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Novelli
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Carlo Cafiero
COMPENDIO
DEL CAPITALE
Brevemente
compendiato da Carlo Cafiero
L'operaio ha
fatto tutto;
e l'operaio
può distruggere tutto,
perché
può tutto rifare.
Un lavoratore
italiano
Il Capitale di
Carlo Marx brevemente compendiato da Carlo Cafiero
Prefazione di
Carlo Cafiero
CAPITOLO I
Merce, moneta,
ricchezza e capitale
CAPITOLO II
Come nasce il
capitale
CAPITOLO III
La giornata di
lavoro
CAPITOLO IV
Il plusvalore
relativo
CAPITOLO V
Cooperazione
CAPITOLO VI
Divisione del
lavoro e manifattura
CAPITOLO VII
Macchine e
grande industria
CAPITOLO VIII
Il salario
CAPITOLO IX
Accumulazione
del capitale
CAPITOLO X
L'accumulazione
primitiva
CONCLUSIONE
APPENDICE:
CORRISPONDENZA
CAFIERO - MARX
Cafiero a Marx
Marx a Cafiero
Italia, marzo
1878
Un profondo sentimento di tristezza mi
ha colto, studiando Il Capitale, quando ho pensato che questo libro era,
e chi sa quanto rimarrebbe ancora, affatto sconosciuto in Italia.
Ma se
ciò è, ho poi detto fra me, vuol dire che il mio dovere è
appunto di adoperarmi a tutt'uomo, onde ciò più non sia. E che
fare? Una traduzione? Ohibò. Ciò non servirebbe a nulla. Coloro
che sono in grado di comprendere l'opera di Marx, tale quale egli l'ha scritta,
conoscono certamente il francese, e possono avvalersi della bella traduzione di
J. Roy, interamente riveduta dall'autore, il quale la dice meritevole di essere
consultata anche da coloro che conoscono l'idioma tedesco. È ben altra
la gente per la quale io devo lavorare. Essa si divide in tre categorie: la
prima si compone di lavoratori dotati d'intelligenza e di una certa istruzione;
la seconda, di giovani che sono usciti dalla borghesia, e hanno sposata la
causa del lavoro, ma che non hanno peranco né un corredo di studi né uno
sviluppo intellettuale sufficiente per comprendere Il Capitale nel suo
testo originale; la terza, finalmente, di quella prima gioventù delle
scuole, dal cuore ancora vergine, che può paragonarsi a un bel vivaio di
piante ancora tenere, ma che daranno i più buoni frutti, se trapiantate
in terreno propizio. Il mio lavoro deve essere dunque un facile e breve
compendio del libro di Marx.
Questo libro
rappresenta il nuovo vero, che demolisce, stritola e disperde ai venti tutto un
secolare edificio di errori e di menzogne. Esso è tutta una guerra. Una
guerra gloriosa, e per la potenza del nemico, e per la potenza, ancora
più grande, del capitano, che l'intraprendeva con sì grande
quantità di nuovissime armi, di istrumenti e macchine di ogni sorta, che
il suo genio aveva saputo ritrarre da tutte le scienze moderne.
Di gran lunga
più ristretto e modesto è il compito mio. Io devo solamente
guidare una turba di volenterosi seguaci per la strada più facile e
breve al tempio del capitale; e là demolire quel dio, onde tutti possano
vedere con i propri occhi e toccare con le proprie mani gli elementi dei quali
esso si compone; e strappare le vesti ai sacerdoti, affinché tutti possano
vedere le nascoste macchie di sangue umano, e le crudelissime armi, con le
quali essi vanno, ogni giorno, immolando un sempre crescente numero di vittime.
E in questi
propositi che mi accingo all'opera. Possa frattanto Marx adempire la sua promessa,
dandoci il secondo volume del Capitale, che tratterà della Circolazione
del Capitale (libro II), e delle forme diverse che riveste nel corso del
suo sviluppo (libro III), e il quarto e ultimo volume che esporrà la
Storia della teoria.
Questo primo
libro del Capitale, scritto originalmente in tedesco e poscia tradotto
in russo e in francese, è ora brevemente compendiato in italiano
nell'interesse della causa del lavoro. Lo leggano i lavoratori e lo meditino
attentamente perché in esso si contiene non solamente la storia dello Sviluppo
della produzione capitalista, ma eziandio il Martirologio del lavoratore.
E finalmente,
farò anche appello a una classe altamente interessata nel fatto della
accumulazione capitalista, alla classe cioè dei piccoli proprietari.
Come va che questa classe, un giorno tanto numerosa in Italia, oggi si va
sempre più restringendo? La ragione è molto semplice. Perché dal
C. C.
Merce, moneta,
ricchezza e capitale
La merce è un oggetto che ha un
doppio valore: valore di uso e valore di scambio, o valore propriamente detto.
Se posseggo, per esempio, 20 chili di caffè, io posso, sia consumarli
per mio proprio uso, sia scambiarli con
Il valore di
uso della merce è basato sulle qualità proprie della merce
stessa, la quale è, da quelle sue qualità, destinata a soddisfare
il tale, e non il tal altro bisogno nostro. Il valore d'uso dei 20 chili di
caffè è basato sulle qualità che il caffè possiede;
le quali qualità sono tali, che lo rendono atto a darci quella bevanda
nota a tutti, ma non lo rendono capace a vestirci, né a servirci di materia per
una camicia. È perciò che noi possiamo profittare del valore
d'uso dei 20 chili di caffè, solamente se sentiamo bisogno di bere il
caffè; ma se invece sentiamo il bisogno di una camicia, o di vestire un
abito del valore d'uso dei 20 chili di caffè, non sappiamo che farne; o,
per meglio dire, non sapremmo che farne, se accanto al valore d'uso, non vi
fosse, nella merce, il valore di scambio. Noi infatti troviamo un altro che
possiede un abito, ma che non ne ha bisogno, ed ha bisogno invece di
caffè. Allora si fa subito uno scambio. Noi gli diamo i 20 chili di
caffè ed egli ci dà l'abito.
Ma succede che
le merci, mentre differiscono tutte fra loro per le loro qualità
diverse, cioè per il loro valore di uso, si possano poi tutte scambiare
fra di loro in date proporzioni? Noi lo abbiamo già detto.
Perché, accanto
al valore di uso, trovasi nella merce il valore di scambio. Ora, la base del valore
di scambio, o valore propriamente detto, è il lavoro umano richiesto per
la produzione. La merce è procreata dal lavoratore; il lavoro umano
è la sostanza generativa che le dà l'esistenza. Tutte le merci
adunque, benché diverse fra loro per le qualità, sono perfettamente
simili nella sostanza, perché, figlie di un medesimo padre, hanno tutte il
medesimo sangue nelle loro vene. Se 20 chili di caffè si scambiano con
un abito, o con
La grandezza
del valore dipende dalla grandezza del lavoro; in 12 ore di lavoro si produce
un valore doppio di quello che si produce in sei ore solamente. Dunque, direbbe
alcuno, più un operaio è lungo a lavorare, per inabilità o
per pigrizia, più valore produce. Niente di più falso. Il lavoro,
che forma la sostanza del valore, non è il lavoro di Pietro o di Paolo,
ma un lavoro medio, che è sempre uguale, e che è detto
propriamente lavoro sociale. Esso è quel lavoro, che, in un dato centro
di produzione, può farsi in media da un operaio, il quale lavori con una
media abilità ed una media intensità.
Conosciuto il
doppio carattere della merce, di essere, cioè, un valore di uso e un
valore di scambio, si comprenderà che la merce può nascere
solamente per opera del lavoro, e di un lavoro utile a tutti. L'aria per
esempio, le praterie naturali, la terra vergine ecc. sono utili all'uomo, ma
non costituiscono per lui alcun valore, perché non sono il prodotto del suo
lavoro e, per conseguenza, non sono merci. Noi possiamo fabbricarci oggetti per
i nostri propri usi, ma che non possono essere utili per gli altri; in tal caso
non produciamo merci; come ancor meno ne produciamo quando lavoriamo intorno ad
oggetti, che non hanno alcuna utilità né per noi né per gli altri.
Le merci,
dunque, si scambiano tra loro; l'una, cioè, si presenta come l'equivalente
dell'altra. Per la maggiore comodità degli scambi si comincia a servirsi
sempre di una data merce come equivalente; la quale esce così dal rango
di tutte le altre, per mettersi di fronte ad esse quale equivalente generale,
cioè moneta. La moneta perciò è quella merce che, per la
consuetudine e per la sanzione legale, ha monopolizzato il posto di equivalente
generale. Così è avvenuto da noi per l'argento. Mentre prima 20
chili di caffè, un abito,
Però,
sia che lo scambio si faccia immediatamente da merce a merce, sia che lo
scambio si faccia mediante la moneta, la legge degli scambi resta sempre la
stessa. Una merce non si può mai scambiare con un'altra, se il lavoro
che ci vuole per produrre l'una non è uguale al lavoro che ci vuole per
produrre l'altra. Questa legge bisogna tenerla bene in mente, perché sopra di
essa è fondato tutto ciò che verremo a dire in seguito.
Venuta la
moneta, gli scambi diretti od immediati, da merce a merce, finiscono. Gli
scambi devono farsi tutti, d'ora in poi, mediante la moneta; dimodoché una
merce che voglia trasformarsi in un'altra, deve, prima, da merce trasformarsi
in moneta, poi da moneta ritrasformarsi in merce. La formula degli scambi,
dunque, non sarà più una catena di merci, ma una catena di merci
e moneta. Eccola:
Merce-Moneta-Merce-Moneta-Merce-Moneta.
Ora, se in
questa formula troviamo indicati i giri che fa la merce, nelle sue successive
trasformazioni, troviamo egualmente segnati i giri della moneta. È da
questa stessa formula dunque che ricaveremo la formula del capitale.
Quando noi ci
troviamo in possesso di un certo cumulo di merci, o di moneta, che è la
stessa cosa, noi siamo possessori di una certa ricchezza. Se noi a questa
ricchezza possiamo far prendere un corpo, cioè un organismo capace di
svilupparsi, avremo un capitale. Prendere un corpo, od un organismo capace di
svilupparsi, vuol dire nascere e crescere; e infatti l'essenza del capitale
è riposta appunto nella natura possibilmente prolifica della moneta.
La risoluzione
del problema (trovare il modo di far nascere il capitale) è contenuta
nella risoluzione dell'altro problema: trovare il modo di far aumentare il
danaro progressivamente.
Nella formula,
che segna i giri delle merci e della moneta, aggiungiamo, al termine moneta, un
segno di aumento progressivo indicandolo, per esempio, con un numero e avremo:
Moneta-Merce-Moneta
1-Merce-
Moneta
2-Merce-Moneta 3
Ecco la formula del capitale.
Come nasce il capitale
Esaminando attentamente la formula del
capitale, si rileva che in ultima analisi la questione della nascita del
capitale si risolve nell'altra questione seguente: trovare una merce che ci dia
più di quanto ci è costata; trovare una merce la quale, nelle
nostre mani, possa crescere di valore, dimodoché, vendendola, noi venissimo a prendere
più denaro di quanto ne spendemmo per comprarla. Deve essere insomma una
merce elastica che, nelle nostre mani, stirata alquanto, possa ingrandire il
volume del suo valore. Questa merce tanto singolare esiste davvero e si chiama
potenza del lavoro, o forza del lavoro.
Ecco l'uomo del
denaro, l'uomo che possiede un cumulo di ricchezza, dalla quale vuol far
partorire un capitale. Egli viene sul mercato, in cerca appunto di forza di
lavoro. Seguiamolo. Egli gira per il mercato, ed incontra il proletario,
venutovi appunto per vendere la sua unica merce, la forza del lavoro. Il
proletario però non vende la sua forza di lavoro in blocco, non la vende
tutta, ma solamente in parte, per un dato tempo, cioè per un giorno, per
una settimana, per un mese, ecc. Se egli la vendesse interamente, allora, da
mercante, diventerebbe egli stesso una merce; non sarebbe più il
salariato, ma lo schiavo del suo padrone.
Il prezzo della
forza del lavoro si calcola nel modo seguente. Si prenda il prezzo dei viveri,
abiti, abitazione e di quanto altro occorre in un anno al lavoratore per
mantenere la sua forza di lavoro, sempre nel suo stato normale; si aggiunga, a
questa prima somma, il prezzo di quanto occorre in un anno al lavoratore per
procreare, allevare ed educare, secondo la sua condizione, i suoi figli; si
divida il totale per 365, quanti sono i giorni dell'anno, e si avrà
quanto, ciascun giorno, si richiede per mantenere la forza del lavoro, il suo
prezzo giornaliero, che è il salario giornaliero del lavoratore. Se fa parte
di questo calcolo anche ciò che occorre al lavoratore per procreare,
allevare ed educare i suoi figli, è perché questi sono la continuazione
della sua forza lavoro. Se il proletario vendesse non in parte ma in tutto la
sua forza lavoro, allora, divenuto egli stesso una merce, cioé schiavo del suo
padrone, i figli che egli procreerebbe sarebbero eziandio una merce,
cioè schiavi, al pari di lui, del suo padrone; ma, alienando il
proletario solamente una parte della sua forza lavoro, egli ha diritto a conservare
tutto il resto, che si trova parte in lui e parte nei suoi figli.
Con questo
calcolo noi otteniamo l'esatto prezzo della forza lavoro. La legge degli
scambi, esposta nel precedente capitolo, dice che una merce non si può
scambiare che con un'altra del suo stesso valore, cioè che una merce non
si può scambiare con un'altra se il lavoro che ci vuole per produrre
l'una non è uguale al lavoro che ci vuole per produrre l'altra. Ora, il
lavoro che ci vuole per produrre la forza lavoro è uguale al lavoro che
ci vuole per produrre le cose necessarie al lavoratore, e per conseguenza il
valore delle cose necessarie al lavoratore è uguale al valore della sua
forza lavoro. Se dunque il lavoratore ha bisogno di 3 lire al giorno per tutte
le cose che gli sono necessarie, è chiaro che 3 lire sarà il
prezzo della sua forza lavoro per una giornata.
Ora supponiamo
(e il supposto in nulla ci nuoce) che il salario giornaliero di un operaio, ricercato
nel modo testé esposto, ammonti a 3 lire. Supponiamo eziandio che, in 6 ore di
lavoro, si possano produrre
L'uomo del
denaro ha intanto stretto il contratto col proletario, pagandogli la sua forza
lavoro al suo giusto prezzo di 3 lire al giorno. Egli è un borghese
perfettamente onesto ed anche religioso, per cui si guarderebbe bene di defraudare
la mercede all'operaio. Né si potrà fare l'appunto che il salario
viene pagato all'operaio alla fine della giornata o della settimana,
cioè dopo che egli ha già prodotto il suo lavoro; perché questo
è quanto si pratica anche con altre merci, il cui valore si realizza
nell'uso, come è per esempio il fitto di una casa, o di un podere, il
cui prezzo si può pagare allo spirare del termine.
Tre sono gli
elementi del processo del lavoro: I forza del lavoro, II materia del lavoro e
III mezzo del lavoro. Il nostro uomo del denaro, dopo la forza del lavoro, ha
comprato sul mercato anche la materia del lavoro, cioè bambagia; il
mezzo di lavoro, cioè l'opificio con tutti gli strumenti, è bello
e pronto; e, per conseguenza, altro non gli resta a fare che mettersi la via
fra le gambe per dare tosto principio all'opera.
«Una certa
trasformazione ci sembra essersi operata nella fisionomia dei personaggi del nostro
dramma. L'uomo del denaro prende la precedenza e, in qualità di
capitalista, cammina per il primo; il possessore della forza lavoro gli tien
dietro, come lavoratore che gli appartiene; quegli, dallo sguardo furbo e
dall'aspetto altero e affaccendato; questi, timido, esitante, restìo,
come chi, avendo portata la sua propria pelle al mercato, non può
aspettarsi ormai che una sola cosa: essere conciato.»[1]
I nostri due
personaggi giungono all'opificio, dove il padrone si affretta a mettere il suo
operaio al lavoro, consegnandogli 10 chili di bambagia, essendo questi un
filatore di cotone.
Il lavoro si
risolve in un consumo degli elementi che lo compongono; consumo di forza lavoro,
consumo della materia del lavoro e consumo dei mezzi del lavoro.
Il consumo dei
mezzi del lavoro si calcola nel seguente modo. Dalla somma del valore di tutti
i mezzi del lavoro, fabbricato, istrumenti caloriferi, carbone, eccetera, si
sottragga la somma del valore di tutti i materiali che potranno rimanere dei
mezzi di lavoro messi dal consumo fuori d'uso; si divida il risultato di questa
sottrazione per il numero di giorni che i mezzi di lavoro possono durare, e si
avrà il consumo giornaliero dei mezzi del lavoro.
Il nostro
operaio lavora per tutta una giornata di 12 ore. Compiuta la quale, egli ha
trasformato i 10 chili di bambagia in 10 chili di filo, che consegna al suo
padrone, e lascia l'opificio per ridursi a casa. Strada facendo, però,
per quel brutto vizio che hanno gli operai, di voler sempre fare i conti alle spalle
dei loro padroni, egli va ricercando nella sua mente quanto il suo padrone
potrà guadagnare su quei 10 chili di filo. Non so veramente quanto si
paghi il filo, dice fra sé, ma il conto è presto fatto. La bambagia l'ho
visto io quando l'ha comprata al mercato a 3 lire al chilo. Tutti i suoi mezzi
del lavoro possono avere un consumo di 4 lire al giorno. Dunque:
Per 10 chili di bambagia |
L. |
30,00 |
Per consumo di mezzi di lavoro |
L. |
4,00 |
Per salario della giornata |
L. |
3,00 |
|
|
——— |
Totale |
L. |
37,00 |
I 10 chili di
filo valgono 37 lire. Ora sulla bambagia non ci ha guadagnato nulla certamente,
perché l'ha pagata al suo giusto prezzo, né un centesimo di più né un
centesimo di meno; tale quale ha agito con me, pagando la mia forza lavoro al
suo giusto prezzo di 3 lire al giorno; dunque, il suo guadagno egli lo deve
trovare vendendo il suo filo per più di quello che vale. Deve essere
assolutamente così; se no egli avrebbe speso 37 lire per prendere giusto
37 lire, senza contare il tempo che ha perduto ed il fastidio che si è
preso. Guarda mo' come son fatti i padroni! Hanno un bel voler fare gli onesti
con l'operaio dal quale comprano la forza lavoro, col mercante dal quale
comprano la materia, ma il loro punto debole ce lo hanno sempre, e noialtri
operai, che conosciamo le cose del mestiere, lo scopriamo subito. Ma vendere
una merce per più di quello che vale è come vendere coi pesi
falsi, il che è proibito dall'autorità. Dunque, se gli operai
svelassero le frodi dei padroni, questi sarebbero costretti a chiudere i loro
opifici; e per far produrre le merci richieste dai bisogni, forse si
aprirebbero grandi stabilimenti governativi; il che sarebbe molto meglio.
Così
fantasticando l'operaio è giunto a casa; e là, cenato, si
è messo a letto e si è addormentato profondamente, sognando la
scomparsa dei padroni e la fondazione delle officine governative.
Dormi, povero
amico, dormi in pace, frattanto che ti resta ancora una speranza. Dormi in pace,
ché il giorno del disinganno non tarderà a venire. Presto imparerai come
il tuo padrone possa vendere la sua merce con profitto, senza defraudare
alcuno. Egli stesso ti farà vedere come si diventi capitalista, e grosso
capitalista, rimanendo perfettamente onesto. Allora i tuoi sonni non saranno
più così tranquilli. Tu vedrai nelle tue notti il capitale, come
un incubo, che ti preme e minaccia di schiacciarti. Con occhio spaventato lo
vedrai ingrossarsi, come un mostro dalle cento proboscidi, che avidamente
ricercano i pori del tuo corpo per succhiarne il sangue. E finalmente lo vedrai
assumere proporzioni smisuratamente gigantesche, nero e terribile nell'aspetto,
con occhi e bocca di fuoco, trasmutare le sue proboscidi in larghissime trombe
aspiranti, entro le quali vedrai scomparire migliaia di esseri umani: uomini,
donne, fanciulli. Dalla tua fronte colerà allora il sudore della morte,
perché la volta tua, della tua moglie e dei tuoi figli starà per
arrivare... Ed il tuo ultimo gemito sarà coperto dallo sghignazzare
allegro del mostro, felice del suo stato, tanto più prospero, tanto
più inumano.
Torniamo al
nostro uomo del denaro.
Questo
borghese, modello di esattezza e di ordine, ha regolato tutti i suoi conti
della giornata; ed ecco come ha ricercato il prezzo dei suoi 10 chili di filo:
Per 10 chili di bambagia a 3 lire il
chilo |
L. |
30,00 |
Per consumo di mezzi di lavoro |
L. |
4,00 |
Ma circa il terzo elemento, entrato
nella formazione della sua merce, egli non ha segnato il salario pagato
all'operaio. Egli conosce molto bene che passa una grande differenza tra il
prezzo del lavoro ed il prodotto della forza lavoro. Il salario di una giornata
rappresenta quanto ci vuole per mantenere l'operaio per 24 ore, ma non
rappresenta affatto ciò che l'operaio produce in una giornata di lavoro.
