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Carlo Cattaneo

 

Scritti vari

 

INDICE

1.                  PSICOLOGIA DELLE MENTI ASSOCIATE  1

2.                  GLI ANTICHI MESSICANI 27

3.                  DEL PENSIERO COME PRINCIPIO D'ECONOMIA PUBLICA  39

4.                  NOTIZIE NATURALI E CIVILI SU LA LOMBARDIA  52

5.                  SULLA LEGGE COMUNALE  E  PROVINCIALE  90

 

 

 

 

 


 

 

 

 

Carlo Cattaneo

 

PSICOLOGIA DELLE MENTI ASSOCIATE

 

 

Idea d'una Psicologia delle scienze.

 

1. La Psicologia è lo studio delle facultà del pensiero.

La più adulta e perfetta forma del nostro pensiero è la contemplazione scientifica, - la contemplazione dell'ordine universale, - dell'ordine nella natura e nell'umanità.

Or bene, molti sono gli uomini, molte anzi sono le nazioni, le cui menti non toccarono mai queste sublimi altezze. Mentre il nome d'alcuni popoli si trova scritto con note gloriose sul vestibolo d'ogni scienza, innumerevoli nazioni si sono estinte senza lasciar di loro al mondo una sola idea. Oggi ancora le selve dell'America, le lande dell'Africa, e dell'Australia, ampie regioni dell'Asia, alcune estremità dell'Europa, sono seminate di genti dal cui sterile intelletto il corso dei secoli non vide mai spuntare germoglio di scienza.

Mancò forse ad essi alcuna necessaria facultà? La loro impotenza scientifica è forse una condanna fatalmente inflitta dalla natura? - La nature de l'esprit humain est la même chez tous les hommes, rispondono le scôle francesi. Quando la psicologia annovera e descrive le facultà dell'animo, le considera tutte come un retaggio commune degli uomini, come un segno caratteristico del genere.

Come dunque si spiega codesto splendido privilegio del pensiero scientifico? S'è un produtto spontaneo e immediato delle facultà umane, perchè non si offre egualmente in tutti i popoli? Quali sono le condizioni necessarie affinchè le facultà che si affermano eguali in tutto il genere umano, si esaltino fino a questo ápice della loro potenza? Come nascono in seno ai popoli le scienze? V'è una Psicologia delle scienze?

Tale è l'argumento ch'io propongo non tanto a me medesimo quanto a chiunque ha fede che questi oscuri studii possano aspirare con tutti li altri e come li altri ad un graduale progresso, per potere esser poi ministri di pratico progresso ai popoli.

Signori, le ricerche della Psicologia non sono vano pascolo di menti oziose. Il principio psicologico della sostituzione reciproca dei sensi ha insegnato ai nostri padri un'arte ignota al mondo antico, ha insegnato l'educazione ragionata dei ciechi nati e dei sordi muti. Or v'è nelle nazioni un ordine, cento e cento volte più numeroso, di ciechi nati ai quali la luce del vero non è luce, - un ordine, cento e cento volte più numeroso, di sordi muti ai quali la voce del vero percuote indarno li orecchi. Ma mentre in altri tempi le scienze furono giurate al silenzio, celate misticamente al vulgo profano, ora lo spirito del secolo vuole che diventino libero patrimonio di tutti i popoli. I propagatori delle scienze devono dunque investigare per quali modi il massimo numero delle menti possa venire eccitato e sussidiato a intraprendere tutto quell'ulteriore lavoro mentale che supera i limiti dell'infimo senso commune.

 

2. Mi pare evidente anzi tutto che gli elementi della questione sono a ricercarsi nella natura umana e non nelle esteriori e materiali condizioni dei popoli.

Nel secolo scorso, per autorità principalmente di Montesquieu e di Herder, si attribuì somma influenza ai climi nella genesi della civiltà e perciò anche della dottrina. Ma l'istoria delle scienze fa troppo contraria testimonianza. Se l'India ci diede le cifre decimali, se li Arabi ci diedero il concetto o almeno il nome dell'algebra, e della chimica; il logaritmo fu ideato nell'estrema Scozia; Newton, l'interprete delle leggi delli astri, visse nel più nebuloso dei climi; e Linneo, che unificò nell'idea del fiore tutto il regno vegetale, visse tra le nevi della Svezia. A parte dunque i climi!

Più accetta, ancora ai nostri giorni, è la dottrina che reputa il genio scientifico un distintivo di certe stirpi. È chiaro che, ciò pensando, ogni popolo tende ad adular sè stesso. È una forma della boria delle nazioni (Vico).

Questa naturale e antica ipotesi dei popoli eletti acquistò nuova forza dalle due novelle scienze che sursero dall'applicazione della botanica e della zoologia alla geografia. Come ad ogni regione del globo fu data una propria flora e una propria fauna, come certe specie, indigene ad una terra, rappresentano altre specie dello stesso genere, negate a quella regione e concesse ad un'altra, così pure, a complemento di tali varietà della creazione, una più ardita ipotesi assegna in origine ad ogni terra una diversa specie del genere umano. Certe varietà, o certe miscele di più varietà, sarebbero riescite più valide di corpo o d'intendimento e atte ad espandersi più poderose sulla terra, distruggendo o confondendo seco o in ambo i modi obliterando le altre stirpi primeve. E così si sarebbero costituite quelle stirpi che sole si potrebbero designare col nome di specie pensante: Homo sapiens.

Signori, non è del mio argomento d'accettar questa ipotesi o d'impugnarla. Io non ho dunque a dire come si dovessero in tal caso evitare quelle odiose illazioni che parrebbero dover quindi scaturire a danno delle stirpi più deboli, e a conforto di coscienza ad ogni sorta di conquistatori e d'oppressori. È noto quali conseguenze traessero i fautori della schiavitù dei Negri dalla scoperta d'una costante differenza nell'angolo faciale tra i Negri e i Bianchi, onde aver argumento che quella stirpe fosse inetta ad ogni alto pensiero e predestinata a vegetare in perpetua puerizia e in tutela necessaria de' suoi nemici. Voi vedete, Signori, che se l'ipotesi fosse dimostrata, l'iniquità delle conseguenze non ci esimerebbe dal dovere d'accettare una dura verità.

Vorrei piuttosto prescindere da questa ipotesi nel nostro argomento. Piuttosto direi che se con essa si verrebbe assai facilmente a sciogliere il quesito della primitiva disparità d'intelligenza fra i popoli, ancora non si spiegherebbe come una progenie gentile e sagace, una progenie per molti secoli gloriosa nelle scienze, possa ad un tratto ricadere nella più profonda impotenza mentale. Non si spiegherebbe come la stirpe greca, già feconda d'ogni frutto scientifico, ombreggiasse poi per mille anni, infecondo plàtano, la terra di Costantino. Non fu la spada dei Turchi che troncò nel secolo XV in Grecia la vita della scienza; essa era già da mille anni inaridita. Non furono neppure, come alcuno pensò, le controversie teologiche che preoccupando le menti le avessero chiuse ad ogni altro pensiero. Perocchè voi sapete che tra le dispute pur teologiche della Sorbona s'agitava negli stessi secoli la nuova vita del pensiero in Occidente. Infine noi vediamo oggidì nell'Asia cinquecento millioni d'uomini, metà del genere umano, appartenente a nazioni ingegnose ed educate in una tradizione scientifica assai più antica della nostra, giacer quasi mentalmente petrificati, simili ai depositi fossili che fanno testimonio d'una vita che non è più.

Pur troppo in forza di cause che stanno certamente nel dominio della psicologia, un popolo, il cui pensiero rifulse sul mondo per una serie di generazioni, perviene ad una generazione che cessa di pensare, che depone quasi in sepolcro le facultà ch'erano sì operose ne' suoi padri, che smarrisce perfino la coscienza di possederle, ripudia come una colpa ogni novello pensamento, ogni novella opera delle sue facultà. Fra le gare del progresso, Signori, la scienza non deve obliar nemmeno la dolorosa teoria della decadenza e del regresso, il quale è pure un fatto che si avvera e apporta talora non solo una lunga degradazione dei popoli ma la loro estinzione. Ma forseché tutta una posterità nasce priva di quella dote d'ingegno che distinse i suoi padri? E se ha le medesime attitudini naturali e non se ne vale, qual è il principio che le venne subitamente mancando? Qual è codesto principio che infonde lo spirito della vita nell'intelletto delle nazioni, e poi di repente può abbandonarle ad un sopore di morte?

E viceversa l'ipotesi della disparità delle stirpi non può spiegare come le genìe sì lungamente barbare degli Scandinavi, dei Germani, degli Slavi, dei Magiari, quasi d'improviso, mentre l'Europa meridionale imbarbarita anch'essa non poteva communicar loro un impulso scientifico ch'essa medesima più non aveva, poterono determinarsi alla vita nuova del pensiero, e per l'intermedio di lingue straniere e morte, iniziarsi nelle scienze tanto spregiate dai loro padri. A risolvere il problema dell'improviso trapasso dei primitivi selvaggi dall'errare ferino alla vita agricola, Vico ricorse alla imaginaria ipotesi del primo fulmine e dell'improviso culto di Giove Tonante. Ma forseché quelle tante tribù che rimasero tuttavia selvagge e che vivono nude e canibali ancora oggidì, non hanno udito mai lo scoppio del tuono? Vico aveva ben avvisato, primo fra tutti, che il mondo delle nazioni si doveva spiegare colle leggi dell'intelletto; ma sul bel principio sottoponeva poi le leggi dell'intelletto al caso delle meteore, e lasciava intentato all'analisi il problema iniziale.

3. A me parve sempre che l'inefficacia dei nostri studii si debba al metodo prediletto ai fondatori della Psicologia. Essi per conoscere le umane facultà presero a scrutarle nel senso intimo, nella coscienza, nell'io. Ma parve a me che per apprezzar l'artefice convenisse studiar le opere, che per conoscere le facultà, ossia le attitudini a fare convenisse studiare i fatti ch'esse compiono veramente; che pertanto convenisse perlustrare tutto il circuito delle scienze fino al punto più eccentrico delle loro scoperte, e vedere di quali facultà si potesse discernere in esse lo speciale intervento. Tracciata la circonferenza, resta determinato il centro; ma non viceversa. Nel centro psicologico tutto si unifica e si confonde in una vaga e indeterminata capacità, mentre sull'ampio giro della circonferenza scientifica si possono segnalare distintamente tutti i fatti dell'intelletto e per essi irrefragabilmente le sue facultà, essendo evidente che chi ha fatto poté fare.

Vi sono entro di noi certe forze alle quali noi non abbiamo assegnato parte veruna nell'origine delle nostre idee, e le quali anzi si considerano come estranie all'intelletto; e tuttavia, se scrutiamo i fatti, troviamo essere state coefficienti potentissimi d'ogni nostro lavoro scientifico.

Considerate l'istinto. L'istinto è la facultà di compiere certi atti senza previa cognizione. L'istinto è l'azione senza l'idea. È una facultà che per ciò appunto può dirsi estrania all'intelletto. Eppure molti degli istinti nostri non possono dirsi superflui ed indifferenti alla complessiva elaborazione del nostro sapere.

Colui che trovò il primo teorema della geometria, avrebbe potuto inventare anche il secondo e il terzo, avrebbe potuto compiere tutta la scienza. Ma la vita dell'uomo ha un limite; il breve suo lavoro vien troncato dalla morte. Bisognò dunque che ad un geometra succedesse un altro e un altro, raccogliendo ciascuno l'eredità del suo predecessore, sicché alla fine tutta la catena delle verità ch'erano a dimostrarsi rimanesse compiuta. Fu dunque necessario che la scienza divenisse una tradizione in seno ad una stabile società.

Talete vide nell'acqua l'elemento per eccellenza. Noi vediamo nell'aqua una combinazione; noi ne siamo certi, perché possiamo disfarla e rifarla: il vero è il fatto, dice Vico. Avrebbe potuto Talete ne' tempi suoi pervenire a tanto? Da Talete a Lavoisier corsero ventiquattro secoli, seco portando tutto il lavoro della scienza degli antichi Greci, delli Arabi e dei moderni. La scoperta dei componenti dell'aqua era un ultimo gradino in una lunga scala di pensieri, a edificar la quale avevano collaborato molte generazioni. Essa non era l'opera delle facultà solitarie d'un uomo, bensì quella delle facultà associate di più individui e di più nazioni.

È dunque una necessità della costruzione scientifica ch'essa surga nel seno d'una società, anzi di molte società, dimodoché al mancar dell'una per qualche avversità l'opera possa venir continuata da un'altra.

All'elaborazione della scienza non basterebbero dunque tutte le facultà dell'intelletto, se l'uomo non fosse già per istinto di natura un essere socievole, s'egli avesse, non l'istinto del castoro, ma quello dell'aragno il quale abita solitario nel centro della sua tela. Ecco dunque l'istinto entrare nell'opera scientifica come un necessario coefficiente.

E v'entrano altri istinti. V'entra quel bisogno di communicare altrui i proprii sentimenti e pensieri, che vediamo nella più inculta feminetta. Quindi lo spontaneo sforzo d'imparar la parola e di formarla; lavoro che noi andiamo proseguendo coll'imporre un nuovo vocabolo ad ogni nuova scoperta, all'ossigene, al silicio, alla locomotiva. E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le voci scientifiche più astratte sono traslati o derivati d'umili vocaboli d'ordine concreto e sensuale. E se spingiamo l'analisi più avanti e riduciamo i derivati alle radici, troviamo residuare al fondo d'ogni più dotta lingua un capo morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo. E qui ci si affaccia un altro degli istinti umani, quello dell'imitazione; che se si eccettua qualche specie d'augelli e di scimie, è uno dei più caratteristici della specie umana; ed è di supremo momento non solo alla formazione della parola, ma in tutte le arti. E questo medesimo istinto imitativo, combinato ad altri, ci spiega il fatto della tradizione domestica e della tradizione scientifica, onde proviene l'associazione delli avi ai posteri, dei maestri agli allievi, e la perpetua successione nell'immortale opera del sapere.

E vi sono altri istinti che possono svolgersi solamente in seno alla società. E son quelli che la scôla scozzese chiama istinti morali e che altre scôle preferiscono di chiamar piuttosto col nome di sentimenti. Tale è la credulità, l'adesione all'amicizia e all'autorità, l'amor della lode, il terror dell'infamia.

Signori, io non vi leggo un trattato; io vi propongo l'idea d'uno studio. La psicologia delle scienze come quella delle lingue, come quella delle leggi e delle religioni e delle istituzioni tutte è un ramo d'una psicologia delle menti associate, ch'io vorrei non contraporre, ma bensì sovraporre alla psicologia della mente individuale e solitaria. Tutti i pensatori sentirono che dall'intelletto dell'individuo non si poteva salire alle alte astrazioni e alle sublimi verità. Epperò furono astretti a supplire con ipotesi più o meno infelici, come l'anamnesi di Platone, che considerava l'idea come una fioca reminiscenza d'una vita anteriore; - come le idee innate, - come la visione di Malebranche, - come le categorie del pensiero anteriori ad ogni pensiero, - come l'idea dell'essere anteriore ad ogni idea. E con tutto ciò non davano ragione della differenza che stava tra Polifemo e Archimede. Perocché la reminiscenza platonica, e le idee innate, e la visione divina e le categorie e l'idea dell'essere, com'erano in Archimede, scienziato, così erano anche in Polifemo, idiota e canibale.

Signori, il lievito che fa fermentare le idee non si svolge in una mente sola; il genio si tien per mano alla catena de' suoi precursori. Perché si destino le idee, devono attuarsi i più generosi istinti, devono infervorarsi gli animi. La corrente del pensiero vuole una pila elettrica di più cuori e di più intelletti.

Io devo scorrere a volo su queste idee. Lascio l'istinto; e tocco per un istante la sensazione.

 

4. La sensazione pare a primo aspetto il dominio nel quale è grande e forte la vita selvaggia. Quante volte non si leggono meraviglie della vista acuta del selvaggio che discerne nella sabbia le pedate della tribù nemica! Come paragonarle la fioca vista nutante che si logorò alla lampada notturna e che Galileo spense nei cristalli del telescopio? Signori, questa è un'illusione. Confrontiamo la somma intera delle sensazioni che si schierano innanzi alla mente del selvaggio e alla mente dello scienziato.

È vero che il selvaggio vive assorto nei sensi; è vero che l'esercizio assiduo e la dura necessità glieli rendono vigili e acuti. Ma s'egli avesse pure la vista dell'aquila e l'odorato del cane, sempre è vero che le sue sensazioni non hanno varietà. Sono le sensazioni che si possono raccogliere entro quell'orizzonte di selve in cui si chiudono le sue consuetudini, i suoi timori. Poche specie di piante, la più parte neglette e inosservate a lui perché inutili a' pochi suoi bisogni; pochi animali; una riva di fiume, o di lago; gli antri e i tugurii che ricettano la nuda tribù; le vestigia dei nemici o il loro terribil grido. Quando noi pensiamo alle selve primeve, la nostra imaginazione può affollar quasi in un punto tutte le più varie e molteplici apparenze. Ma non è così. Ogni terra ha un aspetto suo; climi piovosi o aridi; le vaste arene dell'Australia o le vaste paludi dell'Orenoco; òasi sparse di palmizii; o alpi uniformemente annegrite dagli abeti; praterie su cui regna tale o tal famiglia d'erbe, con aspetto nuovo e grato a chi arriva, uniforme e tedioso a chi rimane. Nella nostra patria, più di cinquecento specie vegetanti, un quinto incirca delle piante fiorifere, appartengono alle due sole famiglie delle graminee e delle composite, le più delle quali si possono appena fra loro con attentissimo studio discernere.

Ma il regno della sensazione scientifica abbraccia tutte le terre e tutti i mari; i vulcani e i ghiacciai, le pianure e i monti, gli arcipelaghi dispersi nell'Oceano e il deserto senz'aque. Li animali delle varie zone e dei singoli continenti, il camelo e il renne, l'elefante e il cangaroo passano a rassegna inanzi a lui, vivono nelle sue stalle o nei suoi serragli; stanno ordinati ne' suoi musei, disegnati e coloriti sulle pareti delle sue case. Qual Samoiedo vide mai le piante o li animali o li uomini della Nigrizia? Il selvaggio può veder solo le cose della sua patria; la sensazione scientifica abbraccia tutta la terra. L'uomo civile non solamente riceve le sensazioni; ma le fa. Egli si àncora inanzi alle isole dell'Oceano e assorda i selvaggi col tuono e col lampo delle sue armi. La luce delle sue notti festive eclissa il chiarore delle stelle. I colori di tutti i metalli, il fulgore di tutte le gemme; i fiori e i frutti raccolti d'ogni parte e modificati dall'arte in varietà infinite che la natura non conosce; le innumerevoli combinazioni dei suoni e dei tempi, tutta la creazione della musica di cui nel seno della natura troviamo appena la prima intonazione, sono tutti nuovi fenomeni che la facultà motoria attuata da altre più sublimi facultà fornisce alla facultà sensitiva. Anche le sensazioni più connesse all'appetito animale, si vanno variando e moltiplicando colla civiltà. Noi non badiamo, ma pure sono oggetti ignoti alla vita selvaggia il vino, il pane, e tutte le mille combinazioni dei sapori e di profumi.

V'è un mondo invisibile all'occhio nudo, rivelato alla scienza dal telescopio e dal microscopio. Noi possiamo discernere i monti della luna, le fasi di Venere, le agitazioni della superficie solare, i punti lucenti della via lattea e delle nebulose. Noi discerniamo li infinitamente piccoli che vissero in un grano di tripolo, che vivono in una goccia d'aqua, che nuotano nelli umori della nostra pupilla. Tutta la chimica è una rivelazione di fenomeni naturalmente inaccessibili ai sensi. Qual selvaggio potrebbe veder sollevarsi dalle feccie d'una fonte salmastra i vapori verdastri del cloro o i vapori violacei dell'iodio? È questo un ordine nuovo di sensazioni che la scienza crea a sè stessa.

E li apparati elettrici sono come nuovi sensi; poiché con essi possiamo apprender fenomeni che sfuggono a quei sensi che abbiamo da natura; possiamo entrare in commercio con poteri della cui presenza nell'universo il selvaggio non ha percezione. È lecito imaginare che come da natura ebbimo un senso che avverte le vibrazioni luminose e un senso che avverte le ondulazioni sonore, così avremmo potuto nascer muniti d'altro organo che indicasse come fa la bussola le oscillazioni magnetiche. Forse è qualche interno sensorio di tal fatta che dirige certe specie di rosicanti nelle loro migrazioni dal levante al ponente della Siberia. Ebbene chi ci diede a scorta l'ago calamitato tra le nebbie dei mari, tra il polverio del deserto, tra i labirinti delle miniere, chi tese un telegrafo elettrico dall'uno all'altro declivio d'una montagna, dall'uno all'altro lido d'un mare ci fornì dunque un equivalente ad un nuovo senso, utile e reale quanto i sensi della vista e dell'udito. Nulla poi rileva all'effetto se sia un organo corporalmente inserto nel nostro encefalo, o se i nuovi fenomeni rappresentandosi nello spazio colle vibrazioni d'un ago o d'un manubrio si traducano nel senso della vista. Per esso la mente nostra venne iniziata a un ordine d'idee che la vista per sè non poteva donarci, e che più delli altri s'interna negli arcani dell'universo.

Le poche sensazioni del selvaggio sono sterili all'intelligenza, perché vaghe, incerte, incommensurabili. Il selvaggio non può paragonare il calor di due estati, il gelo di due inverni. Noi sì, col mezzo degli strumenti, precisiamo quanto varia il freddo da neve a neve, quanto varia l'ardore da fornace a fornace. Noi sappiamo a quale calore precisamente si liquefà il piombo, a quale il ferro, quante calorie devonsi accumulare in una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva. L'apparato di Melloni accusa l'aggiunta infinitesima di calore che ci apporta una persona che si affaccia all'opposta estremità d'una camera. Fin qui vediamo moltiplicarsi sotto la mano della scienza i fenomeni della sensazione; ma tuttavia ciascuno di essi rimane oggetto d'una percezione individuale. Or bene, vi sono fenomeni che un individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza, nemmeno col ministerio degli strumenti, se non vi si associano i sensi di molti. Li uomini che videro il ritorno della cometa di Halley non sono più quelli che ne osservarono, settantacinque anni prima, l'altro arrivo. Per determinare lo spazio su cui vibra un terremoto, bisogna che più uomini si avvertano fra loro d'averne percepito la scossa ai limiti estremi. Li osservatori che sparsi in diverse stazioni esplorano la tensione magnetica del globo sono come le parti d'un commune sensorio delle nazioni pensanti.

Signori, lo splendido imperio della sensazione non è nei sensi dei selvaggi; esso è nella scienza esperimentale, cinta di tutti i suoi mirabili strumenti, accampata sulle mobili cupole degli osservatorii. E il poter della scienza si svolge nel giro di tutte le facultà e tocca il sommo nello sviluppo delle facultà riflessive.

A questo chiamerò l'attenzione vostra in altra lettura.

 

 

Della formazione dei sistemi.

 

Lo studio che mi pregio di parteciparvi è la continuazione d'un lavoro del quale vi diedi già ragguaglio altra volta. Ma per non riescirvi troppo indiscreto lettore, trapasso molti capitoli intermedii, sperando poter nondimeno esporvi colla desiderata evidenza il mio pensiero.

Mi basta ricordarvi che il generale mio proposito è quello d'investigare fino a qual ordine d'idee possano pervenire le facultà mentali considerate puramente e strettamente nell'individuo solitario, al che da Cartesio fino a noi si circoscrisse per due secoli la psicologia; e prendendo le mosse da questo punto investigare, come, per ascendere a ulteriori ordini d'idee, sia necessaria la reciproca azione di più menti associate; il che verrebbe ad essere oggetto d'un altro ramo di psicologia.

Oggi intendo additarvi brevemente questo distinto lavoro della mente solitaria e delle menti associate nella successiva formazione dei sistemi. Il quale studio non vorrete riputare inutile, quando vogliate considerare che codesta successione di sistemi costituisce il progresso continuo e indefinito, nella fede al quale il nostro secolo si distingue da tutti i secoli antecedenti. Perocché i nostri padri, anche quando di tutto proposito abbracciavano le più remote utopie, sempre credevano che almeno colà fosse il punto nel quale la natura umana potesse perpetuamente acquietarsi. Ma pur troppo quella quiete, anche trasferita a qualsiasi più lontano termine, sarebbe sempre l'assopimento delle nostre facultà più attive, e la mutilazione della nostra vita intellettuale e morale.

È superfluo premettere che per sistema intendo una serie d'idee fra loro intimamente connesse per mezzo d'un'idea principale o principio, cosicché la mente, partendo da questa, perviene per forza d'associazione e di deduzione a tutte le altre; e dalle altre tutte ritorna spontaneamente e abitualmente ad essa, provando in tale atto un intimo senso di sodisfazione e di riposo.

La tendenza a coordinare le idee intorno ad un principio è connaturale al nostro intelletto.

In primo luogo, tutti li objetti delle nostre percezioni fanno già parte d'un medesimo universo; e perciò queste sono già per origine loro collegate in sistema. L'idea d'unire in mazzo più fiori vien destata dalla naturale similitudine che vi è tra fiore e fiore; con ciò la mente solitaria è giunta solamente all'idea del genere; ma questa a distanza comunque immensa accennava già a quel principio intorno al quale, nella maturità dei tempi, Linneo doveva ordinare tutto il sistema delle piante. Tutti li oggetti che destano in noi le idee, facendo parte d'un ordine naturale, tendono a far sistema in noi, perché fanno già sistema fuori di noi. Ciò non dipende dalla nostra mente, ma dal mondo esteriore.

In secondo luogo, siccome l'uomo, per la limitata natura della sua mente, non può rappresentarsi in un tratto molte cose distinte, è costretto a compendiare molte idee in un solo concetto; e perciò tende necessariamente a stringere le cose in generi, i fatti in leggi, e i generi e le leggi in ordini e sistemi sempre più comprensivi, aspirando sempre all'unità pur quando non ha la forza d'afferrarla.

In terzo luogo, le singole facultà mentali, la sensazione, la memoria, l'attenzione, la riflessione non sono esseri separati, ma un unico essere pensante ch'esercita diversi atti. Di tutti questi atti esso ha un'unica coscienza, nella quale anche le idee più disparate vengono a darsi ricapito, e ad associarsi in varj modi sia per simiglianza intrinseca sia per diretta opposizione, sia per circostanze estrinseche di luogo e di tempo, sicché la presenza dell'una apporta inevitabilmente nello spirito la presenza dell'altra.

In quarto luogo le idee universali come lo spazio, il tempo, il numero, l'essere, la sostanza, l'azione, ripetendosi per tutti i generi servono a collegarli sotto un aspetto commune. Dagli universali si passa per deduzione ad altri universali; e questi rimangono legati con quelli; e con essi si collegano tutti gli oggetti in cui li ravvisiamo.

In quinto luogo, molte operazioni riflessive, come la sintesi, la classificazione, la deduzione, consistono già nel ravvicinare le idee e nell'ordinarle e nel connetterle in diversi modi; il che prepara, per così dire, i fili da tessere poscia in sistemi.

L'uomo dunque e perché vive in presenza ad un unico universo: e per la limitata natura del suo intelletto: e per l'unità della sua coscienza: e per l'identità degli universali: e pel complessivo effetto di tutte le operazioni riflessive, tende a far sistema delle sue nozioni anche se lo imaginiamo onninamente isolato, a guisa della statua pensante di Condillac e di Bonnet.

Ma consideriamo l'uomo al sito vero, che gli spetta nella catena dei viventi, consideriamolo come un genere naturalmente e spontaneamente gregario come l'antilope, sociale come il castoro, famiglievole come il colombo. Anche nella vita spontanea e primitiva, l'intelletto, quantunque appena galleggiante sopra gli istinti della natura animale, già tende al sistema. Il selvaggio conosce appena il clima del suo cielo, le selve e le sabbie della sua terra; è rinchiuso in un'isola in mezzo all'interminato oceano; eppure egli sospinto da quelle interne potenze che sono indivisibili dal suo essere, fa già sistema di quanto gli sta intorno. Egli ha già qualche cosa da aggiungere a ciò che i suoi sensi gli dicono del sole e della luna, del vento e della pioggia, delle erbe e degli animali.

E dove rinviene il selvaggio l'idea-principio intorno alla quale unificare tutte le altre? Il selvaggio, flagellato assiduamente dalle necessità della vita, non si cura se non di ciò ch'è necessario alla vita. Tutto ciò che non è cibo e bevanda, tutto ciò che non è caccia o battaglia, tutto ciò che non può nuocere al suo nemico, né giovare a quel gruppo di viventi col quale egli è immedesimato, è nulla per esso; esso non lo vede e non l'ode. Tutti i viaggiatori hanno notato codesta incuria del selvaggio per tutto ciò che non entra nel rigido circolo de' suoi pensieri. La fame, la sete, la stanchezza, come lo spavento, l'amore, la vendetta lo richiamano sempre a sè e a' suoi. V'è una voce che suona unica e assidua nella sua coscienza, la voce dell'egoismo, ciò che la scienza chiama l'io; intorno al qual io si avvolge la famiglia; e insieme ad essa ed alla tribù amica, si avviticchia come fascio di spine la tribù nemica. La passione predomina all'intelletto; l'idea non germina se non in quanto la passione la cova. Il primo sistema, nel punto medesimo in cui scaturisce dall'io, è già un sistema sociale.

Con questo principio, di sentimento e non di ragione, di mera associazione d'idee e non di lavoro riflessivo, l'uomo spiega a sè stesso, tutti i fenomeni dei quali si cura e dei quali si accorge; tutti li altri restano ripulsi dal suo sistema. Io lo chiamo un sistema chiuso. Un sistema, non turbato da estrania influenza, potrebbe restar chiuso in eterno. E vaglia il vero; dopo migliaja d'anni dacché cominciò sul globo l'epoca dell'uomo, vi sono ancora oggidì tribù dell'Australia e dell'America equinoziale, che non hanno ancora trovato i numeri per contar le dita d'una mano. Molti popoli sono periti senza uscire dalla prima barbarie.

Questa filosofia del selvaggio interpreta la natura per mezzo della volontà; perché la volontà è un principio affine all'istinto e del quale anche la vita selvaggia è conscia a sè. Ogni cosa che si move appar cosa viva; l'animale, la pianta stessa appajono trasformazioni dell'uomo. Nella morale d'Esopo li animali sentono e pensano come li uomini. E dove la favola d'Esopo può valer di morale; la metempsicosi può divenire la teologia.

Dico può divenire; ma quando? E come? Qual è l'occasione che può svolgere nell'intelletto barbaro questo o qualsiasi altro nuovo corso di pensieri? Qual è il principio intorno a cui può costituirsi un nuovo sistema?

Il principio è ancora il sentimento. Presso le più misere tribù, vi è sempre negli individui o nelle famiglie qualche grado maggiore di forza o di coraggio o di sagacia, o anche solo d'ambizione e di ferocità. V'è dunque alcuno che guida quando li altri camminano, che riposa quando li altri vegliano, che giudica quando li altri contendono, che riceve una più larga parte della caccia e della preda. La sua vita meno aspra può adagiarsi alquanto, può comprendere anche ciò che non interessa solo la fame e la sete. Il suo io, conscio di quei barbari onori e di quei barbari poteri, concepisce già l'idea d'un ordine di cui sente d'esser principio in seno alla sua tribù; ed attribuisce un simile ordine anche alle volontà che crede regnanti in seno alla natura.

In questo nuovo uomo che si sovrapone alla società, i sensi meno assediati dal bisogno lasciano un più largo respiro alla imaginazione. L'imaginazione riempie tutti li spazii che la sensazione non preoccupa. La fantasia compie sempre i sistemi; anche nelle età più tarde essa fornisce le ipotesi che spesso fanno funzione di principio. Il disco del sole e della luna eccitò nella mente una vaga idea di volto umano; la pittrice fantasia lo compì; tracciò vagamente due corpi, l'uno virile, l'altro femineo; ecco il sole e la luna fratello e sorella; tutti i casi della barbara tribù si tradussero negli astri; l'eclissi parve una lutta mortale con qualche mostro invisibile; quando la luna non risplendeva, fu creduta discendere in terra, costretta da voce potente o da furtivo amore. Le società umane, nelle ubertose valli lungo i grandi fiumi e i laghi si vennero associando e moltiplicando, si sparsero in altre regioni, trovarono altri frutti, scopersero i grani, domarono il cavallo e il toro, inventarono il carro; e la fantasia prosegue mano mano il suo lavoro; donò i cavalli e il carro anche al sole, alla luna, all'aurora, alla notte.

Così colle conquiste del senso e della ragione crebbe anche l'eredità dei sogni. La scoperta non poteva luttare colla tradizione dell'errore nel cui seno veniva insensibilmente e quasi secretamente nascendo. Sempre la fantasia tenne la più larga parte del sistema sociale in tutto ciò che non cade rettamente sotto il criterio del senso; è la verità che apparve alle moltitudini come un sogno. Non è vero che anche oggidì la chiamiamo spesso utopia? Il padre Caccino poté deridere Galileo in faccia a' suoi cittadini: Viri Galilei quid statis adspicientes in cælum? E Democrito, l'uomo di genio che primo vide nella Via Lattea una miriade d'astri lontani, parve l'uomo che parlasse solo per deridere chi l'ascoltava. Verità pareva alle moltitudini che la Via Lattea fosse traccia di latte sparso dalla Dea dell'aere; ovvero che fosse un solco della campagna celeste riarso dal carro vagabondo del figlio del sole; e ai sagaci e gravi Romani, Ovidio poté ripetere ancora ch'era la gran via che conduce i celesti alla reggia di Giove

 

Hac iter est superis ad magni tecta Tonantis.

 

E noi pure, noi, nel ripetere questi eleganti sogni sentiamo nella mente non so quale voluttà.

I varj sistemi primitivi che i popoli si andarono foggiando, consuonano sempre fra loro in alcune parti. Ciò avviene perché la natura anche nelle più diverse contrade offre molte leggi identiche e molte circostanze simili; e perché il genere umano, anche fra le stirpi più inegualmente dotate dalla natura, ha simili facultà percettive e riflessive. È ciò che Vico chiamò la commune natura delle nazioni; in virtù della quale si riscontrano le medesime idee fra i popoli che non hanno potuto farsene communicazione.

Ognuno di codesti sistemi sociali contiene qualche parte di vero, contiene la cognizione di qualche fatto naturale utile all'uomo. Un popolo avrà trovato il frumento; un altro avrà trovato il ferro. Uno avrà osservato li astri per guidarsi sul mare, l'altro per nutrire le sue superstizioni o farsi animo nelle sventure. Se due popoli vengono a communicare per effetto di conquiste, di schiavitù, di commercii, di parentele, di studii, le scoperte fatte dall'uno si aggiungono alle verità scoperte dall'altro. Le nuove parti di vero scacciano quelle idee posticcie e imaginarie che tenevano il loro luogo nelle menti. Le altre fantasie rimangono. Le parti conciliabili dei due sistemi, vere o imaginarie, vanno a poco a poco raccozzandosi in nuovo sistema. Questo trapassa nella tradizione; e se altra innovazione tosto non sopraviene, il sistema si compie e si chiude, e la ragione publica vi si acquieta. Il nuovo sistema è progressivo; cioè corrisponde più fedelmente all'ordine della natura e della morale, se il nuovo elemento è una verità. Ma se il nuovo elemento è un nuovo sogno, s'è la fantastica asserzione d'un Maometto, s'è il despotismo che si pone in luogo della libertà, s'è l'autorità che si pone in luogo della ragione, il sistema è regressivo. Vi è nelle nazioni il progresso, ma v'è anche il regresso e il decadimento; non si può negare che molte terre fiorenti or sono desolate; e molti popoli sono periti. Ma se i nostri padri non credevano al progresso, noi non crediamo quasi più al decadimento. Il progresso prevale perché col corso del tempo cresce naturalmente il numero delle verità. In generale un sistema posteriore ad un altro abbraccia maggior copia di scoperte. Talora anche per la via di grandi calamità un popolo viene spinto quasi per forza sotto i raggi di nuove verità. Concepisce quindi un principio di maggior potenza, poiché l'uomo tanto può quanto sa.

Roma ne' suoi primordii trovossi al confine di tre lingue, la latina, la sabina, l'etrusca, ciascuna delle quali rappresentava un proprio sistema d'idee. Roma adunque riunendo nel suo recinto famiglie di quei tre popoli, riunì tre sistemi che divennero un solo; poté valersi delle idee di tre popoli; a queste aggiunse poi le idee d'altri popoli più lontani, come dei Cartaginesi e dei Greci. A senno e valore eguale, i suoi consigli dovevano preponderare; questo costante vantaggio doveva condurla infine a soggiogare e assorbire le forze rivali.

Costituita così da origine, Roma rimase sempre accessibile alle idee degli altri popoli; essa le accoglieva, non le rifiutava come fece la China o l'India, che erano costituite fin da origine con sistemi esclusivi. La China impose le sue tradizioni anche a' suoi conquistatori.

Poche miglia lontano da Roma, erano sparse su tutti i lidi d'Italia le città greche; ed ecco la missione attribuita ai Decemviri, d'aprire le leggi romane all'esperienza greca. Alle foci del Tevere s'arena una nave punica; e Roma se ne fa immantinente un modello. Perché i Chinesi oggidì non fanno altretanto, perché affrontano colle inette loro giunche le navi animate dal vapore?

Più tardi la filosofia stoica si versò a rivi nella giurisprudenza romana. Un sistema perpetuamente aperto poté continuare per più secoli ad accumulare presso di sè tutti quei vantaggi che presso le altre nazioni rimanevano disgiunti e incompleti. Infine quanto v'era nelle armi, nella politica, nell'agricultura, nel commercio, nella filosofia, nella città degli Etruschi, nei collegii dei Druidi, nelli arsenali dei Cartaginesi, nelle sette della Grecia, tutto divenne eredità d'un popolo che fu più grande di tutti, perché abbracciò in sè quanto faceva grandi li altri popoli.

Ma qualunque sia la copia d'idee che una nazione venga a combinare nel suo sistema, quando essa ha compiuto l'opera e ha potuto conciliare e coordinare tutte le sue idee, allora tende a fermarsi e riposarsi in quella pace mentale. E può rimanervi inoperosa per molte generazioni, finché qualche nuovo principio non la provochi a sconnettere e riformare l'antico sistema.

Intanto, al luogo di chi muore della generazione esercitata e operosa, sopravengono mano mano altre generazioni, che raccolgono per eredità e per passiva imitazione le idee già elaborate. Le facultà mentali e morali dei posteri non hanno occasione di fermento e di travaglio; sono come piante nella stagione invernale; non hanno fronde, non fiori, non frutti; né poesia, né sapienza, né valore, né virtù. Eccovi la grande unità bizantina; ecco ciò che in China divenne la scôla di Confucio ventiquattro secoli dopo Confucio. Tutte le questioni appaiono già sciolte dalla sapienza dei maggiori; miseri i figli che temono d'esser migliori dei loro padri; le dottrine più audaci sono ridutte dal tempo ad aride regole, a formule viete, a consuetudini stupide e servili. Epperò un medesimo ordine d'idee che dapprima fu progresso divien poscia decadimento. Hanno bisogno i popoli di sempre nuovo lavoro per tenere vivaci e sveglie le loro facultà. I sistemi devono tenersi sempre aperti, un sistema compiuto e chiuso diviene il sepolcro dell'intelligenza e della virtù che lo ha tessuto. In tale torpore sono caduti li Asiatici per effetto di quella stessa precoce sapienza che si ammira nei loro antichi sistemi. In tale stato giacque per mille anni la Grecia, dopoché all'instancabile agitazione delle rivali republiche si sovrapose la conquista macedonica e l'unità imperiale. Il sommo pregio della scienza esperimentale non è solamente nei prodigii della fisica, della chimica, in quanto sono benèfici veri alla parte materiale del nostro vivere, ma è in quanto agitando e rinnovando i sistemi tengono in assidua tensione le nostre facultà e pongono le nazioni barbare o stazionarie nella dura alternativa o d'associarsi al progresso o di soccumbere; e ancora in codesta loro apparente ruina d'associarsi a noi e al nostro avvenire.

Laonde un popolo ch'esca appena dalla barbarie ed abbia scarso apparato d'idee; ma si volga con generosa fede alle idee nuove e adoperi ed esalti intorno ad esse tutte le sue facultà, può in breve prevalere ad altro popolo più antico e più addottrinato, le facultà del quale siano compresse dall'autorità del passato. Un sistema aperto può assimigliarsi a una gioventù perpetua, come appunto è ogni scienza esperimentale. Pertanto i popoli antichi nelle colonie ringiovaniscono, in ragione appunto dei sistemi in parte nuovi che sono costretti ad effettuare. Nell'istoria greca i Dori, ch'erano quasi barbari nell'alpestre loro patria, svolsero un alto genio politico nella colonia di Sparta; e non giunsero a piena vita mentale se non nelle colonie transmarine d'Alicarnasso, di Rodi, di Taranto, di Siracusa.

In certe combinazioni d'idee, portate dalle mescolanze politiche e commerciali delle nazioni, vengono sovente a involgersi principj fra loro contrarii. Allora divien perpetuamente vano lo sforzo di conciliarli in sistemi stabili e tranquilli.

Nel patrimonio ideale che l'Europa moderna ereditò da tutti i popoli dell'antichità e del medio evo e vie più accrebbe colle sue scoperte, vi sono molti di tali principii più o meno fra loro discordi. Tali sono la giurisprudenza romana e la feudale; le filosofie dei Greci e la teocrazia degli Ebrei; la matematica e la poesia; la fisica e la metafisica; le necessità dello stato e l'infallibilità della chiesa; il disprezzo delle cose mondane e il culto della ricchezza. Inoltre, il processo esperimentale, fecondo di scoperte, e la rivalità politica, avida di profittarne, spronano continuamente anche le nazioni più torpide e i governi più ritrosi ad abbracciar una serie d'innovazioni sempre rinascente e inesauribile; la quale penetra ed apre i sistemi più compatti.

Fin dal risurgimento delle scienze, le menti costrette a combinare tanti discordanti pensieri, si resero in questo continuo sforzo sottili, audaci, libere. Acquistarono potenza d'emanciparsi da ogni sistema chiuso e di scuotere ogni giogo d'autorità, seguendo risolutamente e impavidamente l'unico lume dell'esperienza e della ragione. Dall'esperienza e dalla ragione sempre nuove scoperte; continua mobilità e incertezza di sistemi, se non in quanto per la loro verace utilità possano giustificarsi; quindi continua necessità di nuove elaborazioni e scoperte.

E perciò nell'Europa una forza espansiva preme e incalza i sistemi tradizionali, tanto delle nazioni barbare le cui facultà non furono peranco esercitate, quanto delle nazioni vetuste le cui facultà erano già ricadute nel sonno. L'opposizione inconciliabile dei principii confusamente in Europa abbracciati, l'inesauribilità del processo esperimentale, e la ragione dei popoli, sciolta omai da ogni vincolo di tradizione, preparano al genere umano un'indefinita carriera e gli promettono una perpetua gioventù.

Il progresso nella proporzione medesima con cui fornisce nuove idee, fornisce anche nuova occupazione all'intelletto, tiene in esercizio forzoso le nostre facultà morali e le spinge a continuo perfezionamento.

In questa fausta prospettiva sospendo la omai troppo prolissa deduzione de' miei pensieri.

 

 

Dell'antitesi come metodo di psicologia sociale.

 

Proseguo a leggere un lavoro del quale ho già sottoposti altri frammenti all'attenzione dei benevoli colleghi. Ma è necessario ch'io perciò richiami alla memoria loro il mio fondamentale pensiero.

Tre campi ha la filosofia esperimentale: la natura, l'individuo, la società.

La filosofia della natura era stata per gli antichi solamente un preludio d'imaginazione. Il nuovo metodo esperimentale, con una tale felicità e continuità di scoperte che già costituì una famiglia di scienze tutte nuove, apre un campo di filosofiche generalità sempre più vasto e sicuro.

Altra gloria dei tempi è la filosofia della società, dacché le lingue, le legislazioni, le religioni, le scienze, le poesie, le arti, divennero nuovo campo d'osservazione morale e mentale.

Non così la filosofia dell'individuo. Anche in questa il principio esperimentale, che aveva già fondato colla reciproca sostituzione dei sensi l'educazione dei sordomuti e dei ciechi, ora tenta nuovi modi d'indagine nelle carceri, nei manicomii, nello studio comparato delle stirpi umane; ma sembra ad alcuni che per questa via si scruti l'uomo piuttosto nelle eccezioni che non nel suo essere normale e generico. Pare ad essi che un profondo pensatore non debba ingerirsi di siffatte varietà; che debba relegarle tra i fenomeni fortuiti e irrazionali; che debba contemplare nella propria coscienza l'individuo tipo; anzi, in un individuo qualsiasi anche selvaggio, debba additare tutte le libere e solitarie fonti dell'umanità e della scienza.

Cartesio, infatti, esimendosi, in nome del puro e nudo spirito, dalla tradizione e dalla società diceva: - «Ma non sapete voi dunque che parlate ad uno spirito talmente sciolto dalle cose corporee che non sa nemmeno se vi fu altro uomo prima di lui?» - Cartesio stimava poco i sensi, né molto stimava l'attività dell'intelletto; attribuiva loro solamente le nozioni infime; tutte le idee più sublimi erano agli occhi suoi gratuite e secrete doti dell'anima nascente. Dio dava le idee; Dio poteva mutarle, come poteva mutare l'universo. Se la vita era una creazione continua, il pensiero era una continua ispirazione. La solitudine di Cartesio era il vestibolo d'una teologia.

Trent'anni dopo la morte di lui, Locke rivendicò i diritti della filosofia sulla filosofia. Negò le idee innate; tentò supplirvi dimostrando come la riflessione bastasse all'individuo per ascendere dai sensi a qualunque più eccelso ordine d'idee. Fece ancor più: - dimostrò come la riflessione ne' suoi più alti sforzi ricevesse sussidio dal linguaggio.

Or voi mi concederete, signori, che il linguaggio è la società.

Adunque Locke, avrebbe veramente attinto la sua dottrina a tre fonti: il senso, la riflessione, il linguaggio, cioè la natura, l'individuo, la società.

Ma la società poi coopera al pensiero dell'individuo in molti altri modi, oltre il linguaggio.

A ciò Locke non aveva mirato; in questo campo non entrò; né vi entrarono quelli che sono detti suoi successori: né quelli che sono detti oppositori suoi. Condillac e Tracy si circoscrissero alla sensazione e al linguaggio. Per amore di semplicità, si sforzarono di far senza la riflessione; senonché introdussero un equivalente: o in quella interna facoltà che, secondo Condillac, trasforma le sensazioni; o nel giudizio che, secondo Tracy, percepisce i rapporti. Per converso, Kant e Fichte si circoscrissero alla riflessione e rigidamente isolandola anche dal senso intimo, la contemplarono sotto il concetto di ragione pura; ma poi l'uno colle forme a priori e colle categorie, e l'altro colle rivelazioni continue, ritornarono verso Cartesio.

Il pensiero sociale non venne contraposto in tutta la sua pienezza al pensiero individuale se non da Vico, contemporaneo della vecchiaja di Locke. Egli studiò l'uomo nelle nazioni; ciascuna di esse gli sembrò ripetere nei diversi luoghi e tempi un medesimo corso d'idee. A distanza d'un secolo, Hegel ripigliò l'ideologia dell'uomo popolo; sciogliendo il circolo di Vico, vi sostituì la moderna idea del progresso; e di più, s'inoltrò coll'analisi a distinguere le singole nazioni, tentando assegnare a ciascuna la speciale attuazione d'una di quelle idee, la cui serie costituisse il progresso perpetuo.

Per opera di questi due pensatori, si manifestò come l'umanità fosse fonte a sè medesima di quei più alti ordini d'idee che indarno i popoli e le scuole avevano dimandato alle muse, alle sibille, ai genii domestici, all'estasi socratica, alla intuizione, all'anamnesi, alla gnosi, alle idee innate, alle armonie prestabilite. Signori, tutte le più alte prove della scienza e della virtù si svolgono negli accordi e disaccordi degli uomini posti fra loro in intima relazione. L'umanità è come la pila elettrica, in cui la corrente non move dall'elemento positivo né dal negativo, ma da certi modi del loro contatto. L'umanità è la sfera nativa di tutto ciò che nel pensiero delle nazioni appare sovrumano. Codesto concetto si vede con tutta semplicità simboleggiato in un detto evangelico: «Poiché ove sono due o tre congregati nel mio nome, ivi in mezzo di loro son io».

Vico ed Hegel intrapresero l'istoria delle idee nei popoli, intrapresero l'Ideologia della società. Ma non risalirono a descrivere i nuovi modi d'azione in cui la società poneva le facoltà dell'individuo; lasciarono intatta la Psicologia della società. Rimase ad indagarsi per quali altri modi, oltre al linguaggio, le menti associate nelle famiglie, nelle classi, nei popoli, nel genere umano, potessero collaborare alla commune intelligenza, ovvero contrariarla; e come venissero ad operare con metodi ed effetti che sarebbero impossibili alle menti solitarie.

Questa Psicologia delle menti associate è un necessario anello tra l'Ideologia dell'individuo e l'Ideologia della società. A questa nuova carriera di ricerche, a questa scienza negletta, che può fornire nuovi sussidii alla cultura delle nazioni, io invito gli studiosi. E anticipo intanto altra porzione del mio tributo.

Ed ora, dall'argomento generale venendo ad uno dei suoi capitoli, traccerò in breve la reciproca azione che hanno più menti, poste fra loro in antitesi, attuate cioè da contrarie idee.

Fichte vide l'antitesi nell'individuo, quando, raccogliendosi nell'intimo della coscienza, viene a discernere l'io dal non io. Ma, nel suo punto di mira, non ebbe a rilevare che in quel non io stavano confuse la bruta natura e la società umana; non osservò che in quel non io poteva opporsi al pensiero nostro il pensiero altrui.

Ciò ch'egli chiamò antitesi, era solamente la distinzione: era un atto di analisi nella coscienza; era solamente la presenza, non era l'opposizione. E siccome la prima intuizione era una, l'antitesi, scoperta in essa per forza d'analisi, poteva congiungersi di nuovo alla tesi; e riescire con questa ad una sintesi: cioè, ad una seconda intuizione, nella quale la coscienza del complesso abbracciasse anche la coscienza delle parti.

Antitesi delle menti associate è, a mente mia, quell'atto col quale uno o più individui, nello sforzarsi a negare un'idea, vengono a percepire una nuova idea; - ovvero quell'atto col quale uno o più individui, nel percepire una nuova idea, vengono, anche inconsciamente, a negare un'altra idea.

Nel primo caso, ciò che distingue la nuova idea si è ch'ella nasce dal conflitto di più menti, e che fra le menti concordi, o in una mente solitaria, non sarebbe nata. Per esempio, in un giudizio criminale, il conflitto dell'accusa colla difesa può condurre alla scoperta d'un colpevole ignoto. Nessuno può prevedere qual sarà l'ultima conseguenza a cui potrà pervenire la negazione d'una idea filosofica, teologica o politica. Senza la negazione di Locke, senza la negazione di Vico, l'idea di Cartesio non avrebbe avuto anche la gloria d'essere il momento vitale da cui partirono due filosofie nuove, poste fuori dei termini ch'egli si era prefisso. Nessuno avrebbe antiveduto nella negazione di Lutero la guerra dei trent'anni, né lo stabilimento in Germania di quella perenne dualità, che le aperse tre secoli di agitazione scientifica, dopo tanti secoli di mentale sterilità.

Nel secondo caso, la nuova idea non nasce in forma d'opposizione; essa può vivere lungo tempo senza palesare la sua forza negativa. In chimica, la scoperta dell'ossigene doveva inevitabilmente togliere all'aria, all'aqua, alla terra il nome d'elementi. Ma nel pensiero di Cavendish o di Priestley o di Lavoisier questo proposito non v'era. Anche dopo quella scoperta, Priestley, che vi ebbe tanta parte, non poté mai darsi pace che l'ossigene fosse la dura negazione di quell'imaginario flogisto nella fede al quale egli era vissuto. E parimenti quando Lavoisier introdusse nell'armamentario chimico la bilancia e accoppiò all'analisi qualitativa la quantitativa, egli predestinò sè stesso e tutti a porre in luce sempre più evidente che la natura procede per proporzioni numeriche assolute. Dimostrato che la chimica è un ordine perenne nel vortice perenne delle trasformazioni, doveva a maturo tempo apparir contradittoria e irrazionale l'idea d'una materia caos.

Epperò fin da quell'istante era data vittoria finale ai numeri dei Pitagorici, contro le metafisiche degli Eleati, dei Platonici, dei Manichei, dei Bramisti, dei Buddisti, pei quali in tutto ciò che soggiace ai sensi, nulla vi è di durevole, di fisso, di certo, di vero; tutto è illusione e delirio. - E oggidì vediamo la dottrina dinamica del calore, quasi ignota ancora nelle scuole, ignota certamente in quelle ove crebbimo noi, svelare la reciproca commutabilità del calore e del moto; escludere l'ipotesi del calorico latente, l'ipotesi d'un fluido calorico e di qualunque sostanza calorica: dissolvere tutta la fisica dei fluidi imponderabili; stringere in un nodo supremo le idee del moto, dell'elasticità, della coesione, dell'affinità, dell'elettricità, del magnetismo, del calore, della luce, dello stimolo, della vita; sostituire al principio dell'emanazione il principio della vibrazione; sostituire alla metafisica della materia, tormento antico delle scuole e terrore dei teologi, la metafisica delle forze: Elohim!

Talora l'antitesi è solo apparente; le idee rivali sopravivono; dividono tra loro un dominio ch'entrambe aspiravano a conquistare, spargono una luce commune sopra altre verità. - In medicina, la opposizione dello stimolo e del contro-stimolo condusse a misurare dalla tolleranza dei rimedi la forza dei mali, ad accertare mutuamente le opposte diatesi, a discernere le varietà specifiche d'entrambe. In geologia, il nettunismo e il plutonismo sono talmente conciliati, che nelle rocce trasformate, nei massi erratici, nelle inclinazioni e direzioni degli strati, nelle grandi montagne divise fra loro dal Baltico e dal Mediterraneo, pur nondimeno correlative in tutta la loro direzione e costruzione, nessuno più nega l'opera simultanea dei due poteri.

Talvolta l'antitesi cancella interamente l'idea opposta. In fisica la scoperta della pressione atmosferica cancella la poetica idea dell'orrore del vacuo. In questo caso non v'è conciliazione; la sintesi di Fichte non è possibile. Anzi per lo più l'antitesi vittoriosa varca il confine della tesi; trapassa, come incendio, d'errore in errore; distrugge interi sistemi.

Poi talvolta un'antitesi affatto imprevista assale l'antitesi vittoriosa. In astronomia, l'idea del moto della terra toglie il sole dal novero dei pianeti. Ma la recente idea che il sole, con tutta la sua famiglia, tenda esso medesimo verso un punto del firmamento, modifica l'asserzione dell'assoluta immobilità del sole; nega l'idea del ritorno della terra per un'orbita identica; desta l'idea d'un'orbita spirale, che simile, direi quasi, all'idea del progresso, percorra spazi perpetuamente nuovi; allude all'idea sublime che tutte le forze fisiche e morali dell'universo siano in eterna evoluzione.

L'immobilità del sole relativamente alla terra era dunque un primordio di verità; ma traeva seco una nuova forma d'errore. Questa forma transitoria d'un'idea viene da alcuni chiamata verità relativa; Fichte chiama verità istoriche quelle idee che in altri tempi dovevano necessariamente apparir vere. Ma siccome questi nomi destano l'insidioso concetto d'una verità volubile, d'una verità che può non essere, così conviene attenersi al più austero concetto di verità parziale e incompleta. E per questa prudenza la chimica si astenne dal chiamare elementi i corpi indecomposti; poiché rimane sempre possibile un ulteriore passo d'analisi, ovvero l'ipotesi che la diversità dei corpi sia solo una varietà di tessuto o di densità.

Talvolta ciò che un'antitesi acquista per sempre alla scienza non è una verità, ma un metodo, un'arte, un abito che conduce a scoprirla. Cartesio s'illudeva allorché disse che l'evidenza è criterio di verità. No, pur troppo; l'evidenza inganna il genere umano quando gli dice che la terra è ferma. Ma questa è solo una evidenza prima. Il criterio sta nel complesso delle evidenze. Cartesio intanto, col metodo dell'evidenza geometrica sostituito alle insidie della dialettica, mutò tutto l'abito della scienza; l'aperse a tutti; restituì a tutti il diritto d'intendere e di giudicare, come ai tempi della libera Grecia. E così pure Condillac esagerò, quando disse che la scienza è una lingua ben fatta. No, pur troppo; la chimica, prima d'essere una lingua, aveva dovuto condurre un lavoro ciclopico fra le tenebre e i sogni, alla cerca dell'oro e della lunga vita. Ma parecchi anni dopo la morte di Condillac, per la viva influenza della sua filosofia, sola presente allora all'intelletto francese, la rivoluzione impose alla chimica nascente quella nomenclatura in cui le scoperte future della scienza tralucevano già nei nomi delle cose. Poiché chi primamente chiamò solfuri le composizioni binarie del zolfo, aveva già predestinato che, scoperto e denominato il cloro o l'iodio, i loro binarii dovessero chiamarsi ioduri e cloruri; dati i quali nomi è già data in parte l'idea. E così avessimo saputo, e sapessimo, volgere a profitto d'altre scienze quelle due sublimi esagerazioni di Cartesio e di Condillac.

A fecondare validamente l'antitesi è necessaria la deliberata opera di più menti. Un individuo solo può ben oscillare debolmente nel dubio fra due idee non ancora ben certe; ma perciò appunto il conflitto vitale non può esser mai così risoluto e potente come quando si scontrano due individui, due sette, due popoli, mossi da contrarie persuasioni, da vanaglorie, da offese, da odii che un uomo non può mai concepire contro sè stesso. Poiché le antitesi entrano spesso nell'intelletto quasi di furto, ispirate dalli interessi e dalle passioni. Ah, pur troppo, in ogni consiglio di legislatori v'è quasi sempre una generale e ostinata antitesi che precede tutti i ragionamenti, anzi tutte le quistioni, dettate piuttosto dagli interessi che dalle coscienze. Nei conflitti della vita, il ragionamento è l'arte reciproca di tutte le passioni; la ragione pura è un atto d'analisi, è un'astrazione.

Un piacevole esempio leggiamo in un notissimo coetaneo di Macchiavello, di due avversarj che sedevano in consiglio a Firenze: «L'uno d'essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; e quello che gli sedeva vicino, per ridere, benché il suo avversario, che era di casa Alamanni, non parlasse, né avesse parlato, toccandolo col cubito lo risvegliò e disse: Non odi tu ciò che il tale dice? rispondi, che i signori domandano del parer tuo. - Allor l'Altoviti tutto sonnacchioso, e senza pensar altro, si levò in piedi, e disse: Signori, io dico tutto il contrario di quello che ha detto l'Alamanni. - Rispose l'Alamanni: Oh io non ho detto nulla. - Subito disse l'Altoviti: Di quello che tu dirai».

