbri e dei Tèutoni, se non giungèvano a farsi
strada per le Alpi occidentali, giràvano pel Reno e per l'Inn fino alle
fonti dell'Adige o alle Alpi Nòriche; la doppia fossa dei laghi nostri e
degli elvètici e la fierezza dei pòpoli chiudèvano le alpi
a noi vicine. Già fin d'allora i Reti èrano nelle valli dell'Inn,
e gli aborìgeni tèutoni in quelle del Ròdano e del Reno (Obsepta
gentibus semigermanis... Veragri incolæ. Liv.).
XIV.
Ma molto avanti quell'ùltima conquista,
già le nostre pianure èrano comprese nel nome e nella legge
d'Italia; nelle città nuove, in Placentia, Hostilia, Laude
Pompeja, Ticino, tutto era romano; le antiche, o come colonie o come
municipj, èrano ascritte alle tribù del generoso pòpolo,
alla Fabia, all'Ufentina, alla Voltinia, alla Sabatina; suntuose vie militari,
tratte a immensi rettilinei, le congiùnsero tra loro e con Roma. –
Cèsare aveva atterrato l'imperio dei Drùidi, disperse le caldaje
insanguinate e le fanàtiche sacerdotesse; le sacre selve
dell'ìsola di Man, ov'era il gran collegio, fùrono incendiate da
Paulino. Le colonie romane intorno al Reno, Còira, Costanza, Augusta,
Basilèa, Strasburgo, Spira, Vormazia, Magonza, Trèveri,
Aquisgrana, e quella che per eccellenza si chiamò Colonia e divenne poi
la madre delle città anseàtiche, fùrono le fondamenta al
tutto itàliche di quella nuova Germania, che dopo la linea del Reno
s'inoltrò successivamente a quelle dell'Elba e dell'Oder e della
Vìstula, apportando a quei pòpoli la vita della civiltà, e
il retaggio dell'intelligenza, non bramato nè conosciuto dai loro padri.
I canali di Druso e di Corbulone insegnàrono ai Bàtavi come
crearsi una terra fra le acque del mare. – Allora l'Insubria, che nell'era
etrusca era la favolosa frontiera del mondo civile, si trovò co' suoi
laghi e i suoi fiumi su la gran via delle nazioni, potè stèndere
i suoi commercj alle Isole Britànniche e all'Egitto, a Càdice e
al Mar Nero.
I Romani risuscitàrono il principio
etrusco, dièdero ai municipj un'autorità su le campagne; le
famiglie opulente non vìssero più in solitarj casali, ma in città
piene di commercj e di studj. «Quanta sia la bontà di quella regione si
può giudicare dalla frequenza degli abitatori, e dalla ampiezza e
opulenza delle città; nelle quali cose i Romani di quelle
parti sovràstano a tutti gli Italiani» (Strab.). Troviamo ancora
nelle làpidi di quel tempo, i nomi delle famiglie insùbriche,
scritti con romano costume; Albucio figlio di Vindillo, Banuca figlia di
Magìaco, Surica di Dunone, vestigia d'un passato che si va dileguando.
La legge romana sostituì all'incerta communanza cèltica il
diritto di piena proprietà; e così propose alle famiglie le
grandi aspettative del futuro, le animò alle grandi òpere
territoriali, alle irrigazioni, agli scoli. Le antiche arginature etrusche si
prolungàrono lungo l'alveo del Po; già Lucano le descrive.
L'Insubria, già vastamente irrigua (ob aquæ copiam, milii
feracissima. Strab.), si coperse di ubertosi poderi, che consèrvano
ancora i nomi delle famiglie innovatrici: Campagne-Valerie, Villa-Pompejana,
Isola-Balba, Balbiano, Corneliano, Albuzzano. Represso l'uso delle prede, gli
armenti celati nelle Alpi scèndono al piano; la palude abitata da feroci
cignali diviene plàcida praterìa, dove i garzoni di Virgilio
àprono e chiùdono i rivi. I colli fioriscono
d'àrbori fruttìferi (planities felix... collibus fructiferis. Strab.);
la vite delle Alpi Rètiche acquista grido; il ciriegio, il
pèrsico, il cotogno, il pomo d'Armenia sono propagati dai giardinieri
romani; il castagno dell'Asia Minore sale a nutrire i pòpoli fin sulle
cime dei monti; l'olivo, che ai tempi di Beloveso era ignoto in tutta l'Italia,
fa molle contorno ai laghi, coltivato forse dagli agricultori greci che
Cèsare chiama sul Lario, e che ripétono nei nostri villaggi i nomi di
Corippo, di Plesio, di Picra, di Lenno, di Delfo, dei Corinti e dei Dori.
Ma più ìntima e più
durèvole fu la mutazione che la legge romana introdusse nella vita
domèstica, annunciando alle bàrbare stirpi i sacri diritti delle
spose e della prole, i doveri dell'educazione, la providenza delle tutele, la
libertà dei testamenti, limitata dalle aspettative delle legìtime
eredità. L'ideale della matrona romana non uscì dai serragli
dell'Oriente, nè dai ginecèi della Grecia, nè dalla
càmera servile e dalla turpe morganàtica dei Celti e dei Goti;
per esso la donna di Virgilio si eleva ad immensa altezza sulle ancelle degli
eròi d'Omero; in esso sta il principio che distingue il contubernio dei
bàrbari dalla famiglia europèa; è una vasta emancipazione
che comprende d'un tratto la metà degli èsseri viventi.
La Cisalpina ebbe adunque leggi, famiglie,
municipj, strade, ponti, aquedutti, àrgini, irrigazioni,
magnìfici templi de' suoi marmi, terme, pòrtici, ville, delizie
d'arti e di fontane, teatri, librerìe pùbliche, grandi scuole,
scuole ove imparò un Virgilio. Nè questo è il solo dei
grandi Latini che nacque tra il Po e le Alpi; ma Catullo, Cecilio, Tito Livio,
Cornelio, i due Plinj. Insigni giureconsulti, molti capitani e magistrati,
alcuni imperatori dièdero lustro alle nostre città. Ma lo
splendore più puro e più durèvole è quello che le
lèttere diffòndono intorno alle sacre dimore dei grandi ingegni.
È un dolce e caro orgoglio quello d'incontrare negli scritti ammirati
dai sècoli i nomi dei nostri fiumi e dei nostri laghi, del curvo
Mella, e del plàcido Mincio, dell'Eupili e di Sirmione,
ancora oggidì non bene ìsola, nè penìsola, ma
dilettosa selva d'olivi. Nelle valli dell'Adda troviamo ancora i vini
rètici, il mele nutrito dalla flora virginea delle alpi; i vasi della
verde pietra comense sul torno dell'alpigiano. Possiamo assìderci
accanto alla fonte ammirata dal giòvine Plinio, il quale descrive le
delizie del suo Lario con quella mano che fu la prima a difèndere, non
per senso di propria salvezza, ma di lìbera e generosa giustizia, l'innocenza
del costume cristiano.
Tuttociò scaturiva da quel principio
municipale in cui presso l'interesse al bene stava l'immediata facultà
d'operarlo. Il gran municipio di Roma porgeva agli altri l'esempio d'ogni
splèndida cosa. Nè per certo avvenne mai che un pòpolo
possessore di sì vasto dominio avesse tanta brama d'immortalarsi con
òpere d'universale utilità, nè che la potenza andasse
congiunta a tali e sì culte menti, quali si vìdero in Catone, in
Cèsare, in Tullio, in Tàcito; nè che uòmini, quali
furono i giureconsulti romani, conservàssero per una serie di
sècoli dottrina di sapienti e autorità di legislatori.
XV.
Ma s'era quella una prosperità nuova e
grande per questa estrema parte d'Italia, trattenuta in barbarie dai Celti, non
così poteva dirsi della rimanente penìsola. La guerra sociale
aveva abbattuto le bellicose contadinanze della prisca Italia. L'intera patria
d'un pòpolo forte vedèvasi talora mutata in una squàllida
possessione d'un solo patrizio, che non poteva sfruttarla se non colle braccia
degli schiavi.
I Cèsari, come capitani del pòpolo
e promotori dell'emancipazione, si èrano recati in mano il comando delle
armi, il pontificato, il tribunato e altre dignità divise una volta fra
molte famiglie; ma per non alienare l'opinione che aveva dato loro quella potenza,
esercitàvano le sìngole parti di quell'accumulata
autorità, giusta le antiche fòrmule consacrate dalla religione e
dal tempo. – Pur tuttavìa non era confidata loro dai senatori e
commisurata, come quella dei moderni dogi; sotto nome e modi di magistrato, era
conquista di vittorioso nemico. Nel secreto delle menti patrizie stava una
profonda riprovazione, un indelèbile giudizio di illegalità, una
ferma memoria dell'antica eguaglianza; epperò tra l'affettata
popolarità e le parentele cittadine, il prìncipe confidava
sopratutto nelle armi, e viveva nel sospetto. Quindi tutto mirava a inspirare
in quelle superbe famiglie uno spìrito togato; i patrizj non
dovèvano frequentare gli esèrciti; gli esèrciti
èrano relegati lungo remote frontiere, dovèvano conòscere
solo i loro capitani; la milizia diuturna, perchè l'Italia non s'empisse
di veterani pericolosi; dura e pòvera, per la natura ancor selvaggia dei
luoghi; molesta al cittadino, perchè cresciuto alle largizioni, agli
anfiteatri, alla lìbera garrulità del foro. Di 120 Milioni di
sùdditi che pare avesse l'imperio dei Cèsari, si vuole che soli
sette avèssero diritto di Romani; e questi non potèvano dar mezzo
milione di combattenti, come si richiedeva a sì disparate frontiere, e a
tanti presidj terrestri e marìtimi. Fu necessità ricèvere
soldati d'altre genti, la cui mescolanza era nauseosa all'altiero romano. Il
moderno principio britànnico di fare una nazione d'officiali e un'altra
di gregarj, sarebbe stata più nell'interesse dei patrizj che dei
Cèsari. L'esèrcito adunque in poche generazioni non conosceva
pòpolo, nè senato; non era più romano; e dopochè
qualche conduttiere ambizioso seppe valèrsene per giùngere al
soglio, si vide troppo aperto che in tutto l'imperio non vi era altra forza e
altra legge che la spada del soldato. In meno d'un sècolo più
d'ottanta generali perirono, o nel tentare l'acquisto del regno, o nel
difènderne il fugace possedimento.
Allora Severo potè insegnare a' suoi figli
che il secreto unico della potenza e della vita era il favor degli
esèrciti; e in questa voràgine i suoi successori
precipitàrono le finanze dello stato. Dopo il 200 dell'era nostra l'arte
di regnare in Roma fu quella sola di trar denaro dagli inermi per saziare gli
armati. Le grandi famiglie senatorie si estinguevano; la plebe romana si era
sommersa fra più milioni di venturieri, venuti dal Reno e dal Nilo, dal
Tago e dall'Eufrate. Bastò un còmputo di finanza, perchè
Caracalla accomunasse a tutto l'imperio la condizione di cittadino, e rivelasse
al mondo attònito che quel pòpolo non era più; ch'era
sparito colla sua favella e colla sua religione, lasciando sotto al suo nome
una colluvie d'ogni gente e d'ogni cosa.
Trascinati dal principio fiscale, gl'imperatori
del sècolo III non curàrono più le strade e i porti, che avèvano
dato un'insòlita vita alle nazioni; le provincie aggravate non
èbbero forza di supplirvi; il commercio si arenò; le derrate
giacquero inùtili sui campi d'una provincia, mentre in un'altra si
moriva di fame. Perìvano i pòveri, impoverìvano i ricchi; àvidi
usuraj e magistrati impuni spogliàvano migliaja di famiglie, e per
semplicità d'azienda inondàvano i latifondi con turbe di schiavi;
gli arati divenìvano inculta pastura; le reliquie dei lìberi
agricultori riservate a rinovare in migliori sècoli la nazione, appena
si salvàvano nei recessi degli alti monti, che non si ponno coltivare
con braccia di servi; le fami, le pestilenze, le fiamme dei bàrbari, le
rapine dei masnadieri diradàrono rapidamente l'umana generazione.
XVI.
Intanto nella città si faceva sempre
più ardua l'esazione dei tributi; e colla miseria cresceva il
frèmito degli esèrciti affamati, e l'acerbità e la
disperazione del fisco. I magistrati municipali èbbero a
rispòndere del proprio pei cittadini insolventi; fùrono armati di
tutti i diritti del fisco, ma occupàvano terre deserte e case cadenti;
si ostentò povertà per fuggire i gravosi onori. Allora il fisco
li conferiva per forza; prendeva i beni dei magistrati, poi quelli delle mogli,
poi citava gli eredi; un collega doveva pagare per l'altro; chi si recava in
altra città, veniva cerco e ricondutto. Alcuni si facèvano
soldati, e il fisco lo vietò. In poche generazioni quelle
magnìfiche signorìe, che ripetèvano con decorosa
moderazione nei teatri e nei palazzi dei municipj le lautezze di Roma,
èrano un branco di pezzenti gabellieri.
Intanto nelle campagne si numerava e si tassava
ogni àrbore fruttìfero, ogni tralcio di vite; la tassa delle
piante che perivano, ricadeva sulle supèrstiti; allora il contadino, per
sottrarsi alle esazioni, estirpava i frutteti e le vigne; e la legge, che
inseguiva l'ombra della fugitiva agricultura, puniva di morte la morte d'una
pianta. Se le tribolate famiglie si disperdèvano, la mano della legge le
riconduceva in catena; ogni contadino si registrava servo della sua gleba; e
surgeva un nuovo modo di servitù, che forse nell'Europa orientale era
più antico, e oggidì non vi è peranco estinto. Il demanio,
possessore d'intere provincie, le offriva indarno al primo occupante; vi trascinava
dal confine i prigionieri bàrbari, che condannati ad un'arte ignota
nelle loro patrie, si spargèvano ladroneggiando, e vessando le reliquie
dei veri agricultori.
Anche le arti delle città si
spegnèvano ogni giorno. Sul principio del IV sècolo, Costantino
trovò necessario che ogni uomo salvasse l'arte sua tramandàndola
a' suoi figli. Nessuno doveva adunque mutarla, nessuno scèglierla a
piacimento; e come il discendente degli antichi signori era assegnato al
servigio municipale, e il contadino alla gleba, gli artèfici furono
ascritti alla paterna officina, e i nocchieri alla paterna nave; a tutti venne
interdetta la milizia; e l'uomo che nasceva per esser soldato si bollava sulla
mano; la popolazione fu smembrata in caste; le minute discipline, le aspre
pene, gli usi, gli abusi, stabilìrono una generale
servitù. Questi èrano gli infelici sùdditi che i moderni
istòrici chiàmano ancora i Romani, per dilettarsi a dire ch'erano
i vinti. E chi era dunque stato il vincitore?
Intanto i Sàrmati tenèvano presidio
nelle inermi città dell'Italia e della Gallia; i Franchi avèvano
in guardia, o piuttosto in preda, le frontiere del Reno; i Goti, quelle del
Danubio. Gli Alani del Càucaso erano custodi del palazzo imperiale, e
gli òrridi Unni della Mongolìa si pascèvano di carne cruda
sotto i pòrtici di marmo. I capitani di queste genti, Stilicone
vàndalo, Arbogasto franco, Allobego alano, Fràvita goto,
Ricimero, Aspare, Ardaburo, èrano i veri signori dell'imperio,
perchè il dominio consiste nelle armi, e l'autorità nella
consuetùdine e nella fiducia dei prìncipi. Essi facèvano
gl'imperatori, li disfacèvano, li uccidèvano. L'ùltimo di
quei simulacri di regnanti fu Ròmulo Augùstulo, figlio d'un
Oreste, venuto non si sa di qual nazione, e scriba d'Attila. – Infine le truppe
mercenarie, morendo di fame ai confini, cominciàrono a internarsi; si
confùsero colle orde che dovèvano respìngere, e colle
quali avèvano communanza di sangue e d'interesse; si prèsero, in
luogo d'imposta prediale, una parte delle terre cogli schiavi e col bestiame
che rimaneva. E poichè la milizia si era così proveduta da
sè, i tributi fùrono inùtili; l'òpera della
distruzione era compiuta.
Già fin dal 400 i nostri municipj
èrano a tale che S. Ambrogio li disse cadàveri di città.
– Eppure il gran flagello di Dio non era ancora venuto.
Ancora dopo il passaggio d'Attila, la nostra
Insubria nutriva qualche favilla di studj; e in Pavìa nasceva Boezio che
i Goti uccidèvano. Milano, sola forse tra tutte le città
dell'impero, si levò in armi contro i Goti, per vana speranza ch'ebbe di
soccorso da Costantinòpoli, la quale a difènderla inviava il goto
Mùndila. E il traditore spariva nel momento del perìcolo; e i
Goti, ingrossati dai Burgundi, trucidàvano tutti quelli che non si
salvàrono nei monti e nelle paludi. La città nostra giacque
smantellata, le vigne, gli orti, i broli, persino i paschi
si dilatàrono fra le sue ruine, e lasciàrono nomi di dolorosa
memoria alle piazze e alle vie; e rimàsero intorno alla squallida
cerchia le sole basìliche, fondate sugli antichi sepolcreti, e
risparmiate dai distruttori bàrbari, più forse che non dai
pòsteri ristauratori.
Sette sècoli dopochè la nostra
terra era sottratta alla communanza cèltica, e consegnata ai municipj
romani, tutta quell'òpera di civiltà pareva distrutta. Ancora
Bèrgamo stava solitaria sul suo monte, e Màntova fra le sue
paludi; e in mezzo alla campagna derelitta, si accampava in un recinto di legno
qualche squadra d'Èruli e di Goti, a cui la sorte (lot, loos)
aveva assegnato i pochi rùstici e i pochi bestiami, che
sopravivèvano su la vicina gleba. – Nei tempi anteriori, il Celta viveva
cogli uòmini della sua discendenza e del suo nome, aveva nel clano una
mòbile patria; e infine per ancorarsi a questa feconda terra aveva
confitto in luogo sacro gli immòbili vessilli. Ma Ricimero, Stilicone,
Odovacre, Clodovèo, Hastingo, Rollo, Guglielmo, Tancredi, erano
venturieri senza patria, che o giuràndosi a fortùiti capitani, o
traendo seco fortùiti seguaci, pronti a difèndere
qualsìasi padrone, a parlare qualunque lingua, a onorare qualunque Dio,
non altra legge seguìvano che quella della privata fortuna. Così,
dopo che la fiscalità bizantina aveva annientato ogni umana
libertà e dignità, quei lacci venìvano rotti dall'opposto
principio d'un ferino egoismo, che sprezzava ogni vestigio di civile
convivenza, e riduceva tutti i doveri dell'uomo a un patto di preda fra un
capitano e i suoi compagni.
XVII.
Ma in quelle città disfatte stava il germe
d'una nuova e più ìntima associazione, che nel nome d'un solo Dio
e nella parola d'un solo libro aspirava a ricongiùngere tutte le nazioni
d'Europa. Quando l'antico patriziato fu estinto, e fu tronca la tradizione dei
riti familiari, confiscata la terra sacra, gettato alla fornace il bronzo dei
simulacri e il marmo dei templi, sola rimase fra quella spaventèvole
dissoluzione la società dei Cristiani, che in Occidente era
pìccola e oscura, e ristretta a pochi borghesi, forse di patria
orientale e i più di greco nome. L'antica sapienza civile in mezzo a
tanta miseria pùblica doveva smarrirsi; non poteva più dire come
nel mondo vi fosse un principio regolatore delle umane cose. Ma nella
contemplazione d'un òrdine sovrumano, le sventure divenìvano
prove e occasioni di virtù; e un'intera vita d'indegno dolore diveniva
parte e condizione d'un'immortale esistenza. Si dièdero intieramente a
questi pensieri tutti i più fèrvidi intelletti. Milano, sede
imperiale, e fino all'arrivo d'Attila meno mìsera delle altre
città d'Italia, albergava Augustino nativo dell'Africa, e Ambrosio nativo
delle Gallie; i quali, e per dottrina, e per nome, e per virtù, appena
si accostàrono alla società dei Cristiani, ne divènnero i
più autorèvoli capi. Felice, Bassiano, Stèfano, Filastrio
reggèvano la nuova fratellanza in Como, in Lodi, in Cremona, in Brescia;
le famiglie fuggitive la disseminàrono fra i palustri ricòveri
della pianura e nelle interne montagne. Ma fu mestieri di quattrocento anni per
troncare del tutto le tradizioni aborìgene; alla fine del secolo VIII il
culto di Saturno sopraviveva ancora nell'estrema Val-Camònica (in curte
Hedulio); e le tribù dell'etrusca Màntova èbbero una
propria congregazione episcopale solo al principio del secolo IX.
XVIII.
La religione cèltica aveva le sue sedi
nelle foreste, la romana nelle mura dei municipj; e nei municipj le successe la
cristiana; il vìncolo morale fra le campagne e le città si
conservò adunque ad onta dell'occupazione barbàrica. Al
risùrgere della civiltà tutti i pòpoli, i cui sacerdoti
erano ordinati a Milano, a Brescia, a Pavìa, divènnero i
Milanesi, i Bresciani, i Pavesi. Queste minute nazionalità
cancellàrono ogni vestigio delle più antiche divisioni; nè
più l'alpigiano si segregò dalla pianura, come al tempo degli
Orobj e dei Reti. Pavìa divenne capo delle popolazioni che dal basso
Ticino salìvano sino ai gioghi degli Apennini; Milano, dalle campagne
del Po sparse il suo rito ambrosiano fino ai ghiacci del Gottardo; Como
penetrò vastamente per le valli, dalle fonti del Ròdano fino a
quelle dell'Adige; e quivi si trovò in confine con Brescia, ch'ebbe le
valli dell'Ollio, del Clisio e del Mella. Bèrgamo seguiva tutto il corso
del Brembo e del Serio fin presso Cremona; e i suoi confini
s'intrecciàvano intorno a Crema con quelli di Piacenza e di Lodi. I
dialetti che prima esprimèvano la sola origine dei pòpoli, si
risentìrono di questi riparti municipali. Presiedeva alle chiese delle
città minori il vèscovo della maggiore; e perciò Milano
ebbe primato in tutta la Liguria e la Rezia, da Gènova fino a
Còira, e forse a Costanza; ma le successive calamità e poi le
inimicizie municipali rùppero quei vìncoli; e Como, per sottrarsi
quanto poteva alla prepotente vicina, preferì di sottostare al lontano
patriarca d'Aquileja.
