HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
CARLO CATTANEO
DALL'AVVENIMENTO DI PIO IX
ALL'ABBANDONO DI VENEZIA
ARCHIVIO TRIMESTRALE DELLE COSE
D'ITALIA
AMI BOOKS - 2003
Avviso al
lettore.
La lutta fra il popolo cisalpino
e l'esercito austriaco, nel marzo del 1848, venne descritta da molti in Italia,
in Germania e altrove; ma ogni scrittore o si assunse di parlar solamente d'una
o d'altra delle provincie: o abbracciandole tutte, pose in luce solo quei
particolari che, secondo l'animo suo, gli tornavano a proposito. Pago taluno di
valersi delle fonti per sé medesimo, non trascrisse i documenti; i quali pure,
in altra mano, avrebbero potuto essere strumento a nuove induzioni ed emende.
Le date vennero neglette e trasposte; onde molti fatti parvero cause d'altri
fatti, i quali si erano compiuti prima. Perlochè il concetto generale di
quegli avvenimenti riesci, anche nei più sinceri scrittori, declinante
in molte parti dal vero. Epperò ne corrono false opinioni, fomentate
inoltre da coloro non pochi che scrissero con manifesto disegno di rimescolare
e ottenebrare le cose. - L'istoria, non essendo così testimone dei
tempi, non può essere maestra della vita.
Noi pertanto abbiamo preso a
raccogliere e ordinare per tempo e per luogo tutti i documenti dei
municipi e dei comitati in tutte le provincie, tutti gli scritti
che incitarono il popolo alle armi, e quelli assai più numerosi che lo
esortarono alla pace, e quanti potemmo rinvenire degli ordini e avvisi che si
spargevano in mezzo al combattimento. Abbiamo adunato dispacci di generali,
lettere di principi, capitolazioni di truppe, carteggi di consoli,
testimonianze d'officiali, di soldati, d'operai, di prigionieri, di stranieri,
di donne: nomi di morti e di feriti: nomi di edifici arsi od espugnati: nomi di
battaglioni, onde chiarire di quali nazioni e di quali forze il popolo ebbe
vittoria.
Ci vennero fornite molte
narrazioni inedite di fatti particolari, quali sono: la presa del palazzo di
governo in Milano, la difesa del palazzo municipale, i patimenti degli ostaggi
in Castello: le cause che necessitarono il nemico a notturna fuga e le
terribili circostanze che la seguirono: la vantata missione del conte Enrico
Martini: i casi poco noti di Verona e di Mantova. onde si palesa come quelle
due fortezze tenute in sì gran conto dai militari, rimanessero per
più giorni trastullo quasi del popolo, e per fatto di chi ricadessero di
nuovo in poter del nemico, quasi che i cittadini s'avvedessero
dell'irreparabile danno. E in questo e in molti altri indicii, già
vengono adombrandosi quelle occulte influenze che avvolsero fin dal primo
nascere la rivoluzione, e la strinsero in mano ad uomini i quali altro volevano
in essa da ciò che le rivoluzioni danno e le rivoluzioni sono.
Dai molti opuscoli che narrano i
fatti delle singole città, e principalmente quelli di Milano, di Como,
di Brescia, e dalle relazioni sparse nei giornali intorno ai fatti di Pavia, di
Monza, di Bergamo, di Crema, abbiamo tolto i brani veramente e seriamente
narrativi; e li porgiamo come estratti, benchè abbiano invero tutto
l'intrinseco valore di citazioni. Perocchè, in nessun caso ne abbiamo
fatto rimpasto; ma solo abbiamo omesso le parole superflue. Vogliamo dire:
tutto quel farcirne di gloriosi aggettivi e d'avverbi, coi quali gli scrittori
di questa rivoluzione ambirono piuttosto mostrarsi contemporanei di Gioberti,
che posteri di Machiavello.
Di codesti estratti abbiamo
però sempre additato le fonti, affinchè chi diffidasse dell'opera
nostra, potesse avervi il rimedio in mano. Ma è giusto che il lettore
benevolo sappia a che veramente la fatica nostra intorno a ciò si
ridusse: onde ne allegheremo un esempio. Si narra a p. 263 che un lattivendolo
«tormentò il nemico, uccidendo alcuni cannonieri nell'atto che stavano
per dare il foco». Chi avesse trascritto per intero l'originale, avrebbe
aggiunto di più: che il lattivendolo «va distinto tra i più
valorosi combattenti delle barricate, durante i cinque giorni». Il che ben
s'intende, e non aggiunge alcun particolare al fatto; e perciò abbiamo
espunto ogni siffatta prolissità laudativa, come ingombro alla mole e al
dispendio del volume. Sia però detto che ci siamo presa codesta briga solo
per le narrazioni, e non mai per i documenti; i quali, comunque verbosi e
vacui, diamo sempre interi e genuini.
A risparmio di note, abbiamo
segnato con diverso carattere quei tratti sui quali ci parve che la mente del
lettore non dovesse lasciarsi trascorrere affatto inavvertita.
D'un medesimo fatto non abbiamo
esitato a dare anco due e tre versioni, o perchè descritto con altro
corredo di circostanze, o perchè le testimonianze e confessioni di
stranieri o nemici ne parvero opportuna conferma alla verità. Alquanto
rigidi siamo stati nel ripetere le lodi prodigate a quei tempi a certuni, e
negate ingiustamente ad altri. Chi fu già lodato, ne sia contento.
Non tornerà forse gradito
agli scrittori che la maggior parte delle narrazioni vennero da noi, per quanto
si poté, spezzate a giorno a giorno. Ma è cosa di sommo momento
istorico, per determinare ciò che nei singoli giorni venne nei singoli
luoghi operato. Questa accurata e continua registratura dei fatti nei luoghi e
nei tempi, basta a rimovere molti falsi concetti: a cagion d'esempio, quello
che i popoli delle pianure furono più lenti a insurgere che quelli dei
monti. Ben al contrario, si vedono i giovani della pianura perigliarsi in campo
aperto sotto le mura di Milano fin dal secondo giorno; e dopo il quinto, quando
il nemico era già espulso dalla città, si vedono le squadre dei
montanari pernottare ancora a mezza via dalla città. La sola squadra di
Lecco potè giungere alle porte e penetrare in città prima che
spuntassero a Porta Comàsina le colonne nemiche in ritirata; e perciò
appunto lasciò loro, senza avvedersi, libera quella stretta; che se
fosse giunta qualche ora più tardi, vi avrebbe forse fatto, nelle
tenebre, decisivo ostacolo. Lo stesso dicasi del passaggio di Benedek pel ponte
di Pizzighettone; che gli sarebbe stato impossibile s'ei fosse giunto il
dì prima, quando i municipali di Cremona non avevano ancora levato dalla
fortezza le artiglierie, le munizioni e i difensori, per farne difesa alla loro
città. Lo stesso dicasi dei quattro giorni che Brescia indugiò a
cominciare il combattimento; onde, conoscendo l'indole di quel popolo, possiamo
indurre a misura di tempo qual potere esercitasse sopra di esso la fatale
congrega nella quale pose allora e poi l'ostinata sua fede. Tutti questi lumi
si perdono, ove la mente non si leghi strettamente alla successione dei fatti.
È questa la cronologia di cinque giorni e la geografia di cento miglia
di paese. Eppure, anche in sì piccola proporzione, appare savio il detto
di chi chiamò geografia e cronologia le due faci d'ogni istoria. E le
fatiche nostre sono preparazione all'istoria.
Il ravvicinamento delle date
viene inoltre a dimostrare che mentre ardeva già la guerra a Milano, a
Venezia, a Parma, a Modena, e correvano alle armi Toscana e Roma, gli esuli
più illustri in Parigi, o appena ne avevano sentore, o mandavano ai
popoli consiglio d'indugi e di pace. Onde si prova erronea l'opinione dei
governanti, i quali allora, non meno che adesso, o sognavano o mentivano che il
moto naturale delle moltitudini provenisse da secreto cenno di pochi e lontani:
o ignari o avversi.
E la data certa aggiunge
significato anche a certe menzogne, diffuse allora da fogli formalmente
stipendiati in Firenze, in Parigi e altrove, in cui si attribuì
risolutamente la vittoria d'un popolo a chi stava inoperoso e torpido a
contemplarla da lontano e non senza farvi ogni possibile impedimento.
Cominciavano allora a frodarci la gloria quelle mani stesse che poi ci
contaminarono l'onore.
E qui non si chiude solo la
materia d'una istoria, ma quasi un vasto poema. Prove insigni di valore e
pietà: prove nefande d'immanità e perfidia: da un lato, l'urlo
dell'allarme e l'evviva della vittoria; dall'altro il gemito della prigionia e
della disperazione; gli uni, coll'armi in mano, pietosi al nemico ferito; gli
altri, fuggitivi dalla pugna, vaganti a trucidare fra orti solitari le donne
derelitte, o a trarle piangenti e sanguinanti allo scellerato Castello: al
Castello, antro di Polifemo, ove la vendetta siede a codardo giudicio, e
insulta ai cadaveri mutilati; ove una stolida dissimulazione accumula un
immenso rogo per distruggervi le vestigia della sconfitta e delia
crudeltà; il battere di duecento campane, che risponde al fragore di
sessanta cannoni; la pioggia dirotta che spegne sulle piazze i fochi notturni
del soldato; la luna che spunta tra le nubi conturbando con tetra eclisse le
barbare fantasie; il terrore del veleno che rattiene i famelici croati col pane
in pugno; lunghe file di case incendiate, fra cui densi battaglioni s'aprono
furtivo scampo; il sole che sui candidi pinnacoli del Duomo saluta il
vittorioso tricolore; i palloni volanti che spargono alle turbe campestri la
parola dei combattenti. V'è persino quella vena di scherno che accoppia
nei grandi poeti Ettore e Tersite, Farfarello e Ugolino, Hamleto e Falstaff. -
«Il barone Torresani è qui mezzo morto», - scrive la contessa Spaur dal
Castello. Il conte Bolza, sopravvissuto a tante esecrazioni, vien salvato dalla
ridicola bruttezza della sua spaventata figura. Chi non sorriderà del
conte O' Donnell sul balcone di Monforte in coccarda tricolore? Chi non
sorriderà del regio messo travestito da Giovannino? o del colloquio fra
il commissario Bossi in abito di spada e Kadetzky seduto sulle macerie del
ponte di Marignano?
E come in Dante e in Shakespeare
qui tutti parlano quali li fece natura; stizzosi arciduchi e generosi operai;
marescialli e podestà; soldati e donne; vigliacchi e valorosi. È
un poema fatto da tutti, e scritto da tutti. È la dottrina di Vico
controprovata da un esempio vivente e presente. E perciò questo centone,
che per noi fu solo opera di devota e quasi servile pazienza, varrà
facilmente più di qualunque opera d'ingegno si potesse poscia stillarne.
Udiamo che, prima d'uscire,
questo volume ha già gli onori della proscrizione, anche in Piemonte.
Pur troppo v'ha in certuni irrefragabile fratellanza di odii e d'amori col
nemico d'Italia; ma li avremmo stimati astuti tanto da dissimularla.
31 maggio 1851.
I
Si
fanno stupore l'Azeglio ed altri come l'Austria, in trent'anni e più,
non sia pervenuta a spegnere nei nostri popoli l'animo italiano. Con che
vengono quasi a significare che l'Austria non volle o non seppe operare con
quant'efficacia poteva, e che con più diuturno proposito ben potrebbe
sperare compimento all'impresa.
Ben
altra è la ragione vera delle cose. La coscienza esplicita e solenne
d'una vita comune e nazionale è fatto nuovo e proprio del secolo; si
svegliò, a memoria nostra, in Germania tra le guerre francesi; e si
svegliò in Italia appunto sotto l'assidua doccia dell'austriaca
importunità.
Dovrebbero
i mali avvisati scrittori farsi piuttosto meraviglia che il corso di tant'anni
fosse necessario a dar vita a un affetto che parrebbe dover surgere spontaneo
dalla cuna stessa dei popoli. Dovrebbero dire che ad una siffatta forza, continua,
e crescente, e già pervenuta a formidabile manifestazione nel 1848,
oggimai ben pochi stimoli si debbano aggiungere, sia dai nemici, sia dagli
amici, per renderla in breve termine vittoriosa.
Napoleone,
dando nome e armi e vessillo al regno italico, e nel natale di suo figlio
porgendo speranza d'un re che ci unisse tutti in Roma, aveva piuttosto assopito
che desto lo spirito nazionale; poichè siffatte onoranze e aspettazioni
mitigavano la molesta verità del dominio francese. Ma se militari e
magistrati si compiacevano del teatrale apparato, nelle sobrie menti del vulgo
quel tempo rimase sempre, come veramente era: «il tempo dei francesi»; essendo
poi vero altresì che quelle memorie non gli riuscirono umilianti
nè amare. Ciò che allora cruciava veramente il popolo, non era la
presenza dei francesi: la coscienza nazionale non era popolarmente attuata. Ma
era l'insolito peso della milizia in lontane spedizioni; era la vessatrice
finanza e il divieto continentale che contrastava alle famiglie molti oggetti
di domestica consuetudine; era il sospetto, instillato ogni dì dai frati
e dai patrizii, che la religione fosse insidiata, e che la dimora del pontefice
in qualunque città fuori di Roma fosse pel genere umano calamità
maggiore della guerra e della peste. Napoleone, non pago d'esser benedetto
dalla vittoria, aveva mendicato aspersioni e unzioni; e dopo aver rimessi a
galla gli ambiziosi prelati, voleva domarli: e non colla libertà del
pensiero, ma colla gretta forza. E non osò rispondere alle loro scommuniche,
spalancando loro in faccia il testo degli evangelii, e sconsacrandoli nel
giudicio dei popoli.
Venne
la santa alleanza, tutta infiorata di lusinghe e di promesse; e in breve si
riscossero i popoli sovra letto di spine. Uscirono, come stormo di gufi, a
occupare i troni della penisola le incipriate prosapie che si erano nascoste,
durante la guerra, nei confessionali di Sicilia e di Sardegna. E venne secoloro
una mascherata di cavalieri d'ogni croce, e di prelati e frati d'ogni tonaca; e
presero a tiranneggiare le genti, e ammaestrarle ad ogni impostura e codardia.
Il pontefice fu restituito; e tosto si vide nelle improvide Romagne uno
spettacolo di catene e di torture, e di sicari e di carnefici, e uno strazio
della giustizia e della ragione, al quale rimase solo freno il coltello della
vendetta.
Infatti
sarebbe stato ben agevole agli oppressi scuotersi di dosso quegli imbelli. Ma
ogniqualvolta il tentarono, primachè avessero spazio di ordinarsi a governo,
e prima che potessero svegliare a comune difesa gli smemorati popoli, si
trovarono a fronte gli eserciti imperiali. E tra la forza straniera e le
prelatizie insidie, i più generosi moti riuscirono solo al disordine e
alla fuga. Chi aveva anelato a un campo di gloria, moriva sul patibolo; e il
sangue versato senza battaglia, anzichè rendere onore alla patria,
metteva una macchia di viltà sul nostro nome.
Intanto
l'odio, che prima si divideva sopra i singoli tiranni, si accentrò
naturalmente contro quella potenza che tutti li proteggeva. Milano e Palermo,
la Romagna e la Calabria, non avevano nei passati secoli avuto mai pensiero di
tutela commune; poichè il pontefice, invocatore perpetuo degli
stranieri, aveva sempre mandato a ciascun popolo un diverso dominatore da
combattere o da soffrire. Ma ora l'Austria, sola, pareva delegata dall'Europa a
far disonorata e infelice tutta la nazione. Adunque i popoli d'Italia non
riuscirono alla fratellanza dell'amore, se non dopo essersi incontrati nella
communanza dell'odio. Questo è beneficio che devono al nemico. Fu allora
che ricordarono con dolore Napoleone, e le armi da lui date invano all'Italia e
il glorioso vessillo del suo regno. Anche i liguri e i subalpini e i toscani
che non avevano portato in guerra quei colori, li adottarono a segno di
unità; e persino i carbonari dell'estrema Calabria che li avevano odiati
e combattuti, li accettarono tramutando in bianco il nero del mistico loro
tricolore.
Perchè
l'Austriaco non seguì l'esempio di Napoleone, di conciliare alla sua
potenza i naturali affetti dei sudditi italiani? Perchè non volse a suo
profitto la malvagità dei prelati e dei principi; e al primo fremito di
popolo non si frappose, vindice del secolo e giudice degli oppressori? Non era
quello l'antico pretesto alle incursioni degli Ottoni e degli Arrighi?
Nè importava che inviasse le truci caterve della Croazia, ma colle
insegne del regno italico i fratelli italiani; i quali senza sangue, potevano
acquistargli le ambite Legazioni, e quant'altro gli convenisse. Nè
sarebbe mancato adulatore che dicesse esser quello un voto consegnato da cinque
secoli nella Monarchia di Dante.
Ma
quell'Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo governare le Fiandre
col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano con quello di audaci pensatori,
e regnare in Ungaria col libero voto di genti armate, erasi estinta con Maria
Teresa. Già con Giuseppe di Lorena erano tese d'ogni parte le stringhe
dell'aulica centralità. E dalle Fiandre fino alla Transilvania,
cominciarono a riluttare con insoliti tumulti le popolazioni. Nelle guerre
napoleoniche, il governo austriaco si compose ognora più a dittatoria
rigidezza; mentre colla perdita delle più remote appendici, e
coll'usurpazione di Salisburgo, di Trento, della Venezia e della Valtellina,
erasi meglio spianato il campo a materiale unità. Per farsi strettamente
una, l'Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio una
minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte l'altre nazioni. Da quel
momento, ella s'avvinse a una catena d'inique necessità, che la trassero
di grado in grado agli eccidi della Galizia e ai patiboli dell'Ungaria. In
cospetto ai quali, è poco il dire ch'ella tolse alle provincie italiane
le armi, la bandiera, il pubblico onore e la privata sicurezza. Ogni passo
ch'ella faceva dietro il sogno dell'unità, addolorava e inimicava un
ordine di cittadini; destava in tutti il fremito del sangue italiano. La
coscienza nazionale è come l'io degli ideologi, che si accorge di
sè nell'urto col non io. Ella si svolse prima in coloro che avevano
più bisogno di libertà negli studi, nei commerci, nei viaggi; e
perciò erano in più frequente penoso conflitto cogli interessi
dello straniero, coll'ignoranza sua, coll'arroganza, coll'eterno e implacabile
sospetto. Poi si destò mano mano, anche nei magistrati, ch'erano pure
accuratamente spiati e trascelti a essere arnesi di obedienza: nei sacerdoti,
benchè domati dall'episcopale superbia a tradurre anche l'evangelio in
dottrina di servitù: nei contadini, benchè tenuti dagli avari e
gelosi padroni quanto più vicino si potesse alla natura di bestiami: per
ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la nobiltà non
sembravano presidio alla dignità del vivere, ma diritto ad andare inanzi
a tutti nella viltà. Questa mutazione degli animi era lenta, ma
continua, universale; irreparabile a qualsiasi scaltrimento di polizia. Che
anzi, dopo alcun tempo, cominciò ad accelerarsi, come certe
velocità, in ragioni geometriche, mentre le forze morali del governo
declinavano visibilmente, come le velocità dei proiettili da guerra.
Infine rimase spenta affatto ogni tradizione d'amore e di rispetto; e allora
gli eserciti, che dovevano difendere lo stato dai nemici esterni, vennero
ritorti contro la patria, simili al pugnale del suicida. Intanto nel governo
austriaco l'odio contro la nazionalità italiana si faceva più
aspro e cavilloso. Gli spiaceva perfino il nome d'Italia; lo voleva dissimulato
nei libri, cancellato nelle carte. E al contrario lo scolpiva viepiù
nelle menti; lo chiamava sulle labbra; se lo vedeva scritto da mani notturne
sulle muraglie delle città. Una indomita riluttanza serrava sempre
più il fascio dei popoli italiani; era come la polve di plàtino
che s'incorpora sotto il martello.
Nondimeno
tanto mite era la natura dei lombardo-veneti, che in trent'anni non si levarono
nè una volta sola a tumulto. E davano soldati e denari al sovrano, e
guadagni sempre più sfacciati a' suoi satelliti e banchieri; e pagavano
quella brutta servitù ben più caro che ai loro vicini non
costasse l'onore e la sicurtà. Eppur non valse. Come la vecchierella
d'Esopo sventrò la gallina perchè le faceva le ova d'oro,
così l'Austria si ridusse a manomettere colle sciabole quel popolo i cui
sudori più fruttavano alle sue finanze. Quando in settembre del 1847
corse in Milano il primo sangue, egli fu perchè il popolo si rallegrava
di vedere ingrassata dei beni della sua chiesa piuttosto una famiglia italiana
che una straniera. Nè il governo aveva aspettato finchè quella incauta
allegria si mostrasse; ma aveva fatto arrotare le sciabole otto giorni prima. E
per più mesi ancora, fin presso al gennaio, si udirono quasi solo le
voci dei magistrati, che imploravano sommessamente le più temperate
riforme. Ebbene, fra i documenti si rileva come l'ordinanza che
abbandonò le vite dei cittadini ai capricci del giudicio improviso,
fosse già preparata in Vienna il 24 novembre, mentre solo all'8 dicembre
il Nazari diede il primo cenno d'opposizione. Nè propriamente sarebbe a
dirsi oppositore quel magistrato che invoca qualche provedimento, per adempiere
al suo officio, e pel desiderio che «il suo monarca sia da per tutto e da tutti
adorato e benedetto». In risposta a siffatte genuflessioni, era adunque da due
settimane già preordinato in Vienna il patibolo! Ed il benigno
vicerè, per prima accoglienza ai devoti preghi del Nazari, comandava
alla polizia di tendergli i suoi lacci. No, non poteva l'Austria tollerare
alcuna supplica; perchè non poteva fare alcuna concessione, senza
infrangere il fatto ch'erasi imposta d'inesorabile unità.
Vacillavano
intanto le finanze austriache sotto il peso assiduo dell'esercito stanziale,
ch'era oggimai l'unico vincolo tra le ripugnanti membra dello stato. Anzi una
necessità ogni di più imperiosa ingiungeva che l'esercito
d'Italia, da 36 mila uomini che contava nell'agosto 1847, fosse recato a ben 73
mila al 1º febraio, e cresciuto poi, nel corso di quel mese e del
seguente, fin oltre 80 mila. Ed era ancor poco ai generali, a cui pareva
affogare tra le popolazioni, da loro stessi rese unanimi nell'ira. Anelavano
essi a invadere gli altri stati italiani, a impedire che Roma armata divenisse
caposaldo alla nazione, a impedire che la sollevazione di Sicilia si propagasse
in terraferma. E avevano calcolato che per fare una spedizione anche con soli
26 mila soldati, erano costretti di lasciare alla custodia di Milano soli 6
battaglioni: soli 4 all'immenso circuito di Venezia, che ha 70 punti
fortificati: 1 solo nell'armigera provincia di Brescia:
E
colla speranza della prossima spedizione, decretavano a se stessi (altro
singolare aiuto alle finanze), la mezza paga di guerra; e rumoreggiavano sulle
porte dello Stato romano e dei Ducati, e minacciavano la Toscana. E nella
gazzetta d'Augusta sfogavano il loro furore, ciò che non potevasi fare
nei fogli responsabili e censurati dell'imperio; e perchè sapevano
ch'era letta in Italia, e volevano ad ogni modo provocare gli italiani per
poterli trucidare prima che fossero armati, li chiamavano razza comica,
ciarlatanesca, burlesca. E nei caffè si vantavano d'avere scritto, di
propria mano, quelle contumelie. E mettevano fuori ordinanze altisonanti, che
riducevano ogni ragione alla spada, come in terra d'Asia; ordinanze che parvero
allora strane e barbare, nè in Italia solo, ma perfino alla parziale
Inghilterra; e parvero poi davvero comiche e burlesche, quando al primo ruggito
del popolo i fuggitivi eroi gli lasciarono in mano quella medesima spada. E con
tutto ciò non facevano paura a nessuno; solamente destavano all'armi
Roma e la pacifica Toscana; e rompevano i gesuitici sonni perfino a C. Alberto.
Di rimando, si facevano in tutte le chiese d'Italia funebri espiazioni per gli
inermi scannati di Milano, e questue in ogni città pei feriti e per gli
orfanelli. E così ogni atto dell'Austria accendeva vie più quell'animo
italiano ch'ella intendeva di spegnere.
Certo
se quella spedizione si fosse fatta, e gli austriaci si fossero disseminati qua
e là per l'Italia, lasciando i 6 cannoni nel Lombardo-Veneto, tanto
meno, allo scoppiar dell'insurrezione, avrebbero potuto raccogliersi e
salvarsi. Ma riparò alla loro furia l'astuzia dei cardinali, che si
opposero a tutta forza, fingendo anzi, i più dediti all'Austria, di
volersi fare capitani del popolo contro lo straniero. E l'Inghilterra, amorosa
tutrice dell'Austria delirante, fece ogni opera per rattenerla sui confini;
sicchè non si oltrepassò Ferrara e Modena; e si lasciò
cadere il disegno che si aveva di eludere le apprensioni dei cardinali,
tragittando per mare un esercito nel regno di Napoli. E ancora i generali che si
lagnavano delle scarse forze, vedevano solo negli eserciti la massa; e non
intendevano quanto quella forza ancora fosse scemata per effetto delle
nazionalità. L'italianissimo Durando, nel suo libro Della nazionalità,
aveva ammonito fraternamente gli austriaci a non fidarsi dei reggimenti
italiani, e a non appagarsi tampoco di relegarli sulle frontiere turche, ove
potevano disertare, e incorporarli per compagnie nelle guarnigioni più
lontane. Ma essi non avevano badato. Ora in quei loro 73 mila soldati, almeno
33 mila erano italiani del Lombardo-Veneto, del Tirolo, della Gorizia e
dell'Istria; e 11 mila almeno erano ungaresi: tutta gente il cui animo
già ripugnava alla bandiera. I rimanenti (meno di 30 mila), o erano
slavi del tutto, o un misto discorde di teutoni e di slavi. Il paese
interamente tedesco, l'Austria arciducale, in cui nome si faceva la guerra,
aveva tra i 57 battaglioni di quell'esercito un solo battaglione con un
reggimento di cavalli. Due altri battaglioni erano pure tedeschi, ma del Tirolo.
E i savii di Francoforte si papparono poi la gloria austriaca come gloria
tedesca; e versarono sulle austriache crudeltà assoluzioni indegne della
scienza, e della patria e del secolo. E parimenti l'Italia era ammaestrata a
gridare: fuori il tedesco! Anch'essa vedeva solo la guerra delle armi, contava
solo le baionette; e non intendeva in altrui quel principio che traeva lei
medesima alla guerra. Vedeva solo i tedeschi, che non v'erano; e non vedeva le
radici intestine della potenza straniera; non vedeva coloro che, cacciati i
tedeschi, avrebbero chiamati i francesi e gli spagnuoli, e si vantavano d'aver
duecento milioni di schiavi; e se quei non bastassero, avrebbero chiamati i
beduini e i turchi; e infine avrebbero imprecato sulla loro patria le potenze dell'inferno.
E v'era, in Italia, chi non voleva ch'ella si ricordasse che gli eserciti sono
lame a due tagli, e che dagli eserciti erano surti i moti del 1815, del 1820,
del 1821. E così l'Italia correva a premature ostilità, quasi
temesse d'aver tempo ad armarsi, quasi le dolesse lasciar agio alla mole nemica
di sconnettersi, e all'Ungaria di chiarirsi qual era.
Gli
austriaci avevano speranza in quella fretta degl'italiani; e abbiamo ansa a
indurre che le uccisioni di Milano, di Bergamo, di Padova e di Pavia non
fossero se non modi di giustificare da un lato, in faccia all'Inghilterra, le
meditate invasioni, e d'avvalorare dall'altro la dimanda di nuove truppe.
Accadevano in un medesimo giorno i fatti di Padova e di Pavia; e si era
ordinato anzi tempo che la gazzetta d'Augusta attribuisse immantinente quella
simultaneità alla mano delle società secrete. Senonchè il
corrispondente che inviava dallo stato-maggiore a quella gazzetta le anticipate
narrazioni, sbagliava le date: citava, a Milano, sin dal giorno 9 febraio, la
gazzetta di Venezia del giorno 11; e così da istoriografo si palesava
profeta. A Padova dunque e a Pavia, come a Milano, a Ferrara, a Bergamo, a
Brescia, a Modena, vediamo costantemente gli austriaci, armati, sollecitare a
conflitto gli inermi; dare il segnale degli assalti; far essi ciò che
avrebbero dovuto fare i ribelli. A che pro dunque andar cercando nelle
società secrete l'unico fomite che propagò l'odio ai tedeschi e
lo spinse fino alla guerra? Davvero che l'Austria bastava!
Noi
dimandiamo se fossero più dannosi nemici alle austriache finanze coloro
che col demolire le imposte del tabacco e del lotto sottraevano 15 milioni di
reddito lordo, ma solo 6 milioni di nitido: o coloro che la consigliavano a
persistere nella ingiustizia sua contro la nazione italiana, a costo anche di
dover accrescere l'esercito da 36 mila uomini a 150 mila. Quest'aggiunta di 114
mila soldati per una sola nazione dell'imperio (nè l'altre nazioni erano
gran fatto più tranquille), quanti milioni doveva divorare in un anno? e
quanti in due, in tre anni? Centinaia senza dubbio; ben altra cosa che i 6
milioni del lotto e del tabacco. Le inconsulte spese dovevano render necessarii
nuovi debiti e nuove imposte; quindi altri impacci e altre molestie da
infliggersi alle nazioni già stanche: quindi inaspriti più gli
odi: e affrettato l'inevitabile divorzio, l'inevitabile partaggio della
monarchia. E perciò i due vicini, che potevano aver più guadagno
da quel disfacimento, tanto più apertamente fomentavano le discordie: la
Russia aizzando i governanti: e la Sardegna, i governati. Il consiglio di farsi
moderata, e anche costituzionale, almeno nel Lombardo-Veneto, non venne
all'Austria da quei due alleati che avevano interesse a vederla convulsa e
smembrata; ma sì dall'Inghilterra che voleva, a proprio commodo e
servizio, averla tranquilla e forte.
Vigilava
questa desiosamente ogni occasione che potesse ricondurre gli ottimati ai loro
antichi amori colla casa d'Austria; e sperò che a questo giovasse almeno
la nuova della repubblica risurta in Francia. E infatti i milanesi, al dire
della stessa Opinione, furono commossi dalla mansuetudine
dell'imperatrice, che, riprovando le soldatesche sceleratezze, inviava al conte
Borromeo molto denaro in soccorso ai poveri. E finchè il vicerè parve
propizio ai cittadini, questi si rivolsero candidamente a lui. E Borromeo, il
quale poco fidava in Carlo Alberto, giunse persino a suggerire al vicerè
speranze di regno, che «il cupo principe» udiva non senza commozione. Ma v'era
a lato ai principi chi gli spingeva al precipizio, chi voleva il sangue per
avere il denaro. E lo stesso general Willisen, adulatore di Radetzky, accenna a
questa sequela di cose, ma senza intenderle.
All'annuncio
del sangue versato in Milano, l'Azeglio gettava la sua maschera di moderatore e
di paciero, e prorompeva in fanatico tripudio: «Il fatto è compiuto»,
egli scriveva. «Or io dico all'Italia: Rallégrati! L'Austria è ridutta
all'assassinio! L'Austria assassina!». Senonchè la volpe aristocratica non
intendeva tutto il terribile mistero di quel sangue. Il quale, se stillava
desiderato e dilettoso ai cupidi marescialli e agli ambiziosi di Pietroburgo e
di Torino, era pur desiderato da altri a più alto proposito. «Quando si
mise l'Austria al punto di sguinzagliare i suoi croati, corse per tutta Italia
un grido, che ripiombò sul core de' principi, complici dell'Austria».
Ora qual politica strana è questa dell'Austria, che rallegra tutti
quanti i suoi nemici?
Si
vede dai documenti della diplomazia britannica, che la famosa fuga di Pio IX,
la quale fu poi compiuta in novembre del 1848, erasi già meditata e
tentata a mezzo luglio del 1847, parecchie settimane prima che i buoni milanesi
si facessero ammazzare, cantando per le vie il santissimo nome. Intanto che la
curia pontificia burlava la gente colle proteste di Ferrara, assoldava in Roma
i sicari di Faenza, e pregava di soppiatto Metternich a tenersi pronto
coll'esercito ad aiutarla nel momento del macello. Ma se la fuga compiuta
necessitò poscia il popolo romano a proclamar la repubblica, la fuga
tentata gli era stata il segnale dell'armamento. Colla tracotante passeggiata
di Ferrara, l'Austria medesima aveva posto le armi in pugno ai Romani. E non
appena si sentirono armati, divennero, come sempre accade, più aperti e
imperiosi; e si stancarono in breve di cacciarsi inanzi cogli applausi e colle
adorazioni lo svogliato pontefice. Il terremoto popolare di Roma si
propagò alla sempre agitata Calabria; scosse ancora più
profondamente la Sicilia; di là varcò da capo il mare, e atterrì
così fattamente il re di Napoli, ch'egli denunciò il patto che lo
legava ai tre despoti del settentrione e fremendo e piangendo giurò
inanzi al popolo e a Dio una costituzione. Questo repentino trabalzo spinse
fuori del cerchiello delle riforme gli altri principi d'Italia, che stillando
di tempo in tempo qualche minuto beneficio, speravano regnare gloriosi e
adorati per molti anni ancora. E il Piemonte stesso si agitò sotto la
cappa gesuitica che il re gli teneva indosso. Onde Carlo Alberto, che aveva punito
con dodici anni di carcere un evviva all'Italia, e che pochi mesi addietro
derideva nel suo Cesare Balbo certe velleità costituzionali, fu
costretto, dopo vane riluttanze, a cedere ai prudenti consigli britannici, e
farsi dimandare in fretta dal municipio di Torino quello statuto in cui gli
adulatori dell'Opinione e del Risorgimento raffigurarono poi le tracce di 18
anni di sapienza e di meditazione. E si preparava al doloroso passo di
sottoscrivere lo statuto, come altri si sarebbe preparato alla morte.
In
quel frattempo i malaccorti sussidi forniti dall'Austria, dalla Francia e dal
Piemonte ai segregati Svizzeri, invece d'infiammare vie più la guerra
civile, destarono finalmente a pudore gli onesti animi degli alpigiani, che
lasciarono cadere in breve le armi e si riabbracciarono coi fratelli. La
contorta e immorale politica di Metternich, di Guizot e di Lamargarita andava
dunque sbeffata, non meno in Italia che fuori; si dissipava l'illusione di
quell'ammirata arte di stato; e dallo sdegno popolare sgorgava improvviso in
Parigi il grido di repubblica.
Ai
mostruosi fatti di Parigi, come Metternich gli chiamava, rispondevano in pochi
giorni i più inaspettati eventi di Vienna. Un governo che nelle
provincie non riconosceva diritti e nelle scole insegnava tutte le cose dei
sudditi appartenere al sovrano, ed essere solamente concesse a loro conforto
dalla sovrana clemenza, teneva ugualmente a vile anche il favorito popolo
austriaco in cui nome facevasi maledire dalle provincie. I privilegi
ingordamente accumulati nella capitale vi avevano adescato un’infinita turba di
proletari. Fra le illusioni degli imperanti e la fattizia floridezza delle
industrie, quella spensierata plebe si moltiplicava, aggiungendo intorno alle
anguste mura città a città. Venne un giorno che uno stuolo di
giovani spirò nella incòndita mole l’alito della coscienza e
dell’idea. La republica teutonica era concetta! Arduo e doloroso è il
suo nascimento, ma inevitabile e fatale. Intanto l’Italia regia trastullava i
popoli colle costituzioni a beneplacito; e avviava di soppiatto le soldatesche
ai confini della Savoia, per intercettare le correnti magnetiche dell’Hotel
de Ville. Essa voleva far da sè, cioè far astrazione dalla
Francia nelle cose d’Italia e del mondo. Ma nulla valse; poichè
ciò che non voleva di Francia, le giunse di rimbalzo col telegrafo di
Vienna, che apportò a Venezia e Milano, e via via di città in
città, la scintilla della ribellione. A Venezia risurse dalla fida
memoria del popolo la repubblica di San Marco, deposta dai patrizi,
cinquant’anni inanzi, senza ferite nella tomba. Ma il popolo di Milano,
accettava da incauti amici il consiglio di serbare ad altri giorni il grido
della libertà.
Poteva
colla caduta di Metternich l'Austria tornar federale, torsi di collo il
capestro della centralità. Era l’unica via di rifarsi moderna, e cessar
d’essere il tormento delle nazioni; ma essa mutò solo il nome alla
vecchia catena. Una costituzione unitaria che chiamava a una sola assemblea
tutte le genti dell’imperio, tornava assurda e impossibile. In quale mai lingua
doveva essere eloquente l’ungaro al tedesco, o il croato all’italiano? O doveva
ogni deputato condur seco nell’aula delle dieci favelle il suo turcimanno, come
le tribù della Nigrizia al mercato di Tombuctou? Le nazioni, schierate a
fronte in quel babilonico conciliabolo, in un proposito solo potevano tutti
accordarsi, di ricusar tanto alla ministeriale arroganza. Perlochè o
ricadrebbe ogni cosa nel pristino arbitrio della corte: o le nazioni,
sciogliendo tosto la bizzarra adunanza, andrebbero a fare meno insensata opera,
ciascuna nella patria sua.
L’Austria
non volle essere una federazione di popoli se-reggenti; non volle essere una
federazione commerciale, presieduta splendidamente da una famiglia di dogi
ereditari. Ebbene, che divenne ora l’Austria? Divenne una federazione (sempre
una federazione) di satrapi militari, che tengono la mano sui tributi delle
provincie, e lasciano agli arciduchi una banca vuota, un titolo svanito, e la
responsabilità di quanto d’atroce si commette in loro nome.
Gli eredi di Metternich furono
più ostinati e ciechi di lui. S’egli aveva infamato i suoi padroni col
carcere duro, quelli aggiunsero le fucilazioni, la mitraglia, l’acqua ragia;
profanarono il sesso col bastone. Se prima le vessazioni auliche avevano
alienato all’imperio i cittadini, ora le rapine e le crudeltà vilissime
gli resero avidi di vendetta, digrignanti, implacabili. Se prima sarebbersi
appagati a impetrare di quando in quando una regale cortesia, un raddrizzo
amministrativo, ora anelano a spezzare e atterrare ogni reliquia dell’antica
maestà.
Le
avite libertà ungariche erano un nodo in cui si intrecciavano con
ineguali patti più stirpi fra loro non amiche. Anche quel vincolo ora
è troncato. I laceri brani non debbono più essere Ungaria, e
divenire Germania non possono. Intanto nello scomposto imperio le innate
affinità chiamano a sè le genti slegate e oscillanti. Di qua
l’Italia appella le sue; e se ne riscuotono anche Trento e Trieste; di
là chiama le sue la Germania; d’altra parte l’Illiria, la Dacia, la
Polonia, l’indomita Ungaria. La Russia ride; e soffia nel foco; e batte assidua
il cuneo della centralità viennese, per dirompere e sfaldare le male
assortite agglomerazioni. Ad alcune tribù fa sentire il congenito suono
della sua lingua; ad altre aggiunge il fàscino della religione; ad altre
le lusinghe della corte, e l’ammirazione dell’immane sua grandezza; a tutte
inspira colla mano degli aborriti marescialli il furore di nuovi destini. Essa
fa di più; pone la ferrea mano sul caposaldo di tutto l’intreccio.
Perocchè chi erano infine gli uomini che avevano abusato, in odio alle
nazioni, l’aulica onnipotenza? Metternich era uno straniero; stranieri i
Frimont e i Bellegarde. E Haynau, ribrezzo del genere umano? E la vittima dell’ira
popolare, Latour? E Zobel, carnefice di prigionieri? E chi erano Ficquelmont, e
Daspre, e Nugent, e Wallmoden, e Schönhals, e Culoz, e Dahlerup? E tutti quei
principeschi venturieri di Hohenzollern, di Hohenlohe, di Homburg, di Coburg,
di Reuss, di Würtenberg, di Stollberg in cui nome s’intitolano tanti
reggimenti? E i venturieri della finanza, i Bruck, i Sina, i Rothschild? Gente
che non ha patria, come i normanni del medio evo, come i filibustieri, gli
algerini, i cardinali, i gesuiti! Nè rappresentarono mai gli interessi
d’alcun popolo dell’imperio; ma erano il nucleo d’un governo cosmopolitico,
incorporeo, astratto. Che importa a costoro giovare all’Austria o alla Russia?
Servire il Merovingo immemore, o l’ambizioso di Heristal? E così gli
arciduchi ora sono in faccia alla Russia ciò che i duchi e granduchi e
re dell’Italia erano in faccia all’Austria trent’anni fa; ciò che il
Gran Mogol e il Nizam divennero in faccia all’Inghilterra. La gran predizione
si compie; l’oceano è agitato e vorticoso; le correnti vanno a due capi:
- o l’Autocrata d’Europa - o gli Stati Uniti d’Europa.
In
mezzo a sì vaste e ineluttabili influenze, i difensori dell’Austria si
divagano ad accusare dei moti d’Italia ora le società secrete, ora la
volubilità del pontefice, l’oro degli ottimati, le insidie del regale
congiunto, le imaginarie trame dell’Inghilterra.
Le
società scerete, nel Lombardo-Veneto, ove, l’impeto popolare
riescì più unanime, avevano avuto minor voga che nella rimanente
Italia. D’altronde non tutte codeste aggregazioni avevano un medesimo intento
d’indipendenza e di guerra. I muratori, fratellanza universale e umanitaria,
appunto perciò temperavano più che non infiammassero l’odio agli
stranieri. I carbonari operavano taciturni di città in città,
piuttosto correttori della domestica tirannide, che incitatori a lontana
guerra. La Giovine Italia, fratellanza non muta, anzi eloquente, ornata
di dottrine filosofiche e di bello stile attinto al fonte biblico e agli
esemplari di Giangiacomo e di Ugo Foscolo, aspirava bensì a richiamar la
religione dal satellizio degli oppressori, e rifarla confortatrice evangelica
degli oppressi: ciò che significava col motto, Dio e Popolo. Ma
parlava una lingua ardua alle plebi, e a molti eziandìo che non si
stimano plebe. No, non era popolare; non penetrava addentro nella carne del
popolo, come la coscrizione, e il bastone tedesco, e la legge del bollo, e
l’esattore, e il circondario confinante, e le sciabole di settembre e di
gennaio. L’eco della Giovine Italia era nella generosa e poetica
gioventù delle università, delle academie e delle aule
teologiche. Essa, cogli occhi confitti nell’esercito straniero, pareva
riservare ad altra generazione le dispute tribunizie e l’emancipazione del
popolo, per accingersi anzi tutto alla pugna. La sua fede era dittatoria,
cesarea, napoleonica. Anelava alla forza militare e all’unità.
Nel
1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo, ma sì
ad un giovine congiurato divenuto re. «V’è una corona, gli diceva,
più splendida della vostra. Liberate l’Italia dai barbari; fatela tutta
vostra e felice. Siate il Napoleone della libertà italiana». A
Mazzini non bastava dunque un Cromwell nè un Washington: egli invocava
un Napoleone. Era dottrina questa esclusivamente e fanaticamente republicana?
Pure
ogni giorno udiamo gli impostori dell’Opinione e del Risorgimento,
lagnarsi che una scola intemperante posponesse le armi alla toga, la vittoria
alla libertà. Anzi chiamano mazziniano chiunque loca inanzi a ogni cosa
la forma republicana; vorrebbero quasi far credere che questo modo di governo
fosse senza esempio nel mondo, uscito da una mente accesa, per riflettersi in
quelle di pochi incauti seguaci.
E
perciò è necessario ricominciar l'istoria dai documenti.
Senonchè,
poco monta se codesta scola nascesse primamente e deliberatamente republicana;
poichè il suo voto d'indipendenza trionfante e di libera unità
non poteva mai, mai, compiersi se non colla forma republicana. E per
verità, qual risposta fece il giovine re all'araldo della nazione e
della guerra?
Lo
condannò, assente, a morte ignominiosa. L'ignominia ad un uomo che dice
al suo re: «hai un esercito; riscatta l'onore della tua nazione!». E con
Giuseppe Mazzini andò fugitivo e condannato anche Vincenzo Gioberti! E
anche Giuseppe Garibaldi!
Ma
se gli austriaci si appagavano, a quei tempi, d'uccidere in effigie i profughi
nemici, non fu pago il re italiano d'uccidere in effigie gli scrittori, anzi i
lettori, i lettori della Giovine Italia. La morte è la parte meno
disumana delle tragedie di Genova, di Alessandria, di Chambéry. Francesco
Miglio, che col sangue delle sue vene scrive alla sua famiglia, sotto il
dettato d'un traditore, una lettera che sarà la sua sentenza di morte:
Andrea Vochieri, già in atto di morire, nè omai più cosa
di questa terra, profanato da un calcio di Galateri: Jacopo Ruffini, che si
trae di mano ai tentatori, scannandosi colle ferree lamine del suo carcere: le
tenebre spaventose: i sonni rotti dagli inquisitori: le torture della fame: le
firme falsate: abusate perfino le lacrime delle madri: e tutte queste
abominazioni avvolte di formule nefandamente religiose: ci fanno quasi sognare
d'assistere tra le selve dei Druidi ai sacrifici umani. I sepolcri dei vivi
sullo Spielberg riescono quasi un asilo, un refrigerio alla mente inorridita.