Ecco un uomo determinato dalla mera presenza di un avversario a impugnare una idea già prima d'averla percepita. Una setta ha già negato in suo proposito tutto ciò che il partito avverso sta per produrre. Ma non può dare alla sua negativa una forma razionale senza trar fuori tutte le sue forze dormenti e svolgere un pensiero al quale altrimenti non sarebbe giunta; e questi, viceversa, diviene il primo motore d'un successivo sforzo dell'avversario. Ogni obiezione comanda una risposta; ogni ragionamento comanda un ragionamento logicamente correlativo, che stringe in amplesso inseparabile le opposte idee. I ragionatori, al cospetto della passione, sono combattenti; al cospetto dell'idea, sono fabbri che martellano uno stesso ferro; sono ciechi strumenti d'un'opera commune. Ogni nuovo sforzo aggiunge un anello alla catena che trascina ambe parti nel vortice della verità.

Ad un pensatore, che sudò primamente a raccogliere la scienza de' suoi padri, poscia a disvilupparsi da quella, basta appena la vita a poter poi trar dalla sua mente una favilla di suo pensiero; e con fedele amore e con oblio della fortuna alimentarla; e raccomandare a quella luce il suo nome e morire. La vita publica di Cartesio dura solamente tredici anni; Locke e Kant erano già quasi sessagenarj quando posero in luce il loro immortale pensiero. E se ognuno di essi fosse vissuto qualche anno ancora, avrebb'egli potuto porsi in guerra contro sè stesso? condannar come un sogno l'idea che aveva per tanti anni contemplata? spezzar la lapide del suo sepolcro? No: a quell'opera di nemico era necessario un altro intelletto, un'altra volontà, un'altra vita. È perciò che i grandi pensatori, i quali ruppero il circolo della tradizione e fecero fare all'idea un gran viaggio, si mostrano quasi sempre accinti con tutte le forze loro come ad un'impresa di guerra.

Solamente dopo il corso di più generazioni scientifiche, i posteri s'avvedono come ognuno di quei pensatori avesse studiato da un nuovo aspetto un medesimo problema; che quella catena d'antitesi era una serie di analisi parziali; che le diverse scuole, senza volerlo e senza saperlo, si erano divise le parti dell'analisi commune tutte aspirando a conquistare d'un primo abbraccio tutto il circuito della sintesi universale.

L'antitesi non è solamente un metodo di progresso scientifico; essa diviene un principio sociale nelle leggi, nei governi, nelle religioni. Ognuno sa oggidì che il diritto civile, il quale governa le nostre famiglie, è una moderna forma del diritto romano; il quale fu la lunga opera d'un'ereditaria opposizione. Il pretore, che aspirava ad esser console, adescava il voto della maggioranza, facendosi riformatore, e sottomettendo nell'editto pretorio il suo privilegio di patrizio al suo diritto di cittadino.

La politica riverbera le sue antitesi sulla filosofia. Rousseau, generoso e povero e inonorato, non lodò la vita selvaggia se non per fare onta ad una società diseguale e inumana. De Maistre e quanti altri s'imaginarono di conquidere la filosofia, combattevano il codice civile che aboliva le due servitù della gleba.

L'antitesi penetra nelle nazioni coll'arte della guerra, perché le costringe mutuamente a proporzionare le difese alle offese: e le incalza ad una serie infinita di sforzi mentali e morali. Chi foggiò la prima spada, costrinse il nemico a darsi un'altra spada e ad apprendere la scherma; chi foggiò il primo cannone, comandò agli architetti di trasformare le eccelse mura in bastioni obliqui e affondati, comandò ai geometri ed ai fisici tutti i calcoli della balistica. Ogni scoperta dell'artiglieria sconvolge l'architettura navale; ogni progresso nella costruzione delle navi costringe a nuovi prodigj l'artiglieria.

Né ancora è ciò che più importa nell'ordine delle idee. La guerra comanda all'Asia antiquata lo studio della nuova milizia. Questa trae seco tutta una legione di scienze nuove, che con intimi nodi s'intrecciano ad altri ordini d'idee, più potenti ancora nelle future sorti dei popoli. Mentre un barbaro istinto di vanagloria e d'avarizia spinge diverse nazioni ad abusare le armi della civiltà contro gli imbelli, dall'antitesi di quelle cupidigie rivali esce un nuovo diritto delle genti. All'ombra di cui quelle moltitudini, vissute sempre serve, si troveranno involontariamente a noi consociate nella libera vita del commercio e del pensiero.

Ora ancella, ora maestra, ora nemica, la filosofia s'intesse in modo inestricabile a tutte le deduzioni della teologia. L'istoria del cristianesimo è una continua disputa fra le innumerevoli sette, le quali derivano dalle antiche filosofie dell'Oriente e della Grecia. Patriarchae haeresiarum philosophi; lo troviamo già scritto, appena si chiudeva il secondo secolo. E così la filosofia dettava i programmi dei concilii; additava colle sue antitesi dove la teologia dovesse porre i termini delle singole sue dottrine.

Nel seno delle sette odierne, molti studj di lingue orientali, d'istorie, di monumenti non sarebbero mai nati, se le chiese rivali non avessero sperato di poter con esse confondere li avversarj. Quanto maggiore fu in Roma la cura di riservare e limitare la lettura dei testi sacri, tanto maggiore doveva essere altrove lo zelo di propagarla. E così, per effetto di quei divieti e di quella opposizione, non v'è libro al mondo che sia diffuso in tal numero di lingue viventi. In molte barbare favelle è ancora il primo ed unico libro. Viceversa il Corano, perché non interdetto al popolo, si legge docilmente in una sola lingua.

Una nazione, dal momento che la letteratura le dà la coscienza di sè stessa, si pone in antitesi con tutti i poteri che aspirano a dominarla. Questi allora si armano di qualche altra idea; tentano darle un'altra coscienza. Allora l'austriaco dice all'Italia ch'essa è un'idea geografica; che è una forma impressa ad una striscia di terra dai monti e dai mari: un lusus naturae. Allora il francese le dice ch'essa è una gente latina, la quale deve tenersi saggiamente abbracciata al grande imperio, che afferrando i due istmi, salverà il globo terraqueo dall'ambizione degli Angli e degli Slavi. Allora il papa le dice ch'è una prebenda del genere umano. I singoli interessi si traducono in altrettante dottrine; le quali sono discordi, fuorché in questo che si risponde a tutte quante con una sola verità. Posta adunque a fronte di tutte codeste antitesi, ecco la combattuta nazione, dover dopo i vani indugj, ricorrere come ad arme di guerra a quell'unica verità.

Voi vedete, signori, l'ampiezza dell'argomento: io non posso esaurirlo qui; ad altri potrebbe dettare un'opera; a me detta solamente un breve capitolo; io mi ristringo a indicare un principio.

L'antitesi sarà dunque uno dei più necessari argomenti di una Psicologia delle menti associate, la quale dovrebbe precedere all'Ideologia della società.

 

 

Della sensazione nelle menti associate.

 

1. Tutte le scôle che contemplano la sensazione nell'individuo solitario, fanno un atto d'analisi. Esse prescindono dal fatto integrale; ripetono nell'individuo, e pel complesso delle sue sensazioni, uno studio non meno astratto e non meno ipotetico di quello che venne tentato pei singoli sensi nella statua di Condillac.

 

2. Per fatto di natura, l'uomo nascente viene raccolto al seno d'una madre. Già nei primi albori della vita, l'istinto materno s'associa agli istinti dell'infante, s'insinua fra quella confusa agitazione di tutti i sensi, la quale non può divenire d'un sol tratto una sensazione chiara e distinta, perché questa ne suppone altre da cui debba distinguersi. Fra queste deve a grado a grado farsi chiara e distinta primamente quella che più assiduamente ritorna. Fra gli insoliti contatti dell'aria e dei corpi, la presenza materna è forse l'unica sensazione che non sia molesta; e forse per questa opposizione costante a tutte le sensazioni moleste, è la prima che fra tutte le altre chiaramente si discerna e si affermi.

 

3. Né le altre sensazioni sono del tutto fortuite, quando vi è già un intelletto e un amore che veglia a sviare le più dolorose e raccogliere le più gradevoli. Il complesso delle sensazioni d'un infante decide già de' suoi conforti e de' suoi dolori, sovente della sua vita e della sua morte.

La statistica e la medicina dicono quanto sia maggiore nei parti della madre selvaggia e della madre indigente la probabilità del dolore, del pianto e della morte.

 

4. Il complesso delle prime sensazioni è già l'opera di più esseri associati. Oltre agli istinti dell'infante e della madre, v'entrano le affezioni e consuetudini della famiglia, e pertanto le istituzioni della società. V'entra sopratutto la voce umana la quale accompagnando assiduamente le singole sensazioni, le associa ad un suono che diviene un segno indelebilmente distintivo, ultimo compimento della chiara e distinta percezione.

La sensazione nell'essere umano non è dunque un nudo scontro del soggetto cogli oggetti, non è un fatto puro; fin da' suoi primordii è un fatto sociale. Nel cieco nato che legge la parola colle dita, nel sordomuto che legge la parola sui moti delle labbra, una sensazione artificiale, ch'è già una tarda invenzione della società, supplisce all'incompleta sensazione naturale. Anche la statua di Condillac si suppone ricca d'una sensazione sociale.

 

5. Sovente l'individuo non vede né ascolta ciò che un altro individuo nel medesimo luogo ascolta e vede. L'età, il esso, gli istinti, le attitudini, le abitudini sono i coefficienti senza i quali la sola presenza degli oggetti non compie la sensazione. E se questa precede all'idea, l'idea acquisita determina poi nuovi ordini di sensazione.

 

6. Supponiamo che un selvaggio pervenisse ad avere una distinta percezione di tutti gli oggetti che lo circondano. Sempre le sue sensazioni sarebbero limitate dall'orizonte del suo paese nativo: poche specie di piante alimentari, o medicinali, o venefiche; pochi animali; una riva di fiume o di solitario mare; i tugurii che ricettano la nuda tribù. Quando pensiamo alle parti più remote della terra, la nostra imaginazione affolla, quasi in un orto botanico e zoologico, tutto ciò ch'è straniero e insolito per noi. Ma ogni regione ha un aspetto suo proprio: l'una ha un clima arido; l'altra ha un clima piovoso; ha le basse paludi o le alpi nevose; poche famiglie di piante coprono centinaia di miglia con aspetto mirabile a chi primamente vi arriva, uniforme e tedioso a chi vi rimane. Nella regione in cui viviamo, la quale è pure una delle più amene e adorne, un buon quinto delle piante fiorifere, più di cinquecento specie, appartengono alle due sole famiglie delle composite e delle graminacee; molte di esse si possono appena con attento studio discernere fra loro. Ben quaranta specie di trifoglio daranno al botanico quaranta sensazioni distinte; ma per l'ignaro figlio della natura, tutto ciò lascia appena un'unica sensazione. Innanzi al figlio della società civile s'aprono tutte le terre e tutti i mari, i deserti, i vulcani, i ghiacciai. Gli animali degli opposti emisferii stanno disegnati e coloriti ne' suoi libri, conservati ne' suoi musei, viventi e semoventi ne' suoi serragli. Questo tesoro di sensazioni è un dono che la natura ci porge per mano della società.

 

7. E la società non solo vede le cose, ma essa le fa. Essa estrae dalle terre i metalli, colora le lane e le sete, prepara il pane e il vino; crea colle sue cure innumerevoli varietà di fiori, di frutti, di animali domestici; muta le selve in campi, erge sublimi architetture. E fra gli strumenti musicali e le infinite combinazioni dei suoni e dei tempi e le forti e soavi emozioni, il genio della società può ben superbire al paragone delle rare e povere armonie della selvaggia natura.

 

8. V'è un mondo invisibile rivelato a noi dal telescopio e dal microscopio. Tutta la chimica è una rivelazione di fenomeni invisibili. Nessuno avrebbe imaginato che dall'aqua si potesse trarre una sostanza invisibile che abbrucia il ferro e il diamante. Gli apparati elettrici sono per noi come nuovi sensi, coi quali possiamo percepire sensazioni inaccessibili all'uomo con quegli apparati che ci diede la natura. È ben lecito imaginare che come da natura abbiamo un senso che avverte le vibrazioni della luce, e un senso che avverte le oscillazioni sonore, così avremmo potuto nascere muniti d'altro apparato che indicasse, come fa la bussola, le influenze magnetiche. Quella società che ci diede a scorta l'ago calamitato nella vastità dei mari e nei labirinti delle miniere e che conversa col telegrafo, ci diede l'equivalente di nuovi sensi.

 

9. Le poche sensazioni del selvaggio sono vaghe, incerte, incommensurabili. Solo col mezzo degli istrumenti possiamo paragonare il calore di due estati, il freddo di due inverni; determinare a quale ardore precisamente si liquefà il piombo, a quale il ferro; quante calorie devonsi accumulare nel corso d'una stagione per addurre a maturanza un grappolo d'uva.

 

10. Fin qui ognuno di questi fenomeni può essere ancora oggetto d'una percezione individuale. Ma vi sono fenomeni che un individuo solo non potrebbe mai percepire nella loro pienezza, nemmeno col ministero degli strumenti, ma è duopo associare i sensi di molti. Gli osservatori che sparsi in diverse stazioni esplorano il corso dei venti e delle piogge, la varietà delle temperature, la tensione magnetica del globo, i fenomeni dei terremoti e delle eruzioni vulcaniche, sono come le parti d'un commune sensorio delle genti incivilite.

 

11. Così dalla vaga, incerta, spesso contradittoria sensazione individuale, sorge a poco a poco la sensazione sociale e scientifica che rappresenta l'ordine dell'universo.

 

 

Dell'analisi come operazione di più menti associate.

 

1.

 

Per analisi delle menti associate, intendo dire quelle grandi analisi le quali si vennero continuando per collaborazione, talora mutuamente ignota, di più pensatori, in diversi luoghi e tempi e modi e con diversi fini e diverse condizioni e preparazioni. - Valga un esempio.

Fin da' selvaggi suoi primordii l'uomo non poteva non avvedersi del sole, della luna, delle stelle. Egli aveva dunque fatto per inconscia necessità di natura un primo passo nell'osservazione del cielo. Un altro facil passo era quello d'avvertire le continue variazioni dell'astro ch'era notturna sua guida. Ebbene, ancora oggidì, fra li orgogli della civiltà e le assidue scoperte della scienza, l'individuo, per sua propria forza d'analisi, ben poco oltrepassa nell'osservazione del cielo quei primi rudimenti. Egli vive e muore, senza curarsi di saper oltre; e se ode parlare dell'immensità dell'universo, ammira; e più sovente sorride, quasi udisse d'una favola; - e in breve oblìa. Tali sono i termini dell'attività mentale nell'individuo, poco importa se civile o selvaggio.

Or quando nei libri d'astronomia vediamo pervenuta oggi la scienza fino a distinguere in una romita stella uno stuolo di fulgidi soli, dobbiamo tuttavia riconoscere che chi verifica col telescopio siffatta meraviglia, compie un semplice atto d'analisi, come quando colla pupilla nuda li mirava confusi in un'unica luce. Sia la pupilla armata o non sia, l'atto proprio dell'intelletto è in quell'istante il medesimo, benché il senso, in tali nuove condizioni, gli annunci in quell'astro la presenza di più punti luminosi, anziché d'uno solo. L'analisi è sempre analisi; è sempre un atto con cui la mente distingue le parti d'un tutto. Ma l'occhio non poteva trovarsi armato e guidato, se non in virtù d'una lenta preparazione della vita sociale. Quell'atto è l'ultima risultanza del lavoro degli avi e dei posteri; esso è l'opera di più generazioni associate.

L'alternare del sole e della luna deve destare a tutta prima nell'imaginativa l'illusione che siano due corpi di grandezza e lontananza poco diseguale, lucenti ciascuno di sua propria luce, a servigio dell'immobile piano della terra, fra una moltitudine di minute stelle, sparse in una volta azzurra, poggiata sui più eccelsi monti. Ma nella perenne continuazione dell'analisi sociale, quella volta azzurra diviene uno spazio senza limite: quelle minute scintille divengono un popolo innumerevole di soli; intorno al più vicino dei quali si move l'umile globo della terra, traendo seco, per forza di più vicina attrazione, il globo ancor più esiguo della luna, che riverbera una luce non sua.

Qui l'analisi primitiva, sempre accessibile ad ogni individuo, sembra in conflitto colle analisi successive, compiute nel corso dei secoli or presso certe nazioni or presso altre, per lavoro sociale, rallentato sovente presso quelle nazioni medesime e talora derelitto.

Le leggi della forza analitica non sono dunque a cercarsi solo nelle leggi dell'intelletto. La percezione del vero è una parte del destino delle nazioni.

Pur troppo, nel seno delle genti, l'esercizio dell'analisi è preordinato e fatale. Esse, ancora oggidì, vivono in cospetto ad innumerevoli fenomeni della natura e della società, senza aver mai potuto determinare l'attenzione loro ad osservarli e quasi senza vederli: anzi sovente senza volerli vedere.

Non è ancora tre secoli dacché al lume dell'analisi anatomica, l'uomo finalmente s'accorse che il sangue circola nelle sue vene. Non è ancora un secolo, dacché al lume dell'analisi chimica, primamente seppe qual fosse l'elemento vitale dell'aria ch'egli respira. Solo ai nostri giorni, nell'analisi delle lingue, egli distinse le obliate mescolanze delle nazioni; e nell'analisi delle reliquie fossili, finalmente intravide le indelebili cronologie della terra e dell'uomo.

Altro è spiegare come non si fossero fatte, molti secoli prima, quelle scoperte; altro è spiegare come non si fossero fatte, molti secoli prima, quelle ricerche. Esse non erano libere; l'intelletto nulla vi poteva. Molte cose erano inaccessibili; molte parvero lungamente inutili a sapersi; molte parvero funeste ed empie; furono interdette dai potenti ed anche dai sapienti. Nelle più sublimi evoluzioni dell'intelletto, la volontà esercita maggior dominio che non lo stesso intelletto.

Il modo d'operare dell'analisi, negletto e quasi ignoto alla filosofia antica, venne studiato di proposito dalla moderna psicologia; ma solo nell'ipotesi cartesiana dell'individuo. Or questa non considera che il genere umano è, per sua primitiva e spontanea necessità, gregario e sociale, e che l'atto più sociale degli uomini è il pensiero, poiché congiunge sovente in un'idea molte genti eziandio fra loro ignote e molte generazioni. Né considera come e d'onde, in seno a quella istintiva e spontanea associazione delle menti, possa l'analisi attingere una più eccelsa iniziativa, - né come ora espanda, ora costringa, la sua libera attività. Ma dacché questa facultà deve considerarsi come essenziale all'intelletto, giova studiare come, ciò non ostante, la libera analisi non abbia potuto ancora attuarsi in tutto il genere umano. Giova studiare come, presso molti popoli, le forze analitiche, dopo una rapida emancipazione, abbiano potuto ricadere in lunga servitù; - come nessuna nazione abbia saputo sinora serbar continuamente vivo e libero il corso de' suoi pensieri; - come molte nazioni siano sparite, quasi meteore, senza lasciare l'eredità d'un'idea; - come ogni società, senza avvedersi, prefigga a sè stessa i limiti della sua sfera d'analisi; - come noi medesimi, che qui ci aduniamo in nome della scienza viva, non tutti ancora possiamo, sciolti da ogni precedente nostro od altrui, stendere egualmente la mano a tutti i rami dell'arbore scientifico. La libera analisi è uno dei più grandi interessi morali e materiali del genere umano.

La filosofia deve proporsi uno studio fondamentale: - l'analisi della libera analisi.

Consideriamo brevemente l'analisi per sè, come essa procede tanto nell'individuo quanto nelle menti associate.

Li antichi Messicani, all'arrivo di Fernando Cortez, soprafatti e atterrati dalla cavalleria, tra il tumulto e lo stupore e lo spavento confusero in un solo essere l'uomo e il cavallo. È l'antica favola dei centauri; è la sensazione repentina e indistinta, esagerata dall'imaginazione. E a primo tratto, anche la tranquilla vista d'una selva o d'un ciel sereno arreca la percezione quasi d'un unico oggetto, - un'ampia verdura, - un azzurro scintillante. Ma chi poi fermi l'attenzione in alcuna delle piante e delle stelle, acquista altre evidenze che chiariscono via via quel primo concetto.

L'analisi continuata tende adunque a perlustrare, anche a più ritorni, il tutto d'ogni cosa; e non a disunire, né a dissolvere o «risolvere», come la voce d'analisi indusse molti pensatori a supporre. «Armé de l'analyse, il désunira» disse Pierre Leroux. Ma il numerare le dita della mano o le parti distintive d'un fiore, non è disunirle; bensì unirle per sempre nel concetto del numero. Coll'analisi numerica di Linneo, la botanica divenne primamente una scienza. L'anatomia, pur separando (per materiale necessità di vedere) le ossa, le articolazioni, i muscoli, i nervi, le arterie, le vene, le contempla quali cose fra loro congiunte e in quanto e come stanno fra loro congiunte; anzi mette in luce gli ignoti loro legami. Quando osserva che le quattro dita minori s'inflettono ponendosi alla base del pollice, discerne per qual modo la mano abbia la capacità di prendere e stringere. L'inattesa scoperta della tromba d'Eustachio, ossia d'un passaggio tra l'intima cavità della bocca e la cavità dell'orecchio, rivela in qual modo chi ascolta a bocca aperta, aumenti senza saperlo l'efficacia dell'udito.

Lo stesso avviene quando l'analisi ha quella veste astratta e universale che le danno le formule algebriche. Poiché quella veste commune rende comparabili fra loro e commutabili anche quei concetti che a prima vista potevano apparir privi d'ogni intima relazione. E così nella confusione del superficiale e del vario, la mente può discernere l'identico, il costante, l'essenziale, il certo.

Un'analisi ordinata procede dalle cose più ovvie ed evidenti alle più astruse; nel che sta il principio d'ogni dimostrazione e d'ogni insegnamento.

Un'analisi può dirsi intera, quando con certa equabile profondità si estende a tutto un certo campo d'osservazione; cioè ad un dato essere o fenomeno o complesso di esseri o fenomeni e a tutte le loro parti, qualità e relazioni, entro quella misura e secondo quel fine che l'osservatore si prefigge. Un'analisi di terre che basta ad un fabricatore di tegole, non basta ad un fabricatore di porcellane. E l'analisi può tornare all'opera; può raccogliere nello stesso campo altra serie di percezioni. Essa non ha limiti assegnabili in modo assoluto e universale. Ma eziandio nel più augusto cerchio, in quanto l'analisi tutto non lo abbracci con eguale profondità, le parti osservate restano confuse colle neglette o inaccesse. A supplir questa interviene allora coi mille suoi spettri l'imaginazione. Da quel momento in tutte le successive elaborazioni dell'intelletto il vero s'intesse col falso, finché l'opera d'un'analisi interna e fedele non venga ripresa dalla posterità. È per tal modo che nella scienza primitiva li audaci voli dell'imaginazione soverchiano il lento passo dell'osservazione.

Or bene, un'analisi evidente, distinta nelle sue parti, ordinata, intera, adempie le quattro regole del metodo di Cartesio. Il qual metodo adunque è null'altro che l'analisi. Pure i nuovi cartesiani si sforzano d'immedesimarlo piuttosto colla sintesi. E B. Saint-Hilaire si dispensò al tutto di parlar della sintesi, e rimandò i lettori al metodo. Ma sintesi o analisi che si voglia, l'osservanza delle quattro regole non poteva dare l'indiscutable certitude. Poiché quando Cartesio (nel 1637), pochi anni prima della morte di Galileo, publicò il Discorso del Metodo, era stato già per tutta la vita testimonio come nella fallace evidenza dell'immobilità della terra tutti provassero l'indiscutable certitude e la prodigieuse clarté. Ma quell'immobilità era un'illusione; e causa dell'universale illusione era appunto quell'evidenza! L'analisi chimica non tende solo a distinguere per le loro attive proprietà le sostanze che si manifestano spontanee; né tende solo a riconoscere nei corpi le sostanze cognite che vi si celano; ma perviene fino a scoprire l'ignota esistenza di quelle che la natura non pone mai a scoperto, come l'ossigene, il calcio, il cloro e altri principii largamente profusi in aria, in terra, in mare.

Non diremo tuttavia con Leroux che l'uomo «armato d'analisi, disunirà». La chimica compie con somma evidenza la dimostrazione di molte analisi eziandio per atti di composizione o di ricomposizione, scevri affatto d'ogni scomposizione. Un filo di magnesio, posto sulla bilancia in contatto colla viva fiamma, arde, indicando col rapido aumento del peso l'invisibile ossigene che assorbe dall'atmosfera. Qui la ricomposizione dei due principii, è la dimostrazione inversa e la controprova di ciò che il genio analitico scoperse in via diretta; è un mezzo e non è un fine; non v'è nuova scoperta; non v'è nuova idea. In senso operativo si può chiamar sintesi; ma in senso logico è la distinzione; è l'ultimo complemento della distinzione.

Per lo più le sostanze chimiche non escono da una combinazione se non entrando in un'altra; i più complicati procedimenti si riducono ad una serie di siffatte trasposizioni e sostituzioni. - Le sostanze mutano proprietà, pur solamente variando proporzione; il mercurio dolce, mite medicina infantile, con l'apposizione d'altro equivalente di cloro si muta in sublimato corrosivo. - Innumerevoli combinazioni organiche di carbonio e d'aqua, variano proprietà solamente col disporsi in diversa ordinanza, - come l'essenza di rose e l'essenza di terebintina, costituite appunto entrambe di carbonio e d'aqua in proporzioni identiche, - eppure dotate di sì diverse apparenze e proprietà. - Certe sostanze latenti si manifestano anche solo coll'essere esposte a certe variazioni di temperatura, d'umidità, d'elettricità; il colore accusa i vapori dell'iodio; l'odore accusa i vapori dell'arsenico. - Ma in qualunque siffatto procedimento di scomposizione o composizione o ricomposizione o trasposizione o sostituzione o apposizione o disposizione o esposizione, rimane sempre intatto l'officio supremo dell'analisi, che è la distinzione!

Pensatori di mente imaginosa e fervida odiano le lentezze dell'analisi e i suoi rigori e i suoi freni; la dicono facoltà pedestre e materiale: ingenium in dorso. È l'antica condanna braminica, buddistica, eleatica, platonica; sempre un cieco disdegno; talvolta la maledizione. Ma vero è che ogni più sottile astrazione è sempre opera d'analisi. Dalle astrazioni dei numeri senza oggetto, delle linee senza superficie, delle superficie senza profondità, delle forme senza corpo, delle forze senza sostanza, surge la matematica. Dalle astrazioni del pieno e del vuoto, dell'identico e del diverso, dell'io e del non io, dell'essere e del non essere, dell'infinito e dell'assoluto, surgono la logica, l'ontologia, la metafisica. Tuttociò che v'ha di più sublime nell'intelletto comincia dall'atto analitico dell'astrazione. L'astrazione diviene il vincolo commune di tutti i fenomeni della scienza e della coscienza. L'analisi è la piramide di cui la sintesi è la sommità.

 

 

2.

 

Quando Cartesio, con un atto d'analisi libera e pura, distinse nella coscienza del pensiero la coscienza dell'essere, egli volle con quella affermazione dell'io, disciogliersi dalla natura e dalla società. Ma la natura era già passata d'innanzi al suo intelletto; ma la società gli aveva dato la tradizione scientifica. Quella voce che gli pareva surgere solitaria dalla sua coscienza, era la prima parola d'un problema già maturato nel corso dei secoli e nella successione delle filosofie: - problema che l'io solitario non avrebbe nemmen potuto proporsi.

Così è. Alle evoluzioni della potenza analitica hanno parte la natura e la società. E come sono esse le cause che la destano, così sono parimenti le cause che possono renderla perpetuamente inerte. Dissi perpetuamente inerte; poiché, a prossima nostra memoria, alcune genti si estinsero o si confusero con altre e si sommersero in esse, prima d'avere, in migliaia d'anni, superato colla propria mente quell'infinito limite il quale è concesso anche al discernimento istintivo degli animali.

La natura aveva già stabilito fra una gente e l'altra una disparità di condizioni, secondo la disparità delle cose utili o nocive e dei luoghi e dei climi. Le singole genti nelle singole loro patrie non potevano avvedersi se non di ciò ch'ella vi avesse posto.

La presenza di certi frutti ovviamente alimentari e di certi animali o più mansueti o più feroci, il complesso d'una terra e d'un clima, d'una flora e d'una fauna, dettavano adunque agli aborigeni una serie d'atti d'attenzione, coordinata alla serie delle più immediate necessità; e tanto quivi inevitabile quanto impossibile altrove.

E così li aborigeni dovevano costituire nelle singole regioni native le singole parti d'una superficiale analisi, dispersa a frammenti su tutta la terra abitata. La rimanente natura giacque inosservata e indistinta. Era pel genere umano come s'ella non fosse.

Quanto alla società, comunque isolata e misera, questi singoli frammenti d'osservazione dovevano nel suo seno sopravivere all'individuo. Ciò che l'infante, per necessità di convivenza e per cieca imitazione, apprendeva, dovevagli apparire come l'ordine necessario, ed unico possibile, della vita. Così nasceva la tradizione, - involontaria, spontanea, irriflessiva, - ma imperiosa già fin d'allora com'essa è tuttavia per noi. - L'analisi non era libera.

Ogni individuo non era più costretto a cominciar da sè tutta la serie di quelle scoperte. Ma ogni mente entrava nella carriera del pensiero già improntata dal pensiero altrui. L'analisi, nata serva della natura, crebbe serva della società.

La tradizione era un filo tenace che associava le menti, non da gente a gente, ma da generazione a generazione. Era la società perpetua dei posteri cogli antenati. Anche nell'intimo recesso delle menti, ogni generazione era figlia non solo della sua terra ma de' suoi padri. Era un indirizzo dato, e un vincolo imposto, all'intelletto dei nascituri, in distanza di secoli. Erano già determinate nelle viscere della famiglia selvaggia certe nozioni che dovevano sopravivere in seno ad una tarda civiltà. Molte osservanze e molte avversioni nei cibi e in altri usi della famiglia, che durano tuttavia qua e là fra i popoli, sono tradizioni di tempo immemorabile; forse furono in origine mere ammissioni od omissioni di quelle analisi primitive.

I Latini, per chiarire i fatti delle istorie, solevano risalire a ciò ch'essi chiamavano le origini, benché allora intessute già di poetiche fantasie. E parimenti solo dalle origini si possono spiegare alcuni fatti del mondo moderno. Valga un esempio: - ancora nel secolo decimosesto, nella splendida città del Messico, edificata con arte idraulica fra due laghi, con grandi vie rettilinee e rettangole, si praticava tuttavia sulla sommità d'eccelse piramidi una continuazione rituale della vita canibale, oramai probabilmente, a solo terrore delle genti suddite e ad arte di stato. Ma le origini di questa atroce idea, in una nazione ricca già di molte arti e addottrinata in collegi sacerdotali, erano le tradizioni, non interrotte mai, della vita selvaggia.

Il vincolo intimo e commune di tutte queste analisi primitive è la lingua. Il discorso è una continua analisi. È d'uopo analizzare il pensiero per tradurlo in parola; è d'uopo analizzare viceversa la parola per estrarre il pensiero. Costretto l'uomo sin dall'infanzia a percorrere l'assiduo andirivieni in quella trafila analitica che modula nella prescritta forma sociale ogni suo ed ogni altrui concetto, non può cancellar poi del tutto le vestigia di quella perenne disciplina, sicché non sopravivano indelebili, nei successivi incrementi delle lingue e nelle loro miscele e trasformazioni.

Per un esempio: - nella numerazione, la lingua dei succitati Aztechi del Messico, procede, non per decine, ma per quintine. È manifesto ch'ella deve aver preso le mosse dalla primitiva analisi d'una sola mano. E sopravivono pur troppo in questo secolo altre genti oceaniche e americane e africane, le quali non giunsero a compire i loro numerali, nemmeno per potersi contare tutte le dita d'una mano. Esse, fin dall'infanzia, si avvezzano a far senza dei numeri, come fecero i loro avi per migliaia d'anni. Perciò tutti i loro concetti, non solo di numero, ma di spazio, di tempo, di misure, di distanze, di altezze, di valori, di forze, sono indeterminati; sono irreparabilmente vaghi e vani. Tutta la loro potenza mentale e materiale ne rimane snervata. Io credo ch'essi, nella pratica del commercio, dovranno inevitabilmente completare la loro numerazione. Ma credo che non potrebbero più dedurre i nuovi numeri dal medesimo principio dal quale dedussero anticamente i primi; ma bensì dovranno appropriarsi a dirittura i numeri europei, tali e quali sogliono udirli al mercato. Così fecero li Europei medesimi quando presero a prestito il nome di millione dalla nostra lingua; nella quale era organicamente nato, in forma di mero accrescitivo, forma inflessiva ch'essi nelle loro lingue non avevano.

Quando le singole genti nelle singole regioni ebbero costituito colle varie analisi iniziali altretante tradizioni iniziali, espresse con altretanti rudimenti di lingue, potevano aumentare in varii modi quel primo patrimonio. - Potevano intorno a sé avvertire altre cose utili o dannose, dapprima inosservate. - Potevano, sia per attenzione ripetuta, sia per associazione d'idee, sia per lampo di genio individuale, discernere negli oggetti già noti nuove proprietà e nuove corrispondenze ai communi bisogni. Avvenne, per esempio, che fra quei barbari alcuno più sagace, trovandosi armato già istintivamente d'un pezzo di legno, così come poteva fare eziandio l'orangotango o il gorrilla, potesse, per forza propria dell'intelletto umano, oltrepassare quel limite istintivo, intravedere in una selce tagliente o in una resta di pesce di che farne un coltello, una scure, una lancia, una saetta. - Avvenne che alcuno, nella terribile esperienza d'un veleno, intravedesse il modo d'inasprire vie più quelle povere armi e avventare una morte certa contro le fiere e i nemici. - Avvenne che alcuno, cadendo in un fiume, si salvasse afferrandosi per mero istinto ad un tronco galleggiante; e che continuando e rinovando quell'atto, vi percepisse l'idea madre dell'arte nautica. In questi nuovi avvedimenti, comincia l'azione analitica dell'individuo oltre la tradizione e contro la tradizione. Questi furono i primi conati di libera analisi. Codesta potenza dell'individuo che vede nelle cose ciò che li altri non videro, quando si esalti a sommo grado e trovi un'idea madre, cioè il caposaldo d'una nuova serie d'idee, costituisce il genio; perché si considera come opera d'un'intelligenza superiore alla natura umana e quasi come d'uno spirito tutelare. Gli antichi considerarono veramente tutte codeste idee madri d'un'arte o d'una scienza come doni fatti all'umanità dalli dei o semidei.

Ma in queste nuove analisi ebbe parte grande il caso. - Si narra che i Fenici, abbruciando una congerie d'erbe marine sulle arene silicee del lido, vedessero scorrere per la prima volta il vetro liquefatto. Si narra che gli Spagnuoli scopersero per simil modo un copioso letto di cloruro d'argento.

Quando interviene l'azione individuale o quella del caso fortuito, facilmente si spiega come le nazioni abbiano potuto raggiungere un'idea forse più astrusa, senza averne potuto percepire un'altra forse più ovvia. Così vediamo li eroi dell'Iliade combattere sui carri e non ancora sul dorso dei cavalli. Così appare già diffuso nel Perù l'uso del guano, in un tempo quando colà l'agricultura si esercitava con istrumenti di legno. Così nell'Australia, nessuno per migliaia d'anni concepì la più rozza forma di casa o di nave; eppure vi fu chi divisò d'ostruire con pietre e legni le aque nei passi più angusti per imprigionarvi il pesce.

Qui mi sia permesso di notare come molti credono oramai dimostrato che nella cronologia delle nazioni primitive si seguano in ordine fisso le successive età del legno, della pietra, del rame, del ferro. La tradizione classica faceva precedere l'età dell'oro; e ciò forse poteva rappresentare la credenza ad una legge piuttosto di decadimento che non di progresso. È certo però che in America, al tempo della conquista, unicamente diffuso e antico era l'uso dell'oro, mentre colà il rame e il ferro erano affatto ignoti. E fu l'oro che a memoria nostra attrasse il torrente dell'emigrazione in California e in Australia, dove li aborigeni non avevano scoperto alcun altro metallo. La scienza deve tener conto di queste varietà e non essere troppo sollecita di chiudete il ruolo dei fatti, affinché le ulteriori analisi rimangano più libere e le scoperte compiute e annunciate con unanimi testimonianze non sembrino contradette dalle scoperte successive.

Fin qui mi sono rinchiuso nell'ipotesi delle tradizioni universalmente isolate. Ma già dai primordii, le scoperte possono propagarsi da tribù a tribù, almeno a brevi distanze.

Fu osservato che intorno alle palafitte lacustri sulle quali posero dimora i selvaggi della prisca Europa, si raccolgono in alcuni luoghi certe pietre taglienti delle quali essi formavano coltelli e lance, quando era ignoto l'uso dei metalli. Ma siccome i geologi rilevarono che quelle pietre non si trovano naturalmente sparse in quelle vicinanze, fecero induzione che fossero colà recate per un primordio di communicazione vicinale con altri selvaggi amici o nemici che avessero potuto rinvenirle altrove o averle da altri.

Perloché queste umili pietruzze sarebbero il più antico documento non solo d'un commercio da gente a gente, ma della prima propagazione d'un'idea. Le menti associate già solamente nelle tradizioni del passato avevano adunque già incominciato a communicarsi fra loro da tribù a tribù le idee del presente. Alla tradizione ereditaria si aggiungeva già la propaganda vicinale.

Parimenti quando in quelle terre sepolcrali si dissotterrano le ceneri e i carboni di quei focolari selvaggi, si ha un documento antichissimo della propagazione contemporanea del fuoco; - altra idea-madre, più feconda di tutte, e più varia nelle sue applicazioni alla scoperta d'altre idee-madri. Quella nuova fonte di calore e di luce fu anche in età successive trasmessa come cosa sacra. Nel Zendavesta la fondazione delle città e delle colonie è chiamata la propagazione dei fuochi. Anche in più lontani secoli, i re persiani solevano mandare inanzi al loro esercito fochi sacri, accesi sopra altari d'argento, come se volessero con quel dono allettare i popoli ad accettare i beni della loro signoria: - Ignis, quem ipsi sacrum et aeternum vocabant, argenteis altaribus praeferebatur (Curt. 3.3. Forc. Ignis).

Il foco sacro era custodito nei templi; spento veniva riacceso con mistiche solennità, la cui tradizione vive tuttavia fra le mutate nostre credenze. La partecipazione del foco rimase per sempre un diritto della famiglia, un diritto delle genti; l'esclusione era un'ingiuria, una pena, un esilio, una guerra, una maledizione: - Hostes judicemur; aquâ et igni nobis interdicatur (D. Br. Forc. Interdicere).

Signori, l'umanità è ben giovine. L'invenzione del foco appena ha compiuto il giro del globo. Ho letto ne' miei primi anni, se ben mi ricordo nella collezione del Laharpe o nei viaggi di Cook, che in qualche isola del grande Oceano, quando li aborigeni videro ardere per la prima volta il foco, lo stimarono una cosa viva, e avendo osato toccarlo, si credettero morsi da un animal feroce. Qui la propaganda vicinale si dilata in propaganda delle nazioni. Le osservazioni d'una tribù divengono cognizioni del genere umano.

Ogni arte nuova diviene un nuovo campo d'analisi. Chi ha scoperto l'uso del fuoco ha fatto strada alla scoperta dei metalli. Chi ha intraveduto in un tronco natante una nave, ha preordinato per sè e suoi come per gli stranieri, per i viventi come per i posteri, una serie di successive scoperte, che senza limite di materia e di forma, sempre crescendo, giunse fino a noi e crescerà fin che duri il genere umano. Ma queste successive analisi che svolgono dal seno d'un'idea madre le nuove arti consistono nell'osservare le leggi della natura, per conformarsi ad essa: - «Natura parendo vincitur», - disse Bacone. E riescono più facili o difficili, secondo che corrispondono alle tradizioni e disposizioni delle società. Le menti associate in questa analisi ereditaria e progressiva oscillano dunque perpetuamente tra un ordine ideale che rappresenta le leggi invariabili della natura - e un altro ordine ideale che rappresenta, in dati tempi e luoghi e popoli, le condizioni della società.

Tutto questo progresso delle idee rimane posto fuori dall'ipotesi dell'individuo pensante; oltrepassa tanto la solitudine metafisica di Cartesio quanto la statua sensitiva di Condillac, la solitudine poetica di Rousseau e la commune natura delle nazioni di Vico. A compimento della dottrina di Vico resta di chiarire come, la natura delle genti essendo commune, le colonie delle nazioni progressive debbano in molte parti della terra trovarsi a fronte di tutte le gradazioni d'una barbara inerzia. Questo è il più grande problema dell'umanità. Perché venga studiato è d'uopo che venga proposto.

Ricorrendo tutta quella serie d'idee che fin qui abbiamo percorso, non si offerse alla nostra mente dove collocare l'idea poetica del selvaggio solitario, felice co' suoi pensieri nel seno della madre natura, quale Rousseau lo dipinse a sè medesimo e ai nostri padri: - «Je le vois se rassaisiant sous un chêne, se désalterant au premier ruisseau, trouvant son lit au pied du même arbre qui lui a fourni son repas».

Ma questo placido regno del pensiero è impossibile nel perenne bisogno e nella perenne agitazione della vita selvaggia. Rousseau aveva accolto la tradizione, verisimile purtroppo, che li aborigeni in Italia avessero vissuto di ghiande; e infatti l'analisi della nostra flora nativa non disdice molto notevolmente questa poco allettevole tradizione. Anzi la tradizione stessa popolava le selve dell'Italia e della Grecia colle truci sembianze dei Lestrigoni, dei Ciclopi, di Caco, di Licaone, di Tieste. Erano le memorie confuse del passato che abbracciavano i fantasmi della vita canibale. E questa era inevitabile fintantoché l'aborigene nudo, nelle deserte selve di roveri e d'elci, con un vivere senza casa e una pesca senza reti e una caccia senz'armi, doveva avere di che sfamarsi regolarmente ogni dì dell'anno, senza saper preservare dalle ingiurie degli elementi e dalle insidie degli animali diurni e notturni le incerte prede e i caduchi frutti. Oggi satollo e oppresso di cibo, per rodere dimani i fetidi avanzi - o cader di fame, - o tenersi in vita divorando il cadavere del suo simile. È perciò che in alcuni paesi dell'Africa meridionale, quando alcuno atterra un grosso animale, tutta la tribù accorre per prisca tradizione a dividerlo secolui; e chi alla sua volta tradisce il ricambio, vien maledetto con formule sacre, alla cui giustizia si attribuisce ogni seguente calamità.

Laonde se l'uomo selvaggio da Hobbes fu detto puer robustus, più giustamente potrebbe dirsi puer famelicus; perché s'indicherebbe nel tempo stesso come quell'ansietà perpetua del vivere sia causa di quella perpetua puerizia della mente.

Vi parrà forse, Signori, ch'io mi sia troppo divagato ricercando in seno all'estrema barbarie i più intimi secreti della vita scientifica. Ma questa analisi della vita del pensiero nella sua iniziale semplicità torna utile, perché chiarite una volta le sue leggi si può seguirle poi nelle sue più difficili evoluzioni.

Le tradizioni delle singole tribù ingrossando inegualmente nel corso dei secoli le loro correnti, dovevano ad ogni modo incontrarsi fra loro e confluire. Le tribù vicine, o perché amiche o tanto più perché nemiche, dovevano ammaestrarsi coll'esempio e colla forza prevalente delle offese. L'arco e la fionda furono a quei tempi ciò ch'è in questi giorni il fucile prussiano. O perire o imitare; o perire o accettare un'idea!

Siffatte communicazioni primitive dovevano essere più agevoli e immediate lungo le convalli dei grandi fiumi nelle regioni più temperate; poiché offrono una lunga sequela di luoghi ubertosi ove piante e animali trovano alimento nella terra e nelle aque; epperò le tribù possono trovare vita meno incerta e faticosa; moltiplicarsi ed assicurarsi col numero; coordinare i frammenti delle tradizioni iniziali nel seno di prevalenti lingue mediatrici; appropriarle con nuove inflessioni e composizioni e con traslati ad esprimere ordini d'analisi sempre più elevati; a tentare le prime astrazioni del numero, del tempo, dello spazio, delle forme. I poteri dell'osservazione non sono più angustiati dalle inesorabili necessità d'una perpetua carestia. Sono ognor più liberi li atti dell'attenzione; ognor più largo il suo campo. Le genti, potendo anche più facilmente moversi da luogo a luogo, possono raccogliere maggior numero di scoperte locali. Ciò accresce vie più la facilità del vivere, l'addensarsi delle società. Ricomincia il lavoro sociale; ma non è più quello della tribù solitaria; è la tradizione d'un popolo nel seno d'un vivere migliore. Si comincia ad aver tempo. È ciò che i Latini chiamano ozio; l'ozio per lo studio; otium studio, come scrive Cicerone; cioè riposo e pensiero. Ozio in greco si dice scholê, ed è una delle voci più sapienti di quella lingua sapiente. La scola ossia l'ozio d'Atene è il portico, è l'orto, è la selva d'Academo. È il libero e amabile corso della mente alla ricerca del vero:

 

atque inter silvas Academi quaerere verum. Hor.

 

Le più grandi aggregazioni di popoli avvennero in Oriente lungo i grandi fiumi ove le flore e le faune native comprendevano fin da principio alcuno dei principali elementi dell'agricultura e della pastorizia. Tale era la bassa valle inondata così regolarmente dal Nilo; tali erano i due fiumi della Mesopotamia; i due fiumi della Battria; i due fiumi dell'India; i due fiumi della China. Sotto la zona torrida le grandi associazioni dei popoli si svolsero sui vasti altipiani dell'Etiopia, del Perù, del Messico, perché quivi l'altitudine fra nevosi monti mitigava i calori della latitudine. La terra meno propizia fu l'Australia, perché la natura le negò i grandi fiumi, i fecondi altipiani, e vi sparse una flora e una fauna egualmente ingrate. Mancando l'opera della natura, mancò anche l'opera della società. La vita del pensiero fu impossibile. E così avvenne che ammessa pure anche per quei miseri abbozzi d'uomo l'ipotesi della commune natura delle nazioni e il principio incontestabile della commune natura dell'intelletto, resta facilmente spiegato come quella gente non sia mai giunta ad afferrare l'idea madre né dell'agricultura, né della pastorizia, né della navigazione, né della metallurgia, e non mostri tampoco l'istinto costruttivo del castoro, e sia molto probabilmente destinata a perire in questa cadaverica inerzia d'un intelletto nato morto.

Signori, ho tentato dimostrare come l'origine delle idee non sia così semplice come la natura dell'intelletto, né si possa spiegare colla sola natura dell'intelletto. Essa mi pare come un arbore che vive bensì di vita sua propria, ma che per vivere deve tenere le radici nella terra e stendere i rami sovra un consorzio sociale.

Non mi sembra probabile l'idea generalmente diffusa che l'idea madre della pastorizia dovesse regolarmente precedere l'idea madre dell'agricultura; il che implica che dovessero nascere distinte e separate. Una tribù poteva tanto trovare nella sua patria la palma o il frumento o il riso, se la natura gliene aveva fatto il dono, come poteva trovarvi la pecora o il bove. Una sola di codeste utili specie animali o vegetabili bastava per inaugurarvi la vita pastorale o l'agricola o entrambe. L'uomo che avesse incontrato in qualche romita valle un gregge vagante nella primitiva libertà, aveva solo a pensare: quel gregge è mio; difenderlo dalle fiere e dai nemici, soccorso dal vigile cane che lo seguiva per godere le reliquie del macello. Ma ciò non impediva di continuare a raccogliere come prima i frutti selvaggi o alcun grano o legume. E ad iniziare con alcuno di questi la vita agricola, bastava che nella secolare esperienza della sua tribù fosse giunto a discernere in quella pianta il seme, che caduto nel fango risurgeva in novella pianta.

Ma l'elemento pastorale era più efficace alla propagazione delle scoperte perché più mobile. I mansueti e gregarii animali erano disposti da natura a seguir l'uomo da luogo a luogo e anche a trasportarlo.

Ecco quindi le genti dell'Asia predestinate a moversi vastamente sulla terra e raccogliere ogni dove gli sparsi frammenti dell'analisi selvaggia. Il gran deserto dell'Africa rimase impraticabile finché il camelo dell'Arabia e della Battria non approdò alle isole palmifere del mare d'arena.

Oramai nella certezza e continuità del vivere, il pensiero poté levarsi finalmente al cielo; distinguere non più solamente il sole e la luna; ma suddividere le stelle fisse in costellazioni, e distinguere i pianeti che s'accompagnano or all'una or all'altra costellazione. Oramai la natura e la società schierano inanzi al pensiero i tesori di molte regioni e le tradizioni di molti popoli. Ma pur troppo il pensiero dai faticosi e lenti passi dell'analisi trapassa ai rapidi voli della sintesi. L'imaginazione si sveglia; anticipa e presume ciò che non sa; precorre alla cognizione, esagera un'idea per compirla; scambia l'astronomia con l'astrologia, la medicina con la magia, la contemplazione con la visione e con l'estasi. Non appena la misurazione dei campi ha dato occasione alla prima geometria; e già la scienza del matematico si confonde coll'arte dell'indovino: «Mathematici... genus hominum... sperantibus fallax». Tacito.

Mentre per tal modo le caste dotte mutano la dura e fedele osservazione in vaga poesia, le moltitudini passano dalla miseria del selvaggio alla miseria dello schiavo. Il commercio inizia lo scambio delle cose; e perciò ciascuno si raccoglie in un'arte sola, fugge dagli oppressori della patria in cerca di libertà; fugge ad esercitarla presso altre genti; ogni arte diviene un secreto e una nuova casta; ecco nascere ciò che li economisti chiamano la divisione del lavoro; ma che al cospetto della psicologia è solamente un nuovo ordine d'analisi il quale penetra sempre più profondamente negli arcani della natura. Intento solamente all'arte sua, il plebeo riceve passivamente tutte le idee generali che gli vengono imposte dalle classi dotte. Quindi fomentato quell'ordine d'idee che s'accorda ai voleri del potente, e repressa e maledetta ogni ricerca che può rivocare in dubbio le credenze ch'egli ha dettato. L'analisi si estende e fra i signori e fra i servi; ma non è libera; i potenti segnano un limite agli altri; segnano un limite a sè stessi; l'analisi diviene nuovamente preordinata e fatale. La potenza dunque, senza avvedersi, segna un limite alla potenza. È il fatto odierno della Russia, dell'Austria, della Francia stessa e dell'Italia.

V'è un momento in cui l'analisi officiale rompe le sue catene nelle libere città della Grecia; ma sopraviene l'unità macedonica e l'enciclopedia d'Aristotele, poi la conquista romana e l'unità bizantina; il pensiero greco si sommerge nella memoria del passato; in tutto il medio evo l'analisi è preordinata e fatale.

Io non mi trattengo a descrivervi il fatto del quale molti di voi sono più intimi testimonii ch'io non sia.

Io non mi trattengo a rammentarvi come avvenne che nella moderna Europa e nelle sue colonie, in rapporto sempre alle tradizioni più o meno libere e audaci ch'esse avevano recato seco dalla madre patria, la potenza dell'analisi si esaltò ad un grado che non ha esempio nel corso de' secoli.

Voi sapete come l'analisi universale cominciasse ad armare sè stessa coll'opera d'innumerevoli ordini d'analisi speciali. Altro che non sapersi numerare le dita d'una mano! - altro che numerare per quintine! - altro che dire due paja ed uno per significar cinque, tre paja per significar sei, tre paja ed uno per significar sette e poi non saper più andare avanti, e per disperazione afferrarsi con ambe le mani i capelli e gridar cuma! ciò che vuol dire molti! - nella povera lingua delle tribù visitate dal nostro commune amico Osculati, nelle selve appiè dell'eccelso altipiano del Perù! L'analisi universale si armò coll'analisi matematica; si armò di tutti li strumenti della fisica, misurò tutte le variazioni del calore, dissipò la favola di Dedalo; trasmutò gli ardori della sfera del foco in una sfera di gelo, invano penetrata dai raggi della fotosfera solare; pesò l'aria; calcolò le cadute dei gravi; alzò in faccia a Giove Tonante il parafulmine, tese sui gioghi delle Alpi e negli abissi dell'Oceano i fili parlanti. Si armò di tutti li artificii della chimica; trovò i numeri degli equivalenti, il gran gioco di carte della natura, le poche carte che fanno una serie infinita di giochi; disfece e rifece tutte le combinazioni di quel caleidoscopio e calcolò altre combinazioni a cui forse la madre natura non aveva peranco avuto occasione; scoperse che tutte le potenze letali e vitali del mondo vegetabile non piovevano sulla terra per magico influsso degli astri, ma erano poco più che numeriche proporzioni d'aqua e di carbonio. La medicina si armò dell'analisi anatomica, oppose veleni a veleni, cogli strumenti della morte salvò la vita; era il senso della sapiente parola di farmaco che la sapienza anticipata dell'Oriente aveva consegnato alla Grecia.

Volgendosi al mondo delle tradizioni l'analisi universale interrogò tutte le lingue, dissepellì le loro radici, le radici delle loro radici; narrò ad esse colle loro proprie parole com'erano nate e come da lingue di canibali più brutali dell'orangotango e del gorrilla fossero giunte a dare un nome ordinatore a tutte le piante e a tutti li animali dell'orbe terraqueo, - a tutte le pietre e a tutte le creazioni petrificate che avevano vissuto in quelle pietre nei secoli dei secoli dei secoli. Trasse dall'umile basalto di Rosetta i misterii dell'antico Egitto; lesse diecimila anni di date sepolte sulle pareti dei templi e nelle viscere delle piramidi. Penetrò il senso del sapiente aggettivo dato alla volta celeste da Virgilio, l'allievo dei Druidi, il maestro di Dante:

 

Terrasque, tractusque maris coelumque profundum!

 

L'analisi antica, libera tratto tratto, ma sempre inerme, divenne libera e armata; divenne irresistibile; essa è ancora preordinata e fatale, ma il suo ordine è l'ordine di Dio; il suo fato è la verità.

Libertà e verità! Signori, scrivete queste parole sulle porte di tutte le università.

Intanto sugli immani regni dell'Asia si aggreva l'ineluttabile dominio delle tradizioni, la scienza delle sintesi premature e anticipate.

Oggi nell'Europa e nelle colonie, oramai propagate alle estremità della terra, ma non pervenute ancora a penetrarne tutte le parti, non pervenute ancora a riconoscere in tutto il suo circuito il patrimonio del genere umano si commisura alla libertà dell'analisi la ricchezza e la potenza delle nazioni: - Scienza è forza!

Non si considera fra noi più nemmeno come scienziato chi vive parasita delle tradizioni, chi non abbia dato alla scienza un'idea la quale egli possa chiamar sua. L'arte di fare le scoperte prevista e descritta anzi tempo dal profeta Bacone è divulgata a tutti. Vi sono società d'uomini la cui vita consiste nell'attendere a fare scoperte; e d'altri uomini la cui vita consiste nell'attendere ad annunciarle. È l'analisi per l'analisi!

Noi fummo testimoni degli eventi che sottomisero all'Europa e alle sue colonie le sorti dell'Asia e dell'Africa. Ora si affaccia a noi la più grande di tutte le rivoluzioni che sottomette tutte le discordi sintesi d'una scienza fantastica all'urto dell'analisi libera e armata delle opere sue; che inaugura finalmente la concorde libertà del pensiero per tutto il genere umano.

Oramai non dobbiamo curarci di rinvenire tra le reliquie del mondo fossile l'unità primordiale del genere umano. Da dovunque egli sia venuto il genere umano procede alla libera unità del pensiero.

Signori, questo è per me un breve capitolo; ma potrebbe essere ad altri un'opera di lunga lena.

Io aveva già presenti alla mente queste idee, quando (in gennaio 1862) risposi publicamente nel Politecnico ad una cortese inchiesta che l'onorevole Matteucci, allora ministro, mi faceva sulla riforma da lui proposta per gli studi scientifici in Italia.

Io gli proposi allora per sommo principio da seguirsi nel complesso delle università la divisione del lavoro, ossia la libera analisi, in quanto che non si riproducesse mai in una università l'identico programma d'un'altra; ma le sole scienze generali e necessarie, le sole scienze preliminari e accompagnatorie fossero uniformi in più facultà; ma gli altri studii costituissero corsi affatto speciali, proprii ciascuno di ciascuna università. E così per esempio, supposto che avessimo in Italia dieci uniformi facultà per gli ingegneri, ciascuna delle quali avesse dieci catedre, io intendeva che si ponesse la mira a disporre a poco a poco le cose in modo che una metà incirca di quelle catedre avesse un programma uniforme di scienze generali egualmente necessarie per tutte le varietà dell'insegnamento; ma l'altra metà delle catedre fosse intesa ad un insegnamento speciale, proprio di quella sola università. Una delle dieci facultà d'ingegneri dovrebbe fornire un insegnamento speciale d'alta matematica, destinato a preparare forti professori di questa famiglia di scienze, anche per le altre facultà, per i licei e le scuole tecniche e militari. Questa facultà matematica, per conservare una certa tradizione locale si potrebbe istituire in Modena. Un corso speciale d'ingegneri agronomi sarebbe da istituirsi in Pavia. E così sarebbe ad assegnarsi ad altra opportuna città un corso d'ingegneri idraulici, censuarii, maremmani, navali, ferroviarii, meccanici senza obliare un ramo di bella architettura. E ora aggiungerei un ramo di buona e provida architettura campestre e urbana nelle sue più modeste e utili e salubri forme.

Dato che in ogni università questi corsi avessero cinque catedre generali, epperò uniformi, e cinque catedre speciali, epperò diverse in ogni università, si avrebbero con una equivalente spesa nelle dieci università cinque rami d'insegnamento uniformi in tutte e cinquanta rami speciali e tutti variati. Perloché codesto studio degli ingegneri che ora nelle dieci università colla spesa di cento catedre darebbe soli dieci rami d'insegnamento, allora, pur con cento catedre, darebbe cinquantacinque rami, dei quali cinque soli sarebbero uniformi da per tutto.

Applicato il medesimo principio alla facultà medica, alla legale, all'amministrativa, all'industriale, si avrebbero più centinaja di rami speciali d'insegnamento; e dal complesso di tutte le facultà così sviluppate, surgerebbe una sola e grande e vera universitas studiorum, come s'intese quando le università furono primamente instituite coi poveri materiali che il medio evo poteva offrire. E in luogo d'una misera e servile e sterile uniformità, l'Italia darebbe l'esempio d'una splendida enciclopedia nazionale.