Perlochè queste nostre città,
piuttosto che cadàveri, erano corpi tramortiti. Tutte le preci, tutte le
scritture èrano nella lingua che i Romani avèvano dato
all'Europa; il nostro vulgo colla sua proferenza cèltica mutilava le
voci latine; ma in quel dialetto poteva intèndersi col vulgo vicino; e
da plebe a plebe v'era in potenza una lingua commune a tutte; le favelle della
penìsola non èrano più così disparate come
l'etrusca, la latina, la greca. V'èrano case e chiese, e avanzi ed
esempli di strade, di ponti, di mura; la vite era salita fino alle Alpi;
l'olivo aveva posto nido sulle riviere; il castagno pareva già un
àrbore spontaneo dei nostri monti; l'irrigazione non poteva cadere in
oblìo. Le famiglie mercantili, e nelle città, e nei rifugi dei
monti e delle paludi, non perdèttero le loro tradizioni; e anche nel
medio evo sèppero trovare per la via delle Alpi le rive del Reno,
continuarvi l'oscuro loro tràffico, prestar l'ingegno e le braccia a
edificarvi chiese e castella, che a que' pòpoli pàrvero fatte per
opera d'incanto.
XIX.
Molti dìssero che i Romani ammolliti
dovèvano coll'innesto dei bàrbari rifòndersi a nuova
virilità. Ma quando vènnero i bàrbari, nessuno poteva
più dire d'esser Romano; ogni lusso era estinto, e la gente indurita al
disagio. E la forza militare d'un pòpolo non risiede nei mùscoli,
ma nel consenso, nelle tradizioni, nella disciplina; al che la presenza dei
bàrbari nulla giovava, essendochè la milizia rimaneva privilegio
dei pochi, e i molti non potèvano dunque agguerrirsi. E i Goti
fuggiaschi inanzi alla ferocia degli Unni, divènnero àrbitri dei
nostri destini, perchè la legge bizantina faceva privilegio di stranieri
la milizia, onde non si sapeva più come un uomo potesse divenire un
soldato. I Goti, padroni dell'Italia e delle cento sue fortezze, non
sèppero conservarla, e in sessant'anni il loro nome era estinto; in
Gallia soggiàcquero ai Franchi; in Ispagna fugìrono inanzi agli
Arabi, e perdèttero ogni cosa in un giorno. – I Longobardi
entràrono chiamati: e tuttavìa non èbbero mai forza
d'occupar le marine, e di superare le nascenti difese di Venezia e le mura
inermi di Roma; e il loro dominio che cominciò col cranio di Cunimundo,
ebbe fine con una mìsera scena di viltà.
Oltralpe i duchi prèsero nome dai
pòpoli o dalle vaste terre; ma i capitani longobardi
s'intitolàrono dalle città; duchi di Spoleto, di Verona, di
Brescia; il che fa crèdere che vivèssero entro le mura urbane;
soggiorno che doveva ammansare il costume, e contribuiva, come le sedi
episcopali, a conservare importanza ai municipj. E questi sulle nostre pianure
èrano così vicini che appena v'era alcun luogo, che a distanza di
quìndici miglia non avesse una città; e perciò gli
òrdini feudali non si radicàrono così assoluti, come
là dove le popolazioni rimanèvano senza moderatori o testimonj
della loro oppressione.
Dopo Carlomagno, le famiglie longobarde
fùrono guardate con sospetto; e il predominio passò nel
sacerdozio, che, oltre al potere dell'opinione, acquistò quello d'una
possidenza, di cui nessuna legge limitava l'incremento. I conti e i capitani
dei Carolingi, o con voci moderne, i delegati provinciali e i commissarj
distrettuali, dopo l'editto di Kiersy divènnero ereditarj; e verso il
novecento, l'abuso vincolava alle famiglie anche i beneficj ecclesiastici,
sotto colore di patronato. In mezzo a questi due òrdini di nuovi
proprietarj, le discendenze longobarde smarrìvano il nome e i possessi;
e dopo il secolo XI è raro vedere nei documenti chi dichiari di
vìvere con quella legge. Nelle diete che si celebràrono sotto i
Carolingi, la maggioranza era dei conti e dei vèscovi, e presiedeva il
vèscovo di Milano.
L'imperio romano si era sciolto per la cessazione
dei tributi e l'occupazione delle terre fatta dalle milizie federate. L'imperio
carolino non si stabilì veramente mai, perchè non potè
instituire stàbili finanze. Cominciò con un'invasione per
sè transitoria, che distrusse un regno senza fondarne un altro; ma la
Chiesa adottò e perpetuò gli effetti dell'invasione,
valèndosi dell'imperatore eletto e coronato, come d'un capo della sua
milizia; onde fu quello veramente, come sonava il suo nome, un Imperio Sacro. I
suoi luogotenenti, quando non èrano prìncipi potenti per forza
propria, èbbero nelle diete e nelle città quel solo potere che i
prelati consentìvano, e ch'era pur necessario per conciliare al clero
l'ossequio della moltitùdine feudale.
L'irruzione degli Ungari fu la prima occasione di
risurgimento. Ogni abitato si cinse di mura, ogni casato alzò una torre;
l'Europa divenne una selva di fortezze. Il vèscovo Ansperto
ristaurò le mura di Milano alla fine del secolo IX; pochi anni dopo, il
vèscovo Ariberto devastava il territorio di Lodi. Quando i suoi
cavalieri feudali gli negàrono obedienza, egli armò la plebe
cittadina, e combattè a Campo Malo la prima battaglia popolare. –
Corrado il Sàlico, geloso di quelle insòlite armi, lo imprigiona;
ma egli fugge, gli chiude in faccia le porte della città; sostiene un
primo assedio; chiama dalla vasta sua provincia tutti gli uòmini atti
alle armi; e per dare a quella che fu la prima di tutte le moderne fanterie un
principio d'òrdine e di stabilità, pianta un altare sopra un carro,
e uno stendardo sopra l'altare. Quello stuolo di divoti, che colla picca in
mano si stringe intorno al carroccio consacrato, è il primo rudimento
della moderna società.
XX.
Un barone, ucciso un plebèo, si offerse a
pagar la multa dell'omicidio, giusta il prezzo che il sangue dell'ucciso aveva
nella tariffa della giustizia feudale. Ma il pòpolo fremendo si
armò, e uccise tutti i signori che incontrò per via; trovò
un capo in Lanzone, che lo condusse a diroccare le torri delle case feudali,
fra gli orti dell'ampia città. – Ariberto, meravigliato e dolente che
l'uso delle armi avesse tanto inalzati gli spìriti della plebe, le tenne
fronte; i suoi capitani armàrono contro la città tutti i servi
del contado; e così, senza avvedersi, preparàrono quelli pure ad
armìgera e lìbera condizione. Inesperti degli assedj, nella
barbàrica loro inettezza fècero un ridutto di legnami di fronte
ad ogni porta della città, stàndovi a campo tre anni, e
aspettando che la penuria domasse i sediziosi; ma Lanzone corse in Germania a
invocare presso l'imperatore il soccorso delle leggi; onde già si
palesava quella verità così perpetua nelle istorie, che gli
interessi naturali del principato e dei pòpoli sono in concorde
opposizione alla licenza feudale. – Irritato il pòpolo dall'ostilità
non paterna d'Ariberto, passò di ragionamento in ragionamento; volle che
le famiglie prelatizie, le quali nel loro seno eleggèvano il
vèscovo, rendèssero conto dei beni sacri che possedèvano
per eredità e simonìa; chiamò concubine le mogli dei beneficiati;
li strappò dagli altari; li espulse dalla città; l'omicidio e
l'incendio si spàrsero di villa in villa; Arialdo Alciato e i fratelli
Cotta versàrono il sangue in nome della chiesa; Ildebrando gli
ànimava da Roma al combattimento. – La contessa Matilde, la doviziosa
erede dei Longobardi di Toscana, divenne ardente nemica dell'ordine feudale; le
sue vaste donazioni ai Benedettini nella valle del Po divènnero asilo di
schiavi fuggiaschi, che ristaurati gli avanzi degli àrgini etruschi e
romani, le mutàrono in ubertose possessioni. Così dissipato il
patrimonio feudale, cresciute di popolazione e di ricchezza, e redente dai
patrizj le terre della chiesa, cominciò quella gran mutazione dei servi
in lìberi contadini, che per otto sècoli si estese in Europa. –
La prima onda di questa corrente si mosse dalla nostra patria, poco dopo il
mille.
XXI.
In quel sècolo le città d'Italia
tòrnano ad èssere stanza di pòpolo armato. L'uso delle
armi ravviva il senso dell'onore, soffocato dall'oppressione bizantina e longobarda;
l'onore gènera tutte le virtù; gli uòmini sèntono
di poter còmpiere un pensiero; e hanno l'audacia di concepirlo; le menti
aspìrano a tutto ciò ch'è bello e grande. Già
Venezia colle ricchezze del suo commercio fonda San Marco; il milanese Anselmo
Baggio, vèscovo di Lucca e poi pontèfice, edìfica in dieci
anni quel duomo. Pisa più gloriosamente fonda il suo, colle spoglie
degli Arabi che ha cacciati da Palermo. Tutto ciò avvenne una
generazione prima delle Crociate, le quali non fùrono dunque la
càusa del risurgimento europèo, come la turba dei ripetitori va
tuttora scrivendo, ma ben piuttosto uno dei più pronti effetti, e il
primo esercizio d'una forza che si espande. – Il principio vero del
risurgimento fu nel legìtimo possesso della milizia popolare.
Nel 1075 Urbano II adunò sui nostri
confini il concilio di Piacenza, e al cospetto di duecento vèscovi e di
quattromila sacerdoti fece giurare la crociata a trentamila guerrieri. La
canzone del passaggio, il grido d'ultreja, risonò per le nostre
città. – L'anno seguente egli raccolse in Arvernia il concilio di
Clermonte. Già in quella prima crociata (1096) si vìdero le
famiglie milanesi dei Selvàtici e dei Ro, e quella dei Rocj d'antico
nome ricordato nelle làpidi romane; Ottone Visconti conquistò allora
in Oriente lo scudo della serpe, che divenne la gloriosa insegna dello Stato.
Nel 1106 Milano si elesse con nome antico due
cònsoli, e prese forma di stato con un Consiglio maggiore e un Consiglio
secreto o Credenza.
I primi cònsoli dello Stato fùrono
dell'ordine dei capitani, che aveva in eredità le antiche magistrature
caroline, epperò grandi fèudi e numerose contadinanze. Avvenne
dunque che anco i minori gentiluòmini, o valvassori, a propria difesa
rendèssero stàbile la loro adunanza feudale o Motta (Gemote,
Meeting), e la trasformàssero in un magistrato di cònsoli. E
parimenti i mercanti e gli altri cittadini non compresi nell'orditura feudale,
èbbero un consiglio delle parochie urbane, che si chiamò Credenza
di Sant'Ambrogio. Questa giurisdizione consolare, proteggendo abbastanza
gli industrianti, rese inùtili le corporazioni e le maestranze; e con
ciò mantenne il foco sacro della lìbera concorrenza. Si svolse
così il nuovo diritto commerciale; e per l'universalità delle sue
forme e la irresistìbile rapidità della sua procedura, si divise
affatto e dal diritto feudale e dal canònico e dal romano, il quale non
poteva districarsi dalla lentezza delle ambagi forensi. I mercanti lombardi,
stabiliti oltremonte, tràssero seco i cònsoli di città in
città, e propagàrono il nuovo diritto per tutta l'Europa. – Le
tre credenze consolari presiedèvano a tre consigli, l'uno di
quattrocento, l'altro di trecento, l'altro di cento; e l'adunanza generale si
chiamò degli ottocento. Ma èrano sempre tre pòpoli con
diverso principio di vita, di leggi e di governo; l'uno rappresentava la
potenza territoriale, l'altro la forza militare, il terzo la mercantile; e a
parte rimaneva ancora il diritto canònico con tutte le giurisdizioni ed
immunità ecclesiàstiche. E non essèndovi un
prìncipe, in cui potèssero far capo i tre poteri civili, si
cercò al di fuori un giùdice supremo, che fosse patrizio
d'un'altra repùblica; e lo si chiamò podestà,
perchè appunto rappresentava la mano regia, e colla forza di tutti
sanciva la commune volontà.
Cominciò un'era d'esaltazione bellicosa.
In un castello del Lago Ceresio alcuni Comensi avèano ucciso due
fratelli Càrcano di Milano; le vèdove e i congiunti
vèngono sulla piazza del Duomo, mostrano al pòpolo le vesti
sanguinose degli uccisi, implorando vendetta. Il vèscovo Giordano esce
dal tempio, e pronuncia l'interdizione dei sacri riti, finchè il
pòpolo non abbia lavato quel sangue nel sangue degli uccisori. La
moltitùdine armata assale Como; gli abitanti, abbandonando a quel
subitaneo furore la città, si rifùgiano sulla rupe del Baradello;
poi, vedendo le fiamme accese dalla vendetta, si pèntono della loro
debolezza; discèndono impetuosi; còlgono i nemici fra la
confusione della vittoria, e li dispèrdono. Al ritorno, gli umiliati
guerrieri giùrano sull'altare di non deporre le armi, se prima Como non
è distrutta. Como arma tutti i suoi montanari, dai confini del Vallese a
quei del Tirolo; i Milanesi tràggono seco una lega di dòdici
città; navi armate combàttono sui laghi; artèfici genovesi
fanno castelli da guerra, e altre màchine della romana milizia, obliate
nell'abbrutimento dell'era gòtica. I Comensi, ridutti all'estremo,
sàlvano su le navi le mogli e i figli, si chiùdono nel castello
di Vico; e infine, dopo dieci anni di guerra, cèdono vinti, e
inàlzano intorno all'atterrata patria le capanne dell'esilio. – Si
direbbe che queste città inferocite còrrano alla loro
distruzione; eppure, fra quelle battaglie il pòpolo cresce; fra quelle
depredazioni si svolge un'insòlita prosperità; e dai
sècoli precedenti a quel sècolo v'è un trapasso come dalla
putrèdine del sepolcro al fermento della vita.
XXII.
Quando Federico I, fatto re di Germania nel 1152,
ebbe adunata la Dieta in Costanza, due cittadini lodigiani si fècero nel
mezzo con una croce di legno su le spalle, e gettàndosi a' suoi piedi,
invocarono giustizia contro Milano, la quale, dopo avere omài da
quarantadùe anni distrutta la loro città, opprimeva i cittadini
dispersi nella campagna. Federico desideroso di ridurre a obedienza Milano,
quando venne a convocare la Dieta Itàlica, sul piano di Roncalia alla
foce della Nura nel Po, fece umilianti comandi ai cònsoli milanesi
Oberto Dell'Orto e Gerardo Negro, i due famosi autori dei libri del diritto
feudale. Con quelle altiere intimazioni e colle più altiere risposte si
accese una guerra di trent'anni. – Tortona fu presa per sete; i pàllidi
e consunti guerrieri vènnero accolti in Milano, che mandò le
milizie di quattro porte a rialzare a sue spese la smantellata città. Nel
mezzo dell'òpera gli alleati imperiali assaltàrono i lavoratori;
alcuni capitani si rifugìrono dal combattimento in una chiesa. I
cònsoli milanesi impòsero loro una nobil pena, affiggendo i loro
nomi disonorati alle porte del duomo. – La piccola Crema arrestò tutta
la potenza dei feudatarj Germani e Itàlicì per sei mesi; e cadde
con tutti gli onori dei prodi sventurati. – Sotto il castello di
Càrcano, nel Piano d'Erba, Federico rovesciò e prese lo stendardo
sacro dei Milanesi; ma prima di sera era fugitivo in Como, le sue tende
èrano prese; i suoi alleati, prigionieri. – Intanto un incendio
distrusse i vìveri, accumulati in Milano per resìstere
all'assedio; Federico con centomila combattenti girò vastamente tutta la
campagna, troncando gli àrbori, ardendo le case, mutilando chiunque apportasse
vìveri alla città, ch'era divorata dalla più aspra fame.
Alla fine i cittadini domati uscìrono dalle mura; s'avviàrono al
campo di Federico, che, ritràttosi a venti miglia di distanza, aveva
lasciato fra l'esèrcito e la città il vuoto spazio della desolata
campagna. Prima trecento cavalieri depòngono al suo piede le spade e le
insegne; poi viene lo stuolo dei personaggi consolari; poi il carro del sacro
stendardo; poi tutti i combattenti, emunti dal lungo digiuno, colla croce su le
spalle. Al suono delle trombe municipali, il vinto stendardo cade, lo
sventurato pòpolo si atterra; i capitani vincitori rèstano
attòniti e commossi al pianto. Il solo Federico non si muta; comanda che
i vinti colle loro mani abbàttano ampiamente le mura, perchè
vuole entrarvi con tutto l'esèrcito in òrdine di battaglia.
Avventa le soldatesche contro la vuota città; e salve solo le chiese di
Dio, fa di tuttociò che appartiene agli uòmini un cùmulo
di ruine. I cittadini si spàrgono pei campi in tugurj di paglia.
Dopo che per cinque anni èbbero sofferto i
più gravi disagi, apparve un giorno fra i loro pòveri tugurj un
frate del convento di Pontida, seguito da squadre d'armati delle vicine
città. Veniva a ricondurli entro le mura e a rialzarle. – Tre anni dopo,
la potenza e la perseveranza di Federico èrano finalmente domate sul
campo di Legnano; era seminata di cadàveri tutta la landa tra l'Olona e
il Ticino; ed ei lasciando in mezzo alla strage le sue armi e il suo cavallo,
andava fuggitivo a celarsi, come la tradizione narra, in una caverna. – Alla
vittoria successe più tardi la famosa pace di Costanza (an. 1183), che
compose le ragioni dell'imperio colle necessità della guerra, in un modo
che rammenta l'antico stato dei municipj romani, accresciuto solo da un troppo
largo arbitrio di pace e di guerra. Nell'anno seguente Federico venne
òspite a Milano; allora si vide risplèndere la cavalleresca
cortesìa dei tempi, e nel pòpolo che lo accolse festoso, e nel
prìncipe che consentì a rialzare le mura di Crema, che aveva
smantellate. Così dal seno della distruzione surgèvano più
forti e più belle, Milano, Crema, Como, Asti e Tortona; il
circùito di Milano era dilatato sino alla fossa che ora è
navigàbile; Lodi fioriva nella nuova sua sede sull'Adda; e la colonia
municipale d'Alessandria segnava sul Tànaro il lìmite della
feudalità subalpina, ferma ancora nelle terre del Monferrato e del
Piemonte. Sulla nostra pianura era già tracciato il Naviglio del Ticino,
ancora studiato oggidì fra le meraviglie dell'arte moderna; pochi anni
dopo, il gran canale della Muzza faceva della pianura lodigiana un modello
d'agricultura, mentre al principio della guerra, tutto lo spazio fra Milano
Lodi e Pavìa era una così erma solitùdine, che quando vi
fu condutto Federico coll'esèrcito, credè d'esser vìttima
d'un tradimento.
XXIII.
Negli anni seguenti, le famiglie tribunizie dei
Marcellini e dei Cotta continuàrono ad estirpare la feudalità;
abolìrono le tariffe che sembràvano vèndere la licenza
dell'omicidio; persuàsero ai valvassori di rinunciare i loro
squàllidi fèudi ai capitani, per farsi lìberi
uòmini del commune; invàsero i fèudi del Monferrato e
della Savoja; e nel mezzo di quelli, costruìrono la rocca di Cuneo,
asilo ai fuggitivi. Federico II riaccese la guerra contro le città
lombarde; trasse in Lombardia le tribù àrabe della Sicilia e
dell'Apulia. I nostri intrèpidi padri le affrontàrono a
Camporgnano; allagarono di notte il campo nemico; lo avviluppàrono fra
un labirinto di fossi. – In quegli anni si vìdero generosi fatti. Il
pòpolo milanese, dolente dei soprusi feudali non peranco estinti,
ricusava di prèndere le armi contro i Pavesi, che devastàvano i
poderi dei capitani. I giòvani cavalieri escìrono senza il
pòpolo e respìnsero i predatori; ma nell'ebbrezza della vittoria
non serbando gli òrdini della prudenza militare, fùrono raggiunti
dai nemici nel ritorno, e messi alle strette. A quell'annunzio il
pòpolo, immèmore d'ogni altra cosa, corse alle armi, e giunse in
tempo a salvarli (an. 1242). – Panera Bruzzano, il più alto e più
forte dei nostri campioni, sfidato sul campo a singolar tenzone dal re Enzo,
figlio di Federico, lo vinse e lo fece prigione. Ma i Milanesi, senza far
vendetta dei prigionieri slealmente uccisi, lo lasciàrono lìbero,
a patto che non portasse le armi contro la loro città. – Voleva il
pòpolo abolita la legge che stabiliva a sette lire e dòdici soldi
il valore della vita d'un plebèo ucciso da un feudatario. Uno dei
signori da Landriano aveva ucciso a tradimento il suo creditore Guglielmo Salvo.
Il cadàvere sanguinoso, scoperto sotto un mucchio di paglia, portato a
Milano, ed esposto sulle piazze, accese di furore il pòpolo, che
cacciò tutti i capitani; quindi andò di terra in terra ad
espugnare le castella rurali. Si fècero molte paci; quella che fu detta
di S. Ambrogio riconobbe nelle famiglie dei cavalieri e dei cittadini egual
diritto a tutti gli onori consolari. Ma la legge bàrbara delle campagne,
e la legge romana delle città non potèvano stare in pace sullo
stesso terreno; la guerra era nella natura delle cose. Il pòpolo
cacciò di nuovo i capitani; rifugiati in Como, li perseguitò e li
espulse; ma nell'incàuto ritorno venne circondato fra le paludi di Prato
Pagano, e ridutto a dure condizioni. Vinse di nuovo, e cacciò i
capitani, che invocàrono il braccio del terribile Ezzelino. Questi passa
l'Ollio, l'Adda, giunge fino a Vimercato; ma le milizie di tutte le
città lo accèrchiano; ripassa l'Adda, è raggiunto, un
giòvine bresciano lo ferisce e lo atterra; condutto prigione nel
castello di Soncino, si squarcia le ferite e muore. Con lui cade la
feudalità nella Venezia, per frutto di battaglie combattute sul nostro
terreno.