Molti furono detti tiranni per aver messo a morte chi sospettavano deliberato a
rapir loro la corona. Carlo Alberto uccise quei generosi giovani che avevano
vaneggiato, non di torgli, ma di dargli la corona: la corona di tutta Italia: «Fatela
tutta vostra e felice!».
«Da quel giorno», dice l'intrepido
scrittore, dal quale attingiamo quei fatti, «Carlo Alberto, in continuo
sospetto di congiure e di rivolte, collocò la sua maggior fiducia nella
polizia. Volle denuncie e denunciatori nel municipio, nella magistratura, nella
milizia, nell'episcopato, nell'aristocrazia; fido sostenitore del potere della
polizia, era il potere del gesuitismo, entrambi tenebrosi, terribili entrambi,
operanti di qui coi frati, di là coi gendarmi, dappertutto coll'oro, col
ferro, colle spie».
Corsero
sedici anni: e apparve, nuovo spettro di liberatore, il pontefice Pio IX. E
l'instancabile proscritto della Giovine Italia, si rivolse a lui. E l'8
settembre del 1847, non sapendolo nemico della patria, e implorante di nascosto
le armi di Metternich, gli scriveva da Londra: «Unificate l'Italia, la patria
vostra. Combattete colla parola del giusto il governo austriaco. Abbracciate
nel vostro amore ventiquattro milioni d'italiani, fratelli vostri.
L'unità italiana è cosa di Dio, parte di disegno providenziale,
voto di tutti. Il risorgimento d'Italia sotto l'egida d'un'idea religiosa,
sotto uno stendardo, non di diritti ma di doveri, porrebbe l'Italia a capo del
progresso europeo. Un altro mondo debbe svolgersi dall'alto della città
eterna ch'ebbe il Capitolio ed ha il Vaticano». E anche queste erano parole di
vita dette a un cadavere. Il papa non aveva parole contro l'Austria, o in
difesa dei fratelli. E per nulla si dolse poi che in quel medesimo giorno, 8
settembre, il popolo di Milano venisse scannato, per aver cantate a coro le sue
lodi, e sperato ingenuamente nel suo nome.
I tempi si facevano terribili: l'Italia
fremeva del sangue sciupato in Milano, in Padova, in Pavia. Gli esuli volgevano
dalle terre trasmarine gli occhi all'Italia. Il proscritto Garibaldi scriveva
il 27 dicembre da Montevideo al proscritto Antonini: «Io pure cogli amici penso
andare in Italia ad offrire i deboli servigi nostri al pontefice, o al granduca
di Toscana». E li offerse poscia anche a quel re che lo aveva condannato a
morte.
E
ponevano in commune il peculio di poveri soldati, per tragittare d'America in
Italia quelli più poveri ancora che «volevano far dono del braccio e
delle vite in difesa della patria». Nè ponevano al dono condizioni
superbe, nè tampoco un patto di costituzionali franchigie; poichè
«animati dal sempre crescente progresso che andava facendo lo spirito nazionale
in Italia, e dai segni non dubbi dell'accordo fra principi e popoli, avevano
sollevato l'animo a quelle medesime speranze che vedevano fomentate ed accolte
dai governi del loro paese».
E
parimenti in Europa si apprestavano gli esuli al medesimo sacrificio delle
più care loro memorie, per offrire il sangue loro ai principi italiani,
purchè collegati contro la tracotanza straniera. Gioberti scriveva da
Parigi, fin dal settembre 1847, con qual gioia vi fosse accolta dai proscritti
la nuova che Carlo Alberto fosse disposto a tutelare l'indipendenza italiana e
collegarsi col gran pontefice; e come a tale annuncio tutte le discrepanze
d'opinioni e d'affetti fossero scomparse. «Tanti essere i sudditi spontanei e
devoti a Pio IX e a Carlo Alberto quanti i figli d'Italia». E scriveva a
Montanelli che non v'erano più radicali, e che tutti gli amatori
dell'indipendenza volevano conservare la monarchia, come necessaria, anzi
avvalorarla.
Senonchè,
non appena erano trascorsi tre giorni, che l'incauto lodatore aveva a dolersi
d'essere già smentito da Carlo Alberto, che faceva vietare dalla polizia
i colori papali e gli applausi a Pio IX. Nondimeno i facendieri incalzavano con
promesse i proscritti; e da Milano supplicavasi Mazzini a tacere, e lasciare le
orecchie della nazione agli adulatori di Carlo Alberto. E in Parigi lo
s'incalzava a cancellare financo il nome della Giovine Italia, il quale
veramente rammentava troppo le passate crudeltà dei principi, ora
penitenti e rigenerati. E lo traevano a riunirsi secoloro in una nuova
Associazione Italiana, della quale scaltramente lo volevano preside, insieme
però ad uomini apertamente costituzionali e principeschi; ed esigevano
in nome della patria che «rinunciasse ad ogni iniziativa», e attendesse
rassegnato che dal seno dell'Italia e dalla lega dei principi riformati e
riformatori avesse indirizzo ogni cosa. Vedeva egli pur troppo «il retrocedere
del papa e il pessimo maneggio dei moderati. Io temo, scriveva a Filippo De
Boni, le riforme di Carlo Alberto, non perchè io mi sia republicano, ma
perchè sono unitario. Con tutta l'avversione che ho a Carlo Alberto,
carnefice de' miei migliori amici, con tutto il disprezzo che sento per la sua
fiacca e codarda natura, contutte le tendenze popolari che mi fermentano
dentro, s'io stimassi Carlo Alberto da tanto, d'essere veramente ambizioso, e
unificare l'Italia in suo pro, direi veramente: amen. Ma ei sarà sempre
un re della lega; e l'attitudine militare ch'ei prenderà, se la
prenderà, non farà che impaurir l'Austria, e ritenerla forse
ne' suoi attuali confini, che i re della lega rispetteranno. E questo
è il peggio». Il peggio era dunque per il Mazzini la pace
coll'Austria: dacchè suprema sua fede era sempre l'immediata e
combattente unità di tutta l'Italia.
Ora
vediamo di che tempra e di che fede si fosse codesta lega dei principi
italiani. Carlo Alberto era sempre infraddue, fosse in politica, fosse anco
solo in cose di letteratura. Egli chiamato dagli imperiosi tempi ad essere un
Napoleone, l'uomo dalla ferrea volontà, non aveva mai volontà
propria; pendeva sempre fra opposti consigli; e talora gli seguiva a lungo
entrambi, rifacendo in secreto colla sinistra ciò che aveva solennemente
disfatto colla destra. V'erano intorno a lui due conciliaboli di cortigiani,
che operavano in contrario senso; poi ognuno dei due portava come bracco la sua
caccia appiè del padrone. Carlo Alberto al chiaro giorno era re di
Sardegna, colonnello del 5º reggimento degli ussari austriaci, insieme con
Radetzky; cognato degli arciduchi; ricinto di gesuiti da messa e da spada;
ricinto da quelli che col suo denaro pagavano la guerra civile in Friburgo e
Lucerna; ricinto da quelli le cui mani stillavano del sangue della Giovine
Italia. E nella notte, egli dava clandestina udienza alle società
secrete di tutta la penisola e della Sicilia; viveva in concubinato colla
rivoluzione. Nè i persecutori della Giovine Italia erano ben
concordi fra loro: poichè si dividevano seguendo le rivali ambizioni di
Villamarina e Lamargarita; sempre però concordi a regnare colla censura,
colle spie, col confessionale; e adoperare, secondo l'opportunità, le
tombe di Fenestrelle, la malaria di Sardegna, il piombo, il capestro.
Nell'altra congrega erano molti che il re aveva condannati a morte e faceva
stare inesorabilmente in esilio, come re di Sardegna; ma, come re futuro
d'Italia, gli accarezzava, inviandoli qua in là in secrete missioni.
Alcuni di essi erano paghi di addentrarsi nel torbido delle cose italiane,
preparando al re, quando che fosse, l'acquisto d'un po' di paese, foss'anco
solamente Mentone e Roccabruna; erano menti meschine, educate nella meschina
istoria di quella monarchia. Altri coltivava anche le ragioni ereditarie del re
sovra Piacenza; altri voleva scavalcare anche il duca di Modena; il quale per
verità nel 1831 aveva cospirato coi gesuiti a scavalcare Carlo Alberto
in Piemonte. Altri s'aggirava fin per le carceri della Sicilia, a far sacco
degli odi inveterati contro il nome borbonico. Altri, superando gli scrupoli
della divotissima casa, spingeva le artificiose mine fin sotto al trono del
pontefice. Questa era la provincia sopratutto del pittore e letterato
Tapparelli, detto volgarmente il marchese d'Azeglio; e fa meraviglia:
poichè era figlio e fratello di gesuiti. Qui diverrebbe troppo lunga
ripetizione l'andar esponendo quanto viene a chiarirsi, ove si riducano a
commune costrutto alcune lettere del Gioberti: le memorie secrete degli emigrati:
le dichiarazioni del triumviro Aurelio Saffi, dell'inviato De Boni e d'altro
membro dell'assemblea romana: i cenni sulla propaganda di Modena e Milano: la
publica protesta fatta dal conte Michelini, che aveva spinto l'audacia fino a
volere, contro il comando del papa, spiegare in Roma lo stendardo di Carlo
Alberto: moltissime date di quei giornali toscani, ch'erano strumenti alla
propaganda di Carlo Alberto contro il duca di Toscana, quando la stampa in
Piemonte era ancora schiava; l'opera del generale Giacomo Durando che voleva
prendere lo Stato del papa dandogli in cambio le isole d'Elba e di Sardegna: e
rifacendo le tre Italie, antico e infausto disegno concertato, venticinque anni
addietro, fra Carlo Alberto e Federico Confalonieri: infine le opere degli
aperti lodatori del re, Alfonso Andreozzi e Luigi Carlo Farini. E questi fanno
menzione anche della mistica medaglia, che sta in fronte al nostro Volume e
può facilmente vedersi in metallo nelle raccolte numismatiche; barbaro
accozzamento di cifre gotiche e di baccelli palageschi, di mostri blasonici e
di visi umani, che il re inviava secretamente ai suoi devoti, come il pontefice
manda intorno le rose d'oro e i femori di santa Filomena.
Questi
maneggi erano antichi. Fin da molti anni addietro ordinavasi in Brusselle e in
Parigi il comitato dei Veri Italiani; si trasferiva poscia in Pisa e in
Firenze; e di là si propagava a Bologna e a Forlì, nonchè
a Roma, a Napoli, a Palermo. Pare che rimanesse obliata la sola Venezia, non
sappiamo per qual disegno; e per verità, anche quando la si ebbe, si
tentò di adoperarla a fare un baratto, rinnovando la vergogna di
Campoformio. Forse si temeva che, l'unione di Genova e di Venezia insospettisse
l'Inghilterra; forse Genova medesima, per triviale gelosia mercantile, voleva
trarre a sè sola il commercio della valle cisalpina. Intanto si
arrolavano alle congreghe albertine gli scrittori ambiziosi; e i ricchi che
avevano titoli o li agognavano; e sopratutto parecchi capi dei carbonari e
delle altre sêtte. E ai repubblicani si predicava non essere maturi
ancora i tempi alla libertà; doversi consecrare i pensieri prima
all'indipendenza; al che necessitava fare un regno grande, ossia farsi tutti
sudditi di Carlo Alberto; il quale aveva pronto un esercito. E l'esercito vi
era; ma il re l'aveva ordinato a frenare nelle guarnigioni i suoi sudditi, non
a campeggiare contro gli stranieri. L'esercito non aveva stato-maggiore
addottrinato a condurlo; perchè si era convenuto che, in caso di guerra
colla Francia, l'Austria reggerebbe. A quelli che dubitavano o disperavano
dell'animo di Carlo Alberto, si faceva intendere che ove il re non si mettesse
all'opera di buona voglia, l'avrebbero costretto. A quelli che ad ogni patto
non volevano aver padrone, si diceva che, dopo la vittoria, lo strumento della
vittoria ben si poteva spezzare; e proclamare l'intera libertà.
Così la gesuitica congrega di Torino avviava quella versicolore ed
assurda ricucitura della fusione, che pretendeva accozzare le opinioni
inconciliabili e gli interessi nemici in una concordia infida e caduca,
purchè durasse quant'era necessario a sventar l'impeto popolare, e furar
l'occasione alla libertà. Allora dovettero appartenere ad una stessa
causa Guerrazzi e Gioberti, Azeglio e Bianchi-Giovini, Settimo e Bozzelli,
Balbo e Sterbini, Valerio e Cavour; e arrabattarsi in carnevalesca miscela
Pinelli, Buffa, Zucchi, Salvagnoli, Gioia, Correnti, Minghetti, Ridolfi, e
altri senza fine; abbracciarsi principi e popoli, poliziotti e carbonari,
epuloni e martiri, gesuiti e antologisti, ciambellani e republicani, per uscir
poi di quell'orgia regale disingannati e discordi più che mai.
Intanto
il tempo scorreva; e alle parole non seguivano i fatti. Nessun indicio si
vedeva della guerra del re, e nemanco d'animo veramente riformatore e
liberatore in lui; chè anzi lo si vedeva accosciato sul letamaio del
gesuitismo e della polizia. L'oppressione intanto nelle Romagne si faceva ogni
giorno più intollerabile, perchè la nazione sentiva ogni giorno
più la sua coscienza, e il suo diritto, e la sua vergogna. Allora
fremevano contro i loro capi le fratellanze; e gli gridavano servili e sleali;
e prorompevano a incomposti e tumultuari disegni.
Qual
era dunque la mente dell'Azeglio e degli altri sollecitatori? Volevano
spingere, o volevan frenare? O solo preparar da lontano gli animi,
affinchè in ogni caso si volgessero al re, piuttosto che a più
risoluti e liberi consigli? Forse intendevano solamente che il re,
accaparrandosi quella furtiva popolarità, potesse in ogni caso, nel
naufragio degli alleati, salvar se medesimo. Forse intendevano solo dividere
dalla moltitudine i capi: seminar fra quelle temute tenebre la discordia e
l'impotenza. Forse bramavano solo sapere: sapere quali affetti ardessero
nelle addolorate viscere dell'Italia. E perchè poteva il re aver brama
di saperlo? Per sua sicurezza soltanto? Ma come obliare ch'egli nel 1821 e nel
1833, pur troppo, era stato delatore dei nemici dello straniero allo straniero?
Ad
ogni modo le amicizie republicane di Milano e le fratellanze dei carbonari in
Romagna, erano divenute, alcune deliberatamente, alcune per inganno, una specie
di fanteria dei cavalieri albertini. E l'Azeglio e altri che avevano professato
di ritrarre l'Italia da quello ch'essi chiamavano il malvezzo delle società
secrete, se ne facevano essi i capi, e ordivano un secreto nel secreto. E per
lo stesso modo, dopo aver predicato che non volevasi governo in piazza,
mandavano dalla locanda di Porta Rossa il vessillo di Savoia nelle vie di
Firenze, come se fosse desiderato dal popolo fiorentino che non lo conosceva, e
non lo curava. E inviavano emissari a portarlo per le piazze e pei teatri di
Roma, per imporre al pontefice, sotto i nomi di ministri secolari, i loro
creati. E imponevano generali piemontesi al granduca di Toscana, generali
piemontesi al papa; il quale, mal discernendo l'un Durando dall'altro, diceva,
non del tutto senza ragione, di non volere ad ogni patto «quei signori Durando
che lo volevano cacciar nelle isole».
Si può dire a scusa di Carlo
Alberto, ch'egli non era il solo principe in Italia che intingolasse bassamente
in casa degli alleati e dei congiunti. A parte i satelliti di tutte le polizie,
di tutte le diplomazie, i centurioni, i sanfedisti, e tutte le radici maschili
e femminili della mala pianta di Sant'Ignazio, v'erano altri conciliaboli che
operavano pel duca di Modena nelle Legazioni e in Piemonte; per i Beauharnais,
e diremo pure per la Russia, nelle Legazioni e in Milano; per i Borboni nelle
Marche, per i Murat a Napoli; per i Bonaparte a Milano e a Roma; per l'Austria
in Piemonte, nelle Legazioni e dappertutto.
Fra
i padri lettori, i padri maestri, i padri inquisitori, fra gli stessi
monsignori e cardinali v'erano i venduti all'Austria, non venduti per oro, che
l'oro se lo tenevano volentieri gli austriaci per sè, ma per la speranza
di avere un giorno dall'imperial favore, o il pallio arcivescovile di Milano, o
benanco la santa pantofola di Roma, da calpestare l'evangelio e la patria. E
quando i sicari del borgo di Faenza non ebbero più faccende nè sicurtà
in Roma e in Romagna, venivano secretamente arrolati dai duchi di Modena e di
Parma. Ciò facevano i conservatori dell'ordine e della virtù!
Le
occulte congreghe, mosse da tante contrarie e perverse ambizioni, scontrandosi
nelle tenebre si combattevano fra loro. Il poeta Castagnoli, propagatore
austriaco, fu punito dai cardinali; il barone Baratelli, pur satellite
austriaco, fu prima esiliato dai cardinali: e questo è certo; poi fu
ucciso: e non si seppe da chi. E frattanto si scrisse in Inghilterra, accagionandone
ad ogni buon conto «il pugnale democratico». E anche a Ciceruacchio fu vibrato
un colpo indarno: non certo da mano democratica. Nè certo era l'obolo
della democrazia che poscia pagava le insidie tese sotto i passi di Mazzini in
Ginevra e Losanna. In quelle inesplorate tenebre giace l'arcano della morte di
Rossi; e già, un anno prima ch'egli cadesse, veniva additato all'odio
del popolo romano come «publico nemico» da quella fazione regia che alla sua
morte salì al potere in Roma. Questo è certo.
Adunque
sul principio del 1848, quelle associazioni che non erano gesuitiche o
principesche, erano almeno sotto la sovrintendenza, e direm pure sotto il morso
e le briglie dei commissarii principeschi. E perciò tutte le esitanze,
le debolezze, le perfidie degli schiavi di corte pesavano come un fato
invisibile sugli uomini giurati all'indipendenza e alla libertà. Quindi
il moto popolare, così unanime e poderoso nelle sue profondità,
era ondeggiante e rotto alla superficie, e coperto di estranie spume. Dal
Piemonte, ond'era venuto Azeglio colle regie lusinghe, un solo fucile non si
potè implorare per l'imminente inevitabile conflitto, quando gli
arsenali di Carlo Alberto, quattro mesi inanzi, ne avevano prodigato migliaia
ai dissidenti svizzeri. E quindi appare una delle cause perchè il moto,
non venne già dalla frontiera, ove stava Benedek ad aspettarlo; ma
scoppiò prima nel Veneto, ch'era vergine ancora dalle corruttrici
influenze di Carlo Alberto; e di città in città giunse a Milano.
E come vedrassi nel seguente volume, Pavia, le cui case toccavano il Piemonte,
i cui cittadini avevano in Piemonte i poderi, e perciò sapevano troppo
bene le piaghe del gesuitico governo, fu l'unica città del
Lombardo-Veneto che non si levò se non dopo la partenza degli austriaci.
Non si levò se non nella notte del quinto giorno dacchè udiva
muggire nella vicina Milano il cannone. E non fu già indifferenza che
quella illustre città serbasse alla causa italiana; poichè nella
opposizione legale i suoi magistrati mostrarono singolare sollecitudine e
dignità.
Gli
ottimati che, per piacere al Piemonte, venivano tollerati e voluti a capo
d'ogni cosa in Milano, non erano già, come i generali austriaci
ripetevano nella gazzetta d'Augusta, i prodighi agitatori d'una plebe venale;
ma tanta avarizia recarono in ogni cosa, quando frivola non fosse, che per lo
stento del denaro non si poterono compiere i disegni; non si potè
nemanco ordinare la necessaria catena degli avvisi. E per manco d'avvisi, la
nuova di Milano insurta appena giungeva il
La propaganda albertina coltivata
ancora più durante la guerra, lasciò due mali. L'uno ed il
peggiore si fu, di segregare nuovamente dalla nazione gli ordini più
cospicui, che sotto il livello straniero parevano essersi rifatti popolo; e
perciò erano dal popolo con devota gratitudine ammirati e seguiti. E per
l'ambizione d'allargarsi in tutta l'Italia, Carlo Alberto diede ai maggiorenti
per tal modo ordinati, un animo per molti aspetti simile a quello degli antichi
ghibellini; i quali nascevano e morivano nella perenne aspettazione d'un
esercito che scendesse a render loro sugli eguali un predominio che di per
sè non valevano a conservare. L'altro danno, però transitorio, si
fu di sviare la nazione dal puro e immediato amore della libertà; la
quale, per essere l'Austria omai chiusa entro i suoi confini, potevasi ottenere
da tre quarti della nazione, senza guerra e senza pericolo; ed erasi in certo
grado ottenuta. Poichè la Sicilia era veramente libera; e dappertutto ai
principi protetti dall'Austria s'era estorto un po' coi modi gentili, un po'
cogli aspri, la libera stampa e un abbozzo di costituzione. Nè quando
tre quarti della nazione avevano la libertà d'intendersi e d'armarsi,
poteva indugiare a lungo la liberazione del rimanente; il quale per poco non
bastò a se medesimo, e solo per manco di buon consiglio. Ma ciò
che chiamossi la fusione, era noncuranza e quasi disprezzo della libertà.
E inoltre, sconvolgendo di prima giunta i confini degli Stati, avanti di
prevedere alla forza interna di ciascuno d'essi, correva a cozzare contro il
punto fermo dei trattati del 1815. E questi non si potevano sciogliere se non
coll'assentimento di molte potenze; anzi piuttosto con una innovazione di tutto
l'ordine europeo e colla commune caduta di tutti i governi, quello compreso che
colla fusione volevasi a spesa degli altri governi ingrandire.
Ora
che abbiamo accennato ciò che le società secrete non fecero,
resta a dire ciò ch'esse veramente operarono. A ciò ne porgono
lume i frammenti che abbiamo raccolti da un manoscritto del Montanelli e da
varie memorie di promotori del moto milanese; e danno bastevole indirizzo anche
intorno a ciò che sarassi operato, da quelle moltissime altre
fratellanze, delle quali ancora non abbiamo i documenti. Qui vediamo anzitutto
che molti dei promotori erano già stati allievi della Giovine Italia; ma
sciolti da ogni vincolo di setta, operavano ognuno a suo luogo, sugli amici; e
così mano mano penetravano nelle moltitudini, traendo in luce quei
sentimenti che la straniera insolenza aveva generati. La dottrina era dunque
sopravissuta all'iniziazione; il convincimento aveva avuto più vigore
dei riti e dei giuramenti; l'idea era più forte del patto. Ecco
ciò che l'Italia deve a Mazzini. Egli fu il precursore del risorgimento;
egli che nel 1831 aveva già concetta nella mente la santa crociata del
1848, allora incredibile ai savi mondani; egli che aveva visto sin d'allora il
seno dell'Austria, come quello della vipera, squarciato dalle nazioni entro
racchiuse.
Codesti
fedeli della Giovine Italia erano, i più, divenuti republicani,
quantunque avessero preso le mosse da una dottrina che sperava in un re e
voleva fondare un nuovo regno. E alcuni erano di cospicuo casato. Ma questa
è proprietà della nostra nazione, che l'animo republicano vi
s'incontra in tutti gli ordini: che anzi la genuina fonte della vera
nobiltà italiana, non della ribattezzata di anticamera e polizia, sta
nei consessi decurionali delle antiche republiche municipali: e pare anzi che
fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose
grandi. E che fece mai di glorioso, o anche solo di non vituperoso, il gran
regno che incatena otto milioni d'anime nella bassa d'Italia? Si paragoni
l'istoria romana a quella di Torino; l'istoria di Venezia a quella di Trieste!
Ma codesti nuovi republicani, pur troppo erano propensi sempre a sperare
più nell'esercito regio che nella guerra di popolo, perchè la
scola loro era scaturita primamente dall'idea napoleonica. Ora un Napoleone non
poteva surgere che di republica. Una monarchia che dovesse trascinar seco al
campo il guardinfante dell'etichetta, del gesuitismo, della polizia, della
diplomazia, non poteva trar di sotto a quegli ingombri un Napoleone. E
anch'egli, il primo console, quando si ebbe messo intorno tutto l'imperiale
viluppo, non operò più le giovanili sue meraviglie. Pure, anche
in quella gabbia egli era rimasto sempre il leone, l'uomo della indomita volontà:
mentre Carlo Alberto, ora vacillando a destra ora a sinistra, doveva
appuntellare sempre il mutabile suo volere al consiglio altrui; nè
sapeva far passo inanzi se non si udiva alle spalle il mormorìo delle
genti o la lode. L'Italia non ebbe il console; nè l'uomo.
Sciolti
da ogni rito, i giovani e liberi propagatori si erano, per così dire,
approfondati nell'onda popolare. D'ogni cosa essi fecero arme morale a
confortare la moltitudine, conscia degli affetti suoi, ma inconscia della sua
forza. Essi tradussero in vulgare alle smembrate provincie l'arcano
dell'unità. Adoperarono i fogli clandestini e i publici, i canti, gli
evviva a Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni
funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive; assortirono in tricolore
le rose e le camellie, gli ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello
calabrese e il giustacuore di velluto: il vessillo della nazione e quello delle
cento sue città. Era quella una lingua nuova che parlava a tutte le
genti d'Italia più alto e chiaro che l'altra lingua in cinque secoli non
avesse parlato. Essi accesero di vetta in vetta lungo l'Apennino le fiamme del
dicembre: essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i montanari della Toscana:
essi domarono coi fieri applausi dei trasteverini le ritrose voglie del
pontefice. Essi rivelarono il popolo al popolo, l'Italia all'Italia; gettarono
sul viso al barbaro armato il guanto della nazione inerme e impavida; trassero
la plebe che aveva taciuto trent'anni, a dire d'una voce: l'ora è venuta;
a svellere coll'erculea mano i graniti delle vie; a spegnere coi fucili
strappati al nemico il foco de' sessanta suoi cannoni; a togliere in poche ore
ai vecchi generali ogni senno e ogni coraggio. Il popolo poteva fare: voleva
fare; ma senz'essi non aveva fatto. Per essi ora è certo che l'Italia sa
e l'Italia può.
Mazzini
aveva scritto a Pio IX di aver più caro soccumbere che mirar le vendette
e gli eccessi maturati dalla lunga servitù. Soverchio timore:
l'oppressione non avea maturato i vizi della prosperità, ma le
virtù della sventura; la nazione serva si scoperse più generosa
delle nazioni dominatrici e superbe: perocchè il dolore giova ai popoli
come all'uomo. Inebriati della poesia del proscritto, i suoi seguaci furono alla
docile moltitudine consiglieri d'umanità. Il popolo seppe vincere senza
eccessi e senza vendette. E ora non se ne penta. Poichè se gli
sfuggì poi di pugno la vittoria, non fu perchè fosse stato
più magnanimo del nemico, ma perchè fu credulo e servile al falso
amico. Che se gli avversari ora non hanno il senno d'imitare il virtuoso
esempio, e si vanno contaminando d'inutili crudeltà, essi condannano
sè e gli sgraziati loro satelliti a soggiacere, quando che sia, a
rappresaglie che nessuno potrà condannare, nè compiangere.
Per
troppo ardore d'avventarsi contro i nemici stranieri, i quali potevano fare ben
breve ostacolo a una gran nazione, l'Italia non si profittò
dell'impotenza nella quale essi erano già caduti, onde estirpare
frattanto i loro intestini fautori, e assicurarsi pel dì della battaglia
il tergo dalle insidie. Essa dimenticò che l'arte della libertà
è l'arte della diffidenza; che libertà è padronanza; e
padronanza non vuol padrone. Diede le redini a chi non voleva che il carro
andasse. Rinunciò ai principi l'iniziativa, appunto quando, dopo
tant'anni, stava per metter le mani sulla vittoria.
Le
fratellanze di Romagna e le amicizie di Milano posero i più gelosi
secreti e la vita stessa dei fratelli a discrezione d'un disertore; a
discrezione d'un re ch'era stato per diciott'anni di regno l'ostinato e
sanguinario loro nemico; e che poteva ogni mattino tradirle, non foss'altro, al
gesuita il quale lo assolveva del sangue versato. E fu parimenti consiglio
fallace quello di sospingere i pontefici e i re cogli applausi; poichè,
conosciuta la loro natura che cede solo al timore, chi potè farli
camminare di quel modo impunemente, avrebbe potuto farli camminare anche
d'altro modo. Ma l'Europa non potè imaginarsi che tutto un popolo avesse
così unanimemente e lungamente affettato una gratitudine e
un'ammirazione che non doveva sentire. Credette adunque che Pio IX fosse un
uomo inviato da Dio, e non un segnacolo artificiale, che non aveva senso se non
da un accordo di congiurati. Laonde quando il tempo fu consumato, e i teatrali
applausi dovettero aver fine, parve al mondo che l'Italia fosse ingrata! - Chi
ha diritto, non ringrazia.
Mai
la causa della verità non vuolsi difendere colle armi della simulazione.
Pur troppo abbiam gridato pontefice liberatore chi vegliava solo l'istante di
trafugarsi nelle file dei nostri nemici, e frattanto stipendiava in Roma i
sicari di Faenza. Abbiamo gridato, già prima della guerra, capitano
liberatore chi era stato in campo una sola volta, e contro la libertà;
nè aveva mai comandato eserciti, nè aveva animo da capitano, ma
solo quella noncuranza del pericolo che ha ogni bifolco fatto granatiere.
Abbiamo gridato filosofo liberatore, e condutto in trionfo per le città
d'Italia, quel Gioberti ch'esule ancora per decreto di Carlo Alberto voleva
assoggettare per forza all'ingiusto persecutore tutti i liberi uomini d'Italia;
e minacciava la guerra civile a chi intendesse la indipendenza in altro modo:
anzi in quel modo in che l'aveva già intesa egli medesimo; e
rallegravasi poi con satanico gaudio di veder Venezia pericolante, e punita
d'aver voluto riesser Venezia. E queste favole nostre avevano almeno il pregio
d'esser generose, e di fare ai nostri avversari mal meritata cortesia; ma tali
non furono poi quelle che da essi vennero rese in ricambio. Nè potremo
mai perdonare l'accusa di sicari apposta a coloro che non furono prodighi se
non del proprio sangue; nè gli infami sospetti seminati fra il popolo
contro i cittadini più dimentichi di sè e delle proprie fortune,
per farli credere stipendiati dall'oro di Ficquelmont, e far temere alla gente
un'insidia austriaca nel nome stesso della libertà. E così il
povero popolo, fra i nomi indegnamente levati a cielo, e i nomi iniquamente
tratti nel fango, non seppe più chi gli fosse amico o nemico; e
gridò più volte la ironica formula del vecchio toscano: viva la
mia morte e muoia la mia vita.
Ora
qui voglionsi accennare almen di volo le profonde origini di certi avvenimenti.
Quando giunse fulmineo l'annuncio che il Borbone vinto in Sicilia era vinto
senza sangue anche a Napoli e giurava patti al popolo, Carlo Alberto,
consigliato anche dall'Inghilterra, promise in fretta anch'egli il suo Statuto.
Promise farsi re di cittadini; ma voleva restarsi re di gesuiti; epperò
gli lasciava tranquilli nei loro nidi; e pasceva il popolo di parole e di
feste, schermendosi intanto d'armare la guardia civica. Sopravenne più
fulmineo l'annuncio della tempesta di Parigi; il popolo di Genova, che sapeva
ov'era il nodo della sua servitù, proruppe contro i gesuiti; Torino
seguì l'esempio. «Quegli avvenimenti determinarono il governo a
istituire una guardia nazionale provisoria; ma fu prefisso il numero a
cinquecento». «L'orage gronde trop près de nous», dettava il re
al ministro San Marzano il 3 marzo; e diceva che «en conséquence» aveva
deliberato di «compléter ses armements». En conséquence del moto
popolare egli faceva ciò che non aveva fatto en conséquence
dell'invasione di Ferrara, delle stragi di Milano, dell'occupazione di Modena e
di Parma. Partivano dal Piemonte le poche centinaia dei gesuiti da messa; ma
sotto l'ombra di quegli armamenti, anzi di quegli stessi cinquecento
privilegiati alle armi civiche, si salvavano dall'ira popolare i gesuiti da
spada e da toga; e i genovesi si lagnavano nei giornali che il sacrilego
edificio rimanesse indistrutto. Rimasero i gesuiti in corte, rimasero nel
governo, rimasero nell'esercito; e venti giorni dopo, seguivano il re al campo;
gettavano la rete sulla guerra del popolo; davano agio al nemico di
riacquistare le perdute fortezze, di rifornirle, di ricomporre in quella quiete
imperturbata il disfatto esercito. Facevano anco quei sacrifici di sangue
ch'erano necessari a conservar nei popoli l'illusione d'esser difesi;
spingevano gli infelici soldati «nell'imbuto di Santa Lucia» come lo
chiamò il general Bava; divagavano i popoli col cicaleccio della
fusione; richiamavano i volontari dal Tirolo; abbandonavano i toscani a
Curtatone; abbandonavano i romani a Vicenza; perdevano mano mano tutte le
provincie; infine, il 4 agosto, Lazari, il capo della polizia sarda, andava al
campo di Radetzky a patteggiare la consegna di Porta Romana; la sedizione era
finalmente compressa; le acque torbide si raccoglievano nel pristino letto.
L'opera dei gesuiti fu assecondata dalla congrega diplomatica; la quale non
poteva, per così poca cosa, uscire dal patto del 1815, ch'è la
legge dell'Europa, finchè l'Europa medesima, tutta rinnovata, non si
stringa in altro patto.
E ora vogliamo far cenno di quella
unità nazionale, a cui molti generosi parvero quasi posporre la
libertà. Certo, chi miri a qual mole straniera si dovesse far fronte,
non si farà meraviglia che sembrasse necessario contraporvi tutta
l'Italia, o almeno quella maggior parte che si potesse, e quanto più si
potesse saldamente unita. E anche in ciò si vede, come nel rimanente,
l'effetto della nazional reazione contro l'artificiale centralità
straniera. Ma i più andarono errati, giudicando che la forza militare si
misurasse a numero di popolo, e imaginandosi d'aver finito la guerra, quando
fossero riesciti a stivare sotto la predella d'un trono dodici o quindici
milioni di gente. Potevano ben vedere come il regno di Napoli fosse il doppio
quasi del Piemonte, e non fosse più forte. E il Piemonte doppio della
Svizzera, e non diviso, ma saldamente stretto in una sola mano, e non
però a lunga pezza sì forte. E dopo la cabala che si
compiè colla farsa dell'Urbino il 29 maggio, il Piemonte che dettava la
fusione col pretesto d'esser più valido a spacciar la guerra, si
trovò da quel momento più debole, per timore ch'ebbe Torino di
perdere i vantaggi di regia sede e le briciole della regia mensa, e per timore
ch'ebbe la corte di non aver braccio a infrenare la improvisa folla dei nuovi
sudditi, non ancora ben maceri e fracidi nel gesuitico lezzo. E quindi si
lasciarono ir perdute, in giugno, le quattro provincie venete prima d'averle
acquistate; e in luglio, al primo infortunio, si lasciarono andar perdute
l'altre provincie e i ducati. E il 5 agosto ai generali di corte parve mala
grazia nei milanesi che non si sottomettessero subito e di buona voglia ai
barbari, quando così pareva e piaceva a Sua Maestà. Sembrava
quasi che l'abbandonare vilmente la guerra poco importasse. Chi doveva volere,
non voleva. Ora, il primo principio di forza nelle cose umane è la
volontà, e non il numero degli uomini che da quella volontà
dipende. E non fu il numero dei battaglioni, che poi condusse, senza contrasto,
gli austriaci in Mortara, intercidendo l'esercito piemontese dal regno; e che
poi gli condusse con minor contrasto ancora in Alessandria, quando pareva bello
agli eroi di corte andar piuttosto a malmenar Genova, perchè voleva
continuata virilmente la guerra. Due volte cadde il regno che aveva i milioni
di sudditi, intanto che Venezia, sola, e povera, e levatasi esangue dal
sepolcro, durò combattendo, finch'ebbe pane. E in altri tempi, Venezia
stessa con angusto dominio aveva durato contro tutta Italia e tutta Europa
congiuratagli contro dal pontefice; e aveva durato più secoli contro
l'imperio ottomano. Pur s'udirono fra noi molti deridere, con Gioberti, le
republichette. E pur troppo, per male cure di lui medesimo, Venezia era rimasta
sola e povera republichetta di centomila abitanti. Ma aveva quell'animo che i
satelliti regi non poterono infondere alla Sicilia venti volte più
popolosa. Un diminutivo non è una ragione, direbbe il savio Bentham. E
la Svizzera medesima non è forse un fascio di ventidue republichette?
anzi, diciam pure, di venticinque? E se dimani il Vallese e Friburgo si
suddividessero come Appenzello e Basilea, forse verrebbe rimossa la cagione di
qualche discordia; e certamente non perderebbe la patria un sol difensore. Le
republichette svizzere bastano alla loro difesa; e l'Italia che potrebbe avere
dieci volte più armati, con ben maggior riparo di lagune e di maremme, e
di fiumi e d'isole e di fortezze e di navi, l'Italia non basta. Convien dunque,
come facevano i nostri antichi, cercare altrove che nel numero il principio della
forza; riporlo sopratutto nella volontà; cioè in questo che chi
comanda abbia la medesima volontà, o a parlar più mondano e
più vero, i medesimi interessi di chi obedisce. Non sono i soldati,
nè le armi, nè le navi, nè il buon volere del popolo, che
mancarono al re di Napoli per difender l'Italia; ma i suoi interessi non erano
quelli della nazione; nè tali erano quelli del papa; e così dal
più al meno, quelli d'ogni altro potentato d'Italia. È vano e
puerile il lagnarsi ch'essi abbiano fatto ciò che avevano naturalmente a
fare; come fu vano e puerile lo sperare che avrebbero fatto fuor della loro
natura. E qui fu l'errore fondamentale «di quel ridicolo amoreggiarsi fra
principi e popoli», nel quale gli innamorati erano solo da una parte. Qui fu
l'errore dell'iniziativa permessa ai principi, e del comando lasciato ai loro
satelliti. Qui fu l'errore dell'unità, da conseguirsi col persuadere un
principe «di codarda e fiacca natura» a divenir magnanimo e deliberato. Chi
è nato a far le grandi imprese, non aspetta che altri lo consigli e lo
incalzi.
Il
numero delle parti non importa, purchè abbiano tutte egual padronanza e
libertà: e l'una non abbia titolo a far servire a sè alcun'altra,
tirandola a sè, e distraendola dal nodo generale. Tra la padronanza
municipale e la unità nazionale non si deve frapporre alcuna sudditanza
o colleganza intermedia, alcun partaggio, alcun Sonderbund. I
«sonderbundi» dell'Italia sono quattro: il borbonico di otto milioni e
più; l'austriaco di sei, e se lo si considera anche arbitro dei ducati,
poco meno di nove; il sardo di cinque o poco meno; il pontificio di tre. Queste
segreganze sono tutte nemiche tra loro: le prime perchè aspirano a
ingrandirsi a spesa delle altre: l'ultima, perchè sa d'essere insidiata
da tutte. E così hanno tutte interesse a guerreggiarsi, e godono
ampiamente dell'altrui sventura e dell'altrui disonore. Qual più grato
adulatore alla corte di Torino di colui che maledice al bombardator di Messina?
Qual più lieto suono al re di Napoli che quello delle infamie del Lamarmora
a Genova? E così la Sicilia maledice a Napoli; e la Sardegna e la
Liguria maledicono a Torino; e i popoli sono maledetti dai popoli per colpa dei
loro padroni. Le discordie, che tanto si vantano delle republiche del medio
evo, erano della medesima natura; perchè nessuno allora si era posto in
mente di collegar le città in nazione; e di più vi soffiava per
entro il pontefice da una parte, e vi aveva braccio l'imperatore dall'altra;
perchè i prelati e i baroni abitavano le republiche come forestieri, pronti
a sconnetterle e turbarle, non a obedirle e difenderle. Onde anche le
republiche erano costrette a fare come i tiranni; e vi procuravano
sicurtà e potenza, assoggettando a sè le città vicine, e
togliendo loro la sovranità. Pisa era nemica a Genova, principalmente
perchè ambedue volevano signoreggiar la Sardegna. Nessuno pensava a que'
tempi che i sardi pure erano italiani e fratelli, e che dovevano unirsi alla
madre Italia, non coll'obedire a Genova e a Pisa, ma col seder seco loro,
eguali e padroni, nel congresso di Roma. Gli odi delle republiche provenivano
dalla conquista, dalla fusione, non dalla libertà.
E
anche le republiche svizzere, nate a caso e a caso collegate come le nostre,
avevano allora sudditi svizzeri, e li opprimevano, e ne facevano pretesto di
ambizioni e di guerre. Ma questi sono errori dei secoli andati; e ora elle son
tutte eguali; nè alcuna republica svizzera potrebbe mai trovar modo
d'imporre i suoi magistrati alla republica vicina; le altre tutte si
opporrebbero; non potrebbe il tutto consentire che alcuna parte si frapponesse
fra esso e un'altra parte; nè alcuna parte avrebbe forza o speranza di
riluttare al tutto. Con siffatto principio, e colla nuova coscienza di
fratellanza e di nazionalità che l'esperienza dei secoli e la scola
della sventura, e le ingiurie degli stranieri infusero all'Italia, nulla
sarebbe a temersi se fossero le republiche pur minute come nella Svizzera.
Tanto maggiore sarebbe in loro la necessità di abbracciarsi, al fine di
proteggersi in terra e in mare contro le colossali potenze del secolo, e di
esercitare il commercio fraterno in più vasto campo, e di deliberare
leggi uniformi e strade e monete, e di accomunarsi i diritti privati, salva
sempre la intera padronanza d'ogni popolo in casa sua. Insegnò Machiavelli
che un popolo, per conservare la libertà, deve tenervi sopra le mani.
Ora, per tenervi sopra le mani, ogni popolo deve tenersi in casa sua la sua
libertà. E poichè, grazie a Dio, la lingua nostra non ha solo i
diminutivi, diremo che quanto meno grandi e meno ambiziose saranno di tal modo
le republichette, tanto più saldo e forte sarà il republicone,
foss'egli pur vasto, non solo quanto l'Italia, ma quanto l'immensa America.
Il
lettore si sarà più d'una volta sentito correre al pensiero
questa dimanda: se Mazzini voleva dare al re la corona d'Italia, s'egli aveva
dettato nel 1831 il programma che il re adottò nel 1848, perchè i
servi del re lo predicavano frenetico republicano? perchè lo
perseguivano a morte?
Diremo.
Il regno che Mazzini voleva, era un regno quale la Francia aveva sperato da
Napoleone, quale Roma antica aveva sperato da Cesare; non regno di schiavi
decorati, e di prelati oppressori, e di gesuiti eredipeti, di giudici venali,
di gendarmi, di censori, di spie; ma regno di cittadini armati e deliberanti:
il regno del merito presieduto da un eroe. «Ponete i cittadini a custodia delle
città e delle campagne e delle vostre fortezze; liberato in tal guisa
l'esercito, dategli il moto; riunite intorno a voi tutti coloro che il suffragio
publico ha proclamato grandi d'intelletto, forti di coraggio, incontaminati
d'avarizia e di basse ambizioni». - Ora questo non era il regno di Sardegna:
«il quale si vantava d'esser composto d'un re che comanda, d'una nobiltà
che governa, e d'un popolo che obedisce». Tutti gli esseri malèfici che
si pascevano delle corruttele della vetusta monarchia, i gesuiti sopratutto,
gridarono alle orecchie del re ch'era un'insidia, un tradimento, una
sceleraggine; e vollero da lui pegno di sangue contro gli innovatori. E siccome
fitte erano le tenebre della publica opinione, e il nome di republica, non
ostante la vicinanza delle valli svizzere, erasi artificiosamente associato ad
ogni sorta di fatti atroci e luride nefandità, così perchè
nessuno volesse il nuovo regno, bastò l'andar predicando ch'era la
republica!
Questo
codardo vezzo d'accumulare infamia sul nome republicano venne coltivato dal
Gioberti, che imaginò d'accoppiare nelle ignare menti la republica e
l'Austria; onde non si parlava mai di republicani, che tosto non si accennasse
all'oro di Ficquelmont che li sfamava. E ogni qualvolta i regi lenoni
incontrassero uomo che disdegnasse prostituirsi, volendo punirlo e torgli ogni
buona fama, come nell'ignoranza loro speravano, facevano scrivere su per le
muraglie, o nei giornali del Bianchi-Giovini e dell'avvocato Papa, ch'egli era
un republicano! E molti v'erano che avevan sortito dalle mani del creatore il
dono d'un'anima republicana; pure, non lo avevano mai scritto, e forse nemanco
erano a ciò deliberati in sè medesimi, e certo non ci erano
giurati in fazione republicana. Ma quando, per oneste ripulse date a importuni
incettatori, si vedevano additati alle genti come republicani, non avevano poi
la viltà di negarlo; anzi talora per magnanimo sdegno se ne vantavano. E
da quel dì riputavano debito d'onore d'operar come tali. E così
la mano di quegli stupidi satelliti iniziava il ruolo dei repubblicani; poneva
le fondamenta della republica. E quanto più appariva chiaro che la
vetusta monarchia non poteva rigenerarsi, e voleva ad ogni modo, anche sotto il
belletto costituzionale, regnare coi gesuiti e coi censori e colle spie, il
numero dei conversi alla nuova fede cresceva. Sì: come la casa d'Austria
ha il destino di eccitare per ripugnanza la nazionalità italiana,
così la casa di Savoia (amica o nemica dell'Austria, poco importa; e chi
lo sa?), la casa di Savoia, per quella perpetua e insanabile sua titubanza a
compiere i voti della nazione, ha il destino di promovere l'italiana
libertà.
Però
se v'erano molti uomini d'animo republicano in Italia, essi non avevano
dottrina republicana. Avevano ben posto il loro amore nel popolo, ma la loro
speranza nel re. Avevano pugnato, se non per lui, certo con lui. Ma quando
ebbero vista la mal voluta guerra, le intempestive cupidigie, l'abbandono di
Curtatone e di Vicenza, la consegna di Milano, svanirono le speranze; la
coscienza republicana si riscosse; un'altra idea balenò alle menti. E il
re, anzichè attendere a ristorare in tempo la guerra all'austriaco
già vinto in Ungaria, anzichè inviar pane a Venezia, sognava
l'imperio di Roma. E gli incauti suoi partitanti insidiavano la Toscana;
invadevano sul cadavere di Rossi il ministerio romano; e quasi importasse sopra
ogni cosa far vacante il trono dei Cesari, favorivano la fuga del pontefice.
Allora
Mazzini, omai fastidito, dettava dal suo ritiro di Lugano nei Ricordi ai
giovani l'ultimo disinganno della guerra regia. E una mano amica gli
scriveva d'uscire dalla latebra del prescritto e avviarsi a Roma, ove doveva
svolgersi ben altramente il nodo dell'italica unità. E infatti negli
ultimi di dicembre, egli rivarcava le Alpi con ben altro animo che non ne fosse
calato; e per la Elvezia e la Francia, con lenti e insidiati passi, giungeva al
Mediterraneo.
Intanto
la necessità ineluttabile delle cose, la natura romana e i consigli dei
repubblicani nati, avevano fatto erumpere improvisa la romana republica. Fu l'8
di febraio. E già, il 12, Roma porgeva una mano materna a Mazzini; lo
chiamava suo cittadino; il 25, lo deputava all'assemblea; e il 5 marzo
accoglieva ospitalmente la sua venuta. In quel giorno si compieva appunto
l'anno, dacchè, l'esule aveva stretto in Parigi cogli scaltri e
malaccorti facendieri del re il patto dell'Associazione italiana. Qual
mutamento di cose e d'uomini! Quanto veloce è il passo del secolo, che
arreca nuovi pensieri e nuove sorti al genere umano!
Intanto
che il popolo di Vienna sanguinava per la libertà, i cortigiani avevano
continuato fra noi il grido: fuori i barbari: l'Italia fa da sè. Ma i
fatti di Messina, di Genova, di Roma, mostravano che barbaro può suonare
tanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione
ha i suoi. La guerra d'Italia è parte della guerra civile d'Europa. La
servitù d'Italia è patto europeo; l'Italia non può esser
libera che in seno a una libera Europa. Allora apparve manifesto doversi
sancire, contro l'alleanza dei pochi oppressori, l'onnipotente alleanza degli
oppressi.
Allora
Mazzini compiè l'ardua sua missione, dettando con Ledru-Rollin e Daraz e
Ruge, un nuovo patto che stringa Italia, non solo alla Polonia e alla Francia,
ma alla stessa Germania, serva volente finora, e quasi sacerdotessa della
servitù. E così, dalle opposte parti e dalle più nemiche
genti giungono i peregrini al santuario commune della libertà!
Qual
è ora l'ostacolo alla libertà? La soldatesca. Una nazione che
mette quattrocento mila gladiatori ad arbitrio d'uno o, di pochi, sarà
sempre serva degli altrui voleri. E le stesse forme della libertà
diverranno occasioni di corruttela. La Francia, si chiami republica o regno,
nulla monta, è composta di 86 monarchie, che hanno un unico re a Parigi.
Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac: regni quattro anni o venti: debba scadere
per decreto di legge o per tedio di popolo: poco importa: è sempre
l'uomo che ha il telegrafo e quattrocento mila schiavi armati. La condizione
suprema della libertà fu intesa solo dagli svizzeri e dagli americani:
militi tutti e soldato nessuno.
In
Europa, quattro milioni di giovani vengono divelti dal seno delle nazioni, e armati
e ammaestrati contro le loro patrie. Robusti per età e per salute,
vivono, oziosi, delle miserie altrui; divorano quattro mila milioni. È
il frutto di cento mila milioni di patrimonio. Quel giorno che l'Europa
potesse, per consenso repentino, farsi tutta simile alla Svizzera, tutta simile
all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti d'Europa:
non solo ella si trarrebbe da questa luttuosa necessità delle battaglie,
degli incendi e dei patiboli, ma ella avrebbe lucrato cento mila milioni.
Eppure gli avari cospirano coi re!
Questi
sono i pensieri che nel ricorrere i documenti, ci vennero di volo raccolti. Ma
troppo lunga opera sarebbe il dire tutto ciò che ci sentiamo destar
nella mente. Legati al duro officio d'essere raccoglitori, cediamo ad altri la
più libera e grata impresa di connettere le sparse materie, e meditare
riposatamente, a più prossimo utile della patria e del genere umano.
II.
Avviso al
lettore.
A tenore del manifesto, stavamo
per iniziare questa raccolta, col volume concernente l'insurrezione di Milano,
quando da operosi amici, a compimento del nostro invito, ci pervennero alcune
carte che riescivano ad illustrazione degli antecedenti e delle cagioni di quel
fatto. Pongono esse in luce influenze e pratiche, le quali giacquero finora
inosservate, anzi affatto ignote; e collegano gli eventi di Milano col moto
generale d'Italia, dichiarando qual parte vi avessero le secrete
società, e in quali mani queste fossero venute, e per quali aspettazioni
e promesse si fossero indutte a promovere la potenza di chi era stato
lungamente loro nemico.
Ne parve adunque opportuno,
poiché tali interessanti materie ci erano pervenute ancora in tempo, darle a
preferenza nel primo volume, come veramente l'ordine naturale delle cose consigliava.
Ma giudicammo altresì necessario raccogliervi intorno quegli altri fatti
e scritti che potevano rischiarare appieno i preliminari della rivoluzione.
Di sommo momento a tal uopo ci
parve una cinquantina di documenti diplomatici, che abbiamo attinto agli atti
del parlamento britannico. E sono alcuni di Metternich, altri di Palmerston, di
Guizot, di Nesselrode e dei loro incaricati in Torino, Venezia, Milano,
Firenze, Roma, Napoli, Ancona, Ferrara, onde si palesa quali governi stranieri
avversassero ogni provvidenza e giustizia in Italia, e quali più o meno
tepidamente le favorissero.
Di eguale importanza all'uopo
nostro ci parvero i documenti in parte inediti delle rimostranze fatte in quel
tempo dai magistrati e dai corpi scientifici, nonché delle pertinaci negative
date dalle autorità straniere.
È poi a notarsi che i
generali austriaci si valevano senza secreto di qualche gazzetta estera,
sì per inculcare alla credula Europa la necessità delle violenze
che commettevano, sì per associare ai loro odii e alle loro cupidigie la
vanagloria germanica, sì, finalmente, per provocare la gioventù
italiana con parole quasi di sfida. Le quali, per verità, non furono ultimo
incentivo dei fatti che seguirono. Insieme a questi scritti degli austriaci
collochiamo alcune carte smarrite poi nella loro fuga; le quali dimostrano vie
più il loro animo, mentre palesano lo stato del loro esercito, e i
disegni che fin d'allora avevano d'invadere la rimanente Italia.
Per egual modo si pubblicavano
allora dall'opposta parte nei nuovi giornali toscani, romani e piemontesi tanto
gli appelli, gli inviti e le proteste che si venivano facendo dai promotori
della rivoluzione, quanto le notizie delle dimostrazioni e degli altri fatti
con cui manifestava il popolo il nuovo ardore ond'era compreso. Tali scritti si
fornivano per lo più, e non senza continuo pericolo, da coloro stessi
che nei fatti avevano parte principale; onde sono a considerarsi come veri atti
dell'insurrezione.
Dalle stesse fonti abbiamo
raccolto varie date che dimostrano le perpetue titubanze di chi voleva
sciogliere l'arduo proposito d'essere assoluto e retrogrado in casa sua, e
liberalesco e progressivo in casa de' suoi vicini.
Ciò chiarisce eziandio
qual fondamento avesse la ostentata lega dei principi italiani, onde
s'illudevano a quel tempo i popoli, desiderosi soprattutto di forza e
d'unità.
Altri documenti palesano quali
secrete intelligenze fossero sempre tra il pontefice e l'Austria, e qual favore
desse a questa anche l'episcopato: onde appare propensa alla causa del diritto
nazionale e della giustizia solo quella parte di sacerdozio che, essendo popolo
e vivendo col popolo, non è in necessità d'adulterare per ambizioni
mondane il testo dell'evangelio.
Finalmente, per dimostrare da
quali opinioni venissero animati coloro che diedero maggior opera
all'insurrezione, abbiamo posto da una parte alcune scritture di Gioberti,
dall'altra alcune di Mazzini, anzi anche una lettera di Garibaldi. Fanno prova
come dapprincipio, essendo assorti gli animi nell'unico pensiero
dell'indipendenza e dell'unità militare, non s'imponesse ai capi degli
eserciti altra condizione che quella della vittoria. E le opinioni repubblicane
per verità si svolsero solo in appresso, a misura che l'esperienza
dimostrava come per la via primamente eletta la nazione non potesse compiere il
supremo suo voto. Alcuni dei documenti qui raccolti sono inediti, altri sono
diligentemente estratti da giornali e libri di varie lingue, che nessun privato
può facilmente aver sotto mano, e che, anche avendoli, non potrebbe
senza lunga fatica trascrivere e ordinare. Il complesso è tale che
nessuno, ove lo percorra con attento animo da capo a fondo, potrà
esimersi dal mutare in considerevol parte le opinioni sue intorno a molte delle
cose e molti degli uomini che le hanno operate. E noi pure, cammin facendo, ci
siamo avvenuti in cose che ci tornarono nuove e inaspettate. Onde, solo a opera
compiuta, abbiam potuto ritrarci in mente l'intero concetto del volume che
venivamo durante la stampa compiendo. Ma crediamo fermamente che chi vi porga
la medesima attenzione, non possa in fine trovarsi co' suoi pensieri molto
lontano dai nostri. Pertanto desideriamo che il lettore, solo dopo avere
perlustrato tutti i documenti, si dia la briga di leggere le nostre Considerazioni.
E così non le abbiamo prefisse come introduzione o prefazione al
volume, prendendo quasi in anticipato pegno la coscienza del lettore; ma le
abbiamo relegate in fine.
Altri dirà tuttavia che
scegliendo di questo modo documenti e citazioni si potrebbero fare con altro
intento altre raccolte, le quali riescirebbero ad altro significato. Ebbene:
noi invitiamo l'osservatore a far ciò che dice: a raccogliere ciò
che noi avessimo intralasciato: a compiere ciò che avessimo mutilato: a
raddrizzare ciò che avessimo alterato: a mettere in iscritto ciò
che dalla sua fatica verrebbe a risultare in opposto alla nostra. E qualora il
suo libro contenesse tante cose importanti, inedite o poco note, quante ne
contiene il nostro, noi ci offriamo a espiare il nostro errore pubblicando in
seguito al nostro volume il suo, affinchè possa il disinganno giungere
ovunque sarà giunto l'errore.
Noi offriamo ai nostri cittadini
quanto con private forze ci venne fatto di adunare. E ora sfidiamo i nostri
avversari a osar di fare dal canto loro altrettanto, e aprire agli scrittori i
copiosi loro archivi. Li sfidiamo anche solo a desistere dalle codarde
persecuzioni di cui fecero segno quei buoni cittadini, che, somministrando
carte inedite alla nostra raccolta, intesero di rendere alla nazione ciò
che alla nazione appartiene. E siccome non temiamo le loro opere, anzi ne
facciamo gran caso, e le citiamo a generosi sorsi, così li invitiamo ad
avere lo stesso coraggio, e non sottrarsi con arti inquisitorie al pubblico
paragone.
18 settembre 1850.
Dopo
il febraio del
V'erano
dunque allora in Italia 45 grossi battaglioni tutti stranieri al
Lombardo-Veneto, 38 dei quali interamente tedeschi, slavi e, magiari, con
cinque grossi reggimenti di cavalleria delle medesime nazioni. Oltre alle
artiglierie stanziali, v'erano 19 batterie da campo, tutte in mani tedesche e
slave. Erano forestieri lo stato-maggiore, le amministrazioni, il genio, il
treno, i pontonieri e tutte le altre armi accessorie. Erano codeste forze,
animate tutte allora da inveterato odio al nostro nome, eccetto tre battaglioni
del Tirolo e quattro dell'Illirio, in parte italiani. I 45 battaglioni erano
completi; in generale contavano poco meno di 1200 uomini, alcuni anche di
più; solo i tirolesi 900; potevano contare in tutto 52 mila uomini: la cavalleria
5700: l'artiglieria 3000; comprese le altre armi, il complesso di tutti quei
soldati stranieri al nostro regno potevasi stimare a più di
sessantamila. Nessun'altra potenza erasi vista imporre, a uno Stato di
sì poca ampiezza, tanta mole straniera.
Oltreciò,
dei battaglioni lombardo-veneti erano in patria non meno di 22, con officiali
la più parte d'altra lingua. V'erano ancora i cannonieri marini: il
battaglione di marina: un reggimento di gendarmi: un battaglione di polizia, in
qualche parte straniero, e tutto nemico. Davano mano alla custodia dei confini
e delle città, oltre ai gabellieri, alcune migliaia di guardie militari
di finanza: la sola provincia di Como ne aveva 900. E intrecciate ai presidii
austriaci sulla destra del Po, aiutavano a reprimere il popolo le milizie
ducali di Modena e quelle di Parma, già in recenti tumulti messe a prova
di sangue. Tutti questi italiani potevano valutarsi a più di
quarantamila; e sinchè stavano ferme le armi straniere, erano necessitati
da disciplina, interesse e timore a eguale obbedienza.
Fatto
ogni computo, v'erano il 18 marzo ai cenni di Radetzky in Italia, tra stranieri
e italiani, più di centomila soldati. Ed egli, colla consueta
ostentazione, lo scriveva quella sera medesima ai municipali di Milano: «Avendo
a mia disposizione un esercito agguerrito di 100 mila uomini e 200 pezzi di
cannone». Possedeva codesto esercito le tre grandi piazze d'armi di Mantova,
Verona e Venezia, intorno alla quale solamente si numeravano 72 punti muniti
d'artiglierie e di navi. Possedeva, a destra del Po, i forti di Comacchio,
Ferrara, Brescello e Piacenza; a sinistra, Pizzighettone, Anfo, Peschiera,
Legnago, Càorle, Osopo e Palmanova; e inoltre i castelli, atti pure
contro il popolo a qualche difesa, di Milano, Pavia, Bergamo, Brescia, Reggio,
Modena, Rubiera e altri assai.
L'esercito
non era assopito e illuso da pensieri di pace, ma sospettoso, vigile,
tracotante: acceso dalle declamazioni dei generali, che solo dal sangue
speravano onnipotenza e tesori: acceso dall'ira palese dei popoli, che ardevano
di vendicare le sanguinose soverchierie di Milano, di Parma, di Padova, di
Pavia.
Tutto
questo formidabile apparato si vide, entro un centinaio d'ore, conquiso come in
pugna campale. Che anzi, delle fortezze medesime, rimasero intatte solo
Peschiera, Legnago e Ferrara; la custodia di Mantova e di Verona si ebbe a
dividere con guardie civiche e con soldati ribelli; Venezia, Palmanova e le
altre, nonchè le artiglierie, le polveriere, le armerie, gli arsenali e
le navi, furono perdute. Al termine di cinque giorni, rimase di quei centomila
schiavi armati, all'obbedienza dell'Austria, poco più d'un terzo. E
questo era strappato dalle sue sedi: disperso, senza tende e senza viveri,
sopra trecento miglia di strade guaste e interrotte: senza avvisi, e in parte,
senza comando: trascinando seco feriti e donne; contaminato e funestato di
rapine e di crudeltà; non osando più riposarsi nelle case, ma di
fuori, nel fango e tra i fossati, fracido dalla pioggia le vestimenta e i
calzari, rotto dalla fame, dalle veglie, dal freddo, dalle ferite, dai notturni
terrori: avvilito dalla repentina impotenza de' suoi generali e del suo
sovrano, e dall'improviso e quasi superstizioso terrore del popolo, che lo
incalzava col suono delle campane e col nome di Dio. Pareva in quei giorni che,
per esser uomo e poter combattere, fosse quasi necessario ripudiar l'abito e le
ordinanze di soldato. Dopo le antiche sconfitte delle armi persiane, e la fuga
di Barbarossa, non s'era mai forse mostrata così nuda al mondo la
vanità della forza brutale.
È
vero che la vittoria del popolo non ebbe durevoli effetti; ma ciò non
toglie che sia stata una vittoria, ciò non toglie che sia un fatto. E la
forza che lo produsse, la forza che conquassò in poche ore quella
faticosa compagine d'uomini e d'armi, fu cosa vera e viva. Ed è prezzo
dell'opera esplorarla e descriverla; e chiarire d'onde fosse venuta: e
congetturare se debba credersi interamente sfogata e spenta come le forze
sotterranee che progettarono i basalti e le trachiti: o se giaccia inesausta
nei recessi delle anime, donde a tempo e luogo prorompere a nuove evoluzioni.
Per poco che si consideri, questo è fuori d'ogni dubio, che le forze
belliche del nostro popolo non vennero, nemmeno in quei prodigiosi giorni,
attuate se non nella minor loro parte. È certo anzi, che vennero
raffrenate da quelle medesime influenze che parevano fomentarle. Quella
successione d'eventi fu diversa nel suo complesso anche da ciò che parve
a coloro stessi che vi ebbero maggior mano, i quali, assorti da quanto
compievasi intorno a loro, non seppero ciò che a breve distanza
accadeva.
Si
è narrato nell'altro volume, come in Milano i più autorevoli
sommovitori mirassero quasi solo a far dimostrazioni. Agitavano Milano, per
agitare col pericolo e collo strazio di Milano la Liguria e il Piemonte, onde
col fremito popolare suscitar le ambizioni ad un tempo e i timori del re,
volendo essi trascinarlo a regnare in Milano e stabilire, a loro potenza e
gloria, una corte in Milano, poco importa se di voglia sua e de' suoi, o di
necessità. Ma l'agitazione, che in mano a siffatti uomini sarebbe stata
teatrale e vana, divenne verace e potente per opera di Radetzky. Il quale,
colla nuova arroganza da lui permessa all'esercito, e colle sanguinose
provocazioni, aveva esaltato nei popoli il senso della nazionalità,
unica forza rivoluzionaria che fosse allora in Lombardia. Solo da pochi mesi
aveva cominciato il popolo a presentire tutta la santità de' suoi
diritti. Il nome di Pio IX aveva congiunto in uno la coscienza del fedele e
quella del cittadino, le quali una dottrina sacrilega e vile aveva da tanti
anni messe a contrasto. L'amor della patria non parve più delitto al
cospetto di Dio. Si videro, in quella improvisa fede, piangere di gaudio vecchi
onorati, che fin dalla gioventù avevano deposto appiè delli
altari i più generosi affetti, e inclinata la fronte al decreto di Dio
che li aveva voluti al mondo senza diritti. Epperò nel popolo, sciolto
da quelli artificiosi lacci e conciliato colla sua ragione, ribolliva il sangue
di quelli antichi suoi padri, che avevano affrontato i romani e i goti e i due
Federici, e spezzato le corazze francesi a Parabiago, e le alabarde svizzere
alla Bicocca.
In
mezzo a questi fieri sentimenti, cadde come scintilla sulla polvere la novella
della fuga di Metternich e della libertà di Vienna. Ma quel riverbero di
libertà non nostra parve ad alcuni più esoso della passata
servitù; pensarono che potesse abbagliar gli animi: sedurli a qualche
nuovo impasto d'italiano e di tedesco, il cui solo pensiero pareva un abominio.
Non capirono che il sentimento nazionale era già più forte d'ogni
paura o d'ogni lusinga; non pensarono qual poderoso soccorso sarebbe alla mente
publica, dopo tant'anni, un raggio di libera stampa; non videro che la
rimanente Italia abbisognava, se non d'anni, almeno di mesi, per ordinarsi
nell'armi e nei pensieri, ed esser pronta sulla frontiera il dì supremo;
non intesero che la guerra ci avrebbe infeudati immantinente a chi aveva
bensì gli eserciti, ma non li aveva intesi a strumenti di
libertà, e nemanco di guerra. I più precipitosi e improvidi si
raccolsero a notturno consiglio; deliberarono di gettar fra il popolo,
nell'indimani stesso, il segno della battaglia, certi che l'avrebbe accettata.
Ma non considerarono che in siffatto caso era poi mestieri essere audaci; non
perdere momento: nella notte stessa sorprendere i generali: arrestar tutti i
corrieri: dar di tocco a tutte le campane: barricare i battaglioni entro le
caserme, isolarli, affamarli: dare con una folla incessante d'avvisi l'allarme
ad ogni provincia, affinchè, oppressi a furia di cittadini e contadini i
suoi presidii, riversasse tosto la sua gioventù sulle vie militari e
sulle piazze d'armi. Ora, ciò non si poteva fare, perchè nulla
erasi preparato: non accordi: non armi: non denaro: sole e perpetue e gratuite
dimostrazioni, e suono lontano di società secrete, delle quali il popolo
nulla sapeva. Parve adunque assai, porgere occasione che la battaglia nascesse
da sè. La rimisero alla dimane, a ora tarda. Volevano adunare il popolo
intorno ai municipali, in cui ben sapevano non esservi alcun bellicoso
elemento; pur tuttavia volevano battezzarli capi di guerra; aggiungervi anzi
altra simile zavorra, e costruirne un governo autorevole; e confidavano poi di
poterlo essi governare, e col bagliore di quei nomi allucinare la città,
e con essa il regno e l'Italia.
L'adunanza
del popolo non doveva essere armata «almeno d'armi palesi; incalzata per
avventura dalla soldatesca, si sarebbe disciolta e dispersa, ma per trovarsi
armata alle 5 sulla piazza del Teatro». Così dovevano i cittadini
cominciar la battaglia solamente se la soldatesca era in ordine per incalzarli
e disperderli, dovevano cominciarla coll'abbandono della casa municipale e
colla fuga, per ricominciarla in altro luogo cento volte men popolare e meno
adatto, tra il Comando militare e la Polizia, ove la soldatesca vittoriosa avrebbe
loro impedito d'arrivare.
Il
preside del municipio, Gabrio Casati, «fu l'ultimo al quale fu annunciato
quanto doveva avvenire». Alle otto di quella stessa mattina lo s'informò
officialmente, e quasi gli s'impose di recarsi al palazzo municipale. Egli
scongiurava si sospendesse: si risparmiasse il sangue: il Piemonte, entro due
settimane, avrebbe fatto la guerra all'Austria: promessa a lui fatta dallo
stesso re.
Casati,
per evitare il pericolo, si avviò, prima dell'ora a lui prefissa, verso
altra ed estrema parte della città, ov'era il palazzo del governo: «al
governo, per conciliare, anzichè al municipio a promulgarne il
decadimento». Si tentò d'impedire quell'improvisa passeggiata; ma fu
impossibile sviare la folla. Colà giunto, il Casati si trovò inanzi
a O' Donnell: si guatarono atterriti. Un granatiere alla porta aveva fatto
foco: un colpo di pistola nel petto l'aveva steso a terra. L'onda del popolo
aveva travolta e disarmata tutta la guardia. «Mentre il sangue suggellava la
rivoluzione, Casati implorava qualche concessione. O' Donnell si scusava.
Infine gli astanti lo costrinsero a sottoscrivere ed avviarsi prigioniero al
Broletto. E quasi prigioniero era il Casati in mezzo alla turba; la quale,
acclamando la rivoluzione, univa a' suoi gridi anche il nome di colui che
contro animo, pallido, esterrefatto la seguiva».
Scrive
Carlo Clerici, giovane assai popolare in tutta la città: «Ci avviammo, e
mi si disse da chi era stretto all'alta lega di nascondere, pel mio bene, la
sciabola, il tutto potendo terminare ancora in una semplice dimostrazione. Ma
un popolo non si move invano. E il nostro aveva deciso terminarla per sempre
coll'Austria. Ad un prete che mi domandò se doveva far sonare le campane
a martello, titubando altri, risposi di sì. E fra gli applausi, che
alcuni ci facevano sin dai tetti colle tegole in mano, marciammo, sotto una
pioggia di coccarde, ridenti e ardimentosi».
Giunti
a mezza via tra il Governo ed il Broletto, scontrarono una pattuglia, che al
veder tanta gente la salutò ad ogni buon conto con polvere e piombo.
Casati e O' Donnell si rifugiarono nella vicina casa Vidiserti. Così fu
stabilito dal caso il quartier generale dei cittadini. Nei decreti dettati a O'
Donnell erasi attribuita al municipio la polizia; e gli si concedeva di dare le
armi della guardia di polizia alla guardia cittadina. Ora che le armi erano
concesse, rimaneva d'andare a torle a chi le aveva. Fu inviato a tal uopo al
direttore Torresani il delegato provinciale Bellati, e nulla ottenne.
Era
invasa di pattuglie tutta la città, tuonava il cannone, allorchè
alle tre apparve sulle pareti un appello al popolo, per opera di quei medesimi
che nella notte avevano decretato il combattimento. Invitavano i cittadini a
proclamare «unanimi e pacifici, offrendo pace e fratellanza, ma non temendo la
guerra», l'abolizione della polizia e delle leggi statarie, lo scioglimento dei
prigionieri, la libera stampa, la guardia civica, una reggenza (erano memorie
pertinaci del 1814), e infine, «la neutralità colle truppe austriache».
Volevano dunque la guerra? o non la volevano? Se la volevano, perchè far
inciampo alla furia del popolo con codeste menzogne di pace e di
neutralità? Che se volevano veramente colla fratellanza delli oppressi
soprafare gli oppressori, non bastava più rivolgersi al popolo: era
mestieri appellarsi nelle loro favelle ai soldati: era mestieri sventolar
subito in faccia alle attonite pattuglie i tricolori delle nazioni, o
quell'unico colore che parla a tutte di libertà: gridare all'ungaro
ch'egli era ungaro, al croato che i suoi figli erano in Croazia: dir loro che
Metternich era fugito: che l'imperio non era più: che Radetzky non aveva
più ordini, che non aveva più comando: che l'imperatore chiamava
a far le leggi altra gente (ed era affisso ai canti delle vie): che ogni
soldato ora tornerebbe in pace alla sua patria nel nome di Pio IX e della
libertà: sommergere nel vino e nell'aquavite, nelli evviva a tutti, e
nell'abbraccio ai fratelli, la coscienza militare e la paura del bastone:
isolar gli officiali, o attrarli nel vortice, poichè v'erano pure in
quelle file gli Aulich, i Meszaros, i Klapkanota: gettare nell'impotenza e nel
disprezzo i vecchi i quali avevano decantato quelle spade invincibili che non
potevano più sfoderare. Era pur grande il ridicolo di veder trionfante
la rivoluzione a Vienna, a tergo di quei reggimenti che venivano a marce
forzate a soffocarla in Italia. Era maggior ferita all'Austria sedurle un
battaglione, che trucidarne quaranta. Ma per codesta guerra di fratellanza era
mestieri che i Balbo, i Gioberti, gli Azeglio e gli altri non avessero
insultato all'Europa, gridando in nostro nome guerra ai barbari, e che gli
esuli, inspiratori dei secreti pensieri all'Italia, le avessero fin d'allora
additato la formula fraterna dell'universale libertà.
E che
faceva intanto il consiglio dei generali, adunato nella cancelleria militare
presso il Castello? Se l'animo loro fosse stato di conservar fedelmente al
principe il più forte de' suoi regni, avrebbero dovuto lasciare che il
governo civile e i magistrati urbani ventilassero fra loro le questioni
d'ordine e di polizia: incasermare i militari, o meglio, accamparli in massa:
domandare i viveri al municipio: evitare ogni conflitto, o avvenuto
dissimularlo: non combattere se non per necessità, e da uomini onorati e
umani: bellum iustum, pium. Poichè avevano gettato ai popoli
tante minacce e tante sfide, qualcuno poteva spendere infine una parola di
pace. Che se a questo passo ripugnava la superbia militare, dovevano farne
interprete il governo civile, o quelle stesse congregazioni centrali che il
sovrano allora aveva promesso di chiamare a consiglio.
Nulla
di tutto ciò. L'interesse dello stato non era quello dei marescialli
avidi d'oro e d'arbitrio. Passò tutto quel giorno, senza che una parola
onesta uscisse ad ammansar le ire che fremevano in tutti i cuori. Le novelle di
Vienna furono gettate villanamente ai popoli, aride e nude quali il telegrafo
le aveva sillabate. - «La presidenza dell'imperiale regio governo si fa un
dovere di portare a publica notizia il contenuto d'un dispaccio telegrafico, in
data di Vienna 15 corrente». - Le congregazioni centrali dovevano adunarsi pel
3 luglio. Perchè non prima? Perchè non subito? A un popolo, da
tant'anni deluso in ogni suo voto, quell'appuntamento, dato il 15 marzo pel 3
di luglio, parve una derisione. Parve l'ultima goccia dell'odioso calice.
Le
novelle di Vienna tornavano più contrarie ai governanti militari che ai
civili. A questi presagivano solo nuovi riti amministrativi: più di
ciance e meno d'inchiostro: e a chi di loro avesse ingegno promettevano
più onorata fortuna. Ma ai marescialli, che si erano giurati alli
insegnamenti russi e li avevano già ripetuti nel sangue, l'èra
parlamentare dissipava quelle crudeli speranze. Per poco che l'Austria dovesse
cedere alla necessità de' tempi, essa doveva richiamar tosto dall'Italia
coloro che l'avevano tratta a quelle opere di sangue, dalle quali ella aveva
sempre saputo astenersi. E ciò era anche necessità di finanze,
poichè Radetzky dilatava ogni giorno la voragine; e avendo già 80
mila soldati da pascere, ne domandava almeno altri 70 mila. «L'esercito attivo
in Italia non dovrà essere minore di 150 mila uomini». «Già da
anni il maresciallo domandava 150 mila uomini, come forza assolutamente necessaria».
Dimandava inoltre di cinger Milano di sedici fortezze, che il generale Hess
voleva «con moltissime feritoie rivolte verso il Duomo». Ma, come scrive il
general Willisen, «Vienna si ritraeva per economia». Epperò i militari
fremevano contro i governanti civili; e Hess li appellava «miserabili faiseurs».
Ora, non potendo aver altre armi per sè, Radetzky aveva dimandato
licenza di disarmare i popoli. Il che mostra come la dimanda ch'ei faceva di
nuovi soldati non fosse solo, come altri scrisse, «nell'ambizioso generale la
smania di vedersi capo d'un esercito più numeroso». Doveva piuttosto
essere sagace estimazione della natura dei popoli, ciò ch'è il
contrario di quanto ne sentenziò l'arrogante scrittore di Custoza.
Il disarmo in quei momenti era sembrato al governatore Spaur pericoloso, e
quasi impossibile; epperò i generali l'avevano fatto richiamare a
Vienna, ove l'avevano falsamente fatto credere odiato dai popoli. Tuttavia il
governo esitava ancora, consigliato a ciò da quelli che lo avevano
servito con buon esito in altri tempi e con altra politica.
E
gli eventi di Vienna diedero autorità ai consigli civili. Laonde
Radetzky scrisse dal Castello la notte del 18 marzo: «Si credeva che le notizie
telegrafiche avrebbero calmato il popolo milanese; e il signor governatore
conte O' Donnell m'indirizzò richiesta (Ansuchen) ch'io non
ponessi in moto le forze militari, se non nel caso che venissi a ciò
dall'autorità civile addimandato (aufgefordert)». E perciò fu
costretto il maresciallo, in quella stessa mattina del
Appena
giunse ai generali l'avviso che il popolo verso mezzodì tumultuava
intorno al palazzo di governo, essi cominciarono a tendere le reti sulla
città, e scatenare contro i cittadini la soldatesca. Si depose da un
testimonio: «Alle ore dodici e mezzo circa, le truppe austriache cominciavano a
disporsi sulla Piazza Castello, in drappelli separati; ma niuno sospettava
quale fosse il loro divisamento. Ad un'ora e mezzo circa, la Piazza Castello
non prometteva niente di sinistro; quand'ecco uscendo tre carrozze, e
attraversando la piazza per recarsi al Dazio, staccarsi un drappello di ussari;
si presenta alla portiera, scaricandovi diversi colpi di carabina; nè
contento di questo, adopera la sciabola». E ciò non avveniva solo sotto
le batterie del Castello, ma in tutte le vie della città, ove le
pattuglie erranti erano inviate ad accattar briga. Si cacciarono perfino sui
tetti delle chiese a far piovere fucilate entro le pacifiche case. Si depose da
un altro cittadino: «Alle ore una e mezzo circa, si presentano i cacciatori
(tirolesi), e col mezzo dei loro zappatori, a colpi di scure sfondarono il
portello dell'Arcivescovato. In seguito atterrarono la porta che mette alla via
sotterranea; e di porta in porta, tutte sforzandole, entrarono in Duomo; e di
là salirono sullo spianato superiore». Un altro cittadino, il quale
abitava tra la caserma di S. Francesco e la casa di Radetzky, anzi nell'isola
medesima con questa: «Alle tre circa, due palle ruppero i vetri della mia
stanza; vidi granatieri ungaresi, difilati lungo la parete opposta, collo
schioppo appuntato alla guancia; repentissimi, frequenti colpi di scure alla
porta: grida feroci: un alto lamento nell'interno delle case; gli abitatori
innocenti, disarmati, ravvolti fra donne e figli correnti, lacrimanti,
stridenti: non altro scampo che attraverso ai tetti: i granatieri sul tetto
dietro le nostre pedate. - Corsero ai piani d'abitazione: con baionette e spade
forarono i ritratti: sfondarono armadi, ponendo mano a denari, orologi,
argenterie. - Nei seguenti giorni, nascosti dietro le griglie dell'appartamento
di Radetzky, giorno e notte facevano foco su chiunque passasse per la via,
fosse donna, vecchio o fanciullo».
Scrissero
i prezzolati austriaci, che il maresciallo fece tosto udire il cannone
d'allarme. Ma quando si udì il cannone, la città era già
da più d'un'ora in preda alla rapina e all'uccisione. «Già
cominciava a tuonare il cannone; erano le tre, quando s'udiva il primo colpo,
seguito a brevi intervalli da altri due; ciò che volessero dire quei
colpi e dove fossero diretti noi ignoravamo». Chi aveva ammonito il popolo del
significato di quei segnali? Ha forse diverso rimbombo il cannone d'allarme dal
cannone a mitraglia? A Brescia, il principe Carlo Schwarzenberg, a cui premeva
di tener quel popolo tranquillo e inoperoso, lo invitò in persona
propria alla pace e alla reciproca indulgenza; e fece inoltre publicare dal
municipio che il «movimento ostile delle truppe sarebbe prima prudenzialmente
annunciato dal castello con tre spari di cannone, caricati a sola polvere,
acciò ognuno potesse ripararsi alle proprie case». Ma altro conveniva
fare in Brescia, altro in Milano: bisognava punire le turbolenti città
ad una ad una! - Se udiamo gli austriaci, ogni passo dell'esercito fu impetuosa
vittoria; la brigata Wohlgemuth, di tirolesi, boemi, moravi, ogulini e
artiglieri, espugnò d'assalto tutte le barricate al palazzo di governo.
Ma il fatto è che nei cento passi d'intervallo tra i bastioni e il
palazzo v'era una barricata sola, e non difesa, perchè il popolo era
già partito con O' Donnell, e i soldati v'arrivarono anche dalla parte
opposta. «In poco più di mezz'ora furono allestite cinque barricate;
una, cioè, verso i bastioni, una subito dopo il palazzo verso il ponte,
una al ponte e due nella contrada della Passione; a costruire le quali si
adoperarono le carrozze, carrette e tavole trovate nel palazzo». «Intanto che
mi ristoravo, comparve truppa al palazzo e al ponte: io diedi un occhio ai
giardini per cavarmela; erano già pieni di soldati: avanzava un
picchetto con un officiale; passò per le barricate lentissimo e
disordinato; non sapeva atterrarle nè saltarle; pochi uomini che fossero
rimasti a difenderle potevano ricacciarli tutti; andavano i soldati a tre, a
quattro, tementi, incerti; ad ogni momento battevano a raccolta». Al dir di
Radetzky e de' suoi, anche la brigata Rath penetrò vittoriosa, sforzando
tutte le barricate, «fino al centro della città, a lato al Duomo». Ma
sul Duomo, a un'ora e mezzo, erano già pervenuti «per l'Arcivescovato e
la via sotterranea» i tirolesi, rompendo le interne porte, e non prendendo
d'assalto le barricate. E si erano nascosti a bersagliare i cittadini anco in
una buca dietro il Duomo. «Appena passata la cavalleria, vedemmo i tirolesi
uscire dallo sportello dell'Arcivescovato, e andare a mettersi nella buca, ove
si demoliscono le fondamenta di quella casa, alla quale avevano posto il nome
Casa d'Austria, per essere isolata e cadente; e di là tiravano su di
noi». A quell'ora, e più tardi ancora, cavalcavano intorno al Duomo
ussari e gendarmi; e se qua e là frapponevasi qualche inciampo di banchi
e di tavole, codeste barricate erano tali ancora che gli ussari potevano
sbizzarrirsi a saltarle, e i cittadini sbizzarrirsi a colpir gli ussari al
volo. Che anzi, quando la strage era già cominciata, le carrozze
s'aggiravano ancora per città; la quale non era dunque ancor barricata.
Un soldato del Geppert, vide in Castello «un carrozzino aperto senza cavalli, e
dentro una signora morta e un signore che tratto tratto dava ancora qualche
sospiro; avevano ambedue la faccia tutta spaccata dalle sciabolate per dritto e
per traverso, che sarebbe stato impossibile di riconoscerli». Chi segue il
racconto d'una compagnia d'operai, la quale si aggirò per la
città fino a sera, può farsi un concetto del modo con che le
barricate si andavano qua e là con mano inesperta tentando. In nessun
luogo vi era densa adunanza di popolo; la chiamata al palazzo municipale erasi
dispersa in una lontana processione, la quale nel ritorno aveva smarrito i suoi
capi. La grande occasione, d'operare di primo impeto e con poderosa mole, era
trascorsa senza frutto; tutti i varchi erano aperti al nemico sino al cuore
della città; i capi non avevano nemmen pensato a dar l'avviso di
barricare almeno quanti più si poteva dei quindici ponti del Naviglio
interno; chiusi i quali, i cittadini avrebbero avuto a far fronte solo tra
ponente e settentrione. Non si pensò nemmanco a chiamare alle armi il
quartiere ove il popolo abita più numeroso e solo. «Al dopopranzo,
invano alcuni pochi giovani in Porta Ticinese tentarono di far le barricate:
nessuno voleva credere che nelle altre parti della città fosse scoppiata
la rivoluzione; epperò, nel timore d'ingannarsi, i più tentavano
d'attraversare le ardenti disposizioni d'alcuni».
Altri
stupirà che invece di raccogliere qua e là gli elementi di
pomposa narrazione, noi sembriamo quasi ridurre a minor momento i fatti di quel
giorno. Ma giace tra le macerie qui accumulate una verità che importa ad
ogni modo dissepellire; e si è, che il grande edificio militare, la cui
caduta siamo per descrivere, non venne scosso dal popolo con tutto il nervo del
suo braccio. E nessuno vorrà dire che non sia prezzo dell'opera trarre
in luce una tal verità.
Mentre
di tal modo i generali provocavano a ineguale battaglia il popolo, essi
pensavano ad assicurarsi la vendetta, attorniandolo d'ogni parte, occupando con
fanti e cavalli e cannoni tutto il circuito delle mura. Per l'ampiezza del
giro,
Non
era ancora messo in salvo il maresciallo, che già incominciavano gli
alti fatti della giustizia militare. «Sul far della sera, una pattuglia di
croati conduceva in Castello un giovane: e siccome si opponeva resistendo coi
pugni, lo strangolarono; e lo appiccarono sopra una lampada: i generali ed
officiali ridevano». E un antico officiale austriaco confessa che qualora si
trattasse di violenze e rapine: «chi per rendersi più beneviso alla
truppa, chi per sfogare il suo odio e dispetto contro la canaglia latina,
faceva mostra di non vedere, quando non incoraggiava». Ed era a sì basso
fine ch'erasi instillato alla soldatesca il sospetto che ogni cibo che
provenisse dai cittadini fosse avvelenato; e affettavasi perciò di far
pregustare a' fornai il pane che si toglieva pei soldati; e già da molti
mesi prima eransi fatti incatenare in varie caserme i manubri delle trombe
dell'aqua, come se fosse avvelenata.
Ma
il sommo atto della militare vendetta doveva cadere sulli agitatori del popolo,
che il maresciallo imaginava già costituiti in governo provisorio nel
palazzo municipale; anzi imaginò e scrisse quel dì d'aver visto i
loro proclami: «Allora mi furono spediti proclami di un governo provisorio, la
cui sede era stabilita nel palazzo municipale». Benchè il Broletto fosse
nell'isola attigua alla Cancelleria Militare, e lontano di là nemmeno
duecento passi, narrano gli scrittori austriaci, che: «le truppe del general
Wohlgemuth consumarono quattro ore a sgombrar le vie: assaltarono il palazzo
alcune compagnie del Baumgartten, del Reisinger e delli Ogulini; indarno si
sforzarono i zappatori di quei reggimenti d'abbattere le porte; ed erano quasi
tutti morti o feriti, quando i pochi superstiti, aprendo una bottega di
rimpetto, v'introdussero un pezzo da 12, i cui colpi sfondarono il portone».
Come
avvenne che i municipali, all'avvicinarsi del nemico da ambo le parti del
palazzo, non pensassero a chiamare il popolo, o ad assicurarsi almeno una
ritirata? Per tenerli a bada, sicchè non si sottraessero, Radetzky aveva
simulato di tenersi secoloro in officiale carteggio. Stavano essi aspettando
che, in virtù della firma di O' Donnell, la polizia cedesse le armi
della sua guardia, intendendo cominciare con quelle l'armamento della civica; e
frattanto il popolo ne aveva tolte quante ve ne aveva nella vicina bottega del
Sassi, e le aveva portate in palazzo. «Impiegati continuavano a far la lista
della guardia civica, quando un assessore venne a portar notizia ch'erano
traditi: poco dopo giunse la seguente lettera di Radetzky datata dal Castello;
la fece accompagnare da mezza divisione di granatieri». Nella lettera si
leggeva: «Intimo a codesta congregazione municipale di dare immediatamente gli
ordini pel disarmamento dei cittadini; altrimenti dimani mi troverò
nella necessità di far bombardare la città. Mi riservo poi di far
uso del saccheggio e di tutti gli altri mezzi che stanno in mio potere. Aspetto
al momento un riscontro».
La
condizione del municipio era iniqua. Di qual forza doveva egli valersi per
togliere le armi ai cittadini? Come potevano gli avvisi esser letti nelle
tenebre della notte? Come si poteva annunciarli a suon di tromba nella vasta
città, quando ad ogni passo v'erano soldati che ferivano quanti
incontrassero, «fosse donna, vecchio, o fanciullo»? Il preside del municipio
erasi dovuto fermare a mezza via. E lo stesso maresciallo, poche ore dopo,
scriveva a Ficquelmont: «Pur troppo l'efficacia della polizia è affatto
elisa, è assolutamente impossibile far conoscere i proclami da me
diretti al popolo». Quali fossero codesti suoi proclami non sappiamo;
poichè nessuno li vide; e non crediamo che siano stati mai scritti: ma
Radetzky nella sua lettera alla municipalità non l'accusò
d'essersi costituita in governo provisorio; la considerò come
autorità legitima e consueta. Con qual titolo dunque ei la faceva in
quel momento medesimo assalire a tradimento nel palazzo? Essa era al suo posto.
Non
bastava ch'egli scrivesse in quella sera a Ficquelmont: «Milano è
dichiarata in istato d'assedio». Dichiarata? Quando? Con qual atto? e da chi?
Fatti di così tremenda natura, che annientano d'un colpo tutti i diritti
delle leggi e dell'umanità, devono esser publici e non occulti; devono
annunciarsi alla luce del sole, e non di notte, nel nascondiglio d'una caserma.
«Il nemico s'avvicinava: ecco giungere a fretta vari del popolo che avvertivano
invaso il vicino Ponte Vetro: nel cortile del palazzo sopragiungeva portato a
braccia un ferito: il popolo l'aveva levato dal luogo del conflitto e lo
portava a morire tra' suoi».
Intanto
il municipio rispondeva a Radetzky: «Lo pregava cessasse il foco,
perchè, durante la notte, l'autorità potesse indurre nelli animi
colla persuasione la tranquillità; prometteva avrebbe adoperato ogni
via. Pregava di pronta risposta: la congregazione sarebbe rimasta in permanenza
sino al mattino, ad attendere le sue partecipazioni. Un capitano di pompieri fu
incaricato di trasmettere il foglio a Radetzky». Ad un tratto il Broletto si
trovò investito; entrò a furia uno stuolo di granatieri ungaresi.
Furono tosto loro incontro pochi giovani, armati di fucili da caccia e di
qualche vecchia alabarda; e i granatieri furono costretti a dare
indietro. «Molti non sapevano spiegarsi il perchè Radetzky, in cambio di
rispondere alla lettera, mandasse que' suoi granatieri; i più animosi
fecero sentire che coloro i quali volessero andarsene, approfittassero di
quelli istanti».
Pochi
erano quelli che là erano, ma deliberati: non più che cinquanta
fucili; poca polvere; i soldati erano già padroni delle case vicine;
sfondarono due botteghe, vi fecero entrare a coperto due cannoni. Pareva che
l'edificio ruinasse dalle fondamenta; una breccia venne aperta. «Il Broletto
sonava la sua campana a stormo: inutilmente: era impossibile al popolo, per
quella via angusta, affollata di nemici, avvicinarsi al luogo del
combattimento. Le munizioni mancavano; ci aiutavamo colle tegole. A caso ivi
trovavasi il generale Teodoro Lechi; proponeva una capitolazione: nessuno
accettò. La resistenza tornava inutile; ma la capitolazione pareva
troppa vergogna; prevalse l'opinione dei più, quella di restare
immobili. Entrava furiosamente la truppa; erano incirca due mila fra boemi e
croati; avevano modi feroci; percotevano gli inermi. I più dei nostri
s'erano rifugiati nell'appartamento del delegato regio, che venne pure invaso e
sfrenatamente saccheggiato. A frenare quelle turbe indisciplinate non valeva la
presenza d'un maggiore de' croati Ottochan; nè meglio valeva la presenza
del delegato; nè quella di sua moglie circondata dai figliuoletti. Il
maggiore dichiarava tutti prigionieri di guerra; domandava l'immediata consegna
delle armi; e non è a dirsi la sua meraviglia, allorchè vide
colli occhi suoi tutte le armi trovate non oltrepassare il numero di quaranta
fucili». Radetzky nel suo rapporto a Ficquelmont tosto li moltiplicò in «un
rilevante deposito d'armi» (ein bedeutendes Waffendépot).
Andati
sui tetti, e trovati quivi alcuni ragazzi, i soldati li precipitarono nella
via; li usci cadevano sfondati sotto le scuri. Uno dei nostri, nelle strette
della morte, dava qualche gemito: lo ferirono di baionetta. I prigionieri
furono condutti in Castello, in fila, a due a due, preceduti e seguiti da
cannoni e fra triplici file di soldati. Si minacciava loro la forca; i feriti
che mal potevano camminare erano mandati inanzi, a calciate di fucili, o a
pugni sul volto. Il Broletto rimase occupato dai croati. «Non è a dirsi
qual mostra facessero di sè quei ceffi bruni, lordi di sangue, ebri di
vino e di furore».
L'istitutore
Antonio Boselli non aveva voluto lasciarsi chiudere entro il palazzo: uscì
coraggioso sulla via; ferito di baionetta, cercò riparo dietro una
barricata; e poco stante due colpi di moschetto gli aprirono altre ferite: pure
ebbe animo e lena di strascinarsi a casa: spirò con accanto la moglie e
le due bambine.
Tale
fu la prima vittoria. Due ore di combattimento di duemila contro cinquanta.
Nondimeno Radetzky affettò di credere già conquiso il popolo:
«reciso il nervo capitale della rivolta» (den Hauptnerf der Revolte). E
immantinente ne spediva pomposo nuncio a Vienna il capitano di stato-maggiore
conte e ciambellano Huyn. E alle liete novelle, il giovine arciduca Ranieri
scrisse, poche ore dopo, da Verona, ad altro dei figli del vicerè: «Ora
è cosa fatta; la conservazione della città di Milano alla monarchia
si deve solo al senno del maresciallo e al valore delle truppe. Il capitano
Huyn passò di qui andando corriere a Vienna. Nel partire, alle 11 della
sera, vide tutto lo spettacolo fatto in città. Al Broletto i cannoni da
12 devono aver fatto buchi magnifici. Il maresciallo lo spedì, quando,
certo della vittoria, faceva far cucina ai soldati sulle piazze. Huyn disse
esser morti circa 40 soldati, e molti feriti. Tutti i prigionieri, non escluso
Casati e il duca Litta, che si dicono pure del numero, si dovevano fucilare. La
legge marziale fu già spedita, ieri, a Milano con un officiale e due
bersaglieri borodiani; ed oggi (20 marzo), alle due, può essere
già pubblicata e messa in opera. Questo è ben ora l'unico mezzo;
purchè solamente ne vengano ammazzati parecchi».
Così
non fu. Il giorno 20, alle due, il vittorioso maresciallo aveva già
implorato dai cittadini un armistizio, per bocca di quello stesso maggiore
delli Ottochan che gli aveva condutto i prigionieri da inviare al supplicio.
Il
giorno 20, il tenente colonnello d'artiglieria Carlo Kugler, dello
stato-maggiore dell'artiglieria stanziale nel Distretto Veneto (Garnisons-Artillerie-District),
venne arrestato dal popolo d'Inzago. È superfluo il dire ch'ebbe salva
la vita, benchè a scemarsi d'importanza si fosse mentito semplice
tenente di fanteria. Non passò un mese che il colonnello Tomaso Zobel
fece uccidere nelle fosse di Trento il giovane Blondel e altri sedici giovani,
presi sul campo. Stanno ancora scritti nel sangue i nomi di Ludovico Batthyany,
d'Ugo Bassi e d'altri e d'altri. Così è: il nostro popolo
serbò nella vittoria l'avita sua natura: parcere subiectis. In
Germania, sin dai tempi d'Arminio, la vittoria s'intese in altro modo: supplicia
captivis (Tacito, Ann., I).
La
vera vittoria del maresciallo era contro il governo civile; era quella d'aver
colto il destro di fondare in Italia la sua militare onnipotenza. Accesa la
guerra, qual ministerio l'avrebbe potuto richiamare dal suo comando? Ma quanto
alla vittoria contro il popolo, pur troppo egli stesso ne dubitava, quando alle
due dopo mezzanotte dettava queste parole: «Non posso peranco indicare la mia
perdita in morti e feriti; ma non può essere stata lieve. Per il momento
si ha quiete; ma può darsi che al levar del sole incominci il conflitto.
Io sono deliberato di restare, a qualunque costo, padrone di Milano. Se non si
desiste dalla pugna, bombarderò la città».
Se
il maresciallo aveva voluto appiccar battaglia, il popolo l'aveva accettata.
Già prima di sera, numerose pattuglie dovettero ceder le strade ai cittadini,
e ridursi a far foco dalle finestre delli edifici. Quella che incontrò
la comitiva di Casati, abbandonò due moribondi; una fu respinta da tre
fucili; un'altra, da quindici. Il generale Rath si fece strada fino al Duomo,
prima «con dolci parole», poi camminando più che di passo, «e perdendo
fucili e berretti». Ussari e Reisinger furono cacciati da Camposanto; i
granatieri, dall'atrio della Scala; i croati, dal ponte di Porta Romana. A
sera, il lavoro delle barricate era immenso; dovunque si udiva un picchio di
sassi e di ferri. Ma fra i vari rioni era interrotto il passo. La sventura del
municipio rimase ignota in casa Vidiserti; nessuno recava novelle a capi che
non sapeva ove fossero, o chi fossero, o se vi fossero. «I più ardenti»,
confessa uno di loro, «invece di rannodarsi, di recarsi serrati in mezzo del
popolo, si dispersero a dar minuti provedimenti». Uno spirò sotto le
prime fucilate; altri era fuori di città; altri alle barricate; altri,
per commozione delirava. Ma rimase la fatale preoccupazione che i combattenti
dovessero attinger valore e consiglio nella mansueta congrega del municipio. E
anco il municipio era prigione o disperso.
Ov'erano
quelle arcane società intorno al numero, alla potenza, alla onnipresenza
delle quali avevano tanto per tant'anni favoleggiato le emigrazioni e le
polizie? D'onde attendevano ancora l'iniziativa? Un giovine «che non aveva
appartenuto a società secrete, nè alla nobile consorteria delle
dimostrazioni», Enrico Cernuschi, era uscito senza progetti, ma era corso a
mettersi accanto a Casati e compagni: «combattere i tedeschi», egli scrive,
«era il pensiero generale; vegliare, spingere i nobili era il mio,
dappoichè si era voluto, ad ogni costo, metterli in cima». Già
fin dal mattino aveva presagito che la processione finirebbe nel sangue; e
ancora in Broletto, aveva tratto fuori una sciabola, gridando guerra; ma
Borromeo l'aveva rattenuto. Era tra quelli che avevano dettato i decreti a O'
Donnell, che lo avevano scortato, che ora lo vegliavano in casa Vidiserti; era
con lui l'amico suo Luciano Manara, e ordinava i 63 armati che quivi erano.
Cattaneo li sollecitava a non attendere il nemico in quel posto, fra due
strade, a pochi passi dall'ultima barricata; era infatti come il Broletto.
Rispondevano che avrebbero venduto cara la vita; ma egli replicava che non
importava perdere e morire, ma vincere e vivere. Alcuni temevano che, la
traslocazione fosse un raggiro per toglier loro Casati e O' Donnell. Era
già presso il mattino, quando Cernuschi li trasse in una delle case dei
Taverna, nella angusta via de' Bigli, in isola più vasta, ove
potè ordinar tosto più linee di difesa, e uscite varie e sicure.
Si deliberò di farne certo qual secreto; volevasi anzi tutto sottrarre
il capo al ferro del nemico. Nei monumenti greci vedonsi spesso figure di
combattenti nudi, ma coll'elmo in capo. All'alba era fatto; si diede il tocco
alle campane e il grido d'allarme.
Quale
era stato, in quel primo dì, l'aspetto delle altre provincie? Alle gravi
novelle di Vienna, Venezia liberò a forza Manin e Tomaseo; in Brescia,
tra il fremito del popolo, fu ucciso, gridando viva l'Italia, uno di quei
granatieri italiani che il sospetto di Radetzky aveva allontanati da Milano. Ma
nessuna stilla di sangue in alcun'altra città. Trieste fu paga di vituperare
l'imagine di Metternich; Vicenza dimandava la civica; Verona accoglieva il
vicerè col grido, viva la costituzione, morte ai tedeschi; i Mantovani
facevano festa in chiesa e in teatro; stringevano la mano alli officiali. Le
novelle di Milano non giunsero oltre Varese, Como e Bergamo; nella notte
giunsero a Cremona, portate dal caso, coi viaggiatori. Scrive Carlo Clerici:
«Mi restò fisso in mente che Cernuschi propose spedire dovunque nostri
incaricati che facessero le nostre parti anche all'estero; il che bisognava far
subito, prima che la città fosse circondata dalle truppe». Nessuno fra
tanti facultosi ebbe mente e cuore d'immolare un cavallo o un pugno di scudi,
per lanciare un rapido appello alle altre città. Arese partì, ma
per Torino, ov'era già una colonia di sollecitatori. In quel giorno 18,
il re aveva finalmente perdonato a quelli che gli avevano offerto la corona
d'Italia; ma il nuovo ministerio di Cesare Balbo, ricusò ai lomellini la
licenza di armarsi; privilegiò in Torino 500 guardie civiche, per
difendere dalla gioventù i ricoveri dei gesuiti. Arese ebbe una ripulsa:
non l'avrebbe avuta, s'egli o altri si fosse rivolto a Brescia, inviando di
là messi e stampe a Verona, a Mantova, a Bologna, gettando ovunque la
scintilla che i popoli aspettavano bramosamente, sorprendendo, senz'ordini e
senza consiglio, fra lo stupore delle repentine novelle, i comandanti militari
e civili. A Varese, copia dei decreti di O' Donnell venne affissa quella sera
in teatro, ov'erano forse trenta officiali; ebbero agio d'uscire, e recarne
avviso al colonnello, ch'erasi già coricato; e tosto fece svegliare
all'armi tutto il battaglione. Bergamo inviò staffette, ma solo nella
sua provincia. Como non potè operare quel giorno, e dispose cautamente
di preoccupare pel mattino i campanili, i forni militari e la polveriera. Fu
questa dunque una levata d'armi quale poteva attendersi dopo tante
dimostrazioni?
Raccogliamo
in breve il concetto istorico di quel giorno memorabile. Alcuni giovani
costrinsero i municipali di Milano a prestare all'irritato popolo un'occasione
di tumulto: Radetzky se ne giovò, per afferrar tosto l'ambito governo
militare; ma nel farlo, sebbene la rivoluzione non avesse armi, nè
capitani, nè consiglio, nè tampoco notizia di sè,
evocò dalle viscere del popolo una forza, che i suoi centomila armati
non valsero più a prostrare.
Surse,
dopo dirotte pioggie, sereno e fausto il secondo giorno. Rivaira, comandante
dei gendarmi, visto il decreto che affidava al municipio la publica sicurezza,
fece significare a Casati ch'ei si rassegnava alli ordini suoi. Ciò
avrebbe tolto al nemico ausiliari efficaci e mediatori pericolosi. Casati non
osò accettare; scrisse a Bellati (ei nol sapeva già prigioniero)
di recarsi a convenire di ciò con Torresani, intendendo che i gendarmi,
fatti duci delle pattuglie civiche, sarebbero «il miglior mezzo termine, per
tranquillare la città». La lettera fu sdegnosamente lacerata dalli
astanti; intanto s'inoltrava il giorno; e il cannone toglieva l'adito alla casa
di Rivaira.
Radetzky
nella notte aveva fatto fare il ruolo de' suoi prigionieri. «Pur troppo, il
capo de' ribelli, il podestà conte Casati non era tra quelli che furono
presi ieri nel palazzo municipale, epperò il comitato direttore fu
presto riordinato; pare che la sede del governo improvisato sia nel palazzo del
conte Borromeo». Era anzi nell'opposta parte della città! Che valeva
all'Austria l'essersi fatta esecrabile al mondo per le sue polizie, quando, al
momento supremo, dovevano i suoi generali versare in sì palpabili tenebre?
Chi non ha partigiani, non ha polizia.
Nella
strategia del secondo giorno, le truppe, non potendo, nè osando
più vagare fra le barricate, intercettarono stabilmente le vie,
presidiando 52 edifici. Cingevano inoltre per dodici chilometri i bastioni. Dalle
porte, ove stavano con artiglierie, ora s'inoltravano pei corsi entro la
città, ora escivano lungo la circonvallazione e le vie postali. Spezzate
per tal modo, e legate a punti fissi, esse offersero prima l'aspetto
dell'esitanza, poi quello dell'impotenza e del timore. Al palazzo di Giustizia,
non si vergognarono d'aggrappar dalla porta con una lunga pertica uncinata, un
compagno caduto. Due giovani sul ponte di Monforte affrontarono colle carabine
un cannone, lo tennero indietro per un'ora; i soldati stavano nascosi fra le
colonne del palazzo, o sdraiati a terra; un capitano che volle trarli sin oltre
il ponte, cadde ucciso; la truppa si ricacciò nel palazzo, appostandosi
dietro i comignoli del tetto e le finestre abbarrate. Fu quivi ucciso d'una
cannonata Giuseppe Broggi, ammirato per l'infallibile sua carabina.
Spirò d'un colpo di cannone, in mezzo al corso di Porta Romana, il
calzolaio Valentini. Fu trafitto da una palla in fronte, sulli archi antichi
del ponte di Porta Nuova, il salumiere Volonteri; ma quel monumento rimase un
forte inespugnabile, difeso da Augusto Anfossi, Manara, Enrico Dandolo, Luigi
Della Porta ed altri, che tosto o tardi diedero tutti per la patria la vita.
Dal Broletto, un officiale minacciava codardamente ai cittadini la forca. «La
forca sarà per te», gli rispose il droghiere Puricelli; e sebbene
ferito, non si ritrasse finchè nol vide rintanarsi nel Broletto co'
suoi. A Piazza Mercanti, artiglieri, uccisi o fugitivi, abbandonarono un
cannone. Alla Corte, come deposero poi due delli ungaresi che quivi erano:
«investiti d'ogni parte dai cittadini, che sdegnando di starsene dietro le
barricate, uscivano ad assalirci all'aperta, e dalle donne che dalle finestre
sparavano colpi di pistola, inviammo al Castello a dimandar soccorso; ma delle
due o tre compagnie del Gyulai che ci furono spedite, pochi arrivarono, e
sì malconci, che si risolse di ritirarsi. Fin d'allora si tentava
l'affratellamento colli ungaresi. Un uomo pieno di coccarde nazionali, che sono
delli stessi colori per gli ungaresi e gli italiani, si presentava loro,
invitandoli alla diserzione. Consigliato da essi a ritirarsi, troppo tenace nel
suo proposito, non volle rimoversi; onde preso dai cacciatori tirolesi, fu
tosto fucilato. Più di 36 ore dovettero i granatieri ungaresi star sotto
le armi, esposti alle intemperie, e ciò che più importa, privi di
cibo». Anche i carcerati nel palazzo di Giustizia rimasero senza cibo per ben
48 ore; senza viveri per 40 ore quelli della polizia generale; Radetzky ebbe ad
avvertire i consoli «che i carcerati nella Casa di Correzione mancavano di
viveri». E fu anche per questa imprevidenza che le soldatesche, erranti nei
rioni più remoti, si mutarono in orde fameliche e rapaci, a strazio
delle derelitte innocue famiglie. Non era solo effetto di barbarie;
poichè i boemi del Reisinger incrudelirono peggio assai de' croati. Non
era effetto d'esaltazione bellicosa del soldato, che «prendendo d'assalto le
case, trucidasse chi lo aveva combattuto (seine Angreifer niederstach)»,
come vennero imaginando poscia gli escusatori di Radetzky. No! nessuna di
quelle infelici case era stata difesa o assalita, essendo tutte in
quell'estremo lembo della città che stava affatto in potere del nemico.
Era per i vili sospetti instillati dai generali; era per la insensata
dispersione delle truppe, onde non fu possibile far loro pervenire i viveri.
Nè parimenti era possibile che da 52 punti si raccogliessero i feriti, e
si traessero per le due o tre vie che rimanevano tuttora aperte nell'interna
città. Solo a notte oscura, si osò trasportarli «con carrette e
lettighe, che lasciavano sui marciapiedi larghe strisce di sangue». E quella
vista funestava le soldatesche, accampate sui vasti spazi della Piazza
Castello, intorno a luridi fochi, su cui gettavano carrozze e suppellettili,
cantando e urlando ferocemente, quasi per dissimulare a se medesimi la loro
disfatta. E altro terrore infondeva in quelle rozze anime la vista della
eclissata luna, in forma di globo cupamente arroventato. Al contrario i
cittadini, nella coscienza del loro diritto e del favore di Pio IX e di Dio, ne
traevano baldanza e ilarità.
Giunse
nella sera in casa Taverna un primo dono alla patria di lire tremila
dall'ingegnere Filippo Alfieri; e rese esuberante servigio in que' giorni,
quando ogni venalità nei poveri pareva spenta. Altri apportò
carte intercette al nemico; ma Casati e i suoi, sempre oscillanti fra la guerra
e la pace, negavano si aprissero. Una di esse avvertiva come, con ordini
anteriori alle novelle di Vienna, il maresciallo, provido nel male, avesse
distribuito più di 500 cariche d'artiglieria in Padova, Vicenza, Mantova
e Verona.
Mentre
si tentava dar qualche forma alla fortuita difesa, Casati «si sottrasse alla
vigilanza delli armati che facevano sentinella al suo onore». Immantinente Cernuschi,
accompagnato dal figlio medesimo di Casati, ne andò in traccia; e «gli
venne fatto di scoprirlo rannicchiato nella soffitta d'una casa vicina, d'onde
usciva polveroso, coperto di ragnateli. Il figlio n'ebbe a versar lacrime». La
generazione che surge è migliore di quella che tramonta.
A
fronte di poche centinaia di fucili, Radetzky, benchè, avesse fin dal
primo scoppio entro le mura circa 15 mila uomini, s'era già indutto a
chiamare due battaglioni tirolesi da Cremona, uno del Gyulai da Pavia, una
parte del Geppert da Monza, e aggiungeva nella notte del 19: - «Chiamo a me
cinque battaglioni, coi quali dimani all'alba comincerò di nuovo il
combattimento contro Milano e lo condurrò, come spero, a buon fine». Se
nel primo giorno colle sue squadre mobili, aveva provocato i cittadini al
combattimento, nel secondo giorno colle immobili sue posizioni aveva inspirato
loro la fiducia nella vittoria.
Al
di fuori accorreva già la gioventù delle pianure, affrontando
impavida la cavalleria. Giuseppe Guy, milanese, venuto co' suoi contadini da un
podere presso il Po, bersagliava dall'aperta campagna gli austriaci
accovacciati sul bastione, quando la carabina d'un ussaro lo colpì a
morte. I condottieri delle due strade ferrate, sprezzando la nuova minaccia di
morte, condussero notte e giorno convogli d'armati. Il passo del Lambro a
Marignano venne chiuso. Il nemico non ebbe più corrieri. «Non fu
possibile spedire il mio dispaccio (del 19)», scriveva Radetzky, «perchè
ogni communicazione al di fuori è talmente interrotta, che solo con
grosse scorte può giungere a me o partire alcuna notizia». Non era
dunque reciso il nervo capitale della rivolta, com'egli aveva sognato; ma
bensì, essendo recisi i nervi che ponevano in moto le inanimi membra
dell'esercito, i corpi isolati ricadevano nella dubiezza e nell'inerzia. A un
esercito di servi manca, col bastone del comando, la volontà e la vita.
Como
sorprese in quella matina la polveriera di Geno, armò i cittadini,
spiegò la bandiera tricolore; ebbe soccorso di quattrocento uomini,
approdati colle vaporiere del lago. Ma dalla Svizzera non le giunse in quel
giorno più che uno stuolo di 14 esuli; mentre il presidio nemico
s'ingrossò di 800 soldati del Prohaska che stanziavano in Mariano e
Cantù. - Bergamo, che dal suo colle poteva contare ogni colpo che
straziava Milano, si armò; e quando, a notte tarda, corse voce che
contro la parola data dall'arciduca Sigismondo partiva un battaglione chiamato
da Radetzky a Milano, il popolo di Borgo Palazzo gli precluse intrepidamente la
via; gli uccise il comandante. - A Brescia, presidiata in gran parte
d'italiani, i maggiorenti, indettati da Torino, e resi imbecilli da quella
speranza, raffrenarono l'impeto del popolo; lo persuasero (cosa quasi
incredibile) ad aspettare rassegnato le sue sorti da quelle della combattente
Milano; appellarono «colpa e danno crudele e irreparabile» ogni atto ostile;
patteggiarono il privilegio delle armi a 200 agiati cittadini. Il generale
Carlo Schwarzenberg potè illeso percorrere a cavallo la città,
intanto che le sue robe si ponevano in salvo entro una caserma: e scorgendo «la
più perfetta calma e tranquillità e buono spirito che ovunque
regnava, potè provarne le più dolci commozioni, ed esprimerne i
più cordiali e sentiti ringraziamenti». Quelli improvidi ozi, quando
Milano combatteva, vennero poi scontati nel foco e nel sangue, quando Milano fu
disarmata e derelitta: dum singuli pugnant, universi vincuntur. -
Intanto la vicina Crema, perchè aveva poco popolo e angusto contado,
sebbene si mostrasse quel giorno piuttosto in festa che in tumulto, venne
ferocemente insanguinata da cacciatori tirolesi e dragoni austriaci. V'ebbero
quasi 80 feriti dei cittadini, e 2 soli dei soldati; all'arrivo poi di due
cannoni e di 400 soldati italiani del presidio di Lodi, la città fu
interamente disarmata. Il qual caso ebbe gravi effetti; poichè quivi era
il convegno ove lo smembrato esercito potè accozzarsi.
A
Cremona, presidiata pure d'italiani, il popolo, non provocato dall'arroganza
straniera, «fu pago di ottener la liberazione d'un cittadino arrestato in forza
della legge stataria; invano accorsero migliaia d'armati dalle campagne». - In
Mantova, ove pure italiano era il presidio, il comandante Gorczkowsky
potè acquistar tempo, concedendo il «privilegio» delle armi a qualche
centinaio di cittadini, che presero in custodia innocente le porte della
fortissima città. Un numeroso comitato predicò «l'ordine e la
tranquillità», vestendo a mansueta insegna la «sciarpa bianca». - La
coccarda bianca soppiantò nell'agitata Verona la tricolore. Il cauto
arciduca, che non aveva interesse, com'altri, a sconvolgere e insanguinare il
regno, concesse la custodia di quella pur fortissima città a 400
privilegiati; costrinse la soldatesca «a sfilar taciturna e sparire fra il
tripudio del popolo». - La custodia delle porte fu concessa anche ai cittadini
di Vicenza. Così, tranne la pianura milanese e il suburbio di Bergamo,
nessun soccorso diedero, nemmeno in quel secondo giorno, i popoli indarno
commossi alla città combattente.
In
Piemonte intanto, il nuovo ministro Ricci chiedeva in iscritto che Genova «lo
coadiuvasse colla tranquillità più profonda», quando, a rompere
il nuovo letargo costituzionale, giunse, alle otto del mattino, la nuova che la
guerra era cominciata. E a prima giunta Cesare Balbo, l'uomo della guerra ai
barbari, obliò tosto l'unum porro necessarium; e rispose alle
grida della gioventù, che voleva aver armi, chiudendole in faccia le
porte dell'arsenale. Parve gran cosa a quei decrepiti adulatori dell'Italia, di
prometterle tre campi d'osservazione a Chivasso, Novi e Casale, dietro la Sesia
e il Po.
Era
già strana cosa che in Milano amici e nemici riputassero capo del popolo
un uomo ch'era mestieri tenere quasi a forza. Ma per poca notizia che si avesse
di quanto accadeva nelle più interne parti della città,
palesavasi il fatto più strano ancora, che il popolo dapertutto
combatteva, e in nessun luogo aveva capi. Si pugnava a caso «senza alcun
disegno, sforzandosi ciascuno presso le sue case d'acquistar terreno,
d'abbarrarsi, di scoprire armi e munizioni e toglierne al nemico». Nella notte,
qualche cittadino, sdegnoso che l'occulto comitato dei patrizi non mostrasse la
faccia, propose si gridasse republica, si ricorresse alla Svizzera testè
armata, alla libera Francia. Se parlate di republica, rispose Cattaneo, tutti i
signori saranno per domatina in Castello con Radetzky. - I soccorsi francesi e
svizzeri erano lontani e incerti; la republica non avrebbe nemmeno i soccorsi
dell'Italia, tutta infervorata allora de' suoi principi. Era forza mietere
ciò che si era seminato. Il popolo, per verità, non intendeva la
commissione alla Savoia; avrebbe mille volte preferito l'alleanza del popolo
francese; avrebbe preferito mille volte una federazione republicana, col nome
di Pio IX. Carlo Clerici, ch'era «uno dei primi anelli tra il popolo e l'alto
ceto», scrive: «la republica era ben addentro nel sentire del nostro popolo:
chiamata, sarebbe surta». E nel primo giorno quel grido si era qua e là
udito fra il popolo, «drappelli di cittadini percorrono la città,
gridando viva Pio IX, viva l'Italia, viva la republica». Ma erano voci che uscivano
solitarie dal cuore; non esprimevano patti di parte. E anche a Brescia, in
febraio, alle novelle di Parigi tale era stato lo spontaneo sentimento del
popolo: «la prima notte si passò tutta in riunioni, ai caffè,
sotto ai portici, nelli alberghi, nelle taverne: sembrava la celebrazione d'un
trionfo nazionale. E quanto al Piemonte, dicevasi, la viva aspettazione che se
ne aveva va sbollendo, perchè nessun fatto si vede mai. I giudiziosi
pensano che sia l'Austria autrice di tali rumori, che destano sospetto e diffidenza,
ma il popolo non ragiona». Sventuratamente altri ragionava per lui; e lo sviava
dalla madre idea della libertà, chiamandola «il trionfo predeterminato
d'una forma governativa». E ammoniva i siciliani contro «l'egoismo di
libertà».
Non
sapendosi che un governo in Milano era già secretamente pattuito prima
che il combattimento cominciasse, proposero alcuni si procedesse ad eleggerlo
immantinente. Ma il nome di governo involgeva necessità di personaggi
autorevoli. Se codesti signori ne fanno parte, rispondeva Cattaneo, vi saranno
d'impaccio; se non ne fan parte, impediranno che sia obbedito. Epperò
propose un consiglio meramente di guerra, e di pochi e deliberati, solo per
dare ordine alla difesa; anzi proponeva si chiamasse «comitato di necessità».
Si scrissero i nomi delli astanti, onde interrogarne il suffragio. Ma molti ad
ogni momento, in cerca d'armi e d'indirizzo, entravano, uscivano; nulla si
raccapezzava. Alla fine parve più pronto ripiego prendere i primi
quattro nomi, scritti in capo alla lista delli astanti. E così la
rivoluzione andava a caso d'una in altra mano. Ove stavano, sia detto un'altra
volta, le secrete associazioni? Perchè i capitani della arcana milizia
non si ponevano inanzi, se v'erano?
Quel
fortuito consiglio di guerra fu poscia trasfigurato dai romanzieri torinesi, in
una prima elaborazione dell'Italia republicana, in un primo pegno delle venture
discordie. Non è così. Di quattro soli, ch'erano i membri, non si
conoscevano tutti, nemmeno di saluto. Giulio Terzaghi e Carlo Cattaneo si conoscevano
solo dacchè dimoravano quivi allato colle loro famiglie nella casa
Gavazzi. Giulio Terzaghi e Giorgio Clerici erano patrizi; e questi fu sempre
sì poco in voce di republicano, che la fazione regia gli commise poscia
il comando della guardia nazionale. Enrico Cernuschi si vantava scevro d'ogni
legame, avverso persino a quei notissimi che dettavano le dimostrazioni.
Cattaneo aveva pensato a giovare la patria senza metter mai verbo in politica.
E nel primo giorno, quando gli amici vennero matutini ad annunciargli la
processione municipale, e dimandargli consiglio per l'evento d'un conflitto,
egli aveva risposto che il correre immantinenti alla forza, quando nulla si era
fatto per possederla, gli pareva troppo favorevole al nemico, il quale era presto
e bramoso. «Il podestà farà mitragliare i cittadini; egli va da
cieco ove lo spingono. Questi 40 mila fucili, li avete visti? Siete poi certi
che questo comitato vi sia? Hanno fede cieca in Carlo Alberto; e saranno
corrisposti come al solito. Bisogna pigliar tempo per armarci; e perchè
tutta Italia si metta in grado».
È
debito e diritto di giustizia porre in luce questi fatti, per dissipare le
menzogne, onde certuni vennero pascendo poi l'anime sciocche. E vuolsi
considerare questo irresistibile effetto delle rivoluzioni: ch'esse ingrossano
come le vallanghe, travolgendo nei più temerari propositi i più
cauti animi, mentre il fiocco di neve che fu motore primo e nucleo della immane
mole, vi resta per lo più confuso e smarrito. E perciò, ad ogni
ritorno, la rivoluzione sempre più ingrossa; sinchè le
minorità primitive, che valevano solo per la loro leggerezza, prevalgono
col numero e col peso morto, e ponno invocar senza tema il suffragio
universale.
Radetzky
non potè il terzo giorno tener la parola, colla quale erasi, la sera
inanzi, addormentato: - «Chiamo a me cinque battaglioni: domani
comincerò di nuovo il combattimento». Anzichè cominciare il
combattimento, gli fu forza precipitare la ritirata dalle parti più
interne della città. Quelle sconnesse posizioni non si collegavano
più al Castello, se non per due o tre varchi tortuosi, verso i quali si
cominciò presso l'alba a dirigere i cittadini che venivano a offrire le
braccia e prendere indirizzo. Tosto il mezzo della città offerse uno
spettacolo di militare confusione e ignominia. I tirolesi scesero precipitosi
le scale marmoree del Duomo, e per i sotterranei dell'Arcivescovato si
raccolsero alla Corte; si posero dietro al generale Rath, che «precedeva il
convoglio a gran carriera, per salvarsi dalle pietre e dalle palle che i
cittadini, svegliati all'improviso rumore, tempestavano sulle truppe». Il
popolo armato invade gli atri della Corte, le stanze dei principi. Ma rispetta
a tutti, ma perdona a tutti: alle famiglie tedesche rifugiate in chiesa: ai
poliziotti nascosi nelle cantine: ai feriti ungaresi, che porta sulle
vittoriose spalle all'ospitale. Anche gli offici della polizia generale
rimangono avvolti nel turbine. Quel Torresani, il quale andava spiando da tanti
anni, e vessando e umiliando una gioventù che fra tante molestie
intendeva solo la necessità d'esser libera, si traveste da gendarme; si
mischia alla cavalleria; giunge semivivo di paura in Castello, lasciando cumuli
di carte semiarse, abbandonando alla vendetta la moglie, la figlia, la vedova del
figlio coll'unica bambina. All'irrompere del popolo impetuoso, «in elegante
gabinetto, una giovane signora, vestita di seta nera, stringendosi al seno una
bambina, con a lato una cameriera, entrambe pallide, tremanti, stavano
ginocchioni. Mandò questa uno straziante gemito all'entrar del primo,
credendosi vicina ad essere sacrificata. Ma l'entrato, confortandola, e dato
ordine che con modesto sciallo si coprisse la testa e la faccia lacrimosa,
presala sotto braccio, e chiamato un altro cittadino, guidarono quel derelitto
convoglio alla casa paterna dei conti Giovio; e, trovatala chiusa, la
ripararono presso la famiglia Morandi». E dove era il conte, lo spauracchio
della città? Due delle sue spie lo palesano nascoso in una soffitta
entro il fieno: pallido, contrafatto, coi capelli irti, chiedente pietà
e misericordia, cavato di là, vien cercato sulla persona se avesse armi,
onde non potesse uccidersi nè tradire. «Figurati, lettor cittadino, la
scommunicata figura di quel laido vecchio, quella persona tremante, coperta di
pagliuzze, che colle braccia aperte si lascia frugare nelle tasche; e ne
cavano, invece di stili e pistole, ne cavano, pane e formaggio. L'ira dei
più accaniti si volse in riso».
Conveniva
tenere il popolo in questi alti e gloriosi propositi. «Prodi cittadini», gli
diceva un appello del consiglio di guerra, «conserviamo pura la nostra
vittoria; non discendiamo a vendicarci nel sangue dei miserabili satelliti che
il potere fugitivo lasciò nelle nostre mani». Di quella mal locata clemenza
si duole ora il popolo amaramente. Ma furono forse quei pochi spregevoli
perdonati che gli balzarono poi le armi di mano, quando venne tempo di
difendere una seconda volta la sua città? Furono forse quelli abietti
che gli insegnarono a riporre una stolta fede nei traditori, e ad abbeverare di
dispetti e d'oblio i provati amici? Che gli gioverebbe nella sventura il
sentirsi chiamar barbaro come i suoi nemici? Le crudeltà presenti
parrebbero giuste rappresaglie. E la vendetta dei nemici e il loro perdono avvilirebbero
del pari la sua coscienza; la quale, ora, può contemplar impavida e
indomita quell'avvenire che porrà un'altra volta a' suoi piedi i
vigliacchi insanguinati.
E
parecchi officiali in quella confusione non ebbero tempo a salvarsi: e, tratti
inanzi al consiglio di guerra, tentarono sostenere l'usata arroganza,
pretendendo di non essere prigionieri, ma parlamentari. «È meglio che
diciate d'esser prigionieri», rispose loro Cattaneo. «Come? parlamentari? Il
vostro esercito deve già esser a ben tristi termini, se s'adatta
sì presto a spedire parlamentare a poveri ribelli». E frattanto
l'arciduchino Ranieri in Verona si consolava pensando che la legge marziale
poteva già esser messa in opera, e fucilati tutti i cittadini
prigionieri! E v'era fra gli officiali captivi un conte Thun, che un mese
inanzi aveva insultato a man salva, presso il corpo di guardia del conte
Ficquelmont, il cittadino Borgazzi, e che, disarmato da lui, lo aveva fatto
vilmente carcerare; poi lo aveva divulgato per tutta la Germania come sicario.
Ed ora stava, umile, e senza spada, inanzi ai cittadini. E in quell'istante,
pochi passi lontano, i suoi commilitoni stavano trucidando nelle sue stanze il
predicatore Lazzarini; poi si ritiravano all'appressarsi del popolo; e per
disviare i suoi colpi si facevano precedere da cinque preti a croce alzata.
Tali sono i conquistatori. E v'è chi scrive che ogni popolo merita il
suo destino!
Il
consiglio di guerra incalzava i combattenti: «Il generale austriaco persiste;
ma il suo esercito è in piena dissoluzione. Molti officiali si
dànno prigioni; interi corpi atterrano le armi avanti il tricolore
italico. Cittadini! perseverate; questa è la via che conduce alla gloria
e alla libertà».
Le
truppe, smarrite fra gli andirivieni delle barricate, fecero simulate offerte
di arrese o di pace, al Ponte Vetero, al Genio, al Comando Militare, a S.
Simone. Un maggiore dei croati Ottochan venne a dimandare in nome di Radetzky
qual fosse la mente dei magistrati. Reduce Casati dalla fuga, e pressato sempre
a costituire con municipale autorità un governo provisorio, si era
solamente piegato ad annunciare che aggregavasi al municipio alcuni
collaboratori; ma vi affastellava presenti e assenti, e anche Teodoro Lechi,
ch'era prigioniero in Castello; e attribuiva a Bellati, pur prigioniero, la
polizia. Udito il messaggio di Radetzky, egli propose, per la città
sola, un armistizio di giorni quindici, affinchè il maresciallo potesse
invocare da Vienna nuove concessioni. E intendendo che i soldati si
consegnassero nelle caserme, e i cittadini desistessero dal combattimento,
invitò in presenza dell'inviato il consiglio di guerra a dire se vi
volesse dar mano.
Rispose
il consiglio: non potersi oramai staccare dalle barricate i cittadini; la
consegna nelle caserme non offrire veruna sicurtà; il combattimento
sospeso potrebbe ad ogni momento riaccendersi. La campana e il cannone,
già da tre giorni, avevano desti i popoli all'armi; i soccorsi erano in
via; un'armistizio circoscritto alla città lasciava libere le truppe
d'esterminarli; o dovere il combattimento cessar dovunque, o dovunque
proseguirsi. Se il maresciallo veramente era mosso da umanità, se voleva
arrestare il combattimento in tutto il regno, i soldati italiani gli
basterebbero a conservar l'ordine, finchè arrivassero le nuove
istruzioni da Vienna; allontanasse immantinente i soldati stranieri. - Come?
rispose il maggiore sdegnosamente; un maresciallo ritirarsi inanzi a cittadini?
- Voi parlate d'umanità, gli si replicò, e non d'operazioni di
guerra; i ministri che diedero al maresciallo facoltà di mitragliare e
bombardare, sono caduti; i loro ordini non hanno più vigore, fino a che
i loro successori non abbian parlato. Si valga di ciò il maresciallo,
prima che il suono d'allarme giunga di campana in campana sino ai passi delle
Alpi. Separando i due elementi irreconciliabili, potrà dire d'essere
entrato nel nuovo ordine europeo; e intanto veramente avrà salvato
l'esercito.
Invano
Casati riluttava. La gioventù, non volendo soffrire indugio alla pugna,
o dar ansa a una perfidia, stette col consiglio di guerra. Casati
congedò il messo, pregandolo a riferire da un lato i sentimenti dei
municipali, e dall'altro quelli dei combattenti. Egli volle separata nell'animo
di Radetzky la sua causa da quella del popolo. E il consiglio di guerra tacque,
e non se ne fece vantaggio. Importava salvar la città. Ed era forza
mietere ciò che si era seminato.
Altri
dirà che ricusar l'armistizio fu temerità. Ma valga il vero. Fin
dalla sera inanzi, i consoli di Francia e Svizzera avevano promesso ai
municipali di protestare, in un colli altri consoli, contro il minacciato
bombardamento; e nella matina del 20, ne avevano scritto a Radetzky, chiedendo
in ogni modo il tempo di porre in salvo i loro clienti. Rispose il maresciallo,
alle 11 del mattino stesso, lagnandosi che si fossero assalite le sue truppe
contro il diritto delle genti; e pregando i consoli d'indurre i capi ad astenersi
da ogni atto ostile; altrimenti ei si difenderebbe col coraggio che gli
inspirava il sentimento dell'odiosa sorpresa che si era fatta a' suoi soldati.
Promise sospendere per un giorno le misure severe, a patto che i cittadini
cessassero ogni ostilità. I consoli, gli chiesero tosto un abboccamento
per ragguagliarlo delle edificanti disposizioni del municipio. Lasciamo che,
dopo le insidie e le stragi di Milano, di Padova, di Pavia, era sacrilegio
allegare il diritto delle genti; ed era troppo ridicolo che parlasse di
coraggio in faccia a un pugno di cittadini, chi, poche ore prima, millantava i
suoi centomila soldati, e l'animo deliberato all'incendio e al saccheggio.
Diremo solo che Radetzky, partecipando ciò a Ficquelmont, scrisse il
dì seguente: «Coi consoli si è trattato oggi di un armistizio di
tre giorni; le mie truppe hanno necessità di riposo, per i più
che umani loro sforzi; ed io con questo mi troverò in grado di
circondare più compiutamente la città». E perchè la voleva
il maresciallo circondare, investire (zernieren)? Fu preso in quel medesimo
giorno, a Inzago, l'apportatore della legge di sangue, la quale concedeva al
maresciallo la licenza di fucilare tutti i ribelli; e a quell'ora, gli
arciduchi in Verona si consolavano pensando ch'era già in opera. Era
dunque Radetzky che abusava dell'intervento dei consoli; che oltraggiava il
diritto delle genti. Sarebbe vano accusar di perfidia un tal nemico; ma sarebbe
ingiusto accusar di temerità chi sottrasse all'atroce inganno i
cittadini.
Libera
l'interna città, apparivano ad uno ad uno, e cauti e taciturni si
schieravano intorno al cupo Casati, i membri del futuro governo. Favoriti per
secreto patto dai più accesi promotori dell'insurrezione, i quali non
ebbero tampoco la lealtà di aprirsene col consiglio di guerra, essi,
anzichè adoperarsi a dare indirizzo al combattimento, attendevano solo a
recarsi in mano col minimo pericolo la massima potenza. In data di un'ora dopo
mezzodì, comparve verso sera un loro avviso, in cui si leggeva: «Le terribili
circostanze di fatto, per le quali la nostra città è abbandonata
dalle diverse autorità, fanno sì che la congregazione municipale
debba assumere in via interinale la direzione d'ogni potere, allo scopo della
publica sicurezza». La publica difesa era dunque un fatto: non era un diritto.
La città non era ribelle: era abbandonata; abbandonata anche da
Radetzky! Il municipio non voleva: ma doveva; era costretto. E solo con mano
dubiosa, e in via interinale, e per imperio di circostanze terribili,
s'induceva ad assumere ogni potere. Gli infausti nomi di Guicciardi, di Durini,
di Giulini, di Strigelli, di Borromeo, ricordavano i conciliaboli e i parentadi
che nel 1814 avevano posto in mano all'Austria l'esercito e il regno. Per quali
arti erano mai pervenuti coloro a patteggiarsi il voto della magnanima
gioventù? Come potevano i cittadini dimenticare d'aver deriso, non era
ancora dieci anni, quei maggiorenti della città e dignitari del regno,
quando, radianti di felicità, fregiavano dei loro ciondoli e delle loro
livree le pompe dell'incoronazione? L'uomo ha un cuor solo; e il cuor di
costoro non era stato mai per l'Italia. Nel 1841, essendosi fatto appello ai
cittadini in favore della via ferrata di Milano a Venezia, essi erano usciti da
inveterata inerzia per impadronirsi di quella splendida impresa. E l'avevano
fatta trastullo d'avara e inetta vanità, millantandosi in faccia a
Metternich di voler fare essi ogni cosa coi loro denari. E così, non
solo per la loro pusillanimità l'impresa cadde in mano alli stranieri
ch'ebbero cuore di locarvi veramente i necessari tesori. Ma per insensati
avvisamenti le opere rimasero disgregate ai due opposti capi e involte in
disperati indugi. Infine il governo n'ebbe ammonizione a revocare gli ampli
privilegi, che, contro ogni consuetudine, aveva largiti all'impresa. I quali,
con accorgimento esercitati, avrebbero messo in pugno ai cittadini tutte le
communicazioni civili e militari e la chiave di tutte le fortezze. Se gli
sconnessi tronchi di Treviglio e di Vicenza furono di tanto sussidio nei cinque
giorni, non è a dirsi quanto le veloci communicazioni con Peschiera, con
Verona, con Venezia avrebbero giovato; essendochè dal lato suo il
nemico, timoroso d'insidie, non osava avventurare su quei precipizi i suoi
battaglioni.
Ordinata
nel 1841 quella congrega, e raccomandata dalla veste d'un publico interesse, e
dal conflitto in che s'era posta col governo, ricomparve in mezzo
all'agitazione del 1847. E seguita dall'antica caterva di satelliti bassamente
adulatori e bassamente malèdici, e dall'altra nuova di generosi
inesperti, vantando d'avere quando che sia a pronta disposizione tutte le forze
del Piemonte, e penetrando col numeroso servidorame nella plebe,
s'impadronì di questa più ardua e sublime impresa; e la condusse
per infinite astuzie a funesto fine. Ma intanto era impossibile disfare
d'improviso la vasta rete con ch'ella avviluppava da anni la cittadinanza. Era
necessario che calamitosi fatti dimostrassero ai cittadini la sua morale e
mentale impotenza. Tuttociò che rimaneva, fra quell'improvisa frana
delli eventi, era di vigilare, affinchè quelli insensati, per
credulità o per paura, non traessero seco il popolo in balìa del
nemico. Epperò i membri del consiglio di guerra non dismessero il loro
assedio a Casati, e si accamparono nella camera attigua a quella ov'egli era
co' suoi. E con pretesto d'assicurare la custodia delli officiali prigionieri
ch'erano di sopra, e di separarli da certi soldati prigionieri ch'erano di
sotto, intercettarono ogni altro adito; e con consegne di porte, e con duplici
parole d'ordine, difficultarono l'accesso. E si studiavano di dar essi pronto e
diretto spaccio a tutte le inchieste dei cittadini accorrenti, allegando che il
municipio fosse a secreta consulta e non potesse ascoltarli. Fra queste misere
angosce, dovevasi dar opera ad animare ed indirizzare i combattenti.
Già
udivasi, dopo due giorni di silenzio, il grave rombo dei bronzi del Duomo;
già in mano al colosso della Vergine sventolava il tricolore.
Rispondevano con campane e con grida le pianure; le due strade ferrate
apportavano a' piè de' bastioni squadre continue d'armati. Le
soldatesche sulli sfrondati bastioni udivano e vedevano appressarsi da ambo le
parti le onde del popolo, quando, a nuovo stupore scorsero veleggiare al vento
uno stuolo di palloni, e sorvolar le mura e le porte indarno irte di baionette.
Nei fogli che i palloni spargevano, il consiglio di guerra si appellava «a
tutte le città e tutti i comuni del Lombardo-Veneto: Milano vincitrice
in due giorni, e tuttavia quasi inerme, è circondata da un ammasso di
soldatesche avvilite ma pur formidabili: noi gettiamo dalle mura questo foglio
per chiamare tutte le città e tutti i communi ad armarsi». Era
così ripudiato il pusillanime consiglio di patteggiare una solitaria
tregua per la città, dissociandola dalle provincie.
E
infatti Como, in quella matina, inviava già in soccorso una squadra di
giovani; purtroppo anzi tempo. Perocchè il comandante Braumüller, che in
quella città di 16 mila abitanti aveva 1500 soldati tutti stranieri, si
accingeva ad assalirla, tostochè gli giungessero da Saronno
l'artiglieria e la cavalleria che aveva richieste a Strassoldo. La presa d'una
staffetta scoperse il suo proposito; scoppiò tosto nel sobborgo il
combattimento; la squadra fu appena in tempo a retrocedere. Accorsero
dall'interna città i croati; ma, ripulsi prima di giungere alla Porta
Torre, abbandonarono sulla via ferito a morte il maggiore Milutinovich. La gran
guardia col tenente Knesich, uscì per altra porta; ma fu dispersa; e
dopo aver vagato la notte appiè dei monti, si arrese per fame. Le truppe
ch'erano nelle due caserme suburbane tentarono invano sforzare la Porta Torre
per unirsi di dentro ai croati; respinte nelle caserme, offersero nuovi
accordi; ma il popolo, savio, voleva cedessero le armi. Dopo tre ore si riprese
il foco, con vantaggio minore, poichè i soldati avevano avuto agio
d'adattare a difesa i tetti e le finestre. I cittadini s'impadronirono della
conserva del pane; apersero feritoie nelle mura della città e delli
orti; fecero fossi e tagliate; tesero catene; pattuirono segnali d'avviso e
parole d'ordine; appuntarono alle porte delle caserme vari cannoncini, raccolti
nelle ville del lago ed in quella medesima del vicerè al Pizzo; e
vegliarono in armi la notte, intorno ad ampi fochi accesi intorno alle mura e
sui colli. Le donne apprestavano bende e filacce, cartucce e palle; gli alunni
del seminario apportavano i loro peltri; giungevano amici dal lago e dalle
valli; e Francesco Scalini adduceva una squadra di 60 carabinieri ticinesi. La
giornata valse ai cittadini una ventina di feriti o morti; ma un centinaio a'
nemici, i quali restarono rinchiusi, senza notizie e senza viveri. A Bergamo,
l'arciduca Sigismondo, vedendo surgere d'ogni intorno le barricate, ingrossare
il popolo e ridutti i croati a difendersi bruttamente dalle finestre delle
caserme, fece chiedere a sera un abboccamento col comitato; e per gli operosi
offici del conte Lochis, ottenne pur troppo che i cittadini sospendessero le
offese, promettendo che i soldati non andrebbero a combatter Milano, e ch'ei
medesimo non uscirebbe dalla sua dimora, se non accompagnato da guardie
cittadine. Poi nella notte fuggì.
Un
altro arciduca, Ernesto, correva simil pericolo quella medesima sera in Lodi;
ma la fanteria del presidio era italiana, inciampo al furore del popolo.
S'intimò ai cittadini di consegnare al municipio le armi. I più
deliberati, anzichè cederle, uscirono recandosi al soccorso di Milano; e
così quel passo dell'Adda rimase sicuro al nemico, che per assicurarsi
prese in ostaggio onorevoli cittadini.
Qui
hanno fine, e non parrà vero, i fatti d'arme della terza giornata in
tutto il Lombardo- Veneto.
Al
di fuori, Parma ebbe tre ore di combattimento, in cui cadde un colonnello
d'ungaresi con alcuni officiali e parecchi soldati italiani; il duca,
accerchiato nel suo palazzo, offerse ai cittadini la consueta esca d'una
costituzione; e tornando alla vita errante della sua stirpe, lasciò lo
stato a una reggenza. Vi s'ascrissero un Gioia, un Maestri e altri, che si
chiarirono poi clienti di Carlo Alberto; e attesero tosto a sventare ogni
impeto di popolo. - A Modena, i dragoni ducali ferirono qualche cittadino; ma
il duca, che pochi mesi prima aveva detto al popolo, «ho trecentomila uomini,
non ho paura», spaventato, piangente, dichiarò «che si occuperebbe
subito delle risoluzioni più confacenti al benessere delli amatissimi
sudditi». Ma invero la maggior sua sollecitudine fu di aprirsi un varco alla
fuga. E non era agevole, poichè in tutte le città circostanti, a
destra, a sinistra, a fronte, alle spalle, ruggiva il terremoto popolare. - Il
popolo di Bologna, a dispetto dei maggiorenti già secretamente
accaparrati da Azeglio, mise in armi quella sera 500 tra popolani, studenti e
finanzieri, che al chiaror delle faci fra gli applausi partirono, guidati dai
republicani Livio Zambeccari e Angelo Masina, avendo «proclami già
stampati, coll'intenzione di proclamar Pio IX a Modena e a Parma». Poco stante
li seguì un battaglione di guardie civiche; ma inviluppato da
superstizioni di giobertiana opportunità, non osò poi varcare il
confine. Quando si pensa ai battaglioni bene armati di Parma, Modena e Bologna,
ch'erano quella notte a poche miglia da Mantova, presidiata da tremila
baionette tutte italiane, è forza confessare che se l'Italia non fu libera,
egli è che ancora nol volle.
Mantova,
infatti, oltre all'aver avuto dal vicerè licenza d'armare 300 cittadini,
animata dalle novelle di Milano, di Parma, di Modena, li aveva posti quella
notte a guardia delle porte con autorità «d'arrestare i corrieri e
aprire i dispacci». Ma in contradizione a ciò, il municipio vietò
per editto «di munirsi d'armi a chiunque non fosse abilitato dal commune». E
per disviare il popolo, raccolse denaro da gettargli sotto pretesto di lavoro,
affinchè serbasse «calma, tranquillità e obbedienza a chi lo
dirigeva».
E
v'erano, nel giro di poche miglia da Mantova, altre possenti città che
avrebbero potuto, con qualche audace fatto, decidere delle sue sorti. V'era
quella Brescia che, cinquant'anni addietro, aveva potuto improvisare per
Bonaparte ottomila soldati e che nel seguente anno fece stupir l'Europa del suo
disperato coraggio. V'era, pur nel raggio di
Brescia,
per effetto dei molti esuli, era la città più allacciata dalle
influenze azegliane. Benchè l'albero della libertà fosse
già piantato in Isèo, e la Val Camonica in armi chiedesse solo
ove marciare, il podestà, co' suoi collaboratori Mompiani, Lonao, Lechi
e altri tali, chiedeva alli austriaci la concessione di armare 200
privilegiati. Dovevano «esser muniti d'un biglietto a stampa»; e chiunque altro
«non sarebbe autorizzato a portar armi». - Doveva il signorile registro
limitarsi «alle persone appartenenti alla possidenza e al commercio; se si
trovasse opportuno si aprirebbe anche altro registro per gli appartenenti ai
corpi d'arte». Non si dovevano confondere poveri e ricchi in un registro solo.
«Tenetevi in perfetta calma»; predicavano quei campioni dell'indipendenza. E
per invilire la plebe, ch'era pronta a dare il suo sangue, le buttavano un
tozzo di pane. - «I possidenti schiusero i loro granai; i negozianti aprirono i
loro forzieri; procurarono al municipio i mezzi di sfamare le migliaia, che
tutto il giorno in attitudine minacciosa, stavano nella Piazza Vecchia,
domandando armi e battaglie». Noi chiediamo alla «Croce di Savoia» di spiegare
questi fatti. I partigiani della Savoia hanno impedito l'insurrezione di
Brescia, o no?
A
Cremona, Schönhals aveva voluto accamparsi minaccioso in Piazza d'Armi con tutto
il presidio; ma un battaglione del Ceccopieri restò in città col
popolo; il quale alzò forti barricate, e ingrossato da contadini in armi
percorse a grosse squadre le vie, e prese saviamente ostaggi alcuni capi
nemici. Nella notte, anche il battaglione milanese dell'Alberto si diede al
popolo. Ma i maggiorenti, anzichè incalzare il nemico, ch'era ridutto a
qualche squadrone d'ulani e una batteria pedestre, furono lieti di publicare
come le loro pratiche presso il comando della milizia fossero valse ad ottener
la promessa che si sarebbero astenute da ogni atto che fosse per ingenerar
diffidenza! Non pensavano che quando in siffatti casi l'austriaco s'astiene,
egli è che non può. Decretarono: «Le armi non sono affidate che
alla civica, unita sempre alle truppe di linea; il rimanente dei cittadini
rientri tranquillo nell'esercizio delle proprie funzioni».
E
parimenti a Verona, benchè vi si fosse già spedita la favola che
50 mila piemontesi avessero assaltato il castello di Milano e preso Radetzky, i
400 dal vicerè privilegiati facevano pattuglie coi soldati per conservar
la quiete. Intendevano solo a frenare il popolo; il quale, vedendo fornirsi di
cannoni il Castel Vecchio, mettersi compagnie di cannonieri nel forte
Sanfelice, raddoppiarsi i cannoni alla Gran-Guardia, due batterie campali
appuntarsi alla piazza del Pallone, volle che si mandasse almeno a chieder
conto al vicerè. Rispose questi, non esservi nulla a temere; potersi
riposare sulla sua parola (la legge di sangue era già spedita da lui
medesimo; e speravasi messa in opera). Egli intanto si mostrò
mansuetamente pago che la porta del suo albergo fosse guardata dai civici, con
due sole sentinelle croate; e per trastullare la plebe, fece levare il dazio
dei commestibili. I manuali che a migliaia lavoravano sulla via ferrata di
Vicenza, erano accorsi a Verona, pensando vi fosse da combattere. Ma le guardie
privilegiate chiusero loro sul viso la porta; e perchè quei gagliardi si
accingevano a sforzarla, vi fu chi li acquietò, narrando come il
vicerè avesse concesso le armi alla cittadinanza, e promettendo che se
bisogno vi fosse si spedirebbe a chiamarli. Aveva ben ragione il giovine
arciduca di beffarsi di quella civica e «delli schizzetti rugginosi coi quali
andava pattugliando», senza avvedersi che servivano di zimbello al nemico, e
che ben tosto glieli avrebbe ritolti. Il comandante Gerhardi temeva veramente
«ad ogni minuto lo scoppio della ribellione», e negava a Radetzky il rinforzo
del reggimento Ernesto, essendochè Zichy alla sua volta gli negava da
Venezia il reggimento Fürstenwerther. Bastava la sorda paura del popolo a
scemar le forze al nemico. A crescer pericolo, giungeva allora da Milano quel
battaglione Danthon di granatieri comaschi, bresciani e veronesi, che il
sospettoso Radetzky aveva allontanato da Milano; e lo si faceva accampare, come
appestato, al di là dell'Adige, in Campagnola, fuor delle mura.
Anche
Trento, l'antica republica episcopale, aggiogata contro animo all'Austria,
sentiva il nuovo alito della nazionalità; i suoi municipali scrissero,
il
In
quel terzo giorno, se consideriamo in generale, vediamo rotto l'equilibrio tra
l'esercito ed il popolo, tra l'autorità e l'insurrezione. L'esercito
cede materialmente e moralmente. Cede materialmente il possesso delle vie e de'
publici edifici; abbandona in Milano e in Como la Gran-Guardia, che è il
contrasegno del comando di piazza e del dominio militare d'una città;
perde il possesso delle porte in Como e in Bergamo; divide per patto la custodia
delle porte e la perlustrazione delle vie in Verona, in Mantova, in Vicenza, in
Brescia, in Cremona; lascia alla balìa dei popoli le persone dei
principi in Verona, in Bergamo, in Modena, in Parma e li riduce a trarsi
d'impaccio con basse simulazioni. Cede moralmente, perchè discende dal
punto fermo del diritto militare, il quale considera la resistenza come un
delitto, e il combattente come un malfattore, e intavola colle rappresentanze
civiche, più o meno incorporate coll'elemento ribelle, trattative
regolari, che vengono sancite anche da intervento consolare, e riconoscono
più o meno, e consacrano in massima, il diritto dell'insurrezione. «Con
ribelli non si tratta»: questo è il principio della legge militare;
dunque: con chi si tratta non è ribelle; la sedizione si trasforma in
guerra; e la bilancia della guerra pende in favore del popolo, in una misura
rappresentata dal terreno che il soldato gli cede. Sarebbe stato più
provido e anche più onorevole per l'esercito l'aver lasciato volontariamente
quello spazio prima del conflitto; e aver ricusato la battaglia per alte
ragioni di stato e d'umanità, piuttosto che perderla per manifesta
impotenza. Il popolo non oblierà mai d'aver vinto.
Nel
quarto giorno, i milanesi si fanno alla lor volta assalitori; espugnano a punta
di baionetta il Genio Militare, dopochè un povero e storpio, Pasquale
Sottocorno, ha posto il foco alla porta, e che Augusto Anfossi cadde
sull'entrata, trafitto da una palla in fronte. Cacciano i granatieri e le
artiglierie che difendono la casa di Radetzky; prendono le sue carte, portano
per le piazze il suo uniforme di maresciallo, la sua sciabola d'onore, e la
depongono sulla tavola del consiglio di guerra. Compagnie di giovani, armati in
gran parte coi fucili che hanno strappato di mano al nemico, scegliendosi capi
quei che si mostrano degni a prova di ferro e di foco, oltrepassano i ponti;
s'inoltrano verso le porte e i bastioni, per interrompere quell'alta ed ampia
cerchia, sulla quale il nemico fa scorrere liberamente le sue forze. Borgazzi,
dopo aver condutti per la via ferrata migliaia d'armati appiè delle
mura, penetra in città, concerta col consiglio di guerra un attacco di
dentro e di fuori; poi torna a raggiungere le sue squadre, alla testa delle
quali, il dì seguente, cade ucciso. Borgocarati ordina una comitiva di
zappatori; si apprestano barricate mobili, si appuntano verso la Porta Tosa
piccole artiglierie. Il consiglio di guerra anima i cittadini a uscir dalle
barricate. «Prodi, avanti! La città è nostra; il nemico si raccoglie
sui bastioni per avvicinarsi alla ritirata. Fategli premura; tormentatelo senza
riposo; questa notte tutte le porte devon essere sbloccate. Ottomila uomini
raccolti dalla campagna stanno per darvi la mano; le truppe straniere dimandano
tregua: non lasciate tempo a discorsi. Coraggio! Finiamola per sempre. -
L'Europa parlerà di voi; la vergogna di trent'anni è lavata. Viva
l'Italia! viva Pio IX!» E i palloni volanti chiamavano gli amici, ch'erano
fuori le mura: - «Fratelli! la vittoria è nostra; il nemico in ritirata
limita il suo terreno al Castello e ai bastioni; stringiamo una porta tra due
fochi e abbracciamoci».
Intorno
a Milano, «sopra una fascia di dodici miglia, l'insurrezione era oltre ogni
credere spettacolosa. Carri con su armati avviati a rifocillarsi o a
combattere, volavano su e giù per gli stradali; bande di contadini
dovunque s'incontravano; ed era uno stringersi la mano, un incoraggiarsi l'un
l'altro, gridando viva Milano, viva l'Italia, che ci rapiva l'animo di
meraviglia e di giubilo». Il presidio di Monza, chiamato a Milano,
s'indugiò, perchè gli si negarono i cavalli di trasporto;
sopragiunsero gli insurti di Lecco; si venne alle mani; un maggiore cadde
ferito e prigioniero; i soldati deposero le armi. Il colonnello Kopal, ch'era a
Varese coi cacciatori austriaci, partì a furia per Milano, ardendo parte
de' suoi bagagli, abbandonando i distaccamenti sparsi lungo le frontiere,
facendosi far promessa che si lascerebbe loro libero il passo. In quel mentre,
una squadra di 250 croati che, assalita dai contadini presso Appiano, fuggiva
per campi e selve, evitando ogni terra abitata, arriva anelante nella
città di Varese, per deporre le armi, «tanto da non finire in mano a
contadini». Giunge d'altro lato uno dei distaccamenti dei cacciatori; sono 200;
invocano la fatta promessa; dimandano il passo. Si concede; ma uno dei loro
officiali invita i croati a partir seco lui. Cesare Paravicini gli rinfaccia
ch'è un mancar all'onore; si getta fra le due colonne; intima ai
tedeschi di partire, ai croati di deporre le armi. Tosto si promulga un
appello: «Milano combatte. Chi ha un'arme, si accinga a partire». Sopravengono
altre turbe dai monti e dai laghi; la notte si vigila fra concenti militari.
A
Como, nel corso di quel giorno, s'arresero tre caserme con forse 800 croati, e
alcuni ussari e cacciatori. In una delle capitolazioni si legge: «La truppa,
tutta chiusa da infinite barricate, senza pane da oltre due giorni, e senza
speranza umana di poterne avere, minacciata da immediato incendio e cannonamento,
dopo aver tentato invano due sortite, fu costretta a venire alla seguente
capitolazione»... Il barone Diesbach prigioniero scrive a sua madre: «Se siamo
profondamente addolorati del nostro caso, abbiamo il conforto d'esser trattati
nel modo più delicato e amichevole». Rimaneva ormai la sola caserma
fuori di Porta Torre, da ogni parte assediata, sotto una tempesta di palle, a
lato a due fenili che il popolo aveva posti in fiamme; la notte interruppe il
combattimento. Era tra gli uccisi Luigi Nessi; tra i feriti Arcioni, capitano
dei ticinesi. In quel giorno il popolo di Valle Intelvi e Valle Solda
disarmò croati e tedeschi. Quasi tutte le 900 guardie di finanza del
confine comasco offersero le loro braccia. Francesco Dolzino di Chiavenna
disarmò il presidio di Morbegno.
A
Bergamo, risaputa la fuga dell'arciduca, il popolo furibondo abbattè le
aquile imperiali, prese la polveriera, assediò i croati, che si
esibirono a sgombrare, purchè scortati dalle guardie civiche e dai
sacerdoti col crocifisso. Ma il popolo non volle lasciarli andare armati; ed
essi, per costringerlo a desistere, ritennero ostaggi i parlamentari Frizzoni e
Zuccala. A tarda notte, i croati delle quattro caserme tentarono far massa in
una; ne nacque accanita pugna. I municipali la interruppero con parole di pace,
esortando il popolo «ad esser indulgente, e lasciar partire incolumi alla volta
di Verona i vinti nemici».
A
Cremona, nella notte, si erano barricate le vie, armate le case; «al mattino
ognuno presagiva vicina la lutta; regnava la quiete del sepolcro». Tre ulani,
che tentarono una esplorazione, caddero uccisi. Schönhals, chiuso in Piazza
d'Armi, senza viveri, senza ritirata, capitolò; lasciò liberi i
battaglioni italiani; consegnò sei cannoni con munizione e cavalli, ma
ottenne dalla municipale debolezza di partire, conducendo seco la cassa di
guerra, 400 ulani con armi e cavalli, e gli altri officiali e soldati
stranieri, sotto la vana promessa di non combattere contro l'Italia. A
Pizzighettone i cittadini arrestarono il comandante; e rimasero padroni della
fortezza, con tutte le artiglierie e 700 casse di munizione. Non così a
Mantova, ove il comitato municipale, vietando le armi ai cittadini, vietando le
armi ad ognuno che fosse «illegalmente armato», elemosinava poi 500 fucili,
prima al comandante nemico, poi per deputazione del vescovo al vicerè in
Verona, al quale faceva anche domandare che ordinasse a Gorczkowski di
consegnare la fortezza ai cittadini. Intanto lasciava libero il corso ai
dispacci di Radetzky, e aperto il passo al duca di Modena, che sotto il mentito
nome di conte Molin, sebbene da tutti conosciuto, potè recare in salvo
la persona e il tesoro. Che anzi, condutto al palazzo municipale, vi riceve i
saluti dei municipali e di tutte le autorità militari e civili. «Un uomo
ardito propose di chiudere entrambe le porte del palazzo, e di ritenere ostaggi
tutti quei signori, insino a tanto che si fosse dato ordine alle cose della
città»; ma i membri della commissione si opposero.
Fugitivo
da Bergamo giunse a Brescia l'arciduca Sigismondo; il popolo savio voleva
arrestarlo; i municipali insensati non vollero. Il popolo «da sè, senza
consigli, intercettava i corrieri»; fermava per le strade i soldati del
Haugwitz, li pregava a non partire; ed essi lo giuravano. Ad una voce d'allarme,
nata per una escursione di dragoni tedeschi, si videro donne e fanciulli
accorrere a disselciare le strade. Ma il municipio, com'esso diceva, «intento
sempre a schivare l'effusione del sangue», sempre negando le armi al popolo,
accettò piuttosto nella civica i gendarmi e le guardie di polizia; le
diede a segnale di pace una sciarpa bianca, una piuma bianca al cappello delli
officiali; le predicò che suo immediato oggetto era il publico ordine;
subordinazione rigorosa; nessuna fazione, se non per ordine del comandante; e
autorizzato questi e un consiglio a infliggere punizioni. E perchè i
civici non potessero nuocere nemmeno volendo, Schwarzenberg, che aveva promesso
armarli, diede loro pochi fucili e inetti all'uso, o perchè il fondo delle
canne era ostrutto con piombo o legno, o perchè mancava il percussore.
Da Val Trumpia, da Val Sabbia, dalla Francia Curta, dalla Riviera di
Salò, venivano intanto i messaggieri di quei popoli chiedendo ordini
alla patrizia prudenza. Così fu tenuta Brescia anche il quarto giorno.
No,
l'impedimento all'intera vittoria del popolo non fu nelle armi de' suoi nemici,
ma nelle anime irresolute de' suoi maggiorenti, tanto corrivi a provocare il
pericolo, quanto ritrosi ad affrontarlo. E in ciò Radetzky medesimo
locava omai le maggiori sue speranze. Aveva egli, nella notte precedente,
risposto ai consoli, che si terrebbe onorato di vederli in Castello alle 7 del
mattino; e in quella conferenza egli, egli stesso, propose che per tre giorni
cessasse da ambo le parti ogni ostilità: «propose de cesser toute
hostilité des deux cotés». È atto solenne, firmato da cinque
consoli, e registrato nelle carte del parlamento britannico. E non importa se
il Willisen ebbe a spacciare che Radetzky diede una secca e aspra ripulsa ai
consoli stranieri, e fece significar loro ch'ei ben saprebbe ridurre al dovere
i ribelli: «man werde wissen die Rebellen zu Paaren treiben». Nè
importa con quale insolenza i generali affettino ora di parlare dei consoli che
furono testimoni dell'avvilimento loro: «anche i consoli stranieri si
mescolarono al combattimento; poichè debbono pur cacciare il naso,
ovunque siavi da far qualche imboglio: da sie überall die Nase haben müssen
wo es etwas zu verwirren gibt». Ah! in quell'istante era pure la sola
àncora di salvamento. E con quale ansietà Radetzky l'attendesse,
ben si palesa nella chiusa del suo dispaccio a Ficquelmont: «Le mie notizie
delle provincie sono poche e tristi; tutto il paese è sollevato; e anche
il popolo delle campagne è in armi; a due ore dopo mezzodì, l'armistizio
non è ancora conchiuso, poichè, sino a quest'ora, nessuno della
città mi si è presentato». La minuta della conferenza consolare
del 21 marzo conferma come Radetzky mirasse solo a ingannare i consoli e i
cittadini. Si assicurava, infatti, il passaggio dei
viveri (l'entrée et la sortie des personnes portant des vivres): il
passaggio dei corrieri (laisser passer les postes et les couriers): il
diritto di tagliare a pezzi i soccorsi delle provincie (se réservant
d'empêcher l'entrée en ville de la population des campagnes, et plus
particulièrement des personnes armées), e si preparava un'anticipata
scusa a improvise ostilità, ammettendo quelques coups de fusil isolés
qui pourraient étre tirés.
I
municipali ingoiavano l'esca avidamente. Parevano in perpetua congiura contro
se stessi e la patria; non avevano il minimo presentimento che il principe
potesse averli già consegnati al braccio militare. Miravano con obliquo
sguardo gli onesti oppositori che si adoperavano a ritrarli dalla prigionia e dal
supplicio. La lettera del giovine arciduca era chiara e precisa: «tutti i
prigionieri si dovevano fucilare»: «alle Gefangenen sollte man füsilieren».
Perocchè non si interponevano allora a favor dei ribelli secrete
stipulazioni di regio alleato, che potesse in faccia alli austriaci vantarsi
d'aver cooperato a rimettere in forza loro il paese; e che dovesse per
necessità d'onore, e anche con autorità di maggiori potenze,
patteggiar la salvezza de' suoi seguaci. Epperò il nefando diritto del piombo
e del capestro avrebbe avuto in Italia il campo atrocemente libero, come l'ebbe
colà dove soggiacquero Batthyany e Blum. Sarebbe dunque stato pietoso
nel sangue delli aborriti italiani, chi fu così spietato nel sangue de'
suoi?
In
aspettazione che la legge marziale desse arbitrio di metter mano sulla vita de'
grandi, s'infieriva tra le latebre del Castello contro i plebei.
«Incominciavano le esecuzioni militari: il giorno 20, ne scorgevamo passare un
dodici per il cortiletto, ove pare vi fosse una specie di consiglio. In un'ora
furono giudicati; uscirono in mezzo ad una turba di soldati furiosi e
imprecanti; e per la porta grande tratti nella terza corte. Scorsi pochi
minuti, ne giunse all'orecchio un funesto scoppio. Cadevano sul margine della
fossa del terzo cortile. Il 21, altri colpi, nel terzo cortile, ci avvertirono
che altre vittime cadevano».
La
sola necessità dell'esempio può scusare, s'è possibile,
l'uomo che trae l'uomo al patibolo. Ma un supplicio clandestino è un
vile omicidio. Ora dicano i fautori dell'Austria a cui fossero d'esempio quelle
morti, inflitte in secreto, per ignote colpe, a uomini che sparvero dal
consorzio dei viventi senza che alcuno sapesse se per crudele giudicio o per
caso di guerra. E un'altra dimanda facciamo. Entro, e intorno, a quelle orride
fosse in cui colavano le latrine del Castello, si raccolsero fra i molti
cadaveri alcune reliquie di membra feminili. Chi aveva ucciso quelle donne? Chi
sa i nomi dei cavallereschi officiali che sedevano a giudicarle, e a darle da
trucidare e mutilare ai soldati, e da gettare insepolte in luogo immondo?
E
ancora, fra le luttuose memorie, ci conforta che il nostro popolo ha le mani
pure di siffatte viltà.
I
più infervorati nell'armistizio erano Durini e Borromeo; il primo per
certi suoi cavilli che altri non saprebbe facilmente ritessere; il secondo
perchè s'era fitto in mente che entro 24 ore la città sarebbe,
senza viveri e senza munizioni. Gli rispondeva Carlo Cattaneo che l'armistizio
avrebbe rotto l'impeto del popolo, e dato agio al nemico di far macello dei
soccorritori; l'esempio apporterebbe contagio; uscirebbero nel primo giorno i
forestieri e i timidi; nel secondo i prudenti; nel terzo i valorosi. Il nemico,
che aveva fornito fin allora le munizioni, le fornirebbe ancora; se non
bastassero 24 ore di viveri, basterebbero 24 ore di digiuno: il nemico non
poteva reggere più a lungo sulla linea dei bastioni: e già
v'erano concerti di forzarla in quella medesima notte. Infine dovesse pur
mancare il pane, meglio morir di fame che di forca.
La
gioventù intanto fremeva; giunsero in solenne comitiva i consoli. Ed
ebbero dal Casati il rifiuto dell'armistizio, «in nome dei cittadini che
attualmente si adoperavano alla difesa della città, avendo il municipio
un'autorità limitata dalla forza delle circostanze». Così fu
risposto. I consoli scrissero a Radetzky che la sospensione d'ostilità,
ch'egli li aveva incaricati di proporre al municipio, non era accettata: «n'a
pas été acceptée». Lo pregavano di nuovo che consentisse un salvacondutto
ai loro clienti, in caso che dovessero correre più gravi pericoli. Gli
scrissero poi la dimane, a nome delle famiglie e dei prigionieri in Castello, i
quali si credevano assai maltrattati (fort mal traités); attestando che
i cittadini trattavano i loro prigionieri benissimo (parfaitement bien),
come poteva dire per prova l'officiale austriaco apportator della lettera.
Rispose Wallmoden scusando le circostanze, la penuria, le molte truppe
addensate in angusto spazio. Ma poteva ciò scusare le contumelie e le
percosse e le furtive uccisioni?
Pare
che Radetzky, tostochè, nel pomeriggio del quarto giorno, ebbe ricevuto
quella ripulsa, non pensasse se non a raccoglier d'ogni parte le sue forze e
accingersi alla ritirata. «Nella giornata del 21», scrive un officiale
austriaco, «vista la seria piega che prendevano le cose in Milano, spedì
il maresciallo uomini in tutte le direzioni con ordini espressi alle piccole
guarnigioni delle vicinanze e alle brigate che custodivano i confini, di
recarsi immediatamente sulla capitale. Forse sperava, rinforzato di nuove
truppe, di domare ancora il movimento; forse volgeva già allora
nell'animo la ritirata e ne preparava i mezzi. Il corriere di Magenta, vi giungeva
difatti la notte del 21 al 22». Un medico che fu prigioniero scrive: «Era
chiaro che il popolo acquistava ad ogni istante terreno; vedevamo uscire i
soldati a compagnie e ritornare a drappelli; uscivano furibondi e tornavano col
pallore sul volto, sozzi di sangue e feriti. Sdraiati nel fango sanguinoso de'
cortili, facevano orrido spettacolo. Radetzky doveva pensare alla ritirata; le
soldatesche affamate non avevano più fede nei loro capi; s'egli avesse
tardato ancora un giorno, avrebbero tumultuato. La fucilata si udiva sempre
più vicina; le palle ribattevano per le mura del Castello; alcune per la
loro grossezza parevano lanciate da piccoli cannoni. Il popolo, dunque, si
avvicinava; spesso ci pareva udirne il minaccioso ruggito. Il dì 20 e il
21, si vedevano già i cortili del Castello pieni di carri e di carrozze.
L'ordine della partenza era dato, poi rivocato». Narra un soldato italiano del
Geppert: «Dopo quarantotto ore, siamo tornati in Castello, il martedì;
maggior confusione; molti carri e carrozze; mucchi di bauli ed altri
preparativi di partenza; si condussero dentro buoi e vitelli, si ammazzavano,
si facevano in pezzi, si mettevano a bollire mangiandosi mezzo crudi.
Entrarono, urlando come bestie, alcuni croati; due o tre avevano infilzato sulle
baionette poveri bambini; alcuni dei nostri abbassarono le armi per andare a
punire i barbari. Eravamo tutti pallidi di rabbia. Si sentivano dappresso le
fucilate; un tirolese fa ucciso da una grossa palla di spingarda nel cortile
medesimo».
La
linea nemica era già quasi interrotta presso la Porta Tosa, ove si
combattè caldamente tutto quel giorno. Al di dentro, il popolo s'era
stabilito nel Conservatorio; di fuori, presso la stazione della Via Ferrata; in
quell'intervallo di
E
v'era chi aveva già pensato a usufruttarla. Finora non si pose mente, ma
col procedimento nostro di registrare per loco e tempo ogni fatto, non poteva
rimanerci inosservato come, nel proclamare la guerra d'Italia, precorresse a
ogni altro principe il granduca di Toscana: - «Firenze, 22: è
mezzogiorno; il popolo assembrato dinanzi al palazzo del commune, dimanda armi,
perchè vuol correre ad unirsi ai bolognesi, per salvar Modena e passare
in aiuto a Milano; il gonfaloniere invita i civici ad inscriversi presso il
rispettivo capitano; gli gridano: questo non è altro che un perditempo.
Il popolo s'adira; corre in piazza gridando: abbasso il ministero. Il ministro
parla al popolo: fra due ore partirà la truppa». Ed esce tosto un
bellicoso manifesto del granduca: - «Toscani! l'ora del completo risorgimento
d'Italia è giunta improvisa. Io vi promisi l'altra volta di secondare a
tutta possa lo slancio de' vostri cuori in circostanze opportune; ed eccomi a
tener parola. Ho dato gli ordini necessari perchè le truppe regolari
marcino senza indugi alla frontiera. I volontari che desiderano seguire le
regolari milizie, riceveranno un'organizzazione istantanea. Duolci che
l'egregio Collegno, a cui una improvvisa infermità tolse di spinger
più inanzi l'ordinamento dei volontari non possa oggi esser con loro.
Affretto colle mie premure la conclusione d'una potente lega italiana, che ho
sempre vagheggiata, e della quale pendono le trattative». Queste parole
dell'arciduca austro-italico sono piene d'ambagi. L'inviato britannico scrisse
da Firenze a lord Palmerston: «Qui l'aggregazione dell'intero Stato di Modena e
Parma alla Toscana si allega come un diritto incontestabile». - Diritto?
È ignoto ancora al mondo il titolo sul quale un tal diritto poteva
fondarsi. Il granduca, che aveva già conquistato Lucca, doveva dunque
stendere le sue conquiste sino al Po? Era forse un mezzo termine, per
accaparrare, nel nuovo ordine di cose, alla progenie austriaca il godimento di
Modena e di Parma? Era in accordo con Carlo Alberto? O era in conflitto con
lui? E qual era l'improvisa infermità che tolse all'egregio Collegno di
ordinare i volontari toscani, ma che non gli tolse di correre, poco stante, a
Milano a ordinarvi l'esercito del governo provisorio? Ludovico Frapolli, il
quale potè veder molte delle cose che allora si maneggiavano alle spalle
del popolo combattente, parla d'un regno d'Etruria, d'una lega di sei Stati italiani,
d'un appoggio chiesto alla Francia contro il futuro regno dell'Alta Italia. E
l'ammiraglio Baudin or ora rivelò come la casa di Toscana, parimenti col
favore della Francia, contendesse alla casa di Savoia anche il trono di
Sicilia. Ma questa essendo indagine che appartiene ad altro luogo, aggiungeremo
solo che il granduca, non appena ebbe annunciato, il 21, d'adoperarsi «pel
risorgimento d'Italia» e per secondare «lo slancio dei cuori», trivialmente
dichiarò, il 22, d'occupare i territori estensi «provisoriamente e in
linea di semplice presidio», considerando che la quiete e la sicurezza de' suoi
domini potrebbe essere compromessa dai disordini che quivi si manifestassero.
Questa bilingue politica del ministerio di Cosimo Ridolfi venne, indi a pochi
giorni, seguita dal ministerio di Cesare Balbo. Dicevano i fiorentini antichi:
tanto vale altri quant'altri.
Che
faceva tra sì repentine risoluzioni il comitato albertino di Firenze?
Favoleggiava che il regio suo patrono fosse già coll'esercito oltre
Ticino. La Patria con imperterrita audacia asseriva: «Il Piemonte si
rovescia sulla Lombardia; spedisce un corriere alla republica francese per
avvisare ad entrare di concerto; tenete per certo che Carlo Alberto è
entrato in Pavia; una lettera di Genova, giunta questa matina, porta a notizia
che quattordici battaglioni piemontesi e quaranta pezzi di cannone sono entrati
in Lombardia». E in data di Stradella del
E
il grande agitatore, Massimo Azeglio, che faceva intanto a Roma? Il 21, alla
prima novella della eruzione di Milano, migliaia di volontari «diedero il
nome»: era come al tempo dei consoli antichi: nomina dederunt. Un
testimonio di vista scrive: «Invano i moderati di qualunque paese, compreso
l'Azeglio, tentarono di frenare quell'impeto».
Nè
gli Azegliani di Bologna operarono altrimenti. «Al mezzogiorno (del 21),
l'antiguardo dei finanzieri condutto da Tanari passò il confine estense;
il rimanente con Zambeccari marciò indi a poco; e la compagnia di
Medicina, dopo una tappa di
Il
governo ducale era ovunque in rotta; insurgevano Guastalla, Pontremoli, Avenza;
ma rimase sventata la decisiva impresa che, prima del ritorno di Radetzky e
Daspre, potevasi in poche ore facilmente compiere dai battaglioni di Modena e
Bologna: l'occupazione di Mantova. Fu detto, che se erano certi d'entrare nella
città, non erano certi d'entrare in Cittadella e in Pietole. Nessuno lo
può dire; e ad ogni modo Cittadella e Pietole, senza la città,
erano due forti, e non una piazza d'armi e di rifugio per un esercito disfatto.
Quell'inazione degli albertini che abbiamo notata in Brescia e in Bologna, fu
manifesta anche in Reggio e Piacenza. Tutte queste città seguirono debolmente
i moti di Milano, di Roma, di Modena, di Parma, perchè già era
posta una delle secrete norme dei fusionari: alienare le provincie dalle
capitali: sedur quelle per costringer queste.
E
anche in Parigi, mentre col patto dell'Associazione Italiana erasi
accaparrata al Piemonte l'iniziativa, Gioberti scriveva per disviare da
quell'iniziativa il Piemonte, predicando «pacatezza, sedatezza, per amore del
cielo»; e all'uso gesuitico, infamava chi dicesse altrimenti: «ho buono in mano
per credere che l'Austria ha la sua parte in tali rumori; certe cose non si
possono sapere in Italia come a Parigi». Certo, a suo dire, quei valorosi che
si facevano uccidere sotto ai bastioni di Milano, erano pagati dall'Austria!
Senonchè il Piemonte aveva ben più autorevoli consiglieri. Abercromby
inculcava «la più stretta neutralità»; e dichiarava «funestissimo
errore il lasciarsi in alcun modo compromettere».
Per
le quali cose tutte, era ben da aspettarsi che nessun adunamento di truppe vi
fosse al confine. I reggimenti, se badiamo alla Gazzetta Piemontese, si
ebbero poscia a chiamare fin da Nizza, da Torino, da Genova. Il presidio di
Novara era di 1500 uomini; e ciò mentre gli Austriaci avevano tra il
Ticino e l'Adda, in un intervallo di due marce, sette brigate. Un reggimento di
cavalli ch'era a Vigevano inviò distaccamenti verso il Gravellone; i
quali insieme a qualche compagnia di fanti «tenevano indietro la gente
animosa», non volendosi «intervento legale»; e respingevano anche una
sessantina di lombardi che il maggior Peroni condusse da Genova. A Francesco
Simonetta fu intimato in Arona di consegnare le armi che aveva seco sopra un
battello a vapore; e si trovò modo che tornassero alle case loro certi
contadini novaresi che volevano accorrere a Milano a difendere i loro padroni.
Si avevano nella Lomellina solo «armi raccogliticce, grame, quasi inutili». I
volontari genovesi ebbero «a scappare colle armi della civica, che il
governatore aveva loro duramente negate». Il ministro Ricci ricusò un
centinaio di fucili al valoroso Torres; un assembramento che chiedeva armi in
Torino fu fatto disperdere dalla civica; solo pel Sonderbund si erano, senza
scrupoli internazionali, donate a migliaia le buone armi. I magistrati tenevano
a bada i popoli colla tarda amnistia, colla legge elettorale, con passeggiate
militari da Mondovì a Nizza, con arrolamenti di battaglioni futuri, coi
quali si legava la gioventù più fervida, e anco gli israeliti e i
forestieri. E si predicava che i genovesi non dovevano lasciar «senza forze» la
loro città; e che gli «ammogliati» dovevano restare alle case loro; e
che le navi inglesi avrebbero bombardato Genova, s'ella osava dar soccorso ai
ribelli di Milano. Infine si prometteva di fare, a giorni, un campo
d'osservazione; il quale, se non dava alcun aiuto ai combattenti, avrebbe, al
dir d'Abercromby, «il vantaggio di calmare il publico ardore».
Senonchè
l'efficacia del campo calmante di Cesare Balbo non poteva giungere oltre il
confine. E turbava i sonni costituzionali del ministerio quella nuda
alternativa che si era spedita, pochi giorni inanzi, da Milano, sopra mezzo
pollice di carta: o passate, o republica. E a questo motivo si riducevano le
infinite variazioni che i promotori della guerra facevano risonare alli orecchi
del re. «Se l'insurrezione vince, prima che la bandiera di Carlo Alberto
sventoli sui bastioni di Milano, questa costituirassi in republica,
collegherassi a Svizzera e Francia; e Milano non vorrà certamente
sottomettersi a chi non accorreva pronto quando l'ora dell'agonia pareva
sonata. Se la Francia anticipa i principi della penisola nel combattimento
della nazionalità, la gratitudine farà republicani i milanesi,
che il dolore e la speranza faceva costituzionali». Se adunque importava al re
di conformarsi umilmente alli imperiosi consigli britannici, importava eziandio
confortare i milanesi nella costituzionale speranza. Alla politica della mano
destra era mestieri fare la consueta altalena colla politica della mano
mancina. «Il conte Arese di Milano arrivò qui l'altra notte, (19), a
dimandar soccorso al Piemonte per gli insurti lombardi; egli vide i ministri
ieri matina, (20), e ripartì la sera per Milano, assai deluso del nessun
esito della sua missione; mi si afferma positivamente ch'egli non vide sua
maestà sarda». Così scriveva sir Ralph Abercromby a lord
Palmerston. Altri crede che Arese avesse veramente colloquio col re nelle
stanze del conte di Castagnetto; ma ciò non monta; poichè ad ogni
modo, finchè le sorti di Milano rimasero dubie, i soccorsi non vennero;
e Arese ebbe sì fiacche speranze, che non credè prezzo dell'opera
recarle ai combattenti; e si rivolse altrove.
Senonchè,
già prima ch'egli fosse arrivato a Torino, pare fosse di là
partito il conte Enrico Martini, che, passato il confine presso Magenta la
notte del 19, e giunto la matina del 20 presso Milano, vi si aggirò sino
al dì seguente, quando trovò modo di farvisi introdurre
travestito con quelli che apportavano in città il sale pei soldati. «Io
sono inviato di Carlo Alberto», egli asseriva; «trentamila piemontesi stanno al
Ticino, e attendono solo l'invito del governo di Milano per passarlo». A chi
era fra quelle angoscie, il desiderio faceva parere i soccorsi del Piemonte
sì certi e pronti, che, in quel dì 21, alcuno corse a riferire al
consiglio di guerra di averli veduti colli occhi suoi dall'alto dei campanili;
e il consiglio lo partecipò tosto al popolo: «La città è
attorniata di numerose bande venute da ogni parte, fra cui si vedono uniformi
di bersaglieri svizzeri, e piemontesi che hanno precorso i loro corpi che
passano il Ticino». Ma fuori le mura, il popolo, avendo ben altre notizie e pur
troppo certe, del Piemonte, fremeva; onde scrisse taluno alla Concordia,
il 21: «Scrivo al rimbombo del cannone; mi sento cascar l'anima pensando a quei
poveri infelici che si trovano in Milano; qui nel borgo bestemmiano contro i
piemontesi, perchè non portano soccorso; mi tocca parlar milanese,
perchè da ieri che aspettano i piemontesi, sarebbe imprudenza farsi
conoscere».
Martini
dimandò ai municipali che facessero invito al re, in forma di dedizione.
I municipali chiesero l'assenso del consiglio di guerra. Rispose questo: non
potersi donare il paese senza il voto del popolo: nè quelli esser
momenti di ritrarlo dalla battaglia a controversie politiche. A guerra vinta,
si vedrebbe. Darsi al Piemonte era porre in sospetto tutti gli altri principi.
E inoltre, come fidare di chi li aveva già traditi nel 1821? di chi li
lasciava, in quell'istante medesimo, sotto la mitraglia? Erano dunque contenti
d'essersi affidati nel 1814 alla casa d'Austria? Se l'Austria era straniera,
tutte le famiglie regnanti erano straniere, pronte tutte a cospirare colli
stranieri. Era necessario far guerra di nazione, chiamar tutta Italia. Se poi
un solo principe recasse soccorso, avrebbe egli solo la gratitudine dei popoli.
Dargli il paese era inutile; poichè sarebbe suo, s'ei vinceva; e se non
vinceva, non sarebbe suo, nemmeno se glielo dessero cento volte. E tosto il
consiglio presentò ai municipali, con molte firme di cittadini, una
dichiarazione che la città di Milano domandava il soccorso di tutti i
popoli e principi d'Italia; e la sparse anche al di fuori coi palloni volanti.
E scrisse altro appello a tutte le città, perchè costituissero
consigli di guerra, i quali lasciando ai municipi gli altri affari, attendessero
a questo unico; e dimandò a ogni terra d'Italia una deputazione di
baionette. Le ambizioni e le fusioni perdettero la guerra; una semplice
federazione militare l'avrebbe vinta.
Martini,
vedendo la incertezza dei municipali, sollecitava lo stesso consiglio di guerra
a costituirsi in governo provisorio per fare la dedizione a Carlo Alberto. «Sa
ella», diceva a Cattaneo, «che non accade ogni giorno di prestar servigi di
questa fatta a un re?» L'altro gli rispondeva e a voce e in iscritto, che
l'amore dell'indipendenza avrebbe fatto dimenticare la libertà, che la
parola gratitudine avrebbe fatto tacere la parola republica, ma che il re non
poteva esigere anzi tempo il prezzo d'un servigio che non aveva reso. Doveva il
Martini recar in Piemonte la risposta dei municipali quella medesima notte; fu
fatto condurre due volte al bastione di Porta Tosa ov'erano appoggiate le
scale; ma non volle uscire. Intanto verso l'alba del 22, il municipio
deliberò finalmente di dichiararsi, non sappiamo per mandato di chi,
governo provisorio. E nella successiva sera scrisse al ministro Pareto
accreditando presso di lui il conte Martini. Era strano quell'accreditarlo
presso coloro che lo avevano inviato. S'era inviato del re, doveva riportargli
in tal sua qualità la risposta dei municipali: non poteva svestire la
sublime livrea di suo messaggiere per ricomparirgli inanzi incaricato dei
municipali e «d'alcuni abitanti notabili», che invocavano l'aiuto delle armi
della sacra sua maestà.
Al
mattino del quinto giorno, in un avviso dei municipali si lesse: «L'armistizio
offerto dal nemico fu da noi rifiutato, ad istanza del popolo, che vuol
combattere». E più inanzi: «Questo annuncio vi vien fatto dai
sottoscritti, costituiti in governo provisorio, che reso necessario da
circostanze imperiose e dal voto dei combattenti, vien così proclamato».
Il voto dei combattenti era una millanteria; i combattenti non avevano votato.
E pochi momenti dopo, in altro avviso, si aggiungeva una perfidia: «I buoni
cittadini di null'altro debbono adesso occuparsi che di combattere. A causa
vinta, i nostri destini verranno discussi e fissati dalla nazione».
Il
governo era un'assurda compagine di due elementi, l'uno giovanile e ideale,
l'altro triviale e senile; il primo era in pugno al secretario Cesare Correnti,
il secondo al conte Giuseppe Durini. La mutua loro ripugnanza venne espressa
nel così detto Libro del Re, ove un capitolo, scortesemente
intitolato Umori del governo provvisorio, deplora che, togliendo pochi,
«i restanti membri del governo appartenessero alla fazione republicana». E
venne espressa dal Correnti medesimo con quelle veementi parole: «Orribile
supplicio è il mio, che dalla sfera del divino ideale sono trascinato
nella realtà dura e spesso schifosa». Così è; devoto a
domestiche aspettazioni, il governo, ove si eccettui il conte Borromeo, non
aveva nemmeno in sè l'elemento dell'opulenza; e quindi rappresentava gli
interessi piuttosto come servo, che come padrone. Ma esso era una
necessità; dacchè il patto che gli soggiogava l'incauta
gioventù, e ch'era parte d'altra più vasta transazione la quale
involgeva gli esuli e l'Italia, non si poteva in quei fatali istanti
infrangere, senza porre a repentaglio la commune salvezza. Era forza mietere
ciò che si era seminato.
Attratti
dall'autorità del nome municipale, altri cittadini gli si erano ordinati
intorno, il terzo, e il quarto dì, in vari comitati per provvedere ai
feriti, ai poveri, ai prigionieri e ad ogni altro presente bisogno. E si era
contraposto al consiglio di guerra un comitato di difesa, composto d'altri
elementi. Ma non ne nacque conflitto; anzi nel mattino del quinto giorno, si
congiunsero in un unico comitato di guerra. Si convenne che ne fosse preside
Pompeo Litta, l'unico dei membri del governo dal quale si potesse, senza
ripugnanza, dipendere. Tanta è in Italia la potenza delle tradizioni
municipali, che una congregazione nominata dall'imperatore e affatto estrania
ad ogni suffragio di popolo, parve il più opportuno e fido presidio del
popolo contro l'imperatore. E così avvenne in tutte le altre
città. Non si disse, a cose nuove uomini nuovi; ma, a cose nuove uomini
vecchi.
Nel
quinto giorno, Radetzky si accingeva alla ritirata: le truppe richiamate dai
confini si addensavano intorno alla città, incalzate al di fuori dalle
turbe campestri, affrontate al di dentro dai baldanzosi cittadini. Ogni moto
del nemico era esplorato dall'alto dei campanili, e riferito al comitato di
guerra con pronti avvisi, che si calavano dall'alto rapidamente, avvolti ad
anelli scorrenti sopra filoferro; e si apportavano da garzoni che Cernuschi
aveva ordinati a guisa di posta. In una di quelle carte scritte colla matita,
leggiamo: «Ore 12: molte truppe da Porta Vercellina si portano al Castello:
interi battaglioni». Era la brigata Maurer che giungeva dalla frontiera piemontese.
Nel corso del giorno tutte le caserme furono accerchiate dal popolo e occupate;
dappertutto si scoprivano armi e munizioni. I volontari dei dintorni
(cioè della pianura milanese) congiunti con altri che venivano da Crema,
da Soncino, dal Bresciano e dal Bergamasco «attaccarono la Porta Vigentina,
portando seco scale; alcuni salirono fin sul parapetto; ma l'ardito tentativo
di penetrare in città da quella parte non riescì». Il sommo
sforzo de' cittadini s'era rivolto verso la Porta Tosa, ove il nemico alla
volta sua rinovò forse cinque volte con truppe fresche il combattimento.
Fu quella una vera battaglia, sostenuta dall'alba a sera con indefesso ardore.
E non era posizione propizia ai cittadini, perchè, quartiere poco
abitato e senza esterno sobborgo, non porgeva ai combattenti colà venuti
aumento di forze. Era anzi opportuna alle truppe; le quali avevano inanzi alle
bocche dei cannoni una strada rettilinea, lunga mille passi e larga forse
cinquanta; e potevano attelarsi in doppia fronte sul bastione e sulla
circonvallazione, sulla via ferrata e sulla via di Crema, riparandosi nella
porta stessa, e in alcuni edifici dentro e fuori la città. Dicevano gli
avvisi: «Ore dodici: a Porta Tosa, fuori, molti de' nostri battono fortemente,
e i militari fugono precipitosi; aiutate i nostri e vinceremo. - Ore dodici e
un quarto: il nemico riparato nel Dazio e nelle case a mezzodì del
corso; due cannoni arrivati in sussidio al nemico obbligheranno i nostri a
ritirarsi dalla posizione vantaggiosa che occupavano. - Ore dodici e mezzo:
molta truppa e sei pezzi di cannone sono arrivati da Porta Orientale a Porta
Tosa; abbisogna su quel punto molto rinforzo». Verso mezzogiorno «le barricate
mobili eransi avanzate a tale che dall'ultima finestra delli edifici dell'ala sinistra
sventolava la bandiera tricolore; la cavalleria e la fanteria cominciavano a
ritirarsi, quando una batteria appuntossi verso l'orfanotrofio e il Corso,
vomitando incessantemente mitraglia e granate, che appiccarono il foco; i
nostri per un istante parvero cedere, già ardeva la prima barricata; due
morti, e quindici più o meno gravemente feriti». Luciano Manara scriveva
al comitato: «Siamo all'ultima casa, la nostra bandiera vi sta già
sventolata. Avremmo già vinto, se un poderoso rinforzo di linea e di
cannoni non fosse in questo punto arrivato; mi si dice che scarseggiano molto
le munizioni da fucile; mandatene; vinceremo o moriremo».
Le
difficoltà per tal modo, a Porta Tosa, crescevano d'ora in ora.
Ciò nondimeno i pochi che potevano allegare esperienza militare, si
ostinavano a continuar l'assalto in quel punto, e pei preparativi già
fatti, e perch'era il più vicino al cuore della città. A parer
loro non conveniva far punte, ma allargarsi equabilmente in tutto il circuito.
Assai più agevole sarebbe stato far forza nei quartieri più
popolosi, quantunque più remoti, ponendo la mira alli intervalli tra
porta e porta, ove il nemico non aveva spazio da accumular forze, nè
strade molteplici da pervenirvi. E perciò, senza distaccare, un solo
combattente dalle altre posizioni, Cattaneo potè, verso mezzodì,
interrompere al nemico la linea tra la Porta Ticinese e la Vercellina. «Gli
spazi erano affatto deserti; un denso fumo velava ogni cosa; era presso il
meriggio, e pareva sera. Non appena ebbimo fatto intendere che dovevano solo
spingere attraverso alla via carri e carrozze, che quasi per incanto balzarono
fuori d'ogni parte giovani armati; e ancor prima di chiuder bene que' ripari,
bersagliavano audacemente i nemici accosciati sul bastione. Qualche ora dopo,
il bastione veniva raggiunto alquanto più a tramontana, dalla compagnia
del cittadino Colombo». V'è qualche indicio che ciò sia bastato a
mutar tutto l'ordine della ritirata, essendochè un officiale scrive:
«Gli imperiali erano già limitati alle sole porte e a parte della linea
di circonvallazione; dico parte, dacchè quella, per esempio, da Porta
Vercellina a Porta Ticinese e vari altri pezzi erano già in mano delli
insurti». E l'opera publicata a Zurigo, e ricavata dalle carte dello stato-maggiore,
descrive in modo incerto la ritirata, non come si operò, ma come si era
disegnato operarla, se non vi fosse stato l'ostacolo anzidetto. «L'esercito si
mosse in cinque colonne; probabilmente due dalla parte di mezzodì, e tre
dalla parte di settentrione, seguendo una colonna il bastione meridionale, e
due il settentrionale o Corso; e tanto qui come là, una colonna il viale
di circonvallazione».
Cadeva
già la sera, quando i cittadini fecero l'ultimo sforzo a Porta Tosa.
«Chi ci comandava», narra l'operaio Biraghi, «era Manara: io banderale: e
Cernuschi rappresentante il governo provisorio; dietro a noi trenta uomini, tra
i quali i due fratelli Mangiagalli, Lochis, Vernay ed altri; dietro a questi,
trenta barricate mobili che già erano in moto. Arrivavano ai nemici sette
pezzi da sei, oltre quelli che già avevano; ma non arrivarono a
puntarli. L'artiglieria loro scarica; e noi, si va avanti. Arrivano le
barricate mobili; più di mille dei nostri fanno un foco
terribile; restano dietro ogni pianta tre o quattro soldati morti. Io allora mi
volto, e colla punta dell'alabarda apro lo sportello del Dazio, ch'era
semichiuso: e fuori. Con Manara ed altri siamo arrivati presso il Camposanto.
Non avendo trovato nessuno, siamo tornati. Tutte le case d'ambo le parti fuori
della porta erano in fiamme». Alla porta stessa appiccò il foco Manara
di sua mano, quasi per impedire che il nemico potesse chiuderla un'altra volta.
E poi lieti della vittoria, egli e i suoi, pensarono poter tornare in
città; e dietro loro, a onde, le turbe armate, che già da
più giorni combattevano fuori le mura. Era un impeto di curiosa
ansietà, che nessuno colà pensò con provido consiglio a
raffrenare. Intanto quell'angusto passo rimase aperto, dentro e fuori la città;
e il nemico, verso mezzanotte, potè farvi sfilare in doppia colonna, fra
le ruine delle ardenti case, i suoi battaglioni.
Nella
quinta giornata tutta la Cisalpina era in armi. Dal lago Maggiore giunse,
quella sera, a Varese la colonna di Luvino e Macagno; a Gallarate giunse da
Angera la colonna Simonetta. Ve ne giunse altra da Varese, di 800 uomini,
armata in parte coi fucili dei croati, e preceduta dai carabinieri ticinesi di
Ramella. Ancora 450 si accingevano a partir di Varese il dì appresso; e
il vecchio preposto d'Arcisate vi arrivò alla testa de' suoi, «a
cavallo, cinto di spada, inalberando fra le turbe giulive un immenso
crocifisso. Il giorno si chiuse fra gli inni a Pio IX e alla libertà».
A
Como, duemila armati, coi ticinesi d'Arcioni, assediavano presso Porta Torre
600 Varasdini e Prohaska; i quali bersagliati di fronte e di fianco, e
minacciati d'incendio e di mine, e privi di cibo da 36 ore, si arresero, con un
colonnello, tre capitani e la bandiera d'un battaglione. «Uscirono inermi i
soldati, comandati dai loro officiali, e schierati nella piazza attendevano gli
ordini dei rappresentanti del popolo. Si dispose che a ciascun soldato si
somministrasse pane e vino!». Il municipio, senza attender tempo, esortò
gli armati al soccorso di Milano: «Noi abbiamo oggi raggiunto i nostri voti, e li
avremo compiti, quando sarà cessato l'assedio dei fratelli di Milano;
l'accorrere in loro sussidio è dovere, non restando altro a
raccomandarsi fuorchè di non frapporre ritardo».
A
Sondrio, il 22, le truppe consegnarono al podestà il castello, con tutte
le armi; la Val Tellina rimase tutta libera, sino al confine del Tirolo. La
strada militare era già intercetta sulle dirupate rive del Lario; quivi
si ordinarono tosto a custodia «800 armati di fucile, e 18 cannoncini di
montagna coi loro artiglieri; e su tutte le alture vennero ammucchiati sassi, e
assegnati i posti a quelli che non avevano fucili, e furono ordinati in corpi
di lapidatori». Una colonna di Lecco era già oltre Monza; e congiunta a
quei cittadini, e ai drappelli di Merate e d'altre terre della Brianza, «la
sera affrontò le palle del nemico lungo la linea dei bastioni; si vide
cadere a lato il valoroso Borgazzi; e per mezzo a incessante moschetteria,
entrò in città per Porta Comasina».
A
Bergamo, anzi l'alba, tra il favor delle tenebre il nemico aveva sgombrato una
caserma, «scalando muri per di dietro», e abbandonando morti e feriti, che il
popolo irrompente portò all'ospitale. Nel corso del giorno, la guardia
della Polveriera si disperse per la campagna; e vennero derelitte tre caserme,
raccogliendosi i superstiti 1200 uomini in una sola; d'onde, qualche ora dopo
mezzanotte, scesero nella valle a settentrione della città, che come
contraria alla direzione del nemico, i cittadini non custodivano. E di
là, con lungo giro, varcato il Serio, poterono mettersi in cammino verso
il convegno generale delle truppe presso Crema, sebbene perdendo uomini e robe
«ad ogni passo, per molestia di chi li inseguiva e delle popolazioni che
alzavansi in ogni dove». Accorrevano a Bergamo armati delle valli Brembana e
Seriana.
Occupato
il passo del Tonale, abbandonata Rocca d'Anfo, restarono libere sino al Tirolo
anche le valli sopra i laghi d'Isèo e d'Idro. Ma il popolo di Brescia
non sapeva sferrarsi dalle pastoie de' facendieri azegliani. Il nemico
attendeva intanto da Verona un convoglio d'artiglieria; presso Rezzato, gli
abitanti di quelle terre, alle 10 del mattino, lo accerchiarono e lo presero,
con tutta la scorta di 180 soldati e officiali. In quel momento gli usciva
incontro uno stuolo di dragoni; altri dragoni scorrevano la città; una
batteria, fuori Porta Torrelunga, gettava palle e granate; la fanteria stava
pronta inanzi a' suoi quartieri. Ma in pochi minuti «tutte le vie furono
barricate; si trassero dalle chiese tutti i banchi; le donne e i fanciulli disselciarono
le strade; al tocco delle campane accorreva gente dai villaggi. Una compagnia
d'italiani, mentre veniva condutta a chiudersi fra i battaglioni del reggimento
Hohenlohe, corse tutta armata a porsi dinanzi al palazzo municipale sotto la
bandiera della città. Un combattimento a foco vivissimo durò
quasi un'ora; molte perdite si fecero d'ambo le parti, esposti com'erano i
bresciani a mitraglia incessante». Il popolo s'impadronì dell'arsenale e
di due caserme, condusse molti prigioni al municipio; Michele Busoni e Carlo
Scrittore arrestarono alla testa d'un battaglione il maggiore Wimpffen.
«Schwarzenberg e l'arciduca Sigismondo furono veduti fuggire scompigliati, e il
secondo senza cappello in testa, attraverso gli orti, scavalcando le siepi».
V'ebbero più di 45 cittadini feriti o uccisi; tra i quali, crudelmente
trucidati in una caserma, i due prigionieri Bertolini e Segalini «si trovarono
inchiodati colle baionette sul tavolato, con un rosario al collo».
Ma
Longo e Mompiani, che s'erano fitti in capo di proteggere dall'impeto del
popolo il nemico, publicarono verso sera una convenzione da loro conchiusa.
Dicevano: «che ad oggetto di risparmiare il sangue cittadino e quello
dell'austriaca guarnigione, essi, colla mediazione del cavalier Breinl, avevano
convenuto col principe Schwarzenberg che la guarnigione uscirebbe dalla
città e dal castello con tutti gli onori militari. Le porte della
città rimarrebbero chiuse fino all'alba». Temevano forse che il popolo
desse ai nemici troppo affettuoso saluto? Intanto dichiaravano «cessata
l'austriaca dominazione e proclamato il governo provisorio. Cittadini! ora non
avete altro debito che quello di rispettare la guarnigione austriaca». E in una
circolare alle communi, anzichè dar loro alcun bellicoso impulso,
dicevano: «proclamato il governo provisorio, mantenete la quiete; attendete gli
ordini del capoluogo cui appartenete». Il conte Tartarino Caprioli spinse il
delirio della quiete sino a sfoderare la spada contro il popolo in difesa d'un
officiale.
Dacchè
volevano risparmiare il sangue, dovevano patteggiare che il presidio si
avviasse al Tirolo, seppure era a riporsi fede in siffatte promesse. Ma quando
chiudevano le porte al popolo della città, e ingiungevano la quiete al
popolo delle campagne, potevano concedere al nemico di mettersi impunemente per
la via di Crema? concedergli di marciare al soccorso di Radetzky? allo
sterminio di Milano? Se, in luogo di servire alla causa italiana, avessero
voluto servire all'Austria, avrebbero potuto operare altrimenti?
«La
matina del 22, si trovò Cremona libera affatto dalli armati stranieri».
Avevano i cittadini una batteria campale, avevano due battaglioni di fanti, e
tutte le forze della città e del contado, e quelle che potevano trarre
dalla riva piacentina del Po; avevano il forte di Pizzighettone con artiglierie
e munizioni; potevano tener quel passo dell'Adda. Potevano, rimontando
immantinente per la sinistra il fiume, tentar di raggiungere il ponte di Lodi;
era solo trenta miglia lontano di Cremona; e il ponte di Lodi era fuori della
città; e, questa aveva presidio d'un solo battaglione italiano e poca
cavalleria. Che fecero i moderatori azegliani di Cremona? Altro non curando che
di assicurare le loro persone, fecero trasferire da Pizzighettone a Cremona 200
soldati italiani, 700 casse di munizione e le artiglierie; lasciarono quelli
abitanti in arbitrio del nemico. E così Benedek, uscito di Pavia verso
mezzanotte del 22, ebbe agio di giungere a Pizzighettone il 24, ristorarsi a
spese delli abitanti, passare agiatamente quel ponte dell'Adda, con una
batteria, e congiungersi sull'Ollio a' suoi commilitoni, quivi pervenuti
felicemente da Brescia.
Ora
facciamo il caso, che al primo lampo dell'insurrezione non fossero mancati gli
avvisi dall'improvida Milano; che in ogni città un comitato di giovani
avesse chiamato con audace appello alle armi il popolo di tutto il territorio;
che avesse sorpresi in subitaneo ostaggio i capi civili e militari: amicati
francamente i battaglioni italiani: affamato immantinente nelle caserme
quell'uno, o quei due battaglioni di soldati stranieri, che stava in ogni
provincia, con quanto v'era qua e là di cavalli e di cannoni. Facciamo
il caso che per tal modo i cremonesi, anzichè trovarsi liberi il quinto
giorno alla matina, e i bergamaschi e bresciani la sera, avessero sollecitato
d'uno o due o tre giorni; e che coi battaglioni italiani di Sigismondo,
dell'Alberto, del Ceccopieri, del Haugwitz, e le batterie di Cremona e Brescia,
e il popolo delle città e del contado, si fossero precipitati con ogni
maniera di veicoli e d'armi verso i ponti dell'Adda, dai quali Bergamo e
Cremona erano lontane
Scese
la quinta notte. Era «una terribile risoluzione» (ein furchtbarer Entschluss);
ma era necessità lasciar Milano. Le brigate Maurer e Strassoldo si erano
riunite. «I generali Clam e Wohlgemuth, che avevano diroccato ogni casa presso
i bastioni, proteggevano la marcia; presso la Porta Tosa e Romana tutto era in
fiamme. Alle 9, tutti (gli altri) corpi furono al loro posto; erano 14
battaglioni, sei squadroni e tre batterie, con una sterminata quantità
di carriaggi; quivi le truppe aspettarono per due ore in perfetto silenzio;
molti e molti soldati cadevano per terra spossati dalla fame e dalla
stanchezza». Al dir d'un prigioniero, «è impossibile descrivere al vero
la confusione di quella notte; i soldati erano affollati nel cortile; si udiva
il crepito delle fiamme che ardevano mucchi di cadaveri, lo scàlpito dei
cavalli, il rumore delle rote; udivamo gridar l'ordine della marcia. Intanto a
coprire quella ritirata, il cannone andava sempre più infuriando. Il
cannone a poco a poco si fece lontano; cessò il trambusto nei cortili».
Al dir d'un officiale: «Le truppe, spiegate in colonna, furono messe in marcia
alle undici; tennero la linea dei bastioni sino a Porta Tosa (una parte solo
sino a Porta Orientale). Il maresciallo Radetzky escì dal Castello in
una carrozza tra un battaglione e l'altro. Alli sbocchi delle vie erano
collocati altri cannoni, che tiravano continuamente entro la città; i
soldati, distesi in catena per tutto lo spazio, scaricavano anch'essi i loro
fucili. Il continuo fragore, le grida che si udivano dall'interno, le campane
che sonavano a stormo, le tenebre illuminate qua e là da un incendio,
formavano un terribile spettacolo, che non potrà mai essere cancellato
dalla memoria». «Molti dei cittadini accorrevano a tribolare il nemico. Al di
fuori, i montanari si aggrappavano sulli alberi e sui tetti delle case per trar
di piano sul bastione; gli assidui colpi cingevano la città d'un
semicerchio scintillante. Col mutare del vento, udivasi, ora più da una,
ora più da altra parte, il battere a stormo dei sessanta campanili
oramai tutti liberi. Alla fine il nemico fugiva; quei cinque giorni gli erano
costati quattromila uomini; di quattrocento cannonieri erano avanzati cinque;
l'artiglieria era data da condurre ai cacciatori tirolesi». «La carrozza di
Radetzkv era imbottita di paglia e altro, in modo che da lungi paresse un
forgone». E si lesse nell'Allgemeine Zeitung la confessione d'un
officiale, che «nessuno potè recar seco se non ciò che aveva
sulla persona; Radetzky salvò a stento le sue decorazioni; e dovette
marciar via con quattro lire (mit vier Zwanzigen abmarschieren). I
più delli officiali avevano i loro cavalli in casa, nonchè i loro
uniformi; perdettero tutto, e partirono senza mantelli».
Il
capo dello stato-maggiore Carlo Schönhals, uscendo dal castello ad un'ora dopo
mezzanotte, commise per iscritto a un capitano delle guardie di polizia, in
nome del maresciallo, la cura dei feriti, delli infermi e delle famiglie
tedesche derelitte in Castello; si lusingava avrebbe il suffragio del nuovo
governo, il quale «a questo modo inizierà», egli scriveva, «il suo
potere con atto di sublime e magnanima e santa filantropia». Senonchè,
sotto la penna di codesto notorio instigatore delle soldatesche, pareva
più che altro una derisione.
Dei
cittadini prigionieri, alcuni furono trascinati a piedi coll'esercito; alcuni
lasciati addietro. «Da prigionieri, ci trovammo padroni del Castello e dei
nostri nemici. I feriti, al vederci, si mostravano atterriti, temendo di essere
scannati. Venne il mattino; un animoso popolano scalava il muro del Castello,
la cui porta era ancora chiusa; e salito sul torrione vi piantava la bandiera
tricolore. Entravano i liberatori, incerti della nostra sorte, e lieti di
trovarci vivi. Ma non tutti. Alle grida di gaudio si mescevano gemiti dolorosi;
le fosse rosseggiavano di sangue; nei cortili, luridi di fango e di ceneri,
giacevano ossa abbrustolate, membra tronche sporgevano dal terreno smosso. In
un orto, sette cadaveri d'uomini, mezzo spogliati, e barbaramente insultati e
mutilati; due gambe di diversa dimensione, e che dalle forme apparivano
feminili; in un'aqua corrente attigua, molte membra. Tanto apparvero sformati i
visi e le membra delle vittime, che fu impossibil cosa il ravvisarle. Non era
occhio che rimanesse asciutto».
La
ritirata del nemico era difficile. «Piante abbattute, sparsi materiali di
barricate, cadaveri di borghesi e di militari impedivano a ogni tratto il
libero passo. Il cedere dinanzi alla borghesia armata era d'insopporlabile
avvilimento ad officiali e soldati: si abbandonavano ad ogni eccesso, guastando
ed incendiando quanto loro veniva per le mani. Il sentimento dell'odio non
faceva tacere quello della paura. Un cavallo d'un gendarme preso da spavento,
essendosi cacciato in mezzo a due battaglioni che marciavano in colonna
serrata, assaliti da pànico timore, si gettarono in disordinata fuga per
la campagna. Di tale scompiglio, seppero approfittare molti italiani per
disertare. La strada era frequentemente tagliata da fossati di formidabili proporzioni.
Nel villaggio di San Giuliano si fece foco sulla truppa da più case, e
ripetutamente. Quasi tutte le abitazioni vicine al passaggio delle truppe erano
abbandonate; ed i corpi che le perlustravano facevano bottino di quanto
potevano portar seco; in particolare i croati; ben pochi di questi che non
avessero il loro fardello, quandanche non fosse che di cenci. Ad un'ora dopo
mezzogiorno giungeva finalmente l'avanguardia a poca distanza da Marignano,
dopo aver percorso, in quattordici ore di cammino, soltanto dieci miglia
communi di terreno».
«Con
poco lavoro sarebbe stato facile impedire affatto l'accesso delle truppe a
Marignano, senonchè nessuno poteva imaginare che Radetzky scegliesse per
la ritirata una strada ch'è la meno diretta, e che per la perdita di
Pizzighettone e Cremona era da due giorni già quasi intercetta; e
inoltre, era lontana solo una posta da Pavia, confine piemontese già
tutto pieno di corpi franchi». L'ala destra si diresse per Landriano,
cioè per quella medesima via che poi Radetzky tenne, nell'anno seguente,
per recarsi a Mortara. Se l'esercito piemontese fosse accorso in aiuto di
Milano, e fosse sboccato in doppia colonna da Pavia, vi si sarebbe incontrato.
Ciò dimostra che Radetzky, forse per notizia avuta dal confine col mezzo
di Benedek, si riputava, da questa parte, sicuro.
Gli
abitanti di Marignano non potevano credere d'avere inanzi a loro l'avanguardia
dell'intero esercito; la credettero un'orda di famelici predatori: dissero che
non avrebbero dato loro i viveri, se non consegnavano le armi; arrestarono i
due officiali ch'erano venuti a farne richiesta; ma non fecero altra
ostilità. Tutti gli armati del paese erano accorsi sotto le mura di
Milano; gli altri erano inermi. Ma il maresciallo ne prese pretesto a esercitare
un'atroce vendetta, mettendo a ruba, a foco e a sangue tutto il paese. Poi si
vantò d'aver dato un esempio. E l'autor di Custoza per poco non
gliene fa plauso. Esempio? di che, se non d'inutile ferocia? E l'esercito era
omai senza disciplina. «Si giunse dopo mezzodì a Marignano; alcune case
bruciavano, tutte le botteghe spalancate, saccheggiate e guaste; pieno di
carriaggi e carri da per tutto; sdraiati per terra tedeschi ubbriachi. Nessuno
più comandava, nè obbediva». - «I soldati, che per la fame si
resero più presto ubbriachi, si uccidevano anche tra loro nelle cantine
e nelle strade; ammazzarono anche una delle loro donne. Stava Radetzky seduto
sull'unico avanzo di parapetto che rimaneva del ponte; e si era posto
colà per far animo ai soldati, i quali vedendo il ponte sconvolto, si
erano messi in capo che fosse minato; e tra indisciplinati e ubbriachi
ricusavano d'andare inanzi. Fatta notte, tutte le strade erano ingombre di
soldati che giacevano alla rinfusa, quando si destò un improviso
allarme. Lo sgomento fu tale, che certi officiali pagatori che si erano messi
nell'osteria di San Giorgio, fugirono a rompicollo, lasciando aperto sulla
tavola un sacco di napoleoni d'oro. Tutto quello scompiglio provenne da una
squadra di poliziotti, ch'erano rimasi all'estrema retroguardia, e che
incalzati dai fucili dei cittadini, arrivarono colà, correndo a tutta
lena».
Tale
fu l'aspetto vergognoso del disfatto esercito per tutti quei sedici giorni che
spese a percorrere faticosamente le cento miglia che sono tra Milano e Verona.
«Gli avamposti erano continuamente allarmati dalli spari delle vedette, cui
pareva d'essere ad ogni momento attaccate dal nemico». Così un
officiale; e un altro, nell'Allgemeine Zeitung: «Non si poteva veder
cosa più desolante che il passaggio per Crema. Carri pieni di feriti;
qua un dragone con un berrettone di fanteria; là un cannoniere coll'elmo
d'un dragone, o con abito cittadino; là un altro senz'abito. Tutti, per
la disastrosa pioggia e il pernottare all'aperto, pieni di fango e di sangue. Non
si conosce quasi più il colore d'alcun uniforme. I nostri cavalli da
molti giorni non videro avena. Radetzky e molti veterani dicono che in nessuna
guerra si vide mai cosa simile». Ma la guerra di popolo era già finita
all'Adda. Vegliava a salvamento dell'informe orda straniera il governo
fusionario di Brescia, che aveva predicato ai popoli la quiete e il rispetto
alli austriaci. Solamente, tratto tratto, gli indocili volontari infrangevano
il santo precetto. «Una colonna volante di volontari», dice il succitato
officiale, «avevano attaccato una divisione del reggimento ulani Imperatore, ed
un mezzo battaglione di croati; del quali avendo uccisi parecchi, costrinsero
il resto a ripassare il Chiese. Continuavasi a' fianchi dell'esercito il
servizio di grosse pattuglie e ricognizioni; e nel giorno 2 aprile, mentre
eseguivasi dai nostri questo servizio, incontratisi in un distaccamento nemico,
furono fatti prigionieri due lancieri piemontesi. Fu allora che si ebbe
certezza di avere a fronte truppe regolari; il che faceva dire ai croati che
colli insurgenti eranvi anche soldati francesi, mentre non chiamavano italiani
che i soli corpi franchi. Il maresciallo, il 5, recossi a Verona, mentre le sue
truppe non vi giunsero che parte il 6, parte il giorno successivo. Incendii,
saccheggi, uccisioni d'inermi contadini furono commessi a Chievo, Croce Bianca,
San Massimo, Santa Lucia».
Ignaro
il maresciallo degli aggiramenti politici dell'Italia, attribuiva la quiete dei
popoli, oltre Adda, all'esempio di Marignano. «Il terrore che la sorte di
Marignano diffuse sui passi del maresciallo ebbe il più salutare
effetto; non gli si parò più inanzi alcun altro ostacolo». Ma
è tempo oramai che si sappia quali sono le persone e le cose che furono
salutari al nemico, e rimossero ogni ostacolo alla sua fuga.
«E
disegno del maresciallo», dice il succitato documento inserito nella Gazzetta
Viennese, «era di stabilirsi dietro l'Adda; chiamare a sè tutte le
truppe disponibili; riaprire le communicazioni colle fortezze, e poscia assalir
nuovamente Milano. Ma colà riseppe il precipizio delle cose di Venezia,
lo sgombramento di Brescia, e la defezione del presidio di Cremona. Il
suindicato disegno perciò non era più praticabile; e fu
necessità rinunciare all'Adda (und die Adda musste aufgegeben werden)».
In altra scrittura, pur d'origine officiale, si aggiunge: «Se siam bene
informati, non era mente del maresciallo di ritirarsi se non all'Adda; solo gli
inesplicabili eventi di Venezia (die unbegreiflichen Ereignisse in Venedig)
lo costrinsero a mutar consiglio. Da una lettera intercetta egli riseppe che
Mantova non era ancor soggiaciuta interamente alla rivoluzione; e rapidamente
egli gettò una divisione dell'esercito in quella importante fortezza».
Questa rapidità era però quale le circostanze la consentivano;
poichè solo il decimoquarto giorno della rivoluzione, l'undecimo della
ritirata, quelle truppe ebbero percorso le
Non
fu senza un accordo calcolato che i giornalisti d'Italia e quelli d'Oltralpe
anticiparono univoci la guerra del re, inventarono numero e nome dei
battaglioni, e li descrissero, alla tal ora e al tal giorno, in atto d'entrare
per le mura, a salvare un popolo temerario, che si era posto in un pericolo
superiore alle sue forze, e che da quel momento fu condannato nell'opinione
dell'Europa a infinita gratitudine verso i suoi redentori, a cieca fiducia, ad
abietta rassegnazione. Gli adulatori magnificarono immensamente tuttociò
che il popolo non aveva fatto; e vilipesero tanto l'opera sua, ch'ei quasi
ormai sorrideva di quel suo sogno d'aver vinto, anzi d'aver combattuto.
Campione delle barricate divenne sopranome faceto. Si commise alli scribi regii
di renderlo odioso. «I professori di barricate, visi incancreniti dai vizi e
dalla lussuria», scriveva l'ignobile Ciro D'Arco. E domandava: «debbo io
ripetere che lo stesso movimento di ritirata di Radetzky - non fu determinato
che dal movimento delle truppe piemontesi?». Il nemico non si era ritirato
avanti a chi lo incalzava colle carabine e colle barricate mobili: a chi gli
aveva tolto i forni da cuocere il pane: a chi aveva atterrati, ad uno ad uno, i
suoi cannonieri e spento il foco de' suoi cannoni: e tratti i Varasdini e i
Prohaska a sfilare senz'armi al cospetto dei rappresentanti del popolo: e
strappata dalla lettiera del maresciallo la sua sciabola: e costretto
l'italivoro Schönhals a raccomandare le donne tedesche alla santa filantropia
della canaglia latina. Ma si era dileguato inanzi allo spettro militare che
torreggiava immoto e ginocchione sull'ossario di Superga.
Dopo
gli stipendiati della Presse, della Patria e del Risurgimento,
vennero i Xenofonti, vindici dell'arte bellica e dell'onor del mestiere; e ve
n'ebbe di tedeschi e d'italiani e d'altre razze; ma non si scorge fra loro altro
divario. Il popolo cisalpino, a detta loro, non era degno di vincere,
poich'egli era politicamente nullo; e se mostrò d'aver sangue nelle
vene, ciò torna a lode de' suoi padroni, la cui clemenza non lo aveva
perfettamente evirato: «toute insurrection triomphante est comme une
espèce de témoignage en faveur de l'oppresseur» (Custoza, p.
16).
Dunque
se Radetzky fu vinto dal popolo, non dite viva il popolo, ma viva Radetzky!
Anche sulla tomba di Marco Bòtzari non si dica viva la Grecia, ma viva
la Turchia. E così si stampò che Radetzky era sempre stato uomo
assai popolare: «ein sehr populärer Mann»; e che si minacciò
d'ucciderlo a tradimento: «mit Meuchelmord»; ma egli, egli, aveva
«vietato ai soldati di far foco». Fu il popolo che gli fece una «odieuse
surprise», camminando in processione dalla casa municipale fino al bastione
di Monforte; ma egli fece trarre il cannone d'allarme solamente due ore dopo
che le carabine tirolesi, dalle aguglie del Duomo, colpivano nelle interne case
fanciulli e femine, e la cantante tedesca Maria Moll. Anch'egli, come Oudinot
il 30 aprile, non fu vinto da un popolo nostrale, ma da un esercito di
stranieri, che il barone Torresani aveva lasciato impunemente accampare in
Milano: «una turba di bersaglieri, parte dalla Valtellina, parte dalla
Svizzera, parte dal Piemonte e dalla Francia, che a poco a poco si erano fatti
venire in città, furono quasi i soli che col loro foco danneggiarono la
guarnigione; il resto della gente tirava solo di nascosto dalli spiragli delle
finestre». Broggi non potè cadere al ponte di Monforte, nè
Borgazzi in aperta campagna, in faccia al bastione; ma dovevano esser tutti a
casa loro, a far capolino dalle finestre. Non è vero che il popolo
portasse i feriti nemici all'ospitale, o confortasse con «brodo» e con «pane e
vino» i prigionieri. «Furono con vergognosa crudeltà scannati dalla
plebe, sotto gli occhi dei loro compagni, dopo che erano caduti da cavallo». Il
barone Diesbach s'ingannò quando scrisse a sua madre che il popolo lo
trattava bene; e il conte Bolza va errato assai, s'egli crede d'aver avuto
salva la vita. Il conte Pachta fu perfettamente spogliato: vollkommen
ausgeplündert; e la contessa Spaur fece un aureo sogno quando
s'imaginò che Oldofredi e Busi le avessero recato la cassetta delle
gioie: die kleine Cassette. Se il croato e il boemo recisero i piedi
alle donne e si posero in tasca le tronche mani colle annella sulle dita,
s'entravano trionfanti in Castello, alla vista dei loro generali, coi bambini
confitti sulle baionette, non era barbara vendetta dei loro disastri, ma un
poco d'alacrità e di slancio «per essere stati vittoriosi dovunque, e
aver preso d'assalto una casa dopo l'altra». È falso che il maresciallo
avesse necessità d'armistizio, per dar fiato alle sue truppe, e
avviluppar meglio i cittadini, e applicar poi loro la polvere e il piombo della
legge marziale; è falso che avesse perciò mandato al municipio il
maggiore delli Ottochani, e che nella conferenza coi consoli avesse egli
proposto di cessare dalle ostilità; erano i consoli che al loro uso
volevano ingerirsi d'ogni cosa; e il maresciallo aveva dato loro una secca
ripulsa, e nemanco di persona, ma per mezzo d'un subalterno: durch General
Schönhals. Se in procinto di ritirarsi, faceva incendiare le case a
dozzine, e ne faceva sterminare gli abitatori, era opera pia, «per salvare una
comitiva di donne e fanciulli e impiegati, che fugivano il furore del popolo
italiano».
Anzi
vi fu in Coira chi scrisse che, nella notte dal 22 al 23, «si tirò dal
Castello sulla città con un sol cannone, e solamente a polvere; che una
divisione, partendo, attraversò, per mezzo, tutta la città, senza
ostacolo». E non furono i soldati che pel solo scorrere «d'un cavallo si
gettarono in disordinata fuga per la campagna»; ma il popolo fu messo in rotta,
dice l'autor di Custoza, «par un simulacre d'attaque générale, au
moyen d'un feu terrible d'artilleire, qui répandit quelque temps l'épouvante».
Il
numero delli austriaci in Milano fu solo di dieci mila; «une douzaine de
mille hommes», scrive alquanto più generoso il Custoza;
quattordici mila «soltanto», scrive ancor più generoso il così
detto Ciro d'Arco. Come mai Radetzky nel suo rapporto potè imaginarsi
che fin dal quarto giorno fossero 16 battaglioni (mit den hier
konzentrierten 16 Bataillons und 6 Eskadrons mit 30 Geschützen)? Come mai,
in procinto di ritirarsi, potè adunarne 14 dietro il Castello (hinter
dem Kastell), senza annoverare le due brigate (probabilmente altri 8
battaglioni e 12 cannoni) che occupavano frattanto i bastioni e il Castello? Se
i battaglioni erano veramente 16 più 8, cioè ventiquattro,
dovevano ben fare, tra vivi e morti, a 1140 uomini per battaglione, assai
più di 20 mila uomini, e aggiungete le altre armi; aggiungete che, a
detta dell'anonimo di Zurigo, «sembra che i generali dimenticassero i posti
della guardia di polizia, forse perchè non era incorporata
nell'esercito; e queste truppe italiane rimasero fedeli alla consegna,
finchè non dovettero cedere alla forza prevalente che le stringeva».
Tuttavia, «si quelque chose doit surprendre, c'est que cette armée n'ait pas
été entièrement écrasée»; lo dice l'autor di Custoza, il
quale deve avere una portentosa stima della forza del popolo. E come salvarsi i
soldati, quando «ovunque si mostrassero», scrive l'anonimo di Zurigo, «pioveva
acqua bollente e perfino olio bollente (siedendes Wasser, selbst siedendes
Oel)?». Che valeva la mitraglia dei 42 cannoni da campo e delli altri che
stanziavano in Castello e sulle piazze, contro l'acqua bollente? Oh quanto olio
ci volle per friggere ventiquattro battaglioni e sei squadroni, mit
Geschützen - Siffatte scempiaggini potè dettar l'odio del popolo e
il disprezzo della verità!
E
infine, ch'era mai codesto popolo, se non lo strumento venale d'una
nobiltà capricciosa? Così stampò il general Willisen,
notorio nemico d'ogni venalità. E di tal modo, alle imposture della
casta militare, che in Prussia, e anco in Italia, si reputava mallevadrice alla
gloria dei confratelli austriaci, si collegarono le millanterie dei signori e
le adulazioni dei loro guàtteri. E si posero a credito delle loro
eccellenze tutti i pericoli e i consigli del combattimento, il quale «non fu
capitanato (was not headed) dai Ledru-Rollin, e dai Louis Blanc, ma dai
magnati del paese (the greatest in the land). E il conte Pompeo Litta
Biumi, il solo tra i membri del provisorio che i combattenti andarono a
invitare e prendere in casa sua, non era un letterato di modeste fortune; ma
Creso di Lidia, il duca di Devonshire della Lombardia». Queste favole si
facevano stampare in lettera a lord Palmerston. Il quale lord Palmerston,
sapendo che il duca di Devonshire ha un patrimonio di cento milioni di franchi,
concepiva così un'idea molto adeguata delle cose nostre.
Noi
dimandiamo alla Croce di Savoia a qual ordine di cittadini appartenessero,
e di quale opinione poi si manifestassero, coloro che consegnarono entro «la
cinta» di Forte Urbano il battaglione civico di Bologna, e con minacce
richiamarono da Modena i finanzieri e i dragoni; coloro, che in Cremona, in
Brescia, in Mantova, in Verona, vietarono ai cittadini di mostrarsi
«illegalmente armati»; e alla plebe che voleva «armi e battaglie» gettavano
pane e denaro; e «convenivano coll'autorità militare che si levassero le
barricate»; e alla nuova dei tremendi pericoli di Milano, predicavano a'
cittadini d'aspettare, in coccarda bianca e piuma bianca e sciarpa bianca, la
vita o la morte dei fratelli. «O Milano è vittoriosa: e allora
insurgeremo con più baldanza e più frutto; o Milano soccumbe: e
saremmo allora in mal punto insurti». Prima del conflitto, si poteva dubitare,
deliberare; il ricusar battaglia poteva essere buon consiglio; ma quando la
battaglia ruggiva, e le sorti di tutti si agitavano nel sangue, ritrar dal
campo le riserve che dovevano assicurar la vittoria, era ben aiutare il nemico.
E peggio era frapporsi, sin colla spada alla mano, perchè il nemico
conseguisse con una capitolazione la sicura uscita dalla città:
«sfoderò la spada: si pose avanti all'officiale, sclamando: non potrete
offenderlo, se prima non mi offendete». E quella capitolazione non
pattuì tampoco che le soldatesche partissero alla volta dei loro paesi;
ma le lasciò libere, liberissime di seguire l'appello che le convocava
d'ogni parte ad opprimere Milano. «Il maresciallo aveva deliberato di chiamare
a sè tutti i presidii delle varie città, e così assalir
Milano da tutte le parti (und Mailand so von allen Seiten anzugreifen)».
Il capo dei ribelli (das Haupt der Rebellen) vietò «a titolo di
delicatezza, l'aprimento dei dispacci del nemico»; i dispacci del nemico
trovarono più facile attraversar Mantova che Inzago; i paeselli furono
di maggiore impedimento al nemico che non le possenti città. «Le
ordinanze isolate venivano uccise o prese; i distaccamenti più
considerevoli incontravano insuperabili ostacoli nelle strade ch'erano
barricate, e nei paesi; a trovar messaggieri non era tampoco da pensare; con
siffatto interrompimento delli avvisi, ogni combinazione fu rotta (scheiterte
iede Combination)». Il «capo dei ribelli», a Monforte, scambiava atti
compassionevoli con O' Donnell; in via del Monte si rifugiava nella prima casa
aperta; in via de' Bigli tentava carteggi con Torresani, proponendogli «il
miglior mezzo termine per condurre a pacifica soluzione»; e lagnavasi di «non
potersi movere dal luogo ov'era». E riesciva a fugire, la notte; e si faceva
scoprire «in una soffitta, polveroso, coperto di ragnateli»; e non appena
uscito, chiamavasi intorno collaboratori che lo aiutavano a snervare l'animo
dei combattenti con pratiche d'armistizio, pertinacemente promosse per due
giorni, e sollecitate da Borromeo col timor della fame aggiunto a quello della
mitraglia. Ma tutti questi, pel Ciro d'Arco, sono sintomi di fermezza (p.2). E
al municipio fiorentino parvero sintomi d'eroismo; sicchè fece scrivere
sui marmi della veneranda Loggia i nomi di quelli immortali. Intanto «il popolo
pensava solo a combattere». Epperò, fra i trecento che caddero in quei
giorni, e i settecento che a poco a poco vennero poi morendo delle ferite, non
si rinvenne quasi nome che non fosse della plebe, o in poco più lieta
fortuna. E mentre taluni, in mezzo alle morti e alli incendi, raccoglievano in
mano propria «ogni potere, il popolo, una volta adempiuto il suo voto, ricadeva
in una tranquilla obbedienza ai dettami dell'ordine e delle leggi, nulla
più domandando» (Lettera a Lord Palmerston, di Bozzi-Granville).
Intanto,
per questi indugi frapposti in Milano e in tutte le città da svogliati e
frivoli capi, il moto dei popoli rimase in massima parte, impedito. Nella prima
notte, consigli incerti di subire il pericolo, non d'affrontarlo e dominarlo;
nel mattino, s'indirizza il primo impeto della adunata moltitudine, non sopra
alcuno delli uomini che tengono in mano le armi, ma sopra un togato, i cui vani
decreti non fanno cadere una baionetta. Il popolo sciupa il giorno, aspettando
prima i quarantamila fucili, perfidamente vantati dai signori, poi i tre o
quattrocento della polizia, assicurati dal decreto di O' Donnell; e rimane a
mani vuote, a legger sulli angoli delle vie gli affissi che lo invitano ancora
«a pace e fratellanza», e origliando i dubbi rumori delle altre parti della
città, e indovinando onde provenga il sordo muggito del cannone che
intanto sfonda le porte della casa municipale. - I popoli entrano nella
battaglia a giorno a giorno, a squadra a squadra; nel primo dì, Milano e
Venezia; nel secondo, la pianura milanese, il borgo Palazzo di Bergamo, e con
infelice esito Crema; nel terzo, Como, Modena e Parma vittoriosamente; nel
quarto, Varese, Monza, Pizzighettone, Cremona; nel quinto, finalmente, Brescia,
dopo aver morso per quattro giorni il freno degli azegliani; ma già in
quel giorno il freno azegliano ritrae dal combattimento Bologna, rende immobili
Modena e Parma. Verona e Mantova stanno tra la sedizione e l'ossequio; Lodi fa
un cenno appena di sollevazione; Pavia e Piacenza, meno illuse delle altre
città intorno ai soccorsi del re, non si commovono affatto. E tosto
Cremona disarma Pizzighettone, apre il passo dell'Adda ai presidii di Piacenza
e Pavia; e insieme a Bergamo e Brescia tollera che i corpi smembrati possano
raccapezzarsi sull'Ollio, per poi recarsi all'incontro dell'esercito che
retrocede disfatto dalla battaglia di Milano. La sola Como fece quanto
umanamente si poteva; di 1500 nemici ella non lasciò fugire uno solo; e
tosto si mosse al soccorso della vicina città. Se tutte le altre
avessero ugualmente operato, traendo seco attraverso ai passi del nemico tutte
le loro forze, come avrebbe mai potuto la sbattuta e famelica masnada aprirsi
fra tante aque e piantagioni e difese muraglie la via? Già prima di
prender le mosse, le soldatesche, che avevano vegliato tante notti, «cadevano
per terra spossate di fame e di stanchezza»; già nel primo sfilare,
sotto una tempesta di palle, e in un angusto passo fra due file di case incendiate,
bastò un cavallo spaventato a disperdere due battaglioni stranieri, e
dar ansa a un battaglione italiano di raggiungere i fratelli; le strade
intercise da fossati di formidabili proporzioni, gli arbori rovesciati sul
terreno, le fucilate di San Giuliano fecero che quattordici ore appena
bastarono a dieci miglia di viaggio, essendo la colonna distesa sopra cinque
ore di cammino. E l'esercito era talmente pronto a ingrandire colla paura gli
ostacoli veri, che s'imaginò d'aver vinto una battaglia per entrare in
Marignano, d'onde non era uscito un sol colpo di foco; e trapassò
vergognosamente la notte fra l'ubbriachezza e lo spavento, col quartier
generale ingombro di valigie e invaso da fanciulli e donne.
Noi
crediamo che questo volume offra le prove di due fatti. Il primo si è,
che il nemico, il quale, veramente aveva al suo comando centomila uomini,
perdette nei cinque giorni due terzi della sua gente e pressochè tutte
le sue fortezze, e solo per effetto dell'indolenza altrui vi riebbe ricovero e
salvamento.
Il
secondo fatto si è, che, per conseguire questa splendida vittoria, non
si posero in atto, nemmeno per una quinta parte le forze dei sette milioni di
popolo che abitano il Lombardo- Veneto, e le provincie italiane del Tirolo e
dell'Illirio, e i ducati di Modena e Parma; essendochè l'insurrezione
non fu veramente generale e impetuosa se non nelle due provincie di Milano e
Como, le quali non sommano a più di 900 mila abitanti. E quivi pure
mancarono affatto al popolo tre grandi elementi di siffatte imprese,
cioè gli avvisi, gli eccitamenti e i capi. Anzi, e quivi e per tutto,
coloro che il popolo era indettato a considerare come capi, fecero quant'era in
poter loro, e con trattative e con ordinanze e con publiche esortazioni, per
moderare e contrariare l'impeto dei giovani, e tenerli disarmati e inoperosi, e
per aiutare il nemico, sia a star dentro le città, sia ad uscirne senza
disastro e per le vie più opportune a' suoi disegni, sia a raccapezzare
le smembrate sue forze e raccoglierle nelle fortezze, le cui porte essi gli
tennero aperte, tenendole chiuse agli insurti. Egli è un fatto, che gli
indirizzi e gli editti dei municipi, dei ministeri, e perfino dei comitati,
parlano quasi tutti d'ordine, di quiete, di tranquillità, non diversamente
da quelli dell'imperator Ferdinando, del vicerè Ranieri, e del duca di
Modena o di Parma. Questa è l'istoria vera, che parrà strana a
molti, e parve quasi incredibile a noi, mano mano che l'andavamo raggranellando
da codesti frammenti di repertori officiali e di gazzette. E perciò
sfidiamo i redattori della Croce di Savoia e altri simili ingannati o
ingannatori, a comporre di siffatta materia un altro volume, e trarne, se
possono, un altro costrutto.
Vantarono
gli scrittori militari il gran numero dei soldati italiani ch'era nell'esercito
d'Italia; e noi proviamo che nessun paese d'Europa fu tenuto mai con maggior
proporzione di soldati stranieri, poichè i battaglioni stranieri al
regno Lombardo-Veneto erano 45; e 38 di essi erano interamente slavi o tedeschi
o magiari. Onde, se questo fatto è strano, come giudica l'autor di Custoza,
fu strano in senso contrario a ciò ch'ei s'intese; e non è vero
che avesse des graves conséquences. Coi battaglioni tutti italiani non
si perdè Mantova; e coi battaglioni croati e stiriani si perdè
Venezia. E in nessun luogo l'esercito ebbe più trista sorte che a Como,
ove non v'era un solo soldato italiano, ma erano tutti croati, carinti e
ungaresi; e rimasero tutti, fino ad uno, feriti o morti o prigionieri, coi loro
colonnelli, l'uno dei quali tedesco e l'altro croato. E in Milano v'erano fin
dal primo giorno settemila boemi e moravi, e inoltre croati e tirolesi e ungari
a piedi e a cavallo: e d'italiani un sol battaglione di linea e alcune
compagnie di poliziotti; e combatterono pur troppo al Genio e a San Bernardino,
e non si fecero disertori se non dopo ch'erano usciti di città. E croati
erano quelli che fugirono da Appiano per deporre le armi a Varese; croati
quelli che si ridussero a bersagliare dalle finestre delle caserme il popolo di
Bergamo; e lancieri polacchi e dragoni tedeschi erano quelli che si lasciarono
prendere dai contadini nelle basse di Brescia; e ungaresi gli 800 che
patteggiarono coi parmigiani a Colorno. Al contrario, italiani erano quelli che
decisero il disarmo di Crema, e italiano il battaglione che salvò contro
ogni aspettazione all'esercito il passo di Lodi. È vero che a
Pizzighettone e Cremona gli italiani non vollero pugnare col popolo; ma
così non pugnò nemmeno il popolo, e la sottrazione delle due
quantità non alterò l'equazione. Ma diremo di più. Ben
poterono gli azegliani di Brescia tener frenato per quattro giorni quel popolo
predicandogli la fratellanza, perchè i soldati bresciani del Haugwitz e,
in parte i goriziani e istriani del Hohenlohe erano del suo sangue e della sua
lingua. Come poteva il popolo concepir furore contro quelli infelici sforzati,
che in procinto di partire la pregavano a impedir loro la partenza, e
protestavano di voler vivere e morire coi loro fratelli? Ma se il popolo avesse
avuto a fronte la barbarie croata o l'arroganza teutonica, l'avrebbero le
senili ciancie dei moderatori rattenuto per quattro giorni? Il popolo bresciano
nè poteva trucidare gli italiani, nè trarli seco; perchè,
oltre alla malia della disciplina e del giuramento, essi dovevano temere assai
più i loro capi stranieri e feroci, che i loro avversari e fratelli. Al
contrario, se fossero stati tedeschi o slavi, avrebbero avuto maggior paura del
popolo furibondo, che non del bastone de' caporali. Sì, se fossero stati
due o tremila tutti stranieri, in quella fiera provincia di 340 mila anime,
ove, l'anno appresso, si vide il popolo leone avventarsi sotto la mitraglia col
coltello in pugno, noi diciamo che i soldati avrebbero fatto in Brescia
ciò che i loro compagni fecero in Varese, in Como e in Venezia. Gli
italiani in Brescia furono quasi mediatori, da un lato stando col popolo,
dall'altro coi generali. E così trascorsero quell'ore fatali; e i
maggiorenti poterono adempiere i comandi dei bellicosi pacieri di Torino e di
Parigi. Se adunque i generali austriaci, persuasi a torto o a ragione d'aver
commesso un errore lasciando in Italia 22 battaglioni italiani, si avvisassero
di fare in altra occasione altrimenti, ciò non farebbe gran divario.
Sarebbe un equivoco di meno, un inciampo di meno all'impeto delle offese. E
nessuno negherà poi che la passata guerra non abbia mutato grandemente
le cose, onde se d'ora in poi altri giudicasse più sicuro il soldato
ungarese che l'italiano, andrebbe errato; poichè gli italiani possono
aver avuto ripugnanza a mettere a sangue e a foco il loro paese, ma essi non
giunsero mai a volgere le armi contro i loro generali ed uccidere i loro
colonnelli, come fecero nell'autunno del 1850 al campo di Somma gli ungaresi.
E
possiamo aggiungere che, se nel 1848 non si posero in atto tutte le forze
rivoluzionarie del popolo, non si chiamarono fuori nemmeno tutte le forze
rivoluzionarie che giacevano nell'esercito austriaco. Ognuna di quelle nazioni,
s'era nemica al nostro nome e alla nostra bandiera, non era nemica alla
bandiera sua e al nome suo, caro a tutte, della libertà. Ma nessuno si
curò allora se vi fosse arte di sconnettere quelle moltitudini
incatenate dalla forza al vessillo imperiale, e tutte fra loro straniere e
nemiche, e ripugnanti a quella oppressiva unità. Gli agitatori
dell'Italia non vollero, nè allora nè poi, giovarsi delli
stranieri contro gli stranieri, rivolgere a danno dell'Austria l'arte sua
antica di por gente contro gente. Mentre essi inveivano contro gli stranieri
che potevano essere amici, non volevano riconoscere quei nemici che pur troppo
non erano stranieri.
Non
così l'Austria. Essa ritorse contro l'unità italiana lo stesso
sforzo che altri faceva per raccogliere sotto un sol principe diverse parti
d'Italia; essa ritorse contro l'unità ungarica quello stesso moto delle
nazioni che tendeva a smembrare l'imperio; adoperò il nome slavo per
infiammare i croati e i sirmiani, e dividere fra loro i boemi; contrapose
ruteni e polóni, sàssoni e romeni; adoperò il tricolore teutonico
per trascinare la gioventù viennese contro la gioventù italiana,
stornando due pericoli in un colpo, e distruggendo in un sol combattimento due
nemici. E pur troppo codesti tricolori che trassero i popoli a infliggersi
tanto reciproco danno, e a rifare coi loro odi e colle loro borie la potenza
delli oppressori, annunciano solo una tradizione di barbara nemicizia, madre
d'ogni conquista e d'ogni servitù; annunciano un voto di guerra
perpetua; poichè dovrebbe durare finchè durerebbero le nazioni.
Uno solo è il vessillo del quale non potranno mai giovarsi gli
oppressori; è il vessillo di tutti; il vessillo dell'eguaglianza, ossia
della giustizia; il vessillo della libertà e della umanità. Esso
non apparirebbe straniero al soldato italiano, nè al francese, nè
al tedesco, nè all'ungaro, nè al polacco. Esso annuncierebbe come
ogni popolo che combatte per l'altrui libertà, combatte per la sua;
essendochè ogni popolo servo è un'arme in pugno ai nemici della
libertà; è un pericolo perpetuo, una perpetua minaccia al genere
umano.
La
forza espansiva della rivoluzione fu dunque tanto minore, in quanto l'idea
della libertà universale non venne posta inanzi, ma quella più
angusta d'una solitaria indipendenza. E quando si considera che, di lì a
pochi mesi, gli ungari pugnavano contro l'Austria, non si può non
deplorare quella giovanile impazienza che spinse a vibrare i primi colpi
appunto contro i granatieri ungaresi a Monforte e contro gli ussari ungaresi in
Camposanto, inspirando loro nella vendetta dei compagni uccisi un sentimento
più forte ancora dell'odio loro contro i tedeschi. E quando si considera
che colonnello di quelli ussari, nominalmente intitolati da Carlo Alberto e da
Radetzky, era quel Meszaros che fu poi campione della libertà in
Ungaria, fa ribrezzo il pensare quale fanatica letizia sarebbe stata quella dei
combattenti, se lo avessero mirato, alla fronte de' suoi squadroni, cader
moribondo sotto un colpo delle loro carabine. Il tempo ha svelato questi arcani
nazionali, celati allora dalla stranezza delle lingue, e dalli odiati uniformi,
e dalla scambievole ignoranza, e dall'orgoglio. No, se pesa sull'Europa una
mole di tre o quattro milioni di soldati, non è che la causa dei popoli
abbia tre o quattro milioni di nemici. Nell'esercito austriaco non sono i quattrocento
o cinquecentomila soldati che hanno interesse ad opprimere se medesimi nel
popolo; essi sono costretti; sono servi due volte infelici, sui cui s'aggrava
la duplice catena del suddito e del soldato. La volontà loro è
soppressa; l'anima loro è fusa in quella di quindici o sedicimila
officiali; e questi pure chi sono? se non i figli di dieci nazioni, necessitati
ad apparire stranieri e nemici alle loro patrie, e portare la maschera
d'un'unità, ch'è il loro commune supplicio? Chi mira quei folti
battaglioni di forte gioventù, splendidamente armati colle spoglie delle
loro nazioni, sulla fronte ai quali traluce un raggio di mal repressa
intelligenza, non si lasci abbagliare. No, il color d'una bandiera, una novella
improvisa, una parola, la sola intonazione d'un cantico, basta a squassare
tutta quella scenica ordinanza, e trasmutarla in una mischia sanguinosa, ove
all'unica voce dell'odioso comando risponda in dieci lingue il grido della
nazionale vendetta. Non è nemmen necessario l'urto di un altro esercito;
questo ha in sè tutti gli elementi della sua distruzione.
E
perciò è vano l'argomentare se in altra congiuntura potrebbe
rinovarsi il prodigio dei cinque giorni, se i cento battaglioni che ora ha
l'Austria in Italia, farebbero miglior prova che non fecero i settanta
battaglioni che aveva allora. Intorno a ciò diremo anzi tutto che, se
crebbe il numero delle truppe, crebbe in ragione maggiore lo spazio sul quale
sono disseminate; allora non si stendevano oltre Parma e Modena; ora fino nelle
Maremme, nell'Umbria e nelle Marche, ch'è due o trecento miglia
più lontano. Perlochè non potrebbero avere tra il Ticino e il
Serio più delle sette brigate che ebbero allora, nè più di
due brigate fra il Serio e l'Adige. Allora erano in maggior proporzione i
soldati italiani; ma questo è ben certo che i soldati d'altre nazioni,
che allora miravano con animo ostile l'Italia, ora sono ridutti a sperare nella
sua vittoria e nella sua libertà. Certamente, il popolo non sarebbe
costretto a mendicar, da un re, capitani senza sapere e senza volontà,
quando venissero a consigliarlo e precorrerlo sul campo i superstiti difensori
della libertà ungarese, i cui nomi l'esercito austriaco ha imparato a
conoscere e paventare. Inoltre, noi crediamo aver dimostrato che in quella
insurrezione prese veramente parte repentina ed efficace all'incirca un
millione di popolo, e che gli altri sei milioni vennero da varie influenze
rattenuti; e vuolsi notare che le regioni ora presidiate dall'Austria ne hanno
poco meno di dodici milioni. E se i popoli hanno fatto infelici esperienze, e
hanno ragione d'esser più cauti, hanno anche maggiore l'odio; e se hanno
la pratica della paura, hanno anche quella delle armi e dei pericoli, e la
coscienza di ciò che potevano fare e non hanno fatto. E anche il nemico
ha fatto le sue esperienze; e non vi sarà più chi «vanti
apertamente, nei circoli del maresciallo, che la prima palla dei cannoni del
Castello contro le aguglie del Duomo avrebbe domato qualunque movimento in
Milano». E Milano, e Venezia, e Brescia, e Vicenza, e Bologna sono nomi che nei
computi militari hanno preso ben altro valore. Il nemico ha provato il coraggio
dei popoli, e sa di avere stoltamente abusato della vittoria; e teme la
rappresaglia delle rapine, delli omicidi, del bastone. È vero che ora
contro molte città stanno pronte le bombe; ma è vero
altresì che l'incendio di qualche centinaio di case non varrebbe gran
fatto a spaventare un popolo, che ha posto il foco a molte case colle proprie
mani. E forse, a tempo e luogo, non vi sarebbe chi avesse il coraggio
d'accendere quelle bombe e di avventarle, perchè il popolo avrebbe esso
pure in mano qualche pegno; e quando il torrente dell'insurrezione fremesse
intorno alli isolati baluardi, non tutti i capitani vorrebbero con siffatte
inutili sceleratezze chiamar sul loro capo inesorabili vendette. Diremo,
infine, che gli eserciti nemici non saranno mai meglio armati, nè meglio
comandati che allora non fossero; nè crediamo che l'arte militare si
sarà di molto mutata; ma i popoli certamente avranno più risoluti
condottieri; e non soffriranno capi di ribellione che avessero la stoltezza o
l'audacia d'impor loro le coccarde bianche, e di far levare le armi a chi non
fosse tra i duecento «della possidenza e del commercio». La ferocia del nemico
e lo spavento ch'egli si sforza di spargere, ratterranno dalle puerili
dimostrazioni e dai piccoli e vani tentativi; ma gioveranno a dar
gravità e impeto alle grandi e irrevocabili deliberazioni.
Ma
un elemento mancherà ad ogni futura insurrezione. Le mancherà
quel nome che fu l'istantaneo e caduco nodo della nazionale unanimità:
il nome di Pio IX. Scelto allora da pochi ad astuzia di guerra, fu adottato dal
popolo, con tutta la semplicità ed il fervore della fede antica, ad
esprimere l'implicito e confuso senso della santità de' suoi diritti.
«Convinto, come io era», scrisse Montanelli nel primo volume di questo
Archivio, che l'unità nazionale si potesse conseguire soltanto col
gravitare verso un centro commune, e che l'idea unitaria tanto più
sarebbe stata facilmente eseguibile, quanto meno per incarnarsi avesse avuto
bisogno d'eliminazione, mi applicai a fare di Pio IX l'insegna della
fratellanza italiana».
Pio
IX fu fatto da altri: e si disfece da sè. Pio IX era una favola
immaginata per insegnare al popolo una verità; Pio IX era una poesia. E
anche l'antica republica inglese, dalla quale provenne tutto ciò che
v'è di salutare nella presente costituzione, o le republiche
bàtave, e le americane, e la republica pensante di Ginevra, erano
fiorite sovra l'orrido spinaio delle controversie scritturali. E taluno
reputò cosa possibile che Pio IX fosse un Giunio Bruto, il quale avesse
deluso con diuturna mansuetudine gli sospettosi Tarquini del concistoro. Ed
eziandio chi vedeva in esso il pontefice, non della sola gente italica, ma d'un
numero di fedeli otto volte maggiore, potè bene reputar giustizia, non
già ch'ei dovesse farsi capitano di una contro altra nazione, ma
bensì ch'ei potesse ingiungere ad ogni nazione di star contenta ai
termini della terra a lei sortita. Poichè l'Italia, nel diritto
evangelico, non era già terra d'infedeli Cananei, che dovesse esser data
a stranieri figli di Dio; ma era la terra d'una delle tribù elette;
nè altra di quelle tribù poteva allegar diritto divino di venire
a depredarla e farla misera e vituperata. Ed era misera e vituperata senza
frutto delle genti medesime in cui nome veniva oppressa, dacchè queste
parimenti erano infelici e ribelli. Sarebbe stata ben maggior gloria al
pontefice, s'egli fosse surto nel nome di Dio a giudicare quella iniqua
sapienza di stato ch'era una calamità commune di tanti popoli, e se
avesse rivendicato i loro diritti dalle mani degli oppressori, piuttosto che
assidersi, ultimo e fiacchissimo dei regnanti, sovra un soglio insanguinato.
Ma
il risurgimento dell'Italia era inaugurato in questo nome; non era il diritto,
non era l'idea; era un uomo, anzi il mero nome d'un uomo, e d'ora in ora poteva
essere solennemente negato. E così fu quasi aratro che passando
lasciò profondamente sovverso il suolo; non era intonazione
d'un'èra novella, ma preparazione e preludio. Era un nome di guerra; e
la guerra fu fatta. E v'è tra il nome di Pio IX e quello di Carlo
Alberto questo divario, che al suono del primo nome il popolo corse all'armi; e
al suono del secondo le depose. Coll'uno si inaugurò l'unanime oblio
delle opinioni, la lega improvisa, l'improvisa vittoria; coll'altro, le gelosie
dei principi, le fazioni dei popoli, la mirabile impotenza. Ora ambo i nomi son
parole morte.
E
così trapassano le apparenze e le finzioni, e sopravive la
verità. Non fu solo nel nome dei novatori, che fu iniziata l'èra
della libertà in Inghilterra, in Olanda, in America; ma nel testo
medesimo dell'evangelio. Epperò la riforma non avrebbe potuto naufragare
per fallibilità e volubilità dei novatori. Essi non si erano
imposti alle nazioni come maestri e padri, accaparrandosi in perpetuo le menti
e le volontà; ma avevano chiamati gli uomini alla parola del Libro, qual
ch'ella fosse. Essi avevano posto in mano a tutti il volume in cui si legge:
«nè vogliate chiamare alcuno in terra vostro padre, poichè il
solo padre vostro è quegli che sta ne' cieli; nè siate chiamati
maestri, perchè l'unico vostro maestro è il Cristo» (Mat., 123). Or dunque, come osava
alcuno in terra nomarsi padre santo, santissimo, e infallibile maestro?
E
così molti insegnamenti di libertà stanno nell'evangelio; ma il
popolo li ha sempre ignorati; perchè quello è tesoro del quale i
nemici della libertà tengono la chiave. E inoltre vi stanno anche molti
precetti di servitù. E questi vengono ripetuti; e delli altri si tace.
Senonchè,
la scienza della libertà e della giustizia sarà dunque privilegio
dei popoli che leggono l'evangelio? Sarà essa negata alli israeliti, che
vivono in mezzo a noi co' nostri costumi, e co' nostri pensieri? E l'ignaro e
corrotto bizantino, perchè aveva udito vanamente l'evangelio,
sarà stato un essere più sublime di Leonida e di Socrate? E
nell'imperio indobritannico, ora e sempre, avrà diritti solo il
cristiano? E i cento milioni d'uomini che serbano nella penisola braminica le
tradizioni d'una civiltà dalla quale nacque la nostra, non avranno
speranza alcuna d'esser partecipi del nostro avvenire? E le centinaia di
milioni dell'imperio chinese e delle finitime regioni non hanno forse intelletto?
non sono fatte ad imagine di Dio? non hanno natura d'uomo, sicchè, non
debbano avere i diritti dell'uomo? Poichè i catolici sono un quarto
forse dei viventi oggidì sulla terra, dovrà la maggioranza del
genere umano rimanere esclusa dal contratto sociale? E nell'Asia musulmana
diverrà il turco e l'arabo e il druso il servo dell'armeno e del
nestoriano? E sarà men degno della libertà il circasso che la
difende eroicamente, che non lo slavo, la cui vita, il cui nome stesso,
è servitù?
No,
quando le nazioni tendono d'ogni parte verso la communanza dei viaggi, dei
commerci, delle scienze, delle leggi, delle umanità; quando il vapore
trae sulle terre e sui mari le moltitudini peregrinanti nel nome della pace e
della fratellanza; quando la parola vibra veloce nei fili elettrici da un capo
all'altro dei continenti, non è più tempo d'architettare una
giustizia e una libertà che sia privilegio d'americani o d'europei, di
papisti o di protestanti. È tempo che le discordi tradizioni delle genti
si costringano ad un patto di mutua tolleranza e di rispetto e d'amistà,
si sottomettano tutte al codice d'un'unica giustizia, e alla luce d'una
dottrina veramente universale. È tempo che le arbitrarie e anguste
divinazioni dei pensatori primitivi, perpetuate nei libri di sacerdozii rivali
e nemici, cedano alle costanti rivelazioni della scienza viva, esploratrice
dell'idea divina nell'illimitato universo. Verità, libertà e
giustizia: libertà per tutti, giustizia per tutti: questa è prosa
sincera e durevole; vera oggi e vera dimani. Ed è anco più alta
poesia che non la favola di Pio IX.
Perseveriamo
nell'arida fatica di radunare d'ogni parte le memorie che rimasero del
Or
che tutti gli aventi causa ebbero agio di tessere le loro narrazioni oratorie,
è tempo che il conflitto delle testimonianze ponga a cimento la
verità.
Comprende
questo terzo volume, distinti per giorno e per luogo, e raccapezzati con un
indice anche per materie e persone, 1700 e più frammenti editi e
inediti, notizie di guerra, ordinanze, dispacci, indirizzi, proclami,
citazioni; lungo e vario dialogo nel quale ogni interlocutore, amico o nemico,
re o pontefice, caporione di combattenti o priore di confraternita secrete,
vien lasciato dire colle proprie sue parole. Il che in istoria non si
può fare, e in romanzo istorico si fa solo con modi posticci e mentiti.
Tolte
lievi eccezioni, il volume si riferisce tutto ai sedici giorni d'irreparabili
indugii che corsero tra la fuga di Radetzky, la notte del 22 marzo, e il primo
conflitto dell'estrema sua retroguardia coll'avanguardia piemontese al ponte di
Goito, la matina dell'8 aprile. Ma se ben si mira per entro a questo volume,
tutta quella politica e quella guerra appaiono nel breve preludio adombrate, e
quasi diremmo predestinate.
Alcune
centinaia di codesti frammenti furono a stento racolti tra i dispersi
scartafacci del comitato di guerra di Milano. Sono ordini, avvisi e annunci
d'ogni sorta, di ben minimo momento ciascuno per sè, ma pur segnati
tutti della splendida impronta d'un tempo che gli eroi delle battaglie indarno
affettano sprezzare, fintantochè l'arte loro e la virtù non
trovino tanta fortuna almeno quanta n'ebbero gli uomini delle barricate.
E
invero, quasi favolose oggi appaiono le capitolazioni austriache, registrate
già in buon numero nel secondo volume, e anzitutto quella del presidio
di Como: 20000 soldati, tutti stranieri, che rimasero fino all'ultimo uomo
prigioni o morti. Al che qui si aggiunge la capitolazione del battaglione
Poschacher in Rovigo, quella dei 900 ungaresi, fanti e cavalieri, che per
sedicimila lire vendettero le armi loro ai parmigiani in Colorno, la incruenta
prigionia d'uno dei generali Schönhals con 60 officiali in Rezzato, l'incruenta
consegna dei forti di Comacchio, Magnavacca e Volano muniti di 42 cannoni, la
presa di sei cannoni da campo in Cremona, di 17 pezzi in Pizzighettone, di
In
aggiunta a quanto si espose nel secondo volume intorno al disastro di
Marignano, qui si conferma che fu solamente l'ultimo di quella serie d'incendii
che gli austriaci confessano di proposito intrapresa lungo i bastioni di Milano
nel 22, per farsi adito ad uscir di città. E si palesa che la quiete
trovata poi nel rimanente loro cammino non fu già l'effetto di
ciò che i loro inumani scrittori chiamano un terror salutare.
Poichè, al contrario, qui da una memoria inedita si rileva, che lo
spettacolo del vicino incendio di Marignano per poco non commosse Lodi a
disperata sollevazione. Da qual pericolo l'esercito fu salvo per merito
dell'illustre ungarese il colonnello Meszaros; il quale a ciò valse
colla benevolenza e popolarità che da molti anni, per una rara
eccezione, egli erasi cattivata in Lodi.
Da
confessione di Schönhals appare poi chiaro che se Radetzky si ritrasse
all'Adda, vi fu veramente costretto dalla rotta di Milano; e se dall'Adda si
ritrasse all'Adige lo fu per la inaspettata perdita di Venezia e il grave
pericolo di Mantova e di Verona. E qui d'altra parte vien dimostrato che se
potè riposarsi tre giorni in Lodi e Crema, e ripigliarvi lena, ordine e
coraggio per la ritirata ulteriore, fu perchè i patrizii bresciani
avevano con insano consiglio protetto il ritorno di Schwarzenberg ai ponti
dell'Ollio, e rattenuto con ogni arte in Brescia quel popolo vittorioso.
Il
lettore saprà dar pregio a parecchi diarii e moltissime lettere che
abbiamo raccolto dalle squadre de' volontari, che in quei sedici giorni
riempivano l'intervallo fra i due eserciti, preoccupavano le pianure di
Treviglio e di Chiari e perfino le vaporiere del lago di Garda, precorrevano
d'un giorno al di là del Mincio l'avanguardia del re, e con impedire ai
nemici di vettovagliar Peschiera gli assicuravano quell'unica sua conquista.
Fra le lettere inedite additeremo a certi scrittori di poca fede, quelle, per
esempio, di Luciano Manara che si chiudono con un evviva alla republica, con un
evviva alla democrazia in tutto il mondo. I quali gridi non si udirono mai di
que' giorni nelle piazze delle città, come pretesero poi molti in
Piemonte, ma solo a quell'estrema avanguardia, fra le sentinelle perdute. Anche
delle lettere non inedite riusciranno tuttavia nuove a molti, quelle, per
esempio, del Torres, che il 3 aprile scriveva da Leno a Radetzky in Monte Chiaro,
invitandolo a sgombrare per la seguente matina: «Deciso come sono, egli diceva,
d'entrare ad ogni costo in Monte Chiaro la giornata di dimani, mi reco a dovere
di rinovarvi l'istanza già fattavi con successo in Crema». Nè
parrà meno nuovo a molti, che, in quei giorni di basse aque, il tenente
maresciallo Gyulai si desse la briga di rispondergli quella sera medesima,
senza nemmeno dirsi offeso della baldanzosa dimanda. Radetzki era già in
Verona.
Da
codeste date quotidiane si dimostra falso che, come fu ripetuto dalli
austriaci, turbe di montanari e di stranieri fossero discese in soccorso a
Milano fin dai primordii del combattimento. Qui si vede che i soli uomini di
Lecco giunsero la notte del quinto giorno; che i genovesi vi giunsero il giorno
dopo la ritirata di Radetzky; che i comaschi e ticinesi giunsero ancora un
altro giorno più tardi, cioè la sera del 24; e che i valtellini
furono rimandati dal governo provisorio quand'erano ancora a mezza via. D'onde
conseguita esser parimenti falso quanto molti spacciarono intorno all'inerzia e
al malvolere delli abitanti della pianura. Poichè, anche per mancanza
d'avvisi, furono essi i soli che poterono accorrere, e con somma audacia
veramente accorsero d'ogni parte sotto le mura della città fin dal
giorno 19, quand'era stretta dal nemico ancora intero e minaccioso. Ciò
tronca dalla radice molti vaniloquii e calcoli falsi tanto di politica quanto
di guerra.
Del
protocollo segreto del governo provisorio di Milano abbiamo preso tutte le
lettere di quei giorni; sono forse un centinaio, tutte inedite. Primeggiano
quelle del conte Enrico Martini, che, incredibile a dirsi, vi si mostra il
genio inspiratore di tutti i clandestini accordi tra quei signori e il quartier
generale del re. I milanesi pur troppo dolorosamente espiarono poi l'immane
colpa di avere in tanto pericolo lasciata la patria in braccio a tali uomini,
di cui, per lo meno, non avevano alcuna aspettazione.
Alle
carte secrete abbiamo aggiunto di giorno in giorno non solo tutti gli atti
pubblici del governo di Milano, ma quelli pur numerosi, benchè poco
noti, dei governi e comitati di Brescia e Cremona; in buon numero quelli di
Como e Pavia; alquanto scarsi quelli di Bergamo; ma parecchi pure d'altre
minori città. Sono all'incirca 400; e, vi si discerne già il
secreto contrasto che doveva ben nascere (e che sfortunatamente non fu
maggiore) tra l'impetuoso buon senso dei popoli e l'insensata astuzia dei
maggiorenti, i quali, per la seconda volta in mezzo secolo, conducevano in
precipizio la patria. Volevano tenere inerme ed umile il popolo,
affinchè sentisse tosto imperiosa la necessità, e scendesse
prontamente a tali patti che assicurassero certe grandezze che l'Austria aveva
loro vanamente fatto sognare nel 1814 e nel 1838; e che senza l'Austria o senza
la Savoia, non avrebbero mai potuto operare, in paese ove i doni dell'opinione
e della fortuna erano già troppo largamente disseminati.
E
perciò, fra tanti atti loro, non un solo che tendesse veramente ad
infiammare le turbe e incalzare il nemico. E vediamo talun di loro riputar
quasi malagrazia che non si volesse lasciare al re qualche avanzo di nemici da
vincere. Onde non appena il mattino della domenica, 26, fu vista spuntar da
lungi sulla pianura la brigata Bes (non destinata altronde per allora ad
assalire gli austriaci, ma solo a patrocinare il governo in Milano), essi
affiggevano incontamente per le vie: «Le truppe piemontesi giungono oggi stesso
per unirsi a noi. Per conseguenza, il governo provisorio invita tutti i
cittadini a riprendere al più presto, e possibilmente entro la giornata
del 27 (lunedì), le ordinarie loro occupazioni, aprendo botteghe e
lavoratoi, e tornando all'operosa loro vita». E un altro editto di quel giorno
richiamava perfino pochi pompieri dilungatisi coi volontari a tribolare il nemico;
che per verità in quella matina aveva ancora la sua retroguardia in
Lodi. E i cittadini, non potendo ben sapere quanto efficacemente fosse conquiso
e avvilito, e imaginandosi che fosse uscito di Milano solo per adunar viveri e
gente, lo attendevano ad un nuovo assalto, vegliando in armi nelle insanguinate
loro vie e, lungo i bastioni, sui ruderi delle case incendiate; cure tutte che
parevano ai governanti superflue e quasi importune.
Si
dovrebbe credere che il governo avesse almeno esso quella fiducia nel re che si
studiava infondere altrui; ma non è così. In quel giorno medesimo
in cui voleva che i cittadini tornassero dall'armi «all'operosa lor vita»,
scriveva al Martini: «Si desidera che le operazioni militari siano spinte colla
massima energia». Il 28 rispondeva Martini d'averne tosto parlato al re in
Voghera: «Parlai diffusamente dell'assoluto molteplice bisogno di maggior
rapidità nelle mosse militari». Replicava tosto il governo (30 marzo):
«Non puossi dissimulare che le mosse delle truppe piemontesi non rispondono
finora alla nostra fiducia ed alla publica aspettazione». E domandava che il
Martini proponesse «quelli espedienti a cui si potesse ricorrere, per ottenere
che l'alleanza sarda produca effettivamente i frutti che la nostra lealtà
aspetta da quella dei nostri ausiliarii».
Il
governo provisorio, pur con false mostre, deluse la dimanda, che allora venne
fatta, d'un'assemblea, la quale «costituisse un supremo governo centrale,
incaricato di conservare possibilmente l'unità di stato colla Venezia,
il Tirolo, Trieste e la Dalmazia» (29 marzo). Intanto si diede tutto a
cospirare con le municipalità e le congregazioni provinciali (reliquie
austriache ribattezzate in governi provisorii), per accaparrarsi su tutte le
provincie, in nome del popolo, un'autorità senza voto di popolo. E
ciò conseguito, ingiunse ai comitati provinciali di non pensare
all'armamento, assumendosi esso l'incarico. Così represse nel nascere
quell'espansiva emulazione federale, che sola poteva trarre immantinente, dal
cuore d'ogni provincia denari e battaglioni. Per tal ragione, respingeva gli
armati valtellini; sovvertiva ogni principio di disciplina tra i volontari in
Crema, mandando il conte Sanseverino a onorare e promovere chi ricalcitrava al
comitato di guerra; ratteneva gli altri volontari che da Treviglio, ov'erano
giunti il 24 e il 25 colla via ferrata, dovevano precorrere sotto Mantova il
nemico, il quale solo il 28 potè lasciar Crema; richiamava da Cremona
fino a Milano i sei cannoni e i tremila soldati eh'eransi quivi sottratti al
nemico fin dal 21, e che di là potevano per dieci e più giorni
scendere in soccorso a Mantova, lontana solo trenta miglia, giovandosi anche
delle vaporiere e altre navi del Po; perocchè il disarmo dei mantovani
fu comandato solo il 2 d'aprile. Ma il maggior danno si fu, che fin dal 26
marzo, i governanti impegnarono per le vittovaglie dell'esercito del re quanto
poteva entrare nello scomposto erario; tantochè furono poi costretti a
sovvenire il re con un millione dato loro a prestito da lui medesimo!
Operazione di finanza senza esempio nel mondo, che ci vien rivelata da lettera
d'uno dei membri del governo. Intanto fu reso impossibile l'armamento del paese
da essi «assunto»; poichè non volendo essi tassar sè medesimi e i
loro consorti e patroni, e non potendo senza assemblea tassare efficacemente il
popolo, si ridussero alla inadeguata e precaria fonte degli imprestiti senza
interesse e delle offerte volontarie.
A
queste offerte, di cui leggonsi lunghe liste nei giornali, non abbiamo potuto
far luogo in volume già grosso d'ottocento e più pagine. Abbiamo
piuttosto raccolti di giorno in giorno gli atti della diplomazia concernenti le
cose nostre, ricavandoli in massima parte dai volumi rassegnati al Parlamento
britannico, traducendo però solo gli inglesi e dando in originale i
francesi. Vi si vede l'autocrazia russa maledire, almen sinceramente, al
progresso della libertà e della nazionalità come ad un delitto; i
Ficquelmont, i Buol, i Dietrichstein al contrario dolersi ipocritamente che
l'Italia si fosse stancata dell'Austria proprio quando all'Austria era venuto
in cuore di colmarla di cortesie; e la teatrale liberalità britannica
rinegare in secreto tutto ciò che colle ostentazioni di lord Minto aveva
provocato in palese.
Come
avvenne dunque che i servitori del re promettessero a sè medesimi e ai
popoli l'ingrandimento improviso del Piemonte? Essi bene sapevano che i confini
delli Stati e le convenzioni che li accertano erano di ragione europea.
Sapevano che nessuna corte poteva nel bel mezzo d'Europa farsi la porzione
colle proprie mani, e turbare quella relativa potenza, la quale si chiama
l'equilibrio. Conoscevano i tristi interessi che legano gli Inglesi
all'Austria. E perciò in faccia alla diplomazia non osavano nemmeno
alludere all'ambito acquisto; ma scendevano a fare dell'occupazione di Milano
un atto di polizia.
Il
re, incalzato quasi da odiosa necessità alla gloria e alla grandezza,
era rimasto inerme inanzi all'occupazione di Ferrara, alle stragi di Milano, di
Padova, di Pavia, all'invasione dei Ducati, al raddoppiamento dell'esercito
nemico, infine alla inaspettata rivoluzione di Vienna, all'inaspettata
resistenza di Milano, quantunque la consuetudine di tutti i governi e l'esempio
dell'Austria legittimassero in Piemonte l'adunamento d'un esercito sul confine
di paesi agitati e invasi. Che se all'adunamento dell'esercito il re avesse
aggiunto qualche generoso manifesto, che a titolo della vicinanza e della
nazionalità e della ragione commune delli Stati ammonisse il governo
austriaco a temperarsi dal sangue e frenare gli eccessi de' suoi proconsoli;
almeno l'Austria non avrebbe potuto poi gettare un'accusa di perfidia al
congiunto, che fino all'ultimo istante le aveva mandato parole di amicizia e
non un verbo di disapprovazione.
Non
si mosse dunque il re, se non quando ebbe a temere che nella libera Milano si
gridasse altro principe o altra forma di Stato. Non potè dunque giungere
coll'esercito al ponte di Pavia se non sette giorni dopochè lo avevano
varcato i suoi poveri volontari genovesi e lomellini. Ma giunto al confine,
poteva almeno correre la via più breve, sia lungo la sinistra del Po,
sia lungo la destra, avendo aperti i ponti di Pavia, di Piacenza, di
Pizzighettone; e potendo farsi in Cremona una testa di ponte già
bastionata e anche già notabilmente munita. Così se non poteva
più precludere al nemico il riacquisto delle fortezze, poteva stringerlo
subito e sottrargli le vittovaglie. I suoi lodatori scrissero che la sua «linea
d'operazioni procedeva da Piacenza a Cremona». È falso; al contrario
egli seguì una linea serpeggiante, che raddoppiava le distanze, con
inutile stanchezza dei soldati, anzi accresceva ad ogni marcia quell'intervallo
di sole dieci miglia, che la notte del 23 divideva dal ponte di Pavia l'ala
destra del nemico in Landriano. I generali, o che dettassero quella politica e
quella strategia, o che la subissero, affettavano di temere non sappiamo qual
ritorno offensivo del nemico, il quale aveva altro a fare. Pareva che col far
pompa di timori e lentezze volessero dire ai popoli: Voi v'imaginate d'aver
vinto, solo perchè non sapete nulla di guerra. Cominciarono a darsi un
assurdo allarme il giorno 23, quand'erano ancora nei quartieri loro in Novara e
Mortara. Ebbero per molti giorni l'ordine «di non comprometter l'esercito
nemmeno con una fucilata». Non appena giunti in Brescia, e avuto nuovo allarme,
ritornavano in città senza assalire il nemico; lasciavano manomettere
gli insurti di Monte Chiaro; e a chi ne richiedeva il perchè, rispondeva
il general Bes: «Io non ho ordine d'attaccare».
E
standosi in Brescia, e richiesto d'impedire le rapine della retroguardia
austriaca nel prossimo Calvisano, trasmetteva la preghiera al Torres, il quale
non aveva cavalleria e aveva quattro o cinque cartucce per uomo: «Je suis
trop éloigné de Calvisano pour empêcher cette exaction qui doit avoir
lieu demain. Il n'y a pas de doute que si
vous étièz a méme de faire une simple démonstration vers Calvisano, vous
rendriez un service très important aux habitants». Per quanto noi possiamo congetturare di siffatti arcani, la
deliberazione d'assalire, e di mutar l'occupazione in guerra, fu presa
solamente il 4 aprile in consiglio di guerra a Cremona, quando la ritirata
dell'Austriaco era compiuta, e riparati gli effetti della sua rotta. Ancora in
quel dì, il general Bava «fu d'avviso che le truppe dovessero tener la
strada di Piadena, Bozzolo e Marcaria, sia per evitare le pianure di Ghedi e
Monte Chiaro, sia per appoggiare l'insurrezione di Mantova». È da ridere;
perchè il 4, Monte Chiaro era già occupato da Torres; Arcioni e
Manara fugavano il nemico in Salò e prendevano le pentole della sua
cena; Radetzky stava già da due giorni in Verona; e Mantova era
già da due giorni disarmata. Così sfumano al duro confronto delle
date di giorni e di luogo, le istorie di Schönhals e di Bava e altri simili
libri di partito e non d'arte militare. Vediamo confermato in parecchie lettere
del Martini come l'esercito sardo fosse guidato da officiali che non avevano
carte geografiche.
Nè
si trattava d'imprevista e strana spedizione in Africa o in Asia, nè
solo in paese vicino e nazionale, ma in quello che dai tempi d'Annibale, di
Barbarossa, di Carlo quinto, di Napoleone fu sempre il campo classico delle
battaglie. Non aver le carte di tal sacro terreno, non saperle a mente, era
come dirsi affatto alieno e ignaro d'ogni studio di guerra. Forse quei frati in
cui governo il re aveva lasciato per tant'anni le academie militari, e che
ammaestravano i futuri capitani a recitare ogni matina e ogni sera l'officio
della Beata Vergine, avevano anche vietato loro il leggere le campagne di
Bonaparte. Così ponno delirare i principi. Ma poscia, nei giorni di
guerra, non trovano se non ciò che nei giorni di pace han delirato.
Apriamo
il Thiers; vediamo come su quel terreno, e con quel nemico, ma meno stanco, e
non incalzato dai popoli, nè spoglio già di cannonieri, si fosse
combattuta un'altra guerra. - «Bonaparte prende 3500 granatieri, la cavalleria
e 24 cannoni, scende lungo il Po. La matina dell'8, con una marcia di 16 leghe
(quaranta miglia) in 36 ore, è a Piacenza... Colla barca del porto
tragitta l'avanguardia comandata dal colonnello Lannes. Questi, appena
sull'altra sponda, piomba sui distaccamenti che la percorrono e li disperde.
Gli altri granatieri passano mano mano. Si comincia a fare un ponte... La
divisione Liptai era accorsa a Fombio; Bonaparte l'assale con quante forze ha
in mano. Trincerata, la scaccia. La stessa sera, giunge Beaulieu... intoppa
nelli avamposti francesi... è respinto a furia... In Pizzighettone,
ov'è il passo dell'Adda, si erano gettati gli avanzi della divisione
Liptai. Bonaparte rimonta il fiume sino al ponte di Lodi... Dodicimila fanti e
quattromila cavalli erano sull'altra riva; venti cannoni raschiavano il
ponte... Egli pone in colonna tutti i granatieri; li fa erompere per la porta
che dà sul ponte, a passo di corsa...».
Se
ora mettiamo a paragone il diario d'un officiale della brigata Savoia, la
vediamo il 29 marzo in Pavia; il 30, il 31 marzo e il 1º aprile in marcia
per Lodi; il
Chi
avesse avuto nell'animo i grandi esempi, avrebbe abbandonate al più
militare de' suoi generali le brigate Bes e Trotti, ch'erano le più
vicine alla frontiera; non avrebbe dato tempo al nemico di posare una sola
notte; l'avrebbe còlto ancora sui bastioni di Milano, o alla stretta tra
Porta Romana e il Lambro, o ai ponti di Landriano e Marignano; o per
Pizzighettone, ch'era aperto, lo avrebbe sopragiunto al di là dell'Adda,
colle paludi di Crema alle spalle; o fra i canali e le leve in massa di Brescia
e di Cremona. Valevano più due brigate e il rimbombo notturno di due
batterie in quell'istante e su quel terreno, che non dieci brigate e dieci
batterie sotto le mura di Verona in maggio o in giugno. Con qual impeto non
dovevano precipitarsi sul fianco della carovana nemica giovani squadroni
intatti e freschi di poche ore dalla caserma, liberi d'ogni ingombro, inebriati
dal plauso delle donne e dalla vista di uomini vittoriosi! Noi li abbiamo uditi
il 26, alle porte di Milano, quando il popolo in armi li accoglieva gridando:
Viva i piemontesi! rispondere con coscienza vera di soldati: No, no; viva voi!
I
nemici, già tanto inviliti in faccia ai popoli, avrebbero riputato
ventura poter deporre le bandiere ai piedi almeno di soldati. Gettavano le armi
per far sacco; le vendevano ai contadini da sotterrare, per rivenderle poscia o
dividerle coi volontari; avrebbero di quei giorni venduto il generale, se
avessero potuto trovar denari. Ma ignorarono sempre l'arrivo d'un esercito
sulle loro tracce; non udirono mai il tuono d'un cannone; videro solo turbe
improvise e fucili da caccia. E quando una dozzina d'uomini di Genova
Cavalleria, sorpresi sull'alba del 6, con quei continui spaventi addosso che
instillavano loro le dubiezze dei comandanti, si lasciarono condurre
prigionieri in Mantova, i croati, all'uniforme o all'insolito accento, li
credettero soldati francesi come caduti dalle nuvole. Pur troppo la tradizione
dei secoli appena ricordava fra i nemici dell'Austria la casa di Savoia.
Lasciato
fugire invano il fatale momento, potevasi ancora far pro dei grandi esempi.
Dacchè il nemico aveva ad assicurarsi contro i cittadini di Verona e di
Mantova, e fornir di cibo, di polveri e di cannonieri le spolpate fortezze,
nè aveva superfluo di gente da poterne con effetto uscire a notevole
distanza, era mestieri serrarlo dappresso per levargli subito d'intorno quanto
si poteva di vittovaglie; interrompere ogni strada con trincere, empiendole di
volontari; prodigare armi e denari ai trentini ancora incerti; sostenere
virilmente i montanari già in armi dei Sette Communi, del Cadore, dell'Alpago,
della Carnia; e più tardi coll'esercito mobile togliere ad ogni costo il
passo alla divisione Nugent, che aveva già alle spalle Osopo e Palmanova
e ai fianchi Venezia e il Cadore, e non fu poi nemmen da tanto da forzar
Vicenza. Accampato l'esercito dietro le fortezze, colla base al Po e alle
inespugnabili Lagune, la marineria di tutta Italia poteva torturare in Trieste
il commercio di Vienna, che già gridava alla pace e imponeva agli
arciduchi la missione di Hartig, intesa piuttosto a consolar Vienna che non a
sedurre Milano. Ogni provincia avrebbe di giorno in giorno mandati al campo i
suoi battaglioni; e già prima che la neve chiudesse per sei mesi le
Alpi, eruppe la guerra civile nel Sirmio e in Vienna, e la defezione
dell'Ungaria. Qual serie costante di prospere fortune per chi ne fosse degno!
Ma era mestieri non rinunciare solennemente sul bel principio alla guerra
marittima; e per tenere alcun tempo la lega marittima e terrestre, bisognava
anzitutto non offendere nè insidiare i collegati. Dovevasi poi
sollecitare in tutti gli Stati la convocazione delle assemblee, le quali da un
lato potessero metter uomini fidati nei ministeri e al comando delle armi,
dall'altro rifare, fra loro nuova e più sincera lega. Infine, in Roma,
all'ombra dell'idolo popolare, potevano molte cose tentarsi in vero congresso
federale; e prima d'ogni cosa la pace di Sicilia, e la marcia dei reggimenti
svizzeri da via Toledo al Po. Sarebbe almeno rimaso ai posteri l'esempio d'un
comizio di tutta l'Italia. E la dimanda d'un congresso era già fatta
solennemente in Roma il 23 marzo. Ma la rivoluzione, traviata dagli esuli, si
aggirava in un labirinto. Perchè ai principi italiani mancava il primo
elemento delle imprese, la volontà; si era pensato spingerli su quella
via con arti mutuate ai gesuiti: l'uno con vani applausi, l'altro con false
minacce, o collo spavento d'una irruzione francese, o colla invidia d'una
egemonia piemontese, o coll'esca d'un subito acquisto. Pertanto parve opportuno
ai rimurchiatori apportar tosto al re, ancora titubante in Alessandria, un
assaggio di preda bellica. Leggiamo in data di Piacenza: «Tre ore dopo partiti
gli austriaci, il popolo, il dì 26, sebben piovesse, si assembrò
in piazza, gettò abbasso le armi vecchie ducali... Giunse il Gioia... Il
27, alle ore 9 del mattino, giunse qua il capitano del genio piemontese,
Menabrea, con lettera del ministro Pareto, nella quale, sviluppando il
principio della politica del re... offriva l'aiuto suo... Fu accettato per
acclamazione; e subito si nominarono deputati al re il marchese Landi, figlio,
e l'avvocato Gioia... L'inviato piemontese, udito che la deputazione aveva
mandato di offerire la città, fece osservare che il re non si sarebbe
contentato di un atto del municipio. Subito furono aperti registri, dove i
notabili e chiunque cittadino scriverebbe il suo pensiero. E la sera,
illuminate a gioia tutte le case, nelle vie più remote fu portata in
processione fra torchietti la bandiera di Savoia». Notiamo bene: l'antica
bandiera di Savoia, non quella d'Italia. Erano quelle le torce di discordia;
infatti tosto leggiamo estratto di dispaccio del Menabrea: «Votre excellence
aura déià appris qu'à Parme il y a eu contre-révolution en faveur
de la famille des Bourbons». E tosto si palesa
altro contrario disegno d'ingrandimento nei Borboni: «La noblesse de Parme,
à ce qu'il parait, aurait envie de former un État ayant Parme pour
capitale, et qui serait composé des duchès de Parme, Modène,
Reggio et Guastalla... Aussi à l'annonce de la contre-révolution de
Parme, Plaisance s'est déclarée indépendante». Ma sulle
spoglie dei vicini e parenti di Parma e Modena aveva già posto gli occhi
un terzo conquistatore, il granduca di Toscana. Partito il governatore di
Carrara nella notte del 22, «Carrara subito si sollevò, e mostrò
l'espresso desiderio di darsi alla Toscana. In Massa gli animi furono meno
risoluti... Ma non mancarono i buoni... Le cose si mettevano bene; e già
i soldati, affratellati col popolo, correvano per le strade di Massa, gridando:
Viva Leopoldo II... Ma il famoso Guerra... fece affiggere in Carrara un
proclama stampato e firmato Francesco V, che più non ha regno. I
Carraresi si credono traditi, prendono le armi, e in numero di circa 500
vengono a Massa, disposti a combattere per determinare la riunione alla Toscana...
E già la moltitudine consentiva con loro, quando il professor
Montanelli, che, in luogo di fermarsi co' suoi militi del battaglione
universitario a Pietrasanta... venne diritto a Massa, arringò il popolo;
e dissuadendolo dal congiungersi alla famiglia toscana, lo consigliò a
mantenersi libero e indipendente, finchè in un congresso europeo,
presieduto da Pio IX, non si decidesse delle sorti delle provincie italiane.
Alcune voci lo interruppero dicendo: - Noi vogliamo esser toscani. - E
perchè? egli dimanda. Rispondono: - Per avere un appoggio - Replica il
professore: - Se volete un appoggio, dovevate darvi a Carlo Alberto - Quindi
entra nella sala ove era raccolto il municipio, già disposto a stender
l'atto d'unione colla Toscana, e lo esorta a costituirsi governo provisorio ed
aspettare gli eventi. Il professor Matteucci mostrava all'opposto calorosamente
la convenienza di unirsi alla Toscana. Il Municipio esitava... il giorno 23
giunse il professor Giorgini colla sua compagnia... Pare che dentro la giornata
sia per esser pubblicato il proclama dell'unione di Massa e Carrara alla
Toscana. Il professor Montanelli, perduta la speranza di far qui prevalere la
sua proposta, montò in vettura, dirigendosi per la via di Sarzana verso
Milano, per fare, come disse un altro tentativo più fortunato in quella
provincia».
Il
granduca, fin dal 22 marzo, aveva annunciato l'occupazione degli Stati estensi:
ma Modena attese invano per dieciotto giorni i battaglioni toscani, tenuti
immobili fra gli Apennini. Intanto quei pochi toscani ch'erano precorsi,
riputarono dover «dichiarare la causa del ritardo. Pochi malevoli, al loro
dire, spargevano che l'oggetto della spedizione toscana, anzichè esser
quello generoso e italiano della cacciata dello straniero, fosse l'altro d'una
meschina occupazione di territorio. Un riguardo adunque di lodevole delicatezza
ha trattenuto il movimento toscano, e i nostri fratelli sono rimasti fremendo
quasi una settimana (furon poi più di due) fra le nevi dell'Apennino, in
mezzo a mille disagi, per attendere che si dileguassero questi ingiuriosi
sospetti». Nè del tutto i sospetti erano vani, poichè, giusta i
dispacci inglesi, il granduca, oltre all'aver tolto le dogane fra Toscana e
Modena, non fra Toscana e altri Stati italiani, faceva vantare non sappiamo
quali suoi diritti su Modena e Parma; e per affacciarsi anch'egli ai popoli con
qualche sembiante di maggior potenza, facevasi salutare Re d'Etruria in teatro.
Carlo Alberto, mal pago già di Parma e di Modena, disdegnò
nominarle nel proclama che indirizzò il 30 marzo da Lodi: «Agli Italiani
della Lombardia e della Venezia, di Piacenza e di Reggio». E allora e sempre
mirò con animo geloso i battaglioni toscani. I quali poi rimasero
crudelmente derelitti sul campo di Curtatone.
Tutto
questo volume è seminato di tali cieche contese, che sviavano i popoli
dall'amicizia e i soldati dalla guerra. Invano il buon senso publico le
ripudiava. Troviamo scritto fin da quei giorni: «Tutti son sicuri che le sorti
di questo paese sono assicurate come quelle d'Italia; quindi essere inutile
anche il dichiararsi, ora, per un principe anzichè per un altro.
È curioso, che mentre in Lombardia vi sono ancora i tedeschi, da alcuni
si pensi già a passare i confini fra Stato e Stato; e che alcuni toscani
e piemontesi si vadano girando per questi paesi, invitando le popolazioni a
pronunciarsi per un governo o per l'altro. Sono assicurato che all'Avenza
alcuni sarzanesi abbiano fatto abbassare la bandiera italiana per sostituire la
sarda». Queste savie cose si scrivevano in Pontremoli il 25 marzo. Ancora vi
s'ignorava la combinazione delle due bandiere: primo trionfo conseguito dal
genio diplomatico di Enrico Martini la notte del 23, com'egli attesta: «Ed in
primo luogo ottenni che l'armata, passando il Ticino, adotterebbe la bandiera
tricolore in luogo del vessillo di Savoia; solo, nel campo bianco le starebbe
la croce azzurra». Il tricolore ebbe così anche un colore di più.
Il
ricapito principale dei propagatori di discordie fu in breve Milano.
«Là, la santa causa, scriveva Salvagnoli, chiama tutti a combattere con
tutte le armi in tutte le guerre tutti i nemici; là, corre il gran
lombardo Berchet; là, noi lo seguiamo; or non v'è che una
Italia». E pigliando congedo dai lettori della Patria, aggiungeva: «La Patria
non muore, ma si raddoppia; noi andiamo a portare la sua bandiera anco in
Lombardia; là continueremo la nostra battaglia a tutta oltranza».
Minacciando battaglia a tutti i nemici, il Salvagnoli la minacciava anche ai
cittadini d'altro parere; e promettendo valersi d'ogni arme, comprendeva anche
quelle che non erano oneste. E già ne aveva fatto largo uso, quando
rubava a Milano anche quella ben pagata gloria dei giorni di marzo: «Giunge una
staffetta da Milano e porta che la colonna delle truppe e dei volontari di
Novara penetrò in Milano il giorno 20; i primi a scalare le mura furono
i bravi bersaglieri piemontesi. Sì, sì la grande spada d'Italia
è snudata: gli Italiani di Piemonte hanno liberato gli Italiani di
Lombardia». In queste basse arti aveva compagno il governo provisorio; il
quale, la matina del 24, prima ancora d'aver notizia che il re si fosse
deliberato alla guerra, affiggeva agli angoli: «Cittadini, buone notizie!
l'armata piemontese ha passato il Ticino; questa brava armata ch'è
venuta puramente in nostro soccorso». E noi dovremmo arrossirne per la nostra
nazione, se per ventura le menzogne più sfacciate non fossero ancor
quelle che mandava intorno l'Allgemeine Zeitung, la vessillifera
dell'onore teutonico: «Milano tornò all'obedienza... Como fu ripresa dall'arciduca
Sigismondo... I corpi franchi piemontesi furono sconfitti... Anche i generali
Wallmoden e Wratislaw devono aver riportato vittorie... Qui si giudica finita
la rivoluzione italiana».
Ben
alieni dall'accettare il combattimento a tutte armi e a tutta oltranza, gli
uomini di Dio e del Popolo, incatenati al laccio dell'Associazione Italiana di
Parigi, si vedono in questo volume seguire colla corda dei penitenti al collo
gli odiati cortigiani alla fondazione del regno fortissimo. Il 28 marzo, quando
già v'era l'annuncio in Parigi che Milano ardeva e combatteva, essi,
anzichè chiedere a quella nazione, allora ancor signora di sè, un
aiuto d'uomini agguerriti, o almeno un largo prestito d'armi, osarono dire, di
propria autorità, in nome di tutti, ai ministri della Republica:
«L'Italia, così speriamo, saprà bastare a se stessa». Le quali
parole sarebbero state arbitrarie e tracotanti, anco se chi le proferiva fosse
stato egli sotto la mitraglia e non cinquecento miglia lontano. E almeno ciò
fosse stato nella buona coscienza d'aver preparato anzi tempo qualche soccorso
al popolo nel duro cimento! Ma ben al contrario, gli uomini dell'azione
perpetua, logorati da lunga pezza nelle misere e false prove, si confessavano
ignari e attoniti di tutto quel poderoso e spontaneo moto. Scriveva Mazzini:
«Noi parlavamo il 5 marzo una parola di fede, non di speranza immediata; pochi
giorni dopo, voi vi levate soli a operare e vincere per tutti». Avviluppati fra
le contradizioni d'una falsa idea, non osavano più nemmeno dare agli
armati fratelli un consiglio; e se ne rimanevano lontani e quasi nascosi:
«Fedele al programma adottato, l'Associazione Nazionale non s'arroga
facultà di consiglio per ciò che riguarda le forme d'ordinamento
politico più consentanee alle nostre tradizioni e alle tendenze
europee». Ecco quali sono, nel dì vero delle opere, gli ultimi aneliti
d'una impotente agitazione! Agendo nihil agit. Deserti perfin di
consiglio, gli adolescenti della Voce del popolo, facevano il 26 marzo
il primo atto di stampa libera, ripetendo colli oracoli di Parigi: «Noi uomini
di fede non abbiamo in pronto a spacciare principio assoluti di questioni
sociali e politiche». E altra non ne avendo, ripetevano la parola d'ordine
della monarchia futura, dicendo che «le forti popolazioni della zona
settentrionale erano chiamate a difender l'Italia»; come se gli uomini di
Romagna e di Roma e delle Calabrie e della Sicilia non avessero polso al
braccio e non dovessero dividere ogni pericolo nostro. Con umiltà
borghese inanzi ai personaggi del governo provisorio, predestinati ad essere i
grandi del regno futuro, si dicevano «paghi d'essere avvocati del popolo presso
al governo, se la sua carità avesse bisogno di consigli». Dicevano: «Il
nostro motto politico è, per ora, aiuto, concorso, obedienza al governo
provisorio; egli è surto dal popolo». Il che non era vero; e inoltre
contribuiva a dar falsa popolarità agli armistizianti e agli intrusi, e
autorità d'avviare ogni cosa al peggio. E intanto un oscuro giornale che
osò rivocare in dubio l'origine di quel potere, potè venire
impunemente minacciato ed assalito; e la libera stampa si vide manomessa quasi
prima d'esser nata.
Mossi
dal medesimo eccesso d'abnegazione, ossia dalla stessa impotenza del loro
principio, gli uomini di più libero animo venivano dall'esilio a recare
in tributo ai cortigiani le persone loro e quelle dei loro compagni. «Io la
prego, scriveva Filippo De Boni al conte Casati, di offrire il mio ingegno
qualunque si sia e la mia vita al primo governo creato dal popolo nostro. E
questo che io le dichiaro in mio nome, è pure la voce, il sentimento de'
miei fratelli d'esilio annunciatori dell'Italia del popolo; i quali di
Svizzera, di Francia e d'Inghilterra ora muovono verso la Lombardia per
affrettare con la spada sabauda la nostra indipendenza; nè altro
dimandiamo che avere la nostra parte nei pericoli e nelle fatiche, salutare la
libera e Una Italia e morire». Queste eloquenti parole ci mostrano come i
fratelli d'esilio avessero deliberato in commune che Carlo Alberto avesse, non
solo la zona settentrionale, come volevano il Bianchi-Giovini ed altri,
già da più lungo tempo disertori della republica, ma l'Italia
Una; ch'è quanto dire l'Italia Tutta. Era un antico loro sogno del 1831;
pure quei più larghi donatori furono gridati (e lo sono ancora) odiatori
del re, folli ed atroci. Ma è certo che chi più temeva una tanto
improvisa grandezza del re fu sempre, e a ragione, la sua Torino; la quale
già nella zona settentrionale, si vedeva troppo remota dal centro dello
spazio e degli interessi, e nell'Italia Una doveva aspettarsi, non meno del
governo provisorio di Milano, un'irreparabile sommersione.
Era
quella (e non già la forma di governo) la più grave controversia
che fosse allora tra gli uomini dell'Italia Alta, servilmente principeschi, e
gli uomini dell'Italia Una, principeschi solo per ripiego e per disperazione di
raggiungere per altra via la contemplata unità, posta da loro inanzi ad
ogni libertà. A ciò alludeva il loro capo, quando, la sera stessa
del suo arrivo in Milano, dapprima al balcone della sua locanda, poi
all'opposto balcone del palazzo Marino, in mezzo ai membri del governo
provisorio, diceva a coloro che i sergenti del governo avevano a lume di torce
chiamati a udirlo, quanto «egli desiderasse di mettere d'accordo le sue idee
sull'Italia coi membri del governo provisorio». Al che seguivano gli applausi
del satellizio e delle turbe, or dal lato della piazza ove siedeva il governo,
or da quello ove era la locanda dell'oratore, or da quello ove erano le case
della signora d'Azeglio, or finalmente dal vicino palazzo Poldi, dimora del
conte Casati e della principessa Belgioioso. Era quello un politico panteismo,
nel quale, per virtù metafisica dell'unità, persone e cose
venivano in un sol vortice tramestate e assorte.
Ogni
sforzo di metafisica era vano. I provisorii, non pensando in verun modo alla
guerra, ma solo alla loro politica, protestavano sempre di serbare ogni
controversia politica al termine della guerra. Spacciavano tali ciance perfino
al papa, che pure doveva per tante strade sapere i secreti pensieri di loro e
del re. Scrivevano: «Alla Santità di Pio IX: Finchè ferve la
guerra, noi provederemo che dissidii non surgano sulle forme politiche a cui
debba comporsi questa nobil parte della gran patria italiana; a causa vinta la
nazione deciderà». Lo ripetevano ogni istante al popolo: «A causa vinta,
i nostri destini saranno discussi e fissati dalla nazione». «Attendete che ogni
terra italiana sia libera; liberi tutti, parleranno tutti». «Non si discute
intanto che si combatte». E il re medesimo aggiungeva in suo proclama ai
popoli, dato in Lodi il 31 marzo: «Le mie armi, abbreviando la lotta,
ricondurranno fra voi quella sicurezza che vi permetterà d'attendere con
animo sereno e tranquillo a riordinare il vostro interno reggimento; il voto
della nazione potrà esprimersi veramente e liberamente; in quest'ora
solenne vi movano sopratutto la carità della patria, l'aborrimento delle
antiche divisioni, delle antiche discordie, le quali apersero la porta d'Italia
allo straniero». E come se parola di re fosse poco, usciva a farne fede anche
il dottor Angelo Fava, promettendo enfaticamente che la nazione deciderebbe «a
guerra finita, quando l'idra austriaca sarà abbattuta dalla clava
italiana... allora!».
Senonchè,
a smentire la metafora del Fava, compare in quel medesimo giorno, 5 d'aprile,
un manifesto del marchese Doria, altro dei compari, il quale, ammirando la
concordia di tutti gli Italiani alla cacciata delli Austriaci, e tuttavia non
contento, diceva: «Noi abbisognamo d'un'altra concordia... Abbiamo bisogno
d'una concordia che ci dia la unione... Fratelli lombardi e veneti, alla gloria
d'aver cacciato il nemico commune, unite quella di munire la patria commune con
uno Stato forte». E già cinque giorni prima erasi pubblicato in Brescia
altro indirizzo d'un A. L. Bargnani, emigrato reduce, il quale, dopo molte
circollocuzioni, conchiudeva: «Proporrei che tutti i municipii del contado e
della città di Brescia, e lo stesso direi delle altre provincie lombarde
e tirolesi, incaricassero i magistrati proprii di trasmettere a questo governo
provisorio i loro voti, onde le provincie medesime vengano aggregate alli Stati
sardi... I quali voti poi il nostro governo provisorio invierebbe a quello di
Milano, e questo presenterebbe solennemente a Sua Maestà sarda, con o
senza quelli delle altre provincie». Il lettore vedrà quante cose
giacciano sottintese in quelle tristi parole: «con o senza quelli delle altre
provincie». Pareva essersi già deliberato il disegno di scindere
Piacenza da Parma, Reggio da Modena, Brescia da Milano. Leggiamo altrove: «Ho
parlato con un signore che viene di Lombardia, il quale dice che le provincie
siano più disposte ad acclamare Carlo Alberto a loro sovrano che non lo
sia Milano». Ma nella medesima pagina leggiamo: «Il partito republicano pare
che si svegli». E questo era un effetto ben naturale, non ostante il patto di
Parigi e la comparsa di Mazzini sui balconi di piazza San Fedele. Le lentezze
della guerra, le slealtà della politica, le violenze del governo che
faceva minacciare d'incendio la stamperia del Lombardo, da cui erasi
onestamente rivocata in dubio la legitimità del suo potere, facevano
sì che il 7 aprile venisse deliberato da alcuni giovani, presieduti,
crediamo, da Giuseppe Sirtori, un manifesto d'associazione republicana. Venne
però publicato nei giornali solo il 15 aprile, due settimane dopo la
provocazione del Bargnani. E non ebbe la publica adesione del Mazzini se non
dopo il decreto del 12 maggio.
Mazzini pose intanto a servigio dei patrizi i
suoi uomini d'azione, come fa fede la proferta d'impiego da lui fatta in nome
del governo al general Fanti, e controsegnata sul foglio stesso dal secretario
Correnti. A nome pur del governo, Filippo De Boni s'indirizzò ad un
comitato in Losanna, il quale doveva fornire un corpo d'ausiliarii che il
governo simulava di volere accettare a' suoi stipendi, e di poterlo; e che poi
naturalmente non potè e non volle. Inesperto del paese, l'illustre esule
prestava inoltre involontaria mano a una petizione promossa dal governo contro
i membri del consiglio di guerra che avevano impedito l'armistizio. Abbiamo
già veduto con quali aspirazioni il Montanelli corresse da Massa a
Milano; il prete Francesco Dall'Ongaro, pratico di Venezia, fu quivi spedito
dal governo provisorio principalmente per aiutare l'inviato «a entrare in
rapporto colle persone più influenti del governo veneto». Alle armi
straniere si aggiungevano contro Venezia le domestiche insidie.
Fatto
si è che, intorno all'idea vaga dell'unità, si propagavano e si
attemperavano alli animi generosi le mezze idee dell'unione e della fusione, le
quali involgevano i più triviali calcoli d'ingrandimento a favore dei
principi, e di protezione armata a favore dei patrizi; erano come quei frutti
che gli antichi dicevano nascere intorno al Mar Morto, rugiadosi e morbidi al
di fuori, e dentro pieni di cenere. E per ineluttabile forza logica del falso
principio, riuscivano a ultimi calamitosi effetti; quali erano il sospetto
vicendevole dei principi, la loro diserzione alla guerra d'Italia, il ritorno
loro all'alleanza austriaca e ad ogni altra ingerenza straniera; insomma, il
fatale ricorso della istoria italiana, la quale è veramente un eterno
litigio di preminenze e di confini.
I
padri nostri videro bene nella religione del Dio Termine la sicurtà e
santità dei beni domestici e della società municipale; ma non
seppero valersene alla sicurezza e santità d'altri beni più
sublimi e d'altra pur necessaria e più vasta società. Che
importerebbe mai la ineguale ampiezza delle giurisdizioni, in seno ad un'Italia
tutta libera e tutta armata? Siffatte distribuzioni non sarebbero mai di
maggiore inciampo che non siano in seno alla Chiesa i vescovati e gli
arcivescovati. In cinquecento e più anni dacchè fu proferito il
giuramento del Grütli, mai Svitto non pensò a dolersi che Untervaldo e
Uri volessero essere, al pari di lui, padroni in casa loro. Mai la vasta
Virginia e la Pensilvania non insidiarono per amore di maggior concordia gli
Stati, venti o trenta o cinquanta volte men vasti, di Rhode Island e di
Delaware. I confini delle giurisdizioni, quali gli fece la lunga serie delli
eventi, rappresentano da lungi una diversità d'origini felicemente
obliterate dalla lingua commune; e rappresentano dappresso la varietà
delle legislazioni, dei costumi, dei dialetti, e la abitudine di moversi
intorno a certi nodi naturali di commercio. Il turbare d'improviso e senza
necessità quest'ordine di movimenti e di funzioni, a cui tutti i calcoli
delle famiglie sono coordinati, è più grave danno che non si
creda; rende amare ai popoli le primizie della libertà; e in procinto di
guerra, dissipa le loro forze e i loro pensieri. Nel volume si vede, come gli
abitanti della Lunigiana, staccati poco prima dalla Toscana e aggiunti a Parma,
si lagnassero delle insolite leggi: «Corre il sesto mese dacchè siamo in
una posizione sommamente deplorabile». Le varietà quasi familiari delli
Stati nulla tolgono alla coscienza nazionale, rivelata a se stessa e ogni
giorno vieppiù stimolata; e se anche alcuna cosa le togliessero,
converrebbe pure, rimosso ogni ostacolo ai confini, lasciare al commercio, al
tempo, alle idee, e alle innovazioni deliberate in commune, l'officio di
cancellar tali tradizioni senza danno e senza dolore.
Ma
nel 1848 non si trattava già della lenta opera delle legislazioni,
bensì dell'urgente e ardente guerra straniera, alla quale importava
recar subito da tutte le parti d'Italia la maggior somma di gente e di denaro.
Nella recente guerra svizzera, quando il cantone di Vaud pose in armi il dieci
per cento della sua popolazione, gli altri cantoni che non fecero altretanto,
non poterono però averne timore o sospetto; anzi applausero con tutto
l'animo al generoso esempio che accresceva le forze communi. Tale è
l'effetto del principio federale e fraterno. A quella prima campagna il
Piemonte apportò da
Che
se il Piemonte solo o quasi solo, ma con deliberata e audace strategia, e col
favore immenso dei popoli, avesse saputo ripetere intorno a Mantova i prodigi
del gran capitano, e vincere con cinquantamila soldati, vincere con una sola
spada, e a profitto d'un solo, e trapassare dall'unione d'una o d'altra
provincia ad un'improvisa e gloriosa unità; non credano gli esuli che
avrebbero perciò fondata la libertà. Pur troppo lo dimostra
l'esempio della Francia e della Spagna, a cui la libertà sanguinosamente
conquistata sfugge eternamente di mano, per effetto delle immani forze
accumulate in mano ai governi, mentre viceversa nella Svizzera e nell'America,
ove ogni singolo popolo tenne ferma in pugno la sua padronanza, la
libertà, dopo un primo acquisto, non andò più perduta.
Tale è la virtù dei principii, fuor dei quali ogni sforzo di
valore e di sacrificio è vano.
Nè
giova illudersi col dire che questi non siano principii: son principii
anch'essi di diritto; sono per lo meno principii di politica; e la politica
è la necessaria tutrice del diritto; e principio è tutto
ciò che genera inevitabil serie di conseguenze. Nè giova
illudersi col dire che, per poco che si aggiunga, e per poco che si tolga, la
federazione viene bel bello a confondersi coll'unità; poichè in
tutte le faccende del mondo il passaggio da cosa a cosa si fa per gradi; e
talmente per gradi si procede dalla pianta all'animale e dalla foglia al fiore
e al frutto, che la scienza non può additare il punto ove il passaggio
avvenga. Non per questo alcuno cambierà mai il fico colla foglia o la
pecora coll'erba che la pasce o la paterna presidenza di Washington colla truce
dittatura di Cavaignac. È l'antico sofisma del cumulo.
Sempre
in preda a precipitose astrazioni, vedono nel mondo gli individui; poi le
famiglie, ed è gran ventura; poi vedono anche commune, ossia l'azienda
unita d'un centinaio forse di famiglie, e nel più de' casi, combinazione
pressochè domestica e privata. Poi chiudono gli occhi per tutti gli
altri internodii e ricapiti dell'umana società; balzano d'un tratto alla
nazione, ch'è quanto dire, alla lingua. Ignorano lo Stato e le sue
necessità. Dunque se una medesima lingua domina le Isole Britanniche, la
Pensilvania, la California, l'alto Canadà, la Giamaica, l'Australia, per
essi v'è solamente a far somma d'un maggior numero di famiglie e di
communi. Dunque il Parlamento britannico non ha da far leggi; il Congresso
americano sogna d'aver leggi da fare; tanto è più superflua una
legislazione provinciale per i fratelli della Pensilvania e i venturieri della
California; l'algido Canadà, la torrida Giamaica non debbono aver leggi
proprie, che rispondano ai luoghi e alle tradizioni e alle varie mescolanze
degli uomini e alla varia loro coscienza; l'Australia debbe aspettare in eterno
ogni provedimento da' suoi antipodi, perchè parla la stessa lingua, e fa
secoloro una sola nazione!
No,
qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga
tra le famiglie e le communi, un parlamento adunato in Londra non farà
mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai
contenta Ginevra; le leggi, discusse in Napoli non risusciteranno mai la
giacente Sicilia, nè una maggioranza piemontese si crederà in
debito mai di pensar notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà
rendere tolerabili tutti i suoi provedimenti in Venezia o in Milano. Ogni popolo
può avere molti interessi da trattare in commune con altri popoli; ma vi
sono interessi che può trattare egli solo, perchè egli solo gli
sente, perchè egli solo gli intende. E v'è inoltre in ogni popolo
anche la coscienza del suo essere, anche la superbia del suo nome, anche la
gelosia dell'avita sua terra. Di là il diritto federale, ossia il
diritto dei popoli; il quale debbe avere il suo luogo, accanto al diritto della
nazione, accanto al diritto dell'umanità.
Uomini
frivoli, dimentichi della piccolezza degli interessi che gli fanno parlare,
credono valga per tutta confutazione del principio federale andar ripetendo che
è il sistema delle vecchie republichette. Risponderemo ridendo, e
additando loro al di là d'un Oceano l'immensa America, e al di là
d'altro Oceano il vessillo stellato sventolante nei porti del Giappone.
Ma
non giova più dilungarci. A esporre quanti ragionamenti ci
suggerì la lettura di queste centinaia di frammenti si vorrebbe altra
egual mole di volume. Epperò abbiam giudicato miglior consiglio che
questo Avviso al Lettore tenga luogo anche delle Considerazioni
che abbiamo aggiunte ai nostri due primi volumi. Ci basta di far animo al
lettore a superare la prima fatica, a metter per entro alla congerie dei
documenti uno sguardo indagatore. Si tratta della nostra istoria recente e
viva; alla quale poco dissimile tornerà pur troppo la istoria futura e
imminente; poichè i fatti dei popoli camminano coi loro pensieri; e il
pensiero publico, benchè ritratto dalle plateali dimostrazioni a qualche
maggior gravità, si move però ancora sui principii che lo
traviarono allora. A chi ci apponesse d'aver con falso animo allegata in questi
frammenti tal cosa o pretermessa tal altra, ripetiamo l'invito di por mano
all'opera, e metter fuori altro volume da collocarsi a lato al nostro per
supplire al nostro difetto. E pur troppo qualche mancanza nostra è
veramente involontaria; e noi, al pari forse de' nostri lettori, restiamo col
desiderio di sapere, a cagion d'esempio, quale arcano caso condusse prima a
Chambéry, poi a Milano tanto l'emissario Urbino quanto il generale Olivieri,
eletto fra tutti a difendere Milano quattro mesi dopo aver avuto una publica
nota di disonore dalla guardia di Chambéry. A chi ci accusasse di aver
coltivato odio di principi, rancori di provincie, rivalità di opinioni,
additeremo in questo medesimo volume qual divario, a cagion d'esempio, passa
tra le sobrie nostre illazioni intorno alla morte di Pellegrino Rossi
desiderata ad un tempo medesimo dai prelati, dai regi e dagli unitarii, e la
furiosa invettiva del Gioberti contro i ministri piemontesi, che nelle persone
loro erano affatto innocenti di quella morte. Additeremo anche le tristi
confessioni prese dai libri del conte della Margarita e del marchese Gualterio.
Additeremo quello sulla Campagna d'Italia d'un officiale di stato
maggiore e le Memorie e Osservazioni d'un familiare del re; l'uno dei
quali allude a molte cose, che noi ben vorremmo meglio chiarite, ove scrive che
«la fazione assolutista fu la sola che riescì allora a' suoi disegni e
si governò con astuzia e intendimento». E l'altro dice ancor più
che noi osammo dire, ove attribuisce le sventure dell'esercito a ben altro che
ad errori d'arte militare: «Ciò che gli spiriti leggieri e superficiali
tacciano d'ignoranza (esso dice) non era forse che il risultato del calcolo: e
del calcolo più profondo».
Ma
se il calcolo fu profondo, o per vero dire fu profondamente falso da una parte,
non fu men profondo e meno falso presso l'altra delle due congreghe secrete,
fra le quali ondeggiava a quei tempi, per vecchio suo vizio, quella corte. Se
nefando era il consiglio che mirava a ricondurre per la via d'un sanguinoso
disastro la casa di Savoia a uno stato di monastica inerzia e nullità,
delirio era il consiglio che la spingeva, ad un tratto e sola, contro l'Austria
e contro tutti i principi d'Italia.
Ben
le fu dato, o veramente gettato inanzi e non venduto, un altro consiglio, un
consiglio affatto semplice e militare, qual poteva venire in mente a chi era
sotto il rombo della mitraglia: Combattere; mirar solo alla vittoria; valersi
alla vittoria di quante forze prorompevano allora spontanee da tutti gli Stati
d'Italia. La vera e non insidiosa e non odiosa egemonia doveva consistere nell'avventarsi
al primo e più vicino posto sul campo; e questa egemonia da nessuno
poteva preoccuparsi al Piemonte, quando il campo sul quale errava un nemico
già stanco e snervato era ad una mezza marcia dalle sue frontiere.
Il
consiglio fu inviato in tempo, al primo lampo della vittoria del popolo, nel
terzo giorno del combattimento; fu inviato per di sopra alla cerchia ancora
intera di ventimila nemici: «Milano, per compiere la sua vittoria, dimanda il
soccorso di tutti i popoli e principi d'Italia; e specialmente del vicino e
bellicoso Piemonte!»
E
compiuta la vittoria, ancor non era da pensare a far sacco; nè a
risuscitare in Italia contese di terra e di confini.
Era
bastevole profitto per il Piemonte, da mero brano d'una nazione impotente e
oppressa, divenire con uno splendido fatto di guerra membro d'un corpo vivente,
forte, e libero; potente a' suoi confini quant'altra qualsiasi nazione, dieci
volte più popoloso della Svizzera, e in commercio sicuro e vicino con
essa: epperò certo della sua alleanza, ogni qualvolta il volesse, a
fronte di qualsiasi turbatore, seppur poteva sorgere nuovo turbatore contro chi
non avesse ingelosito chicchessia con atteggiamenti da conquistatore, ma
contenute le armi vittoriose entro il sacro limite della commune difesa. A chi
giaceva così basso, come da tanti anni l'Italia, doveva parer bastevole
profitto porsi tutta alla condizione medesima che fu paga di prefiggere a
sè nel 1814 la Germania vincitrice!
Il
Piemonte avrebbe avuto a men doloroso prezzo tutto ciò che adesso ha:
più la vittoria: più la fama militare: più l'intimo e
libero commercio con tutta Italia e la compagnia di tutti i popoli italiani a
svolgere nella vasta patria gli assopiti elementi d'ogni forza e d'ogni
prosperità. Il Piemonte non avrebbe avuto sempre vigile e torva al ponte
del Ticino la faccia d'un nemico che vede con dolore ogni suo bene e, con
tripudio ogni sua sventura.
Quando
tutti gli Stati d'Italia dovevano essere governati da adunanze elettive (e
quante più erano, tanto meglio per la satisfazione dei popoli e la
concordia universale), poco importava che in Parma si deliberasse a nome d'un
duca, e a Roma a nome d'un pontefice sotto l'altiera presidenza d'un Rossi; e a
Venezia, come in Francoforte e in Amburgo, sotto quella d'altro semplice cittadino.
Nulla avrebbe levato alla prosperità dei piemontesi e dei genovesi, se a
Milano i facendieri avessero data la vacua corona al duca di Genova, come era
ben facile; o se per offendere meno le assurde osservanze della diplomazia, le
quali trattano ogni stato come un patrimonio, si fosse raccolto nel solo nome
del granduca di Toscana tutto ciò che dai trattati erasi qua e là
assegnato al suo parentado in Italia; o se si fosse voluto avere un regno con
due teste, potevano pur congiungere sotto Carlo Alberto Torino e Milano; ma
così come la Svezia e la Norvegia; così come Berna e Zurigo; non
già come il Belgio e l'Olanda, per darsi mutuo impaccio, e concepirsi
odio, e in breve ripudiarsi per sempre.
Quanto
alla paura che publicamente si affettava dei republicani, pare non fosse altro
che polve alli occhi della diplomazia: poichè il patto che si era
stretto da Azeglio colle società secrete di Romagna e Toscana, e si era
imposto all'Associazione Italiana di Parigi da uomini che anzi tutto professavano
rancore alla Francia, non solo assicurava il re da ogni prova di republica in
Milano, ma gli dava per fautori e propagatori e i Berchet e i Mazzini, e quanti
mai avevano bensì maledetto alla perversa sua politica, ma gli avevano
già offerto vittorie e regni fin dal 1821 e dal
Intanto
la casa di Savoia, in preda a consiglieri senza consiglio, si lasciò
sfuggire di pugno un momento di gloria e di fortuna, che forse non
tornerà mai!
Potrà
ben essa nei futuri rimpasti delle cose europee acquistar forse una od altra
provincia, ma non senza perderne altre e più saldo possesso; e in ogni
modo le sue sorti poi rimarranno sempre in arbitrio straniero, non meno della
rimanente Italia. Il Piemonte diverrà forse uno stato più
italiano; ma i suoi destini saranno sempre combattuti, perchè il
problema dell'Italia non sarà sciolto ancora.
Fuori
del diritto federale saremo sempre gelosi, discordi e infelici.