Per aumentare vie più la divisione del lavoro e la intensità dell'insegnamento, si dovrebbero ammettere in ciascuna università corsi liberi e occasionali da chi potesse apportarvi qualche ordine nuovo d'idee. Con questi corsi liberi e originali li aspiranti alle catedre si farebbero conoscere in ben altro modo che colla usanza delle terne, consegnate ai favori di amministratori non sempre competenti.

Parimenti i veterani delle facultà che attendessero notoriamente a studii di scoperta e ne dessero annuo saggio, potrebbero cedere una parte della quotidiana fatica ed esporre poi le loro dottrine in lezioni volontarie aperte a tutti.

Anzi io proposi che una facultà di Scienze Nuove si aprisse in Roma; e che a questi giochi olimpici dell'Italia pensante, fossero invitati con alta ospitalità i più gloriosi campioni della scienza straniera. Sarebbe una festa del genere umano, la festa del libero pensiero: Libertà e Verità.

Io conchiudeva allora dicendo: «che ad ogni ramo speciale di scienza si potrebbe aggiungere una relativa appendice militare; perché ad ogni più alto pensiero la gioventù deve sempre intessere un pensiero di guerra, come il popolo che rialzando dalle ruine la sacra sua città: unâ manu faciebat opus et alterâ tenebat gladium (Esdra, XI, 4)».

 

 

 

 


CARLO CATTANEO

 

GLI ANTICHI MESSICANI

 

 

 

 

 

Nota: La publicazione che l'antico nostro collaboratore Biondelli fece d'un manoscritto del P. Sahagun, corredandolo d'una prefazione latina e d'un glossario azteco, ci porge occasione di communicare agli amatori parte d'un nostro studio su quel popolo, i cui primordii possono in parte spiegare le rernote e inaccessibili origini d'altre civiltà. Sepolta da tre secoli nelle tenebre anche questa con tutte le altre opere del venerabile filantropo Sahagun, fu scoperta nel Messico e apportata in Italia dall'insigne viaggiatore e scrittore bergamasco Giulio C. Beltrami. Il signor Biondelli, coltivando codesti peregrini studii, continua in Italia l'onorata tradizione scientifica che rese illustri e cari in America i nomi di Pietro Martire d'Angera, di Clavigero, di Butturini Benaducci, di Gemelli Carreri, d'Orazio Carochi, di Beltrami stesso e d'Agostino Aglio al quale dobbiamo i sette splendidi volumi delle Antichità Messicane, publicate a spese di Lord Kingsborough.

 

 

 

 

 

Se fosse vero che la natura dei luoghi determina la natura dei popoli e il loro destino, il Messico, per la sua posizione unica al mondo, dovrebbe essere il convegno universale del commercio e dell'incivilimento.

Ampio triangolo, chiuso a settentrione da lande inospite, ma lambito a oriente e occidente dai due Oceani, esso può da' suoi porti communicare senza alcun circuito, da un lato direttamente coll'Europa, coll'Africa, coll'Asia Minore fino agli intimi recessi del Mar Nero; dall'altro colla grande Asia, coll'Australia, colla Polinesia, mentre può con facile costeggio raggiungere qualunque punto d'ambo i littorali d'ambo le Americhe fino alle zone polari. E inoltre un breve passaggio terrestre congiunge i due mari sia per la terra di Tehuantepec, ch'è sgombra di monti, sia per la via quasi tutta navigabile di Nicaragua, sia finalmente per l'istmo di Panàma; fino al quale può tuttavia geograficamente estendersi il nome del Messico, come già si estendeva politicamente. E infine alcuno direbbe che la natura, col corso spontaneo dei venti e dei mari, abbia voluto guidare le navi dall'Africa al Messico, dal Messico agli Stati Uniti e all'Inghilterra; e sull'altro Oceano, dal Messico al Giapone, alla China, all'India.

Senonchè, nulla valgono i favori della natura, come nulla vale l'ingegno, finchè non si compia nei popoli una certa evoluzione d'idee, di cui la filosofia non ha peranco indagate le cause moventi e le leggi fatali. I popoli sono guidati dai loro pensieri; e nelle regioni del pensiero giace il secreto dei loro destini.

 

Quando un'idea maturata nel seno alle republiche della Liguria, della Toscana, della Venezia, e personificata in Marco Polo, in Paolo Toscanelli, in Colombo, in Americo, in Caboto, ebbe spinto i semibarbari vassalli di Carlo V alla conquista della terra dell'oro, essi approdando alle maremme della zona torrida, videro con meraviglia estollersi a breve distanza una catena d'alpi nevose. E a misura che salivano, videro con meraviglia la vegetazione tropicale della tierra caliente a poco a poco rifarsi simile a quella delle terre temperate della Spagna e infine delle regioni più aspre del settentrione. E con più stupore udirono che dietro al dorso di quei monti, ma sempre a enorme altezza, giacevano valli e pianure, che colassù godevano un clima invariabilmente mite; ed erano coperte di campi ben coltivati, con città popolose e belle.

Ma nel primo incontrarsi con esseri umani, subito seppero che là pure, come nel mondo antico, i popoli combattevano, li uni pel dominio, li altri per la libertà. La nazione dei Totonachi, che abitava quelle prime terre, invocò immantinenti contro un lontano oppressore le armi di ferro e di foco e i non mai visti cavalli di Fernando Cortês. E questi, guidato e scortato da tali inaspettati amici, potè varcare quelle alpi, alle quali, pel fiammeggiare notturno d'un altissimo vulcano, si dava il nome di monti della stella (Citlal Tepetl). E al di là trovò altri popoli, non oppressi ma liberi, e non meno nemici al potente regnatore. E dopo breve prova d'armi, venuto con loro in amicizia, ed accolto entro le forti difese dei loro monti e nella loro città di Tlaxcala, vi ravvisò con sua meraviglia una republica di patrizii, non dispersi per castella e ville come presso le genti celtiche, teutoniche e slave; ma radunati in palazzi entro le mura d'una città come in Italia. E scrisse a Carlo V: “ Secondo che ho potuto comprendere, questa gente seguita il governo de' Veneziani, de' Genovesi e dei Pisani; perciocchè non hanno signore particolare; ma sono molti signori, che tutti dimorano nella medesima città; li abitatori del paese sono lavoratori; e sono sudditi a questi signori, ciascuno dei quali ha le sue proprie città. E secondo le facende e le guerre che nascono, si radunano tutti insieme e deliberano - Giudico che di circuito sia maggiore della città di Granata e più forte e di edificii tanto belli e forse più ricchi e più pieni di popolo che non era Granata in quel tempo che i nostri la tolsero dalle mani dei Mori. In questa città è una piazza nella quale ogni giorno si veggono più di trentamila persone a vendere e comprare, oltre l'altre piazze. - Quivi sono luoghi ordinati per vendere oro, argento e gioje e altre sorte d'ornamenti e penne tanto bene acconce, che in niun altro mercato o piazza di tutto il mondo si potriano trovare le più belle. Vi sono anche bagni; e finalmente tra di loro apparisce una vista d'ogni buon ordine e regola. - In questa provincia, secondo il conto ch'io feci far diligentemente, sono più di centocinquantamila case”[1].

 

Varcata altra catena d'alpi nevose fra i due vulcani del monte Fumo (Popoco Tepetl) e della Bianca Donna (Iztac Cihuatl), ad un tratto gli si aperse dinanzi un vasto anfiteatro: mille e cinquecento miglia quadre, tutte ricinte in giro di maestosi monti; e chiudevano in seno una catena di laghi, lunga più di cinquanta miglia. Entro ai quali, a guisa d'isole, come in una Venezia mediterranea, surgevano parecchie città, facendo corona a Messico, superba sede del gran regnante la cui tetra potenza faceva gemere i popoli di trentacinque linguaggi. Onde Cortês, che con malpagata sollecitudine si affaticava a procacciare quello strano imperio a Carlo V oppressore già dell'Italia e dell'Olanda e della Germania e delle communi di Spagna, gli scriveva: “E forse che questo titolo non è d'essere riputato minore di quello d'Allemagna” (p. 225). In verità per ampiezza e ricchezza di terre era maggiore.

La città di Messico, nutrita delle spoglie e dei tributi di tanti fertili regni, aveva allora trecentomila abitanti; il suo circuito era di dieci miglia. Fondata tra due laghi, uno dei quali d'aque salse, non aveva accesso se non per due larghi argini, che conducevano a due porte, difese da ponti di travi che si potevano d'un tratto levare. Era di pianta esattamente quadra, orientata ai quattro venti, e divisa come una scacchiera da canali e da rette e larghe vie, che ogni dì venivano spazzate e lavate. Un aquedutto vi conduceva le aque dai gelidi monti, le quali si diramavano per tutte le case. In mezzo alla città era la piazza del mercato, cinta di logge; e intorno si aprivano le contrade assegnate alle varie mercanzie; in una loggia nel mezzo stanziavano i magistrati e vigilavano sui pesi e le misure. Le torri, i palazzi, le piramidi erano di pietra e per lo più di basalto o di porfiro; e i tetti erano fatti a terrazze praticabili e atte alla difesa. In uno dei palazzi del re, Cortês potè accommodarsi con tutto il seguito che aveva di seimila e più alleati, oltre a' suoi.

La reggia di Motezuma aveva venti porte che fronteggiavano diverse vie. Ampii cortili erano adorni di fontane zampillanti; le aule erano fregiate con musaici di smeraldi e turchesi e ametiste e ambra e lamine d'oro e madreperla, ovvero con piume di splendidi colori tessute in disegni di piante e d'animali. V'erano nel recinto stesso separate dimore per i principi tributarii, venuti in visita o tenuti in ostaggio; e ad ostentazione della imperiale misericordia, v'erano entro la reggia stessa ospizii di mendici e d'infermi.

In un giardino si coltivavano piante medicinali e i più bei fiori; un serraglio rinchiudeva tigri, aquile, serpenti; stagni d'aque dolci e d'aque salse erano popolati di pesci marini e fluviali; e in ampie uccelliere si nutrivano volatili delle più preziose piume, onde si facevano cimieri e spalline e delicati ricami. Codesti vivai, de' quali l'Europa allora non poteva dare l'esempio, erano in cura di trecento esperti dei costumi e delle malattie degli animali. V'era nella reggia stessa una grande armeria, con fabriche d'armi, nonchè officine d'intagliatori, intarsiatori e giojellieri; e infine una scôla di danze, le quali erano primaria parte delle cerimonie sacre.

Sui laghi, sparsi di migliaja di navicelle che recavano alimento alle molte città, la più mirabil cosa erano i giardini galleggianti (cinampe), larghe zattere, coperte di terra, sulle quali crescevano legumi e piante fiorite, sopratutto dalie d'ogni colore.

Principali alimenti erano: il maìz, che di là venne poi portato ai nostri contadini; nonchè il cacao, che si macinava anche “mezclandose con granos de maìz cocidos y lavados” (Sahagun, Historia, ecc., Lib., X 26); e il nome del cacao, come quello della tazza in cui si prende (xicara) e il nome del tomate (tomatl) e parecchi altri, è di lingua messicana. Ad uso di pane valeva anche la radice della cassava (jatropha maniot) e della cacomite (tigridia pavonia) e l'arachis hypogea; e già in uso popolare erano molti potenti medicinali, nonchè il tabacco, la vaniglia, l'ananas, il nopale, specie d'opunzia o fico d'India su cui vive l'insetto che dà il carmino; infine l'agàve americana onde si traeva un filo, un papiro finissimo e un liquore inebriante. Ma li agricultori messicani non avevano idea d'altri grani, nè avevano pensato a valersi della vite indigena delle loro selve, e nemmeno della patata, che già nutriva altri popoli americani. Il che prova che le loro emigrazioni e peregrinazioni s'erano circoscritte entro certi limiti, e non erano nemmeno pervenute a parti assai vicine di quel continente, mentre molti le vanno imaginando protese fin alle sue estremità. Nè avevano ancora alcun'idea dell'aratro, nè d'alcun animale da lavoro o da pastorizia, non avendo altri animali domestici che alcune specie di conigli e di polli e di cagnolini che mangiavano. E ciò quando i loro vicini Peruviani, ch'essi non conoscevano, avevano addomesticato il lama, l'alpaco e la vigugna. Lavorando squisitamente l'oro e alcune gemme, e valendosi alcun poco del rame per li strumenti d'agricultura, ma non mai per le armi, pare quasi nulla si curassero dell'argento e del piombo: antes que veniesen los españoles à Nueva España, nadie se curaba de la plata ni del plomo (Sahagun XI, 9). Ma più decisivo per certe preoccupazioni antistoriche di molti scrittori è il fatto, che non avevano ancora l'idea del ferro, che la tradizione asiatica fa risalire, al pari della pastorizia, fin oltre Noè. Il non avere idea di pastorizia e il non potere perciò trar seco di che vivere come i barbari dell'Asia, fu cagione e della lentezza delle loro emigrazioni, e della pertinacia con che serbarono l'orrida usanza dell'antropofagia, finchè poi divenne parte irreformabile di loro religione e politica.

Con ciò è curioso che avessero già visto nel sale uno strumento di finanza; poichè Cortês dice: “Qui si fa gran mercanzia di sale, che lo soglion fare dell'aqua del detto lago e del fiore della terra dal lago inondata, che, come è bollita, la riducono in masse in forma di pane e lo vendono, così ai paesani come ai forestieri” (p. 234). - Ma i liberi Tlaxcaltechi, anzichè pagare quel tributo al tiranno, si negavano l'uso del sale. “E sempre si erano difesi; e non li aveva mai potuto far soggetti, sebbene erano da ogni banda circondati, e non avessero uscita alcuna dalla patria. E non usavano punto di sale, non se ne facendo nella loro provincia, nè permettendo che si vada fuor della provincia a comperarne” (p. 229).

Se nel regno degli Aztechi non si sapeva ancora domar li animali, ben si era saputo domar gli uomini, incominciando dai più bellicosi e superbi. “Vennero qua, scrive Cortês, a incontrarmi e salutarmi da mille baroni della città, con abito d'una stessa livrea, secondo il lor costume e usanza; e mentre s'appressavano, ciascuno di loro usava la cerimonia della patria, che è tale: ciascuno, secondo che si trovava nell'ordine, quando veniva a salutarmi, toccava la terra con mano; e di poi se la baciava per seguo di grandissima riverenza; e quasi consumammo un'ora, prima che ciascuno finisse la cerimonia. - Poich'ebbi passato il ponte, mi venne incontro quel potente signor Motezuma per ricevermi; e con esso lui duecento signori coi piedi nudi e con altro più ricco abito di livrea. - Il signor Motezuma portava le scarpe e li altri andavano a piè nudi, benchè tutti li abitatori usino scarpe. E quando parlai al signor Motezuma, mi cavai una collana ch'io portava al collo di gioje e diamanti di vetro; e la gettai al collo al signor Motezuma; e avendo camminato alquanto, venne un suo famigliare, portando due collane lavorate in modo di piccoli gamberi marini. - E da ciascuna collana pendevano otto gamberi d'oro, di meravigliosa perfezione, di lunghezza d'un palmo; e subito me la gettò al collo” (p. 234). Aveva il privilegio di non comparire scalzo inanzi all'imperatore azteco il solo principe del ricco regno di Mechoàcan; a ponente di Messico; e perciò s'intitolava il re calzato.

 

Qui si desta desiderio d'indagare su quali fondamenta si fosse edificato codesto imperio, il cui sovrano poteva mostrarsi con sì fastoso corteggio allo straniero.

È ben certo che nel 1519, quando Cortês entrava ospite imperioso in quella città, non era compiuto il secondo secolo dalla fondazione di essa. Solamente nel 1325, li Aztechi, gente selvaggia venuta dall'Aztlan, ossia, per quanto pare, dalle regioni del fiume Gila sulle frontiere della California e del Texas, ove anche oggidì vivono i fieri Comanchi e Apachi, dopo avere errato e combattuto nei deserti per sette generazioni erano giunti nell'altipiano dell'Anahùac; e avevano fatto nelle isole della laguna le prime capanne e un tempio di legno. E in meno di due secoli, avevano potuto, col terrore delle armi e dei crudeli costumi e colle spoglie di trentacinque popoli, costruirsi quella meravigliosa città.

E già prima di loro, un'altra gente dello stesso linguaggio nahùa, era uscita da quelle medesime lande nell'anno 667 dell'era nostra; e pervenuta in cinquantadue anni appiè dei monti, fra i quali ha un unico sfogo (desaguadero) verso settentrione la valle di Messico, vi avevano edificato la città di Tula. E vi avevano stabilito un impero, che durò quattro secoli e propagò colonie di quella lingua sino presso il lago di Nicaragua, dove li Aztechi poscia non giunsero mai. E nella decadenza dell'imperio tulteco, desolato da guerre e pestilenze, altre tribù dello stesso stipite e linguaggio, i Chichimechi e i Tepanechi e li Acolhui ed altri, mescolandosi cogli Otomiti, barbari d'altro linguaggio, avevano fondato Tacuba e Cholula e Tepeaca e la libera Tlaxcala in un claustro di monti, e sul margine orientale dei laghi la città di Tezcoco, solerte custode delle memorie di tutto l'Anahùac. Onde pare che quei sagaci figli del deserto avessero il commune avvedimento di valersi d'una prima vittoria per farsi colle mani dei vinti un forte nido in mezzo alle rupi o in mezzo alle aque; e di là imporre tributo di ricchezze e di Sangue ai popoli circostanti, mettendosi in luogo dei loro antchi principi e capitani. E così, di selvaggi erranti, tramutati in caste patrizie, offrivano in seno alle suntuose loro metropoli quello spettacolo d'improvisa, malcompiuta, e per così dire, barbara civiltà.

Codesti patrizii che, come sempre avviene, erano nel paese meno antichi della plebe, apportavano dalla vita selvaggia un'indole magnanima e gloriosa. Conquistando città forti e belle, non si curavano abitarle; desolate le lasciavano alla devastatrice natura e alle fiere; e piuttosto amavano adornare le povere sedi ov'era nata la loro potenza. Quindi altri palagi, altre torri, altre piramidi, nuovi simulacri, nuove insegne, nuovi simboli; onde infine l'imperio tutto doveva divenire un informe panteon di tutte le fantasie dei popoli; e il sacerdozio dei dominatori, anzichè logorarsi a spegnerle, doveva sforzarsi d'abbracciarle tutte e interpretarle con qualche idea commune, che diveniva un principio d'insegnamento e d'unità ideale. Quindi fallace e disperato ogni studio che presuppone un'unica origine in alcuna grande mitologia.

 

Li edificii che inalzarono li Aztechi sembrano distinti per la forma e pel significato da quelli che nei medesimi luoghi avevano inalzato nei cinque o sei precedenti secoli i Tultechi. Quelli, per quanto si può ricavare dal Sahagun, diligentissimo interrogatore, in origine non rendevano culto agli astri; questi, per quanto pare, avevano inalzato essi nella valle di Otumba quell'eccelsa piramide che ora si chiama casa del sole; e accanto, altra minore, detta casa della luna; e intorno, centinaja di piccole piramidi, alte però bene una decina di metri, che si dicono consacrate alle stelle, sebbene alcuni le credano piuttosto sepolcri. Più a levante, entro le oscure selve di Papantlan, fu da pochi anni scoperta, sotto l'ingombro della vegetazione silvestre una piramide di pietra a sei piani, coperta di figure. Ma più mirabile è ciò che dicesi il monte fatto a mano; sulla pianura di Cholula, immenso cumulo di mattoni e pietre, il quale, essendo nel maggior lato della sua base lungo più di quattrocento metri, è forse il più grande di tutti i templi del mondo, come forse, lassù collocato, è a massima altezza di tutti. Sulla sua sommità, che ha quasi un mezzo ettaro di spazio, surgeva una volta un teocalli agli Dei dell'aere; e ora vi surge la Madonna dei Remedios; e li aborigeni vi vengono a celebrare, con balli e canti, feste troppo simili a quelle dei loro antenati. Onde il buon missionario Sahagun si lagnava, che, quando già da molt'anni il santuario della Madonna di Guadalupe era surto sulle ruine d'un tempio della dea Tonàntzin, i nativi continuassero a invocar questo nome che veramente significa nostra madre signora; e accorressero da lontane terre piuttosto a quel santuario che ad altro. E gli pareva “invenzione satanica per palliar l'idolatria; poichè in altre parti vi sono molte chiese della Madonna; e non vanno ad esse, ma vengono da lontane terre a codesta Tonàntzin come anticamente” (XI, 12). - E di tali successioni di più culti sopra un medesimo luogo, non senza qualche innesto dell'antico, i dotti non fecero ancora quel conto che si dovrebbe; e così videro sovente un'idea semplice nella congerie di difformi idee.

Or qui si noti che mentre codesto. nome di piramidi, da noi dato ai teocalli messicani, fa pensare all'Egitto, la forrna quadrilunga delle loro basi, la linea degli spigoli convessa di basso in alto, le piccole scale praticate per ascendervi, facilmente li distinguono affatto dalle piramidi egizie; e più ancora l'aver essi un così largo spazio, anzi una vasta campagna, sulla sommità. Onde un teocalli non è una vera piramide, in forma di fiamma, come il nome greco suona; nè un edificio per sè, come le piramidi sono; ma è un gigantesco basamento d'uno o più templi di mediocre ampiezza. L'idea di fare un gran cumulo di sassi poteva ben venire in capo tanto ad un Americano quanto ad un Egizio; ma nè l'intenzione nè la maniera, furono. le medesime. Era un'altra idea, nata in altra terra da altre menti per occasione d'altre idee. Tanto può altri quant'altri, dice il proverbio fiorentino.

Le imaginazioni, commosse da una qualunque simiglianza, vedono tra questi monumenti l'identico e non vedono il diverso; vedono il genere e non vedono la specie. È ciò che a prima giunta avviene in ogni altra cosa. Ai Romani i primi elefanti parvero buoi; e il nome stesso d'elephas derivò da aleph che nelle lingue arabiche vuol dire un grosso bue, bos dux gregis; e così gli Spagnuoli chiamarono pecore le vigugne del Perù; e la foca potè parere un vitello, e l'ippopòtamo un cavallo. E anche la scienza dà il nome commune di felis al gatto, al tigre, al leone; ma poi soggiunge al nome generico anche la distinzione specifica di felis catus, felis tigris, felis leo. È tempo d'applicare il principio della classificazione scientifica anche ai monumenti. Abbiamo troppe e troppo precipitose sintesi e troppo poche e troppo tarde analisi.

Un monumento, nel quale all'identico predomina il diverso, è la piramide naturale detta Xochicalco (casa fiorita), appiè dei monti che chiudono il bacino di Messico a mezzodì. È una rupe alta 117 metri (alquanto più del duomo di Milano), ritagliata in giro a mano d'uomo, veramente non a piramide ma a cono; cinta al piede con ampia fossa; cinta di nuovo alla sommità con muro di pietra, che abbraccia quasi un ettaro di superficie; fortezza e santuario, come il capitolio dei Romani. Nel mezzo vi surge un monumento di porfido con figure d'uomini e d'animali.

Ma i più ammirabili monumenti sono all'estremità meridionale dell'imperio azteco, o ben piuttosto dell'imperio tulteco, presso Palenque, presso Merida, in un'isola del lago Itza, a Capan, a Utatlan, a Mixco e in altri luoghi che si vanno ogni tratto scoprendo. Pare che il distintivo generico, in paragone ai templi e ai palazzi dell'Egitto, sia la mancanza delle colonne. Nella maggior parte delle sculture le forme sono studiosamente terrifiche e orride, ma non mai come in Egitto e in Assiria miste d'uomo e di belva, nè di diverse belve. E in altre, o per maggior libertà concessa agli artefici dai sacerdoti sottomessi dai despoti, o per maggior attitudine imitativa e per indole più geniale dei popoli, vi sono forme umane che anche li ammiratori dell'arte antica non possono non lodare. In paragone a questi, i monumenti e i papiri degli Aztechi sembrano opere di un'arte imbarbarita, come le sculture della lega di Pontida in paragone alla colonna trajana.

 

L'istoria di codesto popolo porge in tempi assai recenti e istorici l'esempio d'un'idea che in tempi remotissimi può aver presieduto alla fondazione d'alcuno di quei grandi imperii coi quali comincia d'improviso ciò che si chiama l'istoria universale. Onde codeste istorie di barbari, così vicine a noi, o anche presenti, dovrebbero essere per noi come il vestibolo dell'istoria antica.

Qui non abbiamo, come nel Perù, i figli del sole; non abbiamo una famiglia di Dei legislatori; non una teocrazia immediata; non vediamo l'intelligenza impadronirsi della forza. Ma è la forza barbara che irrompe nell'antico dominio d'una intelligenza assopita. È un popolo guerriero, che ha fede d'esser legitimo possessore d'una terra che non sa peranco ove sia e di cui va in cerca, mandato dagli Dei che gliel'hanno promessa, e guidato dagli oracoli dei loro sacerdoti. È una teocrazia mediata, una jerocrazia; non un governo per mano d'esseri divini, ma in loro nome.

Le otto tribù degli Aztechi vagavano nei deserti, “essendo guidate dal sacerdote che recava seco il loro Dio, col quale sempre si consigliava intorno a ciò che avesse a fare: llevaba con sigo su Dios de ellos con quien siempre se aconsejaba” (L. X, 19). Qui vediamo una religione ancora allo stato di feticismo. Pare che uno di quei sacerdoti ancora selvaggi, chiamato Mexi, avesse co' suoi oracoli acquistato sulle tribù soverchia autorità: “Favellava personalmente col demonio,” dice il buon padre Sahagun, il quale credeva che quelli Dei fossero ben cosa diabolica ma viva e potente: “hablaba personalmente con el demonio. - Era tenido en mucho, muy respetado y obedecido de sus vasallos” (L. X, 19). Pare che con ciò provocasse l'odio geloso de' suoi colleghi, sicchè questi lo spensero secretamente, in un modo che ricorda la morte di Romolo. Poichè uno di essi, convocate le tribù, disse loro che Mexi gli era apparso in sogno; e gli aveva detto che il dio Tezcalipòca, sentendosi invecchiare, lo aveva chiamato presso di sè, e fattolo sedere alla sua sinistra. Ma egli aveva voluto che le sue spoglie mortali restassero perpetuamente in seno al suo popolo; e lo guidassero in tutte le sue peregrinazioni e le sue battaglie, sino alla terra promessa, ove in riva ad un lago avrebbe veduto un'aquila posata sovra un'opunzia con una serpe fra li artigli. Egli indicò la selva ove avrebbero trovato le sue ceneri. E andati colà, le trovarono chiuse in un'urna d'argilla; e d'allora in poi le recarono sempre seco in una lettiga di canne portata da quattro sacerdoti.

Li Aztechi, nei papiri ove son disegnate rozzamente le loro migrazioni, si vedono passare una grande aqua, forse il golfo di California o qualche laguna del Texas. Soggiornarono lungamente presso i laghi del regno di Mechoàcan, a ponente del Messico; poscia a levante, presso il lago di Tezcoco; e quivi stettero per cinquant'anni, quasi schiavi del re degli Acolhui, vivendo miseramente di radici, di pesci, di rettili, infinoachè un giorno videro fra i due laghi posata l'aquila fatale sull'opunzia col serpe fra li artigli. Questo simbolo il lettore avrà più volte veduto sulle monete che ancora oggidì si vanno coniando nel Messico. I sacerdoti le posero dunque il nome sacro di terra dell'opunzia; Tenochti Tlan. Ma i popoli, fedeli alle loro memorie, la vollero chiamata col nome di Mexi. Siffatte cose, simili a tante che si leggono nelle nostre istorie antiche, hanno potuto compiersi in America l'anno dell'era nostra 1525; tanto il mondo è ancora vicino all'infanzia.

 

Ma nel Messico, egualmente come nel Perù e nel Giapone e nell'antico Egitto e nell'Asia maomettana, la milizia soverchiò il sacerdozio. Il capitano del popolo, 41 anni dopo la fondazione della città, si fece re. Non per questo si sciolse la teocrazia; l'antico terrore dei sacrificii umani divenne strumento di politica militare; l'odio dei popoli vicini si esacerbò, covando funesta vendetta. Quando l'ottavo di quei re consacrò il gran tempio, si dice sacrificasse sessantamila prigionieri; Gama ricavò da memorie certe che il primo Motezuma ne sacrificò in una volta 12,210 (Descripcion de dos piedras, ecc., p. 90). Così chiunque resisteva a quei tremendi tiranni, doveva perire o sul campo o sull'altare.

In seno alla vittoria e all'opulenza, li autocrati copersero di teocalli e di delubri l'imperio; si dice che ve ne fossero più di quarantamila. Moltiplicarono essi i conventi e collegi di sacerdoti e di sacerdotesse; i figli del deserto rinchiusi nei chiostri vi crebbero in austera disciplina, in aspri digiuni, in continue preci, in crudeli castighi, in vili fatiche, spazzando i templi e apportando legna al piè dei santuarj che stillavano sangue umano. Tutto il calendario messicano era una serie d'atroci feste. Credevano farsi grati alli Dei, pungendo per lo meno la fronte o le orecchie o le braccia o i piedi colle sacre spine dell'agàve, a sè, agli altri, alle persone più care, ai teneri lattanti; strappando per lo meno il capo ad una cotornice, tanto che il sangue scorresse.

Ogni matina offrivano sangue al sole e gli ardevano l'odorosa gomma del copale; e quattro volte ogni giorno e cinque ogni notte, gli ardevano codesto incenso: “Quotidie offerebatur sanguis et thus soli. - Quater quotidie thus illi offerebatur; quinquies vero noctu”. (Hernandez ap. Gama, p. 19). Ergevano templi all'aere, all'aqua, al foco, alla pioggia, alle nubi, alle nebbie, avevano una Cerere, una Venere che invocavano per peccar felicemente e per confessar poscia a' suoi sacerdoti l'adulterio; e il perdono del sacerdote disarmava la legge, che altrimenti li colpiva di morte.

Pare che appropriandosi tutte le antiche superstizioni di quella vasta terra, avessero mutato il primo feticismo in un molteplice e vago naturalismo. E questo, a poco a poco, li guidava pel culto degli astri alla scienza; poichè in seno all'astrologia nasce l'astronomia, e dal giro dei cieli e dal ritorno dei tempi nasce la matematica, e quindi ogni altra più sublime verità. E così vediamo con meraviglia presso i sacerdoti d'una scelerata antropofagia esprimersi con linguaggio scientifico l'idea metafisica d'un Dio senza nome, senza culto, ignoto al vulgo, anteriore a tutti li Dei, principio di tutti li esseri: ciò per cui si vive: (nepalnemoani) (Biondelli, Pref. XLI).

E uno dei re di Tezcoco aveva composto, in onore d'un Dio creatore del cielo e della terra, sessanta cantici; due dei quali vennero tradutti in lingua spagnuola, verso l'anno 1608, dal suo discendente Don Hernando Ixtlilxochitl, superstite a quella antica grandezza in somma povertà. E questi, nella breve istoria che scrisse della conquista spagnuola, chiama sapientissimo quello ed un altro de' suoi antenati, sovrani di Tezcoco, perchè avessero ai tempi loro apertamente contradetto l'idolatria e presagito un secolo meno inumano: “este tiempo dichoso - tanto lo deseasteis ver, y nos contradigesteis nuestros erores”[2]. E questi re di Tezcoco andavano facendo una raccolta delle figure di tutte le piante e di tutti i animali. E anche qui spuntava un principio di scienza mite e innocente; e abbiamo visto che l'esempio di questi umani trattenimenti dall'antica Tezcoco era penetrata anche nella reggia sanguinosa dell'Azteco.

Ne pare adunque che intorno ai vulcani del Messico, come già venticinque secoli prima intorno ai vulcani della Sicilia e delle isole Eolie, stessero per succedere alle nefande tradizioni dei canibali Ciclopi e Lestrìgoni e di Licaone e di Caco i riti d'Orfeo e le leggi di Numa e di Solone e la filosofia che colla spada di Gelone siciliano vieta per sempre all'Africa i sacrificii umani. Tutti i popoli del mondo sono figli di padri che furono, in un dì più o men lontano, figli di barbari. La stella dell'umanità splende in faccia a noi; non alle nostre spalle.

 

Ma il sacerdozio azteco, anzichè additare ai popoli quella luce benigna, li teneva sempre intenti alle sanguinose tenebre del passato. Era una delle lugubri loro tradizioni che il sole si fosse già spento quattro volte e che questo fosse il quinto sole od una quinta risurrezione del primo. E anche il genere umano aveva già sofferto quattro grandi esterminii; desolato la prima volta dalla fame e dalle tigri; la seconda dai turbini, essendosi salvati pochi che conversi in scimie si nascosero nelle caverne; la terza dal foco, salvandosi pochi, conversi in uccelli; la quarta dalle aque, per cui li uomini s'erano tramutati in pesci.[3]

Avevano fede che tali disastri potessero rinovarsi a certi intervalli di tempo. Quindi con ansiosa osservazione avevano notato il preciso ritorno degli astri e la precisa durata dell'anno naturale; e probabilmente continuando su quelle eccelse terre e sotto quel lucido cielo le tradizioni d'altri sacerdozii più antichi, avevano divisato un ciclo per coordinare l'anno rituale al celeste.

L'anno non era diviso per lune, ma per ventine di giorni, suddivise in quattro quintine. Non avevano dunque partecipato alla grande tradizione asiatica dei sette giorni perennemente consacrati ai sette pianeti e simboleggiati dai sette metalli; e anche qui ci torna al pensiero l'inesplicabile lacuna dell'idea del ferro. A codesti 360 giorni, ordinati in diciotto ventine e in settandue quintine, seguivano in fine d'ogni anno cinque giorni nefasti e inoperosi (nemontemi). Non pare che questo sistema quinario e vigesimale possa essere derivato da verun popolo del nostro continente.

Li anni si contavano a quattro a quattro, come nelle olimpiadi greche; ma, per una recondita ragione ignota al mondo orientale, ogni anno del quaternario era contrassegnato da uno di questi quattro simboli: coniglio, canna, sasso e casa, i quali si ripetevano sempre col medesimo ordine.

Tredici quaternarj (ciascuno dei quali veniva naturalmente a cominciare e finire con un medesimo segno) costituivano una rota di cinquantadue anni. Il principio era dunque diverso da quello delle olimpiadi; poichè si riduceva al ritorno d'un medesimo segno ogni quinto anno; epperò tornava al principio quinario. E in capo ai cinquantadue anni s'intercalavano tutti quei giorni che noi inseriamo nelli anni bisestili, e che risultano dalla somma dei residui di ciascun anno, cioè da ore 5, minuti 48, secondi 48. Con questa somma si avevano alla fine dei cinquantadue anni dodici giorni solenni. Ma rimaneva ancora un ultimo residuo di ore 14, minuti 17, secondi 36; e questo veniva poi sommato coll'altro simile residuo del successivo circolo di altri anni cinquantadue. E così alla fine del primo circolo i giorni solenni erano dodici; e alla fine del secondo circolo erano tredici. E al termine del doppio circolo di 104 anni, o secolo, la differenza tra l'anno solare e l'anno sacro si riduceva a poco più di ore quattro (4, 35' 12").

E per tal modo, in quel secolo XVI che noi chiamiamo un secolo d'oro, i barbari canibali avevano un calendario molto più perfetto del nostro. Poichè in Europa, non ostante l'emendazione fatta ai tempi di Cesare, quarantasei anni avanti l'era nostra, quando, per riordinare il corso dei riti a quello delle loro stagioni, fu necessario fare un anno di quindici mesi, annus confusionis, v'era già tra l'anno naturale e l'anno sacro un salto di nove giorni. Questo venne poscia corretto ai tempi di papa Gregorio XIII, nell'anno 1582. Ma l'emenda venne per lungo tempo ricusata dagli Inglesi; e non è accettata ancora oggidì dai Russi e dagli altri cristiani orientali.

 

Adunque, pervenuto alla fine della rota d'anni cinquantadue, il popolo stava in somma angoscia, temendo, che, colla fine dell'ultimo giorno nefasto, dovesse arrestarsi il giro del mondo; e dovesse spegnersi una quinta volta il sole, e andare in nuova perdizione il genere umano. Facevano preghiere e digiuni e pianti; spegnevano tutti i fochi e i lumi; rompevano i vasi domestici e distruggevano i giojelli e le piume e li altri ornamenti della persona, come cose oramai vane: appropinquante mundi termino. Sulla sera, il sommo sacerdote si avviava in silenziosa e mesta processione alla cima d'un monte. E pervenuto colassù verso la mezzanotte, stava intento a vedere se le stelle proseguissero il loro corso. Notavano principalmente, non già i moti d'alcun sinistro pianeta, come avrebbe fatto l'Asia; ma, non sappiamo perchè, osservavano il giro delle Plejadi, che dopo il solstizio d'inverno, in quell'emisferio occidentale si trovano nel colmo del cielo a mezzanotte. Tutta la gente delle città, entro l'ampia cerchia dei monti, stava sui terrazzi delle case e sulle sommità degli insanguinati teocalli, cogli occhi fissi nelle fatali stelle, da cui la fantasia loro si era rassegnata a ricevere sentenza di vita e di morte; perfino i lattanti erano tenuti svegli con gridi e percosse e sanguinose punture (Gama, p. 56). Appena pareva che le Plejadi, librate sul meridiano, cominciassero a piegare verso occidente, un prigioniero veniva afferrato e prosteso supino sulla pietra del sacrificio e tenuto fermo da quattro sacerdoti per le braccia e le piante, mentre un quinto gli premeva la gola con un giogo di legno in forma di serpente. Allora il sommo sacerdote, con un coltello di pietra ossidiana, specie di vetro vulcanico assai tagliente, gli fendeva a traverso il petto; gli afferrava il cuore; lo strappava; e ancor palpitante lo offriva al cielo. Poi sul petto della vittima accendeva il foco nuovo. E quella era la sola vittima che non venisse gettata ai fedeli da divorare; ma veniva deposta sopra un immenso rogo, che come vampa di vulcano, potesse esser veduto in tutto il cerchio delle montagne. E tutta l'orda dei sacerdoti si dispergeva portando a corsa di terra in terra il foco nuovo che trapassava di mano in mano fin oltre i monti, fino ai due mari, fino alle estreme solitudini del barbaro imperio, i cui sudditi tremanti pagavano il tributo di sangue. A quella luce, tutti con una spina d'agàve traevano sangue a sè ed ai loro infanti; e in ogni città, sull'alto d'ogni piramide, si facevano sacrificii di prigionieri. Poi col surger del giorno, s'incominciavano i conviti e le danze; erano i giorni di letizia, dodici in fine d'un mezzo secolo, tredici alla fine d'ogni secolo. Le carni umane, consacrate dall'orribile sacrificio, venivano divise a tutte le famiglie, sicchè tutti i credenti in quella tremenda fede vi partecipassero; e abbrustolate, venivano poste sopra polente di maìz, e senza miscela di profani intingoli, ingojate. E si rinnovavano tutte le cose rituali e tutti li ornamenti delle persone per il nuovo circolo d'anni concesso al genere umano, e pel nuovo circolo di barbarie imposto dall'inesorabile tradizione della vita selvaggia a un popolo che già possedeva nella sua conquista tanti elementi d'una splendida civiltà.

 

I sacrificii di prigionieri si ripetevano alle tante divinità più volte in ognuno dei dieciotto mesi dell'anno; si offrivano anche per voto privato di guerrieri e di mercatanti, al ritorno dalle loro spedizioni. Letteralmente, il popolo azteco divorava i popoli vinti.

E divorava perfino le sue creature.

In primavera, si sacrificavano alli Dei della pioggia turbe di bambini. - “I miseri pargoletti (estes tristes niños), prima che li portassero ove dovevano morire, venivano adornati con gemme, con piume preziose, con cinture e manti d'elegantissimo lavoro e con bei calzaretti; e si ponevano loro certe ale di carta come ad angeli (y ponianle unas alas de papel como à angeles). Poi li adagiavano sopra cune adorne di penne preziose e di gioje; e le accompagnavano con suoni di flauti e di certe loro trombe; e dovunque le portavano, la gente piangeva (y por donde las llevaban, la gente lloraba)”.- Quella terra infelice stillava dunque perennemente di sangue, non perchè le anime fossero naturalmente crudeli. Erano crudeli le idee. Quante lacrime, anche ai giorni nostri, e quanto sangue non fanno versare le idee semibarbare di certi uomini i quali per sè non saprebbero esser crudeli! Giovani scrittori, combattete l'inumanità nelle idee che la inspirano! La nostra pena di morte non è forse un sacrificio umano? Non è forse un sacrificio al Dio innominato d'una barbara vendetta? Che importa se il sacrificio si compia in cima a una magnifica piramide di quattrocento metri d'altezza alla vista d'un'intera nazione, o sovra una sordida forca di legno? con un coltello di vetro, o con un pezzo di corda o di ferro, ovvero colla machina infame a cui sta raccomandato in eterno il nome di Radetzky?

E quando un giovine nemico, preso sul campo, era destinato a morire, il primo dì del quinto mese, a piè del simulacro di Tezcalipòca, veniva per un intero anno tenuto in lieta brigata di giovani, i quali, vestito dei più pomposi ornamenti, anzi colle insegne dello stesso dio davanti a cui doveva morire, lo accompagnavano con suoni e canti sul lago; ed andava secoloro per le vie della vasta città danzando ei medesimo e sonando di flauto: e tutta la gente accorreva a vederlo passare, e gli s'inchinava come fosse un Dio. Veniva satollato dei cibi e liquori più squisiti; la sua mensa e il suo letto, tessuto di vaghe piume, venivano sparsi di soavi fiori; e gli davano in canne di fumo tabacco misto a deliziosi aromi. E quattro nobili giovinette venivano tratte dal chiostro; e in onore del dio, lo consolavano coi loro vergini amori. Nell'ultima notte, usciva insieme con esse dalla città; ma giunto a certo oscuro delubro, vi trovava uno stuolo di sacerdoti, che avvolti nei foschi lor manti, o coperti il capo con maschere di belve feroci, lo involavano alle carezze e alle lacrime delle fanciulle, e trattolo pei capelli sulla piramide ferale, lo rovesciavano sulla pietra, gli strozzavano i gemiti in gola; e strappatogli il cuore, ungevano del caldo sangue giovanile le fredde labbra dell'idolo di sasso. Poi gettavano il cadavere, giù per le scale grondanti di sangue, ai devoti che seduti l'aspettavano e se lo recavano sulle spalle alle orride cene. È una tragedia che infine move più la nausea che la pietà.

 

Una scienza, che per necessità doveva di parecchie migliaja d'anni aver preceduto le irruzioni di quei barbari, poichè aveva orientato con mirabile esattezza astronomica le fondamenta degli edificii nelle tante magnifiche città che quei barbari avevano distrutte, era pervenuta a costruire grandi meridiane e a rappresentare in grandi zodiachi il corso del sole. Fa meraviglia che a tal uopo potessero trarre fin dai monti enormi massi di basalto e di porfiro; e condurli sugli àrgini artificiali che attraversavano le paludi. Fa meraviglia che giungessero a tanto, in queste e in altre opere, colla sola forza delle braccia e col solo uso del cilindro, senza l'uso del ferro e senza aver quell'idea della rota e del carro e della forza animale, che vediamo antica di migliaja d'anni in tutta l'Asia. Codesti zodiachi, con somma precisione e non senza eleganza scolpiti, o rimasero sepolti fra le ruine quando Cortês in ottanta giorni di continuo combattimento distrusse il popolo e la città; o vennero nascosti sotterra dai sacerdoti per sottrarli alla mano degli Spagnuoli, che in otto anni distrussero ventidue mila templi e quanti idoli e quanti papiri vennero loro alle mani. E ora vennero trovati, e stanno deposti nel museo di Messico, ove si può ben riconoscere che gli operatori dovevano possedere qualche esatto principio di gnomonica e di geometria.

E parimenti meravigliosi, come opera mecanica, sono certi giganteschi simulacri di porfiro, nelle cui truci fattezze domina il solo intento d'incuter terrore; al qual uopo solevano avvolgerli in una confusa congerie di fiorami scolpiti, di teschi umani, di serpenti e d'altri simboli; anzi, perchè l'imaginazione rende più terribile ciò che non si vede, quelle torve facce di bruna pietra si solevano coprire con maschere d'oro.

 

Il sistema dei diciotto mesi vigesimali era da origine strettamente legato con un sistema numerale, che non sappiamo se fosse commune a tutte le cinquanta lingue ch'erano comprese nell'antico imperio dei Tultechi. E perciò siamo ben lontani dal poter dire che appartenesse, nonchè agli Aztechi, nemmeno ad alcun altra delle nazioni nahùe. Certamente non pare che possa identificarsi con alcun sistema asiatico.

Il sistema era questo. Avevano un nome indipendente e proprio per ciascuno dei cinque primi numeri, nonchè pel dieci, pel quindici e pel venti. I numeri intermedj a questi erano composti, e relativi ad essi; per esempio, cinque-e-uno, quindici-e-due. Era pertanto fin qui un'aritmetica, non decimale come la nostra, ma quinaria. Era per così dire fondata, non sopra le due mani, come le numerazioni asiatiche, ma sopra una sola.

Ma più oltre diveniva vigesimale; onde si diceva due-venti, tre-venti; e così via si giungeva fino a diecinove volte venti, o propriamente fino a quindici-e-quattro venti. Il quadrato di venti, cioè venti volte venti (quattrocento), aveva un nome proprio; e prestava alla mente quell'intervallo e quel riposo che a noi presta il migliajo. Si prendeva una volta, due volte, tre volte; e così via fino a diecinove volte. Ma il cubo di venti, cioè venti volte quattrocento (ottomila) aveva pure un nome proprio; era il numero supremo, come pei Romani il mille, come pei Greci la miriale, come nel medio evo il millione italiano, come ai nostri tempi il milliardo francese. Coi composti di questo numero si poteva giungere facilmente fino al cubo di ottomila, ossia fino a sessantaquattro millioni; il qual numero doveva oltrepassare per quei popoli ogni pratico bisogno.

Questo sistema numerale, in cui non si vede primeggiare l'idea del dieci, e manca affatto l'idea del cento e del mille, non poteva esser derivato da lingue nelle quali fin da tempo immemorabile quelle tre idee reggono tutta la numerazione.

 

E anche la scrittura dei numeri sembra affatto originale; ed è fondata sempre sulle medesime stazioni del venti, del suo quadrato e del suo cubo (20; 400; 8000). Pei numeri inferiori si segnava ogni unità con un punto, ovvero con un circoletto; e i punti o circoletti, aggruppati a cinque a cinque in diverse righe, giungevano fino al venti. Il venti s'indicava colla figura d'una bandiera di forma quadra; il quadrato di venti (quattrocento) con una penna; e il suo cubo (ottomila) con una borsa. Volendosi, per esempio, indicare quattrocento uomini, si disegnava il capo d'un uomo con una penna al di sopra. Volendosi indicare 420, si poneva una penna e una bandiera. Volendosi indicare 8891, si poneva una borsa, che valeva 8000; due penne, ciascuna delle quali valeva 400; quattro bandiere che valevano ciascuna 20; una mezza bandiera, ossia una bandiera colorita solo per metà, e infine un punto. È probabile che questi segni siano derivati dagli ordini militari. Nel qual supposto, sarebbero i segni di cose particolari, trasferiti a indicare cose generali e astratte. Questo fatto dà luogo a tentare una congettura sul modo con cui nelle lingue si giunse a trovare i vocaboli dei numeri.

Per misura dei valori adoperavano polvere d'oro, pezzi di rame tagliati in forma di T, sacchi di cacao di ventiquattro mila grani, e anche rotoli di tela.

A scrittura che mirasse ad esprimere il suono della parola, non erano pervenuti. Disegnavano sui papiri le cose materiali. A cagion d'esempio, per indicare che nelle loro emigrazioni, passato il monte dei pini, erano giunti a piè del vulcano, disegnavano, sopra papiro d'agàve o sopra tela di cotone, più uomini in atto di camminare verso un monte, cioè verso un informe triangolo, sul vertice del quale era disegnato un pino, al di là del quale sopra altro monte era disegnata una fiamma. Per indicare un anno, ponevano il suo segno di coniglio, di casa e così via. Conservavano con cura i papiri nei quali erano segnate le tabelle dei tributi e delle milizie, e i cadastri delle terre dipinti a diversi colori, secondo che appartenevano ai capitani, ai sacerdoti o ai communi, che li coltivavano in società e se ne dividevano i frutti. E così rappresentavano in carte geografiche le posizioni e i nomi dei luoghi, le battaglie, le genealogie, le pratiche della religione e delle arti. Si nota che i papiri più antichi, in cui si dipingono le peregrinazioni degli Aztechi non sono accompagnati da simboli degli anni; il che fa supporre che li imparassero più tardi, in seno ad alcuna delle terre conquistate, dove la scrittura fosse giunta a quel primo rudimento degli ieroglifici, cioè rappresentanti i suoni.

 

Per tutto ciò, se nelle arti, nelle religioni o nelle lingue dell'Anahùac si potesse rinvenir mai qualche vestigio ben certo di popoli stranieri all'America, ciò che finora non avvenne, questo dovrebbe piuttosto trovarsi nei monumenti e nelle lingue dei popoli conquistati che non dei conquistatori. I quali, s'erano ancora canibali ai tempi di Carlo Quinto, non potevano aver avuto origine o educazione da popoli i quali già fossero civili settemila anni prima, come per esempio, li Egizii del regno sacerdotale di Tebe, o li Etiopi del regno di Meroe, ancora più antico.

Come si spiega dunque la simiglianza di qualche vocabolo della lingua azteca coll'arabo, col sanscrito, col chinese, col mogolo, con qualsiasi altra lingua, secondo le varie preoccupazioni e fantasie degli studiosi?

È d'uopo anzi tutto notare che alla lingua azteca mancano tutti i suoni delle importantissime lettere b, d, f, g, r, s, v; e sono assai circoscritte le combinazioni delle poche consonanti e i dittonghi delle poco numerose vocali. Si prendano due linguaggi più fra loro diversi, e si provi a cancellare da tutti i loro vocaboli radicali tutte siffatte lettere e combinazioni di lettere, e la differenza primitiva in gran parte svanirà. Ed essa nel caso nostro per altra gran parte svanirà, se alle lettere residue ed ai loro nessi si sostituiscano le lettere mancanti; per esempio, se al distintivo e frequentissimo nesso il si sostituisca la nostra lettera r o la s, delle quali esso sembra un imperfetto supplemento.

Inoltre noi sappiamo che le lingue iraniche o indoeuropee, non ostante il loro sviluppo immenso, si possono richiamare a poche centinaja di radici monosillabe, di senso materiale e sovente di suono imitativo. Da queste derivarono, per inflessione, composizione e traslato, le voci di più alto senso. Così per esempio, le voci astratte ponderazione, astrazione, contagiosità, rivocate alla loro radice si riducono alle sillabe pond, trac, tac; le quali imitano il suono che accompagna la caduta d'un grave, o il suo attrito, o il suo incontro con un altro corpo.

Adottato una volta (come sarebbe una volta tempo) il supremo principio di Vico della commune natura dei popoli, dobbiamo riconoscere che qualche tratto d'originaria simiglianza fra le più disparate lingue deve sempre riscontrarsi. Da per tutto li uomini primitivi, con istinti imitativi più o meno simili, e con organi vocali più o meno simili, imitarono suoni naturalmente simili, che ferivano organi di più o meno eguale sensibilità. Posto un primo strato di suoni imitativi di significato materiale, essi dovettero procedere a formare i traslati per forza delle associazioni naturali che sono fra le cose e quindi tra le idee che le rappresentano, e per forza delle facoltà imaginative e riflessive che sono radicalmente simili in tutti i popoli, benchè con diversi gradi di vigore. Per quanta varietà si possa introdurre in tutto questo complesso d'elementi, qualche cosa di simile e d'identico può tuttavia rimanervi, anche dopo tutte le variazioni introdutte nel corso dei secoli, e nella miscela e alterazione dei linguaggi, più volte ripetuta e non frenata ancora da scritture permanenti. La chiave di questa simiglianza primigenia non è a cercarsi nell'Asia o nell'Africa, ma nella natura umana.

Una voce che nella lingua azteca confusamente allude al greco e al latino, è la voce composta teocalli, che indica una piramide e si risolve nelle due voci teotl e calli, cioè Dio e casa. Ma l'evidenza si annebbia se si prende tutto il fascio dei vocaboli che si rapportano alla radice teotl. In latino deus, dius, divus, dis, dives, dies, ditio, esprimono luce, forza, ricchezza, comando; anche la voce dirus, per quanto sinistra, può revocarsi alla stessa idea d'una forza arcana. Ma se, almeno entro i limiti del glossario azteco, del quale il dotto Biondelli corredò la traduzione di diversi frammenti dei libri sacri del cristianesimo, tradutti dal missionario Bernardino di Sahagun[4], raccogliamo tutti i valori del medesimo suono radicale teotl, non troviamo se non teuhtli (polve), e teutlac (sera). Or questo gruppo teotl, teuhtli, teutlac, nel suo complesso non corrisponde al gruppo latino, dove la voce deus sta quasi in numerosa famiglia. La voce teotl nel gruppo azteco rimane isolata e quasi straniera; ed è ben probabile ch'essa appartenesse piuttosto a qualche lingua dei popoli conquistati che non a quella dei conquistatori. Sarebbe mestieri ricercarne l'origine fra le cinquanta lingue superstiti all'imperio tulteco. E supposto che vi si trovasse, sarebbe ancora mestieri che il gruppo radicale del quale facesse parte, fosse identico nella sua idea complessiva al gruppo latino. Perocchè all'alto e astratto vocabolo che indica la divinità si può giungere per diverse vie; e la voce Deus non ha il medesimo procedimento ideale che hanno, per esempio, in inglese le voci God e Lord. È ancora a notarsi che il padre Sahagun, diversamente da ciò che fecero S. Geronimo e Ulfila e li altri traduttori delle Scritture, rifiutò di valersi della voce indigena teotl, e preferì la voce spagnola Dios, e la fece entrare anche nelle voci derivate e composte.

La simiglianza di pochissime altre voci azteche, come per esempio icniuh, comanya, alle voci latine amicus, commoveo, svaniscono quando le riferiamo alle radici am-o, mov-eo.

Per ciò che riguarda le inflessioni, quando vediamo il verbo latino variar sempre nelle desinenze (per esempio, nu-mer-o, numer-as, numer-at), e il verbo azteco all'opposto variare a preferenza nell'iniziativa (nitla-pohua, titla-pohua, tla-pohua), noi vediamo una diversità e non una simiglianza. È vero che qualche rara e quasi unica volta, il latino (come in didici, pepigi, tetigi) ammette nell'iniziale una duplicazione presa dalla radice stessa, ma non mai un vero prefisso indipendente, come nitla, titla, tla. Ed è pure vero che nel greco e nel sanscritto la duplicazione è più frequente, anzi per il tempo passato è generale e costante; ma non v'è prefisso vero in greco se non l'e e in sanscritto se non l'a. Per necessità naturale sono poi tanto circoscritti i modi d'inflettere le radici, che chiunque si ponesse a inventare di suo capo una nuova lingua, difficilmente potrebbe imaginarne un altro più ovvio e più commodo.

 

I discordi tentativi fatti da molti eruditi di diverse scôle per identificare li Aztechi ora ai Giaponesi, ora ai Chinesi, ora ai Mogoli, ora agli Indo-europei, ora agli Egizii, ora agli Ebrei, ora per la lingua, ora per le piramidi e i papiri, ora per le fattezze del volto, ora per le idee religiose, finiscono a elidersi mutuamente e darsi una generale negativa. Fu già osservato da varii scrittori come i frati, che andavano nel Messico a sostituire le tormentose fiamme dell'auto da fè alla sanguinosa pietra del sacrificio, trovando nella religione azteca una certa qual forma di conventi, di noviziati, di voti monastici, di battesimo, di confessione, di communione, l'attribuirono, li uni all'apostolo San Tomaso, li altri al diavolo; le quali due congetture, avvicinate, si distruggono[5].

L'unico risultamento di tali oramai troppo numerosi e contrarii e sterili tentativi si è, che, come il mondo degli antichi popoli non comprende la terra d'America, così non comprende l'uomo americano.

Fermi nel gran principio della commune natura dei popoli, noi non possiamo intendere perchè l'uomo potesse trovar tante cose in Asia, e non potesse trovarne alcuna in America. Noi vogliamo onorare la natura umana in tutte le sue manifestazioni.

Noi invitiamo eruditi della forza dell'amico Biondelli e dell'amico Marzolo, a cercare nel complesso delle lingue dell'imperio messicano le vestigia dell'azione reciproca che quei popoli ebbero fra loro. Forse in alcuna di quelle lingue si troverà qualche parte delle molteplici origini di quella indipendente civiltà. Le origini messicane sono un fonte nuovo e inesplorato della scienza delle nazioni.

I tetri imperii di Motezuma l'Azteco e di Carlo Quinto l'Austriaco non s'aggravano più sui popoli del Messico. Non più i sacrificii di sangue, non piu i roghi degli inquisitori; ma i primi raggi di una filosofia redentrice. Su quella terra, predestinata da natura a convegno universale del genere umano, il secolo vittorioso ha scritto in una lingua sorella alla nostra: Libertà e Verità.

 

 

 


CARLO CATTANEO

 

DEL PENSIERO COME PRINCIPIO D'ECONOMIA PUBLICA

 

 

 

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2004

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Nel corso ormai d'un secolo, la nuova scienza dell'economia publica pose successivamente in evidenza tre fonti di produzione, la natura, il lavoro, il capitale. Questa è la fisica della ricchezza.

Rimaneva ad aggiungere, che, supposte eguali presso diverse nazioni quelle tre forze produttive, le ricchezze potevano inegualmente crescere o scemare anche solo per certi fatti dell'intelligenza, o per certi fatti della volontà. Sono fenomeni, che, svolgendosi nell'uomo interiore, soggiaciono alle leggi proprie del pensiero. Questo può dirsi la psicologia della ricchezza.

La verità di questo principio è di prima e sommaria evidenza; eppure esso non fu ancora accolto nei trattati come distinto e integrante anello della catena scientifica. I pensatori dovrebbero adunque dedicarsi di proposito a compiere questo nuovo passo nello studio della vita delle nazioni.