XXIV.
Correva la metà incirca del sècolo
XIII. Spuntava l'era moderna; èrano i tempi in cui nacque Dante; omai la
nazione italiana era adulta e cominciava un nuovo òrdine di cose. Il
pòpolo colle armi alla mano aveva tratto dalla feudale ineguaglianza un
viver civile; ma la guerra, fra il risurgimento di tutte le industrie, tornava
a farsi arte; e i cittadini non potèvano nello stesso tempo
attèndere ai mestieri della pace, e pareggiare i giòvani delle
famiglie militari nel maneggio delle armi e dei cavalli. I magistrati
avrèbbero potuto agguerrire a spesa commune il fiore della
gioventù cittadina; pensàrono invece con fatale consiglio
d'assoldare cavalieri d'altro paese, non imbevuti d'odj cìvili. Il primo
capitano del pòpolo fu Oberto Pallavicino, condutto per cinque anni. Col
carroccio d'Ariberto era cominciata un'era d'esaltazione morale; collo stipendio
d'Oberto Pallavicino ricominciò un'era di morale debolezza. D'allora in
poi si vide un pòpolo di pazienti e ingegnosi lavoratori in lana, in
seta, in armi di famosa tempra, in metalli preziosi, esinanirsi nella fatica,
in pòvere case, sotto crescenti gabelle, colle quali i suoi capitani,
ora guelfi ora ghibellini, pascèvano squadre di mercenarj d'ogni parte
d'Italia e sopratutto Romani e Romagnoli, ma più spesso stranieri,
Catalani, Tedeschi, Guasconi, Bretoni, Inglesi, stradiotti d'Albanìa. In
ogni città v'era una o più fortezze; nel cui secreto le famiglie
dominatrici conducèvano una vita impopolare, spesso nelle
crudeltà e nelle dissolutezze, nutrendo migliaja di cani e di falconi e
sollazzàndosi con nani e menestrelli. Questa vita di sospetti senza
pensiero e di splendore senza dignità, durava finchè un vicino
più vìgile o più pèrfido, o infine un invasore
straniero, collo sproporzionato peso delle forze d'un regno, li snidasse da
quelle tristi delizie, e li precipitasse nell'antica oscurità. «Tal
fortezza fu a danno e non a sicurtà de' suoi eredi, perchè
giudicando mediante quella viver sicuri, e poter offèndere i cittadini e
sùdditi loro, non perdonàrono ad alcuna generazione di violenza,
talchè perdèrono quello stato come prima il nemico gli
assaltò...» (Macchiavelli).
XXV.
A domar l'ànimo bellicoso delle nostre
plebi contribuì un'istituzione che cangiava le arti in esercizio di
penitenza. Prima ancora d'Ariberto (an. 1014), alcuni cavalieri milanesi andati
in Germania prigionieri d'Enrico I, e nel tedio dell'esilio dàtisi a
vita laboriosa, fècero voto di perseverarvi anche rèduci in
patria. Il pòpolo li rivide con meraviglia nelle vie della città
con ampie vesti pelose e berretti di straniera forma; si chiamàvano gli umiliati;
e attèsero all'arte della lana. In breve èbbero trenta case
d'uòmini e trenta di donne; si trapiantàrono in tutte le
città d'Italia; Firenze deve loro quell'arte, che tanto conferì
alla sua potenza. Fondàrono ricòveri nei passi delle Alpi; e
d'ospizio in ospizio, difendèndosi col nome della religione dai rapaci
castellani che intercettàvano le strade, contribuìrono a
collegare l'industria di Milano colle piazze del settentrione e del
mezzodì.
Ma le austere opinioni insinuate per tempo nel
nostro pòpolo fermentàrono in sette religiose, che annunciàvano
la riforma della chiesa, del sacerdozio, della magistratura, delle pompe
cavalleresche. Il più formidàbile tra i riformatori fu Arnaldo da
Brescia, discèpolo prima in Parigi d'Abailardo, poi suo difensore. La
contrita e rìgida sua vita faceva meraviglia anche ai santi (Homo est
neque manducans neque bibens... habens formam pietatis... Cujus conversatio
mel... cui caput columbæ. S. Bern.). – Quando il vèscovo di
Brescia diede a un garzone di dòdici anni una ricca parochia, Arnaldo
rinovò le querele che Arialdo Alciato aveva levate in Milano;
inveì contro le famiglie, che vendèvano, infeudàvano,
donàvano come cosa propria i beni della chiesa: contro il pastore, che
dava in fèudo a cavalieri le regalìe della sacra mensa, per
fàrseli vassalli, e adoperarli in imprese profane e crudeli: contro i
beneficiati, che vivèvano con lusso mondano, e si tenèvano con
tìtolo di spose le figlie dei potenti. Voleva che i beni della chiesa
fòssero governati da un consesso di popolani, i quali, distribuito ai
sacerdoti un ùmile alimento, e compiuti i sacri riti, largìssero
il resto ai poverelli di Dio. Ma i violenti consigli accèsero la guerra
civile; Arnaldo fu costretto a fuggire sotto il peso di capitale accusa; sparse
in Zurigo le sue dottrine; errò per la Francia; e perì
miseramente in Roma, consegnato da Federico I a' suoi nemici. Nell'intervallo
tra i due Federici, il nostro pòpolo si ordinava in sette di vario nome.
L'inquisizione romana le represse col ferro e col foco; ma i cavalieri
ghibellini, nemici della chiesa, le ricettàrono nelle loro castella, le
protèssero armata mano, e cogli omicidj vendicàrono i supplicj.
L'inquisitore Pietro da Verona venne trucidato nelle selve del Sèveso,
un altro sul ponte di Brera, un altro nella Valtellina.
Finchè il potere ondeggiò tra i
cittadini guelfi capitanati dai Torriani e i feudatarj ghibellini capitanati
dai Visconti, la lutta delle opinioni durò dubiosa. Ma dopochè la
fortuna dei Visconti prevalse, essi mìsero ogni loro fiducia nelle armi
stipendiate e nelle fortezze, deprimendo con mano di ferro tutte le parti,
minacciando di morte chi solo di guelfì e ghibellini proferisse il nome.
Quindi, con industria poderosa e con vasto commercio di derrate e di banco, le
città lombarde non conòbbero quella lìbera cultura letteraria,
che il governo popolare per tre sècoli fomentò in Firenze;
sicchè parve che per fatto di natura l'ingegno fosse più potente
in Toscana che fra noi.
XXVI.
Verso i principj del dominio dei Visconti (an.
1311), troviamo fatta la più antica menzione dell'uso delle bombarde,
ossia delle artiglierìe, colle quali i Bresciani si difèsero
contro l'imperatore Enrico di Lussemburgo. Nel 1331 se ne fece uso all'assedio
di Forlì; nel
Dei Visconti i più fùrono
d'ànimo grande; alcuni pochi fùrono d'abjetta e quasi delira
crudeltà. Ottone e Mattèo, fondatori di quella potenza,
fùrono perseveranti e destri nelle avversità delle guerre e degli
esili. Marco, prode cavaliero, vinse gli Angioini sotto Gènova, il catalano
Cardona sul Po, Enrico di Fiandra sull'Adda. Azzone, signore di dieci
città, e in aspetto omài di regnante, favorì le arti,
chiamò Giotto a dipìngere il suo palazzo, fece il ponte di Lecco,
forse il maggiore che allora fosse, coperse le cloache, inalzò la torre
delle Ore. – Quando un poderoso esèrcito di mercenari, congedato dal
Signor di Verona, si prese a condottiero il ribelle Lodrisio Visconti, e venne
devastando orribilmente il paese fino a Parabiago sull'Olona; colà,
quasi su le medèsime campagne ov'era caduta la potenza di Federico
imperatore, si combattè sulle nevi una delle più sanguinose
battaglie del medio evo. Gli stranieri avèvano già ucciso uno dei
generali milanesi, e preso l'altro, ch'era Luchino Visconti, quando la
cittadinanza, agitata dal perìcolo di cader preda a gente senza legge e
senza pietà, sopragiunse in soccorso; strappò Luchino di mano ai
vincitori; fece prigione il vincitore Lodrisio, al quale il clemente Azzone
concesse la vita. Le menti infervorate nella mischia vìdero il patrono
del pòpolo S. Ambrogio, il cui stendardo si portava nelle battaglie,
scèndere dal cielo, dispèrdere i bàrbari a colpi di
sferza; e da quel giorno su le monete e le insegne popolari il mansueto pastore
si dipinse sempre in atto d'impugnare quello strumento della vittoria.
I fratelli Luchino e Giovanni fùrono
gentili òspiti al Petrarca. Fùrono signori in Gènova; e la
loro insegna sventolò sulle navi che in Morèa trionfàrono
di Nicolò Pisani. – Bernabò era l'ideale del ghibellino; non
temeva nè gli uòmini nè Dio. Quando i legati pontificj gli
si fècero incontro sul ponte del Lambro per intimargli una bolla
nimichèvole, egli impose loro di mangiar la bolla e i sigilli; ed era
uomo sì terrìbile che il suo comando fu obedito. Si compiaceva di
taglieggiare i poderi degli ecciesiàstici; e forse fu il primo che
pareggiasse i càrichi di tutti i beni, come ben tardi fece la rimanente
Europa. Mentre a Trezzo sull'Adda faceva gettare un meraviglioso ponte d'un
arco solo, suo fratello Galeazzo, ornando d'aque il parco di Pavìa, dava
l'esempio d'un gran giardino a paese; fondava l'università di
Pavìa; mandava ambasciatore il Petrarca in Germania e in Francia; e lo
induceva ad abitar lungamente. ora in romita parte della città, ora fra
i solitarj prati di Linterno.
Galeazzo assediava Pavìa. L'austero
agostiniano Jàcopo de' Bussolati esortò i cittadini a non
lasciarsi cadere in dominio d'un prìncipe. Quando li ebbe accesi delle
sue calde parole, aperte le porte da terra e dal fiume, li guidò ad
assalir le bastite nemiche, e le navi sul Ticino e sul Po. Vincitore, rivolse
la voce contro i Beccarìa, troppo più potenti che non la legge in
quella città; i cittadini gli si strìnsero intorno armati; egli
elesse venti tribuni; e quando ogni tribuno gli ebbe condutto cento armati,
intimò l'esilio ai Beccarìa, distrusse le loro case. – In un
nuovo assedio, colle gioje offerte in sacrificio da tutte le donne,
comprò i soccorsi dal Monferrato, liberò la città. – Ma in
un terzo assedio, involto fra la pestilenza e il tradimento, infine si arrese;
assicurò il destino altrùi, solo per sè nulla stipulando;
ma Galeazzo perdonò i suoi errori alla purità de' suoi costumi, e
generosamente gli impose di ritirarsi in un convento.
XXVII.
Il più grande dei Visconti fu quel Gian
Galeazzo, che primo si chiamò Duca, ed ebbe l'ànimo di porre le
fondamenta del nuovo Duomo, la più miràbile delle costruzioni
cristiane; nè pago di ciò, vi aggiunse quell'altra meraviglia
della Certosa di Pavìa. – Il venturiero Giovanni d'Armagnac comparve a
quei tempi sotto Alessandria con diecimila cavalli e molte fanterìe, e
insultò Jàcopo dal Verme chiuso nella fortezza. Ma il valoroso
capitano lo avviluppò, lo disfece, e in pochi giorni prese
l'esèrcito e il condottiero, che ferito, e accorato di tanta ignominia,
morì. Galeazzo pervenne a dominare trentadùe città, fra
cui Gènova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Nocera, Spoleto, Bologna,
Parma e Piacenza, la Terraferma Vèneta fino a Feltre e Cividale, tutte
le pianure del Piemonte; era quasi il regno dei Longobardi, ma pieno di
ricchezze e di vita. Infine egli intraprese a stringere del tutto la
repùblica fiorentina, occupando con dòdici mila cavalli e
diciottomila fanti tutti i passi dell'Apennino e dell'Arno. Voleva dopo la
vittoria comparire ei medèsimo in Firenze, incoronarsi re d'Italia,
quando la morte dissipò tutti i sogni di quella grandezza.
Più magnànimo che assennato, egli
non vide con quali interni vìncoli si stabilìscono i regni; e
morendo divise il dominio a tre figli minorenni; nè lasciò loro
altra sicurtà che la fede dei conduttieri. Tosto fu messo in brani lo
Stato; i Cavalcabò si fècero signori a Cremona, i Benzoni a
Crema, i Rusca a Como, i Sacchi a Bellinzona, i Vignati a Lodi, i Suardi a
Bèrgamo, i Malatesti a Brescia, i Terzi a Reggio e Parma e Piacenza;
Facino a Novara e Tortona e Alessandria; Siena tornò libera; il
Monferrato ebbe Vercelli; e la vèdova di Galeazzo, per amicarsi i
Vèneti, cedè loro Verona, Vicenza, Feltre, Belluno; e allora
cominciò il dominio vèneto in Terraferma, e un'era novella per quella
repùblica. Il solo Jàcopo dal Verme ebbe pari il valore e la
fedeltà. La discordia penetrò nella famiglia ducale e nel
consiglio secreto; Bucicault, luogotenente di Francia a Gènova,
chiamato, occupò Milano, spogliò i cittadini, falsò le
monete, e venne discacciato. Il giòvine duca, libertino e crudele come
Nerone, fu pugnalato da uno stuolo di patrizi. Allora Filippo Visconti,
sposando Beatrice Tenda, vèdova del conduttiero Facino, acquistò
le sue armi e le sue fortezze; e tosto con miràbile velocità
riebbe Vercelli, Como, Lodi, Crema, Bèrgamo, Brescia, Parma, Piacenza,
Gènova, Savona, Imola, Faenza e Forlì. – Bisogna che le
città una volta assoggettate o si facèssero propense a quel
dominio, più aspro che maligno, e veramente benèvolo
all'ùmile industria e ai lontani commercj, o fossero attratte dalla
vasta mole; le amministrazioni èrano pur sempre municipali; e pareva
migliore un prìncipe grande e lontano, che un vicino e bisognoso
oppressore.
XXVIII.
Era appena trascorso un sècolo, dacché
aveva cominciato la tarda libertà degli Svìzzeri; e già le
loro fanterìe di bronzo palesàvano la debolezza delle soverchie
cavallerìe dei conduttieri. Dopo che Carmagnola e Pèrgola
èbbero ricuperate a Filippo Visconti le valli della Toce e del Ticino,
le armi loro fùrono troppo vicine alle svìzzere. Il primo
incontro in quelle anguste gole riescì arduo agli uòmini d'arme;
ma Carmagnola, capitano d'alto intelletto, fatti smontare i suoi, li ricondusse
alla prova, e ne uscì vittorioso; ancora oggidì presso la Chiesa Rossa
d'Arbedo si addìtano le tombe dei vinti Svìzzeri.
Il più splèndido momento del
dominio dei Visconti si fu quando, vinti e fatti prigioni nella pugna navale di
Ponza (an. 1435) i due re Alfonso d'Aragona e Giovanni di Navarra della flotta
di Gènova, la quale portava allora l'insegna del serpente, gli illustri
prigionieri fùrono addutti nel castello di Milano; dove il nostro duca,
con più cortesìa che arte di stato, li pose in libertà, e
li onorò con feste suntuose. – Languiva allora da molti anni, nel càrcere
di Monza, il giòvine cavaliero Venturino Benzone, che aveva militato
nell'esèrcito del Carmagnola, già divenuto nemico di Filippo, e
passato al comando dei Vèneti. La figlia di Carmagnola lo voleva suo
sposo; ma il vecchio Giorgio Benzone, padre di Venturino, tuttochè
spoglio del suo principato e ramingo, sdegnò alteramente il parentado
del soldato, che nato contadino era salito a improvisa fortuna. Il disprezzato
Carmagnola si vendicò, abbandonando Venturino al nemico in una fortezza.
Il prigioniero, erede del ribelle signore di Crema, e preso colle armi alla
mano contro lo Stato, doveva morire; ma un zio, ch'egli aveva nella casa del
duca, gli implorò un indugio alla morte, e tanto fece che rimase obliato
nel càrcere. Senonchè nelle splèndide giostre date ai re
prigionieri, apparve un Gonzaga di Màntova così bello e prode
cavaliero, che nessuno dei campioni del Duca potè tenergli fronte. Ne
doleva fieramente al superbo Filippo. Allora il vecchio Corio, il zio di
Venturino, venne a dirgli che vi era pure nel suo Stato un guerriero, che solo
fra tutti poteva vìncere la prova. Il duca tutto lieto
acconsentì; Venturino, tratto dal càrcere, adorno d'armi
preziose, comparve improviso nell'ùltima giornata, come uomo che risurge
dal sepolcro; rimandò sconfitto il Gonzaga; ebbe la libertà, il
dono d'un palazzo in Milano, e d'un castello nell'Astigiana; e sposò la
giovinetta del suo cuore, la figlia di Princivallo d'Asti.
XXIX.
Nel 1421, Carmagnola era entrato in Brescia colle
armi di Filippo; cinque anni dopo, nello stesso giorno (16 marzo), vi
entrò colle armi vènete; per sei mesi ancora si combattè
intorno al castello; e solo al cader dell'anno Brescia fu tranquilla. Ma in
dòdici anni il generoso pòpolo s'affezionò tanto a quella
modesta e non umiliante signorìa vèneta, che quando il Piccinino
comparve con ventimila uòmini per ricuperarla a Filippo, era troppo
tardi. I Bresciani, sospese tosto le domèstiche inimicizie,
proferìrono al magistrato i loro averi, spianàrono le case dei
sobborghi, munìrono di ricche artiglierìe le mura; fècero
una compagnìa di quattrocento che chiamàrono immortali,
perchè altri dovèvano prender sempre il posto dei caduti. Il
nemico batteva le mura con ottanta cannoni; i cittadini battèvano le
chiese ov'era alloggiato; ogni giorno egli scendeva dai colli a
combàttere; ogni giorno gli assediati uscìvano dalla
città. Chiusi i tribunali e le officine, rifugiati nelle chiese i vecchi
e gl'infanti, tutti i cittadini èrano sulle mura; tutte le donne, sotto
il comando di Brìgida Avogadro, èrano tra il foco, a sollevare i
feriti, a dar mano alle òpere di difesa. Scaricate tutte le
artiglierìe per nascòndersi col fumo, Piccinino sboccò
dalle sue trincèe, diede l'assalto da due parti; fra il rintocco di
tutte le campane e le grida delle donne, cominciò all'alba un
combattimento che arse fino a sera. Il nemico respinto battè le mura per
altri dòdici giorni, poi le assaltò da tre parti; le
artiglierìe dei cittadini, mirabilmente appuntate, fècero strazio
delle file nemiche lungo il piede della breccia; gli elmi infranti e sanguinosi
èrano sbalzati duecento passi lontano; infine la battaglia stretta
sospese il foco; le donne versàvano dalle mura olio bollente e pece
infocata; si combattè fino a sera; poi tutto il dì seguente.
Piccinino aveva perduto settemila soldati; l'esèrcito fremeva
dell'inutile sua pertinacia; egli sciolse l'assedio, andò sul lago e sui
monti; lasciò la città tra la peste e la fame. – I Vèneti
mandàrono intanto su per l'Adige trenta navi; le tràssero per
terra dietro il monte Baldo; le lanciàrono inaspettate su le acque del
Benaco. I loro capitani, Taddèo d'Este, Sforza, e Gattamelata,
s'inoltràrono nei monti da una parte, mentre il bresciano Avogadro e il
conte di Lodrone tentàvano il passo dall'altra; ma un convoglio di
vìveri scortato da mille cavalli venne intercetto; le navi vènete
sul lago affondate o prese; Taddèo d'Este prigioniero. Allora tutto
l'esèrcito vèneto si spinse nelle valli del Tirolo; i Bresciani
uscìrono dai monti; Piccinino preso in mezzo e disfatto si riparò
con dieci cavalieri nel castello di Tenno. Ma nella stessa notte, l'astuto
capitano, giovàndosi della breve statura che gli aveva dato il nome, si
fece portar fuori in un sacco, come cadavere d'un appestato. Gettàtosi
in una barca, raccolse le sue genti in quella stessa notte; e mentre il nemico
lo credeva certa preda nel castello, egli volò a Verona, ove teneva
secreti accordi; scalò le mura; prese la città; ma non la
fortezza. I Vèneti delusi sopravènnero a furia; Verona, perduta
da quattro giorni, fu ricuperata. – Intanto a Brescia si moriva di fame;
l'inverno era asprìssimo; non v'èrano vìveri, nè
legna, nè strami; èrano agghiacciate le fosse della città;
e i nemici ad ogni istante sotto le mura. Attraverso alle desolate campagne
appena si poteva apportar combattendo qualche pane bagnato di sangue;
metà degli abitanti era perita, i supèrstiti si
sostentàvano d'erbe selvagge e d'animali immondi. – Ma sull'aprirsi
della primavera l'incostante Filippo richiamò Piccinino, lo mandò
contro Firenze; apparve sul lago una flottiglia vèneta; Garda e Riva
fùrono espugnate; Sforza vincitore passò il Mincio a insegne
spiegate. – I Vèneti invitàrono cento cavalieri Bresciani a
ricèvere le più solenni grazie del doge. Brescia rimase
sùddita; ma con autorità di mutare le sue leggi municipali, e con
giurisdizione su tutto il territorio; il nome vèneto divenne più
caro ai Bresciani, che in tutte le guerre d'Italia e d'Oriente fùrono
sempre pròdighi a Venezia di denaro e di combattenti. – I fatti di
quell'assedio pròvano due cose contro la maggioranza degli scrittori: –
che il fondamento del dominio vèneto non era il terrore, ma una
nòbile amicizia dei pòpoli, – e che le guerre dei conduttieri,
prima della discesa di Carlo VIII, non èrano di giostre pompose, ma di
fiere battaglie.
XXX.