Il nostro uomo del denaro sa benissimo che le 3 lire di salario da lui pagate
rappresentano il mantenimento per 24 ore del suo operaio, ma non ciò che
questi ha prodotto nelle 12 ore che ha lavorato nel suo opificio. Egli sa tutto
questo, precisamente come l'agricoltore sa la differenza che passa fra
ciò che il mantenimento di una vacca gli costa per stalla, nutrimento,
eccetera, e ciò che essa gli rende in latte, cacio, burro, eccetera. La
forza lavoro ha la qualità singolare di rendere più di quanto
costa ed è per questo, appunto, che l'uomo del denaro è andato a
comprarla sul mercato. Né in ciò l'operaio ha niente da ridire. Egli ha
ritirato il giusto prezzo della sua merce; la legge degli scambi è stata
perfettamente osservata; ed egli non ha il diritto di ingerirsi dell'uso che il
compratore ne farà, come non ne ha il droghiere d'ingerirsi dell'uso che
il suo avventore farà dello zucchero e del pepe comprato nella sua
bottega.
Noi abbiamo
supposto di sopra che, in 6 ore di lavoro, si producono
Per 10 chili di bambagia a 3 lire il
chilo |
L. |
30,00 |
Per consumo di mezzi di lavoro |
L. |
4,00 |
Per 12 ore di forza lavoro |
L. |
6,00 |
|
|
——— |
Totale |
L. |
40,00 |
L'uomo del denaro ha quindi speso 37
lire ed ha ottenuto una merce che vale 40 lire; ha guadagnato così 3
lire; il suo denaro ha figliato.
Il problema
è sciolto. È nato il capitale.
La giornata di
lavoro
Il capitale, nato appena, sente tosto
il bisogno di nutrimento per svilupparsi; ed il capitalista, il quale non vive
ora che della vita del capitale, si preoccupa attentamente dei bisogni di
quest'essere, divenuto il suo cuore e la sua anima, e trova il modo di
soddisfarli.
Il primo mezzo,
impiegato dal capitalista a pro' del suo capitale, è il prolungamento
della giornata di lavoro. Certamente che la giornata di lavoro ha i suoi
limiti. Anzitutto un giorno non consta che di 24 ore; poi bisogna da queste 24
ore toglierne un certo numero, perché l'operaio possa soddisfare tutti i suoi
bisogni fisici e morali: dormire, nutrirsi, riposare le sue forze, eccetera.
«Ma questi limiti sono per loro stessi molto elastici e lasciano la più
grande latitudine. Così noi troviamo giornate di lavoro di 10, 12, 14,
16 e 18 ore, cioè delle più svariate lunghezze. Il capitalista ha
comprato la forza lavoro per il suo valore giornaliero. Egli ha dunque
acquistato il diritto di fare lavorare, durante tutto il giorno, il lavoratore
al suo servizio. Ma che cosa è un giorno di lavoro? In ogni caso esso
è minore di un giorno naturale. Di quanto? Il capitalista ha la sua
propria maniera di vedere su questo limite necessario della giornata di lavoro.
Il tempo nel quale l'operaio lavora è il tempo nel quale il capitalista
consuma la forza lavoro che egli ha comprato dall'operaio. Se il salariato
consuma per se medesimo il tempo che ha disponibile, egli ruba al capitalista.
Il capitalista se ne appella dunque alla legge dello scambio delle merci. Egli
cerca, come ogni altro compratore, di tirare dal valore d'uso della merce la
più grossa parte possibile. Ma ecco che si leva la voce del lavoratore,
e dice: "La merce che io ti ho venduto si distingue dalla turba di tutte
le altre merci, perché il suo uso crea valore, e un valore più grande
del suo costo stesso. È perciò che tu l'hai comprata. Ciò
che a te sembra accrescimento di capitale, è per me eccedenza di lavoro.
Tu ed io non conosciamo sul mercato che una legge, quella degli scambi delle
merci. Il consumo della merce appartiene non al venditore che l'aliena, ma al
compratore che l'acquista. L'uso della mia forza di lavoro ti appartiene
dunque. Ma col prezzo quotidiano della sua vendita io devo ogni giorno poterla
riprodurre e vendere di nuovo. Astrazione fatta dall'età e dalle altre
cause naturali di deperimento, io devo essere tanto vigoroso e destro domani
come oggi, per riprendere il mio lavoro con la medesima forza. Tu mi predichi
costantemente il vangelo del risparmio, dell'astinenza e dell'economia.
Benissimo! Io voglio, da amministratore savio e intelligente, economizzare la
mia unica fortuna, la mia forza lavoro, ed astenermi da ogni folle
prodigalità. Io voglio ciascun giorno metterne in movimento, convertirne
in lavoro, spenderne, in una parola, solamente tanto quanto sarà
compatibile con la sua durata normale e col suo sviluppo regolare. Con un
prolungamento oltre misura della giornata di lavoro tu puoi in un sol giorno
mobilizzare una così grande quantità della mia forza lavoro che
io non la posso sostituire nemmeno con tre giornate. Ciò che tu guadagni
in lavoro io lo perdo in sostanza. Ora, l'impiego della mia forza ed il suo
sfruttamento sono due cose interamente differenti. Se l'ordinario periodo della
vita di un operaio, data una media ragionevole di lavoro, è di
trent'anni, e tu consumi in dieci anni la mia forza lavoro, tu non mi paghi che
un terzo del suo valore giornaliero, tu mi rubi ogni giorno due terzi della mia
merce. Tu paghi una forza lavoro di un giorno, mentre ne consumi una di tre. Io
domando dunque una giornata di lavoro di una durata normale, e la domando senza
fare appello al tuo cuore, perché in affari non v'ha posto per il sentimento.
Tu puoi essere un borghese modello, forse anche membro della Società
protettrice degli animali, e per soprammercato in odore di santità; poco
importa. Ciò che tu rappresenti di fronte a me è affatto estraneo
a ciò che può interessare il mio cuore. Io esigo la giornata di
lavoro normale, perché voglio il valore della mia merce come ogni altro
venditore".
«Come si vede,
siamo entro limiti molto elastici e la natura stessa dello scambio delle merci
non impone alcun limite alla giornata di lavoro. Il capitalista sostiene il suo
diritto come compratore, quando cerca di prolungare questa giornata il
più che gli è possibile e di fare di due giorni uno solo. D'altra
parte la natura speciale della merce venduta esige che il suo consumo per il
compratore non sia illimitato, e il lavoratore sostiene il suo diritto come
venditore, quando vuole restringere la giornata di lavoro ad una durata
normalmente determinata. V'ha dunque diritto contro diritto, tutti due portanti
il sigillo della legge che regola gli scambi delle merci. Fra due diritti
uguali chi decide? la Forza.»[2]
Come agisca la
forza, oggi tutta del capitale e per il capitale, ce lo diranno i fatti, che
ora verremo esponendo. I fatti citati in questo libro sono presi tutti
dall'Inghilterra: primieramente, perché questo è il paese dove la
produzione capitalista ha raggiunto il massimo suo sviluppo, verso il quale,
del resto, tendono tutti i paesi civili; e, in secondo luogo, perché solamente
in Inghilterra si ha un confacente materiale di documenti, riguardanti le
condizioni del lavoro, e raccolti per opera di regolari Commissioni
governative. I modesti limiti di questo compendio non consentono, però,
che la riproduzione di una sola piccola parte dei ricchi materiali raccolti
nell'opera di Marx.
Ecco alcuni
dati presi dalle inchieste fattesi nel 1860 e 1863 nell'industria ceramica. W.
Wood, di nove anni, aveva 7 anni e 10 mesi quando cominciò a lavorare.
Egli lavorava tutti i giorni della settimana, dalle 6 del mattino sino alle 9
di sera, cioè 15 ore al giorno. J. Murray, di 12 anni, lavorava a
portare le forme e a girare la ruota. Egli cominciava a lavorare alle 6,
qualche volta perfino alle 4 del mattino; e il suo lavoro era prolungato, talvolta,
sino al giorno susseguente. E non era solo, ma in compagnia di altri 8 o 9
ragazzi, che erano trattati come lui. Il chirurgo Charles Piarson così
scrive ad un Commissario governativo: «Io non posso parlare che basandomi sulle
mie osservazioni personali e non sulla statistica; e certifico che sono stato
spesso immensamente nauseato dalla vista di questi poveri fanciulli, la cui
salute è sacrificata per soddisfare con un lavoro eccessivo la cupidigia
dei loro genitori e di quelli che li impiegano». Egli enumera le cause di
malattia dei vasai e chiude la lista con la causa principale, cioè, le
lunghe ore di lavoro.
Nelle fabbriche
di fiammiferi la metà dei lavoratori sono fanciulli al di sotto di 13
anni e adolescenti al di sotto di 18. È solamente la parte più
povera della popolazione, che presta i suoi figli a questa industria tanto
malsana e ripugnante. Fra i testimoni che il Commissario White intese nel 1863
ve n'erano 270 al di sotto di 18 anni, 40 al di sotto di 10 anni, 12 di 8 anni
e perfino 5 di soli 6 anni. La giornata di lavoro variava fra le 12, 14 e 15
ore. Essi lavoravano la notte, prendendo il cibo ad ore irregolari, e quasi
sempre nel medesimo locale della fabbrica, tutto impastato dal fosforo.
Nelle fabbriche
di tappezzerie, durante il tempo dei maggiori affari, che è da ottobre
ad aprile, il lavoro dura quasi senza interruzione dalle 6 di mattino sino alle
10 della sera; è protratto talvolta anche nella notte. Nel verno 1862,
su 19 fanciulle, 6 non si videro più a causa di malattie causate
dall'eccesso di lavoro. Le altre per tenerle deste bisognava scuoterle. I
fanciulli erano tanto stanchi, che non potevano tenere gli occhi aperti. Un
operaio depone innanzi alla Commissione d'inchiesta, in questi termini: «Il mio
piccolo figlio che vedete, io soleva portarmelo sulle spalle, quando egli aveva
7 anni, per andare e venire dalla fabbrica, a causa della neve, ed egli
lavorava ordinariamente 16 ore!... Ben sovente io mi sono accosciato vicino a
lui per farlo mangiare mentr'egli era alla macchina, perché non doveva
abbandonarla, né interrompere il suo lavoro».
Verso la fine
di giugno 1863, i giornali di Londra menarono gran rumore per la morte, causata
semplicemente da eccesso di lavoro, di una modista di 20 anni, impiegata in una
casa che serviva la Corte. Essa, che d'ordinario lavorava 16 ore e mezza al
giorno, tempo normale delle modiste, avea dovuto, per un ballo di Corte,
lavorare straordinariamente per ben 26 ore e mezza senza interruzione, con
altre 60 fanciulle. Ma prima di compiere il suo lavoro era morta. Il medico,
giunto troppo tardi al suo letto, la dichiarò morta per lunghe ore di
lavoro in un laboratorio troppo pieno di gente ed in una camera da letto troppo
stretta e senza ventilazione.
In uno dei
quartieri più popolari di Londra, la mortalità dei fabbri, ogni
anno, è di 31 su 1000. Quest'arte, che pur tanto concorda con la
struttura umana, in causa della esagerazione del lavoro diventa distruttiva
dell'uomo.
Ecco come il
capitale sferza il lavoro, il quale, dopo molto soffrire, cerca alla fine di
resistergli. I lavoratori si coalizzano e domandano, al potere sociale, la
determinazione di una giornata normale di lavoro. Quanto da ciò possano
ottenere, si comprende facilmente, considerando che la legge deve essere fatta
ed applicata dagli stessi capitalisti, contro i quali gli operai vorrebbero
farla valere.
Il plusvalore
relativo
La forza lavoro, producendo un valore
maggiore di quanto essa vale, cioè un plusvalore, ha generato il
capitale; ingrossando poi questo plusvalore col prolungamento della giornata di
lavoro, ha procurato al capitale nutrimento sufficiente per la sua prima
età. Il capitale cresce, ed il plusvalore deve aumentare per soddisfare
il cresciuto bisogno. Aumento di plusvalore, però, altro non vuol dire,
come abbiamo già visto, che prolungamento della giornata di lavoro, la
quale ha pure infine il suo limite necessario, per quanto essa sia una
lunghezza molto elastica. Per poco che sia il tempo che il capitalista lascia
all'operaio per la soddisfazione dei suoi più stretti bisogni, la
giornata di lavoro sarà sempre minore delle 24 ore. La giornata di
lavoro incontra dunque un limite naturale, e il plusvalore, per conseguenza, un
ostacolo insormontabile. Indichiamo una giornata di lavoro con la linea A B.
A——D——C——B
La lettera A ne indichi il principio e
B la fine, quel termine naturale, cioè, oltre il quale non è possibile
andare. Sia AC la parte della giornata in cui l'operaio produce il valore del
salario ricevuto e CB la parte della giornata in cui l'operaio produce il
plusvalore. Il nostro filatore di cotone, infatti, vedemmo che, ricevendo 3
lire di salario, con una metà della sua giornata riproduceva il valore
del suo salario, e con l'altra metà produceva 3 lire di plusvalore. Il
lavoro AC, con cui si produce il valore del salario, dicesi lavoro necessario,
mentre il lavoro CB, che produce il plusvalore, chiamasi sopralavoro. Il
capitalista è assetato di sopralavoro, perché è questo che genera
il plusvalore. Il sopralavoro prolungato prolunga la giornata di lavoro, la
quale finisce per incontrare il suo limite naturale B, che presenta un ostacolo
insormontabile al sopralavoro ed al plusvalore. Che fare allora? Il capitalista
trova presto il rimedio. Egli osserva che il sopralavoro ha due limiti, l'uno
B, fine della giornata di lavoro, l'altro C, fine del lavoro necessario; se il
limite B è irremovibile, non sarà così del limite C.
Riuscendo a trasportare il punto C sino al punto D, si avrebbe il sopralavoro
CB cresciuto della lunghezza DC, proprio in quanto diminuirebbe il lavoro
necessario AC. Il plusvalore troverebbe così il modo di continuare a
crescere, non nel modo assoluto come prima, cioè prolungando sempre la
giornata di lavoro, ma in relazione del crescere del sopralavoro sul
corrispondente diminuire del lavoro necessario. Il primo era plusvalore
assoluto, questo è plusvalore relativo.
Il plusvalore
relativo si fonda sulla diminuzione del lavoro necessario; la diminuzione del
lavoro necessario si fonda sulla diminuzione del salario; la diminuzione del
salario si fonda sulla diminuzione del prezzo delle cose, che sono necessarie
all'operaio; dunque il plusvalore relativo è fondato sul ribasso delle
merci che servono all'operaio.
E ci sarebbe
pure un mezzo più spiccio per produrre il plusvalore relativo,
dirà qualcuno, e sarebbe di pagare al lavoratore un salario minore di
quello che gli spetta, cioè non pagargli il giusto prezzo della sua
merce, la forza lavoro. Questo espediente, molto usato infatti, non può
essere da noi menomamente considerato, perché non ammettiamo che la più
perfetta osservanza della legge degli scambi, secondo la quale tutte le merci,
e per conseguenza anche la forza del lavoro, devono essere vendute e comprate
al loro giusto valore. Il nostro capitalista, come già vedemmo, è
un borghese assolutamente onesto; egli non userà mai, per ingrossare il
suo capitale, un mezzo che non sia interamente degno di lui.
Supponiamo che,
in una giornata di lavoro, un operaio produca 6 articoli di una merce, che il
capitalista vende per il prezzo di L. 7,50, perché nel valore di questa merce
la materia ed i mezzi di lavoro ci entrano per L. 1,50 e la forza del lavoro di
12 ore per 6 lire: tutti tre gli elementi, quindi, per L. 7,50. Il capitalista
trova sul valore di L. 7,50, che ha la sua merce, un plusvalore di 3 lire e
sopra ogni articolo un plusvalore di L. 0,50, perché spende L. 0,75 e ricava L.
1,25 da ognuno di essi. Supponiamo che con un nuovo sistema di lavoro, o
solamente con un perfezionamento del vecchio, si giunga a raddoppiare la produzione,
e che, invece di 6 articoli al giorno, il capitalista riesca ad ottenerne 12.
Se in 6 articoli entravano per L. 1,50 la materia ed i mezzi di lavoro, in 12
vi entreranno per 3 lire, sempre cioè per L.
Il capitalista
ha oggi bisogno di farsi un posto più largo sul mercato per vendere una
quantità doppia della sua merce; e vi riesce restringendone alquanto il
prezzo. In altri termini il capitalista ha bisogno di far sorgere una ragione,
per la quale i suoi articoli si possano vendere sul mercato nel doppio numero
di prima; e la ragione la trova appunto nel ribasso di prezzo. Egli
venderà, dunque, i suoi articoli ad un prezzo alquanto minore di L.
1,25, che era il loro prezzo di prima, ma maggiore di L. 0,75 quanto vale oggi
ciascuno di essi. Li venderà ad una lira l'uno, e avrà così
assicurato il doppio smercio dei suoi articoli, sui quali guadagna oggi 6 lire;
3 lire di plusvalore e 3 lire di differenza tra il loro valore ed il prezzo al
quale sono venduti.
Come si vede,
il capitalista ricava un grande utile da questo aumento di produzione. Tutti i
capitalisti sono quindi altamente interessati ad aumentare i prodotti delle
loro industrie, ed è ciò che essi riescono a fare ogni giorno in
qualsiasi genere di produzione. Il loro guadagno straordinario, però,
quello che rappresenta la differenza fra il valore della merce ed il prezzo al
quale si vende, dura poco, perché presto il nuovo od il perfezionato sistema di
produzione viene adottato da tutti per necessità. Allora si ha per
risultato che il valore della merce diminuisce della metà. Prima ogni
articolo valeva L. 1,25; oggi invece vale centesimi 62 e mezzo. Il capitalista
però viene sempre ad ottenere lo stesso profitto, avendo raddoppiata la
produzione. Prima 3 lire di plusvalore sopra 6 articoli ed oggi 3 lire di
plusvalore sopra 12 articoli; ma siccome i 12 articoli sono prodotti nello
stesso tempo che erano prodotti i 6 articoli, cioè in 12 ore di lavoro,
si ha, come ultimo risultato sempre 3 lire di plusvalore su di una giornata di
12 ore, ma il doppio di produzione.
Quando questo
aumento di produzione riguarda le merci necessarie al lavoratore, porta per
conseguenza il ribasso del prezzo della forza lavoro, e quindi la diminuzione
del lavoro necessario e l'aumento del sopralavoro, che costituisce il
plusvalore relativo.
Cooperazione
È da un pezzetto che non ci
siamo più occupati dei fatti del nostro capitalista, il quale ha dovuto
certamente prosperare in questo frattempo. Rechiamoci al suo opificio, dove
forse avremo il piacere di rivedere il nostro amico, il filatore. Eccoci
giunti. Entriamo.
Oh, sorpresa!
Non più un operaio, ma una grande quantità d'operai si trovano
ora al lavoro: tutti in silenzio ed ordinati come se fossero tanti soldati. Né
vi mancano sorveglianti ed ispettori che a guisa di ufficiali passeggiano fra i
ranghi, tutto osservando, dando ordini, o sorvegliandone la fedele esecuzione.
Del capitalista non se ne vede neppure l'ombra. Si apre una porta a vetri che
mette nell'interno, forse sarà lui; vediamo. È un grave
personaggio, ma non è il nostro capitalista. I sorveglianti gli si fanno
premurosamente intorno, e ricevono con la massima attenzione i suoi ordini. Odesi
il suono d'un campanello elettrico; uno dei sorveglianti corre ad applicare il
suo orecchio alla bocca di un tubo di metallo, che dalla volta scende lungo il
muro; e viene tosto ad annunziare al signor direttore che il padrone lo chiama
presso di lui a conferenza. Cerchiamo nella folla degli operai il filatore di
nostra vecchia conoscenza; e finalmente ci viene fatto trovarlo in un angolo,
tutto dedito al lavoro. Egli è divenuto scarno e pallido in volto: sulla
sua faccia si legge un profondo pensiero di tristezza. Un giorno lo vedemmo sul
mercato contrattare la sua forza lavoro da pari a pari con l'uomo del denaro;
ma quanto è oggi cresciuta la distanza fra loro! Egli è oggi un
operaio perduto nella folla dei molti che popolano l'opificio, e oppresso da
una giornata di lavoro straordinariamente lunga; mentre l'uomo del denaro,
divenuto già grosso capitalista, se ne sta come un dio nell'alto del suo
Olimpo, da dove manda gli ordini al suo popolo attraverso una schiera d'intermediari.
Che mai dunque
è avvenuto? Niente di più semplice. Il capitalista ha prosperato.
Il capitale è di molto cresciuto, e, per soddisfare i suoi nuovi
bisogni, il capitalista ha stabilito il lavoro cooperativo, che è il
lavoro fatto con l'unione delle forze. In quell'opificio, dove altra volta
funzionava una sola forza lavoro, oggi vi funziona tutta una cooperazione di
forze lavoro. Il capitale è uscito dalla sua infanzia, e si presenta per
la prima volta sotto il suo vero aspetto.
I vantaggi che
il capitale trova nella cooperazione si possono ridurre a quattro.
Primieramente
è nella cooperazione che il capitale realizza la vera forza lavoro
sociale. La forza lavoro sociale essendo, come già dicemmo, la media
presa in un dato centro di produzione fra un numero di operai che lavorano con
un grado medio di abilità e d'intensità, è chiaro che ogni
singola forza lavoro si scosterà più o meno dalla forza media o
sociale, la quale si può perciò ottenere solamente riunendo nello
stesso opificio un gran numero di forze lavoro; cioè nella cooperazione.
Il secondo
vantaggio è l'economia dei mezzi di lavoro. Lo stesso opificio, gli
stessi caloriferi, eccetera, che servivano ad uno solo, oggi servono per molti
operai.