 

Furono li economisti francesi del secolo scorso, che raccogliendo lo sforzo dell'attenzione sovra un sol punto, videro nelle ricchezze solamente il dono della natura. Preoccupati di controversie finanziali, intenti a trarre in luce quei fatti che inducessero i governanti a non gravare di maggiori tributi una squallida agricoltura, che, mal redenta dalla barbarie feudale, cadeva già schiava d'un despotico accentramento, essi miravano con occhio geloso i favori che i potenti si erano invaghiti di largire alle seducenti innovazioni dell'industria. E da una parziale analisi vennero ad un'immatura e vana sintesi che negava l'utilità del lavoro. Poichè, nelle loro viste, quanto aggiungeva il lavoratore ai produtti naturali, tanto consumava per sostentarsi; sicchè, mentre la più povera parte dell'umana specie si moltiplicava, il produtto nitido, riservato ai proprietarj e rappresentato dall'affitto, a cose finite si limitava sempre alla primitiva ricchezza naturale. Questa poteva bensì dal proprietario venir concessa in porzione più o meno larga al lavoratore; ma in sè non poteva crescere nè scemare.

Gli scrittori italiani di quel secolo, e più gli inglesi, s'avvidero che l'analisi aveva preso un campo troppo angusto; la trasferirono sovra altro punto; si diedero interamente a dimostrare come la ricchezza, ben piuttosto che al fatto della natura fosse dovuta alle fatiche dell'uomo. Il quale non solo provocava col ferro e colle seminagioni la dormente potenza della terra; ma svolgeva coll'arte le attitudini naturali delle cose. Analizzando i lucri del commercio, dimostrarono che, sebbene sembrassero usurpazioni fatte dall'avidità d'intermediarj parasiti a carico delle moltitudini, erano parte d'un'utilità nuova, che le cose acquistavano venendo recate, dai luoghi e dai tempi in cui giacevano superflue, ad altri luoghi e tempi ove riescivano rare e desiderate. E videro come questa circolazione provocasse una più larga produzione di quelle derrate che in ogni singolo luogo si potevano ottenere con minor fatica più perfette. Onde varii popoli, senza accordo fra loro, collaboravano inconsciamente ad un complesso commune di produzioni. Con ciò si dimostrava la crescente potenza del lavoro associato; e si scopriva quel principio fecondissimo che si chiamò divisione del lavoro. E siccome l'efficacia di questo deriva in parte dall'attenzione concentrata e dall'abitudine, potevano dirsi giunti al confine per cui dalla fisica ricchezza si trapassa alla psicologia; ma quivi si arrestarono; poichè ogni punto di vista ha il suo limite. Intanto era dai loro studii provato come il lavoratore non solo accrescesse il reddito lordo, nel quale era compreso ciò che consumava egli stesso; ma producendo più valori che non consumava, lasciasse un residuo nitido che si doveva unicamente al lavoro.

Studiando poi l'uso che facevasi di codesta eccedenza dei frutti in paragone dei consumi, s'erano avvisti che una parte del consumo era solo apparente. Poiché serviva a compiere certe operazioni e ad alimentare certi lavoratori ch'erano destinati a un corso ulteriore di produzione; cosicchè il valore consunto ripullulava dopo un certo tempo in più larga misura, e accresceva il reddito vivo della nazione. Codesta eccedenza, risparmiata a posta in serbo per essere applicata a nuova produzione, costituiva il capitale.

Fin qui l'analisi, intenta ai fatti materiali, aveva annoverato bensì tra le forze produttive l'opera dell'uomo, ma mirando alle sole braccia e non badando all'intelletto. Non aveva considerato che alle braccia poteva ben supplire la bruta energia dei venti, delle aque, degli animali; ma che l'intelletto umano era una forza sopra tutte le altre poderosa e impermutabile.

Fa meraviglia che Genovesi ed Adamo Smith, ch'erano professori di filosofia, trascorressero colla mente sopra l'economia publica, senza intravedervi il costante dominio di quelle facultà mentali ch'erano il primo campo dei loro studj. Genovesi, egli è oramai più d'un secolo (1757), non riconobbe nell'intelligenza un'efficacia direttamente produttiva; ascrisse promiscuamente fra i produttori indiretti i soldati e i dotti: - "i quali, benchè non siano producitori di nessuna rendita immediata, sono necessarissimi a difendere quelli che lavorano, o a governarli, ad istruirli, a sollevarli; ond'è ch'essi giovano ad aumentare le rendite della nazione". - E pertanto egli pensava che convenisse limitare il numero loro, proponendo, - "come principio generale e fondamentale che la classe degli uomini producitori di rendita sia la più numerosa ch'è possibile, - e quelle classi che non rendono immediatamente siano il meno possibile. - Imperocchè è manifesto che le ricchezze d'una nazione siano sempre in ragione delle fatiche". (C. XI. XII.)

Vent'anni più tardi (1776), Adamo Smith fu più assoluto nel suo dire, affermò che, "le classi dotte non producono valore alcuno, e che l'opera loro svanisce nell'atto stesso in cui appare (II. 3)". Dimodochè quel sommo pensatore non toccò l'argomento degli istituti di publica educazione se non a proposito della spesa.

Quarant'anni dopo Smith (1815), Gioja, sebbene fosse tacciato da molti di pender troppo al lato materiale delle cose, sebbene non assegnasse all'intelligenza una propria e proporzionata parte della scienza economica, mostrò, egli primo, d'apprezzarne l'efficacia: - "In ogni produtto si riconoscono distintamente due azioni: l'azione mentale e l'idea direttrice, l'azione corporale e i moti d'esecuzione. Siccome a ciascun moto del sonatore corrisponde una nota sulla carta musicale che le disegna, così a ciascun azione dell'uomo corrisponde nell'animo un'azione che la dirige. - A misura che crescono li ammassi scientifici, possono le generazioni procacciarsi maggior numero di piaceri". (N. Prospetto delle Scienze Econ. I. 50.).

Senonchè, l'idea di Gioja, trascurata da lui medesimo, rimase, come di solito, stagnante in Italia e ignota agli stranieri; laonde, parecchi anni più tardi (1828), l'anno, se non erro, dopo la sua morte, Say nel Corso d'economia (I. 116) additando, pur di volo e non di proposito, "ces comme les bases des arts industriels et des richesses" - e dicendo aver ciò appreso dal vecchio Bacone, potè lodarsi di non essere in ciò preceduto da verun altro scrittore. - "Ils ont tous regardé les savants comme des travailleurs improductif ".

 

Intanto erasi levata in Francia una nuova scôla, che professando d'impugnare tutta la scienza economica sino a quel tempo trovata e di volerla rifar da capo, solamente trasferiva l'analisi sovra un nuovo punto, quello cioè del riparto delle produzioni fra i membri della società.

Al punto al quale erano giunti Genovesi e Smith e Say, dacchè il reddito delle nazioni proveniva tanto dalla natura e dal capitale quanto dal lavoro, il proprietario che concedeva al lavoratore la terra, e che in sementi, arnesi, animali e viveri gli anticipava il capitale, era parso loro in ambo i modi necessario e principale agente della produzione. La loro dottrina aveva magnificato i possidenti, come se avessero creato essi la terra sulla quale erano nati, e i capitalisti come se avessero creato essi il capitale, ch'era opera collettiva del lavoro di tutti. Sembrava strano ai socialisti che gli avari accaparratori di grano e d'oro, mentre erano segnati a dito come oppressori del popolo, venissero in questa teoria presentati come suoi cooperatori e benefattori. La maggioranza delle famiglie era diseredata della terra, che nascendo trovava già occupata, diseredata dei capitali, dacchè la parte assegnata sul frutto delle fatiche ai lavoratori era sempre così misera, che il risparmio diveniva impraticabile. Perlochè, pensavano essi, il capitale non poteva essere provenuto in origine da vero risparmio, ma da ineguale distribuzione, che ad alcuni aveva assegnato un superfluo. Tanto la terra quanto il capitale, a mente loro, appartenevano dunque a tutta la società, anzi ai soli lavoratori; poichè questi soli se ne valevano per ottenere la produzione a universale vantaggio. Tutti quei membri dell'umana famiglia, che con pretesto di posseder terre o capitali rimanessero inoperosi largamente vivendo, erano usurpatori delle fatiche altrui. Allora s'udì quell'odioso detto: - «La propriété c'est le vol». E anche i più miti riclamarono per tutti i membri operosi della civile azienda il sopravanzo del lavoro commune, ossia il capitale sotto qualunque sua forma. Dimandarono pertanto il prestito senza interesse, e l'uso gratuito delle sementi, degli strumenti e della terra, che dissero il primo e il più necessario di tutti gli strumenti, e perciò appartenente in perpetuo e inalienabile diritto di tutta la società. Ad essi non bastò che l'economia fosse, com'era, l'istoria naturale della ricchezza; vollero che come il suo nome primamente significava, fosse la regola della casa sociale: - «C'est donc une renovatio complète de la société que l'économie politique veut» (Pierre Leroux - Encycl. Nouv. IV. 546). Avevano dunque scambiato l'economia col diritto; non coll'antico diritto civile, o col moderno diritto publico, ma col futuro diritto sociale, che non era ancora nato; né poteva nascere se non dopo l'economia, da cui doveva trarre ogni suo lume. Ben è vero che il vocabolo d'economia significa legge e diritto. Ma sotto quel nome si era svolta un'altra scienza, appunto come la geometria, che in origine significava meramente agrimensura, senza mutar nome si era trasformata nella più alta e pura contemplazione delle forme e delle grandezze. Ciò era avvenuto anche della geologia, della fisica, della fisiologia, dell'istoria naturale. Gli uomini cercando una cosa ne rinvengono un'altra; e lieti di ciò che hanno trovato, non curano di mutarne i nomi. Chiamare inutile l'economia perchè non fosse il diritto, era come chiamare inutile la botanica perchè non fosse l'agricoltura.

L'analisi che i socialisti avevano voluto portare sulla distribuzione, venne a ricader da capo sulla produzione; poichè vollero compartire i frutti secondochè ciascuno avesse contribuito a produrli: «à chacun selon ses oeuvres». - E così addivennero ad una distribuzione moralmente giusta, ma materialmente ineguale, che ai meglio parteggiati dava adito a conseguire un superfluo, e perciò diritto a farsene col risparmio un capitale. Con che riconsacrarono praticamente il capitale che teoricamente avevano condannato; e riconobbero una proprietà che non era punto una rapina.

È ovvio che nell'ineguale riparto dei frutti tra coloro che avessero contribuito a produrli, il vantaggio toccava tutto all'intelligenza; ma era l'intelligenza in quanto potesse presentarsi sul campo stesso del lavoro; era l'intelligenza dell'artefice del direttore. Or bene v'è un'azione assai più remota ed elevata, che l'intelligenza spande su tutta la produzione del genere umano. E non è nemmeno quella che Genovesi aveva attribuito ai produttori indiretti, e Gioja agli ammassi scientifici.

Gli atti d'intelligenza che apersero ai popoli le fonti di ricchezza più vaste e universali, hanno dovuto necessariamente antecedere ad ogni produzione diretta, ad ogni ammasso scientifico. Non v'è lavoro, non v'è capitale, che non cominci con un atto d'intelligenza. Prima d'ogni lavoro, prima d'ogni capitale, quando le cose giaciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l'intelligenza che comincia l'opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere di ricchezza. "Il valore che hanno le cose non si rivela da sè; è il senso dell'uomo che la discopre". - Così scrive uno stimabile nostro contemporaneo (Rusconi, Prolegom. dell'Ec. P. cap. V). Gli Inglesi e i Fiamminghi calpestarono non curanti le stratificazioni di carbon fossile accumulate sotto i loro piedi per tutta la superficie di vaste provincie, anche alcuni secoli dopo che Marco Polo lo aveva descritto come d'uso antico e popolare presso i Chinesi. - "Per tutta la provincia del Cataio è una specie di pietre nere che si cavano dalle montagne come vene metalliche, ed ardono come legna; queste mantengono il foco meglio della legna; e se mettete la sera al foco, e fate che ben si apprenda, lo manterranno tutta la notte; e ne troverete la mattina; in tutto il Cataio non s'arde che queste pietre (Millione C. XXI)". I Peruviani ignoravano l'uso del ferro, che i nostri libri sacri fanno più antico di Noè (Gen. IV. 22); ma viceversa conoscevano l'uso del guano, del quale i nostri navigatori s'avvidero solamente ai giorni nostri, tre secoli dopo che avevano preso vano possesso delle isole che ne sono ricoperte.

Miriamo al fatto più antico e pertinace del genere umano, all'uomo selvaggio, quale per forza d'inesplicabili destini si mostra ancora in questo secolo nell'Australia, vagabondo sulle aurifere arene dietro la cieca vicenda delle piogge e della siccità, senz'arco, senza veste, senza tetto, pago di rannicchiarsi quà e là sotto una rupe o in un tronco. Il selvaggio è povero e nudo, soventi famelico, talora canibale, non perchè un nemico gli contenda le dovizie naturali che da tante migliaja d'anni giaciono intorno inoccupate; ma perchè non sa farne uso, né cambiarle con altri, ma perchè non le conosce. Per esso i preziosi legnami che l'ebanista e il tintore cercano nelle selve del Brasile, sono inutili come le onde del mare; non prendono valore se non presso nazioni che siano passate per lunga serie d'atti d'intelligenza.

Come per gli animali ruminanti non ha la terra altro bene che l'erba dei pascoli e le aque abbeveranti, come per gli animali feroci altro non ha che le carni dei più deboli, così per l'uomo non ancora acceso dalla ragione degli infimi istinti a quella del pensiero, esso non ha se non ciò che largisce all'orso, onnivoro al pari del selvaggio, ma che almeno non divora il suo simile. Il selvaggio non è pastore; non sa far vivere seco li animali per nutrirsi del loro latte, per inseguir sul loro dorso le fiere. Certe tribù non conoscono metalli; Magellano ne trovò alcuna ignara tuttavia dell'uso del foco. All'acquisto di tutti i beni che oltrepassano i limiti del cieco istinto dovevano precedere altretanti atti della mente.

Prima che l'uomo ideasse l'uso del foco e quello della lancia, della saetta, dell'arco, della nave, del remo, della vela, della rete, egli doveva spandere più assidue fatiche a procacciarsi colla caccia e colla pesca il cibo quotidiano e difendersi dai nemici. Ognuna di queste invenzioni lo fece men povero, meno incerto del dimani, meno agitato dalla fame e dalla paura. Or bene, la capanna, il foco, l'arco, il laccio, la rete, sono doni dell'intelligenza. L'apprestarli, l'adoperarli, richiede inoltre una fatica; e questa è da rinovarsi in perpetuo; ma l'idea inventrice, concepita da un uomo, può valere per tutti e per sempre. L'esempio suo la svela anche al suo nemico; e di tribù in tribù il beneficio si propaga per le foreste inospite a conforto di tutto il genere umano.

Ideato l'arco, ideata la fionda, e la rete, il selvaggio può raggiungere la fiera senza spossarsi nel corso; gli animali della terra e dell'aqua cadono nÈ suoi lacci anche quando egli poltrisce nel sonno. È vero che l'apprestar la scure e l'arco è un lavoro; ma non è un lavoro perpetuo; non è un lavoro di tutti; e risparmia a tutti un'immensa somma delle fatiche primitive. In ultimo conto, si ottiene la stessa copia di vitto con minore sforzo; e a sforzo eguale, se ne ottiene maggior copia. La nuova ricchezza apporta riposo; ma ricchezza e riposo sono frutti d'intelligenza. Non era esatto dunque il detto di Genovesi che «le ricchezze d'una nazione siano sempre in ragione della somma delle fatiche». Esse sono ben più veramente in ragione composta dell'intelligenza e del lavoro. E ogni qualvolta un atto del pensiero, abbreviando la fatica, aumenta il frutto, esse possono crescere in ragione inversa della somma delle fatiche.

Parrebbe a prima giunta che l'attenzione delle genti barbare dovesse confinarsi alla ricerca delle cose necessarie alla vita animale. Eppure l'uomo, anche nello stato più selvaggio, sente prima il bisogno d'ornarsi che non quello di vestirsi; i viaggiatori lo descrivono nudo, ma screziato a varj colori e fregiato di penne e collane: animal gloriosum. Fin dai primi rudimenti delle nazioni, l'intelligenza si rivolge ai bisogni morali, e sopratutto a quella vanità che con barbari ornamenti prelude al fasto elegante delle nazioni civili. Anche oggidì, chi s'accinge a far viaggio tra siffatte tribù, suole a preferenza fornirsi di ciondoli, di campanelli, di specchi e d'altre simili inezie dai selvaggi pregiate. Ecco adunque fin d'allora avviato il commercio del superfluo col necessario, il valor delle cose dipendendo più dalla stima che ne fa la mente che non dall'utilità che ne riceve la persona. Laonde la misura dei valori, principio d'ogni cambio e d'ogni commercio, e fondamento di tutta l'economia, risiede principalmente nella regione del pensiero; e varia con ogni vicenda del pensiero.

Ecco adunque con ornamenti e strumenti di guerra e di caccia, e frutti della terra selvaggia adunarsi un qualche avere, un qualche primo patrimonio della nuda tribù. Ecco nell'infanzia delle genti atteggiarsi le quattro forze produttive, intelligenza, natura, lavoro e capitale, in una serie che sempre ed ogni volta viene aperta dall'intelligenza.

Quando una nazione è pervenuta ad assicurarsi certa copia costante di cose bisognevoli, si chiude l'ádito ad un nuovo corso d'atti mentali. Alla vita ferina e stupida succede certa poetica barbarie, adorna di danze e di canti e di tradizioni ideali che spesso sopravivono a diletto e meraviglia d'una posterità pensante. Ma per lo più, quando un qualsiasi sistema di convivenza sia compiuto la tribù, se la sicurezza dei luoghi la protegge, e se l'influenza esterna non interviene, lo conserva per abitudine; gli adulti lo trasmettono per via d'imitazione agli adolescenti; l'autorità delle tradizioni lo impone; l'orgoglio lo rende caro; pare il solo modo possibile di vivere: idôla tribus. L'intelletto rimane in presenza assidua delle idee trovate; poichè le invenzioni in quell'isolamento sono rari lampi fra l'oscurità dei secoli. Si perpetua nel selvaggio una povertà contenta e superba. Questa pausa dello spirito si ripete in tutti i successivi stadj dell'umanità, ogni qualvolta un circolo d'idee comunque largo pur si chiude. E poichè apporta un assopimento dell'intelletto, è già perciò solo un regresso, un decadimento. Nessuna idea va smarrita; ma cessa l'opera mentale, e si rilasciano nell'inerzia tutte le facultà.

Chiuso il circolo delle idee, resta chiuso il circolo delle ricchezze.

Si suol riputare la pastorizia come un secondo corso della vita errante, e quasi un necessario trapasso dal selvaggio all'agricultore; ma non è un fatto generale.

In alcune parti d'America si trovano inizii d'agricultura presso tribù cacciatrici; ma uso di pastorizia solo nel Perù. Notò Robertson negli aborigeni americani un abito d'incuria e crudeltà verso li animali. I Messicani erano pervenuti all'agricultura e ad altre arti molte e ad un rudimento di scienza, e allevavano solo alcune varietà di gallinacei e di cani, di cui si cibavano; quindi l'antropofagia durò presso di loro, ammantata di barbari riti, fino all'arrivo di Cortez. Tracce d'antropofagia perdurano tuttavia nelle fertili isole della Nuova Zelanda; e se ne accagionò il difetto di grosse specie animali; ma vestigia ne restano anche in Australia, ove la fauna primitiva offre animali di una maggior mole. Nel nostro continente, fin dalle prime ricordanze del genere umano, ci si affaccia l'idea del pastore. La pecora anzi tutto, la capra, il toro, il cavallo, il camello; più tardi l'elefante, il renne; non sappiamo quanti secoli l'uomo spendesse a radunare dalle foreste dell'Asia tutta la famiglia dei quadrupedi e volatili domestici. Egli ebbe allora sotto mano un alimento certo ed equabile; non fu costretto a precorrer colla caccia il ritorno della fame quotidiana; potè tranquillo aspettar nella sua tenda il dimani; mentre la folla delli animali rendeva ubertosa la terra circostante; e dai semi, dal caso adunati e sparsi sul suolo, spuntava senz'arte un primo rudimento d'agricoltura. Non mai, nè prima, nè dopo, accadde che la ricchezza dell'uomo si addoppiasse in ragione più apertamente inversa delle fatiche.

Ed essa diede campo ad altri innumerevoli atti d'intelligenza; poichè, in compagnia degli animali e per mezzo loro, potendo gli uomini facilmente trasferirsi di terra in terra, poterono vedere le scoperte fatte presso altri popoli, e seco propagarle in più lontane regioni. Questi fu beneficio grande della vita pastorale; e vi parteciparono anche quelle nazioni che avevano dimore stabili; e che furono invase da pastori. In America le tribù aborigene non poterono darsi codesto mutuo ammaestramento, perchè non ebbero li animali adatti alla pastorizia vagante; e così quelle che cominciarono a incivilirsi, non poterono ajutarsi fra loro a imparare e pensare, poichè nè tampoco si conobbero.

Avvezzi per tal maniera nei nostri libri a considerar sempre il pastore come un antecedente dell'agricultore, noi non sappiamo apprezzare un fatto d'ordine inverso, che solennemente si ripete ai tempi nostri, Noi non osserviamo come lo Spagnuolo, varcando l'Atlantico, d'agricultore nelle regioni della Plata si fece pastore; come l'Olandese placido e sedentario si fece nella Terra del Capo nomade irrequieto simile al Tartaro; come l'Inglese s'accostumò a vagar solitario dietro le sue pecore nelle lande dell'Australia. Fu atto d'intelligenza; poichè il colono potè farsi più agiato errando dietro innumerevoli bestiami nello spazio immenso, che non crocifiggendo le sue braccia sovra un angusto campo.

Questi esempi moderni ricordano un fatto grande e antico; illustrano le origini delle grandi nazioni europee. I Pelasgi, i Galli, i Britanni, i Teutoni, gli Slavi, i Lituani esercitarono nell'Europa primitiva la pastorizia insieme ad una vaga cultura annua, con possesso promiscuo ed incerto. Erano colonie di quelle genti agricole dell'Irania, il cui stabil vivere in campi e città vediamo descritto nel Zendavesta; erano tornate a vita pastorale nelle foreste dell'estremo Occidente, appunto come i moderni Boer in Africa e i Gauchos in America. E trassero seco in quel barbaro esilio nel mezzo ai selvaggi aborigeni i frammenti delle religioni e delle lingue, e gli strumenti della vita agricola e industre dell'Oriente. Vico, venuto prima che l'Asia svelasse il tesoro di quei venerandi libri, riputò sapienza della colonia italica ciò che fu eredità d'una madrepatria lontana e nelle perpetue peregrinazioni obliata. L'economia di quelle nazioni era mista di civiltà e barbarie come le loro idee.

 

Quando l'uomo ebbe trovato in Asia il frumento e l'orzo, come nelle regioni più orientali il riso, come nel Messico e nel Perù i maìz e la patata; e quando si fu avvisto come da semi a caso sparsi intorno alla sua dimora quelle preziose piante si moltiplicassero, egli al lume di quella semplice idea potè con pochi giorni di cure assicurarsi il vitto dell'anno. E il lavoro si diminuiva più oltre, a misura che si moltiplicavano le invenzioni accessorie alla seminagione e alla mietitura, e sopratutto nel nostro continente quelle, rimase sempre ignote all'uomo americano, del ferro, del carro, dell'aratro. La ricchezza dei popoli si aumentò perfino coll'invenzione del riposo delle terre, sancito con precetto sacro nell'anno sabbatico degli Ebrei. E altri incrementi di frutti senza incremento di fatica arrecò l'avvicendamento di più culture, additato già come idea dÈ suoi tempi nei mutatis foetibus di Virgilio, e divenuto principio eminente dell'agricoltura moderna. Trovato un principio qualsiasi d'agricoltura, era fatta anche la scoperta del valore della terra.

Il selvaggio aveva sostituito alla fatica una forza gratuita, allorchè aveva imaginato di sospendere al vento su la sua navicella una pelle o una stuoja o una vela. A poco a poco il navigante notò che i venti corrispondevano alle stagioni dell'anno ed agli aspetti delle costellazioni; e che i flussi e riflussi e le correnti dell'alto mare assecondavano il moto dei venti; potè segnar sulle tavole, al pari delle vie della terra le vie del mare. E ad ogni nuovo passo della sua mente osservatrice, s'alleggeriva la fatica e s'agevolava la ricchezza; sempre il principio della nuova sua fortuna era nel movimento del suo pensiero.

Ogni qual volta un artefice trovò nuove materie da filare, da tessere, da fondere, vi fu chi pensò d'andarle cercando presso quei popoli che le avevano da natura, ma non avevano saputo farsene profitto. Ogni nuova idea dell'artefice diede una nuova idea al mercatante; generò un nuovo ramo di commercio. E il beneficio dell'idea nuova arricchì anche la tribù barbara che dormiva inconscia sull'ignoto tesoro.

 

Il possedimento delle nuove arti procacciò largo e tranquillo alimento a certe famiglie. Esse portarono seco i secreti loro di terra in terra; il loro patrimonio era la loro idea. Sovente per la straniera origine e la religione diversa, restarono divise dalla moltitudine; si fecero del sapere loro un'eredità, un privilegio perpetuo; divennero una casta. Raccolsero nelle loro peregrinazioni gli sparsi atti d'intelligenza di varie tribù; li trasmisero ai figli; e per ammaestrarli, strinsero l'arte in regole, in proverbj, in assiomi, magnificati dall'autorità dei maestri e del secreto, e involti spesso in superstizioni e magie. Così si costituirono le prime scienze; e ciò che Gioja più acconciamente chiamò ammassi scientifici.

Quella fortuita miscela di fatti e di fantasie, di pratiche cieche e d'audaci astrazioni, di verità e d'imposture, ad ogni generazione imparata e insegnata, fusa e rifusa sotto un assiduo lavoro di riflessione si ordinò; si divise in parti; diede accesso all'analisi; la geometria potè separarsi dalla medicina, l'astronomia dalla giurisprudenza, la scienza profana e libera dal ferreo dogma. Ogni ingegno potè scegliere la sua via; la forza mentale d'un uomo, e d'una classe d'uomini, si concentrò sopra un solo ordine d'idee; il sapere sempre più si suddivise; il pensiero penetrò sempre più addentro nelle cose. L'analisi è nel regno dell'intelligenza ciò che la divisione del lavoro è nel regno dell'industria.

Costruita la scienza, l'opera delle scôle si rivolse a fomento universale di produzione. Le tribù dotte poterono ammaestrare le genti barbare che avevano soggiogate colle armi o coll'incanto dei riti sacri. Allora l'applicazione di tutti gli atti d'intelligenza, fino a quel punto compiuti e unificati, si stese sopra vaste regioni, lungo il Nilo, lungo l'Europa, lungo i fiumi dell'Irania, dell'India, della China. Ogni sistema d'idee divenne un sistema di lavori e di commerci, di potenza e di ricchezza.

Il pensiero di pochi addottrinati era la forza suprema, era il destino, che reggeva la vita d'innumerevoli generazioni di sudditi e di schiavi. Esso potè applicarsi agli argini dei fiumi, agli asciugamenti, agli aquedutti, alle irrigazioni, alle misure della terra, ai ponti, alle vie, all'educazione degli animali utili, ai rapporti dell'agricoltura e dell'astronomia. E nel tempo stesso si applicò all'ordine della famiglia nella poligamia o nella monogamia; e quindi alle eredità ed ai possessi e a tutta l'economia publica e privata. Ma codesto ordine dei lavori e delle ricchezze si attemprò alla gelosa conservazione di quel predominio che le caste dotte avevano preso sulle ignare e servili. Si costituì una tradizione di recondito sapere in mezzo al diluvio della publica ignoranza. La casta agricola rimase condannata ad assiduo lavoro e a miserabile e nuda umiltà. Povera come i selvaggi, e inoltre stupida e vile, serva della gleba, non ebbe nemmeno la coscienza di poter combattere i suoi oppressori.

Il superfluo della produzione agricola venne consunto da altre caste, alcune destinate a servire agli agi e al fasto della classe dominatrice; alcune a simboleggiare e glorificare le sue idee nelle piramidi, nei templi, nei colossi, nei sotterranei, nelle altre meraviglie dell'arte egizia, babilonica e indiana, alcune a conservare e compiere gli asciugamenti, le irrigazioni, i porti, i ponti e le altre opere riproduttive. Era un immenso capitale che diveniva utile e stabile patrimonio della nazione sotto una forma determinata dal suo pensiero.

Si pongano mutate le idee che stavano nelle menti della casta pensatrice; si ponga uscita dalla teologia braminica l'eresia del buddismo; si ponga contro il dogma della divina origine delle caste il dogma dell'eguaglianza degli uomini nel nulla. Agitati da una nuova influenza gli animi del vulgo inconscio fin allora del suo diritto e della sua forza, tutto l'ordine di quella produzione, di quei consumi, di quei cumuli, si trasforma e svanisce.

L'economia publica d'una nazione non si spiega dunque nè con Montesquieu, né con Adamo Smith; non si spiega nè con la natura, nè col lavoro, ma coll'intelligenza, che afferra i fatti della natura; che presiede al lavoro, al consumo, al cumulo; che li fa essere in uno o in altro modo; che li fa essere o non essere.

 

Non ostante tuttociò, ancora non si può dire che le scoperte le quali influiscono più direttamente e vastamente sulla produzione universale del genere umano, fossero di natura scientifica. In tutto l'antico evo e nel medio e nel moderno, non si possono veramente considerare con Say le scienze "comme les bases des arts industriels et des richesses". Non fu il più dotto pensatore del suo secolo che raccolse nei selvaggi prati dell'Asia il primo grano di frumento e lo ripose entro la terra col proposito di vederlo ripullulare; nè quello che saltò pel primo sul dorso al cavallo; o si trovò d'aver indurato col foco la sottoposta argilla; o d'aver vetrificato le sabbie del lido colle ceneri dell'erbe marine. L'aratura, il maggese, la rotazione erano pratiche cieche, eppur da secoli benemerite ai popoli, quando la tarda chimica venne a spiegar le intime ragioni della loro utilità. La stessa invenzione della bussola, che ci abilitò a varcare tutti i mari, era un'osservazione fortuita, sconnessa, solitaria, che non faceva corpo di scienza. Tutte quelle invenzioni furono atti d'intelligenza, scaturiti in menti sagacissime dall'immediata osservazione dei singoli fatti e non da deduzione scientifica.

Il più solenne atto col quale la scienza invase il regno dell'economia publica fu la scoperta dell'emisfero occidentale. Il carteggio di Paolo Toscanelli con Cristoforo Colombo attesta come quella mirabile impresa che mutò faccia ad ambo i continenti e diede al genere umano un nuovo ordine d'economia publica e privata, fu dedutta dal principio della forma sferica del globo, e dalla geometrica certezza che per via dell'occidente si doveva giungere all'estremo oriente. «E non abbiate meraviglia, scriveva Toscanelli, che io chiami ponente il paese dove nasce la specieria, la quale communemente dicesi che nasce in levante; perciocchè coloro che navigheranno a ponente sempre troveranno detti luoghi in ponente; e quelli che anderanno per terra a levante sempre troveranno detti luoghi in levante».

Un altro dono della scienza all'economia del genere umano fu l'invenzione della macchina a vapore. Da Erone Alessandrino alla prima locomotiva che corse fra Liverpool e Manchester passarono duemila anni di preparazione scientifica. Più interamente alla scienza appartiene l'onore d'aver applicato l'elettricità alla telegrafia, alla tessitura, alla doratura, alla riduzione delle terre in metalli. Ma passeranno molte generazioni prima che le applicazioni pratiche di questi pensieri scientifici abbiano una vasta e profonda influenza sulle ricchezze dei popoli. L'uomo non può ancora imaginarsi quali trasformazioni la chimica e la legislazione possano operare sulla superficie della terra.

Intanto vediamo anche ai nostri giorni grandissime innovazioni esser nate entro i confini d'una mera sagacità pratica. Tali furono le filature mecaniche della seta, poi del cotone, della lana, del lino; la costruzione delle rotaje di pietra, di ferro, la propagazione generale dei pozzi forati, la tubulatura sotterranea, prima per prosciugar le terre, poi per insinuarvi una ventilazione fecondatrice, infine l'artificiosa modificazione delle razze animali.

 

La scienza oggidì ha intrapreso la gigantesca operazione di descrivere e ridurre a rigida espressione razionale tutte le pratiche dell'industria, dell'agricultura, del commercio, della legislazione. La concimatura, la marnatura, i cementi, la vinificazione, le distillazioni, la metallurgia, le machine, le tariffe daziarie, le operazioni di credito publico, si vanno scrutando al lume di tutte le scienze relative. Dai recessi oscuri della psicologia, dal principio della reciproca sostituzione dei sensi, scaturì l'arte di educare i sordomuti e i ciechi nati ad essere membri operosi della società. È ben naturale che le nazioni dell'uno e dell'altro continente, presso le quali le utili invenzioni divennero un fatto continuo e quotidiano, fossero quelle che avevano posto maggior cura a svolgere la publica intelligenza. Ed è naturale che queste siano eziandio le nazioni presso cui le scienze stanno sotto l'alto influsso di quella filosofia esperimentale che da Bacone fu detta scientia activa.

 

Ma v'è un altro ordine d'idee che mentre sembra condurre li animi lungi affatto dalla cura delle ricchezze e d'ogni cosa materiale, esercita sovra queste un imperioso dominio.

I Romani, avendo trovato l'occidente quasi inculto, lo avevano sparso di colonie e solcato di magnifiche strade, avevano coperto di vigneti le rive del Rodano e del Reno. Era il progresso; era l'intelligenza che spandeva un nuovo modo di vita sovra una semibarbara natura. Dopo due o tre secoli, scese su quelle terre una nuova notte; le vie giacevano deserte e inselvatichite; l'agricultore recideva li arbori fruttiferi per sottrarsi all'imposta; gli scrittori paragonavano le desolate loro città ai cadaveri: semirutarum urbium cadavera. A compiere la ruina, una milizia barbara, dalle frontiere che non sapeva difendere, rigurgitava sulle inermi provincie; i Goti fuggivano inanzi ad Attila, flagello di Dio. Ebbene nel secolo quinto questo decadimento era visibile e materiale; ma un decadimento invisibile e morale lo aveva precorso. La futura barbarie della terra romana erasi annunciata non solo col sepolcrale silenzio dei giureconsulti nella prima metà del secolo terzo; ma col graduale oscuramento degli ingeni, che si manifesta a qualunque lettore che da Virgilio e Orazio discenda a Tertulliano e Arnobio. L'ignavia delle menti preludeva all'ignavia delle braccia. Quando nell'uomo la ragione è vigile e forte, l'attività sua si spande sopra ogni cosa che lo circonda. Ciò sia detto a coloro che credono i puri studj letterari e filosofici sterile divagamento e ostacolo alla publica prosperità.

Interamente nelle regioni del pensiero si preparano quei destini che danno e tolgono d'improviso ai popoli e alle classi il possesso della terra e degli altri beni. Ai fondatori del cristianesimo fu insegnato di non essere solleciti del cibo e delle vesti, ma di cercare il regno di Dio e la giustizia; poichè ogni altro bene vi seguirebbe: Et haec omnia adjicientur vobis (Mat. VI, 33). E così fu. Non erano trascorse molte generazioni, che li eredi di quella fratellanza di pescatori sedevano signori di vaste eredità. Nell'ottavo secolo stringevano con Carlomagno il patto che dava a vescovi e abbati la metà della terra d'occidente coi servi condannati a coltivarla; e fin dalle selve della Svezia e dell'Islanda si apportò a Roma il denaro del pontefice.

Nel secolo settimo un'altra idea teologica, venuta nella fervida fantasia d'un arabo conduttore di cameli, attraeva un'orda di pastori; e il corso d'un secolo bastò loro per appropriarsi di tutte le terre, a levante fin oltre il Gange, a ponente fin oltre il Tago. Perocchè a mente loro tutta la terra era di Dio; e perciò del suo profeta; e perciò dei fedeli che credevano in Dio e nel profeta. Ogni anteriore diritto delle famiglie restate infedeli fu negato e cancellato. L'infedele fu destinato al lavoro; il fedele al godimento. Fu il contrario del detto: à chacun selon ses œuvres. E così la proprietà, in massa, va e viene colle idee dei popoli. Anche qui la ragione del ripartimento e del possesso dei beni non è a cercarsi nell'economia, ma nelle oscure fonti della teologia. La causa di quella repentina e mostruosa ricchezza d'un'orda di pastori non era stata certamente la natura, nè il lavoro, nè il capitale; ma un fenomeno mentale, un turbine e una tempesta d'idee, che dal pensiero d'un uomo prorompeva a sconvolgere tutto l'ordine dei beni sovra un'immensa parte della terra. E ancora in questo secolo decimonono, è forza cercare nelle nozioni che questo fanatico del secolo settimo aveva del diritto di proprietà, il principio per cui le belle regioni dell'Asia Minore e della Siria sono nude e squallide solitudini.

 

I Romani contavano li anni dalla fondazione di Roma. Prevalendo sull'imperio il cristianesimo, prevalse l'uso di datare dalla nascita di Cristo. Avvicinandosi poi l'anno mille di quest'era, si sparse nei popoli il superstizioso grido: mille e non più mille; grido che probabilmente si ripeterà quando sarà prossimo l'anno duemila!

Allora nei testamenti apparve la fantastica formula: appropinquante mundi termino. Immense baronie furono legate alla chiesa; furono emancipati molti schiavi, interi villaggi e città. Gli istorici videro in questo delirio delle menti il primo impulso al risurgimento delle popolazioni oppresse.

Gli istorici sono unanimi a vedere altro maggior sovvertimento della ricchezza feudale nelle crociate. Anzi veramente la prima di siffatte spedizioni, mosse in nome e autorità del pontefice, fu quella che con una sola battaglia tolse agli Angli e Sassoni il dominio della Britannia, e divise tra sessantamila venturieri il godimento d'una superficie di sessantamila miglia.

Ma veniamo a cose più vicine. Voltaire, il difensore di Calas, di Sirven, di Lally, di Labarre, di Martin, di Montbally e d'altri innocenti immolati sul patibolo, rivendica dalla schiavitù della gleba i dodicimila sudditi dei venti canonici di S. Claude in Franca Contea. Non vince la causa; ma la giusta e generosa sua parola scuote talmente l'animo del re, che abolisce la servitù in tutte le terre della corona.

E l'idea di Voltaire gli sopravive; essa è incarnata nella nazione, incarnata nel secolo. La notte del 4 agosto 1789, ogni servitù feudale è abolita. Le menti comprendono la necessità d'un codice civile; all'ombra del quale, in breve tempo, una vasta parte della terra di Francia vien divisa tra i figli dei servi della gleba. Mai nell'antica Francia, mai nelle antiche Gallie, mai sotto i re, nè sotto i druidi, il villano era stato libero possessore del suo tetto e del suo campo come un cittadino romano. Questo è ciò che alcuni chiamano con ineffabile sorriso il Voltairismo, il Voltarianismo!

Sì; come il volto dell'uomo e il suo braccio e ogni atto suo palesano ciò che avviene nel suo animo, così nel commercio, nell'industria, nell'agricultura, nell'aspetto delle città e più in quello delle campagne, dei ponti, delle strade, nella forma e nella cifra delle publiche gravezze, nel diseguale incremento delle popolazioni, nei registri delle nascite e delle morti, delle nascite legittime e delle  illegittime, in tutta la statistica, in tutta l'economia, traluce il pensiero dell'intera nazione, il pensiero dominante, impresso in lei da pochi possenti intelletti, che sono li arbitri del suo destino, mossi eglino pure da altre più sublimi necessità. Nulla accade nella sfera delle ricchezze che non riverberi in essa dalla sfera delle idee.

E anche in questo momento, noi vediamo in Italia un'idea trionfante, che colla mano d'uomini che lungamente si vantarono d'essere sprezzatori delle idee, caccia da vasti e antichi possedimenti le corporazioni ecclesiastiche, e chiama a novella sorte le moltitudini che per tante generazioni le fecondarono con abjette e dispregiate fatiche.

 

L'uomo interiore possiede due forze: intelligenza e volontà. La volontà è principio di ricchezza quanto l'intelligenza.

L'uomo segue dapprima gli istinti, e sopra tutto quelli in lui potentissimi, della socievolezza e dell'imitazione. Vi aggiunge quindi l'esperienza sua propria; e può, coll'ajuto della società, svolgere in grado sempre maggiore la riflessione; sicchè le sue passioni istintive, senza mai veramente mutar natura, infine assumono forma di volizioni razionali o deliberate. Quegli impulsi che determinano la volontà all'acquisto dei beni, si chiamano interessi.

L'uomo comincia a voler direttamente i beni; poi impara a voler quelle cose per cui mezzo si acquistano. Egli si forma dunque interessi immediati e mediati.

Ogni uomo avrebbe veramente interesse che nel luogo ov'egli vive, e in tutta la terra, fosse massima la copia dei beni; affinchè, compiuti gli scambj tutti quanti, maggiore potesse essere la quota che ne toccasse in particolare a lui.

Ma pur troppo egli può anche determinarsi a cercare un aumento della proporzione sua propria nel minoramento o nello spèrpero delle porzioni altrui e della massa generale. Tale è l'interesse che move ogni eslege al pari d'ogni privilegiato. Pertanto quella stessa volontà che tende all'acquisto dei beni, può divenire un impedimento alla tranquilla e ordinata loro produzione.

La natura offre invano i suoi beni, quando l'umana volontà, sotto forma d'un parziale e prepotente interesse, vi appone un divieto. Affinchè alcuni privilegiati potessero vendere a prezzo d'oro nelle colonie le ferramenta di Catalogna e Biscaja, la Spagna aveva vietato che si aprissero in America miniere di ferro.

Non vi andava solamente perduto il lucro delle ferriere; ma tutta la produzione agraria e tutta l'industria d'immense regioni rimanevano prive dei necessarj strumenti, o dovevano pagarli a prezzo smisurato. Inapprezzabili tesori dovettero rimaner sepolti per secoli in un suolo troppo avaramente tocco dal ferro. Il favore della natura fu egualmente inutile all'uomo americano, prima della conquista, per difetto d'intelligenza, come dopo di quella per impotenza della sua volontà contro una volontà straniera. È questo conflitto delle volontà, è questo divergimento degli interessi, che rende dannoso e malefico qualunque dominio straniero. Il governo d'una nazione comunque siasi civile assume sempre nÈ suoi lontani dominj un aspetto di barbarie; egli è già più o meno barbaro nel fondo delle sue provincie.

Fu già da molti osservato che quando gli statuti delle nostre città transpadane riconobbero in qualunque possidente il diritto di condurre le aque irrigatrici per le terre dÈ suoi vicini, attribuirono alla volontà dell'uomo intraprendente un predominio sul nudo diritto di proprietà e sul volere dell'uomo inoperoso. Senza ciò, il tesoro d'aque estive che le alpi versano nelle nostre pianure, sarebbe rimaso perpetuamente inutile.

Se nella Terra del Capo si potè propagandare la cultura della vite, egli non fu soltanto perchè il suolo e il clima vi fossero naturalmente propizj. Fu perché quell'estremità dell'Africa pervenne in signoria degli Olandesi e poi degli Inglesi: due popoli, che non potendo aver vigne in casa propria, furono contenti di poterne avere in qualsiasi altra parte dei loro dominj; e a tal uopo chiamarono quivi una colonia di vignajuoli francesi. Ma se quella contrada fosse caduta in potere della Spagna vinifera, questa non avrebbe mancato di proibire quivi pure la piantagione delle viti.

I mari che cingono l'America per ogni parte, e conducono con tragitto rettilineo a tutte le altre parti del mondo, rimasero inutili e innavigabili agli abitanti delle colonie spagnuole. Quel governo preoccupato da fallaci interessi, si era prefisso d'inviarvi d'Europa sue soli convogli annuali, confinando il commercio d'un mondo in un termine invariabile di quaranta giorni all'anno. Col trattato dell'Assiento aveva poi concesso al commercio inglese di spedir colà un'unica nave per anno; non avvedendosi che il commercio di quella sola nave avrebbe coperto il contrabando di mille. Ecco l'umana volontà, spronata da un cieco interesse, accingersi a chiuder l'immenso oceano che abbraccia tutta la terra.

Questa azione repressiva, nemica del commercio e di tutti i vantaggi che il commercio apporta, si vide spinta a non più visto eccesso nel sistema continentale, che sarebbe stato un immenso danno al genere umano e un esempio eternamente pericoloso, se non fosse stato un'immensa illusione.

Siffatti dannosi arbitrj non hanno ancora ceduto ai riclami della ragione e della scienza. Parecchie legislazioni interdicono più o meno anche oggidì alle colonie il diretto commercio coi varii popoli. Quasi tutte le nazioni riservano più o meno ai proprii naviganti il costeggio dei lidi e delle isole e la navigazione dei fiumi. Abbiamo veduto ai nostri giorni resa quasi impossibile dalle dogane di Modena e di Parma la navigazione del Po. Abbiamo veduto impedirsi, or dall'Austria, or dalla Russia, la navigazione del Danubio.

Li stati maritimi sono gelosi di questi rami di navigazione, non solamente per falso concetto d'economia, o per timore d'infezione politica, ma perchè li riservano all'allevamento dÈ marinaj per le navi da guerra. In ogni modo, il libero uso delle aque navigabili viene ad essere angustiato da veri o falsi interessi. Nessuno potrebbe fare un calcolo remotamente approssimativo di tutti i beni che la volontà dell'uomo preclude all'uomo; e che per un mero mutamento della sua volontà verrebbero quasi tratti dal nulla.

 

Più Evidente è ancora l'influenza degli interessi sull'intensità ed efficacia del lavoro. Annunciò una spendida verità il poeta quando disse che Giove toglie la metà dell'anima all'uomo, in quel giorno che lo fa servo. È un fatto che in mano agli schiavi divennero sterili quelle terre che in altri tempi avevano alimentato copiosamente una popolazione libera. L'antica Italia aveva in pregio il lavoro dei campi; essa era mirabilmente coltivata, e mirabilmente popolata, era la terra del Dio delle sementi:

 

Salve, magna parens frugum, Saturnia tellus

Magna virûm...

 

i suoi capitani, i suoi senatori, non vergognavano di mostrarsi agli stranieri colla mano sull'aratro. Nel medio evo, altri guerrieri, che avevano portato seco da barbare origini il disprezzo dell'agricoltura, lasciarono per molti secoli le terre nello squalore, abbandonandole ai servi della gleba; il nome d'agricultore, di villano, in Italia significò brutalità, il Francia deformità, in Inghilterra sceleraggine. Ma infine nuovi padroni, usciti con altro animo dalle città industriali e mercantili, liberarono col ferro i servi della gleba, come a Milano, o li redensero coll'oro, come a Bologna; vi suscitarono l'arte agraria soi capitali, coll'opera, cogli scritti; l'Italia ritornò fertile e popolosa. Oggidì gli Inglesi, nel possesso d'una terra suntuosamente e dottamente coltivata, ripongono quella stessa vanità che i patriarchi celti e i baroni normanni riponevano a vederla sgombra d'uomini, e solo sparsa d'animali selvaggi. Nessuno rivocherà in dubio che l'emancipazione dei servi della gleba in Russia non sia per attivare prodigiosamente il lavoro, e accrescere a più doppii la produzione delle terre e dei mestieri.

Tutto ciò che può dirsi in favore della coltivazione per livello o per mezzadria, principalmente per quanto concerne la vite, il gelso, l'olivo, il cedro e tutte quelle che si potrebbero chiamare culture conservanti, si riferisce alla volontà. Lo schiavo o il giornaliero, a forze eguali, a eguale intendimento, non apportano mai la stessa vigilanza, e assiduità nella cura delle piantagioni, dei terrazzi, dei sostegni. Sulle pendici della Liguria e della Valtellina, sulle riviere dei laghi cisalpini, vediamo come l'agricultore, quando impetuose piogge gli rapiscono le poche glebe sospese sull'erta, vi arreca a spalle la terra; rifà da capo il povero fondo. Lo straniero ammira l'arte; ma il principio di quegli sforzi e di quelli avvedimenti è tutto in una artificiale volontà. Poichè se si muta il titolo del possesso e dell'affitto, anche non mutandosi l'agricultore, tutto quell'edificio sparisce, sparisce la popolazione; un latifondo in breve diviene pascolo e selva. Quella forma di vegetazione non ha radice nella terra, ma nell'uomo; non nei calcoli dell'intendimento, ma nella forza della volontà.

Il lavoro del mezzadro, vincolato a certi accordi col padrone, e a certe forme consuete e quasi ereditarie, ha un limite che non oltrepassa. Ma vien facilmente superato dall'agricultore suburbano; il quale, per la vicinanza del mercato e per l'intera libertà del suo contratto a denaro, opera come un vero industriale.

L'aumento del reddito, che si avverò in Italia e in Inghilterra nei poderi dati a lungo affitto, si deve in parte bensì all'ampio capitale, e in parte si deve a una intelligenza guidata da tutti i lumi del secolo; ma nè quel capitale né quell'industria si presenterebbero su quel terreno, se una data forma di contratto non assicurasse all'agricultore per un certo tempo il frutto d'opere che non possono divenir utili se non dopo un corso d'anni. Il lungo affitto e il rimborso dei miglioramenti costituiscono in sostanza un contratto d'assicurazione.

Tutte quante le assicurazioni sui naufragii, sulle grandini, sugli incendii, sulle infezioni, sulle morti, sono impulsi e conforti alle incerte e timorose volontà. E nei futuri trattati d'economia si dovrebbero collocare sotto questa rubrica. Poiché certamente non derivano dalla natura, nè dal lavoro; e le assicurazioni mutue, e tutte quelle che risultano dalle condizioni dell'affitto, non richiedono, nemmeno come strumento, il capitale.

Anche nel commercio e nella navigazione, da un operatore cointeressato si aspetta un servigio più sagace e fedele. Negli stabilimenti dei fratelli Moravi, e dovunque il frutto del lavoro viene assorbito da una communità, sicchè l'individuo non possa sperare dalla propria diligenza e perizia un proporzionato vantaggio, si osservò nei lavoratori una certa indolenza, non scevra d'invidia contro chi mostri maggiore intendimento o zelo soverchiante. Uno dei più tristi proverbii nostri deplora come fatto a nessuno e perduto, ogni servizio che si presti al commune. Questo è lo scoglio a cui ruppero quasi tutte le imprese dei socialisti. I fondatori avevano compreso in tutta la sua forza il principio del lavori, e in qualche parte il principio dell'intelligenza; ma non apprezzavano l'efficacia del lavoro libero, ch'è quanto dire della libera volontà. I riformatori economici, al pari dei politici, trascurarono troppo la libertà. Essi non furono paghi d'affacciare all'uomo l'idea; perchè non erano persuasi che, data l'idea, nell'essere umano si svolge spontanea la tendenza all'azione, come nella puerpera, dato il parto, si svolge spontaneo l'amore materno. Non avevano abbracciato nella loro astrazione tutte le leggi dell'umana natura.

Se si mira sotto l'aspetto dell'economia la publica difesa, si vede che il soldato volontario, a pari numero e pari armamento, e perciò a pari spesa, presta un servigio più efficace che l'uomo costretto, il quale è privo sovente d'istinto belligero e sostenuto solamente dalle stringhe della disciplina. Laonde il più economico sistema di difesa, se non per un governo, certo per una nazione, sarebbe quello che accoppiava il principio della milizia volontaria dei Romani col principio della milizia universale degli Svizzeri, tenesse ammaestrati, ordinati, armati e moralmente esaltati gli abili tutti quanti, serbandosi ad ogni caso di guerra a fare un appello alla volontà; e l'esperienza dimostra che le volontà rispondono con una vivacità proporzionata al pericolo. Codesto elaterio delle volontà non si può fomentare se non con modi attinti nella sfera dell'affetto. E sarebbe una nuova applicazione della psicologia all'economia publica; poichè il più grave quesito economico è oggidì quello d'istituire una publica difesa che non sia d'altra parte una publica ruina.

 

Nei premi e negli onori che i popoli cominciano a tributare a quelli che apportano alle publiche esposizioni strumenti, manifatture, frutti, animali, e nel valore solenne attribuito alle invenzioni e alle altre opere dell'ingegno, v'è una forza che aggiunge efficacia al lavoro e all'intelligenza, perchè aggiunge stimolo alla volontà.

Consessi legislativi, per legge o per abuso eletti nelle classi opulente, tendono a riversare le imposte sull'operosa mediocrità; tassano ogni atto di commercio, ogni trapasso di beni, perfino la frequenza delle lettere, ch'è pure un lavoro, e un genere fecondo d'utili combinazioni e provocatore d'attività. Accrescendo li attriti che stancano l'industria, rallentano la publica prosperità, in quanto essa scaturisce dalla volontà.

Grande incentivo all'industria è la concorrenza, fonte di prodigiosi sforzi di sagacia, di solerzia, di risparmio; fonte di miseria a chi nella prova succumbe, ma pur sempre cimento d'emule volontà. Una nazione la evita e la respinge; si difende dal commercio dei grani esteri e delle estere merci come da una sventura. Un altro, popolo o una nuova generazione del popolo stesso, non teme la libertà del commercio e sfida le nazioni rivali. Solamente sotto il flagello d'una spaventevole carestia, che tolse all'Inghilterra un quarto della sua popolazione, fu vinta colà la causa del libero commercio. La perseveranza dei novatori trionfò della pertinacia dei privilegiati, perchè questa era soprafatta dalla mole dei publici mali. Dopo il 1848, tutto l'ordine della produzione in Irlanda fu intervertito con nuovi patti di lavoro e di locazione. Il male prima, il bene poi, non furono tanto opera della natura, quanto delle leggi, dei contratti; in una parola, della volontà.

Per lo stesso modo, la volontà signoreggia sulla accumulazione dei capitali, ora sospingendo colle gare del lusso a disperderli, ora colle leggi suntuarie a risparmiarli. La sicurezza li alletta a giro veloce; l'incertezza degli eventi, le leggi improvide, l'arbitrio dei governanti, le gare delle fazioni tendono a farli stagnanti e infruttuosi. Dipende affatto dagli ondeggiamenti della volontà, se i capitali debbano investirsi riproduttivamente nelle ferrovie, nei canali, nei porti, negli istituti d'insegnamento, ovvero se si debbano consegnare alle manimorte, propagatrici di pigrizia e di superstizione.

Nelle guerre ambiziose e aggressive, nella sfrenata emulazione degli armamenti, delle flotte, delle fortezze, li eccessi a cui s'abbandona un governo divengono una necessità per li altri tutti. Sotto forma del debito publico, s'ingoja la rendita netta delle terre; s'ingoja tutto ciò che l'agricultore deve ai favori della natura e al cumulo dei capitali; la moltitudine dei possidenti si lascia stupidamente ridurre alla condizione di meri affittuarj; si trasferisce in fatto vero nel governo ogni proprietà, come nelle conquiste degli Arabi e dei Normanni.

Chi fa il proprio volere, chi si determina giusta i motivi suoi proprj e le proprie idee, si dice libero; la libertà è la volontà nel suo razionale e pieno esercizio; la libertà è la volontà. Or bene, tutte le istorie ci attestano come la libertà fu cagione che immense ricchezze si potessero accumulare sopra paludose o aride o alpestri liste di terra, in Fenicia, in Liguria, nella Venezia, nell'Olanda, nella Svizzera. Il primato sui mari appartiene oggidì ad ambo i rami della stirpe anglobritanna, ch'è quella fra tutte le grandi nazioni che serbò più fedele e costante il culto alla libertà. Le sue ricchezze sono maggiori di quelle degli altri popoli per forza di libertà, cioè per causa che risiede nella sfera della volontà. Epperò, per nostro conforto, sono accessibili a tutte le nazioni.

Se l'intelligenza promove la publica ricchezza, è d'uopo che la volontà la quale aspira alla ricchezza favorisca lo sviluppo dell'intelligenza. I popoli civili possono farlo, non solo presso sè medesimi, e in coloro che contribuiscono ai medesimi lavori, ma benanche presso gli uomini di lontani paesi, che secoloro commerciano, ovvero producono o raccolgono cose che per qualunque indiretta via possono pervenire a loro. Ogni uomo ha interesse alla cultura di tutto il genere umano.

Perlochè tutti coloro che attendono a qualsiasi ramo di progresso anche puramente scientifico, concorrono alla cultura universale, all'universale aumento delle ricchezze. E quanti, per ignobili loro interessi o pregiudizj, interpongono ritardi alla pronta divulgazione della cultura, sia nella propria nazione, sia nelle altre, fanno impedimento allo sviluppo di quella ricchezza a cui per la via dei cambi e del commercio partecipa tutto il genere umano.

Tutti i governi che aspirano ad imporre l'autorità loro ad altre nazioni, cadono in fatali interessi che li traggono ad assopire le intelligenze per poter più facilmente dominare le volontà. Perlochè ogni stato che tenta acquistare siffatte ingiuste influenze, o che con trattati le riconosce e le avvalora in altri stati, eleva un ostacolo alla libera intelligenza ed alla produzione. E chi promuove la libertà della propria nazione e di qualunque altra parte del genere umano, fa opera indirettamente vantaggiosa a sè stesso e a' suoi. Giovano anche alla propria floridezza quegli stati che proteggono intorno a loro l'istituzione di governi civili ed illuminati, e colle loro legazioni e coi loro amichevoli officj propagano le mutue relazioni delle società studiose, le grandi esplorazioni delle terre e dei mari, il reciproco commercio dei libri, i vantaggi delle invenzioni, della proprietà letteraria e delle altre opere mentali; che aprono ospitalmente le loro scôle alle nazioni straniere, che mandano per converso la loro gioventù ad acquistare negli istituti esteri quei lumi che ad un dato tempo non hanno mai, per tutta la sfera scientifica, lo stesso grado di splendore presso tutte le nazioni.

 

Raccogliendo, diremo che ogni nuovo trattato d'economia publica, dovrebbe formalmente classificare tra quelle fonti della ricchezza delle nazioni l'intelligenza e la volontà; l'intelligenza, che scopre i beni, che inventa i metodi e gli strumenti, che guida le nazioni sulle vie della cultura e del progresso: la volontà, che determina l'azione e affronta gli ostacoli.

Se i legislatori non possono con un colpo di verga magica creare in ogni paese i beni che la natura ha troppo inegualmente sparsi sulla terra, se non possono moltiplicare a piacimento il numero delle braccia e la potenza del lavoro, se non possono sempre cattivarsi il favore degli arbitri del capitale, certamente possono farsi promotori e vindici della libera intelligenza e della libera volontà.

Aggiunga ogni scrittore a queste nostre una nuova pagina, s'inoltri d'un passo nell'analisi da noi tentata; e una meno imperfetta sintesi della publica economia potrà risponder meglio al voto delle nazioni.

 

 

 


 

CARLO CATTANEO

 

NOTIZIE NATURALI E CIVILI SU LA LOMBARDIA

 

[da Notizie naturali e civili su la Lombardia, Tip. G. Bernardoni, Milano 1844, che si pubblicò in occasione del VI Congresso degli scienziati italiani tenuto a Milano nel 1844.]