I Duchi di Milano non avèvano un potere
nato coi pòpoli e intessuto alla legge e alla tradizione; èrano
privati; posti per forza e per arte disopra agli eguali. Quindi nelle case
ghibelline uno sdegno di quella grandezza frodata; e nelle case guelfe la fede
indelèbile ch'era un diritto tolto alla chiesa e al commune. La chiesa e
l'imperio fùrono sempre i due divisi principj, all'uno o all'altro dei
quali corrèvano le menti, bisognose d'afferrare un filo di ragione e di
stabilità tra le volùbili fortune dei conduttieri. I Visconti, in
mezzo agli uòmini d'arme e alle fortezze, dovèvano ancora
acquistarsi il tìtolo ora di Vicarj imperiali, ora di Vicarj pontificj.
Gian Galeazzo, egli che voleva morir coronato, pagò centomila scudi
d'oro il nome di duca. Quando il re Sigismondo scese senz'armi a cìngere
la corona d'Italia, l'astro dei Visconti impallidì; gli eredi dei
fèudi ghibellini accorrèvano al suono del nome imperiale. Indarno
il Petrarca già da lungo tempo aveva detto ch'era un nome vano e un
ìdolo; intorno a quell'ìdolo e nel suo nome essi
ritornàvano eguali, eguali per un giorno, ai loro armati signori. – Non
poteva Filippo Visconti mostrarsi fra il tumulto di quegli omaggi; parer sùddito;
non più prìncipe, ma gentiluomo di prìncipe. E si
rinserrava tenebroso e torvo nel suo castello di Porta Giovia, ad aspettare che
quella pompa di teatro, quella fedeltà di sediziosi trapassasse;
e rimanesse la sola terrìbile realtà della spada e della scure
nella sua mano. Ma le famiglie riportàvano nelle interne case rinovata
la memoria d'obedire alla forza e non al diritto; e l'inusitata pompa la
improntava indelebilmente nelle ànime dei loro figli. – Tutte dunque le
nostre istorie, così sotto i Cèsari come sotto i Duchi, e le due
calamitose decadenze che seguìrono, sono prove solenni che tra la forza
e il diritto s'interpone un insuperàbile abisso.
XXXI.
Alla morte di Filippo, alcune famiglie
vòllero creare d'improviso una repùblica sìmile alla
vèneta; ma èrano senza milizie nazionali, e i conduttieri di
Filippo le invòlsero in mille tradimenti. Nè un governo
municipale d'una sola città poteva trar seco le altre; e Venezia, che
pur lo doveva, troppo tardi prese a strìngerle in lega. Tuttavìa
per più di due anni si sostenne qualche sembianza di stato popolare; non
senza qualche prova di virtù. Vigèvano, una delle più
industri città del ducato, fece una valorosa resistenza a Francesco
Sforza; si vìdero le donne prèndere sulle mura le armi dei
caduti, combàttere anch'esse; uno stuolo d'assalitori, nel
discèndere per le ruine entro la città, scivolò sul
pendìo del terreno lùbrico di sangue, e stramazzò alla
rinfusa; parve quello un prodigio; parve che un'arcana mano li fermasse;
s'arretràrono tutti esterrefatti. Bastò quel respiro a salvar la
città, ch'ebbe il tempo d'arrèndersi, e scansare gli orrori del
saccheggio. – Francesco Sforza entrò in Milano dopo l'assedio come
Enrico IV in Parigi; i suoi soldati, càrichi di pane, si
lasciàvano depredare dalle turbe famèliche. Il primo pensiero del
nuovo regnante fu di ristaurare il castello, smantellato dai republicani; si
vide che gli Sforza non volèvano regnare sugli ànimi e cogli
ànimi; e il savio cittadino Giorgio Piatto predisse le sventure che poi
sopravènnero. Sforza ebbe pace dai Vèneti, perchè
Costantinòpoli presa allora dai Turchi (an. 1454) chiamò altrove
i loro pensieri. Francesco si mostrò sagace, non aspettando che la
rivale casa di Francia s'ingerisse del suo Stato, ma prese l'ùnica via
di sicura difesa, ponendo egli le mani nelle cose di Francia; e mandò
suo figlio a soccòrrere Luigi XI, stretto dalla ribelle lega del ben
pùblico. La facilità con cui le milizie italiane
abbattèvano le fortezze, fece stupore a quei pòpoli, e
palesò tutto il vantaggio che l'inoltrata civiltà degli Italiani
avrebbe dato loro in lontane guerre! Il re ne diede grazie al duca con solenne
ambasciata; non secondò le ragioni della casa d'Orléans
sull'eredità dei Visconti; e pose Sforza in possesso di Gènova e
di Savona; onde lo Stato Milanese ebbe di nuovo il nùmero di
quìndici città, fra le quali Parma e Piacenza, e quelle ora
piemontesi di Novara, Vigèvano, Valenza, Alessandria, Tortona e Bobbio.
Ma il vecchio Sforza tosto morì; suo figlio, fedele ai pensieri paterni,
difese la Savoja contro Carlo il Temerario; ma poco di poi fu pugnalato nella
famosa congiura di Lampugnano, Olgiato e Visconti. Barbaramente pomposo, quando
intraprese colla sua sposa un viaggio a Firenze, con accompagnamento di
cinquanta superbi corsieri, e d'una folla d'uòmini d'arme, e di
cortigiani ornati di collane d'oro e di velluti, con duecento muli da
càrico, due mila cavalli e cinquecento coppie di cani, rimase umiliato
dalla modesta e delicata eleganza fiorentina. – Poco dopo la sua morte, gli
Svìzzeri, discesi nelle valli del Ticino, tentàrono penetrare
nelle Tre Pievi del Lario; ma gli abitanti li còlsero fra quelle strette
e li respìnsero. Il governo Sforzesco volle snidarli allora anche dalla
Leventina, il cui pòpolo era secoloro in alleanza. Il conte Torello con
quìndici mila soldati e molte artiglierìe s'inoltrò nelle
valli; incontrò i Leventini, comandati dal capitano Stanga di Giornico,
che lentamente ritraèndosi, lo condusse in un piano, inondato ad arte
colle aque del Ticino. Era tardo dicembre; la notte rìgida converse la
valle in un campo di gelo; all'alba i Leventini, correndo sul ghiaccio colle
scarpe ferrate, assalìrono gli uòmini d'arme, che non potendo
reggersi in piede, cadèvano d'ogni parte alla rinfusa sui loro cavalli,
e sotto una frana di sassi, che i montanari dirupàvano dalle imminenti
balze. Ma il prode Stanga, càrico di ferite, al ritorno cadde moribondo
sulla porta della paterna sua casa.
XXXII.
Il ducato era salito a miràbile floridezza
colle arti della lana, della seta, dei metalli, e sopratutto delle armature;
oltre a' suoi mercanti e banchieri, stabiliti in Francia e in Germania,
possedeva il porto di Gènova e si giovava di quello di Venezia;
l'Amèrica si scopriva a quei giorni, il Capo di Buona Speranza non era
ancora girato; e la linea dei nostri laghi e del Reno era la gran via del
commercio dall'Oriente alle Fiandre, ove facèvano scala tutti i
pòpoli del settentrione. – Nel condurre entro la fossa della
città i marmi del Verbano, discesi pel Ticino e pel Naviglio, il triviale
ripiego d'una chiusa per superare il soverchio pendio delle aque aveva a poco a
poco fatto trovare la miràbile invenzione delle conche; per tal modo il
Lario per l'Adda, e il Verbano pel Ticino, si riunìvano sotto le mura
della città. – Nell'architettura civile s'introduceva allora la varia e
signorile maniera bramantesca, che può dirsi propria di quel
sècolo e del nostro paese, e sola forse fra tutte le varietà di
quell'arte si mostra pieghèvole in tutto al moderno costume. Fioriva la
pittura con Gaudenzio Ferrari, coi Luini, con tutta la scuola di Leonardo, che
dipingeva allora la sua Cena, e architettava la cùpola delle Grazie. Le
famiglie dei Piatti, dei Calchi, dei Grassi fondàvano scuole di
lèttere e di scienze dove l'insegnamento del càlcolo e della
geometrìa diveniva un sussidio alla potenza industriale. D'ogni parte
fiorivano le lèttere italiane e latine; e nelle nostre chiese si
vèdono i sepolcri degli èsuli greci, che diffondèvano
colla loro lingua la varietà e libertà dell'antica filosofia.
XXXIII.
Ma gli Sforzeschi, già pericolanti per
l'usurpata eredità dei Visconti, accrèbbero il pericolo colle
discordie, vòllero spogliarsi anche fra loro; e tràssero sopra il
loro capo e sopra la divisa Italia la più spaventosa tempesta. L'Italia
era piena di forze e d'ingegni; per tutto ciò che nella milizia di mare
e di terra è arte, superava di lunga mano tutte le nazioni; ma ogni cosa
era instàbile e arbitraria; ogni prìncipe aveva disegni suoi;
ogni capitano, che avesse una bandiera di soldati, non viveva senza speranze di
conseguire coll'arte o colla forza un principato. La rete d'una polìtica
inestricàbile inviluppò mani e piedi alla nazione, che fu da
inetti nemici barbaramente spogliata e insanguinata. Lo Stato sforzesco era una
raunanza di municipj senza nodo di consenso; anche le menti migliori
pensàvano alla propria città, nessuna alle altre, nessuna allo
Stato. E sempre risurgeva la fatale difficultà d'un governo, che, non
avendo radice nelle tradizioni e nelle opinioni, non nutriva fiducia nei sùdditi;
li amava più divisi che unànimi; più inermi e dappoco, che
guerrieri e risoluti; riponeva sempre il sommo della speranza nelle castella e
negli uòmini comprati. E gli Svìzzeri, comprati da Ludovico il
Moro, a Novara lo vendèttero a' suoi nemici. In pochi anni tutte le città
vènnero saccheggiate e contaminate ad una ad una. Lodi in
trent'anni circa fu presa quìndici volte: fu saccheggiata
da Svìzzeri, da Spagnoli; fu campo di battaglia tra Spagnoli e
Vèneti. Le famiglie seminude fuggivano a Crema. Durante la lega di
Cambray, i Cremaschi, disperando della fortuna di Venezia, accettàrono
presidio francese: ma vènnero disarmati e depredati; si
cacciàrono dalla città tutti gli uòmini dai 15 ai 60 anni.
Cittadini e contadini la riprèsero allora valorosamente ai Francesi;
assediati di nuovo dagli Svìzzeri, li sorprèsero e
tagliàrono a pezzi a Ombriano. Ma la guerra aveva desolato le campagne,
e dissipati i capitali; e la peste in così angusto territorio
divorò 16,000 persone. Le donne, i fanciulli, le monache stesse
fuggivano d'ogni parte a Lodi; non si può dire in quale delle due
città si vivesse peggio. Il più lungo strazio fu in Milano, ove,
dopo una pestilenza che aveva distrutto cinquantamila abitanti, gli Spagnoli
imperversàvano rubando, uccidendo, estorcendo denaro colle catene e coi
tormenti, prendendo in pegno le donne, costringèndole a portar terra
alle fortificazioni, spogliando ignudi la notte quanti incontràvano per
le vie, scalando le finestre, e trucidando chi gridasse o resistesse. Le
nazioni che fècero sì indegno scempio d'un pòpolo che non
le aveva offese, e che colle arti, colle lèttere, colla scoperta d'un
nuovo mondo le onorava e beneficava, non hanno veramente a rispòndere di
quegli eccessi ora troppo lontani e sommersi tra le memorie del passato; ma
dovrèbbero almeno vergognarsi di vituperarne le vìttime e di
commendarne gli autori.
XXXIV.
Il ducato non mancava di forze militari; aveva
tesori d'industria, tesori di crèdito; ancora le vie di Parigi e di
Londra pòrtano il nome de' banchieri lombardi; lombardo in Francia
suonava banchiere; e chi aveva denaro aveva soldati. Non era il
pòpolo di Francia che combatteva le battaglie de' suoi re. Quando
Francesco discese in Italia, aveva 22 mila fanti tedeschi, e poche centinaja di
gendarmi francesi; e ancora in quel corpo non francese, l'anima, la mente era
italiana; era Trivulzio, l'implacàbile nemico della fortuna sforzesca.
Trivulzio deluse gli Svìzzeri che avèvano chiuse le alpi, finse
d'avviarsi per le consuete vie; ne divisò altre nuove e inaccesse;
scavò le rupi come Annibale; trasse i cannoni a braccia come Napoleone;
come falco che piomba dalle nubi, sorprese Pròspero Colonna seduto ne'
quartieri di Villafranca; con una corsa senza battaglie mise il re di Francia
in Milano. Fu l'esèrcito vèneto che minacciando gli
Svìzzeri alle spalle, li costrinse a svèllere le bandiere dal
campo di Meregnano. Fu Pròspero Colonna che alla volta sua piombò
sopra Milano, quando Lautrec dormiva; e gli Spagnoli che saccheggiàrono
Como, èrano suoi soldati. Ma gli Stati d'Italia non avèvano un
principio civile, il quale potesse unire questi prodi sotto un'insegna, che non
fosse quella dell'odio domèstico o della privata fortuna; v'era una
tradizione di diffidenza e di perversità nei consigli delle corti. Poco
prima della prigionìa del Moro, seimila ghibellini si armàrono in
odio al Trivulzio, lo cacciàrono di Milano; ma Ludovico non badò
a quel valore; mercantava in quel momento medèsimo gli Svìzzeri
che dovèvano tradirlo. Il cancellier Morone cacciò un'altra volta
Trivulzio colle forze dei cittadini; poi li condusse alla presa d'Asti e
d'Alessandria; poi colla voce del frate Andrèa Barbato li accese di
nuovo alle armi sulla piazza di S. Marco; li condusse sui prati della Bicocca
ad affrontare gli Svìzzeri, e rimandarli pesti e sanguinosi alle loro
montagne. I giòvani seguìrono un'altra volta il loro duca, e
cacciàrono i Francesi d'Abbiategrasso; ma tra le spoglie dei caduti
raccòlsero il germe d'una pestilenza che divorò cinquantamila
cittadini. Un altro dei nostri, il Mèdici di Meregnano, consumava
indarno il suo valore a fondarsi un principato sopra una rupe del Lario; si
vendeva agli Spagnoli, ministro d'orrìbile esterminio a Siena. Il
Morone, il Trivulzio, il Meregnano, e altri uòmini di siffatto vigore,
che vìssero o prima o poi, rimàsero sconnessi e inùtili
frammenti d'una màchina poderosa, che in pugno a un vero
prìncipe, e animata da tanta opulenza e da tanto crèdito, poteva
scuòtere l'Europa ben più che le poche turbe collettizie del re
Francesco.
XXXV.
La più funesta e sanguinosa sventura fu
quella di Brescia. La giornata di Ghiara d'Adda aveva distrutto le forze
terrestri de' Vèneti, i quali con accorgimento profondo sciòlsero
dal giuramento le città suggette; nè vòllero insanguinarle
colla difesa, certi che la preda avrebbe diviso i vincitori, e la licenza
militare avrebbe offeso i pòpoli, e assicurato il riacquisto. E per
verità il volùbile Giulio II si volse tosto contra i Francesi;
Pàdova e Vicenza li cacciàrono. Un Martinengo tentò lo
stesso in Brescia, ma vi perdè la vita; la Francia prese in ostaggio i
primarj cittadini, e introdusse in città nuove genti, che acquartierate
nelle case insultàvano al domèstico onore. La città
fremeva; nove cavalieri, Rosa, Paitone, Rozzone, Valgoglio, Fenarolo, Lana,
Gandino, Lantana e Martinengo, su la pietra d'un altare giuràrono di
mèttere i beni e la vita a redimer Brescia alla legge vèneta. Il
conte Avogadro faceva altro simil patto con Venezia; le case di Brescia si
empìrono d'armati; al prefisso giorno il generale vèneto
passò l'Adige, giunse presso sera a Montechiaro; ma fu visto. Pochi
momenti dopo, l'annuncio era in Brescia; fra il silenzio della notte fatale i
Francesi scaricàrono d'improviso tutte le loro artiglierìe; e
armati e rumorosi còrsero tutta la città; i Vèneti, giunti
sotto le mura, le vìdero piene di nemici. All'alba i nomi di trenta
cavalieri bresciani fùrono gridati ribelli; – la morte, a chi li
ricettasse; – i loro beni e il grado di capitano di Francia, a chi li
scoprisse. Fenarolo, trovato entro un sepolcro in una chiesa, si
pugnalò; recato alla rocca, si mise le mani nella ferita e si uccise; un
Avogadro, un Ducco, un Riva fùrono tratti al patìbolo. Ma l'altro
Avogadro, che aveva armato gli uòmini di Val-Trumpia, raccolse i
fuggitivi, che duràrono tutti nel propòsito. Gritti e Baglioni
ricondùssero sotto Brescia l'esèrcito vèneto; Avogadro vi
trasse diecimila montanari; si diede nelle trombe e nei tamburi da tutte le
parti ad un tempo; Martinengo trovò modo d'arrampicarsi entro le mura;
ruppe una porta; le altre, al grido di San Marco, fùrono prese
dai cittadini. Ma Gritti, venuto a tutta corsa e senza artiglierìe, non
volle assalire immantinente il castello; e perchè i montanari ne
mormoràvano, ne sviò settemila a espugnare le fortezze del
contado, e soccorrer Bèrgamo che combatteva. – Era l'esèrcito
francese a Bologna, capitanato dal giòvine prìncipe reale,
Gastone di Foix, che poco di poi morì sul campo di Ravenna. Egli si
mosse immantinente; attraversò il Mantovano, senza dimandar licenza a
quel prìncipe; sorprese strada facendo Baglioni e lo disfece; sorprese
altre genti vènete stanziate a Castanèdolo; giunse a Brescia, che
il castello si teneva ancora; il cavalier Baiardo circondò il monasterio
di S. Floriano difeso da mille Trumplini, che non s'arrèsero, e
morìrono tutti. Gastone, al giovedì grasso, discese dal castello
in città con dòdici mila uòmini, comandati dai primi
cavalieri di Franda. Cadeva la neve; battèvano a martello tutte le
campane della città; dopo due ore di calda battaglia, i cittadini
èrano ancora fermi ai serragli delle strade, quando alcuni mercenarj dei
Vèneti dièdero indietro; i Francesi incalzàndoli si
spìnsero lungo il bastione fino ad una porta murata; la
sfondàrono; tràssero dentro altre genti; i cavalleggeri albanesi,
che si vìdero il nemico alle spalle, abbandonàrono il posto,
rùppero un'altra porta, e si dispèrsero nella campagna. La gente
d'arme del cavalier d'Allegre entrò a squadroni per la porta
abbandonata; s'incontrò in Ludovico Porcellaga, che, tutto solo, non però
retrocesse; anzi spronato il cavallo, gettò di sella il D'Allegre; ma
rimase oppresso dalla turba. Sopragiunse a furia suo fratello Lorenzo
Porcellaga; Gastone di Foix, che lo vide grande della persona e valoroso
combatter solo contra tutti, si tolse il guanto, si levò la visiera,
vietò a' suoi di ferirlo; ma egli combattendo a morte, cadde sul
moribondo fratello. – Alla notte Gastone si ricordò dei due prodi, venne
a raccòglierli; li accompagnò co' suoi cavalieri al Duomo, ove
fùrono deposti; fu visto piàngere sui cadàveri sanguinosi.
L'esèrcito vincitore, invadendo tutte le
piazze, spingeva qua e là le turbe indarno combattenti; scannava alla
rinfusa nelle strade e nelle chiese i sacerdoti, i vecchj, le donne cogli
infanti in collo; gli uccisi d'ambo i sessi fùrono diecisette mila. Per
sette giorni il crudel Gastone abbandonò le robe e i corpi d'un
pòpolo fedele e infelice a una soldatesca ubriaca; saccheggiato fino i
cenci dei poverelli al Monte di Pietà; saccheggiato il luogo degli
appestati; le meretrici dell'esèrcito stanziate nei monasterj; per molti
giorni file di carri onusti d'ogni maniera di spoglie uscìrono dalla
città. Avogadro fu decapitato alla presenza di Gastone, che lo volle
squartato, confitte le mìsere membra a quattro porte della città,
e il teschio su la Torre del Pòpolo. – Poco di poi gli Spagnoli
entràvano in Brescia; la quale ebbe tant'ànimo ancora che
tentò di cacciarli, e riunirsi ai Vèneti. Gli Spagnoli la
dièdero ai Francesi; e i Francesi, tre anni dopo averla inutilmente
straziata, la rèsero ai Vèneti; ai quali, benchè piena
d'armi e di spìriti generosi, rimase fedele per poco meno di tre
sècoli (an. 1787).
XXXVI.
Fra tante sventure, Màntova sola era
un'ìsola di pace e di sicurezza. Fin dai tempi della lega lombarda (an.
1188) Pitentino aveva costrutto la diga di Porto, sollevando le aque del lago a
difesa e salubrità; e aveva aperto colla chiusa di Govèrnolo un
fàcile accesso alle navi del Po: Màntova, pìccola Venezia,
resisteva per due mesi ad Ezzelino, che si vendicò estirpando le vigne e
uccidendo i contadini. Stava alla difesa il visconte Sordello di Gòito,
quegli che da giovinetto, appresa in Provenza l'arte del trovatore, spargeva
per l'Italia versi d'amore, e bersagliava d'ardite sirventi i
prìncipi neghittosi; nè l'amore della bella Cunizza sorella del
crudele Ezzelino lo faceva infedele alla sua città. Il suo senno vi
calmava l'ire cittadine; sventava i tradimenti; insegnava ai Mantovani a
chiùdere in serraglio la campagna a ponente della città,
onde inondarla a piacimento, e costrìngere i nemici a troppo vasta linea
d'assedio. Màntova fu dunque un asilo, ove molti cercàvano
sicurtà, màssime dopo che Pinamonte Bonacolsi, capitano del
pòpolo, prese ad abbellirla. Ma quando Passerino, fàttosi
oppressore de' suoi guelfi, ebbe rinovata la tragedia d'Ugolino, facendo morir
di fame, nella torre di Castellaro, Francesco Pico e i suoi figli, i signori di
Gonzaga, entrati in città coi Veronesi travestiti, uccisero il tiranno,
divènnero capitani del pòpolo. I Visconti non pòsero mai piede
in Màntova; l'assalìrono sempre indarno, anche quando, con otto
mesi di lavoro, tentàrono sviare il Mincio, e disarmare delle aque la
città. I Gonzaga, prodi conduttieri, prestando il braccio ora ai
Visconti medèsimi, ora ai Vèneti, ai Fiorentini, ai Francesi,
agli Spagnoli, dièdero perizia d'armi ai loro seguaci, e sembiante di
potenza militare al piccolo Stato, posto così a traverso al Mincio e al
Po. Francesco, l'amico di Carmagnola, ebbe il tìtolo di marchese di
Màntova. Federico, che difese Pavìa contro il re Francesco, ebbe
il Monferrato in dote di Margherita Paleòloga, e il tìtolo di
duca; Ludovico divenne in Francia duca di Névers, combattè cogli
Inglesi, respinse da Parigi il prode Coligny; Vincenzo combattè sul Danubio
coi Turchi.