Il terzo
vantaggio della cooperazione è l'aumento della forza lavoro. «Come la
forza d'attacco di uno squadrone di cavalleria o la forza di resistenza d'un
reggimento di fanteria differiscono essenzialmente dalla somma delle forze
individuali spiegate isolatamente da ciascun cavaliere o fantaccino, nella
stessa guisa la somma delle forze meccaniche di operai isolati differisce dalla
forza meccanica che si sviluppa tosto che essi funzionino congiuntamente e
simultaneamente in una medesima operazione indivisa.»[3]
Il quarto
vantaggio è la possibilità di combinare in modo le forze da poter
eseguire lavori che con le forze isolate o non si sarebbero potuti compiere, o
si sarebbero compiuti in modo molto imperfetto. Chi non ha visto come 50 operai
possono cambiare di posto enormi masse in un'ora, mentre una forza lavoro non
giungerebbe, in 50 ore di seguito, nemmeno a smuoverle di un capello? Chi non
ha visto come 12 operai, disposti a scala lungo l'impalcatura di una casa in
costruzione, facciano passare in un'ora una quantità di materiali
immensamente più grande di quella che un solo operaio farebbe passare in
12 ore? Chi non comprende come 20 muratori possano fare in un giorno assai
più lavoro di quanto ne possa fare uno solo in 20 giorni?
«La
cooperazione è il modo fondamentale della produzione capitalista.»[4]
Divisione del
lavoro e manifattura
Quando il capitalista riunisce nel suo
opificio gli operai che eseguiscono le diverse parti di lavoro, le quali
compongono tutto il lavoro di una merce, allora egli dà alla
cooperazione semplice un carattere tutto speciale; egli stabilisce la divisione
del lavoro e la manifattura; la quale altro non è che «un organismo di
produzione, le cui membra sono uomini».[5]
Benché la
manifattura sia sempre fondata sulla divisione del lavoro, pure essa ha una
doppia origine. Infatti in alcuni casi la manifattura ha riunito nel medesimo
opificio le diverse lavorazioni richieste per compimento di una merce, le quali
prima, come tanti mestieri speciali, rimanevano distinte e divise tra loro; in
altri casi essa ha divise, pur conservandole nel medesimo opificio, le diverse
operazioni di lavoro, che prima formavano un tutto nel compimento di una merce.
«Una carrozza era il prodotto collettivo dei lavori di un gran numero di
artigiani indipendenti gli uni dagli altri, come carradori, sellai, sarti,
chiavaiuoli, lavoranti di cinture, tornitori, spinettari, vetrai, dipintori,
verniciatori, doratori, ecc. La manifattura carrozziera li ha riuniti tutti in
un medesimo locale, dove essi lavorano nel medesimo tempo e mano a mano. Non si
può, è vero, dorare una carrozza prima che essa sia fatta; ma se
si fanno molte carrozze nello stesso tempo, le une forniscono costantemente
lavoro ai doratori, mentre le altre passano per altri processi di
fabbricazione.»[6]
La lavorazione dello spillo è stata dalla manifattura divisa in
più di venti lavorazioni parziali, che formano le parti della
lavorazione totale dello spillo. La manifattura, dunque, talora riunisce
più mestieri in uno solo, e talora divide un mestiere in più.
La manifattura
moltiplica le forze e gli strumenti di lavoro, ma li rende eminentemente tecnici
e semplici, applicandoli costantemente ad una sola ed unica operazione
elementare.
Grandi sono i
vantaggi che il capitale realizza nella manifattura, destinando le diverse
forze lavoro ad operazioni elementari e costantemente le stesse. La forza
lavoro acquista moltissimo in intensità e precisione. Tutti quei piccoli
intervalli, che a guisa di pori si trovano fra le diverse fasi della
lavorazione di una merce eseguita da un solo individuo, scompariscono, quando
questo individuo esegue sempre la stessa operazione. L'operaio non deve
più d'ora in poi imparare tutto un mestiere ma una semplice, un'unica
operazione del mestiere stesso, che egli impara in molto meno tempo e con
minore spesa di quanto ne abbisognava per imparare un mestiere intero. Questa
diminuzione di spesa e di tempo è una diminuzione di cose occorrenti
all'operaio, cioè una diminuzione di lavoro necessario, ed un aumento
corrispondente di sopralavoro e plusvalore. Il capitalista, da vero parassita,
s'ingrassa sempre più a spese del lavoro, ed il lavoratore ne soffre
grandemente.
«La manifattura
rivoluziona da cima a fondo il modo di lavoro individuale e attacca nella sua
radice la forza lavoro. Essa storpia il lavoratore, essa fa di lui qualche cosa
di mostruoso, attivando lo sviluppo fittizio della sua abilità di
dettaglio e sacrificando una grande quantità di disposizioni e d'istinti
produttori, nella stessa guisa che, negli Stati della Plata, si immola un toro
per avere la sua pelle ed il suo sego.»
«Non è
solamente il lavoro che è diviso, suddiviso e ripartito fra diversi
individui, è l'individuo stesso che è sminuzzato e trasformato in
molla automatica in una operazione esclusiva, di guisa che si trova realizzata
la favola assurda di Menenio Agrippa, rappresentante un uomo come frammento del
suo proprio corpo. Stewart chiama gli operai delle manifatture automi
viventi impiegati nei dettagli di un'opera.»
«Originariamente
l'operaio vende al capitalista la sua forza lavoro, perché i mezzi materiali
della produzione gli mancano. Ora la sua forza lavoro rifiuta ogni servizio se
non è venduta. Per poter funzionare gli abbisogna quel centro sociale il
quale non esiste che nell'opificio del capitalista. Nella stessa guisa che il
popolo eletto portava scritto sul suo fronte che egli era proprietà di
Jeova, così l'operaio di manifattura è marcato a fuoco col
sigillo della divisione del lavoro, che lo rivendica come proprietà del
capitale. Storch dice: "L'operaio che porta nelle sue mani tutto un
mestiere può andare dappertutto ad esercitare la sua industria, e
trovare i mezzi di sussistere; l'altro (quello delle manifatture) non è
che un accessorio il quale, separato dai suoi confratelli, non ha più né
capacità né indipendenza e che si trova forzato d'accettare la legge,
che si trova opportuno di imporgli".
«Le potenze
intellettuali della produzione si sviluppano da un lato solo, perché scompaiono
su tutti gli altri. Ciò che gli operai particellari perdono, si
concentra di fronte ad essi nel capitale. La divisione manifatturiera oppone
loro la potenza intellettuale della produzione come proprietà d'altri e
come potere che li domina. Questa scissione comincia ad apparire nella
cooperazione semplice, dove il capitalista rappresenta, di fronte al lavoratore
isolato, l'unità e la volontà del lavoratore collettivo; essa si
sviluppa poi nella manifattura, che mutila il lavoratore al punto di ridurlo
una particella di se stesso; essa si compie infine nella grande industria, che
fa della scienza una forza produttiva indipendente dal lavoro e arruola questo
al servizio del capitale.»
«Nella
manifattura, l'arricchimento del lavoratore collettivo, e per conseguenza del
capitale, in forze produttive sociali, ha per condizione l'impoverimento del
lavoratore in forze produttive individuali.»
«"L'ignoranza"
dice Ferguson "è la madre dell'industria come lo è della
superstizione. La riflessione e l'immaginazione possono smarrirsi; ma
l'abitudine di muovere il piede o la mano non dipende né dall'una né dall'altra.
Così potrebbesi dire che la perfezione, rispetto alle manifatture, consiste
nel poter fare a meno dell'intelligenza, di maniera che l'officina, non avendo
bisogno di forze intellettuali, possa essere considerata come una macchina le
cui parti sono uomini." Egli è per questo che un certo numero di
manifatture, verso la metà del XVIII secolo, impiegavano di preferenza
per certe operazioni, che formavano un segreto di fabbrica, operai mezzo
idioti.
Smith dice:
"L'intelligenza della maggior parte degli uomini si forma necessariamente
per mezzo delle loro occupazioni ordinarie. Un uomo, che passa tutta la vita ad
eseguire un piccolo numero d'operazioni semplici..., non ha nessuna occasione
di sviluppare la sua intelligenza, né di esercitare la sua immaginazione...
Egli diventa, in generale, tanto ignorante e tanto stupido per quanto è
possibile ad una creatura umana il diventarlo"». Dopo aver dipinto
l'istupidimento dell'operaio particellario, A. Smith continua così:
«"L'uniformità della sua vita stazionaria corrompe naturalmente la
gagliardia del suo spirito..., essa degrada perfino l'attività del suo
corpo e lo rende incapace di spiegare la sua forza con vigore e perseveranza in
un qualsiasi altro impiego che non sia quello per il quale egli è stato
educato. Così la destrezza del suo mestiere è una qualità
ch'egli pare abbia acquistato a spese delle sue virtù intellettuali,
sociali e guerriere. Ora, in ogni società industriale e civile, questo
è lo stato nel quale deve necessariamente cadere l'operaio povero, cioè
la grande massa del popolo"». Per rimediare a questo deterioramento
completo, che risulta dalla divisione del lavoro, A. Smith raccomanda
l'istruzione popolare obbligatoria, pur consigliando d'amministrarla con
prudenza e a dosi omeopatiche. Il suo traduttore e commentatore francese, G.
Garnier, questo senatore predestinato del primo Impero, ha dato prova di
logica, combattendo anche questo consiglio. L'istruzione del popolo, secondo
lui, è in contraddizione con le leggi della divisione del lavoro e adottarla
sarebbe proscrivere tutto il nostro sistema sociale... «"Come tutte le
altre divisioni del lavoro, quella che esiste tra il lavoro meccanico ed il
lavoro intellettuale si accentua in una maniera sempre più forte e
più recisa, a misura che la Società avanza verso uno stato
più opulento.
Garnier chiama società
lo Stato con la proprietà fondiaria, il capitale, eccetera.
Questa
divisione, come tutte le altre, è un effetto dei progressi passati ed
una causa dei progressi avvenire... Il governo dovrà dunque occuparsi a
contrariare questa divisione di lavoro ed a ritardarla nel suo cammino
naturale? Dovrà impiegare una porzione delle pubbliche entrate per cercare
di fondere e mescolare due generi di lavoro, che tendono da sé stessi a
dividersi?"»
«Ferguson dice:
"L'arte di pensare, in un tempo in cui tutto è separato, può
da sé stessa formare un mestiere a parte".»
«Un certo
intristimento di corpo e di spirito è inseparabile dalla divisione del
lavoro nella società. E siccome il periodo manifatturiero esagera questa
divisione sociale e nell'istesso tempo che con la divisione sua particolare
attacca l'individuo nella radice stessa della sua vita, così è
desso che per il primo fornisce l'idea e la materia d'una patologia
industriale. Ramazzini, professore di medicina pratica in Padova,
pubblicò nel 1713 la sua opera: De morbis artificum ('Sulle
malattie degli artigiani'). Il suo catalogo delle malattie degli operai
è stato naturalmente molto aumentato dall'epoca della grande industria,
come lo dimostrano gli scrittori che vennero dopo di lui: dottore A.L.
Fonterel, Parigi 1858, Eduardo Reich, Erlangen, 1868, ed altri; nonché
l'inchiesta iniziata, nel 1854, dalla Società dei mestieri, in
Inghilterra, e i Rapporti ufficiali sulla pubblica sanità.»
«D. Urquhart
dice: "Suddividere un uomo, vuol dire giustiziarlo, se egli ha meritato
una sentenza di morte; vuol dire assassinarlo, se non la merita. La
suddivisione del lavoro è l'assassinio d'un popolo"»
«Hegel aveva
opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro. Nella sua Filosofia del
Diritto dice: "Per uomo colto devesi dunque intendere colui che fa
tutto ciò che fanno gli altri".»
«"La
divisione del lavoro, nella sua forma capitalistica, non è che un metodo
particolare di produrre il plusvalore relativo, o di accrescere, a spese del
lavoratore, la rendita del capitale, ciò che chiamasi ricchezza
nazionale. A spese del lavoratore, essa sviluppa la forza collettiva del
lavoro a pro' del capitalista. Essa crea circostanze nuove, che assicurano la
dominazione del capitale sul lavoro. Essa è una fase necessaria della
formazione economica della società, un mezzo civile e raffinato di
sfruttamento!"»
Macchine e
grande industria
«John Stuart Mill, nei suoi Principi
d'economia politica, dice: "Resta ancora a sapere se le invenzioni
meccaniche, fatte insino ad oggi, abbiamo alleggerito il lavoro quotidiano di
un essere umano qualunque". Non era questo il loro scopo. Come ogni altro
sviluppo della forza produttiva del lavoro, l'impiego capitalista delle
macchine non tende che a diminuire il prezzo delle merci, a raccorciare la
parte della giornata, nella quale il lavoratore lavora per se stesso, affine di
allungare l'altra, nella quale egli non lavora che per il capitalista. È
un metodo particolare per fabbricare plusvalore relativo.»[7]
Ma chi è
che pensa mai al lavoratore? Se il capitalista si occupa di lui, è
solamente per studiare il modo migliore di sfruttarlo. L'operaio vende la sua
forza lavoro, ed il capitalista la compra, come l'unica merce che, con il suo
plusvalore, possa fargli nascere e crescere il capitale. Il capitalista,
dunque, d'altro non si occupa che di fabbricare sempre più plusvalore.
Dopo aver esaurito le risorse del plusvalore assoluto, ha trovato il plusvalore
relativo. Egli ora vede che con le macchine si può ottenere nello stesso
tempo un prodotto due volte, quattro volte, dieci volte, eccetera, più
grande di prima; e adotta le macchine. La cooperazione, la manifattura, si
trasforma così in grande industria ed il suo opificio in fabbrica.
Il capitalista,
dopo aver mutilato e storpiato l'operaio con la divisione del lavoro, dopo di averlo
limitato ad una sola operazione parziale, ci fa assistere ad uno spettacolo
più triste ancora. Egli strappa dalle mani del lavoratore quell'unico
arnese, il quale gli ricordava ancora la sua arte, il suo antico stato di uomo
completo, e lo affida alla macchina. D'ora in poi il capitalista non ha
più bisogno del lavoratore, che come servo delle sue macchine.
Con
l'introduzione delle macchine, il capitalista realizza a tutta prima un enorme
profitto, come facilmente si comprende, ricordando quanto dicemmo a proposito
del plusvalore relativo. Con la propagazione però del sistema di
produzione meccanica, il guadagno straordinario cessa, e vi resta solamente
l'aumento di produzione che, reso generale dalla generalizzazione delle
macchine, viene a diminuire il valore delle cose necessarie all'operaio, il
tempo di lavoro necessario, e i salari, e ad aumentare il sopralavoro e il
plusvlore.
Il capitale si
distingue in costante e variabile. Dicesi capitale costante quello che è
rappresentato dai mezzi di lavoro e dalle materie di lavoro. Il fabbricato, i
caloriferi, gli strumenti, le materie ausiliarie, come sego, carbone, olio,
eccetera, le materie di lavoro, come ferro, bambagia, seta, argento, legno,
eccetera, sono tutte cose che formano parte del capitale costante. Il capitale
variabile è quello che viene rappresentato dal salario, dal prezzo
cioè della forza lavoro. Il primo dicesi costante, perché costante resta
il suo valore nel valore della merce, del quale viene a far parte; mentre il
secondo dicesi variabile, appunto perché il suo valore aumenta entrando a far
parte del valore della merce. È il solo capitale variabile che crea
plusvalore; e la macchina non può far parte che del capitale costante.
Il capitalista
si propone, nella grande industria, di profittare di una enorme massa di lavoro
passato, nella stessa guisa che profitterebbe di una massa di forze naturali,
cioè gratuitamente. Per riuscire nel suo scopo, però, egli ha
bisogno di avere tutto un meccanismo, il quale si comporrà di materie
più o meno costose, ed assorbirà sempre una certa quantità
di lavoro. Egli non deve certamente comprare la forza del vapore, né le
proprietà motrici dell'acqua e dell'aria; non deve certamente comprare
le scoperte e le applicazioni meccaniche; né le invenzioni ed i perfezionamenti
degli strumenti di un mestiere. Egli può avvalersi di tutto ciò,
sempre che voglia, senza la menoma spesa; ma ha bisogno solamente di procurarsi
tutto un meccanismo atto a ciò. La macchina entra adunque, come mezzo di
lavoro, a far parte del capitale costante; e la proporzione, nella quale essa
entra a comporre il valore della merce, è in ragione diretta del consumo
suo e delle sue materie ausiliarie, carbone, grasso, eccetera, e in ragione
inversa del valore della merce. Cioè a dire che più si logora una
macchina con le sue materie ausiliarie nel produrre una merce, più le
comunica del suo valore; mentre più è grande il valore della merce,
per la quale la macchina lavora, più è piccola la parte di valore
che le perviene dal consumo della macchina.
«Se il
logoramento giornaliero di un martello a vapore, il suo consumo di carbone,
eccetera, si distribuiscono sopra enormi masse di ferro martellato, ogni
quintale di ferro non assorbe che una minima parte di valore; questa porzione
sarebbe evidentemente considerevole se l'istrumento ciclopico non facesse che
conficcare piccoli chiodi.»[8]
Quando, per la
generalizzazione del sistema della grande industria, la macchina cessa di essere
fonte diretta di profitto straordinario per il capitalista, questi riesce a
trovare molte altre vie, per le quali poter continuare a ritrarre grandissima
quantità di plusvalore relativo da questo nuovo modo di produzione.
«Il capitale,
impossessatosi della macchina, leva tosto il grido: 'Lavoro di donne, lavoro di
fanciulli!' Questo mezzo potente di diminuire il lavoro dell'uomo, si cambia
tosto in mezzo d'aumentare il numero dei salariati; esso curva tutti i membri
d'una famiglia, senza distinzione d'età e di sesso, sotto il bastone del
capitale. Il lavoro forzato per il capitale usurpa il posto dei giuochi d'infanzia
e del lavoro libero per il mantenimento della famiglia; ed il sostegno
economico del morale della famiglia era appunto questo lavoro domestico.»
«Il valore
della forza lavoro era determinato dalle spese di mantenimento dell'operaio e
della sua famiglia. Gettando la famiglia sul mercato, distribuendo così
sopra diverse forze il valore d'una sola, la macchina, la deprezza. Può
essere che le quattro forze, per esempio, che una famiglia operaia vende ora,
le diano più che altra volta dava la sola forza del suo capo; ma nello
stesso tempo quattro giornate di lavoro ne hanno sostituita una sola, ed il
prezzo è ribassato in proporzione all'eccesso del sopralavoro di quattro
sul sopralavoro d'uno solo.
Quattro persone
devono ora fornire non solamente lavoro, ma ancora sopralavoro al capitale,
onde possa vivere una sola famiglia. Gli è così che la macchina,
aumentando la materia umana sfruttabile, eleva nel medesimo tempo il grado di
sfruttamento.»
L'impiego
capitalista del meccanismo altera fondamentalmente il contratto, la cui prima
condizione era che capitalista e operaio dovessero presentarsi in faccia l'uno
dell'altro come persone libere, mercanti tutti e due, l'uno possessore di
denaro o di mezzi di produzione, l'altro possessore di forza lavoro. Tutto
ciò è rovesciato tosto che il capitale compra dei lavoratori.
Altra volta l'operaio vendeva la sua propria forza lavoro, della quale egli
poteva liberamente disporre, ora egli vende moglie e figli; diventa mercante di
schiavi.»[9]
«Mentre la
macchina è il mezzo più potente di accrescere la produttività
del lavoro, cioè di raccorciare il tempo necessario alla produzione
delle merci, essa diviene, come sostegno del capitale, il mezzo più
potente di prolungare la giornata di lavoro al di là di ogni limite
naturale. Il mezzo di lavoro, divenuto macchina, si leva indipendente innanzi
al lavoratore. Una sola passione anima il capitalista: egli vuole forzare
l'elasticità umana e stritolare tutte le resistenze. La facilità
evidente del lavoro a macchina e l'elemento più maneggevole e più
docile, che sono le donne e i fanciulli, l'aiutano in quest'opera di
asservimento.»
«Il logoramento
materiale delle macchine si presenta sotto un duplice aspetto. Esse si consumano
da una parte in ragione del loro impiego, come i pezzi di moneta per la
circolazione; d'altra parte per la loro inazione, come una spada che
s'irrugginisce nel fodero. In quest'ultimo caso diventano preda degli elementi.
Il primo genere di logoramento è più o meno in ragione diretta,
l'ultimo è sino ad un certo punto in ragione inversa del loro uso. La
macchina è altresì soggetta a ciò che potrebbesi chiamare
suo logoramento morale. Essa perde di valore, a misura che le macchine della
medesima costruzione sono riprodotte a miglior mercato, o a misura che macchine
perfezionate vengono a far loro concorrenza.»[10] Per riparare a questo
danno, il capitalista sente il bisogno di far lavorare la sua macchina il
più possibile, e comincia anzitutto dal prolungare il lavoro
giornaliero, introducendo il lavoro di notte ed il sistema dei rilievi. Come lo
indica la parola stessa, usata per indicare il cambio dei cavalli di posta, il
sistema dei rilievi consiste nel fare eseguire il lavoro da due squadre di
lavoratori, che si danno il cambio ogni dodici ore, o da tre che si scambiano
ogni otto ore; in guisa che il lavoro procede sempre senza la menoma
interruzione per tutte le 24 ore. Questo sistema, tanto proficuo pel capitale,
è adottato altresì nel primo momento della comparsa delle macchine,
quando il capitalista ha molta premura di riuscire ad ammassare la maggior
quantità possibile di profitto straordinario, che tosto dovrà
cessare per la generalizzazione delle macchine stesse.