 

AVVISO AL LETTORE

 

Gli studiosi delle scienze naturali, convenuti in Pisa nell'anno 1839, èbbero in dono una descrizione istòrica e artìsttca di quella città e de' suoi contorni, che per avventura trovàvasi publicata in quegli anni da un incisore, a corredo d'una sua raccolta di vedute.

Pel Congresso scientìfico di Torino parve il caso d'apprestare una sìmile operetta; e forse per darle pure alcun colore d'opportunità, vi s'introdusse una notarella di fòssili e un catàlogo di piante, con alcune righe su l'agricultura.

Il ripetuto esempio del volume donato prescrisse quasi un dovere alle città che dovèvano accògliere le successive adunanze. A Firenze, di più, si pose inanzi al volume una descrizione naturale della valle dell'Arno: nel che si ebbe forse l'ànimo di far cosa particolarmente intesa a quell'òrdine di persone che volèvasi onorare. I Padovani, con più cortese e savio consiglio, descrìssero agli òspiti le terre e le aque di tutta la loro provincia, e i vari aspetti che l'agricultura vi prende; e dièdero loro in appendice la flora dei Colli Euganei. Lucca non si curò per verità di piacere agli amatori della botànica e della geologìa, ma pur descrisse le diverse condizioni del suo territorio alla marina, alla pianura e al monte.

Se nelle sedi dei futuri Congressi prevalesse sempre l'esempio di Pàdova a quello di Pisa e di Torino, altri potrebbe forse pensare che il continuato circùito di queste adunanze potesse d'anno in anno approssimarci a possedere infine un'accurata descrizione di tutta l'Italia. Ma l'Agro Padovano non è vasto; il Lucchese, meno ancora. il Padovano è forse la 150a parte della terra d'Italia; il Lucchese, la 300a. E se d'anno in anno l'ospitalità municipale non ci consente uno spazio di terra alquanto maggiore, codesta speranza della finale descrizione d'Italia discenderà in fedecommesso ai figli dei nostri figli.

Inoltre queste divisioni di paese così anguste e minute  invòlgono troppe simiglianze e infinite ripetizioni. E poche sono poi le provincie che nel loro giro comprèndano le precipue fonti delle loro condizioni naturali e civili, in modo che per darne ragionata contezza non si dèbbano invàdere ad ogni momento i confini delle terre circostanti.

Queste considerazioni destàrono in alcuni studiosi di Milano il pensiero d'inoltrarsi d'un altro passo, come a Firenze si fece in paragone di Pisa, e a Padova in paragone di Firenze. In luogo di fare ogni anno qua e là per l'Italia un volume su la centèsima o la trecentèsima partìcola del bel paese, parve convenisse prèndere risolutamente un'intera regione, purchè potesse considerarsi sotto una certa unità di concetto, la Venezia, a modo d'esempio, o la Toscana È il principio da cui mosse il nostro lavoro.

È questa adunque una raccolta di notizie su quella regione d'Italia, naturalmente e civilmente dalle altre distinta, a cui per singolari circostanze rimase circoscritto il nome già sì vasto e variàbile di Lombardìa. E intendemmo adombrarvi, quanto per noi si poteva, l'aspetto geològico, il clima, le aque, la flora, la fàuna, lo stato della popolazione e l'ordinamento sanitario, i diversi òrdini agrarj, il commercio, l'industria, il linguaggio, le orìgini prime e la successiva cultura. Ciascuna parte dell'òpera venne conferita da persone specialmente dèdite a quel gènere di studj. Aggiungeremo inoltre che il nostro libro, qualunque egli sia, non è fatto coi libri; le notizie geològiche hanno per corredo una speciale collezione di rocce e di fòssili; le notizie sul clima, e più ancora quelle sulle aque, compèndiano alcune migliaja d'osservazioni, continuate per lunga serie d'anni; la nostra flora è tratta dagli erbarj raccolti di nostra mano dalle paludi del Mincio alla cima delle Alpi Rètiche; la nostra fàuna annòvera gli animali che ad uno ad uno possediamo.

Ma siccome codesti studj non èrano certamente intrapresi nel mero propòsito d'un libro d'occasione, così non potèvano facilmente accozzarsi in un compiuto e armònico edificio; ma dovèvano riescire piuttosto come pietre, che ognuno aveva scavate e dirozzate, e che ora stanno qui deposte l'una accanto dell'altra, materia prima d'una più vasta costruzione; intorno alla quale diremo quali sìano i nostri pensieri.

Noi vorremmo che, dietro l'esempio nostro, e con quei miglioramenti che il fatto venisse additando, in ogni regione d'Italia s'intraprendesse una sìmile raccolta di Notizie, le quali incominciate nella pròssima occasione o nella remota aspettazione d'un Congresso scientifico, venìssero poi proseguite per Supplementi annui anche di minor mole, in modo che, avviato una volta il lavoro nelle sìngole parti d'Italia, ogni anno dovesse arrecarci da ciascuna di esse altretanti manìpoli di studiose fatiche. Le lacune del primo lavoro, anzichè difetto, sarèbbero quasi addentellato che invita all'òpera successiva. Non è un libro, nè più d'un libro che noi vogliamo aggiùngere alla congerie scientìfica; è un'istituzione che vorremmo fondare.

I fini suoi sarèbbero grandi e molti. Recare alla scienza una perenne dote d'accurati e sicuri fatti recare alle sìngole patrie municipali e alla patria commune quell'ìntima e verace cognizione di sè medèsime, per la quale il pùblico bene si pensa e si òpera entro i confini del possìbile e dell'opportuno, e senza mistura di mali; aggiùngere a molti un impulso perpetuo al lavoro, coll'allettamento d'una vasta publicità data al più minuto studio locale indurre gli studiosi a rivòlgere le loro fatiche a un oggetto determinato e arrivàbile, non logorando l'ingegno in vasti e vani sforzi risparmiare la ripetizione delle stesse fatiche in diversi luoghi, di modo che il giòvane, bramoso di farsi mèrito, sappia sempre dove è un campo da coltivare e una lacuna da rièmpiere infòndere agli studj nazionali quell'unità e quell'efficacia che non deriva da vìncoli importuni o sospetti, ma surge spontanea dalla natura stessa delle cose di fatto, le quali, essendo parti d'uno stesso òrdine universale, rièscono spontaneamente coordinate e concordi.

Non è assurdo il pensare che in quel modo in cui l'istituzione dei Congressi scientìfici venne dalle altre nazioni alla nostra, così questa istituzione delle Raccolte perpetue possa da noi propagarsi alle altre nazioni. Se così fosse, e se in ogni distinta regione della Germania, della Francia, della Scandinavia, uno stuolo di studiosi intraprendesse una collezione ordinata sopra un medèsimo disegno, e ognuna di queste nazioni offrisse annualmente il frutto di venti o trenta raccolte, ciascuna delle quali fosse fatta da venti o trenta speciali persone, è impossibile a dirsi qual tesoro di studj si potrebbe in breve tempo accumulare. Mentre nella più parte delle società scientìfiche gli studiosi vanno a riposare ed oziare, agli onori di questa vasta ma lìbera collaborazione avrebbe parte solo chi fosse operoso, e a misura della sua operosità. Migliaja di studiosi, tranquillamente e senza alcun lontano o malagèvole accordo, potrèbbero dar mano a un edificio, la cui base sarebbe l'Europa.

Questo pensiero, che nella sua vastità è pur tanto sèmplice e fàcile, dovrebbe raccomandarsi per sè medèsimo di promotori e fondatori di codesta bella consuetùdine delle annue adunanze; i quali non potranno dissimulare a sè medèsimi che l'opinione publica non se ne mostra peranco sodisfatta; poichè vede grande e frondoso l'àrbore, e non conosce i frutti; epperò giustamente sospetta che la nuova istituzione non apra tanto un campo alle fatiche quanto un teatro alla inoperosa vanità.

Per parte nostra, non ci faremo inanzi a prèndere il posto dovuto ai migliori; ma procureremo di giustificare nella mente dei nostri concittadini la nuova istituzione, col provar loro che può èssere veramente occasione di studj ùtili e laboriosi. Dobbiamo aggiùngere che il nostro pensiero venne alquanto tardi; che trovò inaspettate contrarietà, che la cosa essendo nuova e indeterminata anche nella mente di quelli che pur volèvano condurla a qualche effetto, doveva produrre molte esitanze; che ci fu necessario pur troppo d'accertar prima se l'opinione pùblica avrebbe assecondato i nostri sforzi, poichè non era giusto che alla fatica si aggiungesse anche altro più materiale nostro sacrificio; e per tutte queste cose, solo alla metà dello scorso maggio fummo in grado di por mano alla stampa.

Nel coordinare i manoscritti si mirò principalmente a rimòvere tutte le ripetizioni della medèsima cosa sotto diversi capitoli, collocàndola a preferenza in quello a cui la cosa più specialmente apparteneva. Ogni memoria venne ridutta alla più semplice espressione; e in ciò, i collaboratori mostràrono la più generosa fiducia e compiacenza all'amico, al quale avevano commesso questo delicato incàrico, persuasi che l'òpera dovesse riescire, per quanto si poteva, una concisa e disadorna collezione di fatti.

Paghi del mèrito d'aver dato l'esempio d'un'impresa che speriamo non finirà con noi, se i nostri successori con più bell'òrdine e più profondi studj oscureranno questo dèbole e frettoloso nostro lavoro, noi ci rallegreremo sempre nel vedere tanto più feconda la semente che avremo sparsa.


INTRODUZIONE

 

I.

 

Le Alpi Rètiche, che divìdono la nostra valle adriàtica da quelle dell'Inn e del Reno versanti a più lontani mari, sono un ammasso di rocce serpentinose e granìtiche, le quali emèrsero squarciando e sollevando con iterate eruzioni il fondo del primiero ocèano, in quelle remote età geològiche, che sèmbrano ancora un sogno dell'imaginazìone. – Fu quello il primo rudimento della terra d'Italia.

Gli antichi sedimenti del mare, parte s'inabissàrono e confùsero in quelle voràgini roventi, aggiungendo mole a mole; parte riarsi e trasformati, ma pure serbando traccia delle native stratificazioni, copèrsero i fianchi e i dorsi delle emersioni consolidate. Il tòrbido mare accumulò successivamente altri depòsiti, che si collocàvano in giacitura orizontale presso ai sedimenti anteriori già sollevati e contorti; e mano mano che la vasta òpera delle emersioni si andava inoltrando e dilatando, sollevati e raddrizzati anch'essi, si atteggiàvano in tutte le discordi inclinazioni, che ci attèstano la successiva serie di quei rivolgimenti. Nelle masse così deposte dominava, secondo la successiva natura delle aque, ora la sustanza silicea, ora l'argillosa cementata di poca calce, ora la calcare.

Così fu costrutta la trìplice regione dei nostri monti; nella quale i serpentini verdastri e negreggianti compòsero insieme ai graniti silicei la gran catena delle Alpi Rètiche; le roccie trasformate e le arenarie rosse, rivestite al piede dalle ardesie, formàrono, a guisa d'alto antemurale, la catena delle Prealpi Orobie; nelle cui propàgini più meridionali i sedimenti calcari e dolòmici costituìrono un altro òrdine di monti, d'altezza poco meno che alpina.

A perturbarne e rialzarne le estreme falde, sopravenne in era meno lontana una seconda serie di moti sotterranei, sìmili a quelli che avèvano sollevato le interne regioni. E prodùssero quella interrotta zona d'emersioni pirossèniche e porfìriche che, come più flùide e meno silicee, sospìnsero a minore altezza le masse delle stratificazioni, fra le quali si apèrsero il varco.

Nel corso dei sècoli le aque travòlsero per il declivio dei monti alle pròssime parti del piano i frammenti delle varie rocce. A poco a poco si colmò il golfo che aveva deposto lo strato cretaceo, e che in màrgine a quello accumulava i varj conglomerati e le argille e marne subapennine. Le aque si ritràssero dall'altopiano; e lungo il cammino dell'ùltimo loro soggiorno, il tardo osservatore raccolse interi schèletri di balene e delfini, e gli ossami degli elefanti che vagavano per le circostanti maremme.

Le estreme convulsioni della volta terrestre sempre più sòlida e potente, nel dar leva alle grandi moli dei monti calcari, prodùssero le profonde squarciature dei laghi; torturàrono ed erèssero le stratificazioni degli ìnfimi colli; e qua e là sollevàrono a miràbili altezze i frammenti erràtici, sparsi sulle spalle dei minori monti.

Per òpera d'altre emersioni surgèvano intanto a levante, a ponente, a mezzodì le terre della Venezia, della Liguria, del Piemonte. Il sublime arco delle Alpi era proteso fra i due golfi, che l'Apennino aveva poscia divisi, sollevando in più tarda età le sue pendici ingombre dai sedimenti cretacei. Allora le onde del Mediterraneo non percòssero più le falde delle nostre montagne; e la frapposta regione fu un'ampia valle, aperta all'oriente, e cinta di continui gioghi nelle altre parti.

Così èrano preparati i lontani destini del pòpolo che doveva abitarla. – Le gèlide Alpi la dividèvano dalle terre boreali e occidentali; l'ùmile Apennino ligùstico appena la dipartiva dalle riviere del Mediterraneo; il corso delle aque confluenti in poderoso fiume la collegava all'Adriàtico; e ambo i mari la congiungèvano alla bella penìsola che tèngono in grembo. – Anche la nostra patria era Italia.

 

II.

 

Ma nel seno stesso della valle cisalpina, quella parte che noi descriviamo sortiva forme sue proprie, per le quali si distinse e dalla parte subapennina, e dalla Venezia, e dal Piemonte. La catena delle Alpi, partendo dal M. Stelvio, scorre a occidente fino al Gottardo; e quivi con sùbito àngolo si volge poco meno che a mezzodì fino al M. Rosa. Con altro simil àngolo si dirama dallo Stelvio un'altra catena, che si spinge ben avanti nella pianura, separando dalla valle dell'Adige i nostri fiumi tributarj del Po. Laonde, se a ponente giganteggia il M. Rosa, a levante sùrgono a pròssima altezza il Cristallo e l'Adamo. Questa Catena Camonia non è alpe: non circonda l'Italia: solo divide l'interno e domèstico dominio dei due primieri suoi fiumi: ma nella maggior sua mole è costrutta delle stesse emersioni serpentinose e granìtiche; ed è ammantata di larghi ghiacciaj, e così eccelsi, che, tranne il Monte Bianco e poche altre vette delle Alpi occidentali, ella oltrepassa tutte le altre sommità dell'Europa. – Per tal modo, dalle Alpi Pennine alle Prealpi Camonie, un ampio semicerchio chiude a settentrione, e sèpara dal dominio non solo dell'Inn e del Reno, ma della Sesia, del Ròdano e dell'Adige, quella parte della regione cisalpina onde il Ticino, l'Adda, l'Ollio e il Mincio discèndono al Po.

 

III.

 

Una zona di grandi e profondi laghi, che forma corda all'arco delle suddescritte montagne, accoglie alle loro falde le piene precipitose, che i digeli e le piogge chiàmano dalle riposte valli; e porge le aque rallentate e chiare ai successivi fiumi; le cui lìmpide correnti, quasi nulla apportando e sempre togliendo, potèrono incavarsi il letto sotto al livello della pianura. E il màrgine estremo di questa, elevàndosi alquanto anche su le pròssime campagne, è durèvole monumento delle alluvioni che quei fiumi diffondèvano lungo le loro sponde, allorchè, scendendo da valli ancora senza lago, scorrèvano tòrbidi e superficiali, come vediamo i fiumi alpini del Piemonte e i torrenti dell'Apennino, che ingòmbrano di continue ghiare il letto del Po.

Benchè codeste alluvioni fluviali ascèndano a enorme congerie, pure da tempo immemoràbile il gran fiume non elevò il suo letto, come fu sì communemente supposto e ripetuto. Le tòrbide fiumane dell'Apennino arrìvano in poco d'ora al Po; solo quando esse vanno già declinando, si fanno minacciose le piene delle interne aque del Piemonte; ùltimi sopragiùngono il Ticino, il Mincio e gli altri nostri fiumi, rattenuti e riposati nei laghi; e corrodendo con aque più gonfie che tòrbide le recenti alluvioni, le sospìngono a poco a poco per l'alveo del fiume a colmare le sue marine. – La stessa miràbile successione di movimenti che conserva stàbile e lìbero il letto del Po, ne mòdera eziandìo le aque; e anche solo a colmarne il vasto alveo si spèndono già parecchi giorni di piena impetuosa.

La geografìa dei fiumi, nascente ancora, si ristringe quasi solo a compararne le lunghezze, e a dir maggiore il fiume le cui fonti sono più lontane dalle foci e più spazioso il bacino, mentre anche per essi, come nei regni umani, la vastità non è misura della potenza. Il corso del Reno è lungo il doppio di quello del Po, ma il volume d'aqua del fiume itàlico sùpera quello del Reno, anche dove il fiume germànico, raccolti tutti i suoi tributarj e non per anco diviso, spiega il sommo della sua pompa. – Ora, questo paragone dei fiumi simboleggia in breve fòrmula tutte le circostanze fondamentali d'un paese.

Il corso continuo dell'Adda rappresenta uno strato aqueo, il quale coprisse a notèvole altezza tutta la superficie del suo bacino; ma le aque che còlano annualmente nella Senna, diffuse su tutta la superficie del suo bacino, appena giungerèbbero alla sèttima parte di quell'altezza. Che avviene dunque delle piogge che discèndono sotto quel cielo tanto men sereno del nostro? – Nel bacino della Senna cade veramente men aqua che fra noi; e cade poi dispersa in minute e frequenti pioggie, che anche nell'estate fanno tetro il cielo e fangosa la tetra, svaporando largamente prima di giùngere al fiume, il quale appena riscuote dalla vasta campagna un terzo della pioggia che vi scende. Nella nostra valle, la stagione più piovosa è l'autunno; men piovosa è la primavera, meno ancora l'estate; anche nella parte più bassa e aquidosa della pianura, il sereno regna la metà dei giorni dell'anno; nella zona media, più della metà; sull'altopiano, più ancora; e il maggior nùmero di questi lìmpidi giorni è nell'estate. Le aque scèndono adunque in generose piogge; poca parte si sperde in vapori; il più scorre impetuoso ai fiumi; onde il Po riceve la maggior parte delle aque pioventi nel suo bacino, e l'Adda più ancora.

L'Adda non segue col suo deflusso l'andamento delle piogge, perchè queste prèndono piuttosto forma di nevi, riservate ad alimentarla solo fra gli ardori della successiva estate; cosicchè, pòvera nelle due stagioni piovose, si gonfia costantemente in giugno e luglio. Il Po, che aggiunge allo stillicidio delle Alpi il tributo meno glaciale degli Apennini, corrisponde all'andamento delle piogge, gonfiàndosi in primavera e in autunno, e rallentàndosi fra gli ardori dell'agosto. – Ma la Senna serba un tenore affatto inverso a quello dei nostri fiumi, poichè s'ingrossa solo nella stagione invernale; quindi nella Sciampagna e nell'Isola di Francia regna un òrdine fondamentale ben diverso da quello che vediamo nelle nostre pianure.

Colà l'agricultura è raccomandata alla frequente e parca aspèrgine delle piogge estive, e poco potrà mai valersi delle aque fluviali, poichè vèngono meno a misura che cresce il bisogno delle irrigazioni. Da noi l'estate è costante e àrida; e la pianura erràtica e silicea potrebbe per sè inaridirsi, come le steppe del Volga, che pur giàciono sotto questa medèsima latitùdine, se nei recessi della regione montana non avèssimo il tesoro dei ghiacci e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col crèscere dell'arsura. Ma poi le aque estive sarèbbero un dono inùtile, se accanto alle loro correnti non giacèssero vaste campagne, atteggiate a mite e uniforme declivio, non formate di materie argillose e tenaci, ma sciolte e àvide d'irrigazione; e infine sarèbbero men preziose ed efficaci, se fòssero più frequenti e sparse le piogge, e meno assidua la luce del sole estivo.

Finalmente i laghi nostri non hanno solamente uno specchio di superficie senza profondità, come il vasto Bàlaton; ma discèndono sino a centinaja di metri sotto il livello del mare; e giacendo appiè d'alti e continui monti che devìano i venti boreali, e sull'orlo d'un piano che s'inclina alle tèpide influenze dell'Adriàtico, non gèlano mai. L'interna circolazione, promossa d'inverno dalla specìfica gravità degli strati più freddi, e rallentata nella stagione estiva dalla comparativa leggerezza degli strati più caldi, mòdera talmente la loro temperie, che a mediocre profondità si serba perenne e immutàbile. Queste masse d'aqua, incassate lungo il màrgine superiore d'una landa uniforme di materie erràtiche e incoerenti, non solo si effòndono in fiumi, ma sèmbrano penetrare interne e sotterranee, stendendo fra le alterne ghiare quegli strati aquei, che le annue nevi e piogge rèndono più o meno copiosi, e che per la successiva inclinazione del piano si fanno sempre più pròssimi alla superficie. E forse nei primitivi tempi, quando l'arte non li esauriva avidamente a sussidio dell'agricultura, riempièvano di limpidi stagni le pianure, non ancora spianate da secolari fatiche. Era questa dunque in orìgine una larga zona di terre palustri, non per impedimento recato da suolo argìlloso o còncavo al corso d'aque fluviali, ma per inesàusto afflusso d'interne vene, che, sgorgando dalla profonda terra, non risèntono i geli del verno, se non dopo lungo soggiorno sulle aperte campagne.

Per tal modo le alpi eccelse e gli abissi dei laghi, i fiumi incassati e l'uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee e le aque tèpide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze marine, le generose piogge e l'estate lùcida e serena, èrano come le parti d'una vasta màchina agraria, alla quale mancava solo un pòpolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero. Altre miràbili attitùdini delle terre, delle aque e del cielo si collegàvano a preparare le riviere del Benaco a un pòpolo di giardinieri, che le abbellisse d'olivi e di cedri; e chiamava un pòpolo di vignajuoli a tender di viti le balze su cui pèndono i ghiacci della Rezia. Il progresso dell'incivilimento dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo giàciono così predisposti gli elementi di qualche gran compàgine, che attende solo il soffio dell'intelligenza nazionale. Da ben poche generazioni si accorse il pòpolo britànnico di vivere in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d'aver sotto i piedi i sotterranei tesori della forza motrice. – Perlochè può forse avvenire che più d'un pòpolo che largheggia con noi di superbi vaniloquj, non abbia per avventura inteso ancora il verbo de' suoi proprj destini.

 

IV.

 

I primi uòmini che si spàrsero per questa terra transpadana, vi si avvènnero in due ben dissìmili regioni di pari ampiezza, l'una montuosa, l'altra campestre. Le Alpi sublimi, nevose, inaccesse, abbracciàvano un labirinto d'altre catene di poco minore altitùdine ed asprezza, entro cui stàvano alte e recòndite valli, fra loro disparate, chiuse al piede da laghi o da passi angusti, che nei tempi primitivi, quando non v'era arte di capitani, opponèvano impenetràbile serraglio alle orde vaganti. – La regione campestre, àrida e sassosa nella parte superiore, più sotto era piena di scaturìgini e di ghiare aquidose, interrotta da dorsi di bosco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiumi, ma in preda alle lìbere inondazioni nelle basse règone, e fra le curve dei loro serpeggiamenti.

Come vediamo tuttavìa nelle sparse reliquie della vegetazione virgìnea, surgèvano nude le vette alpine, ammantati di pàscoli naturali i larghi dorsi della regione calcare, irte di selve conìfere le somme pendici, più sotto frondose di faggi e di betule, poi di quercie, d'àceri e d'olmi, che ampiamente scendendo unìvano i monti ai colli e all'altipiano, vestito d'èriche e sparso di rara selva. La campagna uliginosa e le pingui golene dei fiumi dovèvano esser dense di sàlici e d'alni; lungo le tèpide scaturìgini delle correnti sotterranee, doveva qua e là verdeggiare, e fors'anche nel verno, qualche spontaneo lembo di prato. Ma sui clivi eretti al vivo sole, sulle miti riviere dei laghi ignare quasi di nebbie e di geli, fra le suavità d'una flora naturalmente australe, poteva facilmente mitigarsi anche la fiera vita del selvaggio. – Folte turme di cervi, d'uri e d'alci dovèvano pàscere la pianura, lungo i plàcidi stagni ai quali il castoro lasciò il nome di Bèvera e Beverara; le generazioni, ora fra noi quasi estinte, de' dàini e de' camosci dovèvano animare il silenzio dei recessi montani. Ma solo l'amor della caccia, o il timore dei nemici, poteva incalzare le prime tribù di rupe in rupe sino a piè di quegli òrridi precipizj, ove le vallanghe e la tormenta e il notturno rintrono de' ghiacciaj atterrìvano le menti superstiziose, e dove il forte alpigiano, che ha cuore d'inseguir veloce le pedate dell'orso, anche oggidì non sa, in faccia alla taciturna natura, difèndersi da quella tetra e arcana ansietà ch'egli chiama il solengo.

 

V.

 

Chi fùrono i primi abitatori dell'Insubria?

È vano il crèdere che l'Europa ne' suoi sècoli selvaggi fosse altrimenti dalle terre che tali rimàngono fino ai nostri giorni. L'Europèo trovò l'Amèrica e l'Australia in quello stato in cui pare che l'Asiàtico trovasse l'Europa. Qui pure, prima delle grandi nazioni dovèvano èssere i pìccoli pòpoli, e prima dei pòpoli le divise tribù. E ogni tribù, che abitava una valle appartata e una landa cinta di paludi e interrotta di fiumi, ebbe a vìvere primamente solitaria di lingua e di costume, nell'angusto cerchio che le segnàvano intorno le tribù nemiche. L'indagare a quale appartenesse delle grandi nazioni che si svòlsero poi nel seno dei sècoli e delle lente preparazioni istòriche, è propòsito falso e inverso; è come investigare da qual fiume derìvino i ruscelli, che al contrario càdono dai monti a nutrire i fiumi. Quindi sarebbe tempo ora mai, che non si andasse fantasticando se provènnero dai Celti, o dagli Illirj, o dai Traci quelle primitive genti, le quali fùrono lungo tempo avanti che l'incivilimento orientale, penetrando colle sue colonie, coi sacerdozj, coi commercj, colle armi della conquista e colle miserie degli esilj e della servitù, propagasse lungo tutti i mari e i fiumi d'Europa quell'arcana unità linguistica, che con meraviglia nostra ci annoda all'India e alla Persia; la quale, con inferiori òrdini d'unità sempre più divergenti, costituì nel corso del tempo ciò che noi chiamiamo la stirpe cèltica, la germànica, la slava. Se v'è in Europa un elemento uniforme, il quale certo ebbe radice nell'Asia, madre antica dei sacerdozj, degli imperj, delle scritture e delle arti, v'ha pur anco un elemento vario; e costituisce il principio delle singole nazionalità; e rappresenta ciò che i pòpoli indìgeni ritènnero di sè medèsimi, anche nell'aggregarsi e conformarsi ai centri civili, disseminati dall'asiàtica influenza. Le varie combinazioni fra l'avventizia unità e la varietà nativa si svòlsero sulla terra d'Europa; non approdàrono già compiute dall'Asia. Le grandi lingue si dilàtano in ampiezza sempre maggiore di paese; e danno a pòpoli di diversa e spesso inimica orìgine il mendace aspetto d'una discendenza commune. La Francia, terra pur d'unità e di centralità quant'altra mai, non cancellò ancora nel suo seno le vestigia delle quattro lingue che Cèsare vi udì tra l'Adour e il Reno, ciascuna delle quali aveva già forse sommerse e spente più favelle di primigenie tribù. In Haiti, la favella dei Bianchi e il volto dei Neri dimòstrano quanto sia grande il moderno errore di classare le stirpi per lingue. In Germania sono evidenti reliquie di Celti, di Lettj, di Slavi; la Germania non può spiegare, con ciò ch'ella crede sua prisca lingua, i nomi de' suoi fiumi, e rare volte quello delle sue più illustri città. Quanto più si risale la corrente del tempo, ogni nazionalità si risolve ne' suoi nativi elementi; e rimosso tuttociò che vi è d'uniforme, cioè di straniero e fattizio, i fiochi dialetti si ravvìvano in lingue assolute e indipendenti, quali fùrono nelle native condizioni del genere umano.

 

VI.

 

Tutti gli scrittori, mentre pàrlano di colonie approdate in Italia dall'Oriente, e di tribù venturiere discese tratto tratto dalle Alpi, dìcono pur sempre che l'Italia ebbe più antichi abitatori. E per dinotare che parlàvano lingue proprie, e non riferìvano l'orìgine ad alcuna delle grandi nazioni allora fiorenti o fiorite prima, li dissero aborìgeni (Italiæ cultores primi aborigenes fuere. Just.); li dìssero abitatori di monti, frugali, forti, agresti, duri all'armi, duri come le ròveri delle selve native (durum in armis genus. Liv.; – duro de robore nati. Virg.). Nè quelle stirpi fùrono mai spente, nè cacciate altrove; e più volte ristauràrono la popolazione del paese aperto, esterminata da ràpide calamità. E tuttavìa le vediamo discèndere ogni anno ad assìsterla nelle fatiche dei campi, e tenerla a nùmero nelle arti delle città; – fondamento e nervo della nazione; – principio sempre redivivo di quella varietà d'ìndole e d'ingegno, che ammiriamo nei sìngoli pòpoli d'Italia, e che alcuni vanamente deplòrano. Codesta progenie fu la materia prima, che l'influenza orientale improntò solo della sua forma.

 

VII.

 

Le rive del Po èrano note ai navigatori fin da quei tempi in cui prèsero forma le poètiche legende della fàvola greca; e pare che sotto il nome d'Erìdano fosse uno dei fiumi di quell'angusto orbe che la poesìa popolò de' suoi sogni. Ivi presso era approdato Antènore, fuggendo l'Asia desolata; qui le Elìadi si èrano consunte in làcrime; qui la tradita Manto celava il suo nato nell'ìsola del lago etrusco; qui Cigno regnava sul fiume dei Lìguri; qui Ercole, il sìmbolo della potenza fenicia, nella sua via verso occidente, aveva incontrato «nella terra palustre (xÇrow malyakñw) sparsa di sassi caduti dal cielo, l'esèrcito impertèrrito dei Lìguri, contro cui gli era vano il valore e l'arco» (Eschilo ap. Str.); questa era la terra dove i Greci compràvano l'elettro del Bàltico, e i cavalli che dovèvano vìncere le palme d'Olimpia. – Per tal modo il nome della nostra patria s'intesse ai primordj dell'arti belle ed ai sìmboli dell'intelligenza nascente.

Quegli antichi Orobj, Leponti, Isarci, Vennj, Camuni. Trumplini, che si ascrìvono alle nostre valli, sono ombre senza persona; gli scrittori nulla aggiùnsero al nudo nome. Dissero solo che avèvano fondato la città di Barra, madre di Como e Bèrgamo e da lungo tempo perita. Forse era all'uso itàlico sovra ameni colli, presso Baravico e Bartesate, appiè del Monte Baro, tra l'Adda e il Lago Eupili; e la prisca Como era forse intorno al poggio del Baradello; e Bèrgamo, pur sovra un colle, se non trasse il nome dalla madre patria, lo trasse forse da quel Dio Bèrgimo, al quale nelle sue valli si pòsero tante iscrizioni votive. Ma quali pur si fòssero quelle vetuste genti, giova notare, con quali pòpoli si pòsero in successiva ìntima connessione, nel trapasso che fècero dallo stato d'isolate tribù a quella vasta orditura di cose, che le rese membra d'una gloriosa nazione. Solo dopochè sìasi annoverato quanto in esse penetrò d'adottivo e straniero, potrà forse per eliminazione chiarirsi in qualche modo ciò che vi rimase di proprio e di nativo.

 

VIII.

 

Abbiamo già visto come il nome dei lìguri si nasconda nella notte dei tempi. Quei poggi dell'Apennino lìgure, che noi chiamiamo la Collina, si strìngono ben presso la riva del Po, contro la foce della nostra Olona; ambo le rive del Ticino èrano popolate ab antico da un pòpolo lìgure (antiquam gentem Lævos Ligures incolentes circa Ticinum amnem. Liv.); antica stirpe lìgure si dìssero i Taurini e gli altri Piemontesi (In alterâ parte montanorum... Taurini ligustica gens aliique Ligures. Strab.); il nome dei Liguri nei Fasti consolari si stende fino ai pòpoli del lago d'Idro (Liguribus Stonis); si stende nelle valli del Taro e della Scultenna, lungo il confine toscano; in una parola, pare diffòndersi dapprima in tutta la valle del Po, il cui più antico nome (Bodinco) è nella lingua dei Lìguri, e a poco a poco ristrìngersi all'Apennino, come di popolo che da vaghe conquiste si raccolga per infortunio di guerra all'asilo nativo. Perciò non diremo che gli aborìgeni dell'Apennino e delle Alpi fòssero d'un'ùnica stirpe o d'un'ùnica lingua; questo nome poteva indicare un nodo posteriore di religione, di conquista o di federazione; poteva aver cominciato da loro; poteva aver cominciato da noi. Un decreto del Senato Romano, scritto 117 anni avanti l'era nostra, nel comporre una controversia di confini nella Liguria, annovera certi fiumi, che sèmbrano nella stessa lingua in cui sono molti nomi di luoghi del nostro paese: (fluvius Neviasca, Veraglasca, Tutelasca, Venelasca). Poco sappiamo di quelle antiche genti, non illustri in arti e in lèttere; ma pare che avèssero lontane relazioni nell'Iberia e con varj luoghi del Mediterraneo; pare che sin d'allora coltivàssero a ronchi le pendici dei monti, che munìssero di mura le loro castella, in ciò mostràndosi al tutto diversi dai Germani e dai Celti. Erano robusti, onde si diceva che gràcile Lìgure valeva più che fortìssimo Gallo; erano valenti frombolieri; portavano scudi di rame; onde alcuni li giudicàrono Greci (Quia æreis scutis utuntur Græcos eos esse ratiocinantur. Strab.); onoràvano un Dio Pennino, e gli intitolàvano i più alti monti; ma questo nume era commune ai popoli cèltici, come il Dio Camulo e il Dio Bèrgimo, il Dio Tillino e il Dio Nottulio; commune coi Celti era in alcuni di loro il costume dei lunghi capelli (Ligures capillati); Walckenaer nota una naturale loro alleanza con quelle nazioni. E finalmente i dialetti della Liguria vivente hanno la proprietà commune ai nostri dialetti e ai piemontesi, e a nessun altro d'Italia, dei due suoni gàllici dell'u e dell'œu. – Diremo adunque che il più antico vìncolo di lingua e di costumi fu tra il nostro paese e la Liguria; e che sembra già invòlgere un più lontano nodo coi Celti.

Se verso il Ticino i nostri aborìgeni si collegàvano ai Lìguri, verso le valli dell'Ollio e dell'Adige, il nome degli Orobj trapassava confusamente in quello degli euganei, gente antica (præstantes genere Euganeos. Plin.), fondatrice di molte pìccole città (quorum oppida xxxiv enumerat Cato. Plin.), e aveva tutto il paese che si stende fino al mare.

Lungo il basso Po fiorìvano anche gli umbri, aborìgeni pure, e tenuti i più antichi d'Italia (Umbrorum gens antiquissima Italiæ. Plin.); e avevano empito di città (trecenta eorum oppida. Plin.) le valli del Tebro, e i gioghi dell'Apennino, e la marina ove discende il Po, sino al Monte Gargano. Èbbero arti e lèttere e monumenti; e l'ìndole loro era tale che potèrono intrinsecarsi coi pòpoli d'ambo le estremità d'Italia; onde ad alcuni pàrvero congèneri ai Latini ed agli Etruschi, ad altri pàrvero Pelasghi, ad altri Galli, non ostante l'uso non gàllico di murare le città mìnime; e si volle che ne venisse ai pòpoli della nostra pianura il nome d'Isombri o di Symbri, dato dai Greci, non però dagli Italiani, agli Insùbri. Ma questi scrittori, fra i quali Amedeo Thierry, non conoscèvano quella radicale differenza di dialetti che distingue l'Umbria Tiberina dalla Marìtima; nella quale soltanto, e per posteriore influenza dei Senoni, rimàsero vestigia di Celti. Onde se uno scrittore antico, ripetuto poi da tutti, li disse propàgine di Galli, dinotò forse solo il nesso loro coi pòpoli dell'alta Italia.

Ma i veneti approdati dall'Asia si èrano annidati nei porti della Laguna. Avèvano lingua propria (sermone diverso utentes. Polyb.); e questa, nel trasmutarsi in dialetto latino, conservò quella mìnima varietà e somma dolcezza d'articolazioni, per cui fa quasi un'isola linguistica fra gli aspri dialetti che si pàrlano lungo il semicerchio delle Alpi. Il che palesa assurda l'opinione che i Vèneti fòssero un ramo divelto dall'àrbore slavo (ein abgerissener Zweig der grossen Volkstammes der Slawen. Mannert); poichè la stirpe slava, al contrario, spiega in tutte le sue favelle la màssima attitùdine a moltiplicare e variare i suoi orali, sicchè si potrebbe ben appellarla, fra tutte, la nazione pronunciatrice.

Una colonia orientale, sotto il nome di pelasghi approdata alle foci del Po, vi aveva fondato Spina; poi si era insinuata fra gli Umbri; e quindi per tutta l'Italia meridionale, propagando istituzioni religiose e civili, e stringendo forse quel nesso linguistico che congiunge il latino al greco, ed entrambo alle riposte orìgini indo-perse.

 

IX.

 

Gli etruschi, le cui memorie cominciàvano milleducento anni avanti l'era nostra, si dicèvano venuti dalla Lidia; ma Dionisio, nato in quelle parti, li giudicò diversi da qualunque altra gente per lingua e costume. Onde, forse non venne dall'Asia il pòpolo etrusco, ma solo il consorzio sacerdotale, che ammaestrò le ingegnose tribù aborìgene, e piegò ad uso loro le forme indubiamente orientali della scrittura etrusca, lasciando sopravìvere dei costumi nativi tuttociò che non ripugnava alle grandi iniziazioni sociali. Compiuto l'ordinamento delle dòdici repùbliche di Toscana, la lega etrusca, progressiva allora come vediamo oggidì le nazioni che rièmpiono di loro colonie l'Amèrica e l'Africa, spinse le armi al di qua dell'Apennino fino all'Adige e alle Alpi, fondando altre dòdici città. – Ma se ciò è vero, non si può spiegare come la terra toscana dischiuda tanto tesoro di sculture, di pitture e d'iscrizioni, e nulla di ciò si scopra fra noi. Forse il dominio etrusco fu qui poco più che mercantile e fluviale; onde Adria, ìsola delle lagune e città più marina che terrestre, ha bensì qualche reliquia di vera città etrusca; ma Màntova e Fèlsina e le altre, per opposizione degli aborìgeni o per altrui rivalità, non vènnero a quella cultura ed eleganza onde fiorìrono le interne sedi della toscana potenza. E in vero, pare istoria di rivalità moderne quella ove leggiamo: «E se l'un pòpolo (l'etrusco) tentava spedizioni verso qualche gente, l'altro (l'umbro) si studiava impedirla; onde avvenne che i Tirreni avendo mandato un esèrcito contro i Bàrbari litorani del Po, e avendo vinto, e dopo essèndosi nell'abondanza rilassati, gli Umbri li assalìrono. Dal che avvenne che in quei luoghi si stabilìrono colonie tirrene ed umbre, delle quali maggiori fùrono le umbre, per la vicinanza maggiore di questi pòpoli».

Niebuhr, nel derivare il pòpolo toscano dalle Alpi, non osservò che i monti, su cui la lega etrusca pose le sue mura suntuose (jugis insedit etruscis, Virg.), hanno mediocre altezza, e i loro continui gioghi fanno quasi un'alta via tra valle e valle. Al contrario i nostri monti prealpini hanno cime alte, fredde, inabitàbili, che divìdono le terre e non le collègano; e le valli appartate, anguste, non consèntono grandi aggregazioni di pòpoli, e molto meno in tempi senz'agricultura e commercio. Non sono questi i luoghi ove le menti potèvano avvicinarsi e scaldarsi, e inventar leggi senza esempio e arti senza modello, così lungi dal mare e dalle vie degli altri pòpoli civili. Se anche fosse vero che gli Etruschi fòssero venuti dai nostri monti, il che non è avvalorato da monumento alcuno, nè dall'aspetto e dall'ìndole dei pòpoli, nè dal testimonio delle lingue, ancora sarebbe solo una materiale derivazione dei corpi, e non delle idèe, delle leggi, della società; ossìa di ciò appunto che giova sapere.

Ma da qualunque punto si fosse mossa, codesta lega anseàtica dell'evo antico teneva tutti i punti dell'Italia e delle ìsole, e involgeva co' suoi commercj, co' suoi riti, col suo diritto delle genti le tribù aborìgene, in tempi anteriori all'era ìtalo-greca. Anzi pare che intraprendesse grandi òpere alle foci del Po, e costruisse i primi àrgini sulle sue rive.

 

X.

 

La civiltà era dunque surta per noi tremila anni sono, fra il commercio dei Liguri, deli Umbri, dei Pelasghi, degli Etruschi. L'arte di murare, ignota allora oltralpe, la pittura, la modellatura, l'uso di convìvere nelle città con gentili costumi e pompe eleganti e spettàcoli ingegnosi, di contrasegnare con monumenti le vicende della vita pùblica e privata, di decorare con veste religiosa i provedimenti intesi al progresso dei pòpoli, avrèbbero in poche generazioni elevato a quasi moderna cultura il nostro paese; e la navigazione tirrena l'avrebbe congiunto a tutte le genti civili. La cultura del frumento era diffusa tra noi col culto di Saturno; i colli èrano adorni di viti; e già il commercio recava ai bàrbari d'oltremonte questi dolci frutti della civiltà. Ben altra sarebbe l'istoria d'Europa, e tanti sècoli non sarebbero trascorsi stèrili e ciechi alle genti del settentrione, se gli Etruschi avèssero propagate sin d'allora lungo il Reno e il Danubio quel loro vivajo di città, generatrici di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perchè federativo e moltìplice poteva ammansare la barbarie senza estìnguere l'indipendenza; e non tendeva a ingigantire un'ùnica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d'un dominio senza nazionalità.

 

XI.

 

Èrano già corsi seicento anni dai primordj dell'era etrusca, e mancàvano ancora altretanti ai primordj dell'era cristiana, quando una grave e durèvole calamità fermò il corso del nostro incivilimento, e differì di quattro sècoli lo sviluppo dell'intelligenza umana fra noi. Prima che la consuetùdine colle città etrusche avesse terminato d'ingentilire i circostanti aborìgeni, cominciò ad inoltrarsi fra noi un altro principio sacerdotale, che dalle arcane sue sedi nell'Armòrica e nelle Isole Britànniche dominava vastamente una famiglia di nazioni, varie di lingue e d'orìgine, ma tutte simili nell'inculto costume, e comprese dagli antichi sotto il nome di Celti.

I Drùidi non ergèvano, come gli Etruschi, i loro altari in suntuosi recinti di città consacrate, ma nei recessi di vietate selve; e non volgèvano la religione a sollievo ed ammaestramento della vita, ma col terrore di secrete dottrine tramandate da bocca a bocca, e con riti crudeli, incatenàvano i pòpoli a una prima forma d'improgressiva civiltà. Immolàvano vìttime umane; ora ardendo vivi i proscritti e i prigionieri entro masse di fieno e di legna, disposte a qualche forma di simulacri colossali (fœni colosso... defixo ligno. Strab.), ora consegnàndoli a furibonde sacerdotesse, che li scannàvano sopra certe caldaie di rame, e ne raccoglièvano in nefande pàtere il sangue. Altre maghe, tutte dipinte di nero, scapigliate, nude, con faci in mano, celebràvano riti notturni; altre, che si chiamavano le Sene, facèvano vita solitaria sugli scogli del mare, pronunciando nel furore delle tempeste temuti oràcoli. Le vite si redimèvano col sacrificio d'altre vite; e i Drùidi ne facèvano mercato coi guerrieri arricchiti dalla vittoria; onde nelle selve sacre si accumulàvano grandi tesori, che giacèvano all'aperto custoditi dal terrore del luogo o sommersi nelle temute aque dei sacri stagni (¤n ßeraÝw lÛmnaiw. Strab.). Tutta la dottrina druìdica instillava il disprezzo della morte; e teneva le menti così fisse nel pensiero d'un'altra vita in tutto sìmile alla terrena, che alcuni dàvano a prèstito, con patto d'èssere pagati nell'altro mondo. Alla morte dei capitani si abbruciàvano col cadàvere i cavalli; e talora i seguaci prediletti (servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat, unâ cremabantur. Cæs.); talora le spose, per affettato sospetto di veleno. Ne tenèvano anche più d'una; e avèvano sovr'esse e sulla prole diritto di vita e di morte (In uxores... in liberos vitæ necisque... potestatem. Cæs.), e per provare la loro fedeltà, i gelosi e fanàtici guerrieri talora legàvano l'infante a una tàvola, e lo gettàvano tra i gorghi d'un fiume; e se periva, lo avèvano per giudizio divino di non legìtima origine, e pugnalàvano la novella madre; la quale giaceva, durante la stolta prova, nella più tremenda angoscia. Il padre non si curava altrimenti dei figli, nè si degnava ammètterli al suo cospetto, finchè non avèssero età da comparirgli inanzi armati; onde era quello un vìvere senza alcuna domèstica dolcezza.

I combattenti decapitàvano sul campo i nemici caduti, e ne ostentàvano i teschj confitti sulle lance, o appesi al petto dei cavalli. Ogni casa nòbile li serbava in un'arca, nè a peso d'oro ne consentiva mai il riscatto (neque si quis auri pondus offerret. Strab.); e ogni generazione si pregiava di recare altri crani ad ingrossare quel tesoro di barbara gloria. I teschj più illustri, legati in oro, stàvano nei templi ad uso delle sacre bevande. Alle porte delle case s'inchiodàvano teste di lupi e d'altre belve; onde agli Itali e ai Greci, i quali solèvano rimòvere religiosamente dalle città ogni avanzo di morte, se ponèvano il piede in un casale di Celti, pareva d'entrare in uno squàllido ossario.

Vivèvano di pastorizia o d'instàbile agricultura, senza città, senza privato possesso, in clani, o communanze di famiglie, ripartite numericamente sulle terre, come un esèrcito sotto le insegne, col dèbito di conferire certe misure di grano e di birra e certo nùmero di montoni e di porci alla mensa del brenno, ossìa prìncipe. Dimoràvano all'aperta, e per lo più lungo le aque, in tugurj rotondi, costrutti di tàvole e graticci e terra pesta e con acuto tetto di strame; non si curàvano di supellèttili, dormìvano sulla paglia; mangiàvano a tàvole rotonde assài basse, sedendo sopra manìpoli di fieno, coi loro scudieri seduti in altro cìrcolo dietro ai signori; bevèvano in giro a pìccole e frequenti riprese, in una sola conca di terra o di metallo; appena conoscèvano il pane; mangiàvano molta carne; e ciascuno «ne prendeva a due mani un gran pezzo, e lo addentava come un leone» (leontvdÇw taÝw xersÜn Žmfot¡raiw aàrontew ÷la m¡lh, kaÜ Žpodknontew. Posid. ap. Ath.); dopo il convito si provàvano in duelli, che spesso èrano mortali, nè altra pare l'orìgine dei gladiatori che tardi s'introdùssero fra i Romani. Sulle persone loro facèvano pompa d'armi dorate, di collane e braccialetti d'oro, di tracolle lavorate in argento e in corallo, strascinando al fianco destro lunghe sciàbole, talvolta di rame temprato; portàvano saj vergati di splèndidi colori, e grandi scudi quadrilunghi con imprese gentilizie, rozzamente dipinte o intagliate; e sopra gli elmi affiggèvano figure d'augelli o di fiere, o alte corna di bùfali o di cervi, e grandi pennacchj ondeggianti; nutrìvano lunghi mustacchi e lunghe chiome tinte in rosso; e alcune nazioni si dipingèvano d'azzurro le braccia e il petto; combattèvano più sui carri che sui cavalli. Talora nelle battaglie, per insultare il nemico, o per brutale audacia, o per disperazione, gettàvano l'elmo e il sajo, e combattèvano nudi; tanta era l'esaltazione cavalleresca, nutrita in quelle rozze menti dalle memorie dei feroci antenati, ripetute dai bardi adulatori, che coll'arpa in collo erràvano di casale in casale. – Tutte queste usanze di tàvole rotonde, di scudi blasonati, di cimieri, di trovatori, di duelli, e di prove dell'aqua e del foco, non estinte nelle Isole Britànniche e non obliate mai del tutto nelle Gallie, ripullulàrono nella nuova barbarie del medio evo; e ne scaturì quella poesìa romanzesca, che i freddi poeti legàrono in rima.

I Drùidi, paghi di tener sotto il terrore dei loro misterj e delle formidàbili loro maledizioni molte bàrbare tribù, e di tesoreggiarne le lontane prede, non si curàrono mai di partecipar loro quella qualunque scienza che avèvano; nè sapèvano tampoco tenerle in pace, onde tutta la terra cèltica era un campo di discordia, di rapina e di sangue (In omni Galliâ factiones. Cæs.). Uscìvano tratto tratto da quel perpetuo tumulto le tribù più mìsere o le più audaci, e andàvano altrove in cerca di preda o di terre, ove pasturar bestiami, o spàrgere le passeggere sèmine d'un'agricultura vagabonda. Pare che la mano arcana dei Drùidi reggesse quelle lontane spedizioni; poichè dalla sede dei loro collegj le turbe conquistatrici si èrano precipitate in Ispagna, in Italia, sul Bàltico, in Boemia, lungo il Danubio, insultàvano agli Dei della Grecia in Delfi, s'accampàvano sull'Ellesponto, e preludendo alle crociate dei loro pòsteri, fondàvano un regno gàllico nell'Asia Minore.

 

XII.

 

Ma se i Celti non amàvano chiùdersi nelle città, non si può dire che le odiàssero e distruggèssero con quello stolto furore che mille anni più tardi si vide nei Vàndali e negli Unni Scorrendo velocemente fra città e città, forse perchè non sapèvano come espugnare quei ricinti di pietra (Gens ad oppugnandarum urbium artes rudis... segnis intactis assideret muris. Liv.), andàvano a sorprèndere genti lontane, e tornàvano onusti di preda. Quando poi le terre giacèvano desolate e derelitte, allora qualche tribù dimandava di potersi accasare con patti di pace su quegli spazi, che altri inutilmente possedeva (egentibus agro quem latius possideant quam colant... partem finium concedant. Liv.). E così le antiche città itàliche rimanèvano come ìsole solitarie in mezzo a lande, sparse di bàrbari casali; e potèvano udir senza spavento dalle mura le strane voci e i càntici di guerra. Laonde, quando gli Etruschi, dopo aver lungamente conteso ai Galli le nostre pianure (cum Etruscis... inter Apenninum Alpesque sæpe exercitus gallici pugnavere. Liv.), si ritràssero nelle castella alpine, non solo Màntova, Adria, Ravenna, Arìmino rimàsero salve, ma forse lìbere, o per noncuranza cavalleresca dei bàrbari, o per condizione di pace, o per qualche antico nodo di religione o di sangue che i nostri aborìgeni avèssero già con quelli dell'altro declivio delle Alpi. Màntova si conservò divisa in tre stirpi, tra le quali la più potente rimase quella degli Etruschi (Mantua tres habuit populi tribus, et robur omne de Lucumonibus. Serv.). Melpo fu distrutta, ma solo due sècoli dopo. E in poca distanza delle antiche città mercantili, i Galli elèssero le sedi dei loro brenni e delle loro adunanze militari; cioè Beloveso, poche miglia a ponente di Melpo, in un casale posto là dove il torrente Sèveso, giunto sul piano palustre, prendeva forma di continuo e plàcido fiume; e gli diede il nome di Mediolano, commune a diversi altri luoghi delle Gallie e della Britannia (Mediolanum, pagus olim; nam per pagos habitabant. Strab.), e il nome di Breno rimase a una terra presso la città di Bèrgamo, e ad un'altra presso la città dei Camuni (Cividate), e ad altri luoghi del nostro paese. – È uno stato di cose che si vede tuttodì nell'Asia Minore, nell'Armenia, nella Persia, dove le città dei mercanti o degli artèfici hanno diversa lingua, e spesso diversa religione dalle orde pastorali dei Turcomanni o dei Beduini, che si attèndano nelle circostanti campagne. – Così si visse tra noi per quattrocento anni.

 

XIII.

 

Le orde gàlliche, varcato con zàttere il Po, stabilite le tribù dei Boi e dei Senoni intorno a Bononia e Sena Gàllica, còrsero lungo l'Adriàtico, spogliàrono persino le città Italogreche, penetrarono pei monti in Etruria; colla stranezza delle armi e la furia degli assalti abbagliàrono le legioni; e accampate nelle vie deserte di Roma e sui monti d'Alba e di Tìbure, e andando e venendo per la via gàllica, devastarono il Lazio per diecisette anni. Ma nel calpestare quell'angusta striscia di terra non sapèvano che vi avesse radice quell'irresistibile principio, che dilatàndosi avrebbe in poche generazioni divorato in Europa e in Asia la potenza e la gloria de' Celti.

Roma ben presto si agguerrì a nuovi modi di vittoria. I Cisalpini, inferociti nei disastri, si collegàrono con tutti i suoi nemici, Etruschi, Umbri, Sanniti; ma sempre soccumbèvano alla disciplina delle legioni e alle arti del Senato. Fra le discordie gàlliche i Romani si apèrsero il varco del Po; coll'aiuto degli Anàmani tragittárono sulla nostra pianura (223 a. C.); ma non potèrono farsi strada, nè tener fermo; patteggiàrono e retrocèssero. Poi tosto, per accordo coi Cenòmani, aperti i passi del Mincio, dell'Ollio, dell'Adda, irrùppero repentini nell'alta Insubria, trucidàrono le genti disperse ne' campi. I pòpoli sùrsero in armi; tràssero dal tempio della Vèrgine gl'immòbili vessilli d'oro (aureis vexillis quæ immobilia nuncupant. Polyb.); sostènnero con forze non intere un'aspra battaglia. L'anno seguente, il brenno Virdumaro e il cònsole Marcello s'incontràrono sul campo di Clastidio; si riconòbbero allo splendor delle divise; il cònsole trucidò il re nemico; passò il Po; sottomise Mediolano; portò in trionfo l'armatura dell'ucciso. Roma pose due colonie di veterani in Piacenza e Cremona; ma fùrono tosto fieramente combattute.

Comparve in quel mezzo Annìbale a piè dell'Alpi; si vìdero tra le foreste del Ticino le seminegre tribù del deserto. A quell'annunzio duemila Cisalpini, che costretti militàvano nel campo de' Romani, si lèvano notturni, ne fanno strage, pòrtano ad Annìbale i teschj sanguinosi. Su la Trebia, gl'Insubri combattèvano per Cartàgine; i Cenòmani, per Roma. Sessantamila guerrieri, accorsi in pochi giorni al grido della vittoria, sèguono Annìbale in Toscana. Al Trasimeno, l'insubre Ducario getta di sella e uccide il cònsole Flaminio. A Canne, fra cinquantamila soldati d'Annìbale, trentamila èrano Galli; e deliberati di far disperata prova, vènnero nudi sul campo (Galli super umbilicum erant nudi. Liv.); quattromila vi lasciàrono la vita; ma i cadàveri dei Romani, in quell'orrenda giornata, fùrono sessantamila. – Quando Amìlcare venne in Italia, altri Cisalpini lo seguìrono; altri seguìrono Magone sbarcato a Gènova; altri seguìrono Annìbale in Africa, e morìrono a Zama. Venuta la pace, ancora un venturiero africano adunava sul Po quarantamila guerrieri, distruggeva Piacenza, assediava Cremona, cadeva con tutti i suoi. Un'altra battaglia si perdeva sul Mincio per nemicizia dei Cenòmani; in un'altra perìvano più di quarantamila Insubri; restàvano sul campo centinaja di bandiere, centinaja di carri da battaglia, splèndide collane d'oro (Liv.); Como era presa con ventotto castella de' suoi monti; un'altra giornata si combatteva sotto Milano; tre esèrciti romani insanguinàvano ad un tempo la valle del Po; la resistenza era indòmita; più volte le legioni vènnero conquise e trucidate; ma parèvano risurgere dai sepolcri; e omài rimanèvano agli esàusti Cisalpini solo i vecchj e i fanciulli. Ma quando Scipione entrò, con insegne spiegate, a mèttere i coloni romani in possesso delle divise campagne, i supèrstiti delle 112 tribù de' Boi non rèssero all'amaro cordoglio, si mòssero in turba, e varcate le Alpi Nòriche, si dispèrsero nelle selve del Danubio. Fra l'eccidio dei Senoni e la dispersione de' Boi, la stirpe degli Insubri sopravisse (Senones... deleverunt... Boios ejecerunt... Insubres etiam nunc existunt. Strab.).

La guerra arse ancora negli Apennini Lìguri; la conquista di quel palmo di terra costò più di quella dell'Asia; Roma, non sapendo come mutar l'ànimo di quegli uòmini indòmiti, ne trasportò quarantamila in Apulia. – Più lunga arse la guerra nelle nostre valli alpine, sulle quali i pròfugi Etruschi avèvano diffuso il nome commune dei Reti. Anche dopo la sommissione della pianura, si difèsero per un sècolo e mezzo, dalle pòvere montagne scendendo a depredare la pianura (Lepontii, Tridentini, Stoni et aliæ complures exiguæ gentes latrociniis deditæ et pauperes. Strab.). Nel 164 (a. C.) un Tiberio penetrò in Val-Camònica; nel 128 un Marzio vinse gli Stoni; nell'85 i Reti incendiàrono la colonia romana di Como; nel 42 fùrono sconfitti da Planco; nel 16 Silio domò del tutto i Camuni e i Vennj; i Trumplini furono venduti all'asta e dispersi in catena; l'anno seguente i due fratelli Nerone e Druso compìrono il loro trionfo sui Reti. La via dei laghi e delle alpi era aperta per sempre (Iter supra montes... otim superatu difficile... nunc tutum et expeditum... latronum excidio, viarum structurâ. Strab.).

Fino a quel tempo le invasioni cèltiche e anche quella dei Cimbri e dei Tèutoni, se non giungèvano a farsi strada per le Alpi occidentali, giràvano pel Reno e per l'Inn fino alle fonti dell'Adige o alle Alpi Nòriche; la doppia fossa dei laghi nostri e degli elvètici e la fierezza dei pòpoli chiudèvano le alpi a noi vicine. Già fin d'allora i Reti èrano nelle valli dell'Inn, e gli aborìgeni tèutoni in quelle del Ròdano e del Reno (Obsepta gentibus semigermanis... Veragri incolæ. Liv.).

 

XIV.