Era la sicura Màntova piena
d'industria e di commercj; vantava splèndidi ingegni, fra cui basti
menzionare Pomponacio, che primo fra i moderni propose i più sublimi
dubj sulla necessità e la libertà. Il Mantegna e Giulio Romano èrano
chiamati a dipìngere le basìliche del pòpolo e le ville
dei duchi; vi si era diffuso un amore d'eleganza e di voluttà, che agli
altri Italiani, agitati da continui perìcoli, pareva quella una terra di
sirene. E così la stirpe guerriera dei Gonzaga si estinse nella
mollezza. – Venne di Francia Carlo di Rhétel, discendente dei Névers; ma
l'imperio non volle in un Francese un principato ch'era fèudo
dell'imperio; scoppiò la guerra; la città non più
agguerrita, desolata dalle fazioni e dai contagj, appena le mancàrono i
soccorsi vèneti, si arrese; ma non si ricomprò da un atroce
saccheggio, che straziò i tesori delle arti e sperperò il
commercio. Andàrono fugitivi i magistrati, sospesi i sacri riti; i pochi
avanzi del pòpolo non vàlsero a sgombrare le macerie, piene di
cadàveri insepolti. Dopo d'allora i signori di Màntova, piuttosto
che prìncipi, furono eleganti e lascivi privati. Nel 1707 Màntova
fu presa di nuovo, e abbattute le insegne ducali, diede giuramento all'imperio.
Per la prima volta in ottocento anni, una città così vicina a
Milano venne compresa sotto una medèsima signorìa; nè
più ne venne disgiunta.
XXXVII.
Le grandi calamità che desolarono il
nostro paese nella prima metà del sècolo XVI èrano tutte
esterne e materiali; non ferìvano il principio della sua vita,
perchè non troncàvano le tradizioni d'industria e d'intelligenza,
conservate dagli studj letterarj, dalle relazioni mercantili, dalla
lìbera concorrenza, dall'inviolàbile diritto consolare, dalla
potenza del crèdito. Quindi la ricchezza esàusta risurgeva
sempre, le menti èrano piene di vigore e d'alacrità, le arti
belle e gli eleganti costumi fiorivano tra i saccheggi e le pesti. – La
decadenza intima e vera cominciò colla seconda metà del
sècolo, quando, estinta la stirpe sforzesca, si fu rassodato il dominio
spagnolo. Il gentiluomo castigliano nella lunga lutta cogli industri Mori e coi
trafficanti Israeliti aveva preso odio e disprezzo ai mestieri e alle
mercature, come arti di caste infedeli e impure. La insurrezione dei Communeros,
e più tardi quella dei Paesi Bassi, avèvano inimicata ai municipj
la corte; e la sua profonda e dissimulata ostilità operò
lentamente, arrestando e logorando nelle interne sue rote l'azienda d'uno Stato
ch'era altamente industriale. – Già gli Sforza, per assicurarsi un soglio
vacillante, avèvano restituite alcune esenzioni ecclesiàstiche,
infrante dalla rìgida mano dei Visconti; e avevano aggravati di tasse i
cittadini. Quando il re Luigi XII si trovò signore di Milano, volle
conciliare le famiglie potenti, tenute in troppo stretta disciplina dai duchi.
E per verità doveva regnare da paese lontano, e aver pure qualche
stàbile fondamento di dominio; e capo d'un regno per eccellenza feudale,
forse non sapeva in qual modo si regnasse altrimenti. Instituì dunque un
Senato ch'era, al modo degli antichi parlamenti francesi, un tribunale supremo,
con diritto di registrare le leggi, ossia di limitare i decreti del re, difesa
lontana del principe contro l'importunità e l'arbitrio dei favoriti. Gli
Spagnoli, trovata quella istituzione, la promòssero, la rassodàrono,
la rèsero inamovìbile, la pòsero sopra tutte le leggi (etiam
contra statuta et constitutiones), le commìsero il giudizio delle
càuse feudali; e quindi il destino della nobiltà; – l'appello di
tutte le cause civili e criminali e l'ùnica giurisdizione in tutte le
càuse gravi; e quindi la sicurezza dei cittadini; – il riparto delle
imposte; e quindi tutto l'òrdine delle sussistenze, dei salarj, del
tornaconto, dell'industria nazionale; – il sindacato di tutta
l'amministrazione; e quindi l'obedienza dei magistrati; – la direzione degli
studj; e quindi l'intelligenza e l'opinione.
XXXVIII.
Il Senato invase in breve tutte le minori
giurisdizioni. Permise ai trafficanti di deviare dal foro mercantile, e con
ciò solo estirpò la fede pùblica, atterrò la potenza
della cambiale e del contratto, tutto l'edificio del crèdito. Sottopose
le arti a tasse ineguali, e coll'èstimo del mercimonio insinuò
il cavillo fiscale in tutte le vene dell'industria; poi, per temperarlo,
ricorse all'uso e all'abuso dei privilegi, e conturbò tutto
l'òrdine dei guadagni e della speculazione. Quando vide sùrgere
gigante la miseria pùblica, e assidua la carestìa, punì di
morte l'esportazione dei grani; avvilì l'agricultura; e fece primo
pensiero e arte suprema di governo il fornir di pane estimato e pesato la plebe
della città. – Le famiglie, che all'uso antico d'Italia
continuàvano anche nel colmo delle ricchezze un decoroso e nòbile
commercio, umiliate al confronto del più squàllido capitano spagnolo,
imparàrono a sprezzare la solerzia dei loro antichi, e
s'invogliàrono di purificare il sangue coll'ozio. Per esser decurione
della città; per sedere nel magistrato di provisione a regolare
l'annona, le strade e le osterìe; per èssere appena esente da
soprusi e insulti, non bastò più l'antica nobiltà
municipale; fu forza ridivenir nòbile all'uso castigliano, far voto
d'inerzia perpetua. Le fanciulle fùrono condannate fin dalla
nàscita a irrevocàbili voti, per provedere all'orgoglio dei
primogèniti. Cento chiostri si dilatàrono per la città,
vuota di famiglie e d'officine. L'òrdine degli Umiliati, che colle
ingenti sue ricchezze continuava le vetuste tradizioni di patronato mercantile,
fu estirpato; e i suoi capitali si spèsero in costruzioni suntuose, a
gloria de' suoi nemici, e in dotazioni d'òrdini nuovi che si credevano
più adatti ai nuovi tempi.
Gli immensi capitali che si giràvano a
Lione, a Parigi, ad Anversa, a Londra, a Colonia, vènnero gradualmente
ritirati; e s'investìrono in terre titolari, in ostentazioni signorili,
in elemòsine depravatrici della plebe laboriosa. I pòveri
artèfici, abbandonati dal capitale, perìrono nelle pestilenze,
nelle carestìe, nel diuturno avvilimento; molte arti già famose
si obliàrono; molte fùrono trasferite a Zurigo, a Ginevra, a
Lione, a Parigi; così le nazioni nuove s'inalzàvano a misura del
nostro decadimento. Dalla sola Milano si espatriàrono ventiquattro mila
operaj; di settanta fàbriche di pannilani, rimàsero cinque; il
fisco senatorio sentendo mancarsi il terreno, pesava tanto più
avidamente sugli avanzi sempre più miseràbili dell'industria
moribonda. Di duecentomila abitanti di Milano sparìrono 140 mila, e in
proporzione si spopolàrono le altre città; e i supèrstiti
vissero cenciosi, servili, abjetti, lenti, pieni di stolti terrori. I
più animosi si pòsero in clientela dei grandi, si fècero
ministri di violenze, di vendette, di puntigli insegnati alla novella
gioventù dai vuoti e oziosi Castigliani. Ne scaturìrono le
genìe dei bravi; e servìvano alle passioni delle stesse famiglie
prepotenti, che nelle leggi e nelle gride minacciàvano loro un teatrale
esterminio. Bande di scellerati signoreggiàvano le campagne;
spargèvano a luce aperta il sangue nelle stupefatte città;
tenèvano sacrìleghe gozzoviglie nei sacri asili;
insultàvano nelle chiese alle esequie degli uccisi. Talora la giustizia
vergognante e inferocita prorompeva in furori di crudeltà; insanguinava
le strade di supplicj studiati e crudeli; il patìbolo era di tempo in
tempo uno spettàcolo quotidiano; ma questi sforzi deliri e convulsi non
riaprivano le sviate fonti dell'òrdine e della giustizia. Uòmini
zelanti avèvano voluto, col ministerio delle nuove congregazioni,
rigenerare le famiglie al senno e al costume (an. 1545‑1566); e il
frutto che dopo due generazioni se ne mieteva, è descritto, e forse
troppo parcamente descritto, nei Promessi Sposi e nella Colonna
Infame. Ben v'èrano gli uòmini che isolàndosi dalla
commune corruttela e stoltezza, si collegàvano cogli studj al senno
antico o al progresso straniero. Ma non potèvano ròmpere il nodo
che l'interesse dei pochi aveva stretto coll'ignoranza dei molti. Pur tratto
tratto ponèvano mano a rappresentanze ed ambascerìe; le quali non
èbbero quasi altro effetto che di conservare ai pòsteri qualche
documento di buon volere, di senno e di virile eloquenza. Tali fùrono
Fabrizio Bossi e Cèsare Visconti (1630).
Se il ducato di Milano fosse stato l'imperio
romano, quello era il principio d'una terza barbarie. Ma l'antico ducato era
una mediocre provincia; e aveva già lasciato cader d'ogni parte le antiche
sue membra; Venezia teneva Brescia, Bèrgamo e Crema; i Grigioni, Bormio,
la Val-Tellina e Chiavenna; gli Svìzzeri esercitàvano una venale
giurisdizione sopra le valli del Ticino; la Val-Sesia e la Lumellina, e
più tardi Alessandria, Tortona, Voghera fùrono aggregate al
Piemonte; Gènova non portava più sui mari l'insegna ducale;
Pontrèmoli fu venduta alla Toscana; Parma e Piacenza èrano
patrimonio dei Farnesi. Ma per quanto una polìtica acciecata facesse,
per chiùdere le frontiere, troncare i vicendèvoli commercj,
ristrìngere il campo dell'industria e fare del pòvero Stato un
ricòvero di miseria, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia e la Germania
avèvano raccolto la nostra eredità; ci stàvano intorno
piene e traboccanti di vita e di progresso. – La nostra patria doveva
risùrgere.
XXXIX.
Al principio del sècolo XVIII era
miràbile il fermento che si vedeva nelle nazioni. La Russia si era desta
dal sonno dei sècoli; la Prussia era un regno; la stirpe
britànnica surgeva a inaspettata potenza, fondava un imperio nelle
Indie, e un altro e più glorioso in Amèrica. Il ducato di Milano
si era finalmente distaccato dal cadàvere spagnolo, e ricongiunto
all'Europa vivente. I dominj austriaci, varj di lingua, e dissociati di
civiltà, cominciàrono ad èssere uno Stato, e possedere un
principio d'amministrazione e d'unità. Ma se lo spìrito del
sècolo e l'ànimo della Regnante additàvano le grandi vie
del ben pùblico e della prosperità, gli esperimenti èrano
ardui. Nelle provincie germàniche, slave e ungàriche rara la
popolazione, rare le città, poche tracce o nessuna d'incivilimento
più antico, isolata la posizione su le frontiere di nazioni
bàrbare. In Fiandra v'èrano città lavoratrici e ubertose
campagne, e vicinanza di nazioni progressive; ma lo spirito dei pòpoli
era provinciale, tenace, diffidente. La Lombardia, che già sentiva
l'àura del tempo che veniva, e nella sua miseria era pur sempre una
terra di promissione, e aveva un pòpolo di mente aperta e d'ànimo
caldo e sensitivo, parve ai zelatori del bene come uno di quei campi eletti, in
cui l'agricultore fa prova di qualche novella semente. È un fatto ignoto
all'Europa, ma è pur vero: mentre la Francia s'inebriava indarno dei
nuovi pensieri, e annunciava all'Europa un'era nuova, che poi non riesciva a còmpiere
se non attraverso al più sanguinoso sovvertimento, l'ùmile Milano
cominciava un quarto stadio di progresso, confidata a un consesso di
magistrati, ch'èrano al tempo stesso una scuola di pensatori.
Pompèo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccarìa, Pietro Verri non
sono nomi egualmente noti all'Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria
dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma
fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d'annona e
d'aziende communali; e quell'ùnica volta degnamente corrispose a una
nòbile fiducia. Tutte quelle riforme che Turgot abbracciava nelle sue
visioni di ben pùblico, e che indarno si affaticò a conseguire
fra l'ignoranza dei pòpoli e l'astuzia dei privilegiati, si
tròvano registrate nei libri delle nostre leggi, nei decreti dei nostri
governanti, nel fatto della pùblica e privata prosperità.
XL.
S'intraprese il censo di tutti i beni, dietro un
principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una
moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d'ogni proprietà.
Gli ulteriori aumenti di valore che l'industria del proprietario venisse
operando, non dovèvano più considerarsi nell'imposta; la quale
era sempre a ripàrtirsi sulla cifra invariàbile dello scudato.
Ora, la famiglia che dùplica il frutto de' suoi beni, pagando tuttavia
la stessa proporzione d'imposte, alleggerisce d'una metà il peso, in
paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso càrico, e ricava
tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso
all'industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti.
Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmj
l'ubertà d'un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente.
Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che
col corso del tempo e coll'assidua cura il piccolo podere pareggiò in
frutto il più grande; finchè a poco a poco tutto il paese si rese
capace d'alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne
alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al
paragone di quelle bàrbare tasse che presso culte nazioni si
commisùrano ai frutti della terra e agli affitti delle case,
epperò rièscono vere multe proporzionali, inflitte all'attività
del possessore!
Il censo eliminò per sua natura tutte
quelle immunità, per le quali sotto il regime spagnolo un terzo dei
beni, come posseduto dal clero, non partecipava ai pùblici
càrichi, e li faceva pesare in misura insopportàbile sulle altre
proprietà. – Il censo divenne fondamento anche al regime communale; i
communi nostri divènnero tanti pìccoli Stati minorenni, che,
sotto la tutela dei magistrati, decrètano òpere pùbliche,
e ne lèvano sopra sè medèsimi l'imposta. Non si vìdero
più quelle stentate prestazioni d'òpere, di bestiami, di
materiali, ch'èrano spavento dei contadini, e strumento d'oppressione e
di corruttela. Si preparò un miràbile sviluppo di strade, con un
principio di manutenzione che interessò il costruttore alla
màssima solidità e semplicità di lavoro. Ma non è
questo il luogo d'annoverare tutte le riforme che s'introdùssero da quei
filòsofi: il riparto territoriale, il riscatto delle regalìe,
l'abolizione dei fermieri, la tutela dei beni ecclesiàstici, la riforma
delle monete.
Dalla metà del sècolo in poi si
attivò un'immensa divisione e suddivisione di beni; il numero dei
possidenti e degli agiati crebbe nella proporzione stessa in cui
crèbbero i frutti. Si cominciò a sciògliere i
fedecommessi, che unìvano nelle famiglie la noncurante opulenza dei
primogèniti con la povertà, l'umiliazione, la forzata carriera
dei cadetti e delle figlie. Si abolìrono le mani morte; si
rimìsero nella lìbera contrattazione i loro sterminati beni; si
alienàrono i pàscoli communali; si riordinàrono le
amministrazioni de' municipj; si rivocò l'educazione pùblica a
mani dòcili e animate dallo spìrito del sècolo e del
governo; si abolirono i vìncoli del commercio, la schiavitù dei
grani, quasi tutte le mete dei commestìbili, e i regolamenti che
inceppàvano le arti. La subitanea apparizione delle novelle merci
inglesi e francesi scosse il nostro torpore, fomentato dalle proibizioni
spagnole, e risuscitò per noi la vita industriale. Si apèrsero
strade; si sopprèssero barriere e pedaggi; si ridùssero a tre o
quattro ore le distanze tra città e città, che prima si
varcàvano a forza di buoi e a misura di giornate. Si abolìrono le
preture feudali, in cui per conto di privati si mercava la giustizia; si
abolì un Senato, sul quale pesava la memoria di supplizj iniqui e crudeli;
si abolìrono gli asili che i ladroni godèvano sui sacrati dei
tempj, e dietro le colonnette dei palazzi signorili; non si vìdero
più assassini nelle chiese; le sezioni anatòmiche fecero sparire
l'aqua tofana; si abolì la tortura, che puniva nell'innocente i delitti
dell'ignoto; spàrvero le fruste, le tenaglie infocate, le
orrìbili rote, l'inquisizione; in luogo di sotterranei fetenti e di
scelerate galere, si fondàrono laboriose case di correzione. Fin dal
1766, sei anni prima che si aprisse il càrcere di Gand, si era applicato
il principio della segregazione dei prigionieri; un giorno di cella scontava
due giorni di càrcere; si era dunque scoperto che la cella segregante
non era strumento di lieve correzione, qual èrasi creduto finallora, ma
una pena poderosa, applicàbile ai più gravi delitti, e capace di
far più terrore che la morte. Ma qual meraviglia che questi sagaci
pensieri nascèssero prima che altrove in quel paese dove Beccarìa
non solo era scrittore, non solo porgeva pùblico insegnamento di scienze
sociali, ma sedeva autorèvole nei consigli dello Stato?
I bastioni solitarj e paurosi, ove si
seppellivano i giustiziati, divènnero ombrosi passeggi; si tolse il
lezzo alle strade; e l'òrrida abitazione dei cadàveri si rimosse
dalle chiese; si sgombràrono dagli accessi dei santuarj i mendicanti,
ostentatori d'ùlceri e di mutilazioni; a poco a poco non si videro
più nelle città piedi nudi o àbiti cenciosi. Si
apèrsero teatri, ove le famiglie, inselvatichite da sette generazioni,
imparàrono a conòscersi, e gustàrono le dolcezze del viver
civile, della mùsica, della poesìa. Il genio musicale rispetta e
ambisce il giudizio del nostro pòpolo; un solo carnevale in uno dei
minori nostri teatri diede al diletto dell'Europa la Sonnàmbula e
l'Anna Bolena. Regnò la tolleranza di tutti i culti; e si aperse
òspite soggiorno agli stranieri che apportàvano esempj di
capacità e d'intraprendenza. S'introdùssero le scienze vive nella
morta Università; si fondàrono academie di belle arti;
rifiorì l'architettura, l'ornato riprese greca eleganza; s'inalzàrono
osservatorj astronòmici; si costrusse la carta fondamentale del paese;
si apèrsero nuove biblioteche; le madri tòlsero ai cuochi ed agli
staffieri la prima educazione dei figli. Soave rifece tutti i libri elementari;
Parini, Mascheroni, Arici ricondùssero l'eleganza letteraria,
indirizzàndola ad alti fini scientìfici e morali; Beccarìa
lesse economìa polìtica; surse a poco a poco quella costellazione
di nomi splèndidi alle scienze e alle arti, Volta, Piazzi, Oriani,
Appiani, cogli altri che la continuàrono fino ai viventi. Gli allievi di
tanto senno si spàrsero in tutte le provincie, e propagàrono in
tutte le classi quel fàusto movimento di cose e di idèe che ci
attornia d'ogni parte, e ci arride all'imaginazione.
XLI.
Abbiamo accennato a principio in quale stato la
natura desse ai primi nostri progenitori questa terra che abitiamo: al basso,
una vicenda d'aque stagnanti e di dorsi arenosi; all'alto, un labirinto di
valli intercette da monti inòspiti e di laghi. Abbiamo detto quali pòpoli
ci fùrono maestri, o almeno fratelli di cultura: i Lìguri, gli
Umbri, i Pelasghi, gli Etruschi, i Romani: e quali ne fùrono inciampo su
la via della civiltà, la quale tre volte s'arrestò e decadde:
nell'era cèltica, nella bizantina, nell'ispànica. Nessuna istoria
offre una più frequente alternativa di beni e di mali, e una più
manifesta prova di ciò ch'è veramente giovèvole, o
veramente avverso all'umana felicità. Il nostro incivilimento tre volte
tornò uno sfrondato tronco; e ogni volta nel rinverdire apparve
più rigoglioso e fiorito.
Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra
pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicchè il
botànico si lagna dell'agricultura, che trafigurò ogni vestigio
della vegetazione primitiva. Abbiamo preso le aque dagli alvei profondi dei
fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride
lande. La metà della nostra pianura, più di quattro mila
chilòmetri, è dotata d'irrigazione; e vi si dirama per canali
artefatti un volume d'aqua che si valuta a più di trenta milioni di
metri cùbici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch'è
tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all'intorno ogni cosa è
neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaje; onde, sotto
la stessa latitùdine della Vandèa, della Svìzzera, della
Tàuride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana.
Le aque sotterranee, tratte per arte alla luce
del sole, e condutte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse
sovra campi più bassi, scòrrono a diversi livelli con calcolate
velocità, s'incòntrano, si sorpàssano a ponte-canale, si
sottopàssano a sifone, s'intrècciano in mille modi. Nello spazio
di soli duecento passi, presso Genivolta, la strada da Bèrgamo a Cremona
incontra trèdici aquedutti, e li accavalca coi Trèdici Ponti. –
Alla condutta di queste aque presiede un principio di diritto, tutto proprio
del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo
vicendèvole passaggio, senza intervento di prìncipe, o decreto
d'espropriazione. Non è questo un vìncolo che infranga il sacro
diritto di proprietà; ma un'ùtile aggiunta al diritto, per
rèndere più fruttìfera ogni proprietà senza
eccezione.