Il capitalista,
adunque, abbatte colle macchine tutti gli ostacoli di tempo, tutti i limiti
della giornata che nella manifattura erano imposti al lavoro. E quando egli
è giunto al limite della giornata naturale, ad assorbire cioè
tutte le 24 ore del giorno, egli trova il modo per fare di un giorno solo due,
tre, quattro e più giorni, intensificando due, tre, quattro e più
volte il lavoro. Infatti, se in una giornata di lavoro si trova modo di far
eseguire all'operaio un lavoro due volte, tre volte, quattro volte, eccetera,
più grande di prima, è chiaro che l'antica giornata di lavoro
corrisponderà a due, a tre, a quattro e più giornate di lavoro. E
il capitalista trova il modo di farlo, rendendo, come già abbiamo detto,
più intenso il lavoro, stringendo, in altri termini, in una sola
giornata il lavoro di due, tre, quattro e più giornate. È con le
macchine che egli riesce a questo scopo.»
«Perfezionando
la macchina a vapore, si riesce ad aumentare il numero dei colpi di stantuffo
per minuto e, grazie ad una saggia economia di forze, a spingere con un motore
del medesimo volume un meccanismo più considerevole, senza aumentare
pertanto il consumo del carbone. Diminuendo l'attrito degli organi di
trasmissione, riducendo il diametro ed il peso dei grandi e piccoli alberi
motori, delle ruote dei tamburi, ecc. a un minimum sempre decrescente,
si arriva a far trasmettere con più rapidità l'accresciuta forza
d'impulsione del motore a tutte le branche del meccanismo d'operazione. Il
meccanismo stesso è migliorato. Le dimensioni delle macchine strumenti
sono ridotte, mentre la loro mobilità e la loro efficacia sono
aumentate, come nel moderno telaio da tessere, ovvero le loro ossature sono
ingrandite con la dimensione ed il numero degli strumenti che esse muovono,
come nelle macchine da filare. Infine, questi strumenti subiscono incessanti
modificazioni di dettaglio, come furono quelle che, circa quindici anni or
sono, accrebbero d'un quinto la velocità dei fusi della macchina da
filare.»
«Un fabbricante
inglese nel 1836 dichiarava: "Paragonato a quello d'altra volta, il lavoro
da eseguirsi nelle fabbriche è oggi considerevolmente accresciuto per
l'attenzione e l'attività superiore che la velocità molto
aumentata delle macchine esige dal lavoratore". E, nel 1844, nella Camera
dei Comuni si disse: "Il lavoro degli operai, impiegati nelle operazioni
di fabbrica, è oggi tre volte più grande di quanto lo era al
momento in cui fu stabilito questo genere d'operazioni. Il sistema meccanico
ha, senza alcun dubbio, compiuto un'opera, che richiederebbe i tendini ed i
muscoli di molti milioni d'uomini; ma egli ha pure prodigiosamente aumentato il
valore di quelli, che sono sottoposti al suo movimento terribile".»[11]
«Nella fabbrica
la virtù di adoperare lo strumento passa dall'operaio alla macchina. La
classificazione fondamentale diventa quella di lavoratori di macchine strumenti
(compresovi qualche operaio incaricato di riscaldare la caldaia a vapore) e di
manovali, quasi tutti fanciulli subordinati ai primi. In mezzo a questi
manovali si trovano più o meno tutti gli alimentatori, che forniscono
alle macchine le loro materie prime. Accanto a queste classi principali prende
posto un personale numericamente insignificante d'ingegneri, di meccanici, di
falegnami, eccetera, che sorvegliano il meccanismo generale e provvedono alle
riparazioni necessarie. È una classe superiore di lavoratori, gli uni
formati scientificamente, gli altri possedendo un mestiere, messo al di fuori
del circolo degli operai di fabbrica, ai quali essi sono aggiunti come
ingrasso.»
«Ogni fanciullo
impara molto facilmente ad adattare i suoi movimenti al movimento continuo ed
uniforme dell'automa. La rapidità con la quale i fanciulli imparano il
lavoro a macchina sopprime radicalmente la necessità di convertirlo in
vocazione esclusiva d'una classe particolare di lavoratori. La
specialità che consiste a maneggiare durante tutta la propria vita un
istrumento parziale diventa la specialità di servire per tutta la
propria vita una macchina parziale. Si abusa del meccanismo per trasformare
l'operaio, dalla sua più tenera infanzia, in particella di una macchina,
che fa essa stessa parte di un'altra. Non solamente le spese, che esige la sua
riproduzione, si trovano in tal guisa considerevolmente diminuite, ma la sua
dipendenza dalla fabbrica e perciò stesso dal capitale è
diventata assoluta.»
«Nella
manifattura e nel mestiere, l'operaio si serve del suo istrumento; nella
fabbrica, egli serve la macchina. Là, il movimento dell'istrumento di
lavoro parte da lui; qui, egli non fa che seguirlo. Nella manifattura gli
operai formano tante membra d'un meccanismo vivente. Nella fabbrica, essi sono
incorporati ad un meccanismo morto, che esiste indipendentemente da loro. La
facilità stessa del lavoro diventa una tortura, nel senso che la
macchina non libera l'operaio dal lavoro, ma spoglia il lavoro del suo
interesse. Il mezzo di lavoro, convertito in automa, si drizza innanzi all'operaio,
durante il processo del lavoro, sotto forma di capitale, di lavoro morto, che
domina e inghiotte la sua forza vivente.»
«La grande
industria meccanica compie finalmente la separazione tra il lavoro manuale e le
potenze intellettuali della produzione, le quali essa trasforma in poteri del
capitale sul lavoro. L'abilità dell'operaio appare meschina innanzi alla
scienza prodigiosa, alle enormi forze naturali, alla grandezza del lavoro
sociale incorporato nel sistema meccanico, che costituisce la potenza del Padrone.
Nel cervello di questo padrone, il suo monopolio sulle macchine si confonde con
l'esistenza delle macchine stesse. E, come dice Federico Engels[12], in caso di conflitto coi
suoi operai egli getta loro in faccia queste parole sdegnose: "Gli operai
di fabbrica farebbero molto bene a ricordarsi che il loro lavoro è dei
più inferiori; che non ve n'ha un altro più facile ad imparare e
che sia meglio pagato, vista la sua qualità, poiché basta il menomo
tempo ed il menomo insegnamento per acquistare in esso tutta l'abilità
voluta. Le macchine del padrone rappresentano infatti una parte ben più
importante nella produzione, che il lavoro e l'abilità dell'operaio, che
reclamano solamente una educazione di sei mesi, e che un semplice contadino
può imparare".»
«La
subordinazione tecnica dell'operaio all'andamento uniforme del mezzo di lavoro
e la composizione particolare del lavoratore collettivo con individui dei due
sessi e di ogni età, creano una disciplina di caserma perfettamente
elaborata nel regime della fabbrica. Là, il così detto lavoro di
sorveglianza e la divisione degli operai in semplici soldati e sott'ufficiali
industriali sono spinti al loro ultimo grado di sviluppo.»
Ure, il
decantatore della fabbrica, dice: "La principale difficoltà non
consisteva tanto nella invenzione di un meccanismo automatico..., la
difficoltà consisteva specialmente nella disciplina, necessaria per far
rinunziare agli uomini le loro abitudini irregolari nel lavoro, e identificarli
colla regolarità invariabile del grande automa. Inventare e mettere in
vigore con successo un codice di disciplina manifatturiera conveniente ai
bisogni ed alla celerità del sistema automatico, ecco un'intrapresa
degna di Ercole".»
«Gettando da
banda la divisione dei poteri e il sistema rappresentativo, tanto prediletti
dalla borghesia, il capitalista formula, da legislatore privato e come meglio
gli piace, il suo potere autocratico sui suoi operai, nel suo codice di
fabbrica. La frusta del conduttore di schiavi è qui sostituita dal libro
delle punizioni, che tutte si risolvono naturalmente in ammende e ritenute sul
salario.»
«F. Engels
dice: "La schiavitù alla quale la borghesia ha sottoposto il
proletariato, si presenta sotto il suo vero aspetto nel sistema della fabbrica.
Qui ogni libertà cessa di fatto e di diritto. L'operaio deve essere la
mattina nella fabbrica alle cinque e mezzo; se viene due minuti più
tardi incorre nell'ammenda; se è in ritardo di dieci minuti, non lo si
fa entrare che dopo colazione, e perde il quarto del suo salario giornaliero.
Il fabbricante è legislatore assoluto. Fa regolamenti come gli salta in
testa, modifica ed amplia il suo codice a suo piacere, e se v'introduce
l'arbitrio più stravagante, i tribunali rispondono ai lavoratori:
'Poiché voi avete accettato volontariamente questo contratto, dovete sottomettervici'.
Questi lavoratori sono condannati ad essere così tormentati fisicamente
e moralmente dal loro nono anno sino alla loro morte".»
Prendiamo due
casi, per esempio, di ciò che dicono i tribunali. A Sheffield nel
1866 un operaio si era impegnato per due anni in una fabbrica metallurgica. Per
querela avuta col fabbricante egli lasciò la fabbrica e dichiarò
di non volervi ritornare a nessun costo. Accusato di rottura di contratto,
è condannato a due mesi di prigione. (Se il fabbricante viola lui il contratto,
non può essere che tradotto innanzi ai tribunali civili, e non rischia
che un'ammenda). Compiuti i due mesi, il medesimo fabbricante gl'intima di
ritornare in fabbrica, secondo l'antico contratto. L'operaio si rifiuta,
allegando che egli ha purgato la sa pena. Tradotto nuovamente in giudizio,
è di nuovo condannato dal tribunale, benché uno dei giudici dichiarasse
pubblicamente essere una enormità giuridica, che un uomo possa venir
condannato periodicamente durante tutta la sua vita, pel medesimo delitto.
Questo giudizio fu pronunziato da una delle più alte Corti di giustizia
di Londra.»
«Il secondo
caso avvenne nel Wiltshire, nel novembre 1863. Circa trenta tessitori a vapore,
occupati da un certo Harrupp, fabbricante di panni, si misero in sciopero,
perché il detto Harrupp, aveva la graziosa abitudine di fare una ritenuta di
salario per ogni ritardo del mattino. Egli riteneva dodici soldi per due
minuti, uno scellino (ventiquattro soldi) per tre minuti e uno scellino e mezzo
per dieci minuti. Ciò fa dodici lire e un quinto di centesimo per ora,
112,50 per giorno, mentre che il salario, in media, non sorpassava mai dodici o
quattordici lire per settimana. Harrupp aveva appostato un ragazzo per suonare
l'ora della fabbrica; il che questi faceva talvolta prima delle sei del
mattino; e tosto aveva finito, le porte erano chiuse, e tutti gli operai che si
trovavano fuori subivano una ammenda. Siccome non vi era orologio in questo
stabilimento, i disgraziati erano a discrezione del bricconcello, ispirato dal
padrone. Le madri di famiglia e le giovanette, comprese nello sciopero,
dichiararono che esse si sarebbero rimesse al lavoro tosto che il suonatore
fosse sostituito da un orologio, e che la tariffa si rendesse più
ragionevole. Harrupp citò 19 donne e fanciulle innanzi al magistrato per
rottura di contratto. Esse furono condannate ciascuna a mezzo scellino di
ammenda e due scellini per le spese, in mezzo allo stupore dell'uditorio.
Harrupp, all'uscire dal tribunale, fu salutato dai fischi della folla.»[13]
I tristi
effetti della fabbrica e della grande industria sono sempre preveduti dai
lavoratori, come lo dimostra l'accoglienza che essi fanno ognora alle prime
macchine.
Nel
diciassettesimo secolo, in quasi tutta l'Europa, scoppiarono sollevazioni
operaie contro una macchina tessitrice di nastri e galloni, chiamata Bandmühle
o Mühlenstuhl. Essa fu inventata in Germania. L'abate Lancelotti
racconta, nel 1636, che: «Anton Müller di Danzica ha veduto in questa
città, circa 50 anni or sono, una macchina molto ingegnosa, che eseguiva
contemporaneamente da quattro a sei tessuti. Ma il magistrato, temendo che
questa invenzione convertisse gran numero di operai in mendicanti, la
soppresse, e fece soffocare o annegare l'inventore».
«Nel 1629,
questa medesima macchina fu per la prima volta impiegata a Leida, dove le
sommosse degli spinettari forzarono i magistrati a proscriverla. Boxhorn dice a
questo proposito: "In questa città alcuni individui inventarono,
venti anni or sono, un telaio da tessere, per mezzo del quale un solo operaio
poteva eseguire più tessuti e più facilmente che molti altri nel
medesimo tempo. Da ciò tumulti e querele da parte dei tessitori, che
fecero proscrivere dai magistrati l'uso di questo strumento".» Dopo aver
lanciato contro questo telaio da tessere editti più o meno proibitivi,
nel 1632, 1639, eccetera, gli Stati generali di Olanda ne permisero finalmente
l'impiego sotto certe condizioni, con l'editto del 15 dicembre 1661.
Il Bandstuhl
fu proscritto a Colonia, nel 1676, mentre la sua introduzione in Inghilterra,
verso la medesima epoca, vi provocò turbolenze fra i tessitori. Un
editto imperiale, del 19 febbraio del 1685, interdisse il suo uso in tutta la
Germania. Ad Amburgo fu bruciato pubblicamente per ordine del magistrato.
L'imperatore Carlo VI rinnovò, in febbraio
«Questa
macchina, che scosse l'Europa, fu il precursore delle macchine da filare e da
tessere, e preludiò la rivoluzione industriale del XVIII secolo. Essa
permetteva, al ragazzo più inesperto, di far lavorare tutto un telaio
con le sue spole, avanzando e ritirando una pertica, e fornendo, nella sua forma
perfezionata, da
«Verso la fine
del primo terzo del XVII secolo, una sega a vento, stabilita da un olandese
nelle vicinanze di Londra, fu distrutta dal popolo. Al principio del XVIII
secolo, le seghe ad acqua non trionfarono che difficilmente della resistenza
popolare sostenuta dal Parlamento. Quando Everet, nel 1758, costruì la
prima macchina ad acqua per tosare la lana, centomila uomini, messi da essa
fuori di lavoro, la ridussero in cenere. Cinquantamila operai, che guadagnavano
la vita cardando la lana, riempirono il Parlamento di petizioni contro le
macchine da cardare. La distruzione di numerose macchine dei distretti
manifatturieri inglesi durante i primi quindici anni del XIX secolo, dette al
governo il pretesto di violenze ultra-reazionarie.»
«Ci vuole tempo
ed esperienza, prima che gli operai imparino a distinguere fra la macchina ed
il suo impiego capitalista, e dirigano i loro attacchi non contro il mezzo
materiale di produzione ma contro il suo modo sociale di sfruttamento.»[14]
Ecco, adunque,
quali sono i risultati delle macchine e della grande industria per i
lavoratori. Questi sono, anzitutto, scacciati in gran numero dalle fabbriche,
nelle quali la macchina ha preso il loro posto. I pochi che vi restano devono
subire l'umiliazione di vedersi strappare di mano l'ultimo strumento di lavoro
e di essere ridotti alla condizione di servi delle macchine; devono sopportare
il peso di una giornata di lavoro straordinariamente cresciuta; rinunziare a
moglie e figli, divenuti gli schiavi del capitale; e soffrire, finalmente,
gl'indescrivibili spasimi, prodotti dalle torture di un lavoro progressivamente
intensificato dalla folle libidine di plusvalore, dalla quale è preso il
capitalista nel periodo della grande industria. Ma al dio capitale non mancano
i teologi, che tutto spiegano, e tutto giustificano con le loro eterne leggi.
Al disperato grido dei lavoratori affamati dalle macchine, essi rispondono con
l'annunzio di una peregrina legge di compensazione.
«Una falange di
economisti borghesi, James Mill, Mac Culloch, Torrens, Senior, J. St. Mill,
eccetera, sostengono che, spostando operai occupati, la macchina disimpegna,
per questo fatto stesso, un capitale destinato a impiegarli di nuovo in
un'altra occupazione qualunque.
«Mettiamo che
in una fabbrica di tappeti s'impieghi un capitale di 6000 lire sterline, delle
quali una metà è avanzata in materie prime (si fa astrazione dai
fabbricati, ecc.) e l'altra metà consacrata al pagamento di 100 operai,
ciascuno dei quali riceve un salario annuale di
«Si disimpegna
un capitale per questa operazione? Originariamente la somma totale di
Per compiacere
i teorici della compensazione, noi ammetteremo che il prezzo della macchina sia
minore della somma dei salari soppressi, che essa non costi che
«Nei nostri
nuovi dati il capitale di
Se la
costruzione della macchina dà lavoro ad un numero addizionale di operai
meccanici, sarebbe forse quella la compensazione dei tappezzieri gettati
sul lastrico? In ogni caso, la sua costruzione occupa meno operai di quanto il
suo impiego ne sposta. La somma di
Ma non è
a ciò che mirano i dottrinari della compensazione. Per essi, l'affare
importante è la sussistenza degli operai congedati. Privando i nostri 50
operai del loro salario di
Il salario
I sostenitori del modo di produzione
capitalista pretendono che il salario sia il pagamento del lavoro, ed il
plusvalore il prodotto del capitale.
Ma che cosa
è il valore del lavoro? Il lavoro, o si trova ancora nel lavoratore, o
ne è di già uscito; cioè a dire, il lavoro, o è la
forza, la potenza di fare una cosa, o è la cosa stessa già fatta:
insomma il lavoro, o è la forza lavoro o è la merce. Il
lavoratore non può vendere il lavoro già uscito da lui,
cioè la cosa che egli produce, la merce, perché questa appartiene al
capitalista e non a lui. Perché il lavoratore potesse vendere il lavoro
già uscito da lui, cioè la merce da lui prodotta, dovrebbe
possedere i mezzi di lavoro e le materie di lavoro ed allora egli sarebbe
mercante delle merci da lui prodotte. Ma egli non possiede nulla, è un
proletario che, per vivere, ha bisogno di vendere ad altri il solo bene che gli
resta, che è la sua potenza o forza di lavorare, la forza lavoro. Il
capitalista dunque altro non può comprare che la forza lavoro; la quale,
come tutte le altre merci, ha un valore di uso ed un valore di scambio. Il
capitalista paga il valore propriamente detto, che è il valore di
scambio, al lavoratore per la merce che questi gli vende. Ma la forza lavoro ha
pure un valore d'uso, il quale appartiene al capitalista che l'ha comprata.
Ora, il valore d'uso di questa merce singolare ha una doppia qualità. La
prima è quella che essa ha in comune col valore di tutte le altre merci,
cioè di soddisfare un bisogno; la seconda è quella, tutta sua
speciale, di creare valore, che distingue questa merce da tutte le altre.
Dunque il
salario altro non può rappresentare che il prezzo della forza lavoro. Ed
il plusvalore non può essere prodotto dal capitale, perché il capitale
è materia inerte, che trovasi nella merce sempre nella stessa
quantità di valore nella quale ci è entrato; è materia che
non ha vita alcuna e che, rimanendo da sé sola, senza la forza lavoro, non
potrebbe mai averne. È la forza lavoro che solamente può produrre
plusvalore. È dessa che porta il primo germe di vita al capitale.
È dessa che mantiene tutta la vita del capitale. Questo, altro non fa
che, dapprima, succhiare poscia assorbire da tutti i pori e finalmente pompare
gagliardamente plusvalore dal lavoro.
Le due forme
principali di salario sono: salario a tempo e salario a cottimo, a fattura, od
a capo, che dir si voglia.
Il salario a
tempo è quello che viene pagato per un dato tempo; come per una
giornata, per una settimana, per un mese, eccetera, di lavoro. Esso non
è che una trasformazione del prezzo della forza lavoro. Invece di dire
che l'operaio ha venduto la sua forza lavoro di una giornata per 3 lire, si
dice che l'operaio va a lavorare per un salario di 3 lire al giorno.
Il salario di 3
lire al giorno è dunque il prezzo della forza lavoro per una giornata.
Ma questa giornata può essere più o meno lunga. Se è di 10
ore per esempio, la forza lavoro viene pagata a 30 centesimi l'ora, mentre se è
di 12 ore, la forza lavoro viene pagata a 25 centesimi l'ora. Dunque, il
capitalista, prolungando la giornata di lavoro, viene a pagare all'operaio un
prezzo minore per la sua forza lavoro. Il capitalista può anche
aumentare il salario, pur continuando a pagare all'operaio, per la sua forza
lavoro, l'istesso prezzo di prima e anche meno. Se un capitalista aumenta il
salario del suo operaio da 3 lire a 3,60 al giorno, e nello stesso tempo la
giornata si prolunga da 10 ore che era prima sino a 12 ore, egli pur aumentando
di L.. 0,60 il salario giornaliero, verrà sempre a pagare all'operaio L.
0,30 all'ora per la sua forza lavoro. Se poi il capitalista aumenta il salario
da L.
Quando il
capitalista paga l'operaio a ore, trova ancor modo di danneggiarlo, aumentando
o diminuendo il lavoro, ma pagando sempre onestamente il medesimo prezzo
per ogni ora di lavoro. Sia infatti 25 centesimi il salario di un'ora di
lavoro; se il capitalista fa lavorare l'operaio per 8 ore, invece di 12, gli
pagherà L.2, invece di L.3; gli farà perdere, cioè, una
lira, con la quale l'operaio deve soddisfare la terza parte dei suoi bisogni
giornalieri. Inversamente, se il capitalista fa lavorare l'operaio per 14 o 16
ore, invece di 12, pur pagandogli L. 3,50 o L. 4 invece di L. 3 egli viene a
prendere dall'operaio 2 o 4 ore di lavoro ad un prezzo minore di quello che
vale. Dopo 23 ore di lavoro le forze dell'operaio hanno già
subìto un consumo; e le altre 2 o 4 ore di lavoro, fatte in più,
costano più delle prime 12. Questa ragione, presentata dai lavoratori,
la si vede infatti accettata in diverse industrie, dove si pagano ad un prezzo
maggiore le ore fatte in più di quelle stabilite.