 

Ma molto avanti quell'ùltima conquista, già le nostre pianure èrano comprese nel nome e nella legge d'Italia; nelle città nuove, in Placentia, Hostilia, Laude Pompeja, Ticino, tutto era romano; le antiche, o come colonie o come municipj, èrano ascritte alle tribù del generoso pòpolo, alla Fabia, all'Ufentina, alla Voltinia, alla Sabatina; suntuose vie militari, tratte a immensi rettilinei, le congiùnsero tra loro e con Roma. – Cèsare aveva atterrato l'imperio dei Drùidi, disperse le caldaje insanguinate e le fanàtiche sacerdotesse; le sacre selve dell'ìsola di Man, ov'era il gran collegio, fùrono incendiate da Paulino. Le colonie romane intorno al Reno, Còira, Costanza, Augusta, Basilèa, Strasburgo, Spira, Vormazia, Magonza, Trèveri, Aquisgrana, e quella che per eccellenza si chiamò Colonia e divenne poi la madre delle città anseàtiche, fùrono le fondamenta al tutto itàliche di quella nuova Germania, che dopo la linea del Reno s'inoltrò successivamente a quelle dell'Elba e dell'Oder e della Vìstula, apportando a quei pòpoli la vita della civiltà, e il retaggio dell'intelligenza, non bramato nè conosciuto dai loro padri. I canali di Druso e di Corbulone insegnàrono ai Bàtavi come crearsi una terra fra le acque del mare. – Allora l'Insubria, che nell'era etrusca era la favolosa frontiera del mondo civile, si trovò co' suoi laghi e i suoi fiumi su la gran via delle nazioni, potè stèndere i suoi commercj alle Isole Britànniche e all'Egitto, a Càdice e al Mar Nero.

I Romani risuscitàrono il principio etrusco, dièdero ai municipj un'autorità su le campagne; le famiglie opulente non vìssero più in solitarj casali, ma in città piene di commercj e di studj. «Quanta sia la bontà di quella regione si può giudicare dalla frequenza degli abitatori, e dalla ampiezza e opulenza delle città; nelle quali cose i Romani di quelle parti sovràstano a tutti gli Italiani» (Strab.). Troviamo ancora nelle làpidi di quel tempo, i nomi delle famiglie insùbriche, scritti con romano costume; Albucio figlio di Vindillo, Banuca figlia di Magìaco, Surica di Dunone, vestigia d'un passato che si va dileguando. La legge romana sostituì all'incerta communanza cèltica il diritto di piena proprietà; e così propose alle famiglie le grandi aspettative del futuro, le animò alle grandi òpere territoriali, alle irrigazioni, agli scoli. Le antiche arginature etrusche si prolungàrono lungo l'alveo del Po; già Lucano le descrive. L'Insubria, già vastamente irrigua (ob aquæ copiam, milii feracissima. Strab.), si coperse di ubertosi poderi, che consèrvano ancora i nomi delle famiglie innovatrici: Campagne-Valerie, Villa-Pompejana, Isola-Balba, Balbiano, Corneliano, Albuzzano. Represso l'uso delle prede, gli armenti celati nelle Alpi scèndono al piano; la palude abitata da feroci cignali diviene plàcida praterìa, dove i garzoni di Virgilio àprono e chiùdono i rivi. I colli fioriscono d'àrbori fruttìferi (planities felix... collibus fructiferis. Strab.); la vite delle Alpi Rètiche acquista grido; il ciriegio, il pèrsico, il cotogno, il pomo d'Armenia sono propagati dai giardinieri romani; il castagno dell'Asia Minore sale a nutrire i pòpoli fin sulle cime dei monti; l'olivo, che ai tempi di Beloveso era ignoto in tutta l'Italia, fa molle contorno ai laghi, coltivato forse dagli agricultori greci che Cèsare chiama sul Lario, e che ripétono nei nostri villaggi i nomi di Corippo, di Plesio, di Picra, di Lenno, di Delfo, dei Corinti e dei Dori.

Ma più ìntima e più durèvole fu la mutazione che la legge romana introdusse nella vita domèstica, annunciando alle bàrbare stirpi i sacri diritti delle spose e della prole, i doveri dell'educazione, la providenza delle tutele, la libertà dei testamenti, limitata dalle aspettative delle legìtime eredità. L'ideale della matrona romana non uscì dai serragli dell'Oriente, nè dai ginecèi della Grecia, nè dalla càmera servile e dalla turpe morganàtica dei Celti e dei Goti; per esso la donna di Virgilio si eleva ad immensa altezza sulle ancelle degli eròi d'Omero; in esso sta il principio che distingue il contubernio dei bàrbari dalla famiglia europèa; è una vasta emancipazione che comprende d'un tratto la metà degli èsseri viventi.

La Cisalpina ebbe adunque leggi, famiglie, municipj, strade, ponti, aquedutti, àrgini, irrigazioni, magnìfici templi de' suoi marmi, terme, pòrtici, ville, delizie d'arti e di fontane, teatri, librerìe pùbliche, grandi scuole, scuole ove imparò un Virgilio. Nè questo è il solo dei grandi Latini che nacque tra il Po e le Alpi; ma Catullo, Cecilio, Tito Livio, Cornelio, i due Plinj. Insigni giureconsulti, molti capitani e magistrati, alcuni imperatori dièdero lustro alle nostre città. Ma lo splendore più puro e più durèvole è quello che le lèttere diffòndono intorno alle sacre dimore dei grandi ingegni. È un dolce e caro orgoglio quello d'incontrare negli scritti ammirati dai sècoli i nomi dei nostri fiumi e dei nostri laghi, del curvo Mella, e del plàcido Mincio, dell'Eupili e di Sirmione, ancora oggidì non bene ìsola, nè penìsola, ma dilettosa selva d'olivi. Nelle valli dell'Adda troviamo ancora i vini rètici, il mele nutrito dalla flora virginea delle alpi; i vasi della verde pietra comense sul torno dell'alpigiano. Possiamo assìderci accanto alla fonte ammirata dal giòvine Plinio, il quale descrive le delizie del suo Lario con quella mano che fu la prima a difèndere, non per senso di propria salvezza, ma di lìbera e generosa giustizia, l'innocenza del costume cristiano.

Tuttociò scaturiva da quel principio municipale in cui presso l'interesse al bene stava l'immediata facultà d'operarlo. Il gran municipio di Roma porgeva agli altri l'esempio d'ogni splèndida cosa. Nè per certo avvenne mai che un pòpolo possessore di sì vasto dominio avesse tanta brama d'immortalarsi con òpere d'universale utilità, nè che la potenza andasse congiunta a tali e sì culte menti, quali si vìdero in Catone, in Cèsare, in Tullio, in Tàcito; nè che uòmini, quali furono i giureconsulti romani, conservàssero per una serie di sècoli dottrina di sapienti e autorità di legislatori.

 

XV.

 

Ma s'era quella una prosperità nuova e grande per questa estrema parte d'Italia, trattenuta in barbarie dai Celti, non così poteva dirsi della rimanente penìsola. La guerra sociale aveva abbattuto le bellicose contadinanze della prisca Italia. L'intera patria d'un pòpolo forte vedèvasi talora mutata in una squàllida possessione d'un solo patrizio, che non poteva sfruttarla se non colle braccia degli schiavi.

I Cèsari, come capitani del pòpolo e promotori dell'emancipazione, si èrano recati in mano il comando delle armi, il pontificato, il tribunato e altre dignità divise una volta fra molte famiglie; ma per non alienare l'opinione che aveva dato loro quella potenza, esercitàvano le sìngole parti di quell'accumulata autorità, giusta le antiche fòrmule consacrate dalla religione e dal tempo. – Pur tuttavìa non era confidata loro dai senatori e commisurata, come quella dei moderni dogi; sotto nome e modi di magistrato, era conquista di vittorioso nemico. Nel secreto delle menti patrizie stava una profonda riprovazione, un indelèbile giudizio di illegalità, una ferma memoria dell'antica eguaglianza; epperò tra l'affettata popolarità e le parentele cittadine, il prìncipe confidava sopratutto nelle armi, e viveva nel sospetto. Quindi tutto mirava a inspirare in quelle superbe famiglie uno spìrito togato; i patrizj non dovèvano frequentare gli esèrciti; gli esèrciti èrano relegati lungo remote frontiere, dovèvano conòscere solo i loro capitani; la milizia diuturna, perchè l'Italia non s'empisse di veterani pericolosi; dura e pòvera, per la natura ancor selvaggia dei luoghi; molesta al cittadino, perchè cresciuto alle largizioni, agli anfiteatri, alla lìbera garrulità del foro. Di 120 Milioni di sùdditi che pare avesse l'imperio dei Cèsari, si vuole che soli sette avèssero diritto di Romani; e questi non potèvano dar mezzo milione di combattenti, come si richiedeva a sì disparate frontiere, e a tanti presidj terrestri e marìtimi. Fu necessità ricèvere soldati d'altre genti, la cui mescolanza era nauseosa all'altiero romano. Il moderno principio britànnico di fare una nazione d'officiali e un'altra di gregarj, sarebbe stata più nell'interesse dei patrizj che dei Cèsari. L'esèrcito adunque in poche generazioni non conosceva pòpolo, nè senato; non era più romano; e dopochè qualche conduttiere ambizioso seppe valèrsene per giùngere al soglio, si vide troppo aperto che in tutto l'imperio non vi era altra forza e altra legge che la spada del soldato. In meno d'un sècolo più d'ottanta generali perirono, o nel tentare l'acquisto del regno, o nel difènderne il fugace possedimento.

Allora Severo potè insegnare a' suoi figli che il secreto unico della potenza e della vita era il favor degli esèrciti; e in questa voràgine i suoi successori precipitàrono le finanze dello stato. Dopo il 200 dell'era nostra l'arte di regnare in Roma fu quella sola di trar denaro dagli inermi per saziare gli armati. Le grandi famiglie senatorie si estinguevano; la plebe romana si era sommersa fra più milioni di venturieri, venuti dal Reno e dal Nilo, dal Tago e dall'Eufrate. Bastò un còmputo di finanza, perchè Caracalla accomunasse a tutto l'imperio la condizione di cittadino, e rivelasse al mondo attònito che quel pòpolo non era più; ch'era sparito colla sua favella e colla sua religione, lasciando sotto al suo nome una colluvie d'ogni gente e d'ogni cosa.

Trascinati dal principio fiscale, gl'imperatori del sècolo III non curàrono più le strade e i porti, che avèvano dato un'insòlita vita alle nazioni; le provincie aggravate non èbbero forza di supplirvi; il commercio si arenò; le derrate giacquero inùtili sui campi d'una provincia, mentre in un'altra si moriva di fame. Perìvano i pòveri, impoverìvano i ricchi; àvidi usuraj e magistrati impuni spogliàvano migliaja di famiglie, e per semplicità d'azienda inondàvano i latifondi con turbe di schiavi; gli arati divenìvano inculta pastura; le reliquie dei lìberi agricultori riservate a rinovare in migliori sècoli la nazione, appena si salvàvano nei recessi degli alti monti, che non si ponno coltivare con braccia di servi; le fami, le pestilenze, le fiamme dei bàrbari, le rapine dei masnadieri diradàrono rapidamente l'umana generazione.

 

XVI.

 

Intanto nella città si faceva sempre più ardua l'esazione dei tributi; e colla miseria cresceva il frèmito degli esèrciti affamati, e l'acerbità e la disperazione del fisco. I magistrati municipali èbbero a rispòndere del proprio pei cittadini insolventi; fùrono armati di tutti i diritti del fisco, ma occupàvano terre deserte e case cadenti; si ostentò povertà per fuggire i gravosi onori. Allora il fisco li conferiva per forza; prendeva i beni dei magistrati, poi quelli delle mogli, poi citava gli eredi; un collega doveva pagare per l'altro; chi si recava in altra città, veniva cerco e ricondutto. Alcuni si facèvano soldati, e il fisco lo vietò. In poche generazioni quelle magnìfiche signorìe, che ripetèvano con decorosa moderazione nei teatri e nei palazzi dei municipj le lautezze di Roma, èrano un branco di pezzenti gabellieri.

Intanto nelle campagne si numerava e si tassava ogni àrbore fruttìfero, ogni tralcio di vite; la tassa delle piante che perivano, ricadeva sulle supèrstiti; allora il contadino, per sottrarsi alle esazioni, estirpava i frutteti e le vigne; e la legge, che inseguiva l'ombra della fugitiva agricultura, puniva di morte la morte d'una pianta. Se le tribolate famiglie si disperdèvano, la mano della legge le riconduceva in catena; ogni contadino si registrava servo della sua gleba; e surgeva un nuovo modo di servitù, che forse nell'Europa orientale era più antico, e oggidì non vi è peranco estinto. Il demanio, possessore d'intere provincie, le offriva indarno al primo occupante; vi trascinava dal confine i prigionieri bàrbari, che condannati ad un'arte ignota nelle loro patrie, si spargèvano ladroneggiando, e vessando le reliquie dei veri agricultori.

Anche le arti delle città si spegnèvano ogni giorno. Sul principio del IV sècolo, Costantino trovò necessario che ogni uomo salvasse l'arte sua tramandàndola a' suoi figli. Nessuno doveva adunque mutarla, nessuno scèglierla a piacimento; e come il discendente degli antichi signori era assegnato al servigio municipale, e il contadino alla gleba, gli artèfici furono ascritti alla paterna officina, e i nocchieri alla paterna nave; a tutti venne interdetta la milizia; e l'uomo che nasceva per esser soldato si bollava sulla mano; la popolazione fu smembrata in caste; le minute discipline, le aspre pene, gli usi, gli abusi, stabilìrono una generale servitù. Questi èrano gli infelici sùdditi che i moderni istòrici chiàmano ancora i Romani, per dilettarsi a dire ch'erano i vinti. E chi era dunque stato il vincitore?

Intanto i Sàrmati tenèvano presidio nelle inermi città dell'Italia e della Gallia; i Franchi avèvano in guardia, o piuttosto in preda, le frontiere del Reno; i Goti, quelle del Danubio. Gli Alani del Càucaso erano custodi del palazzo imperiale, e gli òrridi Unni della Mongolìa si pascèvano di carne cruda sotto i pòrtici di marmo. I capitani di queste genti, Stilicone vàndalo, Arbogasto franco, Allobego alano, Fràvita goto, Ricimero, Aspare, Ardaburo, èrano i veri signori dell'imperio, perchè il dominio consiste nelle armi, e l'autorità nella consuetùdine e nella fiducia dei prìncipi. Essi facèvano gl'imperatori, li disfacèvano, li uccidèvano. L'ùltimo di quei simulacri di regnanti fu Ròmulo Augùstulo, figlio d'un Oreste, venuto non si sa di qual nazione, e scriba d'Attila. – Infine le truppe mercenarie, morendo di fame ai confini, cominciàrono a internarsi; si confùsero colle orde che dovèvano respìngere, e colle quali avèvano communanza di sangue e d'interesse; si prèsero, in luogo d'imposta prediale, una parte delle terre cogli schiavi e col bestiame che rimaneva. E poichè la milizia si era così proveduta da sè, i tributi fùrono inùtili; l'òpera della distruzione era compiuta.

Già fin dal 400 i nostri municipj èrano a tale che S. Ambrogio li disse cadàveri di città. – Eppure il gran flagello di Dio non era ancora venuto.

Ancora dopo il passaggio d'Attila, la nostra Insubria nutriva qualche favilla di studj; e in Pavìa nasceva Boezio che i Goti uccidèvano. Milano, sola forse tra tutte le città dell'impero, si levò in armi contro i Goti, per vana speranza ch'ebbe di soccorso da Costantinòpoli, la quale a difènderla inviava il goto Mùndila. E il traditore spariva nel momento del perìcolo; e i Goti, ingrossati dai Burgundi, trucidàvano tutti quelli che non si salvàrono nei monti e nelle paludi. La città nostra giacque smantellata, le vigne, gli orti, i broli, persino i paschi si dilatàrono fra le sue ruine, e lasciàrono nomi di dolorosa memoria alle piazze e alle vie; e rimàsero intorno alla squallida cerchia le sole basìliche, fondate sugli antichi sepolcreti, e risparmiate dai distruttori bàrbari, più forse che non dai pòsteri ristauratori.

Sette sècoli dopochè la nostra terra era sottratta alla communanza cèltica, e consegnata ai municipj romani, tutta quell'òpera di civiltà pareva distrutta. Ancora Bèrgamo stava solitaria sul suo monte, e Màntova fra le sue paludi; e in mezzo alla campagna derelitta, si accampava in un recinto di legno qualche squadra d'Èruli e di Goti, a cui la sorte (lot, loos) aveva assegnato i pochi rùstici e i pochi bestiami, che sopravivèvano su la vicina gleba. – Nei tempi anteriori, il Celta viveva cogli uòmini della sua discendenza e del suo nome, aveva nel clano una mòbile patria; e infine per ancorarsi a questa feconda terra aveva confitto in luogo sacro gli immòbili vessilli. Ma Ricimero, Stilicone, Odovacre, Clodovèo, Hastingo, Rollo, Guglielmo, Tancredi, erano venturieri senza patria, che o giuràndosi a fortùiti capitani, o traendo seco fortùiti seguaci, pronti a difèndere qualsìasi padrone, a parlare qualunque lingua, a onorare qualunque Dio, non altra legge seguìvano che quella della privata fortuna. Così, dopo che la fiscalità bizantina aveva annientato ogni umana libertà e dignità, quei lacci venìvano rotti dall'opposto principio d'un ferino egoismo, che sprezzava ogni vestigio di civile convivenza, e riduceva tutti i doveri dell'uomo a un patto di preda fra un capitano e i suoi compagni.

 

XVII.

 

Ma in quelle città disfatte stava il germe d'una nuova e più ìntima associazione, che nel nome d'un solo Dio e nella parola d'un solo libro aspirava a ricongiùngere tutte le nazioni d'Europa. Quando l'antico patriziato fu estinto, e fu tronca la tradizione dei riti familiari, confiscata la terra sacra, gettato alla fornace il bronzo dei simulacri e il marmo dei templi, sola rimase fra quella spaventèvole dissoluzione la società dei Cristiani, che in Occidente era pìccola e oscura, e ristretta a pochi borghesi, forse di patria orientale e i più di greco nome. L'antica sapienza civile in mezzo a tanta miseria pùblica doveva smarrirsi; non poteva più dire come nel mondo vi fosse un principio regolatore delle umane cose. Ma nella contemplazione d'un òrdine sovrumano, le sventure divenìvano prove e occasioni di virtù; e un'intera vita d'indegno dolore diveniva parte e condizione d'un'immortale esistenza. Si dièdero intieramente a questi pensieri tutti i più fèrvidi intelletti. Milano, sede imperiale, e fino all'arrivo d'Attila meno mìsera delle altre città d'Italia, albergava Augustino nativo dell'Africa, e Ambrosio nativo delle Gallie; i quali, e per dottrina, e per nome, e per virtù, appena si accostàrono alla società dei Cristiani, ne divènnero i più autorèvoli capi. Felice, Bassiano, Stèfano, Filastrio reggèvano la nuova fratellanza in Como, in Lodi, in Cremona, in Brescia; le famiglie fuggitive la disseminàrono fra i palustri ricòveri della pianura e nelle interne montagne. Ma fu mestieri di quattrocento anni per troncare del tutto le tradizioni aborìgene; alla fine del secolo VIII il culto di Saturno sopraviveva ancora nell'estrema Val-Camònica (in curte Hedulio); e le tribù dell'etrusca Màntova èbbero una propria congregazione episcopale solo al principio del secolo IX.

 

XVIII.

 

La religione cèltica aveva le sue sedi nelle foreste, la romana nelle mura dei municipj; e nei municipj le successe la cristiana; il vìncolo morale fra le campagne e le città si conservò adunque ad onta dell'occupazione barbàrica. Al risùrgere della civiltà tutti i pòpoli, i cui sacerdoti erano ordinati a Milano, a Brescia, a Pavìa, divènnero i Milanesi, i Bresciani, i Pavesi. Queste minute nazionalità cancellàrono ogni vestigio delle più antiche divisioni; nè più l'alpigiano si segregò dalla pianura, come al tempo degli Orobj e dei Reti. Pavìa divenne capo delle popolazioni che dal basso Ticino salìvano sino ai gioghi degli Apennini; Milano, dalle campagne del Po sparse il suo rito ambrosiano fino ai ghiacci del Gottardo; Como penetrò vastamente per le valli, dalle fonti del Ròdano fino a quelle dell'Adige; e quivi si trovò in confine con Brescia, ch'ebbe le valli dell'Ollio, del Clisio e del Mella. Bèrgamo seguiva tutto il corso del Brembo e del Serio fin presso Cremona; e i suoi confini s'intrecciàvano intorno a Crema con quelli di Piacenza e di Lodi. I dialetti che prima esprimèvano la sola origine dei pòpoli, si risentìrono di questi riparti municipali. Presiedeva alle chiese delle città minori il vèscovo della maggiore; e perciò Milano ebbe primato in tutta la Liguria e la Rezia, da Gènova fino a Còira, e forse a Costanza; ma le successive calamità e poi le inimicizie municipali rùppero quei vìncoli; e Como, per sottrarsi quanto poteva alla prepotente vicina, preferì di sottostare al lontano patriarca d'Aquileja.

Perlochè queste nostre città, piuttosto che cadàveri, erano corpi tramortiti. Tutte le preci, tutte le scritture èrano nella lingua che i Romani avèvano dato all'Europa; il nostro vulgo colla sua proferenza cèltica mutilava le voci latine; ma in quel dialetto poteva intèndersi col vulgo vicino; e da plebe a plebe v'era in potenza una lingua commune a tutte; le favelle della penìsola non èrano più così disparate come l'etrusca, la latina, la greca. V'èrano case e chiese, e avanzi ed esempli di strade, di ponti, di mura; la vite era salita fino alle Alpi; l'olivo aveva posto nido sulle riviere; il castagno pareva già un àrbore spontaneo dei nostri monti; l'irrigazione non poteva cadere in oblìo. Le famiglie mercantili, e nelle città, e nei rifugi dei monti e delle paludi, non perdèttero le loro tradizioni; e anche nel medio evo sèppero trovare per la via delle Alpi le rive del Reno, continuarvi l'oscuro loro tràffico, prestar l'ingegno e le braccia a edificarvi chiese e castella, che a que' pòpoli pàrvero fatte per opera d'incanto.

 

XIX.

 

Molti dìssero che i Romani ammolliti dovèvano coll'innesto dei bàrbari rifòndersi a nuova virilità. Ma quando vènnero i bàrbari, nessuno poteva più dire d'esser Romano; ogni lusso era estinto, e la gente indurita al disagio. E la forza militare d'un pòpolo non risiede nei mùscoli, ma nel consenso, nelle tradizioni, nella disciplina; al che la presenza dei bàrbari nulla giovava, essendochè la milizia rimaneva privilegio dei pochi, e i molti non potèvano dunque agguerrirsi. E i Goti fuggiaschi inanzi alla ferocia degli Unni, divènnero àrbitri dei nostri destini, perchè la legge bizantina faceva privilegio di stranieri la milizia, onde non si sapeva più come un uomo potesse divenire un soldato. I Goti, padroni dell'Italia e delle cento sue fortezze, non sèppero conservarla, e in sessant'anni il loro nome era estinto; in Gallia soggiàcquero ai Franchi; in Ispagna fugìrono inanzi agli Arabi, e perdèttero ogni cosa in un giorno. – I Longobardi entràrono chiamati: e tuttavìa non èbbero mai forza d'occupar le marine, e di superare le nascenti difese di Venezia e le mura inermi di Roma; e il loro dominio che cominciò col cranio di Cunimundo, ebbe fine con una mìsera scena di viltà.

Oltralpe i duchi prèsero nome dai pòpoli o dalle vaste terre; ma i capitani longobardi s'intitolàrono dalle città; duchi di Spoleto, di Verona, di Brescia; il che fa crèdere che vivèssero entro le mura urbane; soggiorno che doveva ammansare il costume, e contribuiva, come le sedi episcopali, a conservare importanza ai municipj. E questi sulle nostre pianure èrano così vicini che appena v'era alcun luogo, che a distanza di quìndici miglia non avesse una città; e perciò gli òrdini feudali non si radicàrono così assoluti, come là dove le popolazioni rimanèvano senza moderatori o testimonj della loro oppressione.

Dopo Carlomagno, le famiglie longobarde fùrono guardate con sospetto; e il predominio passò nel sacerdozio, che, oltre al potere dell'opinione, acquistò quello d'una possidenza, di cui nessuna legge limitava l'incremento. I conti e i capitani dei Carolingi, o con voci moderne, i delegati provinciali e i commissarj distrettuali, dopo l'editto di Kiersy divènnero ereditarj; e verso il novecento, l'abuso vincolava alle famiglie anche i beneficj ecclesiastici, sotto colore di patronato. In mezzo a questi due òrdini di nuovi proprietarj, le discendenze longobarde smarrìvano il nome e i possessi; e dopo il secolo XI è raro vedere nei documenti chi dichiari di vìvere con quella legge. Nelle diete che si celebràrono sotto i Carolingi, la maggioranza era dei conti e dei vèscovi, e presiedeva il vèscovo di Milano.

L'imperio romano si era sciolto per la cessazione dei tributi e l'occupazione delle terre fatta dalle milizie federate. L'imperio carolino non si stabilì veramente mai, perchè non potè instituire stàbili finanze. Cominciò con un'invasione per sè transitoria, che distrusse un regno senza fondarne un altro; ma la Chiesa adottò e perpetuò gli effetti dell'invasione, valèndosi dell'imperatore eletto e coronato, come d'un capo della sua milizia; onde fu quello veramente, come sonava il suo nome, un Imperio Sacro. I suoi luogotenenti, quando non èrano prìncipi potenti per forza propria, èbbero nelle diete e nelle città quel solo potere che i prelati consentìvano, e ch'era pur necessario per conciliare al clero l'ossequio della moltitùdine feudale.

L'irruzione degli Ungari fu la prima occasione di risurgimento. Ogni abitato si cinse di mura, ogni casato alzò una torre; l'Europa divenne una selva di fortezze. Il vèscovo Ansperto ristaurò le mura di Milano alla fine del secolo IX; pochi anni dopo, il vèscovo Ariberto devastava il territorio di Lodi. Quando i suoi cavalieri feudali gli negàrono obedienza, egli armò la plebe cittadina, e combattè a Campo Malo la prima battaglia popolare. – Corrado il Sàlico, geloso di quelle insòlite armi, lo imprigiona; ma egli fugge, gli chiude in faccia le porte della città; sostiene un primo assedio; chiama dalla vasta sua provincia tutti gli uòmini atti alle armi; e per dare a quella che fu la prima di tutte le moderne fanterie un principio d'òrdine e di stabilità, pianta un altare sopra un carro, e uno stendardo sopra l'altare. Quello stuolo di divoti, che colla picca in mano si stringe intorno al carroccio consacrato, è il primo rudimento della moderna società.

 

XX.

 

Un barone, ucciso un plebèo, si offerse a pagar la multa dell'omicidio, giusta il prezzo che il sangue dell'ucciso aveva nella tariffa della giustizia feudale. Ma il pòpolo fremendo si armò, e uccise tutti i signori che incontrò per via; trovò un capo in Lanzone, che lo condusse a diroccare le torri delle case feudali, fra gli orti dell'ampia città. – Ariberto, meravigliato e dolente che l'uso delle armi avesse tanto inalzati gli spìriti della plebe, le tenne fronte; i suoi capitani armàrono contro la città tutti i servi del contado; e così, senza avvedersi, preparàrono quelli pure ad armìgera e lìbera condizione. Inesperti degli assedj, nella barbàrica loro inettezza fècero un ridutto di legnami di fronte ad ogni porta della città, stàndovi a campo tre anni, e aspettando che la penuria domasse i sediziosi; ma Lanzone corse in Germania a invocare presso l'imperatore il soccorso delle leggi; onde già si palesava quella verità così perpetua nelle istorie, che gli interessi naturali del principato e dei pòpoli sono in concorde opposizione alla licenza feudale. – Irritato il pòpolo dall'ostilità non paterna d'Ariberto, passò di ragionamento in ragionamento; volle che le famiglie prelatizie, le quali nel loro seno eleggèvano il vèscovo, rendèssero conto dei beni sacri che possedèvano per eredità e simonìa; chiamò concubine le mogli dei beneficiati; li strappò dagli altari; li espulse dalla città; l'omicidio e l'incendio si spàrsero di villa in villa; Arialdo Alciato e i fratelli Cotta versàrono il sangue in nome della chiesa; Ildebrando gli ànimava da Roma al combattimento. – La contessa Matilde, la doviziosa erede dei Longobardi di Toscana, divenne ardente nemica dell'ordine feudale; le sue vaste donazioni ai Benedettini nella valle del Po divènnero asilo di schiavi fuggiaschi, che ristaurati gli avanzi degli àrgini etruschi e romani, le mutàrono in ubertose possessioni. Così dissipato il patrimonio feudale, cresciute di popolazione e di ricchezza, e redente dai patrizj le terre della chiesa, cominciò quella gran mutazione dei servi in lìberi contadini, che per otto sècoli si estese in Europa. – La prima onda di questa corrente si mosse dalla nostra patria, poco dopo il mille.

 

XXI.

 

In quel sècolo le città d'Italia tòrnano ad èssere stanza di pòpolo armato. L'uso delle armi ravviva il senso dell'onore, soffocato dall'oppressione bizantina e longobarda; l'onore gènera tutte le virtù; gli uòmini sèntono di poter còmpiere un pensiero; e hanno l'audacia di concepirlo; le menti aspìrano a tutto ciò ch'è bello e grande. Già Venezia colle ricchezze del suo commercio fonda San Marco; il milanese Anselmo Baggio, vèscovo di Lucca e poi pontèfice, edìfica in dieci anni quel duomo. Pisa più gloriosamente fonda il suo, colle spoglie degli Arabi che ha cacciati da Palermo. Tutto ciò avvenne una generazione prima delle Crociate, le quali non fùrono dunque la càusa del risurgimento europèo, come la turba dei ripetitori va tuttora scrivendo, ma ben piuttosto uno dei più pronti effetti, e il primo esercizio d'una forza che si espande. – Il principio vero del risurgimento fu nel legìtimo possesso della milizia popolare.

Nel 1075 Urbano II adunò sui nostri confini il concilio di Piacenza, e al cospetto di duecento vèscovi e di quattromila sacerdoti fece giurare la crociata a trentamila guerrieri. La canzone del passaggio, il grido d'ultreja, risonò per le nostre città. – L'anno seguente egli raccolse in Arvernia il concilio di Clermonte. Già in quella prima crociata (1096) si vìdero le famiglie milanesi dei Selvàtici e dei Ro, e quella dei Rocj d'antico nome ricordato nelle làpidi romane; Ottone Visconti conquistò allora in Oriente lo scudo della serpe, che divenne la gloriosa insegna dello Stato.

Nel 1106 Milano si elesse con nome antico due cònsoli, e prese forma di stato con un Consiglio maggiore e un Consiglio secreto o Credenza.

I primi cònsoli dello Stato fùrono dell'ordine dei capitani, che aveva in eredità le antiche magistrature caroline, epperò grandi fèudi e numerose contadinanze. Avvenne dunque che anco i minori gentiluòmini, o valvassori, a propria difesa rendèssero stàbile la loro adunanza feudale o Motta (Gemote, Meeting), e la trasformàssero in un magistrato di cònsoli. E parimenti i mercanti e gli altri cittadini non compresi nell'orditura feudale, èbbero un consiglio delle parochie urbane, che si chiamò Credenza di Sant'Ambrogio. Questa giurisdizione consolare, proteggendo abbastanza gli industrianti, rese inùtili le corporazioni e le maestranze; e con ciò mantenne il foco sacro della lìbera concorrenza. Si svolse così il nuovo diritto commerciale; e per l'universalità delle sue forme e la irresistìbile rapidità della sua procedura, si divise affatto e dal diritto feudale e dal canònico e dal romano, il quale non poteva districarsi dalla lentezza delle ambagi forensi. I mercanti lombardi, stabiliti oltremonte, tràssero seco i cònsoli di città in città, e propagàrono il nuovo diritto per tutta l'Europa. – Le tre credenze consolari presiedèvano a tre consigli, l'uno di quattrocento, l'altro di trecento, l'altro di cento; e l'adunanza generale si chiamò degli ottocento. Ma èrano sempre tre pòpoli con diverso principio di vita, di leggi e di governo; l'uno rappresentava la potenza territoriale, l'altro la forza militare, il terzo la mercantile; e a parte rimaneva ancora il diritto canònico con tutte le giurisdizioni ed immunità ecclesiàstiche. E non essèndovi un prìncipe, in cui potèssero far capo i tre poteri civili, si cercò al di fuori un giùdice supremo, che fosse patrizio d'un'altra repùblica; e lo si chiamò podestà, perchè appunto rappresentava la mano regia, e colla forza di tutti sanciva la commune volontà.

Cominciò un'era d'esaltazione bellicosa. In un castello del Lago Ceresio alcuni Comensi avèano ucciso due fratelli Càrcano di Milano; le vèdove e i congiunti vèngono sulla piazza del Duomo, mostrano al pòpolo le vesti sanguinose degli uccisi, implorando vendetta. Il vèscovo Giordano esce dal tempio, e pronuncia l'interdizione dei sacri riti, finchè il pòpolo non abbia lavato quel sangue nel sangue degli uccisori. La moltitùdine armata assale Como; gli abitanti, abbandonando a quel subitaneo furore la città, si rifùgiano sulla rupe del Baradello; poi, vedendo le fiamme accese dalla vendetta, si pèntono della loro debolezza; discèndono impetuosi; còlgono i nemici fra la confusione della vittoria, e li dispèrdono. Al ritorno, gli umiliati guerrieri giùrano sull'altare di non deporre le armi, se prima Como non è distrutta. Como arma tutti i suoi montanari, dai confini del Vallese a quei del Tirolo; i Milanesi tràggono seco una lega di dòdici città; navi armate combàttono sui laghi; artèfici genovesi fanno castelli da guerra, e altre màchine della romana milizia, obliate nell'abbrutimento dell'era gòtica. I Comensi, ridutti all'estremo, sàlvano su le navi le mogli e i figli, si chiùdono nel castello di Vico; e infine, dopo dieci anni di guerra, cèdono vinti, e inàlzano intorno all'atterrata patria le capanne dell'esilio. – Si direbbe che queste città inferocite còrrano alla loro distruzione; eppure, fra quelle battaglie il pòpolo cresce; fra quelle depredazioni si svolge un'insòlita prosperità; e dai sècoli precedenti a quel sècolo v'è un trapasso come dalla putrèdine del sepolcro al fermento della vita.

 

XXII.

 

Quando Federico I, fatto re di Germania nel 1152, ebbe adunata la Dieta in Costanza, due cittadini lodigiani si fècero nel mezzo con una croce di legno su le spalle, e gettàndosi a' suoi piedi, invocarono giustizia contro Milano, la quale, dopo avere omài da quarantadùe anni distrutta la loro città, opprimeva i cittadini dispersi nella campagna. Federico desideroso di ridurre a obedienza Milano, quando venne a convocare la Dieta Itàlica, sul piano di Roncalia alla foce della Nura nel Po, fece umilianti comandi ai cònsoli milanesi Oberto Dell'Orto e Gerardo Negro, i due famosi autori dei libri del diritto feudale. Con quelle altiere intimazioni e colle più altiere risposte si accese una guerra di trent'anni. – Tortona fu presa per sete; i pàllidi e consunti guerrieri vènnero accolti in Milano, che mandò le milizie di quattro porte a rialzare a sue spese la smantellata città. Nel mezzo dell'òpera gli alleati imperiali assaltàrono i lavoratori; alcuni capitani si rifugìrono dal combattimento in una chiesa. I cònsoli milanesi impòsero loro una nobil pena, affiggendo i loro nomi disonorati alle porte del duomo. – La piccola Crema arrestò tutta la potenza dei feudatarj Germani e Itàlicì per sei mesi; e cadde con tutti gli onori dei prodi sventurati. – Sotto il castello di Càrcano, nel Piano d'Erba, Federico rovesciò e prese lo stendardo sacro dei Milanesi; ma prima di sera era fugitivo in Como, le sue tende èrano prese; i suoi alleati, prigionieri. – Intanto un incendio distrusse i vìveri, accumulati in Milano per resìstere all'assedio; Federico con centomila combattenti girò vastamente tutta la campagna, troncando gli àrbori, ardendo le case, mutilando chiunque apportasse vìveri alla città, ch'era divorata dalla più aspra fame. Alla fine i cittadini domati uscìrono dalle mura; s'avviàrono al campo di Federico, che, ritràttosi a venti miglia di distanza, aveva lasciato fra l'esèrcito e la città il vuoto spazio della desolata campagna. Prima trecento cavalieri depòngono al suo piede le spade e le insegne; poi viene lo stuolo dei personaggi consolari; poi il carro del sacro stendardo; poi tutti i combattenti, emunti dal lungo digiuno, colla croce su le spalle. Al suono delle trombe municipali, il vinto stendardo cade, lo sventurato pòpolo si atterra; i capitani vincitori rèstano attòniti e commossi al pianto. Il solo Federico non si muta; comanda che i vinti colle loro mani abbàttano ampiamente le mura, perchè vuole entrarvi con tutto l'esèrcito in òrdine di battaglia. Avventa le soldatesche contro la vuota città; e salve solo le chiese di Dio, fa di tuttociò che appartiene agli uòmini un cùmulo di ruine. I cittadini si spàrgono pei campi in tugurj di paglia.

Dopo che per cinque anni èbbero sofferto i più gravi disagi, apparve un giorno fra i loro pòveri tugurj un frate del convento di Pontida, seguito da squadre d'armati delle vicine città. Veniva a ricondurli entro le mura e a rialzarle. – Tre anni dopo, la potenza e la perseveranza di Federico èrano finalmente domate sul campo di Legnano; era seminata di cadàveri tutta la landa tra l'Olona e il Ticino; ed ei lasciando in mezzo alla strage le sue armi e il suo cavallo, andava fuggitivo a celarsi, come la tradizione narra, in una caverna. – Alla vittoria successe più tardi la famosa pace di Costanza (an. 1183), che compose le ragioni dell'imperio colle necessità della guerra, in un modo che rammenta l'antico stato dei municipj romani, accresciuto solo da un troppo largo arbitrio di pace e di guerra. Nell'anno seguente Federico venne òspite a Milano; allora si vide risplèndere la cavalleresca cortesìa dei tempi, e nel pòpolo che lo accolse festoso, e nel prìncipe che consentì a rialzare le mura di Crema, che aveva smantellate. Così dal seno della distruzione surgèvano più forti e più belle, Milano, Crema, Como, Asti e Tortona; il circùito di Milano era dilatato sino alla fossa che ora è navigàbile; Lodi fioriva nella nuova sua sede sull'Adda; e la colonia municipale d'Alessandria segnava sul Tànaro il lìmite della feudalità subalpina, ferma ancora nelle terre del Monferrato e del Piemonte. Sulla nostra pianura era già tracciato il Naviglio del Ticino, ancora studiato oggidì fra le meraviglie dell'arte moderna; pochi anni dopo, il gran canale della Muzza faceva della pianura lodigiana un modello d'agricultura, mentre al principio della guerra, tutto lo spazio fra Milano Lodi e Pavìa era una così erma solitùdine, che quando vi fu condutto Federico coll'esèrcito, credè d'esser vìttima d'un tradimento.

 

XXIII.

 

Negli anni seguenti, le famiglie tribunizie dei Marcellini e dei Cotta continuàrono ad estirpare la feudalità; abolìrono le tariffe che sembràvano vèndere la licenza dell'omicidio; persuàsero ai valvassori di rinunciare i loro squàllidi fèudi ai capitani, per farsi lìberi uòmini del commune; invàsero i fèudi del Monferrato e della Savoja; e nel mezzo di quelli, costruìrono la rocca di Cuneo, asilo ai fuggitivi. Federico II riaccese la guerra contro le città lombarde; trasse in Lombardia le tribù àrabe della Sicilia e dell'Apulia. I nostri intrèpidi padri le affrontàrono a Camporgnano; allagarono di notte il campo nemico; lo avviluppàrono fra un labirinto di fossi. – In quegli anni si vìdero generosi fatti. Il pòpolo milanese, dolente dei soprusi feudali non peranco estinti, ricusava di prèndere le armi contro i Pavesi, che devastàvano i poderi dei capitani. I giòvani cavalieri escìrono senza il pòpolo e respìnsero i predatori; ma nell'ebbrezza della vittoria non serbando gli òrdini della prudenza militare, fùrono raggiunti dai nemici nel ritorno, e messi alle strette. A quell'annunzio il pòpolo, immèmore d'ogni altra cosa, corse alle armi, e giunse in tempo a salvarli (an. 1242). – Panera Bruzzano, il più alto e più forte dei nostri campioni, sfidato sul campo a singolar tenzone dal re Enzo, figlio di Federico, lo vinse e lo fece prigione. Ma i Milanesi, senza far vendetta dei prigionieri slealmente uccisi, lo lasciàrono lìbero, a patto che non portasse le armi contro la loro città. – Voleva il pòpolo abolita la legge che stabiliva a sette lire e dòdici soldi il valore della vita d'un plebèo ucciso da un feudatario. Uno dei signori da Landriano aveva ucciso a tradimento il suo creditore Guglielmo Salvo. Il cadàvere sanguinoso, scoperto sotto un mucchio di paglia, portato a Milano, ed esposto sulle piazze, accese di furore il pòpolo, che cacciò tutti i capitani; quindi andò di terra in terra ad espugnare le castella rurali. Si fècero molte paci; quella che fu detta di S. Ambrogio riconobbe nelle famiglie dei cavalieri e dei cittadini egual diritto a tutti gli onori consolari. Ma la legge bàrbara delle campagne, e la legge romana delle città non potèvano stare in pace sullo stesso terreno; la guerra era nella natura delle cose. Il pòpolo cacciò di nuovo i capitani; rifugiati in Como, li perseguitò e li espulse; ma nell'incàuto ritorno venne circondato fra le paludi di Prato Pagano, e ridutto a dure condizioni. Vinse di nuovo, e cacciò i capitani, che invocàrono il braccio del terribile Ezzelino. Questi passa l'Ollio, l'Adda, giunge fino a Vimercato; ma le milizie di tutte le città lo accèrchiano; ripassa l'Adda, è raggiunto, un giòvine bresciano lo ferisce e lo atterra; condutto prigione nel castello di Soncino, si squarcia le ferite e muore. Con lui cade la feudalità nella Venezia, per frutto di battaglie combattute sul nostro terreno.

 

XXIV.

 

Correva la metà incirca del sècolo XIII. Spuntava l'era moderna; èrano i tempi in cui nacque Dante; omai la nazione italiana era adulta e cominciava un nuovo òrdine di cose. Il pòpolo colle armi alla mano aveva tratto dalla feudale ineguaglianza un viver civile; ma la guerra, fra il risurgimento di tutte le industrie, tornava a farsi arte; e i cittadini non potèvano nello stesso tempo attèndere ai mestieri della pace, e pareggiare i giòvani delle famiglie militari nel maneggio delle armi e dei cavalli. I magistrati avrèbbero potuto agguerrire a spesa commune il fiore della gioventù cittadina; pensàrono invece con fatale consiglio d'assoldare cavalieri d'altro paese, non imbevuti d'odj cìvili. Il primo capitano del pòpolo fu Oberto Pallavicino, condutto per cinque anni. Col carroccio d'Ariberto era cominciata un'era d'esaltazione morale; collo stipendio d'Oberto Pallavicino ricominciò un'era di morale debolezza. D'allora in poi si vide un pòpolo di pazienti e ingegnosi lavoratori in lana, in seta, in armi di famosa tempra, in metalli preziosi, esinanirsi nella fatica, in pòvere case, sotto crescenti gabelle, colle quali i suoi capitani, ora guelfi ora ghibellini, pascèvano squadre di mercenarj d'ogni parte d'Italia e sopratutto Romani e Romagnoli, ma più spesso stranieri, Catalani, Tedeschi, Guasconi, Bretoni, Inglesi, stradiotti d'Albanìa. In ogni città v'era una o più fortezze; nel cui secreto le famiglie dominatrici conducèvano una vita impopolare, spesso nelle crudeltà e nelle dissolutezze, nutrendo migliaja di cani e di falconi e sollazzàndosi con nani e menestrelli. Questa vita di sospetti senza pensiero e di splendore senza dignità, durava finchè un vicino più vìgile o più pèrfido, o infine un invasore straniero, collo sproporzionato peso delle forze d'un regno, li snidasse da quelle tristi delizie, e li precipitasse nell'antica oscurità. «Tal fortezza fu a danno e non a sicurtà de' suoi eredi, perchè giudicando mediante quella viver sicuri, e poter offèndere i cittadini e sùdditi loro, non perdonàrono ad alcuna generazione di violenza, talchè perdèrono quello stato come prima il nemico gli assaltò...» (Macchiavelli).

 

XXV.

 

A domar l'ànimo bellicoso delle nostre plebi contribuì un'istituzione che cangiava le arti in esercizio di penitenza. Prima ancora d'Ariberto (an. 1014), alcuni cavalieri milanesi andati in Germania prigionieri d'Enrico I, e nel tedio dell'esilio dàtisi a vita laboriosa, fècero voto di perseverarvi anche rèduci in patria. Il pòpolo li rivide con meraviglia nelle vie della città con ampie vesti pelose e berretti di straniera forma; si chiamàvano gli umiliati; e attèsero all'arte della lana. In breve èbbero trenta case d'uòmini e trenta di donne; si trapiantàrono in tutte le città d'Italia; Firenze deve loro quell'arte, che tanto conferì alla sua potenza. Fondàrono ricòveri nei passi delle Alpi; e d'ospizio in ospizio, difendèndosi col nome della religione dai rapaci castellani che intercettàvano le strade, contribuìrono a collegare l'industria di Milano colle piazze del settentrione e del mezzodì.

Ma le austere opinioni insinuate per tempo nel nostro pòpolo fermentàrono in sette religiose, che annunciàvano la riforma della chiesa, del sacerdozio, della magistratura, delle pompe cavalleresche. Il più formidàbile tra i riformatori fu Arnaldo da Brescia, discèpolo prima in Parigi d'Abailardo, poi suo difensore. La contrita e rìgida sua vita faceva meraviglia anche ai santi (Homo est neque manducans neque bibens... habens formam pietatis... Cujus conversatio mel... cui caput columbæ. S. Bern.). – Quando il vèscovo di Brescia diede a un garzone di dòdici anni una ricca parochia, Arnaldo rinovò le querele che Arialdo Alciato aveva levate in Milano; inveì contro le famiglie, che vendèvano, infeudàvano, donàvano come cosa propria i beni della chiesa: contro il pastore, che dava in fèudo a cavalieri le regalìe della sacra mensa, per fàrseli vassalli, e adoperarli in imprese profane e crudeli: contro i beneficiati, che vivèvano con lusso mondano, e si tenèvano con tìtolo di spose le figlie dei potenti. Voleva che i beni della chiesa fòssero governati da un consesso di popolani, i quali, distribuito ai sacerdoti un ùmile alimento, e compiuti i sacri riti, largìssero il resto ai poverelli di Dio. Ma i violenti consigli accèsero la guerra civile; Arnaldo fu costretto a fuggire sotto il peso di capitale accusa; sparse in Zurigo le sue dottrine; errò per la Francia; e perì miseramente in Roma, consegnato da Federico I a' suoi nemici. Nell'intervallo tra i due Federici, il nostro pòpolo si ordinava in sette di vario nome. L'inquisizione romana le represse col ferro e col foco; ma i cavalieri ghibellini, nemici della chiesa, le ricettàrono nelle loro castella, le protèssero armata mano, e cogli omicidj vendicàrono i supplicj. L'inquisitore Pietro da Verona venne trucidato nelle selve del Sèveso, un altro sul ponte di Brera, un altro nella Valtellina.

Finchè il potere ondeggiò tra i cittadini guelfi capitanati dai Torriani e i feudatarj ghibellini capitanati dai Visconti, la lutta delle opinioni durò dubiosa. Ma dopochè la fortuna dei Visconti prevalse, essi mìsero ogni loro fiducia nelle armi stipendiate e nelle fortezze, deprimendo con mano di ferro tutte le parti, minacciando di morte chi solo di guelfì e ghibellini proferisse il nome. Quindi, con industria poderosa e con vasto commercio di derrate e di banco, le città lombarde non conòbbero quella lìbera cultura letteraria, che il governo popolare per tre sècoli fomentò in Firenze; sicchè parve che per fatto di natura l'ingegno fosse più potente in Toscana che fra noi.

 

XXVI.

 

Verso i principj del dominio dei Visconti (an. 1311), troviamo fatta la più antica menzione dell'uso delle bombarde, ossia delle artiglierìe, colle quali i Bresciani si difèsero contro l'imperatore Enrico di Lussemburgo. Nel 1331 se ne fece uso all'assedio di Forlì; nel 1334 in quello di Bologna, la più antica memoria presso i Francesi è del 1340; presso gli Inglesi, del 1343, alla battaglia di Crécy; presso gli Anseàtici, del 1360. Circa 65 anni dopo l'assedio di Brescia, l'artiglierìa prende a nuova perfezione dalla mano di Bertoldo Schwartz, che ne fu poi detto inventore.

Dei Visconti i più fùrono d'ànimo grande; alcuni pochi fùrono d'abjetta e quasi delira crudeltà. Ottone e Mattèo, fondatori di quella potenza, fùrono perseveranti e destri nelle avversità delle guerre e degli esili. Marco, prode cavaliero, vinse gli Angioini sotto Gènova, il catalano Cardona sul Po, Enrico di Fiandra sull'Adda. Azzone, signore di dieci città, e in aspetto omài di regnante, favorì le arti, chiamò Giotto a dipìngere il suo palazzo, fece il ponte di Lecco, forse il maggiore che allora fosse, coperse le cloache, inalzò la torre delle Ore. – Quando un poderoso esèrcito di mercenari, congedato dal Signor di Verona, si prese a condottiero il ribelle Lodrisio Visconti, e venne devastando orribilmente il paese fino a Parabiago sull'Olona; colà, quasi su le medèsime campagne ov'era caduta la potenza di Federico imperatore, si combattè sulle nevi una delle più sanguinose battaglie del medio evo. Gli stranieri avèvano già ucciso uno dei generali milanesi, e preso l'altro, ch'era Luchino Visconti, quando la cittadinanza, agitata dal perìcolo di cader preda a gente senza legge e senza pietà, sopragiunse in soccorso; strappò Luchino di mano ai vincitori; fece prigione il vincitore Lodrisio, al quale il clemente Azzone concesse la vita. Le menti infervorate nella mischia vìdero il patrono del pòpolo S. Ambrogio, il cui stendardo si portava nelle battaglie, scèndere dal cielo, dispèrdere i bàrbari a colpi di sferza; e da quel giorno su le monete e le insegne popolari il mansueto pastore si dipinse sempre in atto d'impugnare quello strumento della vittoria.

I fratelli Luchino e Giovanni fùrono gentili òspiti al Petrarca. Fùrono signori in Gènova; e la loro insegna sventolò sulle navi che in Morèa trionfàrono di Nicolò Pisani. – Bernabò era l'ideale del ghibellino; non temeva nè gli uòmini nè Dio. Quando i legati pontificj gli si fècero incontro sul ponte del Lambro per intimargli una bolla nimichèvole, egli impose loro di mangiar la bolla e i sigilli; ed era uomo sì terrìbile che il suo comando fu obedito. Si compiaceva di taglieggiare i poderi degli ecciesiàstici; e forse fu il primo che pareggiasse i càrichi di tutti i beni, come ben tardi fece la rimanente Europa. Mentre a Trezzo sull'Adda faceva gettare un meraviglioso ponte d'un arco solo, suo fratello Galeazzo, ornando d'aque il parco di Pavìa, dava l'esempio d'un gran giardino a paese; fondava l'università di Pavìa; mandava ambasciatore il Petrarca in Germania e in Francia; e lo induceva ad abitar lungamente. ora in romita parte della città, ora fra i solitarj prati di Linterno.

Galeazzo assediava Pavìa. L'austero agostiniano Jàcopo de' Bussolati esortò i cittadini a non lasciarsi cadere in dominio d'un prìncipe. Quando li ebbe accesi delle sue calde parole, aperte le porte da terra e dal fiume, li guidò ad assalir le bastite nemiche, e le navi sul Ticino e sul Po. Vincitore, rivolse la voce contro i Beccarìa, troppo più potenti che non la legge in quella città; i cittadini gli si strìnsero intorno armati; egli elesse venti tribuni; e quando ogni tribuno gli ebbe condutto cento armati, intimò l'esilio ai Beccarìa, distrusse le loro case. – In un nuovo assedio, colle gioje offerte in sacrificio da tutte le donne, comprò i soccorsi dal Monferrato, liberò la città. – Ma in un terzo assedio, involto fra la pestilenza e il tradimento, infine si arrese; assicurò il destino altrùi, solo per sè nulla stipulando; ma Galeazzo perdonò i suoi errori alla purità de' suoi costumi, e generosamente gli impose di ritirarsi in un convento.

 

XXVII.

 

Il più grande dei Visconti fu quel Gian Galeazzo, che primo si chiamò Duca, ed ebbe l'ànimo di porre le fondamenta del nuovo Duomo, la più miràbile delle costruzioni cristiane; nè pago di ciò, vi aggiunse quell'altra meraviglia della Certosa di Pavìa. – Il venturiero Giovanni d'Armagnac comparve a quei tempi sotto Alessandria con diecimila cavalli e molte fanterìe, e insultò Jàcopo dal Verme chiuso nella fortezza. Ma il valoroso capitano lo avviluppò, lo disfece, e in pochi giorni prese l'esèrcito e il condottiero, che ferito, e accorato di tanta ignominia, morì. Galeazzo pervenne a dominare trentadùe città, fra cui Gènova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Nocera, Spoleto, Bologna, Parma e Piacenza, la Terraferma Vèneta fino a Feltre e Cividale, tutte le pianure del Piemonte; era quasi il regno dei Longobardi, ma pieno di ricchezze e di vita. Infine egli intraprese a stringere del tutto la repùblica fiorentina, occupando con dòdici mila cavalli e diciottomila fanti tutti i passi dell'Apennino e dell'Arno. Voleva dopo la vittoria comparire ei medèsimo in Firenze, incoronarsi re d'Italia, quando la morte dissipò tutti i sogni di quella grandezza.

Più magnànimo che assennato, egli non vide con quali interni vìncoli si stabilìscono i regni; e morendo divise il dominio a tre figli minorenni; nè lasciò loro altra sicurtà che la fede dei conduttieri. Tosto fu messo in brani lo Stato; i Cavalcabò si fècero signori a Cremona, i Benzoni a Crema, i Rusca a Como, i Sacchi a Bellinzona, i Vignati a Lodi, i Suardi a Bèrgamo, i Malatesti a Brescia, i Terzi a Reggio e Parma e Piacenza; Facino a Novara e Tortona e Alessandria; Siena tornò libera; il Monferrato ebbe Vercelli; e la vèdova di Galeazzo, per amicarsi i Vèneti, cedè loro Verona, Vicenza, Feltre, Belluno; e allora cominciò il dominio vèneto in Terraferma, e un'era novella per quella repùblica. Il solo Jàcopo dal Verme ebbe pari il valore e la fedeltà. La discordia penetrò nella famiglia ducale e nel consiglio secreto; Bucicault, luogotenente di Francia a Gènova, chiamato, occupò Milano, spogliò i cittadini, falsò le monete, e venne discacciato. Il giòvine duca, libertino e crudele come Nerone, fu pugnalato da uno stuolo di patrizi. Allora Filippo Visconti, sposando Beatrice Tenda, vèdova del conduttiero Facino, acquistò le sue armi e le sue fortezze; e tosto con miràbile velocità riebbe Vercelli, Como, Lodi, Crema, Bèrgamo, Brescia, Parma, Piacenza, Gènova, Savona, Imola, Faenza e Forlì. – Bisogna che le città una volta assoggettate o si facèssero propense a quel dominio, più aspro che maligno, e veramente benèvolo all'ùmile industria e ai lontani commercj, o fossero attratte dalla vasta mole; le amministrazioni èrano pur sempre municipali; e pareva migliore un prìncipe grande e lontano, che un vicino e bisognoso oppressore.

 

XXVIII.

 

Era appena trascorso un sècolo, dacché aveva cominciato la tarda libertà degli Svìzzeri; e già le loro fanterìe di bronzo palesàvano la debolezza delle soverchie cavallerìe dei conduttieri. Dopo che Carmagnola e Pèrgola èbbero ricuperate a Filippo Visconti le valli della Toce e del Ticino, le armi loro fùrono troppo vicine alle svìzzere. Il primo incontro in quelle anguste gole riescì arduo agli uòmini d'arme; ma Carmagnola, capitano d'alto intelletto, fatti smontare i suoi, li ricondusse alla prova, e ne uscì vittorioso; ancora oggidì presso la Chiesa Rossa d'Arbedo si addìtano le tombe dei vinti Svìzzeri.

Il più splèndido momento del dominio dei Visconti si fu quando, vinti e fatti prigioni nella pugna navale di Ponza (an. 1435) i due re Alfonso d'Aragona e Giovanni di Navarra della flotta di Gènova, la quale portava allora l'insegna del serpente, gli illustri prigionieri fùrono addutti nel castello di Milano; dove il nostro duca, con più cortesìa che arte di stato, li pose in libertà, e li onorò con feste suntuose. – Languiva allora da molti anni, nel càrcere di Monza, il giòvine cavaliero Venturino Benzone, che aveva militato nell'esèrcito del Carmagnola, già divenuto nemico di Filippo, e passato al comando dei Vèneti. La figlia di Carmagnola lo voleva suo sposo; ma il vecchio Giorgio Benzone, padre di Venturino, tuttochè spoglio del suo principato e ramingo, sdegnò alteramente il parentado del soldato, che nato contadino era salito a improvisa fortuna. Il disprezzato Carmagnola si vendicò, abbandonando Venturino al nemico in una fortezza. Il prigioniero, erede del ribelle signore di Crema, e preso colle armi alla mano contro lo Stato, doveva morire; ma un zio, ch'egli aveva nella casa del duca, gli implorò un indugio alla morte, e tanto fece che rimase obliato nel càrcere. Senonchè nelle splèndide giostre date ai re prigionieri, apparve un Gonzaga di Màntova così bello e prode cavaliero, che nessuno dei campioni del Duca potè tenergli fronte. Ne doleva fieramente al superbo Filippo. Allora il vecchio Corio, il zio di Venturino, venne a dirgli che vi era pure nel suo Stato un guerriero, che solo fra tutti poteva vìncere la prova. Il duca tutto lieto acconsentì; Venturino, tratto dal càrcere, adorno d'armi preziose, comparve improviso nell'ùltima giornata, come uomo che risurge dal sepolcro; rimandò sconfitto il Gonzaga; ebbe la libertà, il dono d'un palazzo in Milano, e d'un castello nell'Astigiana; e sposò la giovinetta del suo cuore, la figlia di Princivallo d'Asti.