Gli ùltimi scoli di tutte codeste aque
sono muniti ai loro sbocchi di chiuse, che arrèstano il rigorgo dei
tùrgidi fiumi. – Un canale attraversa per mezzo tutta la provincia
Cremonese dall'Ollio al Po; tutti gli aquedutti che còrrono a fecondare
la parte inferiore, lo attravèrsano con ponti di pietra,
lasciàndovi traboccare le aque che per avventura eccèdano la prefissa
misura; e se avviene che diuturne pioggie rèndano superflua
l'irrigazione, si chiùdono con porte gli aquedutti, e le loro aque
precipitate nel sottoposto scavo si devìano tutte nell'Ollio o nel Po. –
La provincia Mantovana è una terra conquistata sulle paludi; i suoi
canali di scolo sòmmano a 754 mila metri; le stesse aque che
accèrchiano la città, sono una palude trasformata per arte in
lago navigàbile.
Le linee d'interna navigazione, percorse in parte
da vaporiere, sòmmano a 1200 chilòmetri; e ripartite sulla
superficie ragguàgliano per ogni chilòmetro
Una volta impresso il moto, quest'òrdine
di cose si continuò uniforme attraverso alle più varie
vicissitùdini dei tempi. Ogni anno segnò sempre per noi qualche
nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale;
ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli,
poi distesa in veri boschi sui piani dell'Ollio e dell'Adda, e salita fino a mille
metri d'altezza nelle valli alpine, produttrice d'un'annua raccolta di cento
milioni di franchi, in un territorio che corrisponde alla 26.a parte
della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno
insalubri le irrigazioni; si mùtano in buone case i tugurj dei contadini;
pènetra in tutte le communi rurali il principio dell'istruzione; tolta
cogli asili dell'infanzia l'abjetta ferocia e la rozzezza ai figli della plebe;
gli studj delle lèttere e delle arti accommunati al sesso gentile; e
colle solenni mostre diffuso l'amor delle belle arti nel pòpolo, e un
àbito d'eleganza negli ùtili mestieri.
XLII.
Su la nostra pianura tutti gli abitati si
collègano con buone strade, che ragguàgliano in circa un
chilòmetro di lunghezza per ogni chilòmetro di superficie. La
rete stradale involge ormài tutte le colline, sino all'altitùdine
d'ottocento metri; trafora con gallerìe le rupi verticali che
interròmpono le riviere dei laghi; s'insinua nelle valli alpine,
raggiunge i sommi gioghi; difende contro le vallanghe i più alti passi
carrozzàbili che sìano sul globo. La via del Sempione, che fu il
modello di tutte, è òpera de' nostri ingegneri, che
condùssero anche quelle della Spluga e dello Stelvio. Ingegneri nativi
di quell'antica parte del nostro territorio che aggregossi alla Svìzzera,
tracciàrono le vie del Gottardo e del Bernardino. I nostri imprenditori
sono sparsi per le terre dei Grigioni, dei Tirolesi, degli Illirj, dei Boemi,
dei Galiziani, insegnando loro a protèndere attraverso ai monti i vìncoli
d'una crescente civiltà. Le nostre òpere stradali pòrtano
tratto tratto i segnali d'una magnificenza romana; il ponte che congiunge le
due rive del Ticino, a Buffalora, si stende per trecento e più metri con
ùndici arcate di granito. – Le strade ferrate non ci sono ignote; una linea
è compiuta da quattro anni; due sono cominciate; altre sono studiate e
discusse.
L'uomo con tutte queste òpere d'aque e di
strade ha preso possesso di tutte le terre coltivàbili; e ad ogni
condizione di terreno adattò un òrdine proprio di coltivazione,
un più ampio o più minuto riparto nella possidenza, un proprio
tenore di contratti.
XLIII.
È assai malagèvole pòrgere
una succinta idèa della nostra agricultura nelle diverse provincie, per
la strana sua varietà. Mentre in una parte d'un territorio il riso nuota
nelle acque, un'altra non può abbeverare il bestiame se non di vecchie
aque piovane o colaticce, o tratte a forza di braccia da pozzi profondi fino a
cento metri. Un distretto è continuo prato, verde anche nel verno, folto
d'armenti, ridondante di latticinj; un altro raduna a stento poco latte
caprino, coltivando piuttosto a giardini che a campi l'olivo e il limone, la
più elegante di tutte le agriculture. Nei monti si coltiva la
cànapa, ed è quasi ignoto il lino; intorno a Crema e Cremona il
lino è primaria derrata campestre, e la cànapa è negletta.
La pianura pavese si allarga in ampie risaje, poco cura il gelso; e la pianura
cremonese ne ha le più folte e robuste piantagioni. Il vino è la
speranza dell'agricultura in ambo le opposte estremità del paese, nella
boreale e alpestre Val-Tellina, e nelle australi pianure di Canneto, di
Casalmaggiore, e dell'Oltrepò. L'agricultura bresciana solca
profondamente a forza di bovi un terreno tenace; la lodigiana sfiora i campi
con un lieve aratro tratto da sollèciti cavalli, per non
sommòvere le pòvere ghiare, sopra le quali il lavoro dei
sècoli ha disteso uno strato artificiale.
XLIV.
Le circostanze naturali che vògliono
questa varietà nel modo di coltivar le terre, la vògliono anche
nel modo di possederle. Nella pianura irrigua un podere che non avesse certa
ampiezza non si potrebbe coltivare con profitto, perchè richiede
complicate rotazioni, culture moltèplici, difficili giri d'aque, e una
famiglia intelligente che ne governi la complicata azienda; quindi ogni podere
forma un considerèvole patrimonio. La famiglia che lo possiede è
già troppo facoltosa per appagarsi di quella vita rurale e solitaria, in
luoghi non ameni; dimora dunque in città; villeggia sugli aprichi colli e
sui laghi; e sovente conosce appena per nome il latifondio che la nutre in
quell'ozio. La coltivazione trapassa alle mani d'un fittuario, il quale per
condurre debitamente l'azienda debb'esser pure capìtalista; e ve ne ha
taluni più ricchi dei proprietarj, e talvolta possessori essi d'altre
terre, confidate ad altri coltivatori. Vivendo nel mezzo d'ogni abondanza
domèstica, circondati di numerosi famigli e cavalli, fòrmano
quasi un òrdine feudale in mezzo a un pòpolo di giornalieri, che
non conòscono ulteriori padroni. Qui surge un òrdine sociale
affatto particolare. Un distretto che abbia una ventina di communi e misuri un
centinajo di chilòmetri, conta in ogni commune quattro o cinque di
queste famiglie, che spesso vìvono in casali isolati, a guisa degli
antichi Celti. Sono sparsi fra mezzo a loro alcuni curati, qualche
mèdico, qualche speziale, il commissario, il pretore che amministra la
giustizia e le tutele famigliari. Questa è l'intelligenza del distretto;
tutto il rimanente è nùmero e braccia. Ogni coltivatore vende
grani, e compra bestiami, e òccupa fabri e falegnami; ma il commercio e
l'industria non vanno oltre; appena qualche bottega serve al rùstico
apparato del contadino. Si direbbe che questo è l'antico modello su cui
si formò l'agricultura britànnica. Ecco gli uòmini che sotto
le mura di Pavìa e appiè del castello di Binasco andàvano
senz'armi ad affrontar Bonaparte vincitore di Montenotte e di Lodi.
XLV.
Se dal fondo della pianura saliamo ai monti,
troviamo un ordine sociale infinitamente diverso. Le rìpide pendici, ridutte
in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, su le quali talora il
colono porta a spalle la poca terra che basta a fermare il piede d'una vite,
appena danno la stretta mercede della manuale fatica. Se il coltivatore
dividesse gli scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vìvere. La
terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si esèrcita
l'òpera dell'uomo, e officina quasi del coltivatore; e il paesano
è quasi sempre padrone della sua gleba; o almeno livellario perpetuo;
con altri patti le vigne e gli oliveti ritornerèbbero ben presto selva e
dirupo. Mentre una parte della famiglia vi suda, e alleva all'amore del suolo
nativo la pòvera prole; un'altra parte scende al piano ad esercitarvi
qualche mestiere; o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i
risparmj, che le danno la forza di continuare la sua lutta colla natura e colla
povertà. Un distretto di questa fatta conta tante migliaja di
proprietarj quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal suolo, e vi
s'investe come frutto delle arti o del tràffico. Laonde si vede una
singolar mistura di costumi rusticali e d'esperienza mondana, l'amore del lucro
e l'ospitale cordialità, la facilità di saper vìvere in
terra straniera, e l'inestinguìbile affetto di paese, che presto o tardi
fa pensare al ritorno. – In alcuni monti la possidenza privata è ancora
un'eccezione; il commune possiede vastamente i pàscoli e le selve e le
aque e le miniere; nè basta sempre l'esser nato da gente nata in paese;
ma bisogna appartenere ai patrizj del commune, agli originarj.
Senza avvedersi, essi consèrvano ancora una communanza, la quale rimonta
alle genti cèltiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso
romano; e non mai sofferse vera signorìa feudale, ma onorò solo
negli antichi conti e capitani il nome del prìncipe e l'autorità
delle leggi. Alcune di queste communanze, pochi anni or sono, tenèvano
ampie valli; la Leventina, lunga più di trenta miglia, era un solo
commune; e si suddivise prima in otto e poscia in venti; il distretto di Bormio
era un solo commune, e ancora conserva indivisa fra i nuovi communi molta parte
dell'antica proprietà. In molti luoghi il commune pìccolo si
distingue dal commune grande, o diremo la moderna parochia dal primitivo clano.
Questo regime appare più puro ed assoluto in quelle valli che si
aggregàrono alle leghe dei Grigioni, e sopratutto nella Mesolcina,
perchè sfuggìrono alle riforme dei governi amministrativi.
Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri
per l'agricultura; la neve le ingombra nove mesi dell'anno, ma le trova deserte
e silenziose. Chiusi i pòveri casolari, il pastore discende per le valli
coll'armento; gli uòmini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti
nelle ceste come le tribù dell'oriente. A brevi giornate di cammino la
carovana si arresta dove il contadino del piano l'aspetta; le vacche alpine
stànziano qualche giorno a brucare gli esàusti prati; poi,
inseguite dalle brine, pàssano a più bassi campi, fino ai prati
perenni. Quando la natura si riapre, la famiglia ritorna al suo viaggio, rivede
fioriti i campi che lasciò bruni e squàllidi; risale lungo i
tortuosi torrenti, trova i pochi che rimàsero nella valle a diradare le
selve, e sudare alle fucine; e si sparge sulle alpi, che così
chiama ancora quei pàscoli dove la primitiva communanza non conosce
altra disegualità che il nùmero degli armenti.
XLVI.
Fra questi estremi, sono le belle colline
coltivate come il monte, ubertose come il piano. Quivi una contadinanza, la
quale non possiede la sua terra, eppure non emigra, può tributare al
padrone il frumento, divider seco il vino e i bòzzoli, e serbar tanto
per sè da vìvere colla famigliola, e allevarla nel
sèmplice tenore de' suoi padri. Quivi un commune è disseminato in
venti, in trenta, in quaranta casali di vario nome, che la chiesa, posta sul
poggio più ameno, raccoglie in un commune sentimento di luogo.
Lìberi di coltivare la terra a loro talento, purchè non si
defràudi dal pattuito frutto il proprietario, essi le sono affezionati
come se fosse loro proprietà. Se il padrone si muta, il colono subisce
la legge del nuovo; e talvolta una famiglia dura da tempo immemoràbile
sullo stesso terreno. Tutto l'anno è un continuo lavoro; le viti, il
gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe,
il bosco e l'orto danno una perenne vicenda di cure, che desta l'intendimento,
la previdenza e la frugalità. Lavorando sempre in mezzo alla famiglia,
senza comandare nè obedire, il contadino pur si collega al lontano
commercio pel prezzo de' suoi bòzzoli, e pel lavoro che la seta porge
alle sue donne. Nei siti meno lieti e più rìpidi, dove il
cittadino non ama investire capitali, l'agricultore è spesso il padrone
del suo terreno; e rappresenta quello stato sociale ch'era così sparso
negli aborìgeni, quando fùrono i sècoli della maggior
forza d'Italia e del più puro costume.
Questi aspetti della vita rusticale nel piano,
nel monte e nel colle, si spiègano talvolta in modo aperto e risoluto;
ma trapàssano per lo più dall'uno all'altro, con varia tessitura,
che il commercio e l'industria rèndono più complicata. Questa
varietà palesa quanto l'agricultura sia antica fra noi, ed in quanti
particolari modi abbia sciolto i singoli problemi che le varietà
naturali del paese avèvano proposto.
XLVII.
Per effetto di tuttociò, la pianura
lombarda è la più popolosa regione d'Europa. Essa conta per ogni
chilòmetro di superficie 176 ànime, mentre la pianura
bèlgica ne ragguaglia solo 143. E se si comprende nel còmputo
anche la parte alpina, ancora si hanno 119 abitanti, dove la Francia ne conta
solo 64, e nella sua parte meridionale, che è più meridionale
della Lombardia, soli 50. La popolazione specifica nelle Isole
Britànniche e nell'Olanda giunge solo a due terzi della nostra; nella
Germania alla metà; nel Portogallo e nella Danimarca a un terzo; nella
Spagna a un quarto; nella Grecia a un ottavo; nella Russia a un dècimo.
– Il nostro pòpolo adunque per effetto di principj amministrativi al
tutto suoi, come quelli del censo perpetuo, delle sovrimposte communali, e
della servitù vicendèvole d'aquedutto, fecondò in tal modo
la sua terra, che sovra lo spazio dove la Francia nutre una famiglia, ne nutre
all'incirca due, pur pagando a proporzione di superficie la stessa somma
d'imposte. – Le nostre communi rurali hanno maggior nùmero di scuole; e
il tràffico e l'industria s'intreccia più intimamente a tutti gli
òrdini d'agricultura e di rotazione, sicchè non abbiamo turbe
d'industrianti, che non tèngano qualche ferma radice nel terreno della
patria. Il ferro, la seta, il cotone, il lino, le pelli, il zùccaro sono
oggetti di grandiosa manifattura. Il lavoro del ferro, in ragione all'ampiezza
del paese, porge tra Como, Bèrgamo e Brescia una cifra non mediocre,
otto milioni di franchi; Milano e Como còntano più d'otto mila
telaj di seta, e novanta mila fusi di cotone; la sola Olona ànima 424
rote motrici.
XLVIII.
Il pòvero riceve una più generosa
parte di soccorsi che altrove. Nel 1840 si contavàno 72 ospitali; in un
triennio s'aggiùnsero altri 6; altri 7 si stanno edificando; e sono aperti
a tutti, senza patronato, senza favore, alla sola condizione
dell'infermità e del bisogno. Il patrimonio stàbile di questi
ospitali ha un valore venale di duecento milioni. Il solo ospitale di Milano
ricetta nel corso d'un anno 24 mila infermi; Parigi, che ha una popolazione
più che quàdrupla, ne ricetta ne' suoi ospitali solo il triplo.
Londra ne ricetta quanto Milano; epperò, a proporzione di pòpolo,
là si soccorre un infermo, dove qui se ne soccòrrono dieci. Il
pòvero è sovvenuto di mèdici, di medicine e di chirurghi
anche nelle sue case, non solo nella città, ma nelle più remote
campagne. La metà incirca dei mèdici e dei chirurghi, e tre
quarti delle levatrici, hanno stipendio dai communi, a sollievo delle famiglie
pòvere. Il nùmero dei mèdici è in ragguaglio di uno
sopra 13 chilòmetri quadri di paese, mentre nel Belgio ogni
mèdico ha un doppio campo di vigilanza. Questo esèrcito sanitario
di mèdici, di chirurghi, di speziali, di veterinarj, di levatrici, somma
a poco meno di cinque mila persone. – In pari misura il paese è provisto
d'ingegneri, i quali nella sola città di Milano ammontano a circa 450,
mentre il corpo d'aque e strade in tutta la vastità della Francia ne
conta solo 568; il che agèvola ogni òpera d'aque e di strade. Il
nùmero grande delle classi istrutte, poste in assiduo contatto colla
popolazione, esèrcita una benèfica influenza a rimòvere i
pregiudizj, e insinuare un retto senso d'utilità.
Gli abitanti delle città sono
quattrocentomila; e molti òppidi e borghi di sei, di otto, di diecimila
abitanti, benchè non àbbiano nome di città, còntano
numerose famiglie civili; la possidenza è diffusa in tutte le classi;
onde, ogni cosa considerata, è forse questo il paese di Europa che offre
il maggior nùmero di famiglie civili in proporzione all'inculta plebe.
XLIX.
I fasti delle nostre scienze e lèttere non
sono oscuri; comìnciano con Catullo, con Virgilio, con Plinio il
giòvine; la lingua latina tramonta col nostro Boezio; ma presto gli
studj risùrgono con Lanfranco pavese, con Sordello mantovano, con
Albertano ed Arnaldo da Brescia; nella giurisprudenza e nella filosofia
risplende Alciato, Pomponacio, Beccarìa; nelle matemàtiche e
nelle fisiche, Cardano, Tartalia, che primo sottopose a càlcolo le
artiglierìe, Cavalieri, scopritore d'una scienza, Piazzi scopritore d'un
pianeta, e Volta che trovò la maggiore e più feconda delle
scientifiche scoperte. – Virgilio
e Volta sono due nomi noti a
tutti i pòpoli civili, e danno a questa angusta provincia uno splendore,
che non ha la vasta Spagna e la vastissima Russia.
Il nostro dialetto, nei cordiali e schietti suoni
del quale si palesa tanta parte della nostra ìndole, più sincera
che insinuante, porta impresse le vestigia della nostra istoria, le
orìgini cèltiche si manifèstano indelebilmente nei suoni;
le romane nel dizionario; qualche lieve solco, lasciato dall'infeconda
età longobàrdica, a gran pena si discerne, mentre vi
giàciono inesplorate ancora le tracce di qualche cosa che fu più
antico e più nativo dei Romani e forse dei Celti. I confini entro cui si
parla questo linguaggio e gli altri affini suoi, rappresèntano tuttora
la geografia dei sècoli romani; documento istòrico che attende
ancora chi ne sappia trar lume ad ardue induzioni. Questo dialetto, inosservato
all'Europa, ma parlato da più d'un milione di pòpolo, ha due
sècoli di letteratura. Uòmini d'ingegno e di studj e d'alto
affare si finsero plebe, affilàrono coll'acerbità popolare
l'ottusa verità. Maggi, Tanzi, Balestrieri lo scrìssero non
conoscèndone ancora la potenza satirica; Parini e Bossi vi
apportàrono l'elegante àbito delle lèttere e delle arti; e
Carlo Porta, poeta d'altìssimo ingegno, alla naturalezza del dipinto
fiammingo congiunse la forza còmica di Molière, il frizzo di
Giovenale, l'efficacia contemporanea di Béranger. Nella Fugitiva di
Grossi il dialetto toccò gli affetti; e si conservò negli officj
troppo necessarj della sàtira civile in Rajberti.
L.
Lo straniero vede chi noi siamo. I nostri padri
fùrono più prodi che fortunati; e noi possiamo dire che la nostra
generazione fu sìmile alle trapassate. Vìvono ancora fra noi le
reliquie di quegli esèrciti che, improvisati da Napoleone,
militàrono sotto le mura di Gerona e di Valenza, sui campi sanguinosi
d'Austerlitz e di Raab, che dopo aver combattuto a Malo-Jaroslavetz
conservàrono su la Beresina una disciplina e una alacrità
superiori ai disastri; e in guerra che tornava a gloria d'altra nazione poco
lodata per gratitùdine, sostènnero, fin dopo la caduta del loro
capo, tutti i doveri della fedeltà militare.
Noi abbiamo recato il nostro tributo alle
lèttere, alle arti, alla filosofia, alle matemàtiche,
all'idràulica, all'agricultura, all'elettrologìa; l'Enèide
di Virgilio e il Giorno del Parini, il Duomo e la Certosa, il libro dei Delitti
e delle Pene e i primi càlcoli della balìstica, tutta l'arte dei
canali navigàbili, i prati perenni, la pila voltiana. Noi, senza dirci
migliori degli altri pòpoli, possiamo règgere al paragone di qual
altro sìasi più illustre per intelligenza, o più ammirato
per virtù; e aspettiamo che un'altra nazione ci mostri, se può,
in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti
fatiche. È una scortese e sleale asserzione quella che attribuisce ogni
cosa fra noi al favore della natura e all'amenità del cielo; e se il
nostro paese è ubertoso e bello, e nella regione dei laghi forse il
più bello di tutti, possiamo dire eziandìo che nessun
pòpolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli
confidò la cortese natura.
CARLO CATTANEO
AMI BOOKS
2003
ATTENZIONE
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Edizione elettronica
realizzata da Alessio Sfienti
LETTERA PRIMA([6])
Liberata nel
1859 la Lombardia non aveva ancora eletto la prima sua deputazione al
Parlamento, quando un potere dittatorio vi recò la legge pur allora
sancita in Piemonte sull'ordinamento dei comuni e delle provincie.
Nè
quivi, nè altrove, essa fece fortunata prova. Non appena potè
dirsi in atto, e già li autori suoi si accingevano ad emendarla. Ma
tutte le riforme, sinora tentate da ministri e commissioni, non danno migliore
speranza; discoprono sempre più la fallacia del fondamento. Il che non
sarebbe, se i correttori, anzichè spender fatica intorno alla legge
nuova, la quale è già poi veramente un raddobbo d'altra
più infelice fatta dal primo Parlamento nel 1848, avessero piuttosto
preso le mosse da quella che nel 1849 rimase infaustamente abolita in
Lombardia.
Portava
questa la data del 1816; ma nelle sue parti più lodate risaliva alla
metà dello scorso secolo. Anzi i magistrati che la promulgavano nel
1755, dissero di voler solamente rimettere in rigorosa osservanza gli ordini
antichi. Può dunque avvenire anche delle leggi amministrative
ciò che valse a tanto onore dei giureconsulti romani; ed è che le
formule della giustizia e della provvidenza sopravvivano al secolo che le ha
pensate e possano condurre ad altri giusti e provvidi pensamenti.