Quanto minore
è il prezzo della forza lavoro, rappresentata dal salario a tempo, tanto
più il tempo del lavoro è lungo. E ciò è chiaro; se
il salario è di L.
Il salario a
cottimo, a fattura od a capo, che dir si voglia, altro non è che una
trasformazione del salario a tempo; come ce lo mostra anche il fatto che queste
due forme di salario si trovano usate indifferentemente, non solo nelle diverse
industrie, ma talvolta anche in una medesima industria.
Un operaio
lavora 12 ore al giorno per un salario di L. 3 e produce un valore di L. 6. Qui
è indifferente dire che l'operaio produce, nelle prime 6 ore del suo
lavoro, le L. 3 del suo salario e, nelle altre 6 ore, le L. 3 di plusvalore; il
che equivale a dire che l'operaio produce, in ogni prima mezz'ora, L. 0,25, una
dodicesima parte del suo salario e, in ogni seconda mezz'ora, L. 0,25, una
dodicesima parte del plusvalore. Nella stessa guisa, se l'operaio produce in 12
ore di lavoro 24 capi e percepisce centesimi 12 e 1/2 per capo, in tutto L. 3,
è perfettamente come dire che l'operaio produce 12 capi per riprodurre
le L.
«Nel lavoro a
capo la qualità del lavoro è controllata dall'opera medesima, che
deve essere di una bontà media, affinché il capo sia pagato al prezzo
convenuto. Sotto questo rapporto il salario a capo diventa una sorgente
infinita di pretesti per fare delle ritenute sul pagamento dell'operaio. Esso
fornisce nel tempo stesso al capitalista una misura esatta della
intensità del lavoro. Il solo tempo di lavoro che conti come socialmente
necessario, e che sia per conseguenza pagato, è quello che si è
incorporato in una massa di prodotti determinata e stabilita sperimentalmente.
Nei grandi laboratori di sarti, a Londra, un certo capo, un panciotto per esempio,
si chiama un'ora, una mezz'ora, eccetera, e l'ora è pagata 12 soldi. Si
sa per pratica qual'è il prodotto di un'ora in media. Quando vengono le
nuove mode, si eleva sempre una discussione fra padrone e operaio per sapere se
il tale capo equivale ad un'ora, sino a che l'esperienza non decida. Lo stesso
succede nei laboratori di falegnami, ebanisti, ecc. Se poi l'operaio non
possiede la capacità media di esecuzione, se egli non può
consegnare un certo minimum di lavoro nella giornata, lo si congeda.»
«La
qualità e l'intensità del lavoro essendo così assicurate
dalla forma stessa del salario, una gran parte del lavoro di sorveglianza
diventa superflua. È su di ciò fondato non solamente il lavoro
moderno a domicilio, ma eziandio tutto un sistema di oppressione e sfruttamento
gerarchicamente costituito. Da una parte il salario a capo facilita
l'intervento dei parassiti fra il capitalista e l'operaio, il
mercanteggiamento. Il guadagno degli intermediari, dei mercanteggiatori
proviene esclusivamente dalla differenza fra il prezzo del lavoro, tal quale il
capitalista lo paga e la porzione di questo prezzo che essi accordano
all'operaio. D'altra parte il salario a capo permette al capitalista di fare un
contratto di tanto al capo con l'operaio principale (nella manifattura col
capo-gruppo, nelle miniere col minatore propriamente detto, eccetera) e
quest'operaio principale s'incarica, per il prezzo stabilito, di trovare egli
stesso i suoi aiutanti e di pagarli. Lo sfruttamento, che il capitale fa sui
lavoratori, diventa qui un mezzo di sfruttamento del lavoratore sul
lavoratore.»
«Stabilitosi il
salario a capo, l'interesse personale spinge l'operaio ad attivare il
più possibile la sua forza; la qual cosa permette al capitalista di
elevare più facilmente il grado della intensità del lavoro.
Benché questo risultato si produca da se stesso (dice Dunning, segretario d'una
Società di resistenza) s'impiegano spesso mezzi per produrlo
artificialmente. A Londra, per esempio, tra i meccanici l'artificio in uso
è "che il capitalista sceglie per capo d'un certo numero d'operai
un uomo di forza fisica superiore e svelto nel lavoro. Tutti i trimestri, o
come si vuole, gli paga un salario supplementare a condizione che egli faccia
tutto il possibile per spingere i suoi collaboratori, che non ricevono che il
salario ordinario, a gareggiare di zelo con lui". L'operaio è
ugualmente interessato a prolungare la giornata di lavoro, come mezzo per
accrescere il suo salario quotidiano o settimanale. Quindi ne segue una
reazione simile a quella che noi abbiamo descritta a proposito del salario a
tempo, senza contare che la prolungazione della giornata, anche quando il
salario a capo resta costante, implica per se stessa un ribasso nel prezzo del
lavoro.»
«Il salario a
capo è uno dei due principali appoggi del sistema già menzionato,
di pagare cioè il lavoro a ore, senza che il padrone s'impegni di
occupare l'operaio regolarmente durante la giornata o la settimana.»
«Negli
stabilimenti sottoposti alle leggi di fabbrica[16], il salario a capo
diventa regola generale, perché là il capitalista non può
ingrandire il lavoro quotidiano che sotto il rapporto della intensità.»[17]
L'aumento di
produzione è seguito dalla diminuzione proporzionale del salario. Quando
l'operaio produceva 12 capi in 12 ore, il capitalista gli pagava, per esempio,
un salario di L.
«Questa
variazione di salario, benché puramente nominale, provoca lotte continue tra il
capitalista e l'operaio; sia perché il capitalista se ne fa un pretesto per
ribassare realmente il prezzo del lavoro, sia perché l'aumento di
produttività del lavoro cagiona un aumento della sua intensità;
sia perché l'operaio, prendendo sul serio quest'apparenza creata dal salario a
capo (cioè che sia il suo prodotto e non la sua forza lavoro ciò
che gli si paga) si rivolta contro una riduzione di salario alla quale non
corrisponde una riduzione proporzionale dei prezzi di vendita delle merci. Il
capitale respinge giustamente simili pretensioni piene di errori grossolani
sulla natura del salario. Egli le qualifica come un'usurpazione tendente a
prelevare imposte sul progresso dell'industria e dichiara spiattellatamente che
la produttività del lavoro non riguarda per nulla l'operaio.»[18]
Accumulazione
del capitale
Se osserviamo la formula del capitale,
comprendiamo facilmente che la sua conservazione è tutta riposta nella
sua successiva e continua riproduzione.
Infatti, il
capitale si divide, come noi già sappiamo, in due: in costante,
cioè, e variabile. Il capitale costante, rappresentato dai mezzi di
lavoro e dalle materie di lavoro, soffre un continuo logoramento durante il
processo del lavoro. Si consumano gli strumenti, si consumano le macchine, il
carbone, il sego, eccetera, che abbisogna alle macchine, e si consuma infine il
fabbricato. Nello stesso tempo però che il lavoro viene in siffatta
guisa logorando il capitale costante, esso lo viene eziandio riproducendo nelle
stesse proporzioni nelle quali lo consuma. Il capitale costante trovasi
riprodotto nella merce nelle proporzioni in cui è stato consumato
durante la sua fabbricazione. Il valore consumato dei mezzi di lavoro e delle
materie di lavoro è sempre esattamente riprodotto nel valore della
merce, come noi abbiamo già veduto altrove. Se, dunque, il capitale
costante si viene riproducendo parzialmente in ogni merce, è chiaro che,
nel valore di un certo numero di merci prodotte, si troverà tutto il
capitale costante, consumato nella loro fabbricazione.
Com'è
del capitale costante, così è del capitale variabile. Il capitale
variabile, quello rappresentato dal valore della forza di lavoro, cioè
dal salario, si riproduce anch'esso esattamente nel valore della merce. Noi lo
abbiamo già visto. L'operaio, nella prima parte del suo lavoro, produce
il suo salario, e nella seconda il plusvalore. Siccome il salario all'operaio
non è pagato che a lavoro finito, così avviene che egli riscuote
il suo salario dopo averne già riprodotto l'equivalente nella merce del
capitalista.
L'assieme dei
salari pagati ai lavoratori è dunque da questi riprodotto
incessantemente. Questa incessante riproduzione del fondo dei salari perpetua
la soggezione del lavoratore al capitalista. Quando il proletario viene sul
mercato a vendere la sua forza di lavoro, egli viene a prendere il posto
assegnatogli dal modo di produzione capitalista, e a contribuire alla
produzione sociale per la parte di lavoro che gli spetta, ritirando, pel suo
mantenimento, quella parte dei fondi dei salari, che egli dovrà, prima,
con il suo lavoro riprodurre.
È sempre
l'eterno vincolo di soggezione umana, sia esso sotto la forma della
schiavitù, della servitù, o del salariato.
L'osservatore
superficiale crede che lo schiavo lavori per nulla. Ei non pensa che lo schiavo
deve anzitutto rifare il suo padrone di quanto questi spende pel suo
mantenimento: e si osservi che il mantenimento dello schiavo è talvolta
di gran lunga migliore di quello del salariato, essendo il suo padrone
altamente interessato alla sua conservazione, come alla conservazione di una
parte del proprio capitale. Il servo, che, insieme con la terra, alla quale
è attaccato, appartiene al suo signore, è, per l'osservatore
superficiale, un essere che ha fatto dei progressi in confronto dello schiavo,
perché il servo si vede chiaramente che dà una parte sola del suo lavoro
al suo signore, mentre impiega l'altra parte sulla poca terra assegnatagli, per
campare la vita. E il salariato, alla sua volta, apparisce al superficiale
osservatore, uno stato molto più progredito a paragone della
servitù, perché il lavoratore sembra in esso perfettamente libero,
percependo il valore del proprio lavoro.
Strana
illusione! Se il lavoratore potesse realizzare per sé il valore del proprio
lavoro, il modo di produzione capitalista non potrebbe allora più
esistere. Noi l'abbiamo già visto. Il lavoratore altro non può
ottenere che il valore della sua forza di lavoro, che è la sola cosa che
può vendere, perché è il solo bene che possieda al mondo. Il
prodotto del lavoro appartiene al capitalista, il quale paga al proletario il
salario, cioè il suo mantenimento. Nella stessa guisa, il pezzo di
terra, non che il tempo e gli strumenti necessari a lavorarlo, lasciati dal
signore al suo servo, sono la somma dei mezzi che questi ha per vivere, mentre
deve lavorare tutto il resto del tempo per il suo signore.
Lo schiavo, il
servo e l'operaio lavorano tutti tre in parte per produrre il loro
mantenimento, e in parte assolutamente per il guadagno dei loro padroni. Essi
rappresentano tre forme diverse dell'istessissimo vincolo di soggezione e
sfruttamento umano. E sempre la soggezione dell'uomo privo di qualsiasi
accumulazione primitiva (cioè dei mezzi di produzione, che sono i mezzi
di vita) all'uomo che possiede un'accumulazione primitiva, i mezzi di
produzione, le sorgenti della vita. La conservazione, cioè la
riproduzione del capitale, è appunto, nel modo di produzione
capitalista, la conservazione di questo vincolo di soggezione e sfruttamento
umano.
Ma il lavoro
non solamente riproduce il capitale, ma produce eziandio plusvalore, il quale
forma ciò che chiamasi 'rendita del capitale'. Se il capitalista fonde
ogni anno tutta o parte della sua rendita con il capitale, noi avremo
un'accumulazione del capitale, che verrà progressivamente crescendo. Con
la riproduzione semplice il lavoro conserva il capitale; con l'accumulazione
del plusvalore il lavoro ingrossa il capitale.
Quando la
rendita si rifonde con il capitale, si viene a impiegare questa rendita, parte
in mezzi di lavoro, parte in materie di lavoro e parte in forza di lavoro.
Allora si ha che il passato sopralavoro, il passato lavoro non pagato, viene a
ingrossare l'intero capitale. Una parte del lavoro non pagato dello scorso anno
viene a pagare il lavoro necessario di questo anno. Ecco ciò che riesce
a fare il capitalista, grazie all'ingegnoso meccanismo della produzione
moderna.
Una volta
ammesso il sistema di produzione moderna, tutto basato sulla proprietà
individuale e sul salariato, nulla si può trovare a ridire sulle
conseguenze che ne derivano, una delle quali è l'accumulazione
capitalista. Che importa all'operaio Antonio, se le 3 lire, che gli si pagano
di salario, rappresentano il lavoro non pagato all'operaio Pietro? Ciò
che egli ha diritto di sapere è se le 3 lire sono il giusto prezzo della
sua forza di lavoro, se sono cioè l'esatto equivalente delle cose a lui
necessarie in un giorno, se la legge degli scambi, in una parola, è
stata rigorosamente osservata.
Quando il
capitalista incomincia ad accumulare capitale a capitale, una nuova
virtù, tutta sua propria, si sviluppa in lui; la così detta
'virtù dell'astinenza', che consiste a limitare tutte le proprie spese,
per impiegare la parte maggiore della sua rendita nell'accumulazione. «La
volontà del capitalista e la sua coscienza altro non riflettendo che i
bisogni del capitale che egli rappresenta, il capitalista non saprebbe vedere
nel suo consumo personale che una specie di furto, o almeno di prestito, fatto
all'accumulazione; e, infatti, la tenuta dei libri in partita doppia mette le
spese private al passivo come dovute dal capitalista al capitale. Infine,
accumulare è conquistare il mondo della ricchezza sociale, stendere la
sua dominazione personale, aumentare il numero dei suoi sudditi, cioè
sacrificarsi a una ambizione insaziabile.»
«Lutero mostra
molto bene (con l'esempio dell'usuraio, questo capitalista di forma fuori di
moda, ma sempre rinascente) che il desiderio di dominare è un movente
della sete di ricchezze. "La semplice ragione" egli dice "ha
permesso ai pagani di tenere l'usuraio come un assassino e ladro quattro volte.
Ma noi, cristiani, lo teniamo in tanto onore, che l'adoriamo quasi a causa del
suo denaro. Colui che nasconde, ruba e divora il nutrimento di un altro
è (per quanto può esserlo) ugualmente assassino di colui il quale
lo fa morire di fame o lo rovina a fondo. E questo è quanto fa l'usuraio,
eppure egli resta assiso in tutta sicurtà sul suo seggio, mentre sarebbe
molto più giusto che, sospeso alla forca, egli fosse divorato da tanti
corvi quanti furono gli scudi che ha rubato; sempreché in lui vi fosse tanta
carne, di cui tutti quei corvi potessero ciascuno prenderne un pezzo. S'impiccano
i piccoli ladri..., i piccoli ladri sono messi ai ferri; i grandi ladri si
vanno pavoneggiando nell'oro e nella seta. Non v'ha sulla terra (toltone il
diavolo) un più grande nemico del genere umano che l'avaro e l'usuraio,
perché egli vuole essere Dio sopra tutti gli uomini. Turchi, gente di guerra,
tiranni sono certamente una cattiva genia; pure essi sono obbligati a lasciar
vivere la povera gente e a confessare che essi sono scellerati e nemici;
succede loro perfino d'intenerirsi loro malgrado. Ma un usuraio, questo sacco
d'avarizia, vorrebbe che il mondo intero fosse in preda alla fame, alla sete,
alla tristezza e alla miseria; egli vorrebbe avere tutto per sé solo, affinché
ognuno dovesse ricevere da lui come da un Dio e restare il suo servo in
perpetuo. Egli porta catene e anelli d'oro, e si fa passare per un uomo pio e
mite. L'usuraio è un mostro enorme, peggiore di un orco divoratore... E
se si arruotano e si decapitano gli assassini e i ladri da strada, quanto
più non si dovrebbero cacciare, maledire, e arruotare tutti gli usurai e
tagliare loro la testa!"»[19]
L'accumulazione
capitalista richiede un aumento di braccia. Il numero dei lavoratori deve
essere aumentato, se si vuole convertire una parte della rendita in capitale
variabile. L'organismo stesso della riproduzione capitalista fa in modo che il
lavoratore possa conservare la sua forza di lavoro nella nuova generazione,
dalla quale il capitale la prende per continuare il suo processo di riproduzione
incessante. Ma il lavoro che si richiede oggi dal capitale è superiore a
quello che si richiedeva ieri; e per conseguenza il suo prezzo dovrebbe
naturalmente aumentare. E aumenterebbero infatti i salari, se nella stessa
accumulazione del capitale non ci fosse una ragione per farli invece diminuire.
È vero
che la rendita dovrebbe essere convertita, parte in capitale costante, e parte
in capitale variabile; parte, cioè, in mezzi e materie di lavoro, e
parte in forza di lavoro, ma bisogna considerare che con l'accumulazione del
capitale vengono i perfezionamenti dei vecchi sistemi di produzione, i nuovi
sistemi di produzione e le macchine; tutte cose che fanno aumentare la
produzione, e diminuire il prezzo della forza di lavoro, come già
sappiamo. A misura che cresce l'accumulazione del capitale, la sua parte
variabile diminuisce, mentre la sua parte costante aumenta. Si aumentano,
cioè, i fabbricati, le macchine con le loro materie ausiliarie, si
aumentano le materie di lavoro, ma, nello stesso tempo e in proporzione di
questo aumento, con l'accumulazione del capitale si diminuisce il bisogno della
forza di lavoro, il bisogno delle braccia. Diminuendo il bisogno della forza di
lavoro, ne diminuisce la richiesta, e finalmente ne diminuisce anche il prezzo.
Si ha, quindi, che più progredisce l'accumulazione del capitale,
più ribassano i salari.
L'accumulazione
del capitale prende vaste proporzioni per mezzo della concorrenza e del
credito. Il credito porta spontaneamente più capitali a fondersi
assieme, oppure a fondersi con uno più forte di ciascuno di essi. La
concorrenza, invece, è la guerra che tutti i capitali si fanno fra loro;
è la loro lotta per l'esistenza, dalla quale escono, resi ancor
più forti, coloro che per vincere dovevano essere stati già prima
i più forti.
L'accumulazione
del capitale inutilizza, dunque, gran numero di braccia; crea, cioè, un
eccesso di popolazione lavoratrice. «Ma se l'accumulazione, il progresso della
ricchezza sulla base capitalista, produce necessariamente una sovrapopolazione
operaia, questa diventa alla sua volta la leva più potente
dell'accumulazione, una condizione di esistenza della produzione capitalista
nel suo stato di sviluppo integrale. Essa forma un'armata di riserva
industriale, che appartiene al capitale in modo così assoluto come se
l'avesse allevata e disciplinata a sue proprie spese. Essa fornisce la materia
umana sempre sfruttabile e disponibile per la fabbricazione del plusvalore.
È solamente sotto il regime della grande industria che la produzione di
un superfluo di popolazione diventa una molla regolare della produzione delle
ricchezze.»[20]
Quest'armata di
riserva industriale, questa sovrapopolazione lavoratrice si divide in diverse
categorie. La prima di queste è meglio pagata, e manca meno delle altre
di lavoro, mentre fa un lavoro meno penoso. L'ultima categoria invece è
composta di lavoratori, che si trovano occupati più raramente di tutti
gli altri, e sempre per un lavoro più faticoso e vile, che viene loro
pagato al più basso prezzo che si possa mai pagare lavoro umano.
Quest'ultima categoria è la più numerosa, non solamente per il
grande contingente che le manda anno per anno il progresso industriale, ma
soprattutto perché essa è composta della gente più prolifica,
come il fatto stesso dimostra. «Adamo Smith dice: "La povertà
sembra favorevole alla generazione". Ed è perfino una disposizione
divina di profonda sapienza, se devesi credere allo spiritoso e galante abate
Galiani, secondo il quale: "Iddio fa che gli uomini che esercitano
mestieri di prima utilità nascano abbondantemente". Laing dimostra
con la statistica che "la miseria, spinta anche al punto da generare la
carestia e le epidemie, tende ad aumentare la popolazione invece di
fermarla".»[21]
Dopo queste
categorie altro non resta che «l'ultimo residuo della sovrapopolazione
relativa, il quale abita l'inferno del pauperismo».
«Astrazione
fatta dai vagabondi, dai delinquenti, dalle prostitute, dai mendicanti e da
tutta quella gente, che costituisce le così dette classi pericolose,
questo strato sociale si compone di tre categorie. La prima comprende operai
capaci di lavorare. Basta gettare un colpo d'occhio sulle liste statistiche del
pauperismo inglese, per accorgersi che la sua massa, ingrossandosi a ciascuna
crisi e nel periodo di ristagno di lavoro, diminuisce a ogni ripresa di affari.
La seconda categoria comprende i figli dei poveri, che vivono di assistenza, e
gli orfanelli. Questi sono tanti candidati della riserva industriale, i quali,
alle epoche di grande prosperità, entrano in massa nel servizio attivo.
La terza categoria comprende i miserabili; anzitutto gli operai e le operaie
che sono stati gettati sul lastrico dallo sviluppo sociale, che ha oppresso
l'opera di dettaglio, la divisione del lavoro della quale aveva formata la loro
sola risorsa; poi quelli che per disgrazia hanno sorpassata l'età
normale del salariato; finalmente le vittime dirette dell'industria (malati, storpi,
vedove, eccetera), il cui numero si accresce con quello delle macchine
pericolose, delle miniere, delle manifatture chimiche, eccetera.»
«Il pauperismo
è la casa degli invalidi della armata attiva del lavoro e il peso morto
della sua riserva. La sua produzione è compresa in quella della
sovrapopolazione relativa, la sua necessità nella necessità di
questa. Il pauperismo forma con la sovrapopolazione una condizione di esistenza
della ricchezza capitalista.»