 

XXIX.

 

Nel 1421, Carmagnola era entrato in Brescia colle armi di Filippo; cinque anni dopo, nello stesso giorno (16 marzo), vi entrò colle armi vènete; per sei mesi ancora si combattè intorno al castello; e solo al cader dell'anno Brescia fu tranquilla. Ma in dòdici anni il generoso pòpolo s'affezionò tanto a quella modesta e non umiliante signorìa vèneta, che quando il Piccinino comparve con ventimila uòmini per ricuperarla a Filippo, era troppo tardi. I Bresciani, sospese tosto le domèstiche inimicizie, proferìrono al magistrato i loro averi, spianàrono le case dei sobborghi, munìrono di ricche artiglierìe le mura; fècero una compagnìa di quattrocento che chiamàrono immortali, perchè altri dovèvano prender sempre il posto dei caduti. Il nemico batteva le mura con ottanta cannoni; i cittadini battèvano le chiese ov'era alloggiato; ogni giorno egli scendeva dai colli a combàttere; ogni giorno gli assediati uscìvano dalla città. Chiusi i tribunali e le officine, rifugiati nelle chiese i vecchi e gl'infanti, tutti i cittadini èrano sulle mura; tutte le donne, sotto il comando di Brìgida Avogadro, èrano tra il foco, a sollevare i feriti, a dar mano alle òpere di difesa. Scaricate tutte le artiglierìe per nascòndersi col fumo, Piccinino sboccò dalle sue trincèe, diede l'assalto da due parti; fra il rintocco di tutte le campane e le grida delle donne, cominciò all'alba un combattimento che arse fino a sera. Il nemico respinto battè le mura per altri dòdici giorni, poi le assaltò da tre parti; le artiglierìe dei cittadini, mirabilmente appuntate, fècero strazio delle file nemiche lungo il piede della breccia; gli elmi infranti e sanguinosi èrano sbalzati duecento passi lontano; infine la battaglia stretta sospese il foco; le donne versàvano dalle mura olio bollente e pece infocata; si combattè fino a sera; poi tutto il dì seguente. Piccinino aveva perduto settemila soldati; l'esèrcito fremeva dell'inutile sua pertinacia; egli sciolse l'assedio, andò sul lago e sui monti; lasciò la città tra la peste e la fame. – I Vèneti mandàrono intanto su per l'Adige trenta navi; le tràssero per terra dietro il monte Baldo; le lanciàrono inaspettate su le acque del Benaco. I loro capitani, Taddèo d'Este, Sforza, e Gattamelata, s'inoltràrono nei monti da una parte, mentre il bresciano Avogadro e il conte di Lodrone tentàvano il passo dall'altra; ma un convoglio di vìveri scortato da mille cavalli venne intercetto; le navi vènete sul lago affondate o prese; Taddèo d'Este prigioniero. Allora tutto l'esèrcito vèneto si spinse nelle valli del Tirolo; i Bresciani uscìrono dai monti; Piccinino preso in mezzo e disfatto si riparò con dieci cavalieri nel castello di Tenno. Ma nella stessa notte, l'astuto capitano, giovàndosi della breve statura che gli aveva dato il nome, si fece portar fuori in un sacco, come cadavere d'un appestato. Gettàtosi in una barca, raccolse le sue genti in quella stessa notte; e mentre il nemico lo credeva certa preda nel castello, egli volò a Verona, ove teneva secreti accordi; scalò le mura; prese la città; ma non la fortezza. I Vèneti delusi sopravènnero a furia; Verona, perduta da quattro giorni, fu ricuperata. – Intanto a Brescia si moriva di fame; l'inverno era asprìssimo; non v'èrano vìveri, nè legna, nè strami; èrano agghiacciate le fosse della città; e i nemici ad ogni istante sotto le mura. Attraverso alle desolate campagne appena si poteva apportar combattendo qualche pane bagnato di sangue; metà degli abitanti era perita, i supèrstiti si sostentàvano d'erbe selvagge e d'animali immondi. – Ma sull'aprirsi della primavera l'incostante Filippo richiamò Piccinino, lo mandò contro Firenze; apparve sul lago una flottiglia vèneta; Garda e Riva fùrono espugnate; Sforza vincitore passò il Mincio a insegne spiegate. – I Vèneti invitàrono cento cavalieri Bresciani a ricèvere le più solenni grazie del doge. Brescia rimase sùddita; ma con autorità di mutare le sue leggi municipali, e con giurisdizione su tutto il territorio; il nome vèneto divenne più caro ai Bresciani, che in tutte le guerre d'Italia e d'Oriente fùrono sempre pròdighi a Venezia di denaro e di combattenti. – I fatti di quell'assedio pròvano due cose contro la maggioranza degli scrittori: – che il fondamento del dominio vèneto non era il terrore, ma una nòbile amicizia dei pòpoli, – e che le guerre dei conduttieri, prima della discesa di Carlo VIII, non èrano di giostre pompose, ma di fiere battaglie.

 

XXX.

 

I Duchi di Milano non avèvano un potere nato coi pòpoli e intessuto alla legge e alla tradizione; èrano privati; posti per forza e per arte disopra agli eguali. Quindi nelle case ghibelline uno sdegno di quella grandezza frodata; e nelle case guelfe la fede indelèbile ch'era un diritto tolto alla chiesa e al commune. La chiesa e l'imperio fùrono sempre i due divisi principj, all'uno o all'altro dei quali corrèvano le menti, bisognose d'afferrare un filo di ragione e di stabilità tra le volùbili fortune dei conduttieri. I Visconti, in mezzo agli uòmini d'arme e alle fortezze, dovèvano ancora acquistarsi il tìtolo ora di Vicarj imperiali, ora di Vicarj pontificj. Gian Galeazzo, egli che voleva morir coronato, pagò centomila scudi d'oro il nome di duca. Quando il re Sigismondo scese senz'armi a cìngere la corona d'Italia, l'astro dei Visconti impallidì; gli eredi dei fèudi ghibellini accorrèvano al suono del nome imperiale. Indarno il Petrarca già da lungo tempo aveva detto ch'era un nome vano e un ìdolo; intorno a quell'ìdolo e nel suo nome essi ritornàvano eguali, eguali per un giorno, ai loro armati signori. – Non poteva Filippo Visconti mostrarsi fra il tumulto di quegli omaggi; parer sùddito; non più prìncipe, ma gentiluomo di prìncipe. E si rinserrava tenebroso e torvo nel suo castello di Porta Giovia, ad aspettare che quella pompa di teatro, quella fedeltà di sediziosi trapassasse; e rimanesse la sola terrìbile realtà della spada e della scure nella sua mano. Ma le famiglie riportàvano nelle interne case rinovata la memoria d'obedire alla forza e non al diritto; e l'inusitata pompa la improntava indelebilmente nelle ànime dei loro figli. – Tutte dunque le nostre istorie, così sotto i Cèsari come sotto i Duchi, e le due calamitose decadenze che seguìrono, sono prove solenni che tra la forza e il diritto s'interpone un insuperàbile abisso.

 

XXXI.

 

Alla morte di Filippo, alcune famiglie vòllero creare d'improviso una repùblica sìmile alla vèneta; ma èrano senza milizie nazionali, e i conduttieri di Filippo le invòlsero in mille tradimenti. Nè un governo municipale d'una sola città poteva trar seco le altre; e Venezia, che pur lo doveva, troppo tardi prese a strìngerle in lega. Tuttavìa per più di due anni si sostenne qualche sembianza di stato popolare; non senza qualche prova di virtù. Vigèvano, una delle più industri città del ducato, fece una valorosa resistenza a Francesco Sforza; si vìdero le donne prèndere sulle mura le armi dei caduti, combàttere anch'esse; uno stuolo d'assalitori, nel discèndere per le ruine entro la città, scivolò sul pendìo del terreno lùbrico di sangue, e stramazzò alla rinfusa; parve quello un prodigio; parve che un'arcana mano li fermasse; s'arretràrono tutti esterrefatti. Bastò quel respiro a salvar la città, ch'ebbe il tempo d'arrèndersi, e scansare gli orrori del saccheggio. – Francesco Sforza entrò in Milano dopo l'assedio come Enrico IV in Parigi; i suoi soldati, càrichi di pane, si lasciàvano depredare dalle turbe famèliche. Il primo pensiero del nuovo regnante fu di ristaurare il castello, smantellato dai republicani; si vide che gli Sforza non volèvano regnare sugli ànimi e cogli ànimi; e il savio cittadino Giorgio Piatto predisse le sventure che poi sopravènnero. Sforza ebbe pace dai Vèneti, perchè Costantinòpoli presa allora dai Turchi (an. 1454) chiamò altrove i loro pensieri. Francesco si mostrò sagace, non aspettando che la rivale casa di Francia s'ingerisse del suo Stato, ma prese l'ùnica via di sicura difesa, ponendo egli le mani nelle cose di Francia; e mandò suo figlio a soccòrrere Luigi XI, stretto dalla ribelle lega del ben pùblico. La facilità con cui le milizie italiane abbattèvano le fortezze, fece stupore a quei pòpoli, e palesò tutto il vantaggio che l'inoltrata civiltà degli Italiani avrebbe dato loro in lontane guerre! Il re ne diede grazie al duca con solenne ambasciata; non secondò le ragioni della casa d'Orléans sull'eredità dei Visconti; e pose Sforza in possesso di Gènova e di Savona; onde lo Stato Milanese ebbe di nuovo il nùmero di quìndici città, fra le quali Parma e Piacenza, e quelle ora piemontesi di Novara, Vigèvano, Valenza, Alessandria, Tortona e Bobbio. Ma il vecchio Sforza tosto morì; suo figlio, fedele ai pensieri paterni, difese la Savoja contro Carlo il Temerario; ma poco di poi fu pugnalato nella famosa congiura di Lampugnano, Olgiato e Visconti. Barbaramente pomposo, quando intraprese colla sua sposa un viaggio a Firenze, con accompagnamento di cinquanta superbi corsieri, e d'una folla d'uòmini d'arme, e di cortigiani ornati di collane d'oro e di velluti, con duecento muli da càrico, due mila cavalli e cinquecento coppie di cani, rimase umiliato dalla modesta e delicata eleganza fiorentina. – Poco dopo la sua morte, gli Svìzzeri, discesi nelle valli del Ticino, tentàrono penetrare nelle Tre Pievi del Lario; ma gli abitanti li còlsero fra quelle strette e li respìnsero. Il governo Sforzesco volle snidarli allora anche dalla Leventina, il cui pòpolo era secoloro in alleanza. Il conte Torello con quìndici mila soldati e molte artiglierìe s'inoltrò nelle valli; incontrò i Leventini, comandati dal capitano Stanga di Giornico, che lentamente ritraèndosi, lo condusse in un piano, inondato ad arte colle aque del Ticino. Era tardo dicembre; la notte rìgida converse la valle in un campo di gelo; all'alba i Leventini, correndo sul ghiaccio colle scarpe ferrate, assalìrono gli uòmini d'arme, che non potendo reggersi in piede, cadèvano d'ogni parte alla rinfusa sui loro cavalli, e sotto una frana di sassi, che i montanari dirupàvano dalle imminenti balze. Ma il prode Stanga, càrico di ferite, al ritorno cadde moribondo sulla porta della paterna sua casa.

 

XXXII.

 

Il ducato era salito a miràbile floridezza colle arti della lana, della seta, dei metalli, e sopratutto delle armature; oltre a' suoi mercanti e banchieri, stabiliti in Francia e in Germania, possedeva il porto di Gènova e si giovava di quello di Venezia; l'Amèrica si scopriva a quei giorni, il Capo di Buona Speranza non era ancora girato; e la linea dei nostri laghi e del Reno era la gran via del commercio dall'Oriente alle Fiandre, ove facèvano scala tutti i pòpoli del settentrione. – Nel condurre entro la fossa della città i marmi del Verbano, discesi pel Ticino e pel Naviglio, il triviale ripiego d'una chiusa per superare il soverchio pendio delle aque aveva a poco a poco fatto trovare la miràbile invenzione delle conche; per tal modo il Lario per l'Adda, e il Verbano pel Ticino, si riunìvano sotto le mura della città. – Nell'architettura civile s'introduceva allora la varia e signorile maniera bramantesca, che può dirsi propria di quel sècolo e del nostro paese, e sola forse fra tutte le varietà di quell'arte si mostra pieghèvole in tutto al moderno costume. Fioriva la pittura con Gaudenzio Ferrari, coi Luini, con tutta la scuola di Leonardo, che dipingeva allora la sua Cena, e architettava la cùpola delle Grazie. Le famiglie dei Piatti, dei Calchi, dei Grassi fondàvano scuole di lèttere e di scienze dove l'insegnamento del càlcolo e della geometrìa diveniva un sussidio alla potenza industriale. D'ogni parte fiorivano le lèttere italiane e latine; e nelle nostre chiese si vèdono i sepolcri degli èsuli greci, che diffondèvano colla loro lingua la varietà e libertà dell'antica filosofia.

 

XXXIII.

 

Ma gli Sforzeschi, già pericolanti per l'usurpata eredità dei Visconti, accrèbbero il pericolo colle discordie, vòllero spogliarsi anche fra loro; e tràssero sopra il loro capo e sopra la divisa Italia la più spaventosa tempesta. L'Italia era piena di forze e d'ingegni; per tutto ciò che nella milizia di mare e di terra è arte, superava di lunga mano tutte le nazioni; ma ogni cosa era instàbile e arbitraria; ogni prìncipe aveva disegni suoi; ogni capitano, che avesse una bandiera di soldati, non viveva senza speranze di conseguire coll'arte o colla forza un principato. La rete d'una polìtica inestricàbile inviluppò mani e piedi alla nazione, che fu da inetti nemici barbaramente spogliata e insanguinata. Lo Stato sforzesco era una raunanza di municipj senza nodo di consenso; anche le menti migliori pensàvano alla propria città, nessuna alle altre, nessuna allo Stato. E sempre risurgeva la fatale difficultà d'un governo, che, non avendo radice nelle tradizioni e nelle opinioni, non nutriva fiducia nei sùdditi; li amava più divisi che unànimi; più inermi e dappoco, che guerrieri e risoluti; riponeva sempre il sommo della speranza nelle castella e negli uòmini comprati. E gli Svìzzeri, comprati da Ludovico il Moro, a Novara lo vendèttero a' suoi nemici. In pochi anni tutte le città vènnero saccheggiate e contaminate ad una ad una. Lodi in trent'anni circa fu presa quìndici volte: fu saccheggiata da Svìzzeri, da Spagnoli; fu campo di battaglia tra Spagnoli e Vèneti. Le famiglie seminude fuggivano a Crema. Durante la lega di Cambray, i Cremaschi, disperando della fortuna di Venezia, accettàrono presidio francese: ma vènnero disarmati e depredati; si cacciàrono dalla città tutti gli uòmini dai 15 ai 60 anni. Cittadini e contadini la riprèsero allora valorosamente ai Francesi; assediati di nuovo dagli Svìzzeri, li sorprèsero e tagliàrono a pezzi a Ombriano. Ma la guerra aveva desolato le campagne, e dissipati i capitali; e la peste in così angusto territorio divorò 16,000 persone. Le donne, i fanciulli, le monache stesse fuggivano d'ogni parte a Lodi; non si può dire in quale delle due città si vivesse peggio. Il più lungo strazio fu in Milano, ove, dopo una pestilenza che aveva distrutto cinquantamila abitanti, gli Spagnoli imperversàvano rubando, uccidendo, estorcendo denaro colle catene e coi tormenti, prendendo in pegno le donne, costringèndole a portar terra alle fortificazioni, spogliando ignudi la notte quanti incontràvano per le vie, scalando le finestre, e trucidando chi gridasse o resistesse. Le nazioni che fècero sì indegno scempio d'un pòpolo che non le aveva offese, e che colle arti, colle lèttere, colla scoperta d'un nuovo mondo le onorava e beneficava, non hanno veramente a rispòndere di quegli eccessi ora troppo lontani e sommersi tra le memorie del passato; ma dovrèbbero almeno vergognarsi di vituperarne le vìttime e di commendarne gli autori.

 

XXXIV.

 

Il ducato non mancava di forze militari; aveva tesori d'industria, tesori di crèdito; ancora le vie di Parigi e di Londra pòrtano il nome de' banchieri lombardi; lombardo in Francia suonava banchiere; e chi aveva denaro aveva soldati. Non era il pòpolo di Francia che combatteva le battaglie de' suoi re. Quando Francesco discese in Italia, aveva 22 mila fanti tedeschi, e poche centinaja di gendarmi francesi; e ancora in quel corpo non francese, l'anima, la mente era italiana; era Trivulzio, l'implacàbile nemico della fortuna sforzesca. Trivulzio deluse gli Svìzzeri che avèvano chiuse le alpi, finse d'avviarsi per le consuete vie; ne divisò altre nuove e inaccesse; scavò le rupi come Annibale; trasse i cannoni a braccia come Napoleone; come falco che piomba dalle nubi, sorprese Pròspero Colonna seduto ne' quartieri di Villafranca; con una corsa senza battaglie mise il re di Francia in Milano. Fu l'esèrcito vèneto che minacciando gli Svìzzeri alle spalle, li costrinse a svèllere le bandiere dal campo di Meregnano. Fu Pròspero Colonna che alla volta sua piombò sopra Milano, quando Lautrec dormiva; e gli Spagnoli che saccheggiàrono Como, èrano suoi soldati. Ma gli Stati d'Italia non avèvano un principio civile, il quale potesse unire questi prodi sotto un'insegna, che non fosse quella dell'odio domèstico o della privata fortuna; v'era una tradizione di diffidenza e di perversità nei consigli delle corti. Poco prima della prigionìa del Moro, seimila ghibellini si armàrono in odio al Trivulzio, lo cacciàrono di Milano; ma Ludovico non badò a quel valore; mercantava in quel momento medèsimo gli Svìzzeri che dovèvano tradirlo. Il cancellier Morone cacciò un'altra volta Trivulzio colle forze dei cittadini; poi li condusse alla presa d'Asti e d'Alessandria; poi colla voce del frate Andrèa Barbato li accese di nuovo alle armi sulla piazza di S. Marco; li condusse sui prati della Bicocca ad affrontare gli Svìzzeri, e rimandarli pesti e sanguinosi alle loro montagne. I giòvani seguìrono un'altra volta il loro duca, e cacciàrono i Francesi d'Abbiategrasso; ma tra le spoglie dei caduti raccòlsero il germe d'una pestilenza che divorò cinquantamila cittadini. Un altro dei nostri, il Mèdici di Meregnano, consumava indarno il suo valore a fondarsi un principato sopra una rupe del Lario; si vendeva agli Spagnoli, ministro d'orrìbile esterminio a Siena. Il Morone, il Trivulzio, il Meregnano, e altri uòmini di siffatto vigore, che vìssero o prima o poi, rimàsero sconnessi e inùtili frammenti d'una màchina poderosa, che in pugno a un vero prìncipe, e animata da tanta opulenza e da tanto crèdito, poteva scuòtere l'Europa ben più che le poche turbe collettizie del re Francesco.

 

XXXV.

 

La più funesta e sanguinosa sventura fu quella di Brescia. La giornata di Ghiara d'Adda aveva distrutto le forze terrestri de' Vèneti, i quali con accorgimento profondo sciòlsero dal giuramento le città suggette; nè vòllero insanguinarle colla difesa, certi che la preda avrebbe diviso i vincitori, e la licenza militare avrebbe offeso i pòpoli, e assicurato il riacquisto. E per verità il volùbile Giulio II si volse tosto contra i Francesi; Pàdova e Vicenza li cacciàrono. Un Martinengo tentò lo stesso in Brescia, ma vi perdè la vita; la Francia prese in ostaggio i primarj cittadini, e introdusse in città nuove genti, che acquartierate nelle case insultàvano al domèstico onore. La città fremeva; nove cavalieri, Rosa, Paitone, Rozzone, Valgoglio, Fenarolo, Lana, Gandino, Lantana e Martinengo, su la pietra d'un altare giuràrono di mèttere i beni e la vita a redimer Brescia alla legge vèneta. Il conte Avogadro faceva altro simil patto con Venezia; le case di Brescia si empìrono d'armati; al prefisso giorno il generale vèneto passò l'Adige, giunse presso sera a Montechiaro; ma fu visto. Pochi momenti dopo, l'annuncio era in Brescia; fra il silenzio della notte fatale i Francesi scaricàrono d'improviso tutte le loro artiglierìe; e armati e rumorosi còrsero tutta la città; i Vèneti, giunti sotto le mura, le vìdero piene di nemici. All'alba i nomi di trenta cavalieri bresciani fùrono gridati ribelli; – la morte, a chi li ricettasse; – i loro beni e il grado di capitano di Francia, a chi li scoprisse. Fenarolo, trovato entro un sepolcro in una chiesa, si pugnalò; recato alla rocca, si mise le mani nella ferita e si uccise; un Avogadro, un Ducco, un Riva fùrono tratti al patìbolo. Ma l'altro Avogadro, che aveva armato gli uòmini di Val-Trumpia, raccolse i fuggitivi, che duràrono tutti nel propòsito. Gritti e Baglioni ricondùssero sotto Brescia l'esèrcito vèneto; Avogadro vi trasse diecimila montanari; si diede nelle trombe e nei tamburi da tutte le parti ad un tempo; Martinengo trovò modo d'arrampicarsi entro le mura; ruppe una porta; le altre, al grido di San Marco, fùrono prese dai cittadini. Ma Gritti, venuto a tutta corsa e senza artiglierìe, non volle assalire immantinente il castello; e perchè i montanari ne mormoràvano, ne sviò settemila a espugnare le fortezze del contado, e soccorrer Bèrgamo che combatteva. – Era l'esèrcito francese a Bologna, capitanato dal giòvine prìncipe reale, Gastone di Foix, che poco di poi morì sul campo di Ravenna. Egli si mosse immantinente; attraversò il Mantovano, senza dimandar licenza a quel prìncipe; sorprese strada facendo Baglioni e lo disfece; sorprese altre genti vènete stanziate a Castanèdolo; giunse a Brescia, che il castello si teneva ancora; il cavalier Baiardo circondò il monasterio di S. Floriano difeso da mille Trumplini, che non s'arrèsero, e morìrono tutti. Gastone, al giovedì grasso, discese dal castello in città con dòdici mila uòmini, comandati dai primi cavalieri di Franda. Cadeva la neve; battèvano a martello tutte le campane della città; dopo due ore di calda battaglia, i cittadini èrano ancora fermi ai serragli delle strade, quando alcuni mercenarj dei Vèneti dièdero indietro; i Francesi incalzàndoli si spìnsero lungo il bastione fino ad una porta murata; la sfondàrono; tràssero dentro altre genti; i cavalleggeri albanesi, che si vìdero il nemico alle spalle, abbandonàrono il posto, rùppero un'altra porta, e si dispèrsero nella campagna. La gente d'arme del cavalier d'Allegre entrò a squadroni per la porta abbandonata; s'incontrò in Ludovico Porcellaga, che, tutto solo, non però retrocesse; anzi spronato il cavallo, gettò di sella il D'Allegre; ma rimase oppresso dalla turba. Sopragiunse a furia suo fratello Lorenzo Porcellaga; Gastone di Foix, che lo vide grande della persona e valoroso combatter solo contra tutti, si tolse il guanto, si levò la visiera, vietò a' suoi di ferirlo; ma egli combattendo a morte, cadde sul moribondo fratello. – Alla notte Gastone si ricordò dei due prodi, venne a raccòglierli; li accompagnò co' suoi cavalieri al Duomo, ove fùrono deposti; fu visto piàngere sui cadàveri sanguinosi.

L'esèrcito vincitore, invadendo tutte le piazze, spingeva qua e là le turbe indarno combattenti; scannava alla rinfusa nelle strade e nelle chiese i sacerdoti, i vecchj, le donne cogli infanti in collo; gli uccisi d'ambo i sessi fùrono diecisette mila. Per sette giorni il crudel Gastone abbandonò le robe e i corpi d'un pòpolo fedele e infelice a una soldatesca ubriaca; saccheggiato fino i cenci dei poverelli al Monte di Pietà; saccheggiato il luogo degli appestati; le meretrici dell'esèrcito stanziate nei monasterj; per molti giorni file di carri onusti d'ogni maniera di spoglie uscìrono dalla città. Avogadro fu decapitato alla presenza di Gastone, che lo volle squartato, confitte le mìsere membra a quattro porte della città, e il teschio su la Torre del Pòpolo. – Poco di poi gli Spagnoli entràvano in Brescia; la quale ebbe tant'ànimo ancora che tentò di cacciarli, e riunirsi ai Vèneti. Gli Spagnoli la dièdero ai Francesi; e i Francesi, tre anni dopo averla inutilmente straziata, la rèsero ai Vèneti; ai quali, benchè piena d'armi e di spìriti generosi, rimase fedele per poco meno di tre sècoli (an. 1787).

 

XXXVI.

 

Fra tante sventure, Màntova sola era un'ìsola di pace e di sicurezza. Fin dai tempi della lega lombarda (an. 1188) Pitentino aveva costrutto la diga di Porto, sollevando le aque del lago a difesa e salubrità; e aveva aperto colla chiusa di Govèrnolo un fàcile accesso alle navi del Po: Màntova, pìccola Venezia, resisteva per due mesi ad Ezzelino, che si vendicò estirpando le vigne e uccidendo i contadini. Stava alla difesa il visconte Sordello di Gòito, quegli che da giovinetto, appresa in Provenza l'arte del trovatore, spargeva per l'Italia versi d'amore, e bersagliava d'ardite sirventi i prìncipi neghittosi; nè l'amore della bella Cunizza sorella del crudele Ezzelino lo faceva infedele alla sua città. Il suo senno vi calmava l'ire cittadine; sventava i tradimenti; insegnava ai Mantovani a chiùdere in serraglio la campagna a ponente della città, onde inondarla a piacimento, e costrìngere i nemici a troppo vasta linea d'assedio. Màntova fu dunque un asilo, ove molti cercàvano sicurtà, màssime dopo che Pinamonte Bonacolsi, capitano del pòpolo, prese ad abbellirla. Ma quando Passerino, fàttosi oppressore de' suoi guelfi, ebbe rinovata la tragedia d'Ugolino, facendo morir di fame, nella torre di Castellaro, Francesco Pico e i suoi figli, i signori di Gonzaga, entrati in città coi Veronesi travestiti, uccisero il tiranno, divènnero capitani del pòpolo. I Visconti non pòsero mai piede in Màntova; l'assalìrono sempre indarno, anche quando, con otto mesi di lavoro, tentàrono sviare il Mincio, e disarmare delle aque la città. I Gonzaga, prodi conduttieri, prestando il braccio ora ai Visconti medèsimi, ora ai Vèneti, ai Fiorentini, ai Francesi, agli Spagnoli, dièdero perizia d'armi ai loro seguaci, e sembiante di potenza militare al piccolo Stato, posto così a traverso al Mincio e al Po. Francesco, l'amico di Carmagnola, ebbe il tìtolo di marchese di Màntova. Federico, che difese Pavìa contro il re Francesco, ebbe il Monferrato in dote di Margherita Paleòloga, e il tìtolo di duca; Ludovico divenne in Francia duca di Névers, combattè cogli Inglesi, respinse da Parigi il prode Coligny; Vincenzo combattè sul Danubio coi Turchi.

Era la sicura Màntova piena d'industria e di commercj; vantava splèndidi ingegni, fra cui basti menzionare Pomponacio, che primo fra i moderni propose i più sublimi dubj sulla necessità e la libertà. Il Mantegna e Giulio Romano èrano chiamati a dipìngere le basìliche del pòpolo e le ville dei duchi; vi si era diffuso un amore d'eleganza e di voluttà, che agli altri Italiani, agitati da continui perìcoli, pareva quella una terra di sirene. E così la stirpe guerriera dei Gonzaga si estinse nella mollezza. – Venne di Francia Carlo di Rhétel, discendente dei Névers; ma l'imperio non volle in un Francese un principato ch'era fèudo dell'imperio; scoppiò la guerra; la città non più agguerrita, desolata dalle fazioni e dai contagj, appena le mancàrono i soccorsi vèneti, si arrese; ma non si ricomprò da un atroce saccheggio, che straziò i tesori delle arti e sperperò il commercio. Andàrono fugitivi i magistrati, sospesi i sacri riti; i pochi avanzi del pòpolo non vàlsero a sgombrare le macerie, piene di cadàveri insepolti. Dopo d'allora i signori di Màntova, piuttosto che prìncipi, furono eleganti e lascivi privati. Nel 1707 Màntova fu presa di nuovo, e abbattute le insegne ducali, diede giuramento all'imperio. Per la prima volta in ottocento anni, una città così vicina a Milano venne compresa sotto una medèsima signorìa; nè più ne venne disgiunta.

 

XXXVII.

 

Le grandi calamità che desolarono il nostro paese nella prima metà del sècolo XVI èrano tutte esterne e materiali; non ferìvano il principio della sua vita, perchè non troncàvano le tradizioni d'industria e d'intelligenza, conservate dagli studj letterarj, dalle relazioni mercantili, dalla lìbera concorrenza, dall'inviolàbile diritto consolare, dalla potenza del crèdito. Quindi la ricchezza esàusta risurgeva sempre, le menti èrano piene di vigore e d'alacrità, le arti belle e gli eleganti costumi fiorivano tra i saccheggi e le pesti. – La decadenza intima e vera cominciò colla seconda metà del sècolo, quando, estinta la stirpe sforzesca, si fu rassodato il dominio spagnolo. Il gentiluomo castigliano nella lunga lutta cogli industri Mori e coi trafficanti Israeliti aveva preso odio e disprezzo ai mestieri e alle mercature, come arti di caste infedeli e impure. La insurrezione dei Communeros, e più tardi quella dei Paesi Bassi, avèvano inimicata ai municipj la corte; e la sua profonda e dissimulata ostilità operò lentamente, arrestando e logorando nelle interne sue rote l'azienda d'uno Stato ch'era altamente industriale. – Già gli Sforza, per assicurarsi un soglio vacillante, avèvano restituite alcune esenzioni ecclesiàstiche, infrante dalla rìgida mano dei Visconti; e avevano aggravati di tasse i cittadini. Quando il re Luigi XII si trovò signore di Milano, volle conciliare le famiglie potenti, tenute in troppo stretta disciplina dai duchi. E per verità doveva regnare da paese lontano, e aver pure qualche stàbile fondamento di dominio; e capo d'un regno per eccellenza feudale, forse non sapeva in qual modo si regnasse altrimenti. Instituì dunque un Senato ch'era, al modo degli antichi parlamenti francesi, un tribunale supremo, con diritto di registrare le leggi, ossia di limitare i decreti del re, difesa lontana del principe contro l'importunità e l'arbitrio dei favoriti. Gli Spagnoli, trovata quella istituzione, la promòssero, la rassodàrono, la rèsero inamovìbile, la pòsero sopra tutte le leggi (etiam contra statuta et constitutiones), le commìsero il giudizio delle càuse feudali; e quindi il destino della nobiltà; – l'appello di tutte le cause civili e criminali e l'ùnica giurisdizione in tutte le càuse gravi; e quindi la sicurezza dei cittadini; – il riparto delle imposte; e quindi tutto l'òrdine delle sussistenze, dei salarj, del tornaconto, dell'industria nazionale; – il sindacato di tutta l'amministrazione; e quindi l'obedienza dei magistrati; – la direzione degli studj; e quindi l'intelligenza e l'opinione.

 

XXXVIII.

 

Il Senato invase in breve tutte le minori giurisdizioni. Permise ai trafficanti di deviare dal foro mercantile, e con ciò solo estirpò la fede pùblica, atterrò la potenza della cambiale e del contratto, tutto l'edificio del crèdito. Sottopose le arti a tasse ineguali, e coll'èstimo del mercimonio insinuò il cavillo fiscale in tutte le vene dell'industria; poi, per temperarlo, ricorse all'uso e all'abuso dei privilegi, e conturbò tutto l'òrdine dei guadagni e della speculazione. Quando vide sùrgere gigante la miseria pùblica, e assidua la carestìa, punì di morte l'esportazione dei grani; avvilì l'agricultura; e fece primo pensiero e arte suprema di governo il fornir di pane estimato e pesato la plebe della città. – Le famiglie, che all'uso antico d'Italia continuàvano anche nel colmo delle ricchezze un decoroso e nòbile commercio, umiliate al confronto del più squàllido capitano spagnolo, imparàrono a sprezzare la solerzia dei loro antichi, e s'invogliàrono di purificare il sangue coll'ozio. Per esser decurione della città; per sedere nel magistrato di provisione a regolare l'annona, le strade e le osterìe; per èssere appena esente da soprusi e insulti, non bastò più l'antica nobiltà municipale; fu forza ridivenir nòbile all'uso castigliano, far voto d'inerzia perpetua. Le fanciulle fùrono condannate fin dalla nàscita a irrevocàbili voti, per provedere all'orgoglio dei primogèniti. Cento chiostri si dilatàrono per la città, vuota di famiglie e d'officine. L'òrdine degli Umiliati, che colle ingenti sue ricchezze continuava le vetuste tradizioni di patronato mercantile, fu estirpato; e i suoi capitali si spèsero in costruzioni suntuose, a gloria de' suoi nemici, e in dotazioni d'òrdini nuovi che si credevano più adatti ai nuovi tempi.

Gli immensi capitali che si giràvano a Lione, a Parigi, ad Anversa, a Londra, a Colonia, vènnero gradualmente ritirati; e s'investìrono in terre titolari, in ostentazioni signorili, in elemòsine depravatrici della plebe laboriosa. I pòveri artèfici, abbandonati dal capitale, perìrono nelle pestilenze, nelle carestìe, nel diuturno avvilimento; molte arti già famose si obliàrono; molte fùrono trasferite a Zurigo, a Ginevra, a Lione, a Parigi; così le nazioni nuove s'inalzàvano a misura del nostro decadimento. Dalla sola Milano si espatriàrono ventiquattro mila operaj; di settanta fàbriche di pannilani, rimàsero cinque; il fisco senatorio sentendo mancarsi il terreno, pesava tanto più avidamente sugli avanzi sempre più miseràbili dell'industria moribonda. Di duecentomila abitanti di Milano sparìrono 140 mila, e in proporzione si spopolàrono le altre città; e i supèrstiti vissero cenciosi, servili, abjetti, lenti, pieni di stolti terrori. I più animosi si pòsero in clientela dei grandi, si fècero ministri di violenze, di vendette, di puntigli insegnati alla novella gioventù dai vuoti e oziosi Castigliani. Ne scaturìrono le genìe dei bravi; e servìvano alle passioni delle stesse famiglie prepotenti, che nelle leggi e nelle gride minacciàvano loro un teatrale esterminio. Bande di scellerati signoreggiàvano le campagne; spargèvano a luce aperta il sangue nelle stupefatte città; tenèvano sacrìleghe gozzoviglie nei sacri asili; insultàvano nelle chiese alle esequie degli uccisi. Talora la giustizia vergognante e inferocita prorompeva in furori di crudeltà; insanguinava le strade di supplicj studiati e crudeli; il patìbolo era di tempo in tempo uno spettàcolo quotidiano; ma questi sforzi deliri e convulsi non riaprivano le sviate fonti dell'òrdine e della giustizia. Uòmini zelanti avèvano voluto, col ministerio delle nuove congregazioni, rigenerare le famiglie al senno e al costume (an. 1545‑1566); e il frutto che dopo due generazioni se ne mieteva, è descritto, e forse troppo parcamente descritto, nei Promessi Sposi e nella Colonna Infame. Ben v'èrano gli uòmini che isolàndosi dalla commune corruttela e stoltezza, si collegàvano cogli studj al senno antico o al progresso straniero. Ma non potèvano ròmpere il nodo che l'interesse dei pochi aveva stretto coll'ignoranza dei molti. Pur tratto tratto ponèvano mano a rappresentanze ed ambascerìe; le quali non èbbero quasi altro effetto che di conservare ai pòsteri qualche documento di buon volere, di senno e di virile eloquenza. Tali fùrono Fabrizio Bossi e Cèsare Visconti (1630).

Se il ducato di Milano fosse stato l'imperio romano, quello era il principio d'una terza barbarie. Ma l'antico ducato era una mediocre provincia; e aveva già lasciato cader d'ogni parte le antiche sue membra; Venezia teneva Brescia, Bèrgamo e Crema; i Grigioni, Bormio, la Val-Tellina e Chiavenna; gli Svìzzeri esercitàvano una venale giurisdizione sopra le valli del Ticino; la Val-Sesia e la Lumellina, e più tardi Alessandria, Tortona, Voghera fùrono aggregate al Piemonte; Gènova non portava più sui mari l'insegna ducale; Pontrèmoli fu venduta alla Toscana; Parma e Piacenza èrano patrimonio dei Farnesi. Ma per quanto una polìtica acciecata facesse, per chiùdere le frontiere, troncare i vicendèvoli commercj, ristrìngere il campo dell'industria e fare del pòvero Stato un ricòvero di miseria, l'Olanda, l'Inghilterra, la Francia e la Germania avèvano raccolto la nostra eredità; ci stàvano intorno piene e traboccanti di vita e di progresso. – La nostra patria doveva risùrgere.

 

XXXIX.

 

Al principio del sècolo XVIII era miràbile il fermento che si vedeva nelle nazioni. La Russia si era desta dal sonno dei sècoli; la Prussia era un regno; la stirpe britànnica surgeva a inaspettata potenza, fondava un imperio nelle Indie, e un altro e più glorioso in Amèrica. Il ducato di Milano si era finalmente distaccato dal cadàvere spagnolo, e ricongiunto all'Europa vivente. I dominj austriaci, varj di lingua, e dissociati di civiltà, cominciàrono ad èssere uno Stato, e possedere un principio d'amministrazione e d'unità. Ma se lo spìrito del sècolo e l'ànimo della Regnante additàvano le grandi vie del ben pùblico e della prosperità, gli esperimenti èrano ardui. Nelle provincie germàniche, slave e ungàriche rara la popolazione, rare le città, poche tracce o nessuna d'incivilimento più antico, isolata la posizione su le frontiere di nazioni bàrbare. In Fiandra v'èrano città lavoratrici e ubertose campagne, e vicinanza di nazioni progressive; ma lo spirito dei pòpoli era provinciale, tenace, diffidente. La Lombardia, che già sentiva l'àura del tempo che veniva, e nella sua miseria era pur sempre una terra di promissione, e aveva un pòpolo di mente aperta e d'ànimo caldo e sensitivo, parve ai zelatori del bene come uno di quei campi eletti, in cui l'agricultore fa prova di qualche novella semente. È un fatto ignoto all'Europa, ma è pur vero: mentre la Francia s'inebriava indarno dei nuovi pensieri, e annunciava all'Europa un'era nuova, che poi non riesciva a còmpiere se non attraverso al più sanguinoso sovvertimento, l'ùmile Milano cominciava un quarto stadio di progresso, confidata a un consesso di magistrati, ch'èrano al tempo stesso una scuola di pensatori. Pompèo Neri, Rinaldo Carli, Cesare Beccarìa, Pietro Verri non sono nomi egualmente noti all'Europa, ma tutti egualmente sacri nella memoria dei cittadini. La filosofia era stata legislatrice nei giureconsulti romani; ma fu quella la prima volta che sedeva amministratrice di finanze e d'annona e d'aziende communali; e quell'ùnica volta degnamente corrispose a una nòbile fiducia. Tutte quelle riforme che Turgot abbracciava nelle sue visioni di ben pùblico, e che indarno si affaticò a conseguire fra l'ignoranza dei pòpoli e l'astuzia dei privilegiati, si tròvano registrate nei libri delle nostre leggi, nei decreti dei nostri governanti, nel fatto della pùblica e privata prosperità.

 

XL.

 

S'intraprese il censo di tutti i beni, dietro un principio che poche nazioni finora hanno compreso. Si estimò in una moneta ideale, chiamata scudo, il valor comparativo d'ogni proprietà. Gli ulteriori aumenti di valore che l'industria del proprietario venisse operando, non dovèvano più considerarsi nell'imposta; la quale era sempre a ripàrtirsi sulla cifra invariàbile dello scudato. Ora, la famiglia che dùplica il frutto de' suoi beni, pagando tuttavia la stessa proporzione d'imposte, alleggerisce d'una metà il peso, in paragone alla famiglia inoperosa, che paga lo stesso càrico, e ricava tuttora il minor frutto. Questo premio universale e perpetuo, concesso all'industria, stimolò le famiglie a continui miglioramenti. Tornò più lucroso raddoppiare colle fatiche e coi risparmj l'ubertà d'un campo, che posseder due campi, e coltivarli debolmente. Quindi il continuo interesse ad aumentare il pregio dei beni fece sì che col corso del tempo e coll'assidua cura il piccolo podere pareggiò in frutto il più grande; finchè a poco a poco tutto il paese si rese capace d'alimentare due famiglie su quello spazio che in altri paesi ne alimenta una sola. Qual sapienza e fecondità in questo principio, al paragone di quelle bàrbare tasse che presso culte nazioni si commisùrano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò rièscono vere multe proporzionali, inflitte all'attività del possessore!

Il censo eliminò per sua natura tutte quelle immunità, per le quali sotto il regime spagnolo un terzo dei beni, come posseduto dal clero, non partecipava ai pùblici càrichi, e li faceva pesare in misura insopportàbile sulle altre proprietà. – Il censo divenne fondamento anche al regime communale; i communi nostri divènnero tanti pìccoli Stati minorenni, che, sotto la tutela dei magistrati, decrètano òpere pùbliche, e ne lèvano sopra sè medèsimi l'imposta. Non si vìdero più quelle stentate prestazioni d'òpere, di bestiami, di materiali, ch'èrano spavento dei contadini, e strumento d'oppressione e di corruttela. Si preparò un miràbile sviluppo di strade, con un principio di manutenzione che interessò il costruttore alla màssima solidità e semplicità di lavoro. Ma non è questo il luogo d'annoverare tutte le riforme che s'introdùssero da quei filòsofi: il riparto territoriale, il riscatto delle regalìe, l'abolizione dei fermieri, la tutela dei beni ecclesiàstici, la riforma delle monete.

Dalla metà del sècolo in poi si attivò un'immensa divisione e suddivisione di beni; il numero dei possidenti e degli agiati crebbe nella proporzione stessa in cui crèbbero i frutti. Si cominciò a sciògliere i fedecommessi, che unìvano nelle famiglie la noncurante opulenza dei primogèniti con la povertà, l'umiliazione, la forzata carriera dei cadetti e delle figlie. Si abolìrono le mani morte; si rimìsero nella lìbera contrattazione i loro sterminati beni; si alienàrono i pàscoli communali; si riordinàrono le amministrazioni de' municipj; si rivocò l'educazione pùblica a mani dòcili e animate dallo spìrito del sècolo e del governo; si abolirono i vìncoli del commercio, la schiavitù dei grani, quasi tutte le mete dei commestìbili, e i regolamenti che inceppàvano le arti. La subitanea apparizione delle novelle merci inglesi e francesi scosse il nostro torpore, fomentato dalle proibizioni spagnole, e risuscitò per noi la vita industriale. Si apèrsero strade; si sopprèssero barriere e pedaggi; si ridùssero a tre o quattro ore le distanze tra città e città, che prima si varcàvano a forza di buoi e a misura di giornate. Si abolìrono le preture feudali, in cui per conto di privati si mercava la giustizia; si abolì un Senato, sul quale pesava la memoria di supplizj iniqui e crudeli; si abolìrono gli asili che i ladroni godèvano sui sacrati dei tempj, e dietro le colonnette dei palazzi signorili; non si vìdero più assassini nelle chiese; le sezioni anatòmiche fecero sparire l'aqua tofana; si abolì la tortura, che puniva nell'innocente i delitti dell'ignoto; spàrvero le fruste, le tenaglie infocate, le orrìbili rote, l'inquisizione; in luogo di sotterranei fetenti e di scelerate galere, si fondàrono laboriose case di correzione. Fin dal 1766, sei anni prima che si aprisse il càrcere di Gand, si era applicato il principio della segregazione dei prigionieri; un giorno di cella scontava due giorni di càrcere; si era dunque scoperto che la cella segregante non era strumento di lieve correzione, qual èrasi creduto finallora, ma una pena poderosa, applicàbile ai più gravi delitti, e capace di far più terrore che la morte. Ma qual meraviglia che questi sagaci pensieri nascèssero prima che altrove in quel paese dove Beccarìa non solo era scrittore, non solo porgeva pùblico insegnamento di scienze sociali, ma sedeva autorèvole nei consigli dello Stato?

I bastioni solitarj e paurosi, ove si seppellivano i giustiziati, divènnero ombrosi passeggi; si tolse il lezzo alle strade; e l'òrrida abitazione dei cadàveri si rimosse dalle chiese; si sgombràrono dagli accessi dei santuarj i mendicanti, ostentatori d'ùlceri e di mutilazioni; a poco a poco non si videro più nelle città piedi nudi o àbiti cenciosi. Si apèrsero teatri, ove le famiglie, inselvatichite da sette generazioni, imparàrono a conòscersi, e gustàrono le dolcezze del viver civile, della mùsica, della poesìa. Il genio musicale rispetta e ambisce il giudizio del nostro pòpolo; un solo carnevale in uno dei minori nostri teatri diede al diletto dell'Europa la Sonnàmbula e l'Anna Bolena. Regnò la tolleranza di tutti i culti; e si aperse òspite soggiorno agli stranieri che apportàvano esempj di capacità e d'intraprendenza. S'introdùssero le scienze vive nella morta Università; si fondàrono academie di belle arti; rifiorì l'architettura, l'ornato riprese greca eleganza; s'inalzàrono osservatorj astronòmici; si costrusse la carta fondamentale del paese; si apèrsero nuove biblioteche; le madri tòlsero ai cuochi ed agli staffieri la prima educazione dei figli. Soave rifece tutti i libri elementari; Parini, Mascheroni, Arici ricondùssero l'eleganza letteraria, indirizzàndola ad alti fini scientìfici e morali; Beccarìa lesse economìa polìtica; surse a poco a poco quella costellazione di nomi splèndidi alle scienze e alle arti, Volta, Piazzi, Oriani, Appiani, cogli altri che la continuàrono fino ai viventi. Gli allievi di tanto senno si spàrsero in tutte le provincie, e propagàrono in tutte le classi quel fàusto movimento di cose e di idèe che ci attornia d'ogni parte, e ci arride all'imaginazione.

 

XLI.

 

Abbiamo accennato a principio in quale stato la natura desse ai primi nostri progenitori questa terra che abitiamo: al basso, una vicenda d'aque stagnanti e di dorsi arenosi; all'alto, un labirinto di valli intercette da monti inòspiti e di laghi. Abbiamo detto quali pòpoli ci fùrono maestri, o almeno fratelli di cultura: i Lìguri, gli Umbri, i Pelasghi, gli Etruschi, i Romani: e quali ne fùrono inciampo su la via della civiltà, la quale tre volte s'arrestò e decadde: nell'era cèltica, nella bizantina, nell'ispànica. Nessuna istoria offre una più frequente alternativa di beni e di mali, e una più manifesta prova di ciò ch'è veramente giovèvole, o veramente avverso all'umana felicità. Il nostro incivilimento tre volte tornò uno sfrondato tronco; e ogni volta nel rinverdire apparve più rigoglioso e fiorito.

Noi possiamo mostrare agli stranieri la nostra pianura tutta smossa e quasi rifatta dalle nostre mani; sicchè il botànico si lagna dell'agricultura, che trafigurò ogni vestigio della vegetazione primitiva. Abbiamo preso le aque dagli alvei profondi dei fiumi e dagli avvallamenti palustri, e le abbiamo diffuse sulle àride lande. La metà della nostra pianura, più di quattro mila chilòmetri, è dotata d'irrigazione; e vi si dirama per canali artefatti un volume d'aqua che si valuta a più di trenta milioni di metri cùbici ogni giorno. Una parte del piano, per arte ch'è tutta nostra, verdeggia anche nel verno, quando all'intorno ogni cosa è neve e gelo. Le terre più uliginose sono mutate in risaje; onde, sotto la stessa latitùdine della Vandèa, della Svìzzera, della Tàuride, abbiamo stabilito una coltivazione indiana.

Le aque sotterranee, tratte per arte alla luce del sole, e condutte sui sottoposti piani, poi raccolte di nuovo e diffuse sovra campi più bassi, scòrrono a diversi livelli con calcolate velocità, s'incòntrano, si sorpàssano a ponte-canale, si sottopàssano a sifone, s'intrècciano in mille modi. Nello spazio di soli duecento passi, presso Genivolta, la strada da Bèrgamo a Cremona incontra trèdici aquedutti, e li accavalca coi Trèdici Ponti. – Alla condutta di queste aque presiede un principio di diritto, tutto proprio del nostro paese, pel quale tutte le terre sono tenute a prestarsi questo vicendèvole passaggio, senza intervento di prìncipe, o decreto d'espropriazione. Non è questo un vìncolo che infranga il sacro diritto di proprietà; ma un'ùtile aggiunta al diritto, per rèndere più fruttìfera ogni proprietà senza eccezione.

Gli ùltimi scoli di tutte codeste aque sono muniti ai loro sbocchi di chiuse, che arrèstano il rigorgo dei tùrgidi fiumi. – Un canale attraversa per mezzo tutta la provincia Cremonese dall'Ollio al Po; tutti gli aquedutti che còrrono a fecondare la parte inferiore, lo attravèrsano con ponti di pietra, lasciàndovi traboccare le aque che per avventura eccèdano la prefissa misura; e se avviene che diuturne pioggie rèndano superflua l'irrigazione, si chiùdono con porte gli aquedutti, e le loro aque precipitate nel sottoposto scavo si devìano tutte nell'Ollio o nel Po. – La provincia Mantovana è una terra conquistata sulle paludi; i suoi canali di scolo sòmmano a 754 mila metri; le stesse aque che accèrchiano la città, sono una palude trasformata per arte in lago navigàbile.

Le linee d'interna navigazione, percorse in parte da vaporiere, sòmmano a 1200 chilòmetri; e ripartite sulla superficie ragguàgliano per ogni chilòmetro 56 metri, mentre il Belgio ne ha solo in ragione di 48, e la Francia di 27, e non tutti d'aque perenni. Un paese al tutto mediterraneo come il nostro s'avvicina per questo aspetto all'Olanda. I nostri canali, navigàbili ad un tempo e irrigatorj, sono costrutti sopra un principio speciale; non sono una serie di tronchi orizontali come i canali oltremontani di mera navigazione, ma sono veri fiumi, prima inclinati fortemente, poi progressivamente moderati, per accògliere di tronco in tronco le diseguali masse d'aqua, che l'irrigazione vien successivamente emungendo.

Una volta impresso il moto, quest'òrdine di cose si continuò uniforme attraverso alle più varie vicissitùdini dei tempi. Ogni anno segnò sempre per noi qualche nuovo grado di prosperità; ogni anno più vasta la rete stradale; ogni anno più folta la piantagione dei gelsi, prima riservata ai colli, poi distesa in veri boschi sui piani dell'Ollio e dell'Adda, e salita fino a mille metri d'altezza nelle valli alpine, produttrice d'un'annua raccolta di cento milioni di franchi, in un territorio che corrisponde alla 26.a parte della Francia. Sempre più diffuse, ma più accurate e quindi meno insalubri le irrigazioni; si mùtano in buone case i tugurj dei contadini; pènetra in tutte le communi rurali il principio dell'istruzione; tolta cogli asili dell'infanzia l'abjetta ferocia e la rozzezza ai figli della plebe; gli studj delle lèttere e delle arti accommunati al sesso gentile; e colle solenni mostre diffuso l'amor delle belle arti nel pòpolo, e un àbito d'eleganza negli ùtili mestieri.

 

XLII.

 

Su la nostra pianura tutti gli abitati si collègano con buone strade, che ragguàgliano in circa un chilòmetro di lunghezza per ogni chilòmetro di superficie. La rete stradale involge ormài tutte le colline, sino all'altitùdine d'ottocento metri; trafora con gallerìe le rupi verticali che interròmpono le riviere dei laghi; s'insinua nelle valli alpine, raggiunge i sommi gioghi; difende contro le vallanghe i più alti passi carrozzàbili che sìano sul globo. La via del Sempione, che fu il modello di tutte, è òpera de' nostri ingegneri, che condùssero anche quelle della Spluga e dello Stelvio. Ingegneri nativi di quell'antica parte del nostro territorio che aggregossi alla Svìzzera, tracciàrono le vie del Gottardo e del Bernardino. I nostri imprenditori sono sparsi per le terre dei Grigioni, dei Tirolesi, degli Illirj, dei Boemi, dei Galiziani, insegnando loro a protèndere attraverso ai monti i vìncoli d'una crescente civiltà. Le nostre òpere stradali pòrtano tratto tratto i segnali d'una magnificenza romana; il ponte che congiunge le due rive del Ticino, a Buffalora, si stende per trecento e più metri con ùndici arcate di granito. – Le strade ferrate non ci sono ignote; una linea è compiuta da quattro anni; due sono cominciate; altre sono studiate e discusse.

L'uomo con tutte queste òpere d'aque e di strade ha preso possesso di tutte le terre coltivàbili; e ad ogni condizione di terreno adattò un òrdine proprio di coltivazione, un più ampio o più minuto riparto nella possidenza, un proprio tenore di contratti.

 

XLIII.

 

È assai malagèvole pòrgere una succinta idèa della nostra agricultura nelle diverse provincie, per la strana sua varietà. Mentre in una parte d'un territorio il riso nuota nelle acque, un'altra non può abbeverare il bestiame se non di vecchie aque piovane o colaticce, o tratte a forza di braccia da pozzi profondi fino a cento metri. Un distretto è continuo prato, verde anche nel verno, folto d'armenti, ridondante di latticinj; un altro raduna a stento poco latte caprino, coltivando piuttosto a giardini che a campi l'olivo e il limone, la più elegante di tutte le agriculture. Nei monti si coltiva la cànapa, ed è quasi ignoto il lino; intorno a Crema e Cremona il lino è primaria derrata campestre, e la cànapa è negletta. La pianura pavese si allarga in ampie risaje, poco cura il gelso; e la pianura cremonese ne ha le più folte e robuste piantagioni. Il vino è la speranza dell'agricultura in ambo le opposte estremità del paese, nella boreale e alpestre Val-Tellina, e nelle australi pianure di Canneto, di Casalmaggiore, e dell'Oltrepò. L'agricultura bresciana solca profondamente a forza di bovi un terreno tenace; la lodigiana sfiora i campi con un lieve aratro tratto da sollèciti cavalli, per non sommòvere le pòvere ghiare, sopra le quali il lavoro dei sècoli ha disteso uno strato artificiale.

 

XLIV.

 

Le circostanze naturali che vògliono questa varietà nel modo di coltivar le terre, la vògliono anche nel modo di possederle. Nella pianura irrigua un podere che non avesse certa ampiezza non si potrebbe coltivare con profitto, perchè richiede complicate rotazioni, culture moltèplici, difficili giri d'aque, e una famiglia intelligente che ne governi la complicata azienda; quindi ogni podere forma un considerèvole patrimonio. La famiglia che lo possiede è già troppo facoltosa per appagarsi di quella vita rurale e solitaria, in luoghi non ameni; dimora dunque in città; villeggia sugli aprichi colli e sui laghi; e sovente conosce appena per nome il latifondio che la nutre in quell'ozio. La coltivazione trapassa alle mani d'un fittuario, il quale per condurre debitamente l'azienda debb'esser pure capìtalista; e ve ne ha taluni più ricchi dei proprietarj, e talvolta possessori essi d'altre terre, confidate ad altri coltivatori. Vivendo nel mezzo d'ogni abondanza domèstica, circondati di numerosi famigli e cavalli, fòrmano quasi un òrdine feudale in mezzo a un pòpolo di giornalieri, che non conòscono ulteriori padroni. Qui surge un òrdine sociale affatto particolare. Un distretto che abbia una ventina di communi e misuri un centinajo di chilòmetri, conta in ogni commune quattro o cinque di queste famiglie, che spesso vìvono in casali isolati, a guisa degli antichi Celti. Sono sparsi fra mezzo a loro alcuni curati, qualche mèdico, qualche speziale, il commissario, il pretore che amministra la giustizia e le tutele famigliari. Questa è l'intelligenza del distretto; tutto il rimanente è nùmero e braccia. Ogni coltivatore vende grani, e compra bestiami, e òccupa fabri e falegnami; ma il commercio e l'industria non vanno oltre; appena qualche bottega serve al rùstico apparato del contadino. Si direbbe che questo è l'antico modello su cui si formò l'agricultura britànnica. Ecco gli uòmini che sotto le mura di Pavìa e appiè del castello di Binasco andàvano senz'armi ad affrontar Bonaparte vincitore di Montenotte e di Lodi.

 

XLV.

 

Se dal fondo della pianura saliamo ai monti, troviamo un ordine sociale infinitamente diverso. Le rìpide pendici, ridutte in faticose gradinate, sostenute con muri di sasso, su le quali talora il colono porta a spalle la poca terra che basta a fermare il piede d'una vite, appena danno la stretta mercede della manuale fatica. Se il coltivatore dividesse gli scarsi frutti con un padrone, appena potrebbe vìvere. La terra non ha quasi valore, se non come spazio su cui si esèrcita l'òpera dell'uomo, e officina quasi del coltivatore; e il paesano è quasi sempre padrone della sua gleba; o almeno livellario perpetuo; con altri patti le vigne e gli oliveti ritornerèbbero ben presto selva e dirupo. Mentre una parte della famiglia vi suda, e alleva all'amore del suolo nativo la pòvera prole; un'altra parte scende al piano ad esercitarvi qualche mestiere; o si sparge trafficando oltremonte, e riporta alla famiglia i risparmj, che le danno la forza di continuare la sua lutta colla natura e colla povertà. Un distretto di questa fatta conta tante migliaja di proprietarj quante sono le famiglie; ma la ricchezza non viene dal suolo, e vi s'investe come frutto delle arti o del tràffico. Laonde si vede una singolar mistura di costumi rusticali e d'esperienza mondana, l'amore del lucro e l'ospitale cordialità, la facilità di saper vìvere in terra straniera, e l'inestinguìbile affetto di paese, che presto o tardi fa pensare al ritorno. – In alcuni monti la possidenza privata è ancora un'eccezione; il commune possiede vastamente i pàscoli e le selve e le aque e le miniere; nè basta sempre l'esser nato da gente nata in paese; ma bisogna appartenere ai patrizj del commune, agli originarj. Senza avvedersi, essi consèrvano ancora una communanza, la quale rimonta alle genti cèltiche; appena ha fatto luogo qua e là al possesso romano; e non mai sofferse vera signorìa feudale, ma onorò solo negli antichi conti e capitani il nome del prìncipe e l'autorità delle leggi. Alcune di queste communanze, pochi anni or sono, tenèvano ampie valli; la Leventina, lunga più di trenta miglia, era un solo commune; e si suddivise prima in otto e poscia in venti; il distretto di Bormio era un solo commune, e ancora conserva indivisa fra i nuovi communi molta parte dell'antica proprietà. In molti luoghi il commune pìccolo si distingue dal commune grande, o diremo la moderna parochia dal primitivo clano. Questo regime appare più puro ed assoluto in quelle valli che si aggregàrono alle leghe dei Grigioni, e sopratutto nella Mesolcina, perchè sfuggìrono alle riforme dei governi amministrativi.