Agli
ordini antichi dello Stato di Milano si aggiunse in quella legge quanto di
meglio potevano suggerire gli ordini pure antichi, e ancor quasi inviolati, dei
popoli toscani. Perocchè, Pompeo Neri, già professore di diritto
pubblico nello studio di Pisa, incaricato con Emanuele De Soria, Camillo
Piombanti, Ferdinando Forti e Giuseppe Tarantola di proseguir l'opera del nuovo
censo dello Stato di Milano, intrapresa già fin dal 1718, vi diede
compimento con una legge comunale e provinciale. E sulla base d'un nuovo estimo
dei beni, scevro d'ogni esenzione e di ogni diseguaglianza,
ricompose con mirabile semplicità e parsimonia tutta la pubblica
amministrazione, già prima tanto intralciata da privilegi e arbitrii. E
qui, alla prova di una secolare esperienza, si può ben ripetere il detto
di Schiller che l'opera lodò l'artefice.
La
nuova legge diede facoltà di deliberare delle cose comuni ad un convocato
di tutti i possessori dei beni. Questi dovevano elegger fra loro una
deputazione di tre; uno dei quali doveva esser preso fra i tre ch'entro i
confini del comune possedessero maggior estimo. A compimento poi d'una vera e
sincera autorità comunale, si aggiungeva un deputato del mercimonio e un
altro eletto da tutti coloro che pagassero il testatico. Codesti due
rappresentanti del commercio e dei lavoro non avevano veramente voto diretto
nelle spese dell'estimo prediale ma solamente su quella parte dei contributo
mobiliare ch'era lasciata a sussidio dei comune. La legge porgeva loro un
indiretto adito ad ingerirsi in tutto il complesso dei provvedimenti.
Perocchè il comune non poteva far uso d'alcuna particella dei testatico,
se non quando le altre fonti non bastassero alle spese; ultimo di tutti a
pagare era chiamato il povero. Anzi la legge ammoniva il deputato del
mercimonio a stare «avvertito perchè le spese necessarie alla
sussistenza della popolazione, come di medico, chirurgo, spedale, fontane,
cisterne e altro, si facessero secondo la consuetudine, e non si divertissero
in altri usi meno necessarii agli abitanti, ovvero non si risparmiassero
per comodo degli estimati».
Qui
la legge dunque sanciva una parte di rappresentanza comunale fondata sulla
capitazione: epperò sul suffragio universale!
Tali
erano i diritti che la legge assentiva nel comune ad operai ed agricoltori un
secolo fa!
La
deputazione in tal modo eletta è già la sommità
dell'edificio comunale. Perocchè i deputati dell'estimo, coll'intervento
di quelli del mobiliare, scelgono a sindaco «quella persona che fra gli
abitanti del comune troveranno più idonea e più capace della
pubblica fiducia. Essendo il sindaco dice la legge, il natural sostituto dei
deputati che, per non poter essere sempre uniti e reperibili, hanno bisogno
d'una persona che abbia l'espresso incarico d'invigilare agli affari dei
comune, di ricevere ed eseguire gli ordini dei superiori e di far tutto
quello che potrebbero far essi se fossero adunati, sarà perciò
la di lui elezione rimessa ai deputati medesimi... avvertendo però
che, quantunque in qualche occasione debba egli intervenire nelle unioni
dei predetti cinque deputati, non avrà alcun voto» (§ § 103,
113).
Il
magistrato comunale era sotto l'ispezione di un Cancelliere dei Censo; il quale
doveva intervenire a tutte le adunanze dei singoli comuni del suo distretto, ma
solamente come ricordatore delle leggi, nonchè come custode
dell'archivio, e notaro «da rogarsi di tutti gli atti». E doveva essere di
nomina regia solamente fino a quando il nuovo censo fosse condotto «a
esecuzione». Dopo di che, diceva la legge, «Sua Maestà benignamente si
contenta di rilasciare la nomina alle singole comuni».
Era
l'anno 1755!
Penso
che debbono rimanere stupefatti tutti i credenti nella burocrazia.
I
pupilli avere il diritto d'eleggersi, a maggioranza di voci, il loro tutore!
Avere il diritto di non rieleggerlo più, quando, a prova fatta, non
fosse piaciuto!
In
modo poco diverso, per quanto concedevano i diritti statutarii dei decurioni e
le altre consuetudini municipali, vennero ordinate le amministrazioni delle
città e quelle delle provincie. E un terzo ordine di rappresentanti, non
costituito in forma di consiglio, era poi formato dagli oratori delle
provincie e dai sindaci per le liti, che risiedevano presso al governo.
Ma
il beneplacito del governo non si stendeva nemmeno sul complesso generale di
questo ordinamento; perocchè l'ispezione suprema apparteneva al
Tribunale della Giunta dei Censimento. Il comune era dunque al cospetto della
legge una società di vicini, che provvedeva con certi contributi a certi
servigii, e che, insieme agli altri comuni dei distretto, sceglieva persona
idonea, la quale avesse cura dell'osservanza delle leggi e della
regolarità delle aziende. Di tutte le quali cose doveva poi ragione a un
tribunale.
A
questo era riservato di giudicare se il cancelliere nominato dai comuni fosse
idoneo. E quando non fosse notaio o dottore in leggi, poteva essere ingegnere
collegiato o pubblico agrimensore, «purchè avesse dato prova della sua
idoneità in qualche altra pubblica incombenza».
Tutto
era adunque ordinato puramente alla provvidenza e alla giustizia, e ciò
che sembra più strano alla libertà.
Ed
era un diritto comunale di fonte prettamente italiana.
Or
vediamo di qual fonte venga la legge di cui l'Italia deve ritentare
l'impopolare e infelice esperimento.
Vent'anni
dopo che la legge di Pompeo Neri era in prospero vigore, l'illustre
Turgot, pubblicando nel 1775 quel suo Mèmoire au roi sur les
municipalitès che parve in Francia una rivelazione, attribuiva con profondo
senno la miseria del regno al volersi amministrata ogni cosa per mandato regio.
«Votre Majestè est obligèe
de tout dècider par elle-même ou par ses mandataires». Proponeva
dunque che i comuni, le provincie, il complesso dei regno, si amministrassero
con tre ordini di consigli elettivi.
Turgot
non credeva dunque nè al beneplacito regio nè alla burocrazia. Ma
la Francia gemeva ancora sotto il patto di Carlomagno, sotto la
feudalità combinata dello Stato e della Chiesa; chi non era gentiluomo o
prelato era rustico, roturier, vilain. E Turgot stesso, come
pensatore, seguiva la dottrina fisiocratica, la quale ripeteva ogni ricchezza
non dal lavoro, dal capitale, dal pensiero, ma unicamente dalla terra. Pertanto
egli, fervido promotore di libertà eziandio nel commercio e
nell'industria, non ammise nel comune alcuna rappresentanza dei commercio e
dell'industria; e anche per la terra ammise bensì tutti i proprietari,
ma diede loro un numero di voti commisurato all'ampiezza dei poderi. Era la
voce della terra, non quella del comune.
La
rivoluzione francese non seppe uscire dalla tradizione dei secoli e dalla fede
nell'onnipotenza dei governanti. Ai mandatari dei re successero i mandatari
della nazione. Il furor della disciplina fece obliare la libertà. Il
popolo ebbe la terra. Ma non ebbe il comune.
Eppure
nel 1804 e nel 1805, quando la guerra ebbe arrecate a noi tutte quante come
prezioso dono le nuove istituzioni francesi, troviamo che non solo nelle parti
d'Italia annesse all'imperio, ma eziandio nel regno in fronte al quale si era
serbato il nome d'Italia, tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o
un podestà creato dal re. Anzi gli stessi consigli comunali, ovunque gli
abitanti siano più di tremila, sono parimenti creatura dei re, e dove
gli abitanti siano di meno, sono creatura dei prefetto. Questa è la
nomina iniziale; negli anni successivi le nomine devono farsi sopra duple
proposte dagli stessi consigli, ma farsi pur sempre dal prefetto o dal re. I
comuni possono essere aggregati e disgregati a voglia del ministro; il prefetto
può far murare le porte della città per «minorar le spese di
custodia»; a sì luminoso scopo, la finanza anticipa i denari; e le
città glieli rimborsano (Decr. 23 giugno 1804). Per altro simile
lampo di scienza, i comuni vicini alle mura vengono spietatamente incorporati
alle città, con dissesto delle famiglie e dispargimento di migliaia di
abitanti. Le municipalità dipendono dal prefetto o dal viceprefetto;
eseguiscono gli ordini di questi; e in caso d'inobbedienza, possono esser
sospese o fatte supplire.
L'unico
diritto del nuovo comune italiano è il diritto d'obbedienza.
Il
comune è l'ultima appendice e l'infimo strascico della prefettura e
della viceprefettura. Il comune non è più il comune. Tutto il
sistema è una finzione.
Nel
1814 i podestà e i consigli nominati dal re non mossero un dito a
salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli Austriaci, facendo suonar le
campane a festa. Tale è la solidità delle istituzioni
burocratiche. Chi semina la servilità, raccoglie il tradimento.
Il
comune nel regno d'Italia era così avvilito, che l'Austria,
ripristinando nel
Fra
le antiche istruzioni di Pompeo Neri rimase soppresso nel 1816 il deputato del
mercimonio. Forse si pensò che supplissero le camere di commercio e la
proprietà prediale, cotanto diffusa nel ceto mercantile, in sessant'anni
di riforme e rivoluzioni.
La
legge del 1816 venne estesa a tutto il Regno Lombardo-Veneto. Per i
podestà e i consigli comunali delle città, fu conservato il falso
principio delle nomine regie, fatte sulle proposte dei consigli, venuti essi
medesimi da nomina regia. E oltre le congregazioni provinciali, le due regioni
lombarda e veneta ebbero ciascuna una congregazione centrale: istituzione che
prevenne fra Lombardi e Veneti ogni molesta ingerenza e ogni natural gelosia.
Alle anime deboli che paventano le rappresentanze regionali, rammentiamo il
fatto che dalla Congregazione centrale di Milano e dall'istituto lombardo,
ch'era pure un corpo regionale, mossero nel 1848 le prime deliberazioni
officiali che prelusero alla ricomposizione dell'Italia. Tutti i plebisciti
mossero dalle autorità regionali. Ma la legge dei 1859 escluse ogni
siffatta istituzione, per quanto necessaria alle riforme legislative,
per quanto necessaria a riparare le intemperanze dei poteri nomadi e supplire
le insufficienze dell'autorità centrale, involta sempre nelle tenebre
dell'ignoto.
La
legge del 1859 escluse dal voto comunale la maggioranza degli abitanti,
perchè ingiunse loro la condizione di pagare da cinque a venticinque
franchi d'imposta diretta. Quella del testatico era ingiusta; ma era
diretta; e coll'abolizione di essa, la maggioranza degli operai rimase priva di
voto, mentre, in uno od altro indiretto modo, paga assai più di prima.
E
chi, pagando cinque franchi d'imposta diretta, ha oggi il voto perchè
oggi la popolazione del suo comune non oltrepassa tremila abitanti, non
avrà più il voto dimani, perchè l'arrivo d'una famiglia, o
la nascita di qualche bambino, può elevare la popolazione oltre quella
capricciosa cifra; o perchè egli medesimo dovrà trasferirsi in
altro comune di maggior popolazione; o perchè il beneplacito
ministeriale aggregherà, volenti o nolenti, due comuni in un solo.
Questa incertezza perpetua dei voto necessita un nembo di registri e di
affissioni e revisioni e controversie che non hanno fine se non in Corte di
Cassazione! Sessanta articoli della nuova legge versano intorno a questo
immenso e inutile lavoro, quando bastava sostituire al principio della
capitolazione quello dei domicilio. Chi paga affitto paga, diretta o indiretta,
la sua parte d'imposta al comune.
Falsato
il diritto comunale alla base, è falsato fino alla sommità. Il
sindaco non è più l'agente scelto dei deputati per eseguire i loro
ordini e far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati. Nei
settemila e settecento comuni dei regno, il sindaco è capo dell'amministrazione
ed uffiziale del governo; il sindaco presiede la giunta;
distribuisce gli affari; può delegare le sue funzioni ad altri
nelle borgate e frazioni; quando presiede il consiglio, investito di poter discrezionale,
ha la facoltà di sospendere e di sciogliere l'adunanza;
può ordinare che venga espulso dall'uditorio chiunque sia causa
di disordine; ed anche ordinare l'arresto; in caso di scioglimento un
delegato regio amministra a carico del comune!
Tutto
questo è indegno della nazione.
I
comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua
libertà.
Nel
1755, la legge di Pompeo Neri diceva ai sudditi di casa d'Austria nello Stato
di Milano, che il cancelliere dei censo, incaricato di conservar l'ordine nei
convocati: «si opporrà alle deliberazioni tumultuarie protestando
della nullità e comminando l'indignazione dei superiori» (art.
263).
Quale
calma di misure! Qual decoroso e rispettoso linguaggio! tal la voce d'un
filosofo che parla a un popolo già libero e degno d'esser libero.
Si
vuol dunque esporre la nostra legge a siffatto paragone? In faccia all'Austria?
LETTERA
SECONDA([7])
Nella
legge francese e nelle due o tre riproduzioni che se ne fecero in Piemonte, il
concetto del comune venne capovolto e negato, perchè non si
considerò che il comune era un fatto spontaneo di natura come la
famiglia; e suppone che non esistesse alcun diritto naturale dei comuni,
nè alcun limite giuridico al bene placito dei legislatori. E parve
doversi rimodellare ogni comune in certi modi uniformi, come quelli che
spianavano il terreno al più rapido esercizio d'una intelligenza
superiore.
Vediamo
all'opera codesta sapienza ordinatrice.
Delle
città e delle ville ve ne ha di grandi e di piccole. Ciò avviene
per molte ragioni che sono ovvie a tutti; e anche per alcune altre. Intanto
ministri e legislatori, preoccupati dalla dottrina francese, hanno pensato che i
comuni minori o si dovessero dare per aggiunta alle città vicine, o si
dovessero affastellare l'uno sull'altro, fino ad una certa misura di
popolazione, che fosse la più maneggevole a chi ha pro tempore i
piaceri dell'onnipotenza; poco importando poi se fosse la più giovevole
a chi ha i pesi della sudditanza passiva. Un piccolo comune è poca gente
e dappoco, per chi non si avvede che, a comune a comune, per questa via si
vilipende la pluralità della nazione. Nè, invero, si rispettarono
maggiormente i diritti delle grandi popolazioni urbane.
Nei
comuni minori si fece conto che la più opportuna dose di popolazione
fosse dai 2500 abitanti ai 3000. I più preferiscono la seconda misura, o
come amano dire, la seconda stregua. Intanto. questo appare un punto inconcusso
oramai di dottrina amministrativa, che i comuni piccoli sono un principio
d'impotenza, un disordine, un male.
I
piccoli comuni un male? Come? La Lombardia, che fra tutte le regioni d'Italia
si trovò primamente e più largamente delle altre dotata di strade,
di scuole, di medici condotti e d'ogni altra comunale provvidenza, è
appunto quella che fra tutte quante ha il massimo numero di comuni piccoli e
piccolissimi. Più di un quarto di essi (607) non giungono a cinquecento
anime; per un altro quarto e più (746) non giungono a mille anime. E
sopra 2242 comuni questa è già la maggioranza. Quelli poi che
oltrepassano la magica cifra delle tremila anime, sono in tutto 151. Sopra
quindici comuni si tratta dunque di rimodellarne quattordici. Comprese le
forzose agglutinazioni dei grandi comuni suburbani alle città, sarebbe
per la Lombardia una sovversione dello stato di fatto e di diritto
letteralmente generale.
Beata
la Sicilia, che non ha ancora le strade, nè le condotte mediche,
nè le scuole. Ma essa raggiunge la stregua e largamente la
oltrepassa. Mentre i comuni lombardi ragguagliano, l'uno per l'altro, solamente
358 abitanti, quelli di Sicilia ne ragguagliano un numero diciotto volte
maggiore (6681). E mentre in Lombardia la superficie, divisa per comuni, dà
solamente otto chilometri quadri per ciascuno, in Sicilia ne dà settantatrè.
Questo
è ciò che si chiama un plesso robusto. Il plesso comunale
della Sicilia sarebbe dunque diciotto volte più robusto ed efficace che
il comune lombardo?
No,
signori; la mole non è la vita.
È
vero che i comuni toscani sono ancora più grandi che in Sicilia. Ma
questa certamente non è l'ultima delle cause per le quali la popolazione
toscana, che dà solamente 90 abitanti per chilometro superficiale,
è tanto minore di quella di Lombardia che ne dà 160.
Non
per questo io direi doversi correre all'estremo opposto e «rimaneggiare» in
piccoli comuni la Sicilia, e la Toscana e tutta l'Italia. Cotale
uniformità tra le regioni non è affatto necessaria, come non fu
necessaria tra i comuni aperti della Lombardia, dacchè taluno di essi
non tocca duecento abitanti, mentre il maggiore oltrepassa i cinquantamila. Ma
quando fossimo costretti a scegliere tra violenza e violenza, sarebbe a
preferirsi quella che moltiplicasse i consorzii e li spargesse più
largamente sulla superficie delle provincie. L'aumento continuo della
prosperità, dopo il
È
un errore che l'efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla
incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga
soppressione di codesti plessi nervei della vita vicinale. Nelle riviere dei
mari e dei laghi e in molte e molte altre parti d'Italia, vediamo floridi
comuni di qualche centinaio di famiglie dedicate all'industria, alle arti
belle, alle lontane navigazioni, attendere con egual cura ad ingentilire il
luogo nativo. Ma se il piccolo comune venisse incatenato a una maggioranza di
rustici villaggi, dispersa per valli e selve, o popolata di braccianti
vagabondi, quel geniale fermento rimarrebbe sopraffatto e oppresso. Il piccolo
comune ha diritto di continuare, nel libero suo seno, quel modo d'essere
che gli è proprio, benchè non sia quello in cui possano
consentire i suoi vicini. E anche a questi il vicino e libero esempio
potrà giovare.
Se
un comune, provveduto già di strade e d'acque, venga per volontà
non sua congiunto ad altro comune cui la natura e il caso non abbia egualmente
favorito, poco si curerà di contribuire col suo danaro ad opere dalle
quali non avrebbe giovamento suo proprio. Quindi, fra i mali assortiti
consorzii impotenza e discordia. Quindi unico rimedio il consiglio d'Abramo a
Lot: «- Di grazia, non facciamo contesa tra me e te, fra i miei pastori e i
tuoi, perocchè siamo fratelli. Ecco ti sta innanzi l'ampia terra.
Se tu andrai a sinistra, io terrò la destra, se tu eleggerai la destra,
io mi volgerò a sinistra -».
Meglio
vivere amici in dieci case, che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben
potrebbero farsi il brodo a un solo focolare; ma v'è nell'animo umano e
negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga colla nuda aritmetica e
col brodo.
Nè
si dica che col sodalizio forzato dei comuni le istituzioni dei più
culti e prosperi si propaghino agli altri. No, nei corpi deliberanti le
maggioranze sono anzitutto sollecite di se stesse. Quando nel 1816 il suburbio
di Milano fu sciolto dalle leggi francesi e dalla sudditanza urbana, aveva una
sola scuola; e ora ne ha quarantasei! La sua popolazione che nella
clientela della città era discesa da 24 mila abitanti a 17 mila, ora
oltrepassa 50 mila; e se ora lo s'invita ad aggregarsi novamente, non si
dissimula ch'è per fargli sostenere una parte di debito non suo,
benchè ciò sia riprovato da quelle medesime leggi che
introdussero fra noi le aggregazioni forzate.
E
poichè quelle leggi che trattano con sì poco rispetto il diritto
comunale, ci arrivarono di Francia, ricordiamo ciò che gli ammiratori di
esse confessano; ed è che i piccoli comuni francesi, per naturale buon
senso di popolo, si opposero alle incorporazioni, benchè desiderate e
agevolate dai governi. Che se colà i comuni sono quasi trentasettemila,
e la popolazione fa poco più di trentasette milioni, è facile
calcolare che la media della loro popolazione sarà di mille anime
incirca (1015). È adunque assai minore di quella medesima della
Lombardia (1384); non giunge alla metà della media di tutti i
comuni d'Italia (2821); non giunge al sesto di quella dei comuni di
Sicilia (6681); e nemmeno al settimo di quella dei comuni di Romagna
(7651) e Toscana (7824). Qui dunque possiamo citare la Francia contro la
Francia; possiamo citare i suoi comuni veri e vivi contro il comune dottrinario
e contemplativo.
Nell'Alta
Italia, la suddivisione dei comuni è un fatto naturale e spontaneo, che
si continua da secoli, in quanto la forza non si frammise a contrariarlo.
Abbiamo
memorie certe che ampie valli e pianure, intieri distretti, erano un solo
popolo, il quale possedeva in comune pascoli e selve. Il possesso privato
cominciò qua e là colla legge romana, ma negli intimi recessi
alpini fu sino a questi ultimi secoli un'eccezione. Anche dove era assentita la
semina dei campi, non appena compiute le messi, la trasa dei bestiami li
invadeva per diritti da tempi immemorabili. Sembra un paradosso, ma il fatto
è che i comuni grandi furono prima dei piccoli. L'Europa antica viveva
in vaste comunanze. I capi delle tribù abitavano fin d'allora in seno ad
esse nell'aperta campagna: il nome di città fu poi dato al vico, al
pago, al luogo di comizio o di mercato, al ricovero fortificato per i disastri
di guerra: "Mediolanum pagus olim, nam per pagos habitabant"
(Strab.).
D'età
in età le centine, le degagne, le faggie, le squadre divennero pievi e
cure, le quali si suddivisero come sogliono fare le famiglie. Molti comuni non
hanno finito ancora di spartire le reliquie del patrimonio avito. La costante
suddivisione delle comunanze primitive è il filo giuridico che
condusse le tribù dalla vaga cultura alle piantagioni perenni e al
possesso intero e privato. Non faremo dissertazioni; ma l'istoria vera è
questa.
La
rimanente Italia offre un altro paradosso. Ivi furono prima le città, e
poscia i villaggi. Dirò peggio: fu prima la città e poi la
campagna. Genti venute dal mare, o da colonie venute già dal mare, si
fanno un nido sulla cresta d'un monte; lo cerchiano d'un muro: poi si mirano
intorno e scendono a conquistare le donne e la terra. Ecco la leggenda d'Alba e
di Roma. Fondata la città, fondano dunque la famiglia; e sotto gli occhi
degli esuli si dividono i campi, e li consacrano coi termini. Ma non osano
abitare in casali aperti, al cospetto di coloro che hanno spogliato.
epperò tornano la notte a chiudersi in città per tornare il
mattino al solitario campo.
Sui
monti vicini stanno altre città, or consanguinee, or nemiche. Ve n'era
più di cinquanta nel Lazio delle quali ai tempi di Plinio non restava
vestigio. Gli Etruschi avevano vinto trecento città degli Umbri.
Prendiamo l'Annuario dell'amico Maestri; facciamo la somma dei comuni delle due
Umbrie; dal Tevere a Ravenna ne troveremmo oggidì 313. Alcuni di questi
sono ancora città: ma intorno si sono sparsi i villaggi; l'agricoltore
può vivere tra' suoi campi. Intanto l'oppido italico si è sciolto
come il comune alpino. L'oppido aveva le mura sacre e il dio Termine, e il
possesso privato; e i signori della terra non vivevano all'aperto mai coi loro
clienti entro le mura. Questa tradizione non è ancora cancellata.
Ecco
perchè i nostri prefetti e generali rimasero tanto stupiti di vedere
all'alba gli agricoltori uscire a cavallo dalle città di Sicilia per
recarsi a lavorare i campi e ritornar la sera. E negli spazii ove qualche
città fu distrutta dai Romani, o dai Goti, o dai Vandali, o dagli Arabi,
o dai crociati normanni, giace coltivato, ma deserto, un intiero
territorio. E il comune siciliano sta isolato, in superficie che tra le
più e le meno vaste si ragguagliano a
La
legge comunale deve fare appunto l'inverso di ciò che si è
pensato.
Nel
dubbio, la legge rispetti il diritto e la libertà.
LETTERA TERZA([8])
Nelle
altre due lettere venne dimostrato a sufficienza, per chiunque si appaghi dei
vero, che l'azione comunale nell'antico Stato di Milano, fin dalla metà
dello scorso secolo, fu senza paragone più libera e
più liberamente diffusa che ora non sia.
E
pertanto io stimo dovere dei legislatori non solo di restituire nell'antico
diritto i comuni di Lombardia, ma di far partecipi di quel beneficio gli altri
comuni tutti, affinchè l'Austria non abbia ragione di dire al mondo che,
oggidì stesso, Mantova e Venezia sono governate più
liberamente del regno d'Italia! - È troppa vergogna!
Dall'onore
torniamo agli interessi.
Si
leggeva, or son pochi giorni, in un rispettabil giornale di Sicilia che
colà «si percorrono dieci, venti e financo trenta miglia,
senza imbattersi in un villaggio, in una casa!». Or io dico che
se dimani, in quella solitudine o in altre le quali fossero pur meno vaste, i
possessori si accordassero di trasferirvi le abitazioni dei loro coloni, fin
qui aggregate ad una od altra di quelle comuni aventi la popolazione media di
6681 abitanti e tanto fra loro discoste, essi farebbero pei poveri agricoltori
un risparmio grande di tempo e di vane fatiche e di stenti, procacciando utile
a se medesimi e alla nazione, e dando alla fertile isola un incremento grande
di sicurezza e di amenità. Io credo che i legislatori non vi si
potrebbero opporre per superstiziosa fede che avessero in un fantastico minimo
di popolazione. Non so perchè a quelle genti venute, come già
nelle primavere sacre dei loro antichi, ad accasarsi finalmente dopo
tanti secoli in mezzo ai loro campi, si potrebbe impugnare il diritto di
satisfarvi immantinente a tutte quelle convenienze che la vita vicinale
richiede. Non vedo perchè si potrebbe vietar loro d'aver un campo, ove
seppellire i loro morti; - una scuola. ove i loro figliuoli imparassero
l'alfabeto senza dover fare ogni dì molte miglia di andata e ritorno; -
un ponte, al più prossimo guado del torrente; - un magistrato di loro
elezione, che vigilasse a questa ed altre cose per bene di tutti. È
ciò ch'io credo doversi chiamare diritti di vicinato: e dedursi
logicamente dai diritti di famiglia, ed essere una forma e un componimento di
questi.
Perlochè
la legge non li deve avversare e turbare, ma li deve riconoscere e proteggere.
E poichè lo Statuto riservò alla legge le circoscrizioni
comunali, essa deve tracciarle nel senso della maggior libertà
naturale e della maggior convenienza economica; e non di volta in volta; e per
grazioso favore di prefetti e viceprefetti; ma in massima e una volta per
tutte, come i nostri antichi ci hanno insegnato a fare le leggi: Privilegia
ne irroganto. Perocchè chiunque iniziasse siffatte benefiche intraprese,
dovrebbe avere un fondamento di legge, senza dover comperare un precario a
patti servili. La nuova Italia dev'essere bella, feconda, magnanima.
Dico
inoltre che se codesto vicinato in seno alla solitudine fosse a principio pur
di poche famiglie, sarebbe già nel suo diritto. E dovrebbe fin d'ora
potersi sciogliere dalla municipalità primitiva, la cui giurisdizione,
quasi ombra nociva, stende sulle ubertose campagne il silenzio e lo squallore.
E per non legare il ragionamento ad ampiezze eccezionali ed estreme, mi
riferirò a quegli spazii che devono per necessità restar
disabitati in una od altra parte d'una superficie la cui misura media per
ogni comune in Sicilia è di settantatrè chilometri quadri, o
miglia quadre ventuna! Epperò se in molti comuni può
essere minore di questa media in altri debb'essere assai maggiore!
Che
se qualche cosa è forza concedere a coloro che hanno lo strano istinto
di legar più che mai le mani alla nazione, il buon senso vorrebbe che si
prescrivesse ad ogni comune d'aver piuttosto una data misura di superficie che
un dato numero d'abitanti.
Infatti
se le famiglie hanno più d'una mezz'ora o di un'ora di cammino dalle
case alla scuola, alla levatrice, al mortorio o a qualunque altra parte di
necessario servizio vicinale. questo si rende sempre difficile, sovente
impraticabile; il concetto del comune svanisce; e chi deve contribuire alle sue
spese, è frodato. Dico che se una famiglia vien costretta a pagare per
una scuola lontana, alla quale non può mandare i suoi figli, essa
è frodata. Mi valgo di questo vocabolo scortese, per dire ben
chiaramente che, quando parlo di diritto comunale, non intendo fare una
vana frase; ma parlare del mio e del tuo.
E
aggiungo per ultimo, che anco la nazione è frodata; perchè
i suoi figli crescono nell'ignoranza.
Questo
antico divorzio fra la casa e il campo fra l'agricoltore e l'agricoltura rende
dispendiosa e vana e pericolosa la custodia; consuma inutilmente anche gli
animali; disordina la concimazione; rende impossibile la stabulazione; è
un insuperabile impedimento ad ogni ben calcolata economia.
Se
l'abitato d'un comune giace in luoghi meno opportuni o salubri, perchè
mai si vorrà vietare a coloro che hanno le terre più lontane
dalle paludi, o più vicine alle fonti pure, o alle correnti motrici, o
alle strade e ai porti, di trasferirsi colà con tutti i loro diritti, e
godervi le loro comunali libertà? I legislatori, coi loro pregiudizii
intorno ai comuni robusti, faranno più danno che non pensano.
È
impossibile esercitare utilmente i diritti comunali se non entro certi limiti
di spazio, o, per meglio dire, di tempo. Non è la distanza
lineare, ma la distanza praticale, non è la distanza in miglia, ma in ore,
che nei luoghi montuosi posti a diverse altezze o a diversi aspetti, o anche
nei luoghi piani separati da torrenti o paludi o selve senza vie, rende
possibile alle famiglie di prestarsi un'attiva e verace assistenza, secondo le
loro forze e i loro lumi; nè vi si richiede tanta sapienza di
magistrati; ma l'abitudine e il buon senso e l'esempio dei vicini e i buoni
regolamenti sono bastevoli; e per chi non fa, vi sono i rimedii di legge.
Assegnato
che sia questo raggio di pratica estensione ad ogni comune, il servizio
può egualmente applicarsi ad una città di centomila abitanti,
come ad un centinaio di famiglie sparse in uno spazio pari. Ma il principio
della minima popolazione spinto dai cervelli burocratici fino alle
tremila anime, contrasta a tutte le ragioni per le quali è istituito il
comune.
Nelle
migliaia di uomini novelli che dovrebbero contribuire a crescere d'un mezzo
milione almeno di prosperi abitanti la Toscana, d'un milione l'Umbria, d'un
milione e mezzo la Sicilia, di due milioni la Sardegna e via dicendo, non
importa con qual numero si cominci; perocchè quelle libere abitazioni
sono destinate a moltiplicarsi e disseminarsi e animare tutta la superficie. La
superficie è un dato certo ed inalterabile; la popolazione può
variare e ondeggiare senza fine. I legislatori che parlano sempre di voler fare
l'Italia, non sanno imparare dagli uccelli che preparano il nido ai futuri.
È
bene che siasi rinunciato almeno in parte all'ingiusto e pernicioso proposito,
ch'ebbe Cavour, di confiscare gli ademprivii ai comuni di Sardegna e fu atto di
giustizia il farne piuttosto un'estesa concessione a nome dell'isola per
procacciarle le ferrovie. Ma con ciò il quesito economico non è
ancora sciolto: e se la legge comunale e la provinciale, e in questo caso anche
la regionale, non vengono coordinate a questo più che arduo fine,
le speranze dei popoli e le oneste aspettative degli imprenditori non saranno
adempiute. Nessuno dei membri di tante Commissioni ha badato che questa legge
comunale è inestricabilmente connessa col destino delle nuove
coltivazioni. Hanno fatto una legge senza pensieri.
Ciò
premesso, io stimo che la superficie media del comune in Lombardia, nella
circoscrizione attuale, dopo il partaggio di Villafranca, essendo (nell'Annuario
del dottor Maestri) di chilometri otto in circa, ossia poco più di due
miglia quadre (2 1/3), è più consentanea al diritto vicinale e al
buon senso e ai bisogni dell'avvenire, che non la superficie media del comune
in Francia ch'è di
Per
venire ad una conclusione pratica e articolabile, dirò che ogni
qualvolta i possidenti e domiciliati d'una parte del comune, in qualunque
numero siano, trovino utile di stralciare la loro amministrazione municipale, e
farne due o più comuni, ognuno dei quali conservi una superficie
continua di due o tre miglia quadre almeno, lo possano fare, in quanto
rimangano assicurati a ciascuna parte tutti quei servizii che la legge comunale
(voglio dire, un'altra legge comunale radicalmente diversa da questa)
avrà prescritto. Infine, oso dire che questa suddivisione dei comuni
troppo vasti non sarebbe più d'un mero scioglimento di società
per titolo di mutuo vantaggio; ciò che nessuna legge può in buon
diritto impedire. Basterebbe dunque per questo punto un articolo di legge che
parificasse, mutatis mutandis, la società comunale a qualunque
altra società di beni e di servizi.
E
so dirlo, perchè so di vivere in questa seconda metà del secolo
XIX, alla distanza di soli anni 36 dal secolo XX; e oggi mi par poco ciò
che fu concesso ai nostri bisavoli già fin dalla metà del secolo
XVIII; e mi pare d'esser discreto chiedendo per la mia patria l'umile licenza
di fare almeno un passo per secolo! E mi vedo al cospetto di tante
colossali imprese, fatte per libera associazione, a trasformare l'Europa e
l'America e il fondo del mare, e armate di tali smisurati e infrenabili poteri
sui patrimonii mobili e immobili, presenti e futuri delle nazioni e soprattutto
della mia, a beneficio perpetuo di Torino, di Parigi, di Vienna e di
Gerusalemme, che non posso veramente spaventarmi come d'un finimondo, se alcune
dozzine di possidenti meglio avvisati potessero dare il felice esempio di
ordinare a loro giudizio le abitazioni dei loro contadini e le loro ville sopra
le loro terre, ora disabitate o troppo inegualmente abitate. Io non so
perchè la legislazione non abbia anch'essa a camminare col secolo.
Nè vedo maggior pericolo nell'affidare a queste nuove società
municipali anche i registri dello stato civile che le vecchie leggi non ne
vedano nell'affidare qualunque atto di pubblica fede ad un qualunque notaio, e
la vita e l'onore dei cittadini ad una qualunque assisa di giurati.
LETTERA
QUARTA([9])
Vediamo
quali siano le parti dell'antica istituzione comunale che la nuova legge deve
restituire ai popoli i quali n'ebbero già per più generazioni il
beneficio, facendone giusto dono a tutti gli altri.
Se
si comincia dall'istituzione stessa del comune si può per le cose premesse
asserire che la fondamentale opera istorica di propagare questi organi vitali
sull'intera superficie dell'Italia e delle isole non debb'essere più
lungamente indugiata per fallaci dottrine o per ambizioni officiali. Troppo
strano è il fatto che dopo tremila anni di civiltà, questa terra
d'Italia debba giacere ancora qua e là largamente inabitata, ispida,
infesta di febbri e di ladroni.
Non
è un'imaginaria fertilità che fra tante invasioni straniere diede
alle alte montagne e profonde ghiaie della Lombardia più di tre milioni
d'abitanti; ma è soprattutto il fondamentale impianto dell'azienda
pubblica, in cui fu sagacemente considerata e provvidamente rispettata la
libertà comunale. Alle stesse condizioni, l'intero regno potrebbe, in
ragione di superficie, esser popolato di quaranta milioni!
Anzi
è agevole a dimostrare come molte regioni d'Italia e delle isole siano
per fatto naturale ben più favorevoli alla agricoltura e immensamente
più ancora alla navigazione.
In
seno a codesta libertà, se il comune, anche in angusta superficie,
potrà esser popoloso, tanto meglio. Ma dove potrà esser solo di
poca gente, o avrà più caro di fare quietamente entro il suo
cerchio gli interessi suoi, sarebbe nemico del pubblico bene chi gli ponesse
impedimento. Folte o rare che le popolazioni siano, sempre saranno meno
neglette le terre e meno rozze le famiglie, dove la provvidenza comunale sia
più vicina, e dove gli interessi domestici del magistrato siano
più intimamente legati a quelli del suo popolo.
Io
non mi stancherò dunque di ripetere, che la legge non deve piantar
termini di minime o massime popolazioni e farne pretesto di accentrazioni
violente. E penso che questo consiglio dovrebbe riescir più accetto in
quanto su di ciò eguale riserva si riscontra nell'abolita legge di
Pompeo Neri e nella vigente legge Pinelli.
Io
prego adunque che non si aggiunga a questa legge anche quel male che
fortunatamente non ha. Si lasci libero corso a quello spontaneo moto che
conduce ad una equabile diffusione delle franchigie amministrative. Si rispetti
in ogni più modesto popolo quella natural dignità che lo porta a
disporre di sè piuttosto a suo genio che a senno altrui, e ad esser
tenuto valere in ogni cosa quanto i suoi vicini. L'esempio, l'imitazione, l'emulazione,
la stessa invidia faranno ben più a pareggiare le condizioni dei vicini,
che non farebbe una dipendenza sdegnosa e ricalcitrante!
E
anche questo sarà un elemento di pace e d'amicizia! E ne avremmo ogni
dì maggiore il bisogno.
Io
dico che con questa sola condizione generale si apre la via d'una ignota
prosperità in Sardegna, in Calabria, in Lucania, in Apulia, in Umbria,
in Maremma e dovunque la mano degli uomini non risponde ancora alla
fertilità della terra. E dico che operando al contrario si affliggeranno
inutilmente popoli generosi; e si promoverà quella reazione che troppo
bene fu preparata colla sovversione di tutte le consuetudini, colla guerra
fatta confusamente al bene e al male, senza un vantaggio popolare che compensi
il turbamento e l'umiliazione.
Io
non so come gli amici della libertà non si avvedano che la
facoltà d'accentrare per forza i comuni, ossia di sottomettere i meno
docili ai più ossequiosi, sempre più aggravi quella
servitù che già pesa in tanti modi sulla nazione, tostochè
si consideri schierata nei suoi comuni.
E
ai ministri medesimi dirò che poco invidiabile è quello stato di
perpetua tempesta in cui vivono, senza avere adequato conforto nell'estimazione
dei popoli. Ma parmi ben invidiabile la facoltà, ch'essi non si
accorgono avere, di rendere il nome loro incancellabile nei modesti annali
della pubblica prosperità, e caro alla memoria dei savii e dei buoni,
come sempre più sarà di generazione in generazione quello di
Pompeo Neri.
Ecco
adunque come si possa finalmente dar principio vero a quel dicentramento di cui
molti si credono, e tutti si vantano, d'avere unanime desiderio, ma di cui
nessuno ha trovato ancora la prima parola. E intanto ogni nuova legge è
un altro passo sullo stesso pendio. Che se per accentramento i più
intendono l'universale diluvio egli affari nelle scrivanie della capitale, io
credo doversi con tal nome dinotare non meno il forzoso intralcio degli
interessi di smisurate superficie in un solo comune. Espresso o tacito, il
più efficace provvedimento di qualunque nuova legge comunale sarà
questo: - assicurare la più libera diffusione del diritto municipale su
tutta la superficie dell'Italia.
Dalla
libera istituzione del comune, vengo alla libertà e parità de'
suoi membri.
Nella
legge Pinelli il comune, al di fuori, è una servitù; al di
dentro, è un privilegio di chi paga cinque franchi d'imposta diretta
come se le altre non fossero imposte. E lo è solamente finchè il
comune non superi tremila anime; e divien privilegio di chi paga dieci franchi,
appenachè lo stato d'anime in quel medesimo comune diventi di tremila ed
una. Qual colpa ne ha l'antico votante da cinque franchi, perchè
debba vedersi tolto da oggi a dimani il suo voto? Aggregate i suburbii alle
loro città, come la nuova legge dispone; la scala dell'imposta
può salire di grado in grado fino a venticinque franchi,
secondochè sarà per crescere la cifra di popolazione del nuovo
comune. Centinaia di onesti operai, forse qualche onesto letterato, diventano
iloti nel comune accentrato; e tante più centinaia, quanto più
grande sarà la voragine che l'inghiotte. Per una finzione, il diritto
d'intere classi, la loro capacità, l'intelligenza, la probità,
l'onore, si suppongono variare collo stato d'anime, col numero dei legittimi e
con quello dei bastardi; variano di anno in anno, variano di campanile in
campanile, dipendono da un'anima; dipendono da un soldo!
Queste
sono leggi che fanno disprezzare tutte le altre.
E
fanno peggio: la maggioranza dei cittadini si sente messa fuori della legge nel
suo comune nativo.
Questa
dunque è la sua porzione d'indipendenza, la sua porzione d'Italia? Il
regno, ch'essa fece col suo voto, la scaccia dal suo comune!
Nell'antica
legge, i nullatenenti erano tutti eguali in tutti i comuni, qualunque fosse
quivi lo stato d'anime. Pagavano il testatico; una porzione di esso appartiene
al fisco, un'altra al comune, ma questa si pagava solamente quando le altre
imposte non avessero bastato a compiere tutte le spese deliberate e approvate.
E nondimeno, anche prima di pagare, e quando era ancora incerto se avessero a
pagare, essi eleggevano a suffragio universale un quinto deputato che
difendesse nel seno della deputazione municipale quel loro diritto d'eventuale
immunità, e vigilasse perchè l'obolo dell'operaio non fosse speso
senza che vi fosse il legale bisogno di spenderlo, e ad ogni modo fosse speso
come si doveva. Al cospetto del comune, e per la porzione di testatico che ad
esso apparteneva, la rappresentanza non era condizionata al pagamento; era
condizionata ad una presunta capacità di pagare, ad una certa apparenza
di modesta dignità.
Questa
legge era fatta da un uomo che aveva anche il senso morale!
Che
se l'operaio fosse andato a domiciliarsi in altro comune, portava seco il
dovere di pagar l'imposta al nuovo comune e il diritto d'avervi la sua parte di
rappresentanza. Insomma, chi fosse pur povero, ma non fosse indigente, nasceva
sempre e viveva membro legale d'un qualche comune; era in qualche luogo
cittadino attivo e votante. Posto una volta il fatto che i cinque franchi
incirca dell'antico testatico, o i cinque franchi della minima imposta
presente, fanno giuridica prova che il cittadino è capace d'eleggere i
suoi municipali in un comune di trecento anime o anche di tremila, non è
più lecito al legislatore di dirgli: «Bada bene che oggi ti giudico degno
d'esser cittadino; ma ti avverto che non sarai più degno di dare il tuo
voto dimani; imperciocchè la patria va prosperando, e gli stati d'anime
nei comuni vanno crescendo; e io tengo in serbo una famosa dottrina per la
quale, a misura che colla pubblica prosperità cresce il numero degli
uomini, debbe scemare il numero dei cittadini, essendochè la
prosperità pubblica è un segno legale di degradazione. Ma
ciò non ti dico per dispregio in che io tenga chi paga solamente cinque
franchi; perocchè io faccio giustizia a tutti; e se tu fossi membro d'un
grande comune suburbano e tu avessi voto a condizione di pagare venti franchi,
perchè quivi lo stato d'anime potesse quando che sia toccar la cifra di
60mila, io potrei bene dimani accentrare il tuo suburbio colla tua
città; e allora tu pagando solamente venti franchi, e non venticinque,
diverresti immantinente cittadino indegno. Imperocchè tu sai come
codesto accentramento dei comuni debba fare più luminose le scuole e
più illuminati i cittadini. E io tengo un'altra famosa dottrina secondo
la quale, coll'aumento dei lumi, deve decrescere il numero degli ignoranti; e
per ciò deve crescere il numero di coloro che non saranno capaci
d'eleggere un consigliere municipale».
[1] Relazione di F. Cortese nel volume III del Ramusio, p. 230.
[2] Horibles crueldades, ecc., pubblicata da
C. M. de Bustamante, Mexico 1829, p. 91.
[3] Gama, Descripcion, ecc. § IV, p. 94.
[4] Evangeliarum, Epistolarium et Lectionarium Aztecum, sive mexicanum ex antiquo codice mexicano nuper reperto, cum praefatione, interpretatione, adnotationibus, glossario, edidit BERNARDINUS BIONDELLI Mediolani, MDCCCLX, apud Joseph Bernadoni. Un vol. in fol. di pagg. LII, e 576 con fac-simile.
[5] Vedi i tre veramente preziosi volumi dell'Historia de las cosas de Nuova España del padre francescano Bernardino Ribeira de Sahagún, publicati a Messico per cura di C.M. de Bustamante nel 1830, e da lui dedicati a Papa Pio VIII.