«Si comprende
dunque tutta la stupidità della saggezza economica, la quale non cessa
di predicare ai lavoratori, di accordare il loro numero ai bisogni del
capitale. Come se il meccanismo del capitale non realizzasse continuamente
questo accordo desiderato, la cui prima parola è 'creazione di una riserva
industriale', e l'ultima 'invasione crescente della miseria, sino nelle
profondità dell'armata attiva del lavoro peso morto del pauperismo'.»
«La legge
secondo la quale una massa sempre più grande di elementi costituenti la
ricchezza può, mercé lo sviluppo continuo delle forze collettive del
lavoro, essere messa in opera con una spesa di forze umane sempre minore,
questa legge, che mette l'uomo sociale in stato di produrre di più con
minore lavoro, si cambia nel centro capitalista (dove non sono i mezzi di
produzione che si trovano al servizio del lavoratore, ma il lavoratore che
trovasi al servizio dei mezzi di produzione) in legge contraria, cioè a
dire che più il lavoro guadagna in risorse e in potenza, più v'ha
pressione dei lavoratori sui loro mezzi d'impiego, e più la condizione
di esistenza del salariato, la vendita della sua forza, diviene precaria.»
«L'analisi del
plusvalore relativo ci ha condotti a questo risultato: nel sistema capitalista
tutti i metodi per moltiplicare le potenze del lavoro collettivo si eseguiscono
a spese del lavoratore individuale, tutti i mezzi per sviluppare la produzione
si trasformano in mezzi di dominare e di sfruttare il produttore: essi fanno di
lui un uomo monco, frammentario, o l'appendice di una macchina; essi gli
oppongono, come tanti poteri nemici, le potenze scientifiche della produzione;
essi sostituiscono al lavoro attraente il lavoro forzato; essi rendono le
condizioni nelle quali il lavoro si fa, sempre più anormali, e
sottomettono l'operaio, durante il suo servizio, a un dispotismo tanto
illimitato quanto gretto; essi trasformano la sua vita intera durante il
lavoro; e gettano la sua moglie e i suoi figli sotto le ruote del carro del dio
capitale.»
«Ma tutti i
metodi che aiutano la produzione del plusvalore favoriscono egualmente l'accumulazione,
e ogni estensione di questa chiama alla sua volta l'altra. Ne risulta che,
qualunque sia il livello dei salari, alto o basso, la condizione del lavoratore
deve peggiorare, a misura che il capitale si accumula.»
«Infine, la
legge, che equilibra sempre il progresso dell'accumulazione e quello della sovrapopolazione
relativa, lega il lavoratore al capitale più solidamente che i chiodi di
Vulcano non legarono Prometeo alla rupe. È questa legge che stabilisce
una correlazione fatale tra l'accumulazione del capitale e l'accumulazione
della miseria, di guisa che accumulazione di ricchezza a un polo, significa
accumulazione di povertà, di sofferenza, d'ignoranza, d'abbrutimento, di
degradazione morale, di schiavitù, al polo opposto, dove si trova la
classe che produce il capitale stesso.»
«G. Ortes,
monaco veneziano e uno degli economisti notevoli del XVIII secolo, crede aver
trovato nell'antagonismo inerente alla ricchezza capitalista la legge
immutabile e naturale della ricchezza sociale. "Invece di progettare"
egli dice "per la felicità dei popoli, sistemi inutili, io mi limiterò
a ricercare la ragione della loro miseria... Il bene e il male economico in una
nazione è sempre alla stessa misura: la copia dei beni in alcuni
è sempre eguale alla mancanza di essi in altri; la grande ricchezza di
un piccolo numero è sempre accompagnata dalla privazione delle prime
necessità nella moltitudine; l'attività eccessiva degli uni rende
forzata la poltroneria degli altri; la ricchezza di un paese corrisponde alla
sua popolazione, e la sua miseria corrisponde alla sua ricchezza".»
«Ma, se Ortes
era profondamente attristato di questa fatalità economica della miseria,
10 anni dopo di lui, un ministro del culto anglicano, il reverendo J. Townsend,
viene, con cuore leggero e perfino gioioso, a glorificarla come la condizione
necessaria della ricchezza. "L'obbligo legale del lavoro" egli dice
"cagiona troppa pena, esige troppo sforzo, e fa troppo chiasso; la fame al
contrario è non solamente una pressione pacifica, silenziosa e
incessante, ma, come lo stimolo più naturale al lavoro e all'industria,
essa provoca eziandio gli sforzi più potenti." Perpetuare la fame
del lavoratore è dunque il solo articolo importante del suo codice del
lavoro, ma per eseguirlo, egli aggiunge, basta lasciar fare il principio di
popolazione, attivissimo fra i poveri. "È una legge della natura,
pare, che i poveri siano imprevidenti sino al punto da esserci sempre fra essi
degli uomini pronti a compiere le funzioni le più servili, le più
sporche e le più abbiette della comunità. Il fondo della
felicità umana ne è così grandemente aumentato; la gente
per bene, più delicata, sbarazzata da tali tribolazioni, può
dolcemente seguire la sua vocazione superiore... Le leggi per soccorrere i
poveri tendono a distruggere l'armonia e la bellezza, l'ordine e la simmetria
di questo sistema che Dio e la natura hanno stabilito nel mondo".»
«Se il monaco
veneziano trovava nella fatalità economica della miseria la ragion
d'essere della carità cristiana, del celibato, dei monasteri, dei
conventi, eccetera, il reverendo prebendato vi trovava però anche un
motivo per condannare le leggi inglesi, che danno ai poveri il diritto ai soccorsi
della parrocchia.»
«Storch dice:
"Il progresso della ricchezza sociale genera questa classe utile della
società..., che esercita le occupazioni più fastidiose, le
più vili, le più disgustose; che prende, in una parola, sulle sue
spalle tutto ciò che la vita ha di disaggradevole e di servile, e
procura così alle altre classi l'agio, la serenità di spirito e
la dignità convenzionale (!) di carattere, eccetera". Poi, dopo
essersi domandato in che dunque, in fin dei conti, possa dirsi progredita sulla
barbarie questa civilizzazione capitalista con la sua miseria e la sua
degradazione delle masse, egli non trova che una parola a rispondere: la
sicurezza!»
«Infine,
Destutt de Tracy dice spiattellatamente: "Le nazioni povere sono quelle
dove il popolo è agiato; e le nazioni ricche sono quelle dove egli
è ordinariamente povero".»[22]
Veniamo ora a
vedere, nei fatti, quali sieno gli effetti dell'accumulazione del capitale.
Qui, come altrove, i nostri esempi sono tutti presi dall'Inghilterra, il paese
per eccellenza della accumulazione capitalista, verso la quale tendono (lo
ripetiamo, e non lo si dimentichi mai) tutte le nazioni moderne. Ci rincresce
non poter riprodurre che una sola piccola parte dei ricchi materiali raccolti
da Marx.
«Nel 1863, il
Consiglio privato ordinò una inchiesta sulla situazione della parte
più mal nutrita della classe operaia inglese. Il dottore Simon fu il suo
medico ufficiale. Fu convenuto che si prenderebbe per regola, in questa
inchiesta, di scegliere, in ogni categoria, le famiglie la cui salute e
posizione lasciassero meno a desiderare; e si arrivò a questo risultato
generale: "In una sola fra le classi operaie della città, il
consumo d'azoto sorpassa appena il minimum assoluto, al disotto del
quale si dichiarano le malattie d'inanizione; in due dassi la quantità
di nutrimento azotato, come carbonato, faceva difetto, e grandemente in una di
esse; fra le famiglie agricole, più di un quinto aveva meno della dose
indispensabile di alimentazione azotata; infine in tre contee (Berkshire, Oxfordshire
e Somersetshire) il minimum di nutrimento azotato non era raggiunto. Fra
i lavoratori agricoli l'alimentazione più cattiva era quella dei
lavoratori dell'Inghilterra, la parte più ricca del Regno Unito. Fra gli
operai delle campagne l'insufficienza di nutrimento, in generale, colpiva principalmente
le donne e i fanciulli, dovendo l'uomo adulto mangiar esso per potere
lavorare". Una penuria ben più grande ancora desolava certe
categorie di lavoratori di città sottoposte all'inchiesta. "Essi
sono tanto miseramente nutriti, che i casi di privazioni crudeli e rovinose per
la salute devono essere necessariamente numerosi." Tutto ciò
è avarizia del capitalista! Egli si astiene, infatti, di fornire ai suoi
schiavi perfino quanto occorre per vegetare.»
«Il dottore
Simon nel suo rapporto generale dice: "Chiunque è abituato a curare
i malati poveri o quelli degli ospedali non può che affermare che i
casi, nei quali l'insufficienza del nutrimento produce malattie o le aggrava,
sono, per così dire, innumerevoli. Sotto il punto di vista sanitario, altre
circostanze decisive vengono qui ad aggiungersi... Bisogna ricordarsi che ogni
riduzione di nutrimento è sopportata mal volentieri, e che in generale
la dieta forzata non viene che in seguito ad altre privazioni anteriori. Molto
prima che la mancanza di alimenti venga a pesare nella bilancia igienica, molto
prima che il filosofo venga a contare le dosi di azoto e di carbonio fra le
quali oscilla la vita e la morte per inanizione, ogni altra agiatezza
dev'essere già scomparsa dal focolare domestico. Le vesti e il calore
devono essere stati ridotti molto più ancora che l'alimentazione.
Nessuna protezione sufficiente contro i rigori della temperatura;
ristringimento del locale abitato a un grado tale da generare malattie o da
aggravarle; appena una traccia di mobili o di utensili di casa. La nettezza
stessa deve essere diventata costosa e difficile. Se per rispetto di se
medesimo si fanno ancora sforzi per mantenerla, ciascuno di questi sforzi
rappresenta un supplemento di fame. Si abiterà là dove il fitto
è meno caro, nei quartieri dove l'azione della polizia sanitaria
è nulla, dove c'è il maggior numero di cloache infette, minore
circolazione, immondizie in piena strada, meno acqua o la più cattiva,
e, nelle città, meno aria e meno luce. Tali sono i pericoli ai quali la
povertà è esposta inevitabilmente, quando questa povertà
implica mancanza di nutrimento. Se tutti questi mali riuniti pesano
terribilmente sulla vita, la semplice privazione di nutrimento non è per
se stessa meno spaventevole... Tormentosi pensieri, specialmente se si vuole
ricordare che la miseria della quale si tratta non è quella della
pigrizia, la quale non ha da lagnarsi che con se stessa! Questa è la
miseria della gente laboriosa. Egli è certo, quanto agli operai delle
città, che il lavoro, con il quale essi comprano la loro magra pietanza,
è quasi sempre prolungato al di là di ogni misura. E intanto non
si può dire, nemmeno in un senso molto ristretto, che questo lavoro
basti a sostenerli... Sopra una vasta estensione, questo non è che il
cammino più o meno lungo verso il pauperismo".»
«Ogni
osservatore disinteressato vede perfettamente che più i mezzi di
produzione si concentrano grandemente, più i lavoratori si agglomerano
in uno spazio ristretto; che più l'accumulazione del capitale è rapida,
più le abitazioni operaie diventano miserabili. È evidente,
infatti, che i miglioramenti e gli abbellimenti delle città (conseguenza
dell'accrescimento della ricchezza), come demolizioni di quartieri mal
costruiti, costruzioni di palazzi per banche, depositi, eccetera, allargamenti
di strade per la circolazione commerciale e delle carrozze di lusso,
costruzione di strade ferrate interne, eccetera, cacciano i poveri in angoli
sempre più sporchi e insalubri. Citiamo un'osservazione generale del
dottore Simon: "Benché il mio punto di vista ufficiale sia esclusivamente
fisico, il più comune senso di umanità non mi permette di tacere
l'altro lato del male. Giunto a un certo grado, implica quasi necessariamente
una negazione di ogni pudore, una promiscuità ributtante, un'esposizione
di nudità più bestiali che umane. Essere sottoposto a simili
influenze, è una degradazione la quale, se dura, diventa ogni giorno
più profonda. Per i fanciulli educati in quest'atmosfera maledetta,
è un battesimo di infamia. E significa cullarsi nella più vana
speranza l'aspettare da persone situate in tali condizioni degli sforzi per
raggiungere, sotto un certo aspetto, quella civilizzazione elevata, la cui
essenza è nella purezza fisica e morale".»[23]
«I nomadi del
proletariato si reclutano nelle campagne, ma le loro occupazioni sono in gran
parte industriali. E la fanteria leggera del capitale, gettata, secondo i
bisogni del momento, talora sopra una località, talora sopra un'altra.
È impiegata nelle costruzioni, nel prosciugamento dei terreni, nella
fabbricazione dei mattoni, a cuocere la calce, alla costruzione delle strade
ferrate, eccetera. Colonna mobile della pestilenza, essa semina sulla sua
strada il vaiuolo, il tifo, il colera, la febbre scarlattina, eccetera. Quando
imprese, come quelle delle strade ferrate, esigono una forte anticipazione di
capitale, è generalmente l'intraprenditore che fornisce la sua armata di
baracche di legno o d'altri alloggi analoghi, villaggi improvvisati senza
nessuna regola di salubrità, sorgente di grossi profitti per
l'intraprenditore, che sfrutta i suoi operai e come soldati dell'industria e
come inquilini. Per una baracca, secondo che contenga uno, due o tre buchi, si
paga uno scellino (24 soldi), 2 o 3 per settimana.»
«Nel settembre
1864, riferisce il dottore Simon, dalla parrocchia di Sevenoaks furono denunziati
al ministro dell'interno i fatti seguenti. In questa parrocchia il vaiuolo era
ancora, un anno fa, quasi sconosciuto. Poco prima di quest'epoca si
cominciò a forare una strada ferrata da Lewisham a Tunbridge. Nella
vicinanza immediata di quest'ultima città, non solo vi si eseguì
la maggior parte dei lavori, ma vi fu installato eziandio il deposito centrale
di tutta la costruzione. Siccome il gran numero d'individui, così
occupati, non poteva essere tutto alloggiato nelle case di campagna,
l'intraprenditore fece costruire lungo la via baracche sprovviste di
ventilazione e di scoli, e per di più necessariamente ingombrate,
essendo ogni locatario obbligato a riceverne altri con lui, per quanto numerosa
fosse la sua propria famiglia, e benché ciascuna capanna non contenesse che due
camere. Dal rapporto medico risulta che questa povera gente, per scampare alle
esalazioni pestilenziali delle acque stagnanti e delle latrine, situate sotto
le loro finestre, dovevano subire, durante la notte, tutti i tormenti della
soffocazione. Un medico, appositamente incaricato, si è espresso in termini
acerbi sullo stato di queste sedicenti abitazioni, e ha fatto intendere che
v'erano a temersi le conseguenze le più funeste se qualche misura di
salubrità non fosse presa immediatamente. L'intraprenditore si era
impegnato a preparare una casa per coloro che fossero colpiti da malattie
contagiose, ma non ha mantenuta la sua promessa, benché si fossero verificati
diversi casi di vaiuolo nelle capanne che si dicevano le migliori. L'ospedale
della parrocchia è, da mesi, ingombro di malati. In una stessa famiglia,
5 fanciulli sono morti di vaiuolo e di febbre. Dal primo aprile sino al primo
settembre di quest'anno, vi sono stati 10 casi di morte di vaiuolo, 4 dei quali
nelle capanne, focolare del contagio. Non si potrebbe indicare la cifra delle
malattie, perché le famiglie, che ne sono afflitte, fanno tutto il possibile
per nasconderle".»[24]
Vediamo ora gli
effetti delle crisi sulla parte meglio pagata della classe operaia. Ecco quanto
è narrato dal corrispondente di un giornale, il 'Morning Star', che, nel
gennaio 1867, nell'occasione di una crisi industriale, visitò le principali
località in sofferenza.
«All'est di
Londra 15 000 lavoratori almeno, fra i quali più di 3000 operai di
mestieri, si trovano con le loro famiglie letteralmente agli estremi. A stento
ho potuto avanzarmi sino alla porta della Casa di lavoro (Workhouse), assediata
da una folla di affamati. Aspettavano i boni del pane, ma l'ora della
distribuzione non era ancora giunta. Nella corte, tutta ingombra di neve,
alcuni uomini, riparati dalle sporgenze del tetto, accomodavano il lastricato.
Lavoravano per 6 soldi al giorno e un bono di pane. In una piccola capanna
sporca e rovinata, che stava in una parte della corte, si trovava una
quantità di uomini, con le spalle gli uni addossate agli altri, tanto
per riscaldarsi. Essi sfilacciavano canapi di nave e gareggiavano a chi
lavorerebbe più a lungo con il minor nutrimento. Questa sola Casa di
lavoro soccorreva 7000 persone, molte delle quali guadagnavano, 6 o 7 mesi or
sono, i più grossi salari. Il loro numero sarebbe stato doppio, se
abitualmente non ci fossero lavoratori, che rifiutano qualsiasi soccorso della
parrocchia, finché resta loro qualche cosa da impegnare. Uscito dalla Casa di
lavoro, entrai nella casa d'un operaio in ferro, privo di lavoro da 27
settimane. Lo trovai seduto con tutta la sua famiglia in una camera remota. La
camera non era ancora del tutto sguarnita di mobili, e vi era un po' di fuoco,
indispensabile in una giornata di freddo terribile, per impedire che i piedi
nudi dei fanciulli si gelassero. Innanzi al fuoco vi era una certa quantità
di stoppa, che le donne e i fanciulli dovevano filare, in ricambio del pane
loro fornito dalla Casa di lavoro. L'uomo lavorava nella corte sopra accennata
per un bono di 6 soldi al giorno. Egli era in quel punto arrivato per il pasto
del mezzodì, molto affamato, come disse egli stesso con un amaro sorriso,
e questo pasto consisteva in qualche fetta di pane con strutto e una tazza di
tè senza latte. La seconda porta, alla quale picchiammo, fu aperta da
una donna, che senza dir parola ci condusse in una piccola camera nel fondo,
dove si trovava tutta la sua famiglia silenziosa e con gli occhi fissi su di un
fuoco prossimo a estinguersi. Vi era intorno a questa gente un'aria di
solitudine e di disperazione, da farmi augurare di non rivedere più mai
simili scene... "Essi non hanno guadagnato nulla, signore" disse la
donna mostrando i suoi piccoli figliuoli "niente, da 26 settimane, e tutto
il nostro denaro se n'è andato, tutto il denaro che il padre e io
avevamo messo da parte in tempi migliori, con la vana speranza di assicurarci
una riserva per i giorni cattivi. Vedete!" gridò con accento quasi
selvaggio, e nell'istesso tempo ci mostrava un libretto di banca, dove erano
indicate regolarmente tutte le somme successivamente versate, poi ritirate, di
guisa che potemmo constatare, come il piccolo peculio, dopo aver incominciato
da un deposito di 5 scellini, dopo essersi ingrossato sino a
«È di
moda, fra i capitalisti inglesi, dipingere il Belgio come 'il paradiso dei
lavoratori', perché colà, la 'libertà del lavoro', ovvero,
ciò ch'è la stessa cosa, la libertà del capitale, si trova
al sicuro da ogni attacco. Là non v'ha né dispotismo ignominioso di
società di resistenza, né corruttela oppressiva d'ispettori di fabbrica.
Se v'è stato alcuno ben iniziato in tutti i misteri della
felicità del 'libero' lavoratore belga, questi è stato certamente
il fu Ducpetiaux, ispettore generale delle prigioni e degli stabilimenti di
beneficenza belgi, e, nello stesso tempo, membro della Commissione centrale di
statistica belga. Apriamo la sua opera: Bilancio economico delle classi operaie
nel Belgio, Budget économique des classes ouvrières en Belgique,
Bruxelles, 1855. Noi vi troviamo il paragone fra lo stato normale di una
famiglia operaia belga, e il regime alimentario del soldato, del marinaio dello
Stato e del prigioniero. Tutte le risorse della famiglia, esattamente
calcolate, si elevano annualmente a L. 1068. Ecco il bilancio annuale della
famiglia:
Il padre 300 giorni a |
L. 1,56 |
L. 468 |
La madre 300 giorni a |
L. 0,89 |
L. 267 |
Il figlio 300 giorni a |
L. 0,56 |
L. 168 |
La figlia 300 giorni a |
L. 0,55 |
L. 165 |
|
|
———— |
Totale annuale |
|
L. 1068 |
La spesa
annuale della famiglia e il suo deficit si eleverebbero, nella ipotesi
che l'operaio avesse l'alimentazione
del marinaio, a |
L. 1828 |
Deficit L.760 |
del soldato, a |
L. 1473 |
Deficit L.70 |
del prigioniero, a |
L. 1112 |
Deficit L.44[25] |
«Un'inchiesta
ufficiale fu fatta in Inghilterra, nel 1863, sull'alimentazione e il lavoro dei
condannati, sia alla deportazione, sia ai lavori forzati. Paragonato
l'ordinario dei prigionieri inglesi e quello dei poveri delle Case di lavoro e
dei lavoratori agricoli liberi dell'Inghilterra, è provato all'evidenza
che i primi sono molto meglio nutriti di quelli delle due altre categorie,
perché "la massa di lavoro, che si esige da un condannato ai lavori
forzati, non si eleva al di là della metà di quella che eseguiscono
i lavoratori agricoli ordinari".»[26]
«Un rapporto
sulla sanità pubblica, del 1865, parlando di una visita fatta in tempo
di epidemia a case di contadini, cita fra gli altri fatti il seguente:
"Una giovane malata di febbre dormiva la notte nella stessa camera con suo
padre, sua madre, un suo figlio illegittimo, due giovani suoi fratelli, due sue
sorelle, ciascuna con un bastardo, in tutto 10 persone. Qualche settimana
prima, 13 fanciulli dormivano nel medesimo locale".»[27]
Le modeste
proporzioni di questo compendio non ci permettono di riportare qui, dal testo,
la minuta esposizione dello stato orribile in cui giacciono i contadini in
Inghilterra. Chiuderemo, quindi, questo capitolo, parlando di una piaga tutta
speciale, prodotta in Inghilterra, fra i lavoratori agricoli,
dall'accumulazione del capitale.
L'eccesso di
popolazione agricola produce l'effetto di far ribassare i salari, mentre non soddisfa
nemmeno tutti i bisogni del capitale nei momenti di lavori eccezionali e
urgenti, che sono richiesti in date epoche dell'anno dall'agricoltura. Ne
segue, quindi, che un gran numero di donne e di fanciulli vien impegnato per
bisogni momentanei del capitale, passati i quali, questa gente va ad aumentare
la sovrapopolazione lavoratrice delle campagne. Questo fatto ha prodotto nelle
campagne dell'Inghilterra il sistema delle bande ambulanti.
«Una banda si
compone da
«I vizi di
questo sistema sono l'eccesso di lavoro imposto ai fanciulli e ai giovanetti,
l'enorme cammino, che essi sono costretti a fare ogni giorno per andare e
venire dalla fattoria, distante 5, 6 e qualche volta
«La banda,
nella forma classica da noi descritta, si dice banda pubblica, comune o ambulante.
Vi hanno pure bande particolari, composte dei medesimi elementi delle prime, ma
meno numerose, e funzionanti sotto gli ordini, non di un capo di banda, ma di
qualche vecchio garzone di fattoria, che il suo padrone non saprebbe altrimenti
impiegare. Queste non hanno più l'allegria né lo spirito da zingari, ma,
come tutti i testimoni dicono, i fanciulli vi sono meno pagati e più
maltrattati.»
«Questo sistema
il quale, in questi ultimi anni, continua a estendersi, non esiste evidentemente
per il piacere del capo di banda. Esso esiste perché arricchisce i grossi
fattori e i proprietari. I piccoli fattori non impiegano bande, e nemmeno se ne
impiegano sulle terre povere. Un proprietario, spaventato da una possibile
riduzione delle sue rendite, si adirò innanzi alla commissione d'Inchiesta.
"Perché si fa tanto chiasso?" egli gridò. "Perché il nome
del sistema suona male. Invece di 'banda' dite, per esempio, 'associazione
industriale agricola cooperativa della gioventù rurale', e nessuno vi
troverà a ridire." "Il lavoro per bande è al più
buon mercato in confronto di qualunque altro, ed ecco perché lo s'impiega"
dice un antico capo-banda. "Il sistema delle bande" dice un fattore
"è il meno caro per i fattori, e senza contraddizione il più
pernicioso per i fanciulli." Per i fattori non v'ha metodo più
ingegnoso per mantenere il personale dei lavoratori molto al disotto del
livello normale, lasciando sempre a sua disposizione un supplemento di braccia
per i bisogni straordinari per ottenere molto lavoro con la minor spesa
possibile, e per rendere superflui i maschi adulti. Sotto pretesto che mancano
i lavoratori e il lavoro, si reclama come necessario il sistema delle bande.»[28]
L'accumulazione
primitiva
Eccoci giunti alla fine del nostro
dramma.
Noi incontrammo
un giorno il lavoratore sul mercato, venuto per vendere la sua forza di lavoro,
e lo vedemmo contrattare da pari a pari con l'uomo del denaro. Egli non
conosceva ancora quanto dura fosse la strada del Calvario che doveva ascendere,
né aveva ancora appressato alle sue labbra l'amarissimo calice, che tutto
doveva tracannare sino alla feccia. L'uomo del denaro, non ancora divenuto
capitalista, non era allora che un modesto possessore di piccola ricchezza,
timido e incerto per la riuscita della sua nuova intrapresa, nella quale
impiegava la sua fortuna.
Vedemmo poi
come la scena si venne mutando.
L'operaio, dopo
aver generato, con il suo primo sopralavoro, il capitale, fu oppresso dall'eccessivo
lavoro di una giornata straordinariamente prolungata. Con il plusvalore
relativo gli fu ristretto il tempo del lavoro necessario pel suo mantenimento e
prolungato quello del sopralavoro, destinato a nutrire sempre più
riccamente il capitale. Nella cooperazione semplice vedemmo l'operaio a una
disciplina di caserma, e, trascinato dalla corrente di tutta una concatenazione
di forze di lavoro, estenuarsi sempre più, per dare maggiore alimento al
sempre crescente capitale. Vedemmo l'operaio mutilato, avvilito, e depresso al
massimo grado dalla divisione del lavoro, nella manifattura. Lo vedemmo
soffrire gl'inenarrabili dolori materiali e morali, causatigli
dall'introduzione delle macchine, nella grande industria. Espropriato
dell'ultima particella di virtù artigiana, lo vedemmo ridotto a mero
servo della macchina, trasformato, da membro di un organismo vivente, in
appendice volgarissima di un meccanismo, torturato dal lavoro vertiginosamente
intensificato della macchina, che a ogni tratto minaccia strappargli un
brandello delle sue carni, o stritolarlo completamente fra i suoi terribili
ingranaggi; e per di più vedemmo la moglie e i teneri figli suoi
divenuti schiavi del capitale. E intanto il capitalista, arricchito
immensamente, gli paga un salario, che egli può a suo piacere diminuire,
anche facendo mostra di conservarlo allo stesso livello di prima, e perfino di
aumentarlo. Finalmente vedemmo l'operaio, temporaneamente inutilizzato
dall'accumulazione del capitale, passare dall'armata attiva industriale nella
riserva, per poi, da questa, cadere per sempre nell'inferno del pauperismo.
Tutto il sacrificio è consumato!
Ma come mai ha
potuto avvenire tutto ciò?
In un modo
molto semplice. L'operaio era, è vero, possessore della sua forza di
lavoro, con la quale avrebbe potuto produrre ogni giorno molto più di
quanto abbisognava per sé e per la sua famiglia, ma gli mancavano però
gli altri elementi indispensabili del lavoro, i mezzi, cioè, e le materie
di lavoro. Sprovvisto dunque di qualsiasi ricchezza, l'operaio è stato
costretto, per campare la vita, a vendere il suo unico bene, la sua forza di
lavoro all'uomo del denaro, che ne ha fatto il suo pro. La proprietà
individuale e il salariato, fondamenti del sistema di produzione capitalista,
sono stati la causa prima di tanti dolori.
Ma ciò
è iniquo! E scellerato! E chi ha mai conferito all'uomo il diritto di
proprietà individuale? E come mai l'uomo del denaro si trovava in
possesso di un'accumulazione primitiva, origine di tante infamie?
Una voce
terribile esce dal tempio del Dio Capitale, e grida: 'Tutto è giusto,
perché tutto è scritto nel libro delle eterne leggi. Fuvvi già un
tempo molto lontano, nel quale tutti gli uomini vagavano ancora liberi e uguali
per la Terra. Pochi di essi furono laboriosi, sobri ed economici; tutti gli
altri poltroni, gozzovigliatori e dissipatori. La virtù fece ricchi i
primi, e il vizio immiserì i secondi. I pochi ebbero il diritto di
godere (essi e i loro discendenti) delle ricchezze virtuosamente accumulate;
mentre i molti spinti dalla loro miseria a vendersi ai ricchi, furono
condannati eternamente a servire essi e i loro discendenti'.
Ecco come
spiegano la cosa certi amici dell'ordine borghese. «E queste insipide fanciullaggini
non si stancano mai di sciorinarle. Thiers, per esempio, osa presentarle ai
francesi in un volume, nel quale, con la gravità di un uomo di Stato,
pretende di avere annientati gli attacchi sacrileghi del socialismo contro la
proprietà.»[29]
Se tale fosse
l'origine dell'accumulazione primitiva, la teoria, che da essa deriva, sarebbe
tanto giusta, quanto quella del peccato originale e quella della
predestinazione. Il padre fu poltrone e gozzovigliatore, il figlio
soffrirà la miseria. Il tale è figlio di un ricco, è
predestinato a essere felice, potente, istruito, civile, forte, eccetera; il
tal'altro è figlio di un povero, è predestinato a essere
infelice, debole, ignorante, abbrutito, immorale, eccetera. Una società,
fondata sopra una tale legge, dovrebbe certamente finire, come già
finirono tante altre società, meno barbare e meno ipocrite, tante
religioni e dèi, incominciando dal cristianesimo, nelle cui leggi si
trovano esempi consimili di giustizia.
E qui potremmo
metter fine al nostro dire, se ci fosse permesso di terminarlo con questa
scempiaggine borghese. Ma il nostro dramma ha una catastrofe degna di esso,
come tosto vedremo, assistendo al suo ultimo atto.
Apriamo la
storia, quella storia scritta da borghesi, e per uso e consumo della borghesia;
cerchiamo in essa l'origine dell'accumulazione primitiva, ed ecco ciò
che vi troviamo.
Nell'epoca
più antica, torme di gente vaganti vengono a stabilirsi in quelle
località meglio disposte e più favorite dalla natura. Vi fondano
città, si danno a coltivare la terra, e a fare quant'altro occorre per
il proprio benessere. Ma ecco che esse s'incontrano e si urtano nel loro
sviluppo, e ne segue guerra, morti, incendi, rapine e stragi. Tutto ciò
che è dei vinti diventa la proprietà dei vincitori, comprese le
persone dei superstiti, che sono fatti tutti schiavi.
Ecco l'origine
dell'accumulazione primitiva nell'antichità. Veniamo ora al medio evo.
In questa
seconda epoca della storia, altro non troviamo che invasioni di popoli nei
paesi di altri popoli più ricchi e più favoriti dalla natura, e
sempre lo stesso ritornello di stragi, rapine, incendi, eccetera. Tutto
ciò che è dei vinti diventa la proprietà dei vincitori,
con la sola differenza che i superstiti non sono fatti più schiavi, come
nella epoca antica, ma servi, e passano con la terra, alla quale sono attaccati,
in potere dei loro signori. Nemmeno nel medio evo dunque troviamo la menoma
traccia dell'idillica laboriosità, sobrietà ed economia decantata
da una certa dottrina borghese quale origine dell'accumulazione primitiva. E
notisi che il medio evo è l'epoca alla quale i più illustri
nostri possessori di ricchezza possano vantarsi di far ascendere la loro
origine. Ma veniamo finalmente all'epoca moderna.
La rivoluzione
borghese ha distrutto il feudalismo, ed ha trasmutata la servitù in
salariato. Nello stesso tempo, però, essa ha tolto al lavoratore i pochi
mezzi di esistenza, che lo stato di servitù gli assicurava. Il servo,
benché dovesse lavorare la maggior parte del suo tempo per il suo signore, pure
si aveva un pezzo di terra con i mezzi e il tempo di coltivarla, per campare la
sua vita. La borghesia ha distrutto tutto ciò, e del servo ha fatto un libero
(?) lavoratore, il quale non ha altra scelta che, o farsi sfruttare nel modo
che abbiamo già visto, dal primo capitalista che gli capita, o morire di
fame.
Scendiamo ora
ai particolari. Apriamo la storia di un popolo, e vediamo com'è avvenuta
l'espropriazione delle popolazioni agricole, e la formazione di quelle masse
operaie, destinate a fornire la loro forza di lavoro alle industrie moderne.
Prenderemo, secondo il solito, la storia d'Inghilterra, perché se l'Inghilterra
è il paese, dove più che altrove è sviluppata la malattia
che noi studiamo, è dessa che potrà offrirci sempre il campo
più adatto per le nostre osservazioni pratiche.
«In
Inghilterra, il servaggio era scomparso di fatto verso la fine del XIV secolo.
L'immensa maggioranza della popolazione si componeva allora, e più
interamente ancora al XV secolo, di contadini liberi, che coltivavano le loro
proprie terre, qualunque fosse il titolo feudale sul quale poggiavano il loro
diritto di possesso. Nei grandi domini signorili l'antico balì, servo
lui stesso, aveva ceduto il posto al fattore indipendente. I salariati rurali
erano in parte contadini (che, durante il tempo lasciato loro libero dalla
cultura dei loro campi, prendevano servizio presso i grandi proprietari), in
parte una classe particolare e poco numerosa di giornalieri. Questi stessi
erano pure, in una certa misura, coltivatori per proprio conto, perché, oltre
del salario, si faceva loro concessione di campi almeno di
La rivoluzione,
che doveva gettare i primi fondamenti del regime capitalista, ebbe il suo preludio
nell'ultimo terzo del XV secolo e nel principio del XVI. Allora il
licenziamento dei numerosi seguiti signorili lanciò improvvisamente sul
mercato del lavoro una massa di proletari senza fuoco e senza tetto; la quale
fu considerevolmente ingrandita dalle usurpazioni, che i gran signori fecero
dei beni comunali dei contadini, cacciandone questi, che vi avevano tanto
diritto quanto i loro padroni. Ciò che, in Inghilterra, dette
specialmente luogo a questi atti di violenza, fu l'estensione delle manifatture
di lana in Fiandra e il rialzo dei prezzi della lana che ne risultò. Trasformazione
delle terre arabili in pascoli: tale fu il grido di guerra. Harrison racconta
come l'espropriazione dei contadini avesse desolato il paese. "Ma che
importa ai nostri grandi usurpatori? Le case dei contadini e le case rustiche
dei lavoratori sono state violentemente rasate al suolo, o condannate a cadere
in rovina. Se si vogliono consultare gli antichi inventari di ciascuna
residenza signorile, si troverà che innumerevoli case sono scomparse con
i coltivatori che le abitavano, che il paese nutre ora molto minor numero di
gente, che molte città sono decadute, benché qualcuna di nuova
fondazione prosperi... A proposito delle città e dei villaggi distrutti
per fare parchi di pecore e nei quali non si vede più niente in piedi,
salvo il castello signorile, avrei molto a dire."»[30]
«La Riforma, e
lo spogliamento dei beni della Chiesa che la seguì, venne a dare un
nuovo e terribile impulso all'espropriazione violenta del popolo, nel XVI
secolo. La chiesa cattolica era, a quest'epoca, proprietaria feudale della
più gran parte del suolo inglese. La soppressione dei chiostri,
eccetera, ne gettò gli ambienti nel proletariato. I beni stessi del
clero caddero nelle mani dei favoriti reali, o furono venduti a vil prezzo a
cittadini, a fattori speculatori, che incominciarono dal cacciare in massa gli
antichi censuari ereditari. Il diritto di proprietà della povera gente,
sopra una parte delle decime ecclesiastiche, fu tacitamente confiscato. Nel
quarantesimo anno del regno di Elisabetta, si dovette riconoscere il pauperismo
come istituzione nazionale, e stabilire la tassa per i poveri. Gli autori di
questa legge si vergognarono di dichiararne i motivi, e la pubblicarono senza
alcun preambolo, contrariamente all'uso tradizionale. Sotto Carlo I, il
Parlamento la dichiarò perpetua, e non fu poi modificata che nel 1834.
Allora divenne pei poveri un castigo ciò che loro era stato originariamente
accordato come indennità delle espropriazioni subite.»
«Al tempo
ancora di Elisabetta, alcuni proprietari fondiari e alcuni ricchi fattori
dell'Inghilterra meridionale si riunirono in conciliabolo, per approfondire la
legge sui poveri recentemente promulgata. Ecco un estratto del sunto dei loro
studi, sottoposto all'avviso di un celebre giureconsulto di quel tempo:
"Alcuni
ricchi fattori della parrocchia hanno progettato un piano molto saggio, con il
quale si può evitare ogni sorta di turbolenza nella esecuzione della
legge. Essi propongono di far costruire nella parrocchia una prigione di
lavoro. Ogni povero che non vorrà farvisi rinchiudere si vedrà
rifiutata l'assistenza. Si farà poi sapere nei dintorni che se qualcuno
desiderasse prendere in affitto i poveri di questa parrocchia, dovrebbe
rimettere, in un termine prestabilito, le proposte sigillate, indicando il prezzo
più basso al quale egli se ne vorrebbe sbarazzare. Gli autori di questo
piano suppongono che vi siano nelle vicine contee genti, le quali non abbiano
alcuna voglia di lavorare, e che siano senza fortuna o senza credito per
procurarsi una fattoria, o una nave, onde poter vivere senza lavoro. Queste
genti sarebbero dispostissime a fare alla parrocchia proposte vantaggiosissime.
Se qualche povero morisse durante il contratto, la colpa ricadrebbe su di lui,
avendo la parrocchia adempito a tutti i suoi doveri verso questi poveri. Noi
temiamo tuttavia che la legge della quale si tratta non permetta simili misure
di prudenza. Ma dovete sapere che il resto dei liberi sublocatari di questa
contea e delle contee vicine si unirà a voi, per impegnare il loro rappresentante
alla Camera dei Comuni a proporre una legge, che permetta di imprigionare i
poveri e di obbligarli al lavoro, affinché ogni individuo, che si rifiuti
all'imprigionamento, perda il suo diritto all'assistenza. Ciò, noi
speriamo, impedirà i miserabili di aver bisogno di assistenza".»[31]
«Nel XVIII
secolo, la legge stessa divenne strumento di spoliazione. La forma parlamentare
del furto commesso sulle terre comunali è quella di 'legge sulla
chiusura delle terre comunali'. Sono, in realtà, decreti con i quali i
proprietari di terre si fanno essi stessi regalo dei beni comunali, decreti di
espropriazione del popolo. Sir E M. Eden cerca di presentare la
proprietà comunale come una proprietà privata, benché ancora indivisa,
ma si confuta da se stesso, dimandando al Parlamento uno statuto generale, che
sanzioni una volta per tutte la chiusura dei beni comunali. E non contento di
avere così confessato la necessità di un colpo di Stato
parlamentare per legalizzare il trasferimento dei beni comunali ai proprietari
di terre, egli insiste sull'indennità dovuta ai poveri coltivatori. Se
non v'erano espropriati, non vi erano evidentemente persone da indennizzare.»
"Nel
Northamptonshire e nel Lincolnshire" dice Addington "si è
proceduto in grande alla chiusura dei terreni comunali, e la più parte
delle nuove signorie, uscite da questa operazione, sono state convertite in
pascoli, di guisa che dove si lavoravano
Al XIX secolo,
si è perduto perfino il ricordo del legarne intimo, che univa il
coltivatore al suolo comunale. Il popolo delle campagne, per esempio, ha mai
ottenuto un quattrino d'indennità per i
Gli ultimi
espedienti di grande importanza storica, per espropriare i lavoratori delle
campagne, bisogna propriamente guardarli nell'alta Scozia, dove essi ebbero la
più feroce applicazione. «Giorgio Ensor, in un libro pubblicato nel
1818, dice: "I Grandi di Scozia hanno espropriate famiglie, come se si
fosse trattato di sarchiare cattive erbe; essi hanno trattati i villaggi e i
loro abitanti, come gli indiani, ebbri di vendetta, trattano le bestie feroci e
le loro tane. Un uomo è venduto per un vello di pecora, per un cosciotto
di montone e per meno ancora... Al tempo dell'invasione della Cina
settentrionale, il Gran Consiglio dei Mongoli discusse se bisognava estirpare
dal paese tutti gli abitanti e convertirlo in un vasto pascolo. Molti
proprietari scozzesi hanno messo questo disegno in esecuzione nel loro proprio
paese, contro i loro propri compatrioti".»
«Ma a ciascun
signore bisogna rendere il dovuto onore. L'iniziativa più mongolica fu
presa dalla duchessa di Sutherland. Questa donna, formata da una buona scuola,
non appena ebbe prese le redini dell'amministrazione, ricorse ai grandi mezzi,
e convertì in pascolo tutta una contea, la cui popolazione, in grazia a
esperimenti analoghi, ma fatti in proporzioni più piccole, si trovava
già ridotta alla cifra di 15 000. Dal 1814 al 1820 questi 15 000
individui, che formavano circa 3000 famiglie, furono sistematicamente espulsi.
I loro villaggi furono distrutti e bruciati, i loro campi convertiti in
pascoli. I soldati inglesi, mandati per prestare man forte, vennero alle prese
con gli indigeni. Una vecchia, che rifiutava d'abbandonare la sua capanna,
perì nelle fiamme.» (Aprite le orecchie, borghesi, che declamate contro
l'uso rivoluzionario del petrolio! Il fuoco è stato, per molto tempo
impiegato a danno del proletariato! È la vostra storia che parla.) «Egli
è così che la nobile dama si accaparrò
«Una parte
degli spodestati fu assolutamente cacciata; all'altra furono assegnati circa
«Finalmente, un
ultimo cambiamento si compie. Una porzione delle terre convertite in pascoli
è riconvertita in riserva di caccia. Il professore Leone Levi, in un
discorso pronunciato nell'aprile 1866, innanzi alla Società delle Arti,
disse: "Spopolare il paese e convertire i terreni arabili in pascoli, era,
in primo luogo, il mezzo più comodo di aver rendite senza alcuna
spesa... Ben tosto la sostituzione delle foreste di daini ai pascoli divenne un
avvenimento ordinario negli Highlands. Il daino scaccia la pecora come la
pecora aveva scacciato l'uomo... Grandi distretti, che figuravano nella
statistica della Scozia come praterie di una fertilità ed estensione
eccezionali, sono ora rigorosamente privi d'ogni sorta di cultura e di
miglioramento, e consacrati ai piaceri di un pugno di cacciatori, che non ci
vanno che qualche mese dell'anno". Verso la fine del maggio 1866, un
giornale scozzese diceva: "Una delle migliori fattorie di pecore del
Sutherlandshire, per la quale allo spirare del fitto corrente si offriva una
rendita di
«La creazione
di un proletariato senza fuoco e senza tetto andava necessariamente più
sollecita che il suo assorbimento nelle manifatture nascenti. D'altra parte,
questi uomini, bruscamente strappati alle loro condizioni di vita ordinaria,
non potevano così presto abituarsi alla disciplina del nuovo ordine
sociale. Ne uscì quindi una massa di mendicanti, di ladri, di vagabondi.
Ond'è che, verso la fine del XV secolo e durante tutto il XVI,
nell'ovest di Europa, una legislazione sanguinaria fu fatta contro il
vagabondaggio. I padri dell'attuale classe operaia furono castigati per essere
stati ridotti allo stato di vagabondi e di poveri. La legislazione li
trattò come delinquenti volontari; essa suppose che dipendesse dal loro
libero arbitrio il continuare a lavorare come per il passato, quasi che non
fosse avvenuto alcun cambiamento nella loro condizione.»
In Inghilterra,
questa legislazione cominciò sotto il regno di Enrico VII.
«Enrico VIII,
1530. I mendicanti, attempati e incapaci di lavoro, ottengono licenze per dimandare
la carità. I vagabondi robusti sono condannati a essere frustati e
imprigionati. Legati dietro a una carretta, essi debbono subire la
fustigazione, finché il sangue non grondi dal loro corpo; poi essi devono
impegnarsi con giuramento di ritornare, sia al luogo della loro nascita, sia al
luogo che essi hanno abitato negli ultimi tre anni, e a rimettersi al lavoro.
Crudele ironia! Questo stesso statuto fu anche trovato troppo dolce, nel
ventisettesimo anno del regno di Enrico VIII. Il Parlamento aggravò le
pene con clausole addizionali. In caso di prima recidiva, il vagabondo
dev'essere frustato di nuovo e avere la metà dell'orecchio mozzata; alla
seconda recidiva egli dev'essere trattato da ribelle e ammazzato come nemico
dello Stato.»
«Nella sua Utopia,
il cancelliere Tommaso Moro dipinge vivamente la situazione dei disgraziati
colpiti da queste leggi. "Succede" egli dice "che un ghiottone
avido e insaziabile, un vero flagello del suo paese natale, si può
impossessare di migliaia di iugeri di terra, circondandoli di piuoli o di
siepi, ovvero tormentando i loro proprietari con tali ingiustizie da obbligarli
a vender tutto. In un modo o nell'altro, per amore o per forza, essi devono
sloggiare tutti, povera gente, cuori semplici, uomini, donne, sposi, orfanelli,
vedove, madri con i loro poppanti e con tutto il loro avere, poveri di risorse,
ma ricchi di numero, perché l'agricoltura ha bisogno di molte braccia. Essi
devono rivolgere i loro passi lontani dal loro antico focolare, senza trovare
un luogo di riposo. In altre circostanze la vendita dei loro mobili e dei loro
utensili domestici avrebbe potuto aiutarli, per quanto poco questi valessero;
ma, gettati subitamente nel vuoto, essi sono forzati a cederli per una
bagatella. E quando essi hanno errato qua e là e mangiato sin l'ultimo
quattrino, che possono fare altro che rubare? E allora, mio Dio, o essere
impiccati con tutte le forme legali, o andare mendicando! E in questo ultimo
caso li gettano in prigione come vagabondi, perché essi menano una vita errante
e non lavorano, perché nessuno al mondo vuol dar loro lavoro, per quanto essi
siano premurosi di offrirsi per ogni sorta di servizio." Di questi
disgraziati fuggitivi, dei quali Tommaso Moro, loro contemporaneo, dice che li
forzavano a vagabondare e a rubare "72 000 ne furono fatti morire sotto il
regno di Enrico VIII", secondo che narra Holingshed nella sua Descrizione
dell'Inghilterra.»
«Eduardo VI.
Uno statuto del primo anno del suo regno, 1547, ordina che ogni individuo refrattario
del lavoro sia dato per ischiavo alla persona che l'avrà denunziato come
vagabondo. (Così per avere a suo profitto il lavoro di un povero
diavolo, non si aveva che a denunziarlo come refrattario del lavoro.) Il
padrone deve nutrire questo schiavo con pane e acqua, e dargli di tanto in
tanto qualche leggera bevanda e gli avanzi di carne, che egli giudicherà
conveniente. Egli ha il diritto di costringerlo ai servizi i più
disgustosi con il mezzo della frusta e della catena. Se lo schiavo si ostina
per una quindicina di giorni, è condannato alla schiavitù
perpetua e sarà marcato, a ferro rovente, con la lettera 'S' sulla
guancia e sulla fronte; se egli è fuggito per la terza volta,
sarà ucciso come ribelle. Il padrone lo può vendere, legarlo per
testamento, fittarlo ad altri a guisa di ogni altro mobile o bestiame. Se gli
schiavi macchinano qualche cosa contro i padroni, devono essere puniti con la
morte. I giudici di pace, ricevutone avviso, sono obbligati a seguire le tracce
di questi cattivi arnesi. Quando è preso qualcuno di questi straccioni,
lo si deve marcare, con ferro rovente, con la lettera 'V' sul petto, e
ricondurlo al luogo della sua nascita, dove, carico di ferri, egli dovrà
lavorare sulle pubbliche piazze. Se il vagabondo ha indicato un falso luogo di
nascita, egli deve diventare, per punizione, lo schiavo a vita di questo luogo,
dei suoi abitanti e della sua corporazione; lo si marcherà di una 'S'.
Il primo venuto ha il diritto d'impossessarsi dei figli dei vagabondi, e di
ritenerli come fattorini, i ragazzi fino a 24 anni, le fanciulle fino a 20. Se
prendono la fuga, essi diventano, sino a questa età, gli schiavi dei
padroni, che hanno diritto di metterli ai ferri, di far loro subire la frusta,
eccetera, a volontà. Ogni padrone può mettere un anello di ferro
al collo, alle braccia o alle gambe del suo schiavo, onde meglio riconoscerlo
ed essere più sicuro di lui. L'ultima parte di questo statuto prevede il
caso, nel quale certi poveri sarebbero occupati dalle persone o dalle
località, che volessero dar loro a mangiare e bere, e metterli al
lavoro. Questo genere di schiavi della parrocchia si è conservato, in
Inghilterra, sino alla metà del XIX secolo. Un campione dei capitalisti
osserva: "Sotto il regno di Eduardo VI, gl'inglesi sembra avessero a cuore
l'incoraggiamento delle manifatture e l'occupazione dei poveri, come lo prova
uno statuto rimarchevole, nel quale è detto che tutti i vagabondi devono
essere marcati con il ferro rovente".»
«Elisabetta,
1572. I mendicanti, senza permesso, e d'età oltre i 40 anni, devono
essere severamente frustati e marcati con il ferro rovente all'orecchia
sinistra, se nessuno li vuole prendere al servizio durante due anni. In
caso di recidiva, quelli che hanno più di 18 anni devono essere uccisi,
se nessuno li vuole impiegare durante due anni. Ma, presi una terza volta, essi
devono essere messi a morte senza misericordia come ribelli. Più tardi i
vagabondi s'impiccavano in massa, disposti in lunghe file. Ogni anno vi erano
300 o 400 impiccati in un posto o nell'altro, dice Strype nei suoi Annali;
secondo lui, il solo Somersetshire contò, in un anno, 40 morti, 35
marcati con il ferro rovente, e 37 frustati. Intanto, aggiunge questo
filantropo, "questo gran numero d'accusati non comprende che il quinto dei
delitti commessi, grazie alla negligenza dei giudici di pace e alla stupida
compassione del popolo..." Nelle altre contee dell'Inghilterra, la situazione
non era migliore, e, in alcune, anche peggiore.»
«Giacomo I.
Tutti gli individui che corrono il paese e vanno mendicando sono dichiarati vagabondi.
I giudici di pace (tutti, beninteso, proprietari di terre, manifatturieri,
ministri del culto, eccetera, investiti della giurisdizione criminale) nelle
loro sessioni ordinarie sono autorizzati a farli frustare pubblicamente e a
infliggere loro 6 mesi di prigione, alla prima recidiva, e 2 anni alla seconda.
Durante tutta la prigionia, possono essere frustati tanto spesso e tanto forte
quanto i giudici di pace stimeranno a proposito... Gli scorrazzatori restii e
pericolosi devono essere marcati con una 'R' sulla spalla sinistra, e, se
sorpresi a mendicare, uccisi senza misericordia, e privati dell'assistenza del
prete. Questi statuti non furono aboliti che nel 1714.»[34]
Ed ecco in
mezzo a quali orrori, in mezzo a quanto sangue si è compiuta
l'espropriazione delle popolazioni agricole, e la formazione di quella classe
operaia, destinata a servire di pasto alla grande industria moderna. Altro che
idillio! E stato il ferro e il fuoco la sola origine dell'accumulazione
primitiva; è stato il ferro e il fuoco che ha preparato al capitale
l'ambiente necessario per svilupparsi, la massa di forze umane destinate a
nutrirlo; e se oggi non è più il ferro e il fuoco il mezzo
ordinario della sempre crescente accumulazione, è perché v'ha un altro
mezzo, in sua vece, molto più inesorabile e terribile, una delle moderne
gloriose conquiste della borghesia, un mezzo che forma parte necessaria
del congegno stesso della produzione capitalista, un mezzo che agisce da
sè solo, senza fare tanto strepito, senza produrre scandalo, un mezzo
infine perfettamente civile: la fame. E per chi si ribella alla fame,
sempre e poi sempre ferro e fuoco.
Le moderne
proporzioni di questo compendio non ci permettono di narrare eziandio i fasti
del capitale nelle colonie. Rimandiamo i nostri lettori alle storie delle
scoperte, incominciando da quella di Cristoforo Colombo, e di tutte le
colonizzazioni, limitandoci solamente a citare a tale riguardo le parole di «un
uomo rinomato solo per il suo fervore cristiano, W Howitt, che così si esprime:
"Le barbarie e le atrocità esecrabili perpetrate dalle razze
sedicenti cristiane, in tutte le regioni del mondo e contro tutti i popoli che
essi hanno potuto soggiogare, non trovano niente di simile in nessuna altra
epoca della storia universale, presso nessuna razza per quanto selvaggia, per
quanto rozza, per quanto spietata, per quanto svergognata ella si fosse".»[35]
«Se, come dice
Augier, "il denaro è venuto al mondo con macchie naturali di sangue
sovra una delle sue faccie", il capitale vi è venuto sudando il
sangue e il fango da tutti i suoi pori.»[36]
E questa
è pura storia, o borghesi, una trista storia di sangue, che meriterebbe
di essere ben letta e meditata da voi, che sapete nella vostra virtù
concepire un santo orrore per la libidine di sangue[37] dei rivoluzionari
moderni; da voi, che dichiarate non poter permettere ai lavoratori che il solo
uso dei mezzi morali.[38]
Il male è radicale. E già
da un pezzo che lo sanno i lavoratori del mondo civile; non tutti certamente,
ma un gran numero, e questi preparano già i mezzi atti a distruggerlo.
Essi hanno
considerato: I che la sorgente prima di ogni oppressione e sfruttamento umano
è la proprietà individuale; II che l'emancipazione dei lavoratori
(emancipazione umana) non può essere fondata sopra una nuova dominazione
di classe, ma sulla fine di tutti i privilegi e monopoli di classe e
sull'eguaglianza dei diritti e doveri; III che la causa del lavoro, causa
dell'umanità, non ha frontiere; IV che l'emancipazione dei lavoratori
deve essere l'opera dei lavoratori stessi. E allora una voce possente ha
gridato: Lavoratori del mondo, uniamoci. Non più diritti senza
doveri, non più doveri senza diritti. Rivoluzione.
Ma la
rivoluzione invocata dai lavoratori non è la rivoluzione di pretesto,
non è il mezzo pratico di un momento per raggiungere un dato scopo.
Anche la borghesia, come tanti altri, invocò un giorno la rivoluzione;
ma solamente per soppiantare la nobiltà, e sostituire al sistema feudale
del servaggio quello più raffinato e crudele del salariato. E questo lo
chiamano progresso e civiltà! Tutti i giorni assistiamo infatti al
ridicolo spettacolo di borghesi, che vanno balbettando la parola rivoluzione,
al solo scopo di poter salire sull'albero della cuccagna, e agguantare il
potere. La rivoluzione dei lavoratori è la rivoluzione per la
rivoluzione.
La parola
'Rivoluzione', presa nel suo più largo e vero senso, significa giro,
trasformazione, cambiamento. Come tale, la rivoluzione è l'anima di
tutta la materia infinita. Infatti, tutto si trasforma in natura, ma niente si
crea e niente si distrugge, come la chimica ci dimostra. La materia, rimanendo
sempre la stessa in quantità, può cambiare di forma in modo
infinito. Quando la materia perde la sua antica forma e ne acquista una nuova,
essa fa un passaggio dall'antica vita, nella quale muore, alla nuova vita,
nella quale nasce. Quando il nostro filatore, per prendere un esempio a noi
famigliare, ha trasformato i 10 chili di bambagia in 10 chili di filo, che
altro è avvenuto se non la morte di 10 chili di materia sotto la forma
di bambagia, e la loro nascita sotto la forma di fili? E quando il tessitore
trasformerà i fili in tela, che altro avverrà se non un passaggio
della materia dalla vita di filo alla vita di tela, come già prima era
passata dalla vita di bambagia alla vita di filo? La materia, dunque, passando
da un giro di vita a un altro, vive sempre cambiandosi, trasformandosi,
rivoluzionandosi.
Ora, se la
rivoluzione è la legge della natura, che è il tutto, deve anche
essere necessariamente la legge dell'umanità, che è la parte. Ma
v'ha sulla Terra un pugno d'uomini che non la pensa così, o, piuttosto,
che chiude gli occhi per non vedere e le orecchie per non sentire.
Sì,
è vero, sento gridarmi da un borghese, la legge naturale, la rivoluzione
che voi reclamate, è l'assoluta regolatrice delle relazioni umane. La
colpa di tutte le oppressioni, di tutti gli sfruttamenti, di tutte le lagrime e
degli eccidi che ne derivano, devesi appunto attribuire a questa inesorabile
legge che c'impone la rivoluzione, cioè, la trasformazione continua, la
lotta per l'esistenza, l'assorbimento dei più deboli fatti più
forti, il sacrificio dei tipi meno perfetti allo sviluppo dei tipi più
perfetti. Se centinaia di lavoratori sono immolati al benessere di un solo
borghese, ciò avviene senza la menoma colpa di questo, che ne è
anzi afflitto e desolato, ma per solo decreto della legge naturale, della
rivoluzione.
Se si parla in
tal guisa, niente di meglio domandano i lavoratori, i quali, in forza della
stessa legge naturale, che vuole la trasformazione, la lotta per l'esistenza,
la rivoluzione, si preparano appunto a essere i più forti, per
sacrificare tutte le piante mostruose e parassite al completo e rigoglioso
sviluppo della bellissima pianta uomo, completo e perfetto, quale dev'essere,
in tutta la pienezza del suo carattere umano.
Ma i borghesi
sono troppo timorati e pii per poter fare appello alla legge naturale della rivoluzione.
Essi l'hanno potuta invocare in un momento d'ebbrezza; ma, ritornati poscia in
loro stessi, fatti i conti, e trovato che i fatti loro erano belli e
accomodati, si sono dati a gridare a più non posso: 'Ordine, religione, famiglia,
proprietà, conservazione!' E così che, dopo essere giunti, con la
strage, l'incendio e la rapina, a conquistare il posto di dominatori e
sfruttatori del genere umano, credono poter fermare il corso della rivoluzione;
senza accorgersi, nella loro stoltezza, che altro non fanno, con i loro sforzi,
che preparare orribili guai all'umanità, e a loro stessi per
conseguenza, con gli scoppi improvvisi della forza rivoluzionaria pazzamente da
essi repressa.
La rivoluzione,
abbattuti gli ostacoli materiali che le si oppongono, e lasciata libera al suo
corso, basterà da sé sola a creare fra gli uomini il più perfetto
equilibrio, l'ordine, la pace e la felicità più completa, perché
gli uomini, nel loro libero sviluppo, non procederanno a guisa degli animali bruti
ma a guisa di esseri umani, eminentemente ragionevoli e civili, i quali
comprendono che nessun uomo può essere veramente libero e felice se non
nella libertà e felicità comune di tutta l'umanità. Non
più diritti senza doveri, non più doveri senza diritti. Non
più dunque lotta per l'esistenza fra uomo e uomo, ma lotta per
l'esistenza di tutti gli uomini con la natura, per appropriarsi della
più gran somma di forze naturali per il vantaggio di tutta
l'umanità.
Conosciuto il
male, è facile conoscerne il rimedio: la rivoluzione per la rivoluzione.
Ma come faranno
i lavoratori per ristabilire il corso della rivoluzione?
Non è
questo il luogo di un programma rivoluzionario, già da lunga mano
elaborato e pubblicato altrove in altri libri; noi ci limiteremo a concludere,
rispondendo con le parole raccolte sul labbro di un lavoratore e poste in
epigrafe a questo volume: L'operaio ha fatto tutto; e l'operaio può
distruggere tutto, perché può tutto rifare.
FINE
CORRISPONDENZA
CAFIERO - MARX
Cafiero a Marx
Les Molières, 27 luglio 1879
Stimatissimo
Signore,
Le spedisco con
il medesimo corriere due copie della sua opera Il Capitale, da me brevemente
compendiata. Avrei voluto rimettergliele prima, ma ora solamente mi è
riuscito di ottenere alcune copie dalla benevolenza di un amico, che con il suo
intervento è riuscito a determinare la pubblicazione del libro.
Anzi, se la
pubblicazione l'avessi potuta fare a mie spese, avrei desiderato sottomettere
prima il manoscritto al suo esame. Ma nel timore di vedermi sfuggire una
occasione favorevole, mi affrettai a consentire alla pubblicazione propostami.
Ed è solamente ora che mi è dato rivolgermi a lei per pregarla di
volermi dire se nel mio studio mi è riuscito di comprendere ed esprimere
l'esatto concetto dell'autore.
La prego,
signore, di voler gradire le espressioni del mio più vivo rispetto e di
credermi
suo dev.mo
Carlo Cafiero
Marx a Cafiero
Caro Cittadino
Ringraziamenti
sincerissimi per i due esemplari del vostro lavoro! Tempo fa ricevetti due
lavori simili, l'uno scritto in serbo, l'altro in inglese (pubblicato negli
Stati Uniti), ma peccano l'uno e l'altro, volendo dare un riassunto succinto e
popolare del Capitale e attaccandosi, nel contempo, troppo pedantemente
alla forma scientifica della trattazione. In tal modo, essi mi sembrano
mancare più o meno al loro scopo principale: quello di impressionare il
pubblico al quale i riassunti sono destinati.
Ed è qui
la grande superiorità del vostro lavoro.
Quanto poi al
concetto delle cose, io credo di non ingannarmi attribuendo alle considerazioni
esposte nella vostra prefazione una lacuna apparente, e cioè la prova
che le condizioni materiali necessarie alla emancipazione del
proletariato sono spontaneamente generate dallo sviluppo dello sfruttamento
capitalista. Del resto, io sono del vostro avviso (se ho bene interpretato la
vostra prefazione) che non bisogna sovraccaricare lo spirito di coloro che si
vuole educare. Niente vi impedirà di ritornare, a tempo opportuno, alla
carica per fare risaltare ancor meglio codesta base materialista del Capitale.
Rinnovando i
miei ringraziamenti, sono
vostro dev.mo
Carlo Marx
[1] Marx, pag 75. Saranno indicati sempre con le virgolette i brani tradotti testualmente dall'opera di Marx, che è propriamente la seguente: Le Capital par Karl Marx, traduction de M. J. Roy, entièrement revisée par l'auteur. Paris, editeurs, Maurice Lachatre et C. 38, Boulevard Sebastopol.
[2] Marx, pagg. 100-101. I brani riportati testualmente sono talora la riunione di diversi brani del Capitale, che, trovati confacenti a questo compendio hanno potuto essere riuniti insieme, tal'altra sono soltanto frammenti di un lungo brano. Naturalmente in questo lavoro di riunione e separazione è stato spesso necessario aggiungere qualche particella al testo. È bene che di ciò sia avvertito il lettore.
[3] Marx, pag 141
[4] Marx, pag 147
[5] Marx, pag 147
[6] Marx, pag 146
[7] Marx, pag. 161.
[8] Marx, pag. 168.
[9] Marx, pag. 171.
[10] Marx, pag. 174-75.
[11] Marx, pag. 178.
[12] Federico Engels non va confuso con gli scrittori borghesi nominati in questo compendio. Egli batte l'istessa via di Marx, come dalle sue parole stesse si può comprendere.
[13] Marx, pag. 181-184.
[14] Marx, pag. 185
[15] Marx, pag. 189-90
[16] Leggi che limitano, in Inghilterra, la giornata di lavoro a un dato numero di ore.
[17] Marx, pagg. 240-242
[18] Marx, pag. 242
[19] Marx, pagg. 259-260.
[20] Marx, pag. 279.
[21] Marx, pag. 284.
[22] Marx, pagg. 284-286.
[23] Marx, pagg. 289-290.
[24] Marx, pag. 293.
[25] Marx, pagg. 295-296.
[26] Marx, pag. 299.
[27] Marx, pag. 302.
[28] Marx, pagg. 306-307.
[29] Marx, pag. 314.
[30] Marx, pagg. 316-317.
[31] Marx, pag. 318.
[32] Marx, pagg. 319-321.
[33] Marx, pagg. 322-323.
[34] Marx, pagg. 325-326.
[35] Marx, pag. 336.
[36] Marx, pag. 340.
[37] Atto d'accusa contro gli Internazionalisti della Banda insurrezionale di San Lupo, Letino e Gallo, nell'aprile 1877.
[38] Amenità di un magistrato durante il processo sovramenzionato.