Alcune delle estreme valli sono troppo alpestri per l'agricultura; la neve le ingombra nove mesi dell'anno, ma le trova deserte e silenziose. Chiusi i pòveri casolari, il pastore discende per le valli coll'armento; gli uòmini appiedi; le donne sui cavalli, cogli infanti nelle ceste come le tribù dell'oriente. A brevi giornate di cammino la carovana si arresta dove il contadino del piano l'aspetta; le vacche alpine stànziano qualche giorno a brucare gli esàusti prati; poi, inseguite dalle brine, pàssano a più bassi campi, fino ai prati perenni. Quando la natura si riapre, la famiglia ritorna al suo viaggio, rivede fioriti i campi che lasciò bruni e squàllidi; risale lungo i tortuosi torrenti, trova i pochi che rimàsero nella valle a diradare le selve, e sudare alle fucine; e si sparge sulle alpi, che così chiama ancora quei pàscoli dove la primitiva communanza non conosce altra disegualità che il nùmero degli armenti.

 

XLVI.

 

Fra questi estremi, sono le belle colline coltivate come il monte, ubertose come il piano. Quivi una contadinanza, la quale non possiede la sua terra, eppure non emigra, può tributare al padrone il frumento, divider seco il vino e i bòzzoli, e serbar tanto per sè da vìvere colla famigliola, e allevarla nel sèmplice tenore de' suoi padri. Quivi un commune è disseminato in venti, in trenta, in quaranta casali di vario nome, che la chiesa, posta sul poggio più ameno, raccoglie in un commune sentimento di luogo. Lìberi di coltivare la terra a loro talento, purchè non si defràudi dal pattuito frutto il proprietario, essi le sono affezionati come se fosse loro proprietà. Se il padrone si muta, il colono subisce la legge del nuovo; e talvolta una famiglia dura da tempo immemoràbile sullo stesso terreno. Tutto l'anno è un continuo lavoro; le viti, il gelso, il frumento, il granoturco, i bachi, le vacche, la vangatura e la messe, il bosco e l'orto danno una perenne vicenda di cure, che desta l'intendimento, la previdenza e la frugalità. Lavorando sempre in mezzo alla famiglia, senza comandare nè obedire, il contadino pur si collega al lontano commercio pel prezzo de' suoi bòzzoli, e pel lavoro che la seta porge alle sue donne. Nei siti meno lieti e più rìpidi, dove il cittadino non ama investire capitali, l'agricultore è spesso il padrone del suo terreno; e rappresenta quello stato sociale ch'era così sparso negli aborìgeni, quando fùrono i sècoli della maggior forza d'Italia e del più puro costume.

Questi aspetti della vita rusticale nel piano, nel monte e nel colle, si spiègano talvolta in modo aperto e risoluto; ma trapàssano per lo più dall'uno all'altro, con varia tessitura, che il commercio e l'industria rèndono più complicata. Questa varietà palesa quanto l'agricultura sia antica fra noi, ed in quanti particolari modi abbia sciolto i singoli problemi che le varietà naturali del paese avèvano proposto.

 

XLVII.

 

Per effetto di tuttociò, la pianura lombarda è la più popolosa regione d'Europa. Essa conta per ogni chilòmetro di superficie 176 ànime, mentre la pianura bèlgica ne ragguaglia solo 143. E se si comprende nel còmputo anche la parte alpina, ancora si hanno 119 abitanti, dove la Francia ne conta solo 64, e nella sua parte meridionale, che è più meridionale della Lombardia, soli 50. La popolazione specifica nelle Isole Britànniche e nell'Olanda giunge solo a due terzi della nostra; nella Germania alla metà; nel Portogallo e nella Danimarca a un terzo; nella Spagna a un quarto; nella Grecia a un ottavo; nella Russia a un dècimo. – Il nostro pòpolo adunque per effetto di principj amministrativi al tutto suoi, come quelli del censo perpetuo, delle sovrimposte communali, e della servitù vicendèvole d'aquedutto, fecondò in tal modo la sua terra, che sovra lo spazio dove la Francia nutre una famiglia, ne nutre all'incirca due, pur pagando a proporzione di superficie la stessa somma d'imposte. – Le nostre communi rurali hanno maggior nùmero di scuole; e il tràffico e l'industria s'intreccia più intimamente a tutti gli òrdini d'agricultura e di rotazione, sicchè non abbiamo turbe d'industrianti, che non tèngano qualche ferma radice nel terreno della patria. Il ferro, la seta, il cotone, il lino, le pelli, il zùccaro sono oggetti di grandiosa manifattura. Il lavoro del ferro, in ragione all'ampiezza del paese, porge tra Como, Bèrgamo e Brescia una cifra non mediocre, otto milioni di franchi; Milano e Como còntano più d'otto mila telaj di seta, e novanta mila fusi di cotone; la sola Olona ànima 424 rote motrici.

 

XLVIII.

 

Il pòvero riceve una più generosa parte di soccorsi che altrove. Nel 1840 si contavàno 72 ospitali; in un triennio s'aggiùnsero altri 6; altri 7 si stanno edificando; e sono aperti a tutti, senza patronato, senza favore, alla sola condizione dell'infermità e del bisogno. Il patrimonio stàbile di questi ospitali ha un valore venale di duecento milioni. Il solo ospitale di Milano ricetta nel corso d'un anno 24 mila infermi; Parigi, che ha una popolazione più che quàdrupla, ne ricetta ne' suoi ospitali solo il triplo. Londra ne ricetta quanto Milano; epperò, a proporzione di pòpolo, là si soccorre un infermo, dove qui se ne soccòrrono dieci. Il pòvero è sovvenuto di mèdici, di medicine e di chirurghi anche nelle sue case, non solo nella città, ma nelle più remote campagne. La metà incirca dei mèdici e dei chirurghi, e tre quarti delle levatrici, hanno stipendio dai communi, a sollievo delle famiglie pòvere. Il nùmero dei mèdici è in ragguaglio di uno sopra 13 chilòmetri quadri di paese, mentre nel Belgio ogni mèdico ha un doppio campo di vigilanza. Questo esèrcito sanitario di mèdici, di chirurghi, di speziali, di veterinarj, di levatrici, somma a poco meno di cinque mila persone. – In pari misura il paese è provisto d'ingegneri, i quali nella sola città di Milano ammontano a circa 450, mentre il corpo d'aque e strade in tutta la vastità della Francia ne conta solo 568; il che agèvola ogni òpera d'aque e di strade. Il nùmero grande delle classi istrutte, poste in assiduo contatto colla popolazione, esèrcita una benèfica influenza a rimòvere i pregiudizj, e insinuare un retto senso d'utilità.

Gli abitanti delle città sono quattrocentomila; e molti òppidi e borghi di sei, di otto, di diecimila abitanti, benchè non àbbiano nome di città, còntano numerose famiglie civili; la possidenza è diffusa in tutte le classi; onde, ogni cosa considerata, è forse questo il paese di Europa che offre il maggior nùmero di famiglie civili in proporzione all'inculta plebe.

 

XLIX.

 

I fasti delle nostre scienze e lèttere non sono oscuri; comìnciano con Catullo, con Virgilio, con Plinio il giòvine; la lingua latina tramonta col nostro Boezio; ma presto gli studj risùrgono con Lanfranco pavese, con Sordello mantovano, con Albertano ed Arnaldo da Brescia; nella giurisprudenza e nella filosofia risplende Alciato, Pomponacio, Beccarìa; nelle matemàtiche e nelle fisiche, Cardano, Tartalia, che primo sottopose a càlcolo le artiglierìe, Cavalieri, scopritore d'una scienza, Piazzi scopritore d'un pianeta, e Volta che trovò la maggiore e più feconda delle scientifiche scoperte. – Virgilio e Volta sono due nomi noti a tutti i pòpoli civili, e danno a questa angusta provincia uno splendore, che non ha la vasta Spagna e la vastissima Russia.

Il nostro dialetto, nei cordiali e schietti suoni del quale si palesa tanta parte della nostra ìndole, più sincera che insinuante, porta impresse le vestigia della nostra istoria, le orìgini cèltiche si manifèstano indelebilmente nei suoni; le romane nel dizionario; qualche lieve solco, lasciato dall'infeconda età longobàrdica, a gran pena si discerne, mentre vi giàciono inesplorate ancora le tracce di qualche cosa che fu più antico e più nativo dei Romani e forse dei Celti. I confini entro cui si parla questo linguaggio e gli altri affini suoi, rappresèntano tuttora la geografia dei sècoli romani; documento istòrico che attende ancora chi ne sappia trar lume ad ardue induzioni. Questo dialetto, inosservato all'Europa, ma parlato da più d'un milione di pòpolo, ha due sècoli di letteratura. Uòmini d'ingegno e di studj e d'alto affare si finsero plebe, affilàrono coll'acerbità popolare l'ottusa verità. Maggi, Tanzi, Balestrieri lo scrìssero non conoscèndone ancora la potenza satirica; Parini e Bossi vi apportàrono l'elegante àbito delle lèttere e delle arti; e Carlo Porta, poeta d'altìssimo ingegno, alla naturalezza del dipinto fiammingo congiunse la forza còmica di Molière, il frizzo di Giovenale, l'efficacia contemporanea di Béranger. Nella Fugitiva di Grossi il dialetto toccò gli affetti; e si conservò negli officj troppo necessarj della sàtira civile in Rajberti.

 

L.

 

Lo straniero vede chi noi siamo. I nostri padri fùrono più prodi che fortunati; e noi possiamo dire che la nostra generazione fu sìmile alle trapassate. Vìvono ancora fra noi le reliquie di quegli esèrciti che, improvisati da Napoleone, militàrono sotto le mura di Gerona e di Valenza, sui campi sanguinosi d'Austerlitz e di Raab, che dopo aver combattuto a Malo-Jaroslavetz conservàrono su la Beresina una disciplina e una alacrità superiori ai disastri; e in guerra che tornava a gloria d'altra nazione poco lodata per gratitùdine, sostènnero, fin dopo la caduta del loro capo, tutti i doveri della fedeltà militare.

Noi abbiamo recato il nostro tributo alle lèttere, alle arti, alla filosofia, alle matemàtiche, all'idràulica, all'agricultura, all'elettrologìa; l'Enèide di Virgilio e il Giorno del Parini, il Duomo e la Certosa, il libro dei Delitti e delle Pene e i primi càlcoli della balìstica, tutta l'arte dei canali navigàbili, i prati perenni, la pila voltiana. Noi, senza dirci migliori degli altri pòpoli, possiamo règgere al paragone di qual altro sìasi più illustre per intelligenza, o più ammirato per virtù; e aspettiamo che un'altra nazione ci mostri, se può, in pari spazio di terra le vestigia di maggiori e più perseveranti fatiche. È una scortese e sleale asserzione quella che attribuisce ogni cosa fra noi al favore della natura e all'amenità del cielo; e se il nostro paese è ubertoso e bello, e nella regione dei laghi forse il più bello di tutti, possiamo dire eziandìo che nessun pòpolo svolse con tanta perseveranza d'arte i doni che gli confidò la cortese natura.

 


 

CARLO CATTANEO

 

SULLA LEGGE COMUNALE  E  PROVINCIALE

 

 

 

 

 

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LETTERA PRIMA([6])

 

Liberata nel 1859 la Lombardia non aveva ancora eletto la prima sua deputazione al Parlamento, quando un potere dittatorio vi recò la legge pur allora sancita in Piemonte sull'ordinamento dei comuni e delle provincie.

Nè quivi, nè altrove, essa fece fortunata prova. Non appena potè dirsi in atto, e già li autori suoi si accingevano ad emendarla. Ma tutte le riforme, sinora tentate da ministri e commissioni, non danno migliore speranza; discoprono sempre più la fallacia del fondamento. Il che non sarebbe, se i correttori, anzichè spender fatica intorno alla legge nuova, la quale è già poi veramente un raddobbo d'altra più infelice fatta dal primo Parlamento nel 1848, avessero piuttosto preso le mosse da quella che nel 1849 rimase infaustamente abolita in Lombardia.

Portava questa la data del 1816; ma nelle sue parti più lodate risaliva alla metà dello scorso secolo. Anzi i magistrati che la promulgavano nel 1755, dissero di voler solamente rimettere in rigorosa osservanza gli ordini antichi. Può dunque avvenire anche delle leggi amministrative ciò che valse a tanto onore dei giureconsulti romani; ed è che le formule della giustizia e della provvidenza sopravvivano al secolo che le ha pensate e possano condurre ad altri giusti e provvidi pensamenti.

Agli ordini antichi dello Stato di Milano si aggiunse in quella legge quanto di meglio potevano suggerire gli ordini pure antichi, e ancor quasi inviolati, dei popoli toscani. Perocchè, Pompeo Neri, già professore di diritto pubblico nello studio di Pisa, incaricato con Emanuele De Soria, Camillo Piombanti, Ferdinando Forti e Giuseppe Tarantola di proseguir l'opera del nuovo censo dello Stato di Milano, intrapresa già fin dal 1718, vi diede compimento con una legge comunale e provinciale. E sulla base d'un nuovo estimo dei beni, scevro d'ogni esenzione e di ogni diseguaglianza, ricompose con mirabile semplicità e parsimonia tutta la pubblica amministrazione, già prima tanto intralciata da privilegi e arbitrii. E qui, alla prova di una secolare esperienza, si può ben ripetere il detto di Schiller che l'opera lodò l'artefice.

La nuova legge diede facoltà di deliberare delle cose comuni ad un convocato di tutti i possessori dei beni. Questi dovevano elegger fra loro una deputazione di tre; uno dei quali doveva esser preso fra i tre ch'entro i confini del comune possedessero maggior estimo. A compimento poi d'una vera e sincera autorità comunale, si aggiungeva un deputato del mercimonio e un altro eletto da tutti coloro che pagassero il testatico. Codesti due rappresentanti del commercio e dei lavoro non avevano veramente voto diretto nelle spese dell'estimo prediale ma solamente su quella parte dei contributo mobiliare ch'era lasciata a sussidio dei comune. La legge porgeva loro un indiretto adito ad ingerirsi in tutto il complesso dei provvedimenti. Perocchè il comune non poteva far uso d'alcuna particella dei testatico, se non quando le altre fonti non bastassero alle spese; ultimo di tutti a pagare era chiamato il povero. Anzi la legge ammoniva il deputato del mercimonio a stare «avvertito perchè le spese necessarie alla sussistenza della popolazione, come di medico, chirurgo, spedale, fontane, cisterne e altro, si facessero secondo la consuetudine, e non si divertissero in altri usi meno necessarii agli abitanti, ovvero non si risparmiassero per comodo degli estimati».

Qui la legge dunque sanciva una parte di rappresentanza comunale fondata sulla capitazione: epperò sul suffragio universale!

Tali erano i diritti che la legge assentiva nel comune ad operai ed agricoltori un secolo fa!

La deputazione in tal modo eletta è già la sommità dell'edificio comunale. Perocchè i deputati dell'estimo, coll'intervento di quelli del mobiliare, scelgono a sindaco «quella persona che fra gli abitanti del comune troveranno più idonea e più capace della pubblica fiducia. Essendo il sindaco dice la legge, il natural sostituto dei deputati che, per non poter essere sempre uniti e reperibili, hanno bisogno d'una persona che abbia l'espresso incarico d'invigilare agli affari dei comune, di ricevere ed eseguire gli ordini dei superiori e di far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati, sarà perciò la di lui elezione rimessa ai deputati medesimi... avvertendo però che, quantunque in qualche occasione debba egli intervenire nelle unioni dei predetti cinque deputati, non avrà alcun voto» (§ § 103, 113).

Il magistrato comunale era sotto l'ispezione di un Cancelliere dei Censo; il quale doveva intervenire a tutte le adunanze dei singoli comuni del suo distretto, ma solamente come ricordatore delle leggi, nonchè come custode dell'archivio, e notaro «da rogarsi di tutti gli atti». E doveva essere di nomina regia solamente fino a quando il nuovo censo fosse condotto «a esecuzione». Dopo di che, diceva la legge, «Sua Maestà benignamente si contenta di rilasciare la nomina alle singole comuni».

Era l'anno 1755!

Penso che debbono rimanere stupefatti tutti i credenti nella burocrazia.

I pupilli avere il diritto d'eleggersi, a maggioranza di voci, il loro tutore! Avere il diritto di non rieleggerlo più, quando, a prova fatta, non fosse piaciuto!

In modo poco diverso, per quanto concedevano i diritti statutarii dei decurioni e le altre consuetudini municipali, vennero ordinate le amministrazioni delle città e quelle delle provincie. E un terzo ordine di rappresentanti, non costituito in forma di consiglio, era poi formato dagli oratori delle provincie e dai sindaci per le liti, che risiedevano presso al governo.

Ma il beneplacito del governo non si stendeva nemmeno sul complesso generale di questo ordinamento; perocchè l'ispezione suprema apparteneva al Tribunale della Giunta dei Censimento. Il comune era dunque al cospetto della legge una società di vicini, che provvedeva con certi contributi a certi servigii, e che, insieme agli altri comuni dei distretto, sceglieva persona idonea, la quale avesse cura dell'osservanza delle leggi e della regolarità delle aziende. Di tutte le quali cose doveva poi ragione a un tribunale.

A questo era riservato di giudicare se il cancelliere nominato dai comuni fosse idoneo. E quando non fosse notaio o dottore in leggi, poteva essere ingegnere collegiato o pubblico agrimensore, «purchè avesse dato prova della sua idoneità in qualche altra pubblica incombenza».

Tutto era adunque ordinato puramente alla provvidenza e alla giustizia, e ciò che sembra più strano alla libertà.

Ed era un diritto comunale di fonte prettamente italiana.

Or vediamo di qual fonte venga la legge di cui l'Italia deve ritentare l'impopolare e infelice esperimento.

Vent'anni dopo che la legge di Pompeo Neri era in prospero vigore, l'illustre Turgot, pubblicando nel 1775 quel suo Mèmoire au roi sur les municipalitès che parve in Francia una rivelazione, attribuiva con profondo senno la miseria del regno al volersi amministrata ogni cosa per mandato regio. «Votre Majestè est obligèe de tout dècider par elle-même ou par ses mandataires». Proponeva dunque che i comuni, le provincie, il complesso dei regno, si amministrassero con tre ordini di consigli elettivi.

Turgot non credeva dunque nè al beneplacito regio nè alla burocrazia. Ma la Francia gemeva ancora sotto il patto di Carlomagno, sotto la feudalità combinata dello Stato e della Chiesa; chi non era gentiluomo o prelato era rustico, roturier, vilain. E Turgot stesso, come pensatore, seguiva la dottrina fisiocratica, la quale ripeteva ogni ricchezza non dal lavoro, dal capitale, dal pensiero, ma unicamente dalla terra. Pertanto egli, fervido promotore di libertà eziandio nel commercio e nell'industria, non ammise nel comune alcuna rappresentanza dei commercio e dell'industria; e anche per la terra ammise bensì tutti i proprietari, ma diede loro un numero di voti commisurato all'ampiezza dei poderi. Era la voce della terra, non quella del comune.

La rivoluzione francese non seppe uscire dalla tradizione dei secoli e dalla fede nell'onnipotenza dei governanti. Ai mandatari dei re successero i mandatari della nazione. Il furor della disciplina fece obliare la libertà. Il popolo ebbe la terra. Ma non ebbe il comune.

Eppure nel 1804 e nel 1805, quando la guerra ebbe arrecate a noi tutte quante come prezioso dono le nuove istituzioni francesi, troviamo che non solo nelle parti d'Italia annesse all'imperio, ma eziandio nel regno in fronte al quale si era serbato il nome d'Italia, tutti i comuni hanno un sindaco creato dal prefetto o un podestà creato dal re. Anzi gli stessi consigli comunali, ovunque gli abitanti siano più di tremila, sono parimenti creatura dei re, e dove gli abitanti siano di meno, sono creatura dei prefetto. Questa è la nomina iniziale; negli anni successivi le nomine devono farsi sopra duple proposte dagli stessi consigli, ma farsi pur sempre dal prefetto o dal re. I comuni possono essere aggregati e disgregati a voglia del ministro; il prefetto può far murare le porte della città per «minorar le spese di custodia»; a sì luminoso scopo, la finanza anticipa i denari; e le città glieli rimborsano (Decr. 23 giugno 1804). Per altro simile lampo di scienza, i comuni vicini alle mura vengono spietatamente incorporati alle città, con dissesto delle famiglie e dispargimento di migliaia di abitanti. Le municipalità dipendono dal prefetto o dal viceprefetto; eseguiscono gli ordini di questi; e in caso d'inobbedienza, possono esser sospese o fatte supplire.

L'unico diritto del nuovo comune italiano è il diritto d'obbedienza.

Il comune è l'ultima appendice e l'infimo strascico della prefettura e della viceprefettura. Il comune non è più il comune. Tutto il sistema è una finzione.

Nel 1814 i podestà e i consigli nominati dal re non mossero un dito a salvare il regno. Alcuni di essi accolsero gli Austriaci, facendo suonar le campane a festa. Tale è la solidità delle istituzioni burocratiche. Chi semina la servilità, raccoglie il tradimento.

Il comune nel regno d'Italia era così avvilito, che l'Austria, ripristinando nel 1816 l'antico nostro diritto comunale, potè gettarci in fronte quell'odioso rimprovero: «Convinti dei mali che risultano dall'attual sistema d'amministrazione comunale, ordiniamo:... Le città e i comuni saranno ristabiliti... nei confini che avevano... secondo le viste e i principii dell'amministrazione introdotta pei comuni dello Stato di Milano coll'editto 30 dicembre 1755... Ogni comune sarà rappresentato da un consiglio o convocato generale degli estimati... L'amministrazione dei patrimonio sarà affidata ad una deputazione del consiglio o convocato... Il cancelliere o suo sostituto non ha alcun voto deliberativo e non deve punto immischiarsi nel determinare l'opinione dei votanti; ma, come assistente del governo, deve soltanto vegliare al buon ordine; far presenti, ove occorra, le leggi e i regolamenti; e distendere il protocollo delle sedute. Esso siede alla destra dei presidente. Presiede al convocato il maggiore d'età che sia deputato. Assistono pure al convocato il deputato alla tassa personale e l'agente comunale, senza però averci voce deliberativa ».

Fra le antiche istruzioni di Pompeo Neri rimase soppresso nel 1816 il deputato del mercimonio. Forse si pensò che supplissero le camere di commercio e la proprietà prediale, cotanto diffusa nel ceto mercantile, in sessant'anni di riforme e rivoluzioni.

La legge del 1816 venne estesa a tutto il Regno Lombardo-Veneto. Per i podestà e i consigli comunali delle città, fu conservato il falso principio delle nomine regie, fatte sulle proposte dei consigli, venuti essi medesimi da nomina regia. E oltre le congregazioni provinciali, le due regioni lombarda e veneta ebbero ciascuna una congregazione centrale: istituzione che prevenne fra Lombardi e Veneti ogni molesta ingerenza e ogni natural gelosia. Alle anime deboli che paventano le rappresentanze regionali, rammentiamo il fatto che dalla Congregazione centrale di Milano e dall'istituto lombardo, ch'era pure un corpo regionale, mossero nel 1848 le prime deliberazioni officiali che prelusero alla ricomposizione dell'Italia. Tutti i plebisciti mossero dalle autorità regionali. Ma la legge dei 1859 escluse ogni siffatta istituzione, per quanto necessaria alle riforme legislative, per quanto necessaria a riparare le intemperanze dei poteri nomadi e supplire le insufficienze dell'autorità centrale, involta sempre nelle tenebre dell'ignoto.

La legge del 1859 escluse dal voto comunale la maggioranza degli abitanti, perchè ingiunse loro la condizione di pagare da cinque a venticinque franchi d'imposta diretta. Quella del testatico era ingiusta; ma era diretta; e coll'abolizione di essa, la maggioranza degli operai rimase priva di voto, mentre, in uno od altro indiretto modo, paga assai più di prima.

E chi, pagando cinque franchi d'imposta diretta, ha oggi il voto perchè oggi la popolazione del suo comune non oltrepassa tremila abitanti, non avrà più il voto dimani, perchè l'arrivo d'una famiglia, o la nascita di qualche bambino, può elevare la popolazione oltre quella capricciosa cifra; o perchè egli medesimo dovrà trasferirsi in altro comune di maggior popolazione; o perchè il beneplacito ministeriale aggregherà, volenti o nolenti, due comuni in un solo. Questa incertezza perpetua dei voto necessita un nembo di registri e di affissioni e revisioni e controversie che non hanno fine se non in Corte di Cassazione! Sessanta articoli della nuova legge versano intorno a questo immenso e inutile lavoro, quando bastava sostituire al principio della capitolazione quello dei domicilio. Chi paga affitto paga, diretta o indiretta, la sua parte d'imposta al comune.

Falsato il diritto comunale alla base, è falsato fino alla sommità. Il sindaco non è più l'agente scelto dei deputati per eseguire i loro ordini e far tutto quello che potrebbero far essi se fossero adunati. Nei settemila e settecento comuni dei regno, il sindaco è capo dell'amministrazione ed uffiziale del governo; il sindaco presiede la giunta; distribuisce gli affari; può delegare le sue funzioni ad altri nelle borgate e frazioni; quando presiede il consiglio, investito di poter discrezionale, ha la facoltà di sospendere e di sciogliere l'adunanza; può ordinare che venga espulso dall'uditorio chiunque sia causa di disordine; ed anche ordinare l'arresto; in caso di scioglimento un delegato regio amministra a carico del comune!

Tutto questo è indegno della nazione.

I comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà.

Nel 1755, la legge di Pompeo Neri diceva ai sudditi di casa d'Austria nello Stato di Milano, che il cancelliere dei censo, incaricato di conservar l'ordine nei convocati: «si opporrà alle deliberazioni tumultuarie protestando della nullità e comminando l'indignazione dei superiori» (art. 263).

Quale calma di misure! Qual decoroso e rispettoso linguaggio! tal la voce d'un filosofo che parla a un popolo già libero e degno d'esser libero.

Si vuol dunque esporre la nostra legge a siffatto paragone? In faccia all'Austria?


 

 

 

LETTERA SECONDA([7])

 

Nella legge francese e nelle due o tre riproduzioni che se ne fecero in Piemonte, il concetto del comune venne capovolto e negato, perchè non si considerò che il comune era un fatto spontaneo di natura come la famiglia; e suppone che non esistesse alcun diritto naturale dei comuni, nè alcun limite giuridico al bene placito dei legislatori. E parve doversi rimodellare ogni comune in certi modi uniformi, come quelli che spianavano il terreno al più rapido esercizio d'una intelligenza superiore.

Vediamo all'opera codesta sapienza ordinatrice.

Delle città e delle ville ve ne ha di grandi e di piccole. Ciò avviene per molte ragioni che sono ovvie a tutti; e anche per alcune altre. Intanto ministri e legislatori, preoccupati dalla dottrina francese, hanno pensato che i comuni minori o si dovessero dare per aggiunta alle città vicine, o si dovessero affastellare l'uno sull'altro, fino ad una certa misura di popolazione, che fosse la più maneggevole a chi ha pro tempore i piaceri dell'onnipotenza; poco importando poi se fosse la più giovevole a chi ha i pesi della sudditanza passiva. Un piccolo comune è poca gente e dappoco, per chi non si avvede che, a comune a comune, per questa via si vilipende la pluralità della nazione. Nè, invero, si rispettarono maggiormente i diritti delle grandi popolazioni urbane.

Nei comuni minori si fece conto che la più opportuna dose di popolazione fosse dai 2500 abitanti ai 3000. I più preferiscono la seconda misura, o come amano dire, la seconda stregua. Intanto. questo appare un punto inconcusso oramai di dottrina amministrativa, che i comuni piccoli sono un principio d'impotenza, un disordine, un male.

I piccoli comuni un male? Come? La Lombardia, che fra tutte le regioni d'Italia si trovò primamente e più largamente delle altre dotata di strade, di scuole, di medici condotti e d'ogni altra comunale provvidenza, è appunto quella che fra tutte quante ha il massimo numero di comuni piccoli e piccolissimi. Più di un quarto di essi (607) non giungono a cinquecento anime; per un altro quarto e più (746) non giungono a mille anime. E sopra 2242 comuni questa è già la maggioranza. Quelli poi che oltrepassano la magica cifra delle tremila anime, sono in tutto 151. Sopra quindici comuni si tratta dunque di rimodellarne quattordici. Comprese le forzose agglutinazioni dei grandi comuni suburbani alle città, sarebbe per la Lombardia una sovversione dello stato di fatto e di diritto letteralmente generale.

Beata la Sicilia, che non ha ancora le strade, nè le condotte mediche, nè le scuole. Ma essa raggiunge la stregua e largamente la oltrepassa. Mentre i comuni lombardi ragguagliano, l'uno per l'altro, solamente 358 abitanti, quelli di Sicilia ne ragguagliano un numero diciotto volte maggiore (6681). E mentre in Lombardia la superficie, divisa per comuni, dà solamente otto chilometri quadri per ciascuno, in Sicilia ne dà settantatrè.

Questo è ciò che si chiama un plesso robusto. Il plesso comunale della Sicilia sarebbe dunque diciotto volte più robusto ed efficace che il comune lombardo?

No, signori; la mole non è la vita.

È vero che i comuni toscani sono ancora più grandi che in Sicilia. Ma questa certamente non è l'ultima delle cause per le quali la popolazione toscana, che dà solamente 90 abitanti per chilometro superficiale, è tanto minore di quella di Lombardia che ne dà 160.

Non per questo io direi doversi correre all'estremo opposto e «rimaneggiare» in piccoli comuni la Sicilia, e la Toscana e tutta l'Italia. Cotale uniformità tra le regioni non è affatto necessaria, come non fu necessaria tra i comuni aperti della Lombardia, dacchè taluno di essi non tocca duecento abitanti, mentre il maggiore oltrepassa i cinquantamila. Ma quando fossimo costretti a scegliere tra violenza e violenza, sarebbe a preferirsi quella che moltiplicasse i consorzii e li spargesse più largamente sulla superficie delle provincie. L'aumento continuo della prosperità, dopo il 1755, in quel perpetuo campo di guerra che si chiama Lombardia, fra le tante irruzioni straniere da cui furono immuni la Sardegna e la Sicilia, si deve principalmente a questo. Si deve alla molteplicità dei comuni, alla mutua loro indipendenza, a una più larga padronanza delle cose proprie, a un più libero uso della ragione e della volontà nei proprii affari. Questo è il secreto; e questo vuolsi divulgare per tutta Italia.

È un errore che l'efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga soppressione di codesti plessi nervei della vita vicinale. Nelle riviere dei mari e dei laghi e in molte e molte altre parti d'Italia, vediamo floridi comuni di qualche centinaio di famiglie dedicate all'industria, alle arti belle, alle lontane navigazioni, attendere con egual cura ad ingentilire il luogo nativo. Ma se il piccolo comune venisse incatenato a una maggioranza di rustici villaggi, dispersa per valli e selve, o popolata di braccianti vagabondi, quel geniale fermento rimarrebbe sopraffatto e oppresso. Il piccolo comune ha diritto di continuare, nel libero suo seno, quel modo d'essere che gli è proprio, benchè non sia quello in cui possano consentire i suoi vicini. E anche a questi il vicino e libero esempio potrà giovare.

Se un comune, provveduto già di strade e d'acque, venga per volontà non sua congiunto ad altro comune cui la natura e il caso non abbia egualmente favorito, poco si curerà di contribuire col suo danaro ad opere dalle quali non avrebbe giovamento suo proprio. Quindi, fra i mali assortiti consorzii impotenza e discordia. Quindi unico rimedio il consiglio d'Abramo a Lot: «- Di grazia, non facciamo contesa tra me e te, fra i miei pastori e i tuoi, perocchè siamo fratelli. Ecco ti sta innanzi l'ampia terra. Se tu andrai a sinistra, io terrò la destra, se tu eleggerai la destra, io mi volgerò a sinistra -».

Meglio vivere amici in dieci case, che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare; ma v'è nell'animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga colla nuda aritmetica e col brodo.

Nè si dica che col sodalizio forzato dei comuni le istituzioni dei più culti e prosperi si propaghino agli altri. No, nei corpi deliberanti le maggioranze sono anzitutto sollecite di se stesse. Quando nel 1816 il suburbio di Milano fu sciolto dalle leggi francesi e dalla sudditanza urbana, aveva una sola scuola; e ora ne ha quarantasei! La sua popolazione che nella clientela della città era discesa da 24 mila abitanti a 17 mila, ora oltrepassa 50 mila; e se ora lo s'invita ad aggregarsi novamente, non si dissimula ch'è per fargli sostenere una parte di debito non suo, benchè ciò sia riprovato da quelle medesime leggi che introdussero fra noi le aggregazioni forzate.

E poichè quelle leggi che trattano con sì poco rispetto il diritto comunale, ci arrivarono di Francia, ricordiamo ciò che gli ammiratori di esse confessano; ed è che i piccoli comuni francesi, per naturale buon senso di popolo, si opposero alle incorporazioni, benchè desiderate e agevolate dai governi. Che se colà i comuni sono quasi trentasettemila, e la popolazione fa poco più di trentasette milioni, è facile calcolare che la media della loro popolazione sarà di mille anime incirca (1015). È adunque assai minore di quella medesima della Lombardia (1384); non giunge alla metà della media di tutti i comuni d'Italia (2821); non giunge al sesto di quella dei comuni di Sicilia (6681); e nemmeno al settimo di quella dei comuni di Romagna (7651) e Toscana (7824). Qui dunque possiamo citare la Francia contro la Francia; possiamo citare i suoi comuni veri e vivi contro il comune dottrinario e contemplativo.

Nell'Alta Italia, la suddivisione dei comuni è un fatto naturale e spontaneo, che si continua da secoli, in quanto la forza non si frammise a contrariarlo.

Abbiamo memorie certe che ampie valli e pianure, intieri distretti, erano un solo popolo, il quale possedeva in comune pascoli e selve. Il possesso privato cominciò qua e là colla legge romana, ma negli intimi recessi alpini fu sino a questi ultimi secoli un'eccezione. Anche dove era assentita la semina dei campi, non appena compiute le messi, la trasa dei bestiami li invadeva per diritti da tempi immemorabili. Sembra un paradosso, ma il fatto è che i comuni grandi furono prima dei piccoli. L'Europa antica viveva in vaste comunanze. I capi delle tribù abitavano fin d'allora in seno ad esse nell'aperta campagna: il nome di città fu poi dato al vico, al pago, al luogo di comizio o di mercato, al ricovero fortificato per i disastri di guerra: "Mediolanum pagus olim, nam per pagos habitabant" (Strab.).

D'età in età le centine, le degagne, le faggie, le squadre divennero pievi e cure, le quali si suddivisero come sogliono fare le famiglie. Molti comuni non hanno finito ancora di spartire le reliquie del patrimonio avito. La costante suddivisione delle comunanze primitive è il filo giuridico che condusse le tribù dalla vaga cultura alle piantagioni perenni e al possesso intero e privato. Non faremo dissertazioni; ma l'istoria vera è questa.

La rimanente Italia offre un altro paradosso. Ivi furono prima le città, e poscia i villaggi. Dirò peggio: fu prima la città e poi la campagna. Genti venute dal mare, o da colonie venute già dal mare, si fanno un nido sulla cresta d'un monte; lo cerchiano d'un muro: poi si mirano intorno e scendono a conquistare le donne e la terra. Ecco la leggenda d'Alba e di Roma. Fondata la città, fondano dunque la famiglia; e sotto gli occhi degli esuli si dividono i campi, e li consacrano coi termini. Ma non osano abitare in casali aperti, al cospetto di coloro che hanno spogliato. epperò tornano la notte a chiudersi in città per tornare il mattino al solitario campo.

Sui monti vicini stanno altre città, or consanguinee, or nemiche. Ve n'era più di cinquanta nel Lazio delle quali ai tempi di Plinio non restava vestigio. Gli Etruschi avevano vinto trecento città degli Umbri. Prendiamo l'Annuario dell'amico Maestri; facciamo la somma dei comuni delle due Umbrie; dal Tevere a Ravenna ne troveremmo oggidì 313. Alcuni di questi sono ancora città: ma intorno si sono sparsi i villaggi; l'agricoltore può vivere tra' suoi campi. Intanto l'oppido italico si è sciolto come il comune alpino. L'oppido aveva le mura sacre e il dio Termine, e il possesso privato; e i signori della terra non vivevano all'aperto mai coi loro clienti entro le mura. Questa tradizione non è ancora cancellata.

Ecco perchè i nostri prefetti e generali rimasero tanto stupiti di vedere all'alba gli agricoltori uscire a cavallo dalle città di Sicilia per recarsi a lavorare i campi e ritornar la sera. E negli spazii ove qualche città fu distrutta dai Romani, o dai Goti, o dai Vandali, o dagli Arabi, o dai crociati normanni, giace coltivato, ma deserto, un intiero territorio. E il comune siciliano sta isolato, in superficie che tra le più e le meno vaste si ragguagliano a 73 chilometri (73 mila pertiche metriche), dove in Lombardia sarebbero sparsi otto comuni. Le popolazioni non sono scarse, ma sono addensate in brevi spazi. Anche qui si tratta dunque di spargere, di suddividere. Non si tratta di confiscare la libertà dei comuni piccoli per farne i grossi. Si tratta di allettare e abilitare l'agricoltore a vivere in aperta campagna. Questo non è solamente il secreto della Sicilia, ma della Maremma, dell'Umbria, della Lucania, dei Tavoliere d'Apulia, degli ademprivi di Sardegna.

La legge comunale deve fare appunto l'inverso di ciò che si è pensato.

Nel dubbio, la legge rispetti il diritto e la libertà.


 

 

 

LETTERA TERZA([8])

 

Nelle altre due lettere venne dimostrato a sufficienza, per chiunque si appaghi dei vero, che l'azione comunale nell'antico Stato di Milano, fin dalla metà dello scorso secolo, fu senza paragone più libera e più liberamente diffusa che ora non sia.

E pertanto io stimo dovere dei legislatori non solo di restituire nell'antico diritto i comuni di Lombardia, ma di far partecipi di quel beneficio gli altri comuni tutti, affinchè l'Austria non abbia ragione di dire al mondo che, oggidì stesso, Mantova e Venezia sono governate più liberamente del regno d'Italia! - È troppa vergogna!

Dall'onore torniamo agli interessi.

Si leggeva, or son pochi giorni, in un rispettabil giornale di Sicilia che colà «si percorrono dieci, venti e financo trenta miglia, senza imbattersi in un villaggio, in una casa!». Or io dico che se dimani, in quella solitudine o in altre le quali fossero pur meno vaste, i possessori si accordassero di trasferirvi le abitazioni dei loro coloni, fin qui aggregate ad una od altra di quelle comuni aventi la popolazione media di 6681 abitanti e tanto fra loro discoste, essi farebbero pei poveri agricoltori un risparmio grande di tempo e di vane fatiche e di stenti, procacciando utile a se medesimi e alla nazione, e dando alla fertile isola un incremento grande di sicurezza e di amenità. Io credo che i legislatori non vi si potrebbero opporre per superstiziosa fede che avessero in un fantastico minimo di popolazione. Non so perchè a quelle genti venute, come già nelle primavere sacre dei loro antichi, ad accasarsi finalmente dopo tanti secoli in mezzo ai loro campi, si potrebbe impugnare il diritto di satisfarvi immantinente a tutte quelle convenienze che la vita vicinale richiede. Non vedo perchè si potrebbe vietar loro d'aver un campo, ove seppellire i loro morti; - una scuola. ove i loro figliuoli imparassero l'alfabeto senza dover fare ogni dì molte miglia di andata e ritorno; - un ponte, al più prossimo guado del torrente; - un magistrato di loro elezione, che vigilasse a questa ed altre cose per bene di tutti. È ciò ch'io credo doversi chiamare diritti di vicinato: e dedursi logicamente dai diritti di famiglia, ed essere una forma e un componimento di questi.

Perlochè la legge non li deve avversare e turbare, ma li deve riconoscere e proteggere. E poichè lo Statuto riservò alla legge le circoscrizioni comunali, essa deve tracciarle nel senso della maggior libertà naturale e della maggior convenienza economica; e non di volta in volta; e per grazioso favore di prefetti e viceprefetti; ma in massima e una volta per tutte, come i nostri antichi ci hanno insegnato a fare le leggi: Privilegia ne irroganto. Perocchè chiunque iniziasse siffatte benefiche intraprese, dovrebbe avere un fondamento di legge, senza dover comperare un precario a patti servili. La nuova Italia dev'essere bella, feconda, magnanima.

Dico inoltre che se codesto vicinato in seno alla solitudine fosse a principio pur di poche famiglie, sarebbe già nel suo diritto. E dovrebbe fin d'ora potersi sciogliere dalla municipalità primitiva, la cui giurisdizione, quasi ombra nociva, stende sulle ubertose campagne il silenzio e lo squallore. E per non legare il ragionamento ad ampiezze eccezionali ed estreme, mi riferirò a quegli spazii che devono per necessità restar disabitati in una od altra parte d'una superficie la cui misura media per ogni comune in Sicilia è di settantatrè chilometri quadri, o miglia quadre ventuna! Epperò se in molti comuni può essere minore di questa media in altri debb'essere assai maggiore!

Che se qualche cosa è forza concedere a coloro che hanno lo strano istinto di legar più che mai le mani alla nazione, il buon senso vorrebbe che si prescrivesse ad ogni comune d'aver piuttosto una data misura di superficie che un dato numero d'abitanti.

Infatti se le famiglie hanno più d'una mezz'ora o di un'ora di cammino dalle case alla scuola, alla levatrice, al mortorio o a qualunque altra parte di necessario servizio vicinale. questo si rende sempre difficile, sovente impraticabile; il concetto del comune svanisce; e chi deve contribuire alle sue spese, è frodato. Dico che se una famiglia vien costretta a pagare per una scuola lontana, alla quale non può mandare i suoi figli, essa è frodata. Mi valgo di questo vocabolo scortese, per dire ben chiaramente che, quando parlo di diritto comunale, non intendo fare una vana frase; ma parlare del mio e del tuo.

E aggiungo per ultimo, che anco la nazione è frodata; perchè i suoi figli crescono nell'ignoranza.

Questo antico divorzio fra la casa e il campo fra l'agricoltore e l'agricoltura rende dispendiosa e vana e pericolosa la custodia; consuma inutilmente anche gli animali; disordina la concimazione; rende impossibile la stabulazione; è un insuperabile impedimento ad ogni ben calcolata economia.

Se l'abitato d'un comune giace in luoghi meno opportuni o salubri, perchè mai si vorrà vietare a coloro che hanno le terre più lontane dalle paludi, o più vicine alle fonti pure, o alle correnti motrici, o alle strade e ai porti, di trasferirsi colà con tutti i loro diritti, e godervi le loro comunali libertà? I legislatori, coi loro pregiudizii intorno ai comuni robusti, faranno più danno che non pensano.

È impossibile esercitare utilmente i diritti comunali se non entro certi limiti di spazio, o, per meglio dire, di tempo. Non è la distanza lineare, ma la distanza praticale, non è la distanza in miglia, ma in ore, che nei luoghi montuosi posti a diverse altezze o a diversi aspetti, o anche nei luoghi piani separati da torrenti o paludi o selve senza vie, rende possibile alle famiglie di prestarsi un'attiva e verace assistenza, secondo le loro forze e i loro lumi; nè vi si richiede tanta sapienza di magistrati; ma l'abitudine e il buon senso e l'esempio dei vicini e i buoni regolamenti sono bastevoli; e per chi non fa, vi sono i rimedii di legge.

Assegnato che sia questo raggio di pratica estensione ad ogni comune, il servizio può egualmente applicarsi ad una città di centomila abitanti, come ad un centinaio di famiglie sparse in uno spazio pari. Ma il principio della minima popolazione spinto dai cervelli burocratici fino alle tremila anime, contrasta a tutte le ragioni per le quali è istituito il comune.

Nelle migliaia di uomini novelli che dovrebbero contribuire a crescere d'un mezzo milione almeno di prosperi abitanti la Toscana, d'un milione l'Umbria, d'un milione e mezzo la Sicilia, di due milioni la Sardegna e via dicendo, non importa con qual numero si cominci; perocchè quelle libere abitazioni sono destinate a moltiplicarsi e disseminarsi e animare tutta la superficie. La superficie è un dato certo ed inalterabile; la popolazione può variare e ondeggiare senza fine. I legislatori che parlano sempre di voler fare l'Italia, non sanno imparare dagli uccelli che preparano il nido ai futuri.

È bene che siasi rinunciato almeno in parte all'ingiusto e pernicioso proposito, ch'ebbe Cavour, di confiscare gli ademprivii ai comuni di Sardegna e fu atto di giustizia il farne piuttosto un'estesa concessione a nome dell'isola per procacciarle le ferrovie. Ma con ciò il quesito economico non è ancora sciolto: e se la legge comunale e la provinciale, e in questo caso anche la regionale, non vengono coordinate a questo più che arduo fine, le speranze dei popoli e le oneste aspettative degli imprenditori non saranno adempiute. Nessuno dei membri di tante Commissioni ha badato che questa legge comunale è inestricabilmente connessa col destino delle nuove coltivazioni. Hanno fatto una legge senza pensieri.

Ciò premesso, io stimo che la superficie media del comune in Lombardia, nella circoscrizione attuale, dopo il partaggio di Villafranca, essendo (nell'Annuario del dottor Maestri) di chilometri otto in circa, ossia poco più di due miglia quadre (2 1/3), è più consentanea al diritto vicinale e al buon senso e ai bisogni dell'avvenire, che non la superficie media del comune in Francia ch'è di 15 chilometri, cioè quasi doppia. Ma in Piemonte, compresa la Liguria, è di 20 chilometri; nelle provincie napoletane oltrepassa i 40; in Umbria i 50; in Sardegna i 60; in Romagna e Sicilia i 70; in Toscana, comprese le Maremme, è poco meno di 90! si tratta di parecchie migliaia, dico migliaia, di comuni nuovi, ai quali è necessario lasciar modo di formarsi dove potranno e dove vorranno! Altrimenti ogni legge sarà un flagello.

Per venire ad una conclusione pratica e articolabile, dirò che ogni qualvolta i possidenti e domiciliati d'una parte del comune, in qualunque numero siano, trovino utile di stralciare la loro amministrazione municipale, e farne due o più comuni, ognuno dei quali conservi una superficie continua di due o tre miglia quadre almeno, lo possano fare, in quanto rimangano assicurati a ciascuna parte tutti quei servizii che la legge comunale (voglio dire, un'altra legge comunale radicalmente diversa da questa) avrà prescritto. Infine, oso dire che questa suddivisione dei comuni troppo vasti non sarebbe più d'un mero scioglimento di società per titolo di mutuo vantaggio; ciò che nessuna legge può in buon diritto impedire. Basterebbe dunque per questo punto un articolo di legge che parificasse, mutatis mutandis, la società comunale a qualunque altra società di beni e di servizi.

E so dirlo, perchè so di vivere in questa seconda metà del secolo XIX, alla distanza di soli anni 36 dal secolo XX; e oggi mi par poco ciò che fu concesso ai nostri bisavoli già fin dalla metà del secolo XVIII; e mi pare d'esser discreto chiedendo per la mia patria l'umile licenza di fare almeno un passo per secolo! E mi vedo al cospetto di tante colossali imprese, fatte per libera associazione, a trasformare l'Europa e l'America e il fondo del mare, e armate di tali smisurati e infrenabili poteri sui patrimonii mobili e immobili, presenti e futuri delle nazioni e soprattutto della mia, a beneficio perpetuo di Torino, di Parigi, di Vienna e di Gerusalemme, che non posso veramente spaventarmi come d'un finimondo, se alcune dozzine di possidenti meglio avvisati potessero dare il felice esempio di ordinare a loro giudizio le abitazioni dei loro contadini e le loro ville sopra le loro terre, ora disabitate o troppo inegualmente abitate. Io non so perchè la legislazione non abbia anch'essa a camminare col secolo. Nè vedo maggior pericolo nell'affidare a queste nuove società municipali anche i registri dello stato civile che le vecchie leggi non ne vedano nell'affidare qualunque atto di pubblica fede ad un qualunque notaio, e la vita e l'onore dei cittadini ad una qualunque assisa di giurati.


 

 

 

LETTERA QUARTA([9])

 

Vediamo quali siano le parti dell'antica istituzione comunale che la nuova legge deve restituire ai popoli i quali n'ebbero già per più generazioni il beneficio, facendone giusto dono a tutti gli altri.

Se si comincia dall'istituzione stessa del comune si può per le cose premesse asserire che la fondamentale opera istorica di propagare questi organi vitali sull'intera superficie dell'Italia e delle isole non debb'essere più lungamente indugiata per fallaci dottrine o per ambizioni officiali. Troppo strano è il fatto che dopo tremila anni di civiltà, questa terra d'Italia debba giacere ancora qua e là largamente inabitata, ispida, infesta di febbri e di ladroni.

Non è un'imaginaria fertilità che fra tante invasioni straniere diede alle alte montagne e profonde ghiaie della Lombardia più di tre milioni d'abitanti; ma è soprattutto il fondamentale impianto dell'azienda pubblica, in cui fu sagacemente considerata e provvidamente rispettata la libertà comunale. Alle stesse condizioni, l'intero regno potrebbe, in ragione di superficie, esser popolato di quaranta milioni!

Anzi è agevole a dimostrare come molte regioni d'Italia e delle isole siano per fatto naturale ben più favorevoli alla agricoltura e immensamente più ancora alla navigazione.

In seno a codesta libertà, se il comune, anche in angusta superficie, potrà esser popoloso, tanto meglio. Ma dove potrà esser solo di poca gente, o avrà più caro di fare quietamente entro il suo cerchio gli interessi suoi, sarebbe nemico del pubblico bene chi gli ponesse impedimento. Folte o rare che le popolazioni siano, sempre saranno meno neglette le terre e meno rozze le famiglie, dove la provvidenza comunale sia più vicina, e dove gli interessi domestici del magistrato siano più intimamente legati a quelli del suo popolo.

Io non mi stancherò dunque di ripetere, che la legge non deve piantar termini di minime o massime popolazioni e farne pretesto di accentrazioni violente. E penso che questo consiglio dovrebbe riescir più accetto in quanto su di ciò eguale riserva si riscontra nell'abolita legge di Pompeo Neri e nella vigente legge Pinelli.

Io prego adunque che non si aggiunga a questa legge anche quel male che fortunatamente non ha. Si lasci libero corso a quello spontaneo moto che conduce ad una equabile diffusione delle franchigie amministrative. Si rispetti in ogni più modesto popolo quella natural dignità che lo porta a disporre di sè piuttosto a suo genio che a senno altrui, e ad esser tenuto valere in ogni cosa quanto i suoi vicini. L'esempio, l'imitazione, l'emulazione, la stessa invidia faranno ben più a pareggiare le condizioni dei vicini, che non farebbe una dipendenza sdegnosa e ricalcitrante!

E anche questo sarà un elemento di pace e d'amicizia! E ne avremmo ogni dì maggiore il bisogno.

Io dico che con questa sola condizione generale si apre la via d'una ignota prosperità in Sardegna, in Calabria, in Lucania, in Apulia, in Umbria, in Maremma e dovunque la mano degli uomini non risponde ancora alla fertilità della terra. E dico che operando al contrario si affliggeranno inutilmente popoli generosi; e si promoverà quella reazione che troppo bene fu preparata colla sovversione di tutte le consuetudini, colla guerra fatta confusamente al bene e al male, senza un vantaggio popolare che compensi il turbamento e l'umiliazione.

Io non so come gli amici della libertà non si avvedano che la facoltà d'accentrare per forza i comuni, ossia di sottomettere i meno docili ai più ossequiosi, sempre più aggravi quella servitù che già pesa in tanti modi sulla nazione, tostochè si consideri schierata nei suoi comuni.

E ai ministri medesimi dirò che poco invidiabile è quello stato di perpetua tempesta in cui vivono, senza avere adequato conforto nell'estimazione dei popoli. Ma parmi ben invidiabile la facoltà, ch'essi non si accorgono avere, di rendere il nome loro incancellabile nei modesti annali della pubblica prosperità, e caro alla memoria dei savii e dei buoni, come sempre più sarà di generazione in generazione quello di Pompeo Neri.

Ecco adunque come si possa finalmente dar principio vero a quel dicentramento di cui molti si credono, e tutti si vantano, d'avere unanime desiderio, ma di cui nessuno ha trovato ancora la prima parola. E intanto ogni nuova legge è un altro passo sullo stesso pendio. Che se per accentramento i più intendono l'universale diluvio egli affari nelle scrivanie della capitale, io credo doversi con tal nome dinotare non meno il forzoso intralcio degli interessi di smisurate superficie in un solo comune. Espresso o tacito, il più efficace provvedimento di qualunque nuova legge comunale sarà questo: - assicurare la più libera diffusione del diritto municipale su tutta la superficie dell'Italia.

Dalla libera istituzione del comune, vengo alla libertà e parità de' suoi membri.

Nella legge Pinelli il comune, al di fuori, è una servitù; al di dentro, è un privilegio di chi paga cinque franchi d'imposta diretta come se le altre non fossero imposte. E lo è solamente finchè il comune non superi tremila anime; e divien privilegio di chi paga dieci franchi, appenachè lo stato d'anime in quel medesimo comune diventi di tremila ed una. Qual colpa ne ha l'antico votante da cinque franchi, perchè debba vedersi tolto da oggi a dimani il suo voto? Aggregate i suburbii alle loro città, come la nuova legge dispone; la scala dell'imposta può salire di grado in grado fino a venticinque franchi, secondochè sarà per crescere la cifra di popolazione del nuovo comune. Centinaia di onesti operai, forse qualche onesto letterato, diventano iloti nel comune accentrato; e tante più centinaia, quanto più grande sarà la voragine che l'inghiotte. Per una finzione, il diritto d'intere classi, la loro capacità, l'intelligenza, la probità, l'onore, si suppongono variare collo stato d'anime, col numero dei legittimi e con quello dei bastardi; variano di anno in anno, variano di campanile in campanile, dipendono da un'anima; dipendono da un soldo!

Queste sono leggi che fanno disprezzare tutte le altre.

E fanno peggio: la maggioranza dei cittadini si sente messa fuori della legge nel suo comune nativo.

Questa dunque è la sua porzione d'indipendenza, la sua porzione d'Italia? Il regno, ch'essa fece col suo voto, la scaccia dal suo comune!

Nell'antica legge, i nullatenenti erano tutti eguali in tutti i comuni, qualunque fosse quivi lo stato d'anime. Pagavano il testatico; una porzione di esso appartiene al fisco, un'altra al comune, ma questa si pagava solamente quando le altre imposte non avessero bastato a compiere tutte le spese deliberate e approvate. E nondimeno, anche prima di pagare, e quando era ancora incerto se avessero a pagare, essi eleggevano a suffragio universale un quinto deputato che difendesse nel seno della deputazione municipale quel loro diritto d'eventuale immunità, e vigilasse perchè l'obolo dell'operaio non fosse speso senza che vi fosse il legale bisogno di spenderlo, e ad ogni modo fosse speso come si doveva. Al cospetto del comune, e per la porzione di testatico che ad esso apparteneva, la rappresentanza non era condizionata al pagamento; era condizionata ad una presunta capacità di pagare, ad una certa apparenza di modesta dignità.

Questa legge era fatta da un uomo che aveva anche il senso morale!

Che se l'operaio fosse andato a domiciliarsi in altro comune, portava seco il dovere di pagar l'imposta al nuovo comune e il diritto d'avervi la sua parte di rappresentanza. Insomma, chi fosse pur povero, ma non fosse indigente, nasceva sempre e viveva membro legale d'un qualche comune; era in qualche luogo cittadino attivo e votante. Posto una volta il fatto che i cinque franchi incirca dell'antico testatico, o i cinque franchi della minima imposta presente, fanno giuridica prova che il cittadino è capace d'eleggere i suoi municipali in un comune di trecento anime o anche di tremila, non è più lecito al legislatore di dirgli: «Bada bene che oggi ti giudico degno d'esser cittadino; ma ti avverto che non sarai più degno di dare il tuo voto dimani; imperciocchè la patria va prosperando, e gli stati d'anime nei comuni vanno crescendo; e io tengo in serbo una famosa dottrina per la quale, a misura che colla pubblica prosperità cresce il numero degli uomini, debbe scemare il numero dei cittadini, essendochè la prosperità pubblica è un segno legale di degradazione. Ma ciò non ti dico per dispregio in che io tenga chi paga solamente cinque franchi; perocchè io faccio giustizia a tutti; e se tu fossi membro d'un grande comune suburbano e tu avessi voto a condizione di pagare venti franchi, perchè quivi lo stato d'anime potesse quando che sia toccar la cifra di 60mila, io potrei bene dimani accentrare il tuo suburbio colla tua città; e allora tu pagando solamente venti franchi, e non venticinque, diverresti immantinente cittadino indegno. Imperocchè tu sai come codesto accentramento dei comuni debba fare più luminose le scuole e più illuminati i cittadini. E io tengo un'altra famosa dottrina secondo la quale, coll'aumento dei lumi, deve decrescere il numero degli ignoranti; e per ciò deve crescere il numero di coloro che non saranno capaci d'eleggere un consigliere municipale».



[1] Relazione di F. Cortese nel volume III del Ramusio, p. 230.

[2] Horibles crueldades, ecc., pubblicata da C. M. de Bustamante, Mexico 1829, p. 91.

[3] Gama, Descripcion, ecc. § IV, p. 94.

[4] Evangeliarum, Epistolarium et Lectionarium Aztecum, sive mexicanum ex antiquo codice mexicano nuper reperto, cum praefatione, interpretatione, adnotationibus, glossario, edidit BERNARDINUS BIONDELLI Mediolani, MDCCCLX, apud Joseph Bernadoni. Un vol. in fol. di pagg. LII, e 576 con fac-simile.

[5] Vedi i tre veramente preziosi volumi dell'Historia de las cosas de Nuova España del padre francescano Bernardino Ribeira de Sahagún, publicati a Messico per cura di C.M. de Bustamante nel 1830, e da lui dedicati a Papa Pio VIII.

([6]) Pubblicata nella rivista Diritto di Torino il 7 giugno 1864

([7]) Pubblicata nella rivista Diritto di Torino il 22 giugno 1864

([8]) Pubblicata nella rivista Diritto di Torino il 29 giugno 1864

([9]) Pubblicata nella rivista Diritto di Torino il 8 luglio